SULLA STAMPA DI GIOVEDI 25/26 MAGGIO:
Internazionale 42 26.5.17
Le opinioni
Israele è colpevole Washington è complice
di Gideon Levy
Grazie
America, per tutto il bene che ci hai fatto. Grazie per i soldi, le
armi e il sostegno. Grazie anche per i danni, il marciume e le bugie. Un
altro presidente statunitense è arrivato in Israele il 22 maggio. È
diverso dai suoi predecessori, ma su una questione non lo sarà: Donald
Trump continuerà a farci tutti questi regali.
Gli Stati Uniti
saranno ancora il principale partner in una delle attività più
ignobili che esistano al mondo: l’occupazione israeliana. Anche stavolta
Trump darà denaro, armi e difenderà Israele. Grazie in anticipo,
signor presidente.
Dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti se siamo
arrivati a questo punto, se stiamo festeggiando i primi, e probabilmente
non ultimi, cinquant’anni d’occupazione. Israele è colpevole, masono
gli Stati Uniti ad aver reso possibile questa situazione. Non si tratta
solo dei soldi, delle armi e del sostegno. C’è qualcos’altro, qualcosa
d’imperdonabile e che fa passare in secondo piano tutto il resto.
La
scorsa settimana sul sito del quotidiano britannico The Guardian è
uscito un saggio dell’intellettuale statunitense Nathan Thrall, dal
titolo “Israel-Palestine: the real reason there’s no peace”
(Israele–Palestina: il vero motivo per cui non c’è pace). L’articolo è
un estratto del nuovo libro di Thrall, The only language they
understand: forcing compromise in Israel and Palestine (L’unica lingua
che capiscono: spingere al compromesso Israele e Palestina). L’autore
punta il dito contro la radice di tutti i problemi che rendono
impossibile un accordo: a Israele la pace non conviene, perché il
prezzo che dovrebbe pagare è più alto del costo dell’occupazione. E
questo è colpa anche di Washington. Gli Stati Uniti e il loro socio,
l’Europa, permettono che lo stato ebraico porti avanti la costruzione
degli insediamenti pagando un prezzo basso.
Washington non ha
alzato un dito per rendere questo stato di cose insopportabile per
Israele. E quindi non ci sarà nessun accordo di pace. L’unico modo di
raggiungerlo è che Israele paghi di più. Inoltre il luogo comune
secondo il quale il tempo gioca a sfavore dello stato ebraico si è
rivelato falso, sostiene Thrall. Se le attuali minacce dovessero
concretizzarsi, Israele potrà sempre interrompere l’occupazione. Ma
fino a quel punto non ha motivo di accelerare le cose.
Gli Stati
Uniti spesso hanno tentato l’approccio morbido, ma senza successo. Solo
in un caso un presidente statunitense ha esercitato una reale pressione,
e i risultati sono stati immediati. Nel 1956 Dwight Eisenhower
minacciò delle sanzioni economiche nei confronti d’Israele se
l’esercito non si fosse ritirato dal Sinai, cosa che successe pochi
giorni dopo.
Dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti se siamo
arrivati a questo punto, se stiamo festeggiando i primi, e probabilmente
non ultimi, cinquant’anni di occupazione
L’ultima volta che gli
Stati Uniti forzarono la mano fu nel 1991, quando il segretario di stato
James Baker spinse il primo ministro Yitzhak Shamir ad accettare le
condizioni della conferenza di pace di Madrid, trattenendo dieci
miliardi di dollari di garanzie sui prestiti. Da allora, anche se è
difficile crederlo, sono passati più di venticinque anni e Washington
non ha più fatto altri tentativi.
Al contrario, gli Stati Uniti
stanno facendo tutto il possibile perché l’occupazione risulti sempre
più confortevole per Israele. Hanno finanziato e addestrato le forze di
sicurezza dell’Autorità palestinese, che in realtà seguono gli ordini
delle autorità israeliane. Hanno anche difeso lo stato ebraico al
Consiglio di sicurezza dell’Onu. Hanno bloccato la discussione sul
disarmo nucleare nella regione e hanno permesso a Israele di mantenere
la sua superiorità militare. Allo stesso tempo, hanno condannato gli
insediamenti solo a parole, con “un’opposizione di facciata”, come la
definisce Thrall. Una facciata che è diventata un bastione in difesa
delle colonie. Presentandosi come “punitive”, le ricorrenti condanne
hanno perso vigore e hanno sostituito una pressione reale. Naturalmente
la colonizzazione va avanti. Anche la distinzione artificiosa tra
Israele e gli insediamenti, portata avanti dagli Stati Uniti, ha
liberato Israele dalle sue responsabilità. Oggi si può essere
tranquillamente uno statunitense (o un europeo) progressista e sostenere
lo stato ebraico. Gli insediamenti e il governo israeliano ne sono ben
felici e continuano per la loro strada.
Washington, sembra
incredibile, non ha mai posto condizioni per il suo sostegno inanziario.
“Ascoltare [gli statunitensi] che discutono di come mettere fine
all’occupazione è come sentire il guidatore di una ruspa che chiede
come demolire un palazzo con un martello”, scrive Thrall. “L’ex ministro
della difesa israeliano, Moshe Dayan, una volta disse: ‘I nostri amici
statunitensi ci offrono denaro, armi e consigli. Noi accettiamo il
denaro, accettiamo le armi e rifiutiamo i consigli’ ”. Niente è
cambiato e, a quanto pare, niente cambierà. Grazie, America
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L’Unità ritorna. I giornalisti: la guerra non è finita
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