venerdì 6 settembre 2013

l’Unità 6.9.13
Cuperlo: no a partiti personali «Senza sinistra non c’è il Pd»
Il candidato: dico no al leaderismo. «Il congresso non è già concluso»
Il candidato alla segreteria applaudito alla Festa di Genova con Cofferati: «Non ci serve un uomo solo al comando»
«Sì a un partito aperto e inclusivo che si rimetta in sintonia con gli elettori»
di Simone Collini


Cuperlo alla Festa di Genova rilancia la sua sfida: senza la sinistra non c’è il Pd. Il candidato alla segreteria dice no a «leaderismo» e «plebiscitarismo»: voglio un partito aperto. «Renzi? Il congresso non è già concluso».

«Se ti vengono a salutare prima dell’inizio del dibattito è buona educazione. Se vengono dopo a stringerti la mano, a dirti qualcosa, forse allora hai lasciato una traccia». Gianni Cuperlo sorride mentre spiega che non è la prima volta che va così: prima che cominciasse il faccia a faccia con Sergio Cofferati, alla Festa di Genova, lo avevano avvicinato in pochi, mentre dopo un’ora di dibattito in molti decidono di andare sotto il palco del Porto Antico per parlargli o per un semplice saluto. «E mi fa piacere che sia così», aggiunge subito il candidato alla segreteria del Pd, consapevole che adesso la prima cosa da fare è accorciare il divario di notorietà che c’è tra lui e Matteo Renzi e far arrivare a quante più persone possibile il suo messaggio, le sue idee su quella che è la posta in gioco con il congresso d’autunno.
«Dobbiamo parlare dell’idea che abbiamo dell’Italia dei prossimi anni, capire che siamo sull’orlo di una crisi che investe l’economia ma anche la democrazia. In questi vent’anni c’è stata una privatizzazione della democrazia, perché questo sono i partiti personali, il modello leaderistico e plebiscitario. E c’è ora anche un bivio di fronte al quale bisogna scegliere, quello tra la giustizia del mercato e la giustizia sociale: il mercato fissa un prezzo per ogni cosa, ma è la politica che può portare a una società giusta, perseguendo valori e principi che non sono retaggio del passato ma risorse per il futuro».
È sul modello di partito e sulla strada da prendere a quel bivio che si giocherà la sfida con Renzi, perché per Cuperlo il Pd non deve diventare un partito con «un uomo solo al comando», magari usato come «trampolino» per arrivare ad altri incarichi e abbandonato a se stesso, né deve snaturarsi finendo per considerare ciò che rappresenta la sinistra una semplice com-
ponente tra le altre o addirittura qualcosa da lasciarsi alle spalle: «Senza la sinistra, i suoi principi, i suoi valori, il Pd semplicemente non c’è». La sfida è allora anzitutto «culturale» e Cuperlo utilizzerà la decina di settimane che manca al congresso per dimostrare che «non è vero che il congresso sia già finito prima ancora di cominciare», come viene detto nel fronte pro-Renzi e scritto da qualche giornale. «Sono molto fiducioso, non mi sento destinato a una minoranza e ho il difetto di concentrarmi sulla scena, più che sui retroscena».
VENDOLA: «MI HA CONQUISTATO»
L’accoglienza che gli viene riservata alla Festa di Genova lo incoraggia: sala piena e tanti applausi, anche se va avanti con ragionamenti e zero frasi ad effetto o slogan (Nichi Vendola, anche lui a Genova, dice di essere «assolutamente conquistato dalla finezza della sua analisi»). Il contrario di Renzi, insomma, col quale Cuperlo non vuole polemizzare. E a chi gli domanda se consideri di sinistra il sindaco risponde con un «certo è un esponente del Pd», aggiungendo poi tutto il ragionamento sulla necessità di «recuperare l’autonomia culturale della sinistra» per indicare una via d’uscita al Paese: «Mi auguro che questo possa essere un congresso di libertà in cui tutti, dagli ex segretari fino all’ultimo degli iscritti, possano confrontarsi sul merito e poi decidere in piena autonomia. Questo congresso è una grande occasione per rimettere il partito in sintonia con i sentimenti e le passioni di una larga parte del Paese. Io non penso a un Pd più piccolo o più ortodosso o più di sinistra, ma a un Pd più aperto, più inclusivo in cui la nostra gente sia coinvolta nelle decisioni perché non basta chiamarla soltanto ogni quattro anni ai gazebo, un partito capace di rimotivare molte persone».
Sarà importante per Cuperlo, nelle prossime settimane, parlare a quante più persone possibile, far fare breccia a livello mediatico ai suoi ragionamenti, allargare il fronte dei suoi sostenitori e dimostrare che la sua non è la candidatura di un mondo che guarda al passato. Dopo l’appoggio incassato dai bersaniani, che va ad aggiungersi a quello di dalemiani e cosiddetti giovani turchi, ora sarà importante l’avvicinarsi di personalità provenienti dal mondo cattolico, perché come dimostrano i casi di Rosy Bindi e di Franco Marini non è vero che tutti gli ex-Popolari stanno con Renzi.
La questione dell’allargamento c’è, e presto verranno organizzate delle iniziative proprio in quest’ottica, anche se Cuperlo dice che non è questo il punto. «Dobbiamo uscire dall’idea che la divisione al congresso sia tra vecchi e nuovi o tra cattolici e sinistra. La crisi ci impone di dire chi siamo. Il congresso non serve a decidere chi è più fotogenico ma a indicare quali sono le nostre parole». Quelle più citate da lui sono dignità, uguaglianza e libertà.

La Stampa 6.9.13
Cuperlo in scena all’ora di cena e senza dirigenti
In trecento in sala alla festa del Pd
di Teodoro Chiarelli


Non si può certo dire che gli abbiano riservato un trattamento di riguardo al povero Gianni Cuperlo. Mettere un dibattito alla festa dell’Unità (o democratica che dir si voglia) alle 20 in concomitanza con l’assalto del popolo piddino al ristorante Mare e Monti (pesce e funghi) e allo stand delle mitiche focaccette di Crevari (fichi e salame la più gettonata) è operazione degna dei tanti Bertoldo e Bertoldino saliti con slancio e rapidità sul carro di Matteo Renzi. Il quale non ha certo bisogno di questi mezzucci per conquistare il Pd. Memore, per altro, che solo l’anno scorso, sembra ieri, lui si erano addirittura «dimenticati» di invitarlo alla Festa nazionale.
Lui, Cuperlo, candidato alla segreteria del Pd e probabile vittima sacrificale sull’altare della marea montante renziana, non si scompone più di tanto. Ringrazia i trecento temerari (nessun dirigente di «rango», neppure genovese, presente: magari qualcuno ben nascosto c’era) presenti sotto il tendone della Festa nazionale del partito a Genova, saluta Sergio Cofferati («Per me resta il leader della Cgil che ha portato in piazza 3 milioni di persone a Roma») con lui sul palco, ringrazia pungente per il «format» che a differenza degli altri dibattiti non prevede un giornalista.
Non si sente battuto in partenza nella competizione con il rottamatore, è fiducioso, non pensa che il congresso sia concluso prima di cominciare, non si sente destinato a una minoranza. Certo, Renzi è di sinistra, concede, «ma il “mio” Pd di più». Poi passa alla contesa per la segreteria. «Più che alle regole, a come si devono organizzare i gazebo, vorrei che al centro del congresso ci sia il tema di come uscire dalla crisi». Lui ne è convinto: «Dalla più grande crisi degli ultimi decenni usciremo con più democrazia e più diritti. La sinistra non può che ripartire da qui: ci deve guidare la centralità e la dignità delle persone. La nostra parte politica deve aggredire la rivoluzione della dignità di ogni essere umano».
A mettere un po’ di pepe ci pensa Cofferati, con un esplicito riferimento a Dario Franceschini e al suo schierarsi con Renzi. «Ho rispetto di chi cambia idea, ma deve dire perché ha sbagliato prima e le ragioni per cui ha cambiato convinzione, altrimenti è lo svilimento politico».
Non sarà una folla oceanica, ma i trecento a stomaco vuoto in platea sembrano gradire le argomentazioni pacate e le analisi di Cuperlo. Niente boati di acclamazione, ma gli applausi non mancano. Del resto anche Nichi Vendola confessa: «Quando leggo le carte di Cuperlo sono assolutamente conquistato dalla finezza dell’analisi e dal fascino del coraggio intellettuale». Anche se poi aggiunge: «Renzi é intelligente, sta ragionando sul proprio vocabolario e sul proprio programma. Dovesse vincere, che problema c’é? ».

La Stampa 6.9.13
Anche i lettiani tentati da Renzi “Ma solo se sostiene il governo”
di Carlo Bertini


Sarà pur vero che «alla base dell’accelerazione di Dario su Renzi c’è la volontà di avvertire il Pdl di stare attenti a rincorrere troppo le urne», come va predicando alla Camera il fedelissimo di Franceschini, Antonello Giacomelli. Fatto sta che a questa accelerazione certo non corrisponde un analogo rompete le righe del premier, che non intende strappare la tela costruita negli anni con Bersani e co.
E se nel Pd gira voce che Letta è preoccupato, ma non impaurito dalle minacce perché al Senato si sta già lavorando ad una maggioranza per un suo «bis», forse non è un caso che i suoi uomini siano prudenti sul congresso, che non deve diventare un’altra mina per la stabilità: «Certo non potremmo sostenere Cuperlo, da cui ci separa una distanza in termini di contenuti», ammettono. Ma la linea di Letta sarà quella di non schierarsi per provare a restare «un fattore di coesione del Pd» senza sposare «battaglie divisive e laceranti». Casomai, una delle condizioni per un eventuale sostegno della truppa lettiana al rottamatore sarà il suo grado di difesa del governo, segno che il premier ancora confida che andrà avanti. «Perché è chiaro che se Renzi impostasse la sua battaglia congressuale contro l’esecutivo, non potremmo appoggiarlo... », spiega Marco Meloni, che del pensiero di Letta è uno dei più fedeli interpreti.
Ragionamenti, svolti in privato nelle riunioni tra i lettiani, che non devono certo suonare come una novità alle orecchie del sindaco di Firenze. Il quale è consapevole che se si dovesse arrivare invece alle urne in fretta e furia potrebbe trovarsi Enrico come rivale alle primarie per la premiership. Ma non intende dare la sensazione di voler accelerare i tempi, anche per non dare alibi ai suoi detrattori per rinviare il congresso. E quindi quella battuta di Renzi, «il governo non cade e ora va bene così» può essere un ramoscello d’Ulivo al premier e un avviso ai naviganti.
Tanto più che di nuovo nel partito si litiga sulle modalità del congresso. Un assaggio si è avuto ieri in segreteria, riunita sui nodi del governo e del partito: quando il braccio destro di Renzi, Luca Lotti, ha fatto capire ad Epifani che non c’è nessun accordo, come qualcuno pensava, per far votare i nuovi segretari regionali in separata sede e in tempi diversi dalle primarie nazionali. Dietro i tecnicismi c’è un nodo tutto politico, il tentativo di non consegnare tutto il partito al rottamatore. «Perché se uno di noi si presenta in una tornata scollegata dai gazebo nazionali e nel suo territorio è popolare, magari potrà ancora contare sul sostegno di tutte le correnti, perfino dei renziani. Se invece si presenta collegato a Cuperlo lo voteranno solo gli amici e perderebbe», spiega uno dei segretari uscenti di area ex Ds.
Quindi a un Bersani che assicura che fosse per lui il congresso lo farebbe anche domani, fanno sponda i suoi uomini, che in tandem con gli altri ex diessini si preparano a incrociare le spade con i renziani: per arrivare ad un accordo utile entro il 20 settembre quando l’assemblea nazionale dovrà convocare le assise. E a un Bersani che ancora non si schiera fanno sponda i suoi giovani leoni Zoggia, Fassina e Stumpo, che puntano su Cuperlo. Mentre è significativo che un leone d’altri tempi come Antonio Bassolino, ex diessino, dica che «Renzi ha una marcia in più per far vincere il Pd».
Ma nel partito, dove i timori di una crisi crescono di ora in ora, si discetta sulle variabili, senza dare per scontato che vi sarà un fronte compatto a favore di un «bis» di Letta.
Se il governo cadesse per mano del Pdl, ci sarebbero infatti molti interessi coincidenti per andare al voto subito, primo dei quali che il congresso verrebbe di fatto rinviato. «Non c’è dubbio - ammette un ex Ds - che a noi converrebbe sostenere compatti Renzi alle urne a patto che lasci perdere il partito».

Corriere 6.9.13
Matteo Renzi senza rivali nel Pd
Il soccorso al vincitore
di Angelo Panebianco


Fa impressione osservare una slavina di queste proporzioni, vedere un partito quasi al completo, salvo un po' di irriducibili, precipitarsi sotto le ali di un politico che, solo pochi mesi prima, era stato trattato da tanti come un corpo estraneo, un «infiltrato» della destra. Matteo Renzi ha già vinto il prossimo congresso facendosi consacrare leader, con un bagno di folla, in una regione, l'Emilia Romagna, che mantiene un peso decisivo negli equilibri interni al Partito democratico e che, nelle primarie dello scorso anno, aveva (secondo copione) incoronato Bersani.
Ciò fa impressione ma non stupisce. È la reazione all'inatteso fallimento di Bersani, andato alle elezioni in nome della tradizione, della continuità. È normale che, dopo una grande delusione, un partito allo sbando si aggrappi a una nuova leadership, accetti il ricambio rifiutato in precedenza. Resta da vedere se il ricambio produrrà anche un effettivo rinnovamento identitario e delle politiche del partito. L'effetto slavina, o effetto bandwagoning (con quasi tutti che saltano sul carro del vincitore), è per Renzi un'arma a doppio taglio. Lo innalza irresistibilmente agli onori della leadership ma esercita su di lui anche una pressione tesa a fargli abbandonare, o a diluire, quelli che, nelle primarie dello scorso anno, erano risultati gli aspetti più innovativi della sua proposta.
Conosciamo il Renzi 1, il novello Davide che fece la campagna delle primarie contro il vecchio apparato e le sue logore parole d'ordine. Ma non conosciamo ancora il Renzi 2, il futuro leader del partito. Non sappiamo quali compromessi dovrà accettare.
E poiché non è chiaro quanto il Renzi 2 sarà diverso dal Renzi 1, non è nemmeno possibile immaginare quanto rinnovamento ci sarà davvero. Non sappiamo insomma se l'innovazione batterà il trasformismo (di quelli che si sono precipitati sul carro) o se il trasformismo neutralizzerà l'innovazione. Ha ragione Walter Veltroni quando mette in guardia Renzi: un eccesso di consensi nasconde insidie che potrebbero palesarsi presto.
Renzi ha un partito da ricostruire. Un partito che per lungo tempo ha tenuto a bada le proprie divisioni interne, e nascosto il proprio conservatorismo, usando il mastice dell'antiberlusconismo (uno spiacevole effetto collaterale è stato l'eccessivo spazio che il partito ha dato per anni ad orientamenti forcaioli in materia di giustizia). Un partito, inoltre, che a causa della sua debolezza, si è abituato ad essere largamente etero-diretto nelle sue politiche: dai giornali d'area, dalla Cgil, da settori della magistratura. Al punto che non è sempre stato chiaro quale ne fosse il «vero» gruppo dirigente.
È un partito siffatto che Renzi dovrà governare e rigenerare. Da qui il dilemma: se Renzi si allontanerà troppo dalle sue posizioni originarie incontrerà poche resistenze interne, almeno nella prima fase, ma la sua azione risulterà alla fine poco incisiva. Se, al contrario, sceglierà di restare fedele a se stesso, incontrerà resistenze molto più forti, fronteggerà conflitti acuti, ma avrà anche qualche chance in più di cambiare il partito.
In ogni caso, gli irriducibili, i nostalgici, si rassegnino. Nelle attuali condizioni della competizione democratica, un partito non può che essere la struttura di supporto di un leader. Forse Renzi non riuscirà a rinnovare in profondità il partito ma, per lo meno, distruggerà qualche mito, svecchierà almeno un po' una cultura politica da sempre troppo diffidente verso le leadership individuali.

il Fatto 6.9.13
Grandi temi addio. Distrazione di massa
Il Pd si è perso la pace
di Wanda Marra


Se c’è una cosa che a me spaventa adesso è l’assenza di profondità. Cioè delle questioni molto grandi si tende a discutere con battute Ho nostalgia di quella sinistra in cui si parlava di grandi temi”. Parola di Walter Veltroni, quello che voleva andare in Africa, dal palco della Festa nazionale Democratica di Genova. Ed ecco che spunta il “grande tema” per eccellenza. Ancora Veltroni: “Sono contrario all’intervento in Siria, ne vedo tutti i rischi, anche se non sarebbe da non prendere in considerazione l’argomento di chi dice che dobbiamo evitare che Assad vinca nel modo in cui sta vincendo”. Circonlocuzione involuta. Platea tiepida. Nessun applauso scrosciante sul no alla guerra. Nessun brusio di sospetto rispetto al possibile approdo del “ma anche” applicato alla Siria.
I venti di guerra a Genova sono quelli tra Bersani e Renzi. Il grande tema in agenda è come sopravvivere a Berlusconi. C’erano tempi in cui sulle guerre il popolo di sinistra si lacerava: fu così per il Kosovo, per esempio. C’erano tempi in cui in nome della pace le manifestazioni erano oceaniche: fu così quando Bush dichiarò guerra al-l’Iraq. C’erano tempi in cui i governi sugli interventi militari rischiavano la sfiducia: nel 2007, ministro degli Esteri D’Alema, l’esecutivo andò sotto sull’Afghanistan. Ora non c’è dibattito, non c’è dissenso. C’è solo indifferenza.
Per carità, il “momento” Siria esiste praticamente in ogni incontro, a Genova. Un passaggio obbligato, qualche formula di rito. Nessuno si scalda. Bersani l’altro giorno ha cominciato da questo la sua intervista con Michele Serra. I commenti nel pubblico erano del tipo “Ma perché la prende così? Quand’è che arriva al punto? ” (dove il punto era il giovane Matteo). Massimo D’Alema ha dato un’intervista all’Unità il giorno in cui Veltroni interveniva alla Festa. Non è sembrato uno sgambetto perché parlava “solo” di Siria. Peraltro, ha detto che “Obama sbaglia” perché “l’attacco è inutile e dannoso”. Sabato sera mentre Obama declinava: “Pronto a lanciare l’attacco, ma chiederò l’autorizzazione al Congresso Usa”, sul palco c’era Mario Mauro. Non uno qualunque, ma il ministro della Difesa. Incontro semi-deserto, disinteresse alle stelle. Il tenore dei (pochi) commenti piuttosto “basic”: “Ma sì, è venuto il momento di attaccare. Basta con i gas sui bambini”. Intanto l’unico leader universalmente riconosciuto, ovvero Francesco, ce la sta mettendo tutta per evitare la guerra: domani giornata di digiuno. Adesioni note nel Pd, quella del ministro Kyenge e di Chiti. Il segretario, Epifani? No, a fare il digiuno non ci ha pensato, dicono nel suo staff. E la grande speranza per il futuro, Renzi? Idem. Il digiuno non è in agenda.

l’Unità 6.9.13
Cinque stelle: cresce la rivolta contro le espulsioni
I dissidenti frenano sul dialogo con il Pd
Scilipoti si offende. E Casaleggio va al Forum Ambrosetti
di Andrea Carugati


Non si placa la polemica dentro il Movimento 5 Stelle. La gogna mediatica toccata stavolta a Luis Orellana, pochi mesi fa candidato grillino alla guida del Senato e ora indicato dal blog del Capo come il «nuovo Scilipoti», non viene digerita da molti parlamentari.
La collega del Senato Monica Casaletto ha lanciato un appello via Facebook per solidarizzare con il reprobo («Fatevi avanti per testimoniare la sua assoluta fede movimentista, la sua passione e la sua competenza») e coglie l’occasione per correggere Grillo che negli ultimi giorni ha parlato più volte di una «guerra». «Non siamo in guerra, noi la ripudiamo, siamo solo al lavoro per un mondo migliore. Ma è questo il mondo migliore che vogliamo costruire? La legge del manganello, della purga, del linciaggio, dell’impiccagione di chi esprime il suo pensiero, giusto o sbagliato che sia?». «Non credo», insiste Casaletto, «noi siamo attivisti, non siamo ronde di giustizieri assetate di vendetta». All’appello si associa Alessandra Bencini, mentre Adele Gambaro, espulsa a giugno dopo la scomunica di Grillo, commenta amara: «La storia si ripete. Provo rammarico per il reiterarsi di episodi di gogna mediatica rivolta a chi la pensa in modo diverso».
Orellana, ancora impegnato in una missione in Lituania, si gode l’ondata di solidarietà sulla Rete. «Sto superando l’amarezza, tanta, grazie agli innumerevoli incoraggiamenti che sto ricevendo e riuscirò, credo, a prendere una decisione con la dovuta calma». Nessuna uscita dal gruppo, dunque. Almeno per ora. Nella vicenda interviene anche Domenico Scilipoti, quello vero, per contestare l’«uso improprio» del suo nome. «Sono stanco di leggere sulle agenzie e sui giornali il mio nome utilizzato come sinonimo di trasformista», si lamenta l’ex Idv con Berlusconi nel 2010. E Grillo ironizza su Twitter: «Scilipoti mi ha diffidato...».
Il braccio di ferro sulla sorte di Orellana è ancora in corso. Maurizio Romani, uno dei senatori più vicini al reprobo, si lascia andare all’ottimismo: «Non creo che si arriverà a un procedimento di espulsione». Il capogruppo Nicola
Morra però continua a fare la faccia feroce: «Attendo una comunicazione da Luis. Se non si vogliono più mantenere gli impegni le strade si dissociano».
Come finirà la partita? Si capirà nei prossimi giorni. Le vicende grilline, infatti, sono legate a doppio filo con la sorte del governo Letta. Se non ci sarà una crisi, è assai improbabile che i dissidenti decidano di uscire dal gruppo. E di fronte alle voci che parlano di una decina di senatori pronti a sostenere un nuovo governo, il senatore Romani replica: «Nessuno si è sbilanciato in questa direzione. In questo momento sul tavolo non c’è nulla, non c’è una crisi di governo e non c’è una proposta alternativa. Dunque per ora stiamo parlando di niente». Cautela dunque è la parola d’ordine anche tra i dissidenti. Il primo obiettivo ora è salvare Orellana, di un nuovo governo si parlerà a tempo debito. Senza inutili divisioni preventive.
La linea ufficiale del M5S del resto è quella di tornare al voto, ma solo con una nuova legge elettorale. Una ipotesi difficile da realizzare, ma comunque una linea che per ora può tenere uniti i gruppi. «Se cade il governo, Napolitano potrebbe dare il tempo alle forze politiche per una nuova legge elettorale equa e poi si va votare», spiega Luigi Di Maio. «Le commissioni sono già formate e il Porcellum si può cambiare in Parlamento. Per farlo non c’è bisogno di un Letta bis. Credo che gran parte della discussione tra noi sia nata su questo equivoco».
Difficile pensare che sia stato solo un equivoco. Perché le idee tra ortodossi e dissidenti non coincidono su molti punti. A partire dall’identità stessa del movimento. E tra i dissidenti spunta un interrogativo: «Forse Grillo vuole le urne subito proprio per ridimensionare la truppa parlamentare, e costruire un gruppo più piccolo solo con i duri e puri», ragiona un eletto a 5 stelle. «Così per lui sarebbe più facile gestire il movimento e forse potrebbe tornare a fare i suoi spettacoli». Un ragionamento definito «egoistico». «Farebbe forse il suo bene, non certo quello del M5S...».
Intanto il guru Gianroberto Casaleggio è atteso questo fine settimana al suo esordio al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, culla dell’establishment economico e politico. Un cenacolo duramente contestato fino all’anno scorso da Claudio Messora, capo della comunicazione al Senato e fedelissimo del guru, che ha paragonato sul suo blog il Workshop a una «riunioncina carbonara senza alcuna trasparenza». E in rete non manca chi glielo fa notare. Scrive il deputato Tommaso Currò: «Attendo un post in cui aggiorni le tue considerazioni sul tema...».

il Fatto 6.9.13
Tutti i conti italiani svuotati dalla banca della Santa Sede
Lo Ior e quei 500 milioni emigrati in Germania
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


L’analisi della Finanza ricostruisce i passaggi di denaro di 3 anni e 9 mesi. Depositi presso diversi nostri istituti letteralmente prosciugati, movimenti in entrata di 3,3 miliardi e uscite molto superiori. La fuga di capitali iniziata all’indomani dell’inchiesta della Procura di Roma

Eccola la fotografia di una delle più grandi fughe di capitali mai realizzate: quella dello IOR ricostruita nero su bianco dal Nucleo di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza guidato dal generale Giuseppe Bottillo.
Poco meno di mezzo miliardo di euro è sparito dalle banche con sede nel nostro paese in tre anni e nove mesi, dal 2009 al settembre del 2012, dai conti correnti dello IOR, l’Istituto per le opere di Religione. La Guardia di Finanza ha ricostruito il dare e l’avere dei conti intestati alla banca del Vaticano in Italia scoprendo che sui dieci conti IOR accesi in nove istituti (due dei quali sono filiali italiane di banche estere, JP Morgan e Deutsche Bank) in tre anni e 9 mesi sono entrati 3 miliardi e 377 milioni di euro ma ne sono usciti molti di più.
E HANNO PRESO la strada della Germania. L’informativa è stata consegnata il 7 giugno scorso ai pubblici ministeri Nello Rossi, Stefano Pesci e Stefano Fava. La Procura di Roma che indagava già sulla violazione delle disposizioni antiriciclaggio previste dall’articolo 55 comma 2 e 3 del decreto 131 del 2007 da parte dell’allora direttore generale dello IOR Paolo Cipriani e dell’allora vicedirettore Massimo Tulli, ha iscritto a loro carico un secondo e separato procedimento. Poche settimane dopo la consegna del-l’informativa, a seguito del rinnovamento introdotto da Papa Francesco, i due dirigenti indagati hanno lasciato l’istituto. Nell’informativa i finanzieri segnalano numerose operazioni ai pm e scrivono: “è bene rappresentare come lo IOR, nel corso degli anni dal 2010 al 2012, abbia progressivamente concentrato all’estero la propria operatività, trasferendo presso la Deutsche Bank AG - Germania le somme depositate presso le banche italiane. La circostanza coincide temporalmente con le considerazioni della Banca d'Italia del 18 gennaio 2010 circa ‘la posizione dell’istituto vaticano modificata ai fini antiriciclaggio”. Appena lo Stato italiano ha cominciato a fare sul serio il Vaticano ha spostato in Germania i soldi.
Nel periodo registrato, per esempio, il conto IOR acceso alla filiale della Banca del Fucino ha registrato entrate per 275 milioni ma uscite per 378 milioni; quello della ex Banca di Roma di via della Conciliazione, ora Unicredit, è stato uno dei più attivi. Si registrano 930 milioni di entrate in tre anni ma anche uscite per 948 milioni. Fino a quando il 30 settembre 2011, il conto si è azzerato ed è stato chiuso per sempre; alla BPM invece lo IOR ha adottato una tecnica di svuotamento ancora più brutale: solo 10 milioni di entrate e ben 133 milioni di uscite; il conto alla Bnl ha registrato solo uscite per 10 milioni. Diverso il discorso per le filiali delle due banche straniere ma operanti in Italia con società localizzate nel nostro paese. Lo IOR a un certo punto ha pensato di evitare le nostre occhiute autorità (Bankitalia e Procura) spostando l’operatività presso l’unica filiale della banca Jp Morgan a Milano. Così nell’istituto americano si sono registrate entrate per un miliardo e 361 milioni di euro. Ma per non lasciare un solo euro sotto la vigilanza della Banca d’Italia ogni sera il conto era riportato a zero. Fino a quando (dopo le ripetute richieste di informazioni della banca americana allo IOR sui reali intestatari dei fondi, tutte senza risposta adeguata da parte del Vaticano) il conto è stato svuotato e chiuso il 30 marzo 2012. Dopo l’indagine, la Deutsche Bank filiale italiana ha continuato ad operare (dopo il primo giugno del 2010) solo per l’incasso dei pos dei bancomat installati dentro la Città del Vaticano. Gli incassi poi erano “sistematicamente prelevati”, scrive la Guardia di Finanza, “dallo IOR attraverso operazioni di giroconto verso la Banca del Fucino e Deutsche Bank AG - Germania. Successivamente - proseguono le Fiamme gialle - la Banca d’Italia ha deciso di sospendere il servizio fornito dalla Deutsche Bank nonché di respingere la richiesta di ‘sanatoria’ mancando la necessaria autorizzazione. Il provvedimento ha comportato l’interruzione dei rapporti dello IOR con Deutsche Bank Spa dove giacciono anche in questo caso somme inutilizzate” per l’esattezza 97 milioni di euro al 31 agosto 2012.
I DUE CONTI IOR presso Banca Intesa hanno registrato 529 milioni di euro di entrate e 423 milioni di uscite; I due conti del Credito Artigiano hanno registrato 96 milioni di euro di entrate e 69 milioni di uscite;
Le uniche banche ad avere registrato più entrate che uscite sono quindi Banca Intesa che oggi ha un saldo finale di 30 milioni e la Banca Desio che ha registrato 8 milioni di entrate in più delle uscite.
Alla fine di questa sarabanda miliardaria, dove sono i ‘pochi’ soldi del Vaticano in Italia? Alla data di settembre 2012, oltre ai 30 milioni di Bankintesa, ci sono 97 milioni depositati presso Deutsche Bank e altri 29 milioni al Credito Artigiano, 10 milioni al Banco Desio e 2 milioni alla Banca del Fucino. In tutto sono circa 169 milioni di euro disponibili. Spiccioli al confronto di quelli nascosti nella cassaforte del Vaticano, in Svizzera e soprattutto in Germania, terra di Benedetto XVI e dei suoi consiglieri più fidati in materia.

Corriere 6.9.13
Dagli incarichi politici agli affari I favori chiesti a Gotti Tedeschi
Le aspirazioni di Mantovano E Flick voleva vedere il Papa
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Ci sono politici, industriali, manager di primo livello dei gruppi bancari nella «rete» tessuta dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi. Tutti pronti a chiedere il suo appoggio e quello delle alte gerarchie vaticane quando si trattava di discutere le nuove leggi, ottenere incarichi, concludere affari. Sono le migliaia di documenti email custodite nel suo archivio sequestrato lo scorso anno per ordine dei magistrati napoletani a rivelare la sua influenza, ma anche i retroscena dello scontro interno all'Istituto per le opere religiose sulla volontà di adeguarsi alle norme internazionali antiriciclaggio. E soprattutto a ricostruire nel dettaglio alcune trattative riservate che si sono concluse nel periodo che va dal 2009 al 2012, quando Gotti fu poi costretto a lasciare l'incarico al vertice dello Ior.
«Alemanno e Berlusconi»
È il 5 giugno 2001. Angelino Alfano è appena diventato segretario del Pdl e questo gli impone di lasciare il ministero della Giustizia. Alfredo Mantovano è sottosegretario all'Interno, ma ha altre aspirazioni. E così si rivolge all'amico Ettore che evidentemente si fa portavoce di una raccomandazione con una persona che però non viene mai citata esplicitamente. Mantovano scrive: «Caro Ettore, la persona che dovrai incontrare mi conosce bene. Peserà il tuo interessamento, più che i contenuti che avrai la cortesia di adoperare nei miei confronti. Comunque le parole chiave sono: affidabilità sperimentata sempre e senza eccezioni; ritrosia rispetto agli scontri frontali governo/magistratura; condivisione piena della riforma costituzionale; conoscenza della macchina burocratica; (se può essere utile) vi è simpatia da parte degli ambienti cattolici. Per completezza Alemanno ha già proposto il nome a Berlusconi e alla stessa persona che tu incontri, ricevendo un'accoglienza interlocutoria. So che anche altri autonomamente si stanno spendendo. Ti ringrazio per tutto. Un passaggio, anche per poco, nella serie A per me potrebbe rendere più efficace il lavoro politico, al di là del pur importante settore della giustizia (che avrebbe bisogno di una reale pacificazione e di una spinta all'efficacia). Un abbraccio in Jesu ed Maria». Quando Gotti Tedeschi finirà poi sotto inchiesta, sarà proprio lo stesso Mantovano a presentare un'interrogazione parlamentare contro i magistrati di Napoli.
Santander e Finmeccanica
Il legame tra Gotti e l'allora presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi è stato svelato dalle intercettazioni disposte dai pubblici ministeri napoletani. E si trattava evidentemente di un rapporto noto, tanto che il direttore generale del gruppo Santander si rivolge proprio a Gotti — che del gruppo bancario spagnolo è il responsabile in Italia — quando i vertici della holding hanno affidato a «Mediobanca un mandato per la valorizzazione degli asset Ansaldo Sts e Ansaldo Breda». Scrive Paolo Gagliano: «Ettore, i nostri colleghi di Madrid sarebbero interessati a capire la situazione per provare ad assistere e finanziare potenziali buyers. A questo scopo ci farebbe molto comodo capire i piani del nuovo ad di Finmeccanica in generale e in particolare in relazione alle attività del settore trasporti». Anche Franco Bernabè — di fronte a problemi sorti per Telecom in Brasile — si rivolge a Gotti per chiedere aiuto.
Le tasse del Vaticano
Uno scambio di email tra Gotti e il direttore generale dello Ior Paolo Cipriani svela l'accordo siglato affinché i dipendenti dello Stato Vaticano non paghino le tasse in Italia senza per questo incorrere in alcuna violazione di legge. Scrive Cipriani: «Fin tanto che i capitali sono mantenuti oltreconfine non vanno dichiarati, con l'esclusione degli interessi eventualmente percepiti da investimenti. In conclusione direi che quando i dipendenti vaticani dovessero utilizzare i propri averi e dichiarare il denaro trasferito, basterà dire che i denari non sono stati investiti ma accumulati nel corso del tempo. Non ho reso pubblica questa affermazione perché so che i commercialisti in Italia, spesso per loro tornaconto, non concordano con questa tesi».
Flick e il Papa
Una email trasmessa da Gotti a monsignor Georg evidenzia le preoccupazioni del professor Giovanni Maria Flick per la situazione finanziaria del San Raffaele e sollecita un incontro. Dichiara adesso lo stesso Flick: «Nei mesi in cui ho fatto parte del Cda nominato dalla Santa Sede, ho ovviamente discusso spesso e a lungo con gli altri consiglieri. In tre o quattro occasioni ne ho doverosamente riferito al Segretario di Stato, manifestandogli non poche perplessità, che ha sempre ascoltato con grande attenzione, anche prendendone nota scritta. In una delle conversazioni con il professor Gotti Tedeschi si ipotizzò di chiedere un'udienza al Santo Padre. Quando mi fu riferito che l'udienza era stata chiesta al Segretario particolare mi resi conto che forse c'era stato un equivoco, e declinai l'ipotesi con una battuta: "Io parlo col Santo Padre o con il suo Segretario di Stato, non con il Segretario del Santo Padre". Senza voler mancare di rispetto a Monsignor Ganswein, intendevo dire che era mia intenzione sì, segnalare problemi — come ho fatto — ma in modo trasparente e non alimentando le "chiacchiere" sulle persone e alle loro spalle».

Repubblica 5.9.13
Ici alla Chiesa, biotestamento e Rai la trattativa segreta tra Pdl e Vaticano
L’archivio di Gotti Tedeschi: da Alfano aTremonti, così si concordavano le leggi
di Carlo Bonini


ROMA — Migliaia di mail. Centinaia di note riservate. Annotava e catalogava tutto con metodo e pazienza l’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi. E la corrispondenza del suo immenso archivio — che gli interlocutori fossero cardinali, ministri della Repubblica, banchieri, parlamentari, lo stesso Pontefice — non aveva a che fare con il governo delle anime, ma con il Potere degli uomini. Con la solerzia “papista” di deputati che pure hanno giurato sulla Costituzione. Con le urgenze della diplomazia tra le due sponde del Tevere di cui Gotti era diventato snodo cruciale. L’Ici, piuttosto che il disegno di legge sul testamento biologico, la nomina del direttore generale della Rai, il governo tecnico di Monti, le linee di credito del san Raffaele. Ebbene, il segreto che ha protetto quell’archivio, sequestrato nel 2012 dalla Procura di Napoli e trasmesso alla Procura di Roma (dove Gotti è stato a lungo indagato per violazione delle norme antiriciclaggio prima che ne venisse chiesta nel luglio scorso l’archiviazione), ora non è più tale. E queste sono alcune delle storie che quel segretoha protetto.
IL TESTAMENTO BIOLOGICO
Domenica 6 febbraio 2011, Alfredo Mantovano, già viceministro del Pdl, scrive al Presidente dello Ior: «Caro Ettore, perdonami, ma sulla questione del testamento biologico vi è necessità che dalla Cei vi sia qualche segnale». Mantovano ha intenzione di coinvolgere direttamente il Presidente della Conferenza Episcopale, il cardinale Angelo Bagnasco, sottoponendogli una lunga nota che consenta allamaggioranza, sulla base delle indicazioni della Santa Sede, di intervenire su alcune delle norme cruciali del disegno di legge sul “testamento biologico”. Nonché di risolvereun problema interno alle due anime del Pdl. Per questo motivo, chiede a Gotti di aiutarlo. «Ettore, perdonami se ti tormento. Ho abbozzato la nota per il cardinal Bagnasco. Ti chiedo una valutazione non tanto sulle considerazioni tecniche, di cui sono abbastanza sicuro, e che sono molto simili a quelle che a suo tempo lasciai al cardinal Bertone e da lui poi ritenute fondate, quanto sulla lettera che le precede. Un caro saluto in Domino».
La lettera e la nota per Bagnasco (un articolato normativo del disegno di legge con indicate in grassetto le norme da correggere) vengono inviate da Mantovano con il placet dell’allora Presidente dello Ior. Si legge nella missiva: «Eminenza reverendissima, il testo sul testamento biologico approvato dalla Commissione Affari sociali della Camera ha subito incisivi cambiamenti in pejus. Nell’appunto che segue accenno alle ragioni per le quali tali cambiamenti sono a mio avviso fortemente negativi e rischiano di trasformare una debole legge a tutela del fine vita in una legge sostanzialmente eutanasica». Ma c’è di più. «Ho provato a porre le obiezioni che seguono al capogruppo del mio partito alla Camera. Mi è stato detto però che quelle modifiche sono state concordate con soggetto autorevole delegato dalla Conferenza Episcopale e che, poiché le ragioni per le quali si sta provando ad approvare la legge è di venire incontro alle esigenze del mondo cattolico italiano, è strano che io critichi le modifiche stesse, quasi a voler essere pretestuosamente “più papista del Papa”. Sono convinto che ci si trovi di fronte a un equivoco che è necessario risolvere ».
COSÌ RISOLVIAMO L’ICI
Seria quanto e più del testamento biologico, appare dalla corrispondenza dell’archivio Gotti la questione del pagamento dell’Ici da parte degli Enti ecclesiastici. Ma, anche in questo caso, come documenta una nota riservata trasmessa nell’ottobre 2011 dall’allora Presidente dello Ior sia a Papa Benedetto per il tramite di monsignor Georg Ganswein, sia all’allora Segretario di Stato Tarcisio Bertone, un aiuto importante arriva dall’allora ministro del Tesoro Tremonti. Gotti lo indica quale “suggeritore” delle alternative che si pongono alla Santa Sede. «Nel 2010 — scrive Gotti — la Commissione Europea ha avviato una procedura contro l’Italia per aiuti di Stato non accettabili alla Chiesa Cattolica. Detta procedura evidenzia oggi un rischio di condanna per l’Italia e una conseguente imposizione di recupero delle imposte non pagate (dal Vaticano,ndr) dal 2005. Dette imposte deve pagarle lo Stato Italiano che si rivarrà sulla Cei (si suppone). Ci sono tre strade percorribili: 1) Abolire le agevolazioni Ici (Tremonti non lo farà mai); 2) Difendere la normativa passata e calcolare l’aiuto di Stato dato (non è sostenibile); 3) Modificare la vecchia norma contestata dalla Commissione Europea, con una nuova norma che definisca una categoria per gli edifici religiosi e crei un criterio di classificazione della natura commerciale. La Cei accetta la nuova procedura e questo fa decadere le richieste pregresse (2005-2011) della Comunità Europea. Il tempo è limitato. Ci viene suggerito di accelerare un tavolo di discussione.L’interlocutore all’interno del Ministero delle Finanze è Enrico Martino (nipote del card. Martino)».
ALFANO, PASSERA, LEI
Gli interlocutori di Gotti sono regolarmente figure di vertice e di Potere. Come le questioni che con loro affronta. In una mail del 16 dicembre 2011 il Presidente dello Ior rassegna ad Angelino Alfano le tre raccomandazioni che devono accompagnare la riflessione sull’appoggio del Pdl al governo Monti: «1. Cosa deve preoccuparci. 2 Come mettere sotto osservazione in modo politico e logico l’azione del governo tecnico. 3) Anticipare al governo tecnico quale modello è stato loro conferito». Qualche mese prima, il 24 settembre, sollecita invece Corrado Passera di Banca Intesa per la questione del dissesto del san Raffaele, cui la banca ha sospeso gli affidamenti. «Tu sai quanto ci teniamo al rilancio del san Raffaele — lo rassicura il banchiere — Siamo più che disponibili a supportare un piano serio come quello che sicuramente ci presenterete». Mentre l’11 marzo di quello stesso anno, una mail all’allora Segretario di Stato Bertone invita il cardinale ad occuparsi della nomina di Lorenza Lei a direttore generale della Rai. «Mi risulta che la nomina possa trovare ostacoli. Per due ragioni. 1) La dottoressa Lei avrebbe sussurrato di aver ricevuto assicurazioni che il cardinal Bertone ha ricevuto assicurazioni da Berlusconi sulla sua nomina e questo avrebbe provocato una certa opposizione interna ed esterna. 2) Risulta che la Lega voglia contare e avere un proprio direttore generale. Mi parrebbe dunque che per sostenere detta candidatura sia indispensabile interloquire con la Lega. Sono a sua disposizione».

Repubblica 6.9.13
“Troppi investimenti sbagliati” lo scontro tra Ior e Bertone sulle finanze del Vaticano
E Gotti Tedeschi raccomandò Grilli per Bankitalia
di Carlo Bonini


ROMA — L’archivio dell’ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, documenta quali feroci partite, tra il 2010 e i primi mesi del 2012, si siano giocate sulle due sponde del Tevere. Nella Curia e nei Palazzi della Politica. Gotti, che, almeno in una fase, pensa di poterne essere il playmaker, ne rimane stritolato. L’allora Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, finisce per convincersi che di quell’uomo non può fidarsi, perché “disobbediente”. Che le questioni riguardino il prezzo che lo Ior deve pagare per entrare nella “white list” dei Paesi rispettosi delle norme antiriciclaggio, come la gestione e l’acquisto (cui Gotti si oppone) del San Raffaele, o la conversione in azioni delle obbligazioni che la Banca Vaticana ha acquistato da Banca Carige. Ma Gotti sconta anche l’errore di scommettere sui cavalli sbagliati del Pdl. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti e il suo candidato alla guida di Bankitalia Vittorio Grilli, che con enfasi raccomanda ad Alfano per il dopo Draghi.
CARIGE E IL SAN RAFFAELE
Non c’è alcun criterio di efficienza costi-benefici nelle operazioni che Bertone raccomanda all’attenzione di Gotti Tedeschi. E il banchiere non manca di sottolinearlo, sia pure con garbo, nelle sue note all’allora Segretario di Stato o all’uomo che, per lui, fa da tramite, Marco Simeon. È il caso, a metà del 2011, della rinuncia a convertire in azioni le obbligazioni che lo Ior ha in pancia di Carige, banca che sta molto a cuore a Bertone. «Abbiamo cercato più volte di ottenere le informazioni dalla Banca — scrive Gotti al cardinale — Il non aver mai ottenuto risposte alle richieste è stato oggetto di preoccupazione ». Quindi l’affondo. «Ci siamo responsabilmente preoccupati del nostro investimento, pur sempre tenendo presente criteri di legame affettivo nei confronti dell’Istituto bancario e del territorio in cui opera. Ma la nostra responsabile preoccupazione non poteva prescindere dalle considerazioni sull’andamento dell’economia italiana».
Ben più franca e brutale la mail con cui, il 5 dicembre 2011, Gotti fotografa lo stato del San Raffaele con Giovanni Maria Flick, allora membro del cda della fondazione. «Caro Giovanni — si legge — Profiti (uomo di Bertone, ndr) ha inviato due settimane fa al personale del San Raffaele una lettera che spiega il nuovo organigramma amministrativo. Una ventina di sanitari sono saltati sulla sedia leggendo due nomi che avranno posizioni chiave in futuro: Longo e tal Santoro. Questi signori sono considerati “banditi” storicamente legatia Cal. Il personale medico sisente mortificato».
GOVERNATORATO FUORI CONTROLLO
Gotti è diretto anche quando — è l’ottobre 2011 — invia una lunga nota riservata a Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato della Città del Vaticano. «Una diagnosi riservata fatta nei primissimi mesi del 2010 sull’organizzazione del Governatorato — scrive il banchiere all’alto prelato — ha consentito di individuare carenze che hanno creatoinefficienza nel conseguimento delle economie negli acquisti e rischi di conflitti di interesse. Le valutazioni a campione effettuate per comprendere il margine di inefficienza hanno evidenziato scostamenti tra i prezzi pagati dal Governatorato verso i prezzi di mercato tra il 50 e il 150% in più. Un intervento di riorganizzazione lascerebbe pertanto immaginare economie consistenti e opportune. Non conosco i risultati dell’intervento organizzativo di monsignor Viganò».
“GRILLI A VIA NAZIONALE”
Non aiuta Gotti la scommessa sulla cordata tremontiana del Pdl. E sull’uomo, Vittorio Grilli (direttore generale del Tesoro e ministro con Monti), che il Presidente dello Ior raccomanda a governatore della Banca d’Italia, dove pure non arriverà. Il 3 ottobre del 2011, il banchiere scrive un’accorata mail ad Alfredo Mantovano (che del resto a Gotti tutto chiede, anche una raccomandazione per se stesso che ne rafforzi il ruolo nel partito), perché solleciti con Angelino Alfano (“A. A.”) la candidatura di Grilli. «Cari amici, visto che a giorni si deve decidere, vorrei ricordare i punti chiave da ricordare ad A. A., con cui la decisione dovrebbe essere presa con rigore, consapevolezza e per il solo bene del Paese». Ebbene, Gotti ha un solo nome: «Se la scelta della guida della Banca Centrale da parte dell’attuale direttore generale del Tesoro (Grilli,ndr) venisse sacrificata sostanzialmente per penalizzare il ministro del Tesoro (suo sponsor), produrremmo un indebolimento delle capacità reattive del Paese, in questo momento elevatissime. Perché il direttore generale del Tesoro ha una competenza unica riconosciuta ovunque; ha prestigio internazionale; ha autonomia di giudizio; ha consapevolezza dei problemi italiani; realizzerebbe finalmente l’auspicata sinergia tra Tesoro e Banca centrale per fare politica creditizia insieme».

il Fatto 6.9.13
Pedofilia nel clero: arcivescovo indagato in Centramerica rimpatriato e salvato
Inchiesta interna, ma così evita la giustizia di santo Domingo
di Ferruccio Sansa e Carlo Tecce


Rimosso, sì. Ma riportato a Roma e di fatto sottratto alle autorità giudiziarie straniere. La storia dell’arcivescovo polacco Josef Wesolowski, che rappresentava la Chiesa nella Repubblica domenicana, ma anche a Porto Rico e Haiti, rischia di suscitare nuove polemiche sull’atteggiamento con cui il Vaticano affronta gli scandali sessuali. Da una parte la mano forte, dall'altra una sorta di protezione. Una vicenda lunga, complessa. L’ultimo capitolo arriva quando le telecamere di una televisione domenicana riprendono il prelato a passeggio in un quartiere dove si esercita la prostituzione maschile e allora, oltre un appunto inviato in Segreteria di Stato e i racconti insistenti su un’esistenza non esattamente casta e sobria (a volte eccederebbe con gli alcolici), Wesolowski è stato richiamato d’urgenza a Roma. E papa Francesco gli ha tolto, subito, i gradi di nunzio apostolico per poi ordinare un processo canonico e un’inchiesta per abusi sessuali e danni ai minori.
LA SANTA SEDE ha confermato la punizione papale decretata mercoledì sera, anche se - spiega il sito Vatican Insider che ha diffuso la notizia in Italia – il prelato si trovava a Roma già da qualche giorno. In parallelo, con estrema cautela, la magistratura domenicana ha avviato un’indagine per accertare le accuse rivolte al polacco che, la rete contro la pedofilia di Francesco Zanardi, quantifica in decine di episodi. La conseguenza di quest’intervento papale, però, evita il giudizio della magistratura domenicana all’ex nunzio perché fra i due Stati non ci sono accordi o trattati internazionali e ormai la magistratura vaticana s’è messa al lavoro: in caso fosse giudicato colpevole ai Caraibi, non verrebbe mai estradato per scontare la pena in carcere.
Tra Repubblica domenicana, Porto Rico e Haiti, lo scandalo ha raggiunto proporzioni enormi e la Chiesa, ancora una volta, ha avuto un crollo di popolarità e credibilità. Ma c'è un retroscena che va illustrato per evidenziare la lentezza burocratica che impedisce al Pontefice, non per sua volontà, di sanzionare questi comportamenti deprecabili. Già tre mesi fa, a luglio, l’arcivescovo di Santo Domingo (nonché cardinale), Nicolas de Jesùs Lòpez Rodrìguez, aveva spedito in Curia una raccolta di documenti, molto dettagliati, che secondo indiscrezioni avrebbero messo nei guai il polacco.
LA SEGRETERIA di Stato, esaminate le carte, si è rivolta direttamente a Bergoglio (che visitando Santa Maria Maggiore fece “espellere” il cardinale Law). La risposta vaticana non è stata immediata e neppure la rimozione è stata diffusa oltre il colonnato di San Pietro. Fin quando le immagini televisive non hanno dato una scossa alla procedura e si è saputo della punizione di Francesco. Il “licenziamento” dai Caraibi era stato anticipato ai vescovi il 21 agosto con una breve lettera ufficiale; s’annunciava il trasferimento, ma non le motivazioni. Per qualche settimana, i monsignori locali hanno creduto che il problema fosse il pessimo rapporto fra Wesolowski e l’arcivescovo di San Juan di Porto Rico, Roberto Gonzàles Nieves. Si ignorava che il polacco sarebbe stato accusato di pedofilia. Una piaga che papa Francesco, sin dai primi discorsi pubblici, ha promesso di curare, sanare e magari rimuovere definitivamente. Le associazioni contro i sacerdoti pedofili, come quella di Zanardi, che da anni smaschera chi si nasconde con la tonaca, chiedono che la giustizia (terrena) sia compiuta e le eventuali condanne siano applicate. Ma c’è il timore che un rapida convocazione in Vaticano serva a coprire ed evitare le conseguenze giudiziarie. Ora il prossimo compito spetta a Francesco.

Repubblica 6.9.13
La sentenza
“Dell’Utri garante tra Berlusconi e i boss”
Le motivazioni della condanna a sette anni: il Cavaliere pagò la mafia fino al ’92
Il doppio filo Palermo - Arcore
di Attilio Bolzoni


L’HA fatto per sé ma l’ha fatto soprattutto per venire incontro agli «interessi» del suo padrone. Un patto lungo quasi vent’anni, in nome della Cupola e in nome di Silvio Berlusconi.
E in mezzo lui, il grande mediatore, Marcello Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia, l’amico siciliano del Cavaliere.
Quello che sapevamo da molto tempo sui protagonisti di questa vicenda italiana — da una parte i boss di Cosa Nostra e dall’altra un imprenditore milanese che per tre volte è stato presidente del Consiglio — acquisisce ora un altro timbro di ufficialità. Ed è un marchio che non si potrà mai più cancellare. Naturalmente dobbiamo aspettare la Cassazione che deciderà sulla legittimità della sentenza di appello, ma i fatti — tutti i fatti — sono stati definitivamente accertati. E raccontano un’irresistibile scalata dalle borgate palermitane fino alla villa di Arcore.
Prima salirono i Bontate, con la loro corte di trafficanti. Poi arrivarono i fedelissimi di Totò Riina. E a trattare con tutti loro, pianificando ogni particolare, con continuità dal 1974 al 1992, è stato sempre Dell’Utri, il braccio destro di Berlusconi che «ha agito in sinergia» con i più potenti e spietati capi dell’organizzazione criminale, dai quali «non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali gli avevano dato una possibilità di farlo». Era legato a loro a doppio filo. Per servirli e servirsene. E per garantire anche «le esigenze» del Cavaliere. Proteggere lui e proteggere il suo impero. Quale alleato più affidabile di Cosa Nostra?
Non c’è stato nulla di episodico dentro questa trama, è stato tutto preparato, tutto deciso già una trentina di anni fa quando uno sconosciuto costruttore si era seduto intorno a un tavolo con i rappresentati dell’aristocrazia mafiosa. Eccola la genesi, secondo i magistrati di Palermo, del rapporto fra Cosa Nostra e il Cavaliere.
Il «mediatore contrattuale» è sempre stato don Marcello, condannato a 7 anni per quell’infinita intermediazione. La storia del processo sulle «relazioni pericolose» del Cavaliere, aperto una dozzina di anni fa dal procuratore Ingroia, finisce qua. Restano ancora tutte le ombre sulle origini siciliane della sua fortuna. I magistrati hanno inseguito indizi e non hanno mai trovato prove. E lui non li ha certo aiutati. Ascoltato, Berlusconi si è avvalso della facoltà di non rispondere. Tutto resterà avvolto nel mistero a meno che qualcuno non parli. A suo modo, Dell’Utri qualche messaggio l’ha già lanciato.

Repubblica 5.9.13
“Dammi i soldi”, e uccide la psichiatra a coltellate
Bari, dramma al Servizio di igiene mentale. Il killer è un tossicodipendente. Medici in rivolta
di Mara Chiarelli e Giuliano Foschini


BARI — «Mi scusi se l’ho fatta aspettare». Erano le 9,30 del mattino quando Paola Labriola, 53 anni, psichiatra in un centro di igiene mentale di Bari, accoglieva il suo secondo paziente della giornata. Sono serviti pochi secondi per capire che non era un malato come gli altri: era un tossico, lì non per una consulenza o per avere psicofarmaci ma alla ricerca di soldi per comprare una dose. La dottoressa è riuscita solo a balbettare un «si calmi », prima di finire con la testa sulla scrivania e 28 coltellate sulla schiena. Vincenzo Poliseno, 44 anni, disoccupato con piccoli precedenti penali, si è seduto lì di fronte, il coltello da cucina con una lama da 12 centimetri stretto ancora per le mai, ad aspettare gli agenti della Polizia che sono arrivati qualche minuto dopo: «Io non so che cosa ho fatto, non me ne sono reso conto» ha detto, mentre attorno i colleghi piangevano Paola morta sul lavoro, per il lavoro e secondo i colleghi per colpa del suo lavoro.
«Lo avevamo scritto che sarebbe successo ed è successo» dicono ora, arrabbiati più ancora che disperati. «È da un anno che trattiamo i pazienti che fino a oggi abitualmente venivano seguiti esclusivamente dal Sert, proprio come il killer di Paola. Lo facciamo però a mani nude, con il nostro mestiere che purtroppo però non sempre basta: servono vigilantes, qualcuno che ci tuteli, esattamente come accade al Sert. In questi mesi si sono verificati una serie di episodi, già nell’ottobre scorso abbiamo inviato una lettera di protesta al direttore generale della Asl: qui prima o poi succederà qualcosa, avevamo detto. Ed è successo». Quando accadono tragedie di questo genere il morto non è mai quello giusto. «Proprio lei, no» si dice. Questa volta la vittima sembradavvero quella sbagliata. Paola Labriola lavorava in un posto come questo da più di venti anni: conosceva segreti e demoni di tutto il quartiere e soprattutto possedeva le parole giuste per gestirli, alle volte scacciarli.
Erano gli stessi demoni dai quali ieri mattina invece è stata travolta. Poliseno non era un pasciereziente psichiatrico. Ma era già stato un paio di volte in quel centro, volontariamente. Ieri mattina è uscito di casa, non lontano dal luogo del delitto: alle sette è andato in un altro centro, ma era chiuso. Poi ha bussato in circoscrizione chiedendo soldi. Poliseno è uno sbandato ma non un lupo. Prendeva il caffè con l’u- della circoscrizione, lo conoscevano alle bancarelle del mercato e nei bar della zona. «Poi però c’erano le mattine che decideva di fare casino» racconta un poliziotto con cui aveva avuto più volte a che fare. «Ieri era uno di quelli».
È uscito con il coltello da cucina in tasca. E ha incontrato la Labriola. Le ha chiesto soldi e poi ha colpito. La psicologa non è riuscita a opporre nessuna resistenza, ha urlato, è entrata una collega, «vattene altrimenti uccido anche te» le ha detto quando Paola era già morta. La scena era da film dell’orrore. Non hanno fatto entrare nemmeno il marito, Vito Calabrese. È uno psicologo anche lui, hanno due figli, gemelli di dodici anni (c’è poi una terza figlia, di quasi 20 anni): la coppia è conosciutissima in città, amanti di mare e di musica, attivi nel sociale sempre convinti che il loro non era un semplice mestiere e nemmeno una missione. «Piuttosto un dovere» racconta una collega. «Il dovere di curare chi è ammalato senza emettere giudizi di diversità».
Ecco, gli ammalati, i matti, i “diversi”, sono rimasti per tutta la mattina fuori dal centro. Mentre il sindaco Michele Emiliano annunciava per oggi il lutto cittadino («è una martire della città»), i sindacati si infuriavano per il problema sicurezza denunciato e ignorato, l’assessore alla Sanità, Elena Gentile, anche lei medico, giurava in lacrime che mai nessuno le aveva parlato dell’emergenza e che ora, certo, le cose cambieranno. E mentre anche il ministro Lorenzin prometteva un interessamento con il ministro degli Interni, Alfano, il popolo di Paola, i suoi pazienti, in un angolo scrivevano pensierini: «Ora che sei vicino a Dio, chiedigli se ci può aiutarecome facevi tu».

Repubblica 5.9.13
L’angoscia di un collega della vittima. “Servono filtri agli ingressi”
“Anch’io sono stato aggredito qui entra chi vuole, abbiamo paura”
di M. Chia.


BARI — Non è un novellino, durante la sua attività professionale è stato aggredito parecchie volte. Anche lì, a Putignano, dove Paola Labriola aveva cominciato la sua opera tanti anni fa. Raffaele Martino, dirigente del servizio psichiatrico del piccolo centro a una trentina di chilometri da Bari, è sopravvissuto, tra l’altro, a un tentativo di accoltellamento e ad un violento spintone contro una vetrata. «Chi di noi non ha e non avrà paura quando andrà a lavorare?», si interroga.
Cosa fare per tutelare il vostro lavoro?
«Gli ambulatori per loro stessa essenza non possono essere strutturati ai fini di una nostra difesa. E questo incrementa il nostro rischio».
Un rischio concreto, a quanto pare.
«Chi entra ed esce fa come vuole, va dove vuole, e noi siamo intimoriti. Bisogna che si inventi qualcosa di meglio ».
A che pensa?
«L’accesso libero, in uffici come questi, non vuol dire che giri quanto vuoi, occorre un minimo di filtro, un appuntamento».
Cosa intende?
«Serve, secondo me, la presenza di una persona esperta, pratica, che faccia da filtro e chieda a chi arriva: di che hai bisogno? Di un certificato, di ricette? ».
Basterebbe?
«Sarebbe un inizio. Questo lavoro richiede tanta dedizione, ma anche tanta attenzione da parte delle strutture istituzionali, che invece non c’è. E lo stress è notevole».
Lei ci è passato.
«Più di una volta. Mi è sempre andata bene: sia quando il paziente che voleva accoltellarmi era più piccolo di me e sono riuscita a fermarlo, sia quella volta che sono stato spinto nella vetrata. Per fortuna lui era a mani nude».

Corriere 6.9.13
«Perché ho portato i nostri figli a vedere dov'è morta la mamma»
di Margherita De Bac


ROMA — Vito, perché ha portato i suoi due figli dodicenni sul luogo del delitto, dove la loro mamma era stata appena assassinata con 30 coltellate da uno squilibrato?
«Volevo essere più veloce di Internet. Sapevo che erano a casa con la donna delle pulizie perché anche io ero al lavoro e ho pensato con terrore che avrebbero potuto scoprire la verità su Facebook. Da soli. Senza nessuno accanto. Allora sono corso da loro. La mamma è morta, gli ho detto, è stata uccisa da un paziente. Poi li ho portati a vedere dove era successo».
E non ha temuto che restassero traumatizzati?
«In quei momenti è difficile ragionare. Ho preso quella decisione e non me ne pento. Credo che conoscere la verità per i bambini sia meglio che immaginarla e scoprirla col tempo, soprattutto in una fase delicata come l'anticamera dell'adolescenza. Avrebbero saputo tutto prima o poi, delle coltellate, della ferocia. Ho preferito che piangessero con me, che crollassero subito fra le mie braccia. E così è stato».
Parla velocemente Vito Calabrese, psicologo, marito di Paola Labriola, la psichiatra assassinata mentre visitava nel centro di igiene mentale del quartiere Libertà, a Bari. E si scusa, parlando della moglie ora al passato ora al presente: «Sa sono in stato confusionale. Paola è una donna speciale. Si ammala per il lavoro. Cerca sempre di capire cosa c'è dietro i comportamenti stupidi e folli delle persone. Li giustificava. E questo suo modo di fare era lenitivo per i malati, meglio di un farmaco».
Lei è stato coraggioso a dire la verità ai bambini con tanta crudezza. Sente di aver agito bene, non avrebbe dovuto proteggerli dal trauma?
«Sono un padre protettivo, ma dovevo fare così. Il centro dove la mamma prestava servizio lo avevano visto un paio di volte quando insieme eravamo passati a prenderla alla fine del turno. Siamo rimasti fuori, senza entrare. Erano impietriti. La sera del delitto siamo tornati a dormire a casa. Anche quello era necessario. Immagini la nottata che abbiamo passato. Però sarebbe stato ancora peggio passarla altrove anziché risvegliarci la mattina fra le cose di Paola, nel luogo dove tutto parla della loro mamma. Poi la mattina i vicini ci hanno portato i cornetti caldi. La nostra vita, straziata, continua. Viviamo in un borgo vicino alla città e sento intorno tanto calore».
È stato coraggio il suo?
«No è stata disperazione. L'unico coraggio che ho è di non aver paura delle mie emozioni e di come escono allo scoperto. Ecco, solo in questo sono forte. Non mi vergogno di mostrarmi disperato, di sentirmi solo».
I bambini le hanno fatto domande?
«Tante, in continuazione. E io ho risposto senza veli. Anche alle due figlie avute da me e Paola in precedenti matrimoni, ormai adulte, ho comunicato la notizia brutalmente».
Che cosa l'addolora di più?
«Che sia morta sul lavoro. Paola amava la sua professione. Si lamentava di quanto quel quartiere fosse violento e della maleducazione della gente che spesso è l'anticamera della violenza. Vito, quanta disperazione vedo, mi diceva...».

Repubblica 6.9.13
“Curare i ludopatici annulla l’incasso” il paradosso dello Stato biscazziere
Codacons: spese per 7miliardi. Confindustria: ma così fermiamo l’illegalità
di Vladimiro Polchi


ROMA — Slot machine, video-lottery, bingo, Gratta&Vinci, scommesse. Un fiume di denaro insegue la fortuna: la metà degli italiani ha giocato almeno una volta. E lo Stato? Anche lui punta, incassa, talvolta perde. Insomma, gioca d’azzardo. Il bilancio finale è difficile. Sicure le entrate: nel 2012 oltre 8 miliardi di euro sono finiti nelle casse del fisco. Quello che entra da una parte rischia però di uscire dal-l’altra: 7 miliardi sarebbero infatti i costi sociali del gioco d’azzardo, stando al Codacons.
E così, seppure ogni governosi ripromette di combattere abusi e ludopatie, il mercato è troppo grande per restarne fuori. La spesa per il gioco nel 2012 è stata di 17,1 miliardi di euro, con una contrazione del 3,5% circa rispetto al 2011 (dati forniti dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli alla commissione finanze della Camera, il 6 giugno scorso). Come si arriva a questa cifra? Semplice: alla raccolta totale di 87,1 miliardi di euro (+9,2% rispetto al 2011) devono essere sottratti 70 miliardi di vincite pagate ai giocatori (+12,8% rispetto al 2011). Tradotto: gli italiani investono nel gioco 87,1 miliardi, ma 70 gli tornano nelle tasche. La differenza (17,1 miliardi persi dai giocatori) prende due strade: 8,1 miliardi vanno allo Stato come gettito erariale (—6% rispetto al 2011), i restanti 9 miliardi finiscono a punti vendita, bar, tabacchi e alle varie imprese concessionarie dello Stato. Nel 2013 il giro d’affari però si contrae: tra gennaio e giugno di quest’anno gli italiani hanno investito nel gioco 42 miliardi e 648 milioni. Secondo Confidustria, nei primi sette mesi del 2013 «le entrate dei giochi presentano una contrazione dello 0,5%». Non è tutto.
Stando alla Camera di commercio di Milano, l’industria dei giochi oggi muove oltre 6.600 imprese, per più di 140mila punti vendita (per i quali il giocoè diventato una fonte di reddito importante). Nel settore sono occupate circa 200mila persone, tra dipendenti dei concessionari e dei produttori di apparecchi, lavoratori dell’indotto (manutenzione delle macchine sul territorio, supporti commerciali) e chi nei punti vendita si dedica alla gestione dell’attività di gioco. Un enorme mercato alla luce del sole, che non va criminalizzato: «La crescita del gioco legale — sostiene Massimo Passamonti, presidente di Confindustria Sistema Gioco Italia — è stata infatti la più clamorosa arma contro il circuito illegale. Un esempio: nel 2007 oltre 700mila video poker in Italia non erano collegati, erano cioè invisibili allo Stato, oggi invece rappresentano la metà delle entrate legali».
Ma i costi sociali? Quelli legati al gioco d’azzardo e alle dipendenze da gioco per il Codacons «sfiorano quota 7 miliardi di euro e un singolo giocatore patologico costa allo Stato 38mila euro annui». Un’inchiesta di Altroconsumo dello scorso dicembre denuncia le malattie e dipendenze da gioco. Nel nostro Paese i “malati” sono un milione e un milione e 800mila le persone a rischio (dati Oms): si va dall’isolamento sociale a stati depressivi che possono portare fino al suicidio, da problemi fisicia dipendenze psichiche, per non parlare di chi finisce nel cappio degli usurai. Un’analisi Coldiretti denuncia che il 47% degli italiani tra i 15 ed i 64 anni ha giocato almeno una volta e che 3 milioni sarebbero gli affetti da ludopatia. Più della metà della spesa in giochi e scommesse è destinata a slot machine e videolottery. E ancora: sempre stando alla Coldiretti (che cita un rapporto Coop 2013, contestato da Confidustria) «la somma che gli italiani giocheranno nel 2013 potrebbe raggiungere il tetto dei 100 miliardi di euro, pari a oltre il 70% di quello che le famiglie italiane spendono per acquistare prodotti alimentari durante l’anno».
«La Confindustria non nega che la legalizzazione dei giochi abbia portato alla tracimazione dell’offerta e anche a effetti critici — ammette Passamonti — noi stessi siamo per un contingentamento delle macchine per punto vendita e per un limite ai canali distributivi. Insomma siamo consapevoli che non vendiamo caramelle».

Repubblica 6.9.13
È scontro su Mirafiori Landini: “Così la spengono” Cisl e Uil, accordo anti-Fiom
“Con un solo suv via metà degli operai”
di Paolo Griseri


TORINO — Premette che «ogni investimento è una buona notizia per i lavoratori». Aggiunge però che «Il suv da solo garantisce solo la metà degli occupati di Mirafiori ». E conclude con l’allarme sul futuro: «La Fiat sta praticando una strategia di lento spegnimento della fabbrica torinese». Il giorno dopo l’annuncio dell’investimento da un miliardo per realizzare il suv della Maserati nella fabbrica simbolo dell’industria automobilistica italiana, Maurizio Landini arriva a Torino e commenta con toni critici la mossa di Marchionne. Non solo per il merito: «La Fiat non ha messo nulla nero su bianco. Si è limitata ad annunci verbali e abbiamo imparato che non li rispetta ». Ma anche per il metodo: «Ancora una volta, nonostante il pronunciamento della Corte Costituzionale che ci ha dato ragione, la Fiom viene esclusa dai tavoli di confronto».L’accusa non è solo al Lingotto ma anche «a Cisl e Uil che hanno firmato un accordo in cui si impegnano a sostenere anche in tribunale le tesi della Fiat sulla legittimità di escludere la Cgil dai diritti sindacali. Una mossa grave perché fatta direttamente dalle Confederazioni». Il riferimento del segretario generale della Fiom è al «verbale di accordo» siglato mercoledì a Roma tra Fiat e sindacati del «sì». Un documento che non è stato diffuso dai firmatari e che ieri la Fiom ha reso pubblico. Landini attacca: «La Fiat continua a non applicare le sentenze della Corte Costituzionale così come non applicaquelle della Cassazione che impongono il rientro in fabbrica degli operai licenziati a Melfi. In questo Marchionne si comporta come Berlusconi». Quanto al verbale, è scritto che «le parti si impegnano a sostenere la validità (dei contratti separati n.d.r.) in tutte le sedi, finanche giudiziarie» e che il contratto separato è «la fonte contrattuale esclusiva per la gestione dei rapporti sindacali». La Fiom ha annunciato ieri che chiederà un intervento del governoper costringere la Fiat a trattare con tutte le parti. Smentita invece l’ipotesi di una manifestazione torinese suggerita dall’azienda per festeggiare l’investimento.
Le parole di Landini hanno provocato l’immediata reazione degli altri sindacati. Per il leader della Uil Angeletti, «Landini ha obiettivi politici, non sindacali». Per Uliano della Fim «Landini è evidentemente rimasto deluso perché immaginava che la Fiat lasciasse l’Italia mentre invece investe».
Il vero snodo sul futuro della Fiat è, per ammissione generale, nella trattativa sulla fusione con Chrysler. E le notizie riportate ieri dalle agenzie Usa parlano di un possibile nuovo rinvio. Entro fine mese il giudice del Delaware deve decidere il calendario delle udienze per stabilire il vero valore delle azioni Chrysler ancora in mano al fondo Veba. Fiat chiede che il giudice si pronunci sulla base dei documenti entro fine novembre. Veba sostiene invece che quella decisione debba arrivare a settembre 2014. Analogamente il processo vero e proprio per Fiat potrebbe iniziare già a maggio prossimo mentre per Veba a gennaio 2015. Indipendentemente delle decisioni sul calendario, è sempre più probabile che le parti trovino un accordo fuori dal tribunale.

Corriere 6.9.13
Antisemitismo su Facebook Valanga di «Mi Piace»


Presunti documenti del Terzo Reich che mostrerebbero un accordo di trasferimento del popolo ebraico. Lager intesi come luoghi con attività di intrattenimento. L'antisemitismo 2.0 cerca proseliti su Facebook, e in una decina di giorni arrivano centinaia di «Mi Piace» sulla pagina Ebrey Today, all'insegna del negazionismo e dell'odio per gli ebrei. La Digos di Roma sta indagando per risalire all'identità degli autori della pagina e capire se dietro i nick si nascondano componenti di associazioni eversive. Il rischio è che si crei un nuovo «Stormfront» in versione social. Nei mesi scorsi la polizia arrestò infatti quattro persone nel corso dell'operazione contro una rete antisemita su Internet. Tra questi c'era anche l'ideologo e promotore di Stormfront, il sito contro gli ebrei: parlava di «complotto giudaico ancora al potere» e in passato pubblicò «liste nere» di intellettuali di origini ebraica e di chi si occupava di immigrazione. Sotto attacca anche Mark Zuckerberg, ideatore di Fb che, secondo un post, ha messo i colori bianco e azzurro al sito del social network per indicare la bandiera di Israele.

Repubblica 5.9.13
L’infernale illusione delle armi

di Adonis

L’INTERVENTO americano in Siria nasce nell’illusione di una “guerra lampo”, di “colpi limitati, chirurgici, mirati”. Rischia invece di sfuggire di mano, di aizzare il conflitto e di ripetere il peccato mortale in cui sono scivolati sia l’opposizione armata sia il regime siriano. Potrebbe involontariamente trasformarsi in una forma di sterminio simile a quello dei nativi delcontinente nordamericano.
Continente chiamato ora “Stati Uniti d’America ». O allo sterminio perpetrato dalla Turchia all’inizio del ventesimo secolo contro il popolo armeno e le altre minoranze storiche di cristiani, siriaci, caldei ed assiri. Infatti, l’operazione militare avviene in un contesto complesso, confuso, anzi, cieco.
1. Se si trattasse davvero di una questione umanitaria e di difesa dei diritti fondamentali degli arabi, il mandato di chi se ne fa carico dovrebbe estendersi al di là della sola Siria. L’America dovrebbe fare i conti con la violazione di quei diritti, sia da parte degli Stati arabi alleati, sia da parte del suo principale alleato Israele.
2. Il conflitto siriano si consuma in un clima caotico, ambiguo, ingarbugliato. È indispensabile considerarne la dimensione religiosa, prima di un intervento militare. Gli Stati Uniti conoscono il significato delle guerre di religione oggi ed è evidente che non entrano nel conflitto come arbitri imparziali, bensì come partecipanti. Schierarsi a tal punto serve forse al progresso o all’uomo e ai suoi diritti? Serve alla pace e alla libertà?
In realtà, l’America, con questo intervento, viola i diritti umani in nome della loro difesa. Qui non si tratta di difendere il regime che, ho detto e ribadisco, deve cambiare, ma di difendere la Siria dell’Alfabeto, della Storia antica, del popolo siriano e dei grandi principi umani.
3. Ricordiamoci che gli Stati Uniti nel 2003 hanno dichiarato guerra all’Iraq. Quali sono state le conseguenze per lo Stato iracheno? Che ne è delle centinaia di migliaia di vittime innocenti, dell’avvelenamento ambientale? E dove sono le armi di distruzione di massa? È probabile che molti dei perseguitati da Saddam Hussein ora rimpiangano il regime che non c’è più. Naturalmente quel regime doveva finire, ma con altri mezzi.
Gli Stati Uniti sanno (o forse no) che la storia arabo-islamica è intrisa di sangue fin dal primo Stato islamico. La maggior parte delle pagine di questa storia sono state scritte dai conflitti confessionali mescolati alla lotta per il potere. Alimentare questo conflitto e entrare a farne parte serve forse alla pace, alla giustizia, alla libertà e ai diritti umani?
Chi conosce la storia sa che le più lunghe mediazioni sono più corte di qualsiasi guerra. Parlare di una guerra lampo e di colpi limitati “chirurgici, mirati” è un’illusione fuorviante. Quando comincia una guerra, il campo, le sue trasformazioni, le sue sorprese ne decidono le sorti.
4. Gli Stati Uniti continuano a ignorare gli oppositori democratici pacifici siriani, nonostante questi siano numerosi sia dentro, sia fuori dalla Siria. L’America ascolta i gruppi che parlano di violenza e non ascolta gli esponenti dell’opposizione pacifica neppure per scoprire quel che hanno da dire, per capirne il punto di vista. Chissà: potrebbero avere soluzioni più umane e quindi più efficaci a causare meno vittime e distruzioni.
Il rifiuto di trattare con l’opposizione pacifica è sorprendente, e io chiedo al presidente Obama, non come presidente ma come uomo di pensiero, se egli rispetta davvero una rivoluzione nazionale i cui leader – come nel caso dell’opposizione all’estero sostenuta dall’America – chiedono un intervento militare di forze straniere per colpire il proprio Paese e consegnarlo loro. Fin dall’antichità, il pensiero e i valori attinenti alla guerra e al combattimento– cioè uccidere – non si sono evoluti. La guerra è ancora considerata una pozione magica per risolvere i problemi e registrare gesta eroiche. La guerra si combatte e così si uccide anche per la pace. Uccidere! Questa è la cura magica per tutti.
Come è assetata di sangue la pace!
L’antica saggezza araba dice “curami con ciò che ha causato il male”: è una saggezza fatale in guerra. Ma com’è contorta una logica che scivola verso quella attrazione demoniaca: la guerra! Forse diremo anche: com’è assetata di sangue la giustizia.
Per esempio, il presidente Obama, nonostante le sue buone intenzioni, è riuscito a controllare l’uso delle armi in America? Le armi sono diventate parte della tradizione americana moderna. Infatti, come dice un nostro adagio, “la gente segue la religione del suo re”. Uccidere non è forse diventato un “mito” deinostri tempi (innanzitutto in America), non soltanto nei film, ma nella vita quotidiana?
5. Sembra quindi che il pensiero umano riguardo alla soluzione dei conflitti non si sia evoluto. Annientare le parti in lotta è ancora la via concretamente seguita per spianare i contrasti. Non v’è stato alcun progresso, tranne lo sviluppo delle armi e la loro capacità sempre maggiore di distruggere e avvelenare il pianeta Terra, nostra unica casa. Le armi si sono enormemente evolute. Ancora le definizioni di eroismo più raffinate e onorevoli hanno nomi riferiti all’uccisione e al combattimento, non alla saggezza e alla virtù del dialogo, alla creazione di soluzioni pacifiche e alla salvezza degli uomini e della loro sacra Terra.
Più un guerriero è “campione” nelle arti di uccidere, più è coperto di gloria e di medaglie e entra nella storia.
L’America ricordi, e lo ricordino i suoi alleati, che ha dichiarato guerra all’Iraq per eli- il presidente baathista e la sua squadra al governo: ma, così facendo, ha fomentato il conflitto confessionale (che ancora provoca morti quotidianamente), conflitto che ha sconvolto gli equilibri e le intese religiose in una direzione che fa comodo al suo nuovo antagonista (l’Iran) e che contraddice gli interessi degli alleati. I calcoli della guerra spesso non producono i risultati voluti da chi la dichiara.
Ricordi l’America, e lo ricordi il presidente venuto in nome della pace e della concordia, che la guerra che non uccide innocenti non esiste nella storia. Quanti innocenti hanno ucciso quei colpi limitati, programmati, chirurgici inferti in Iraq o contro al Qaida in Afghanistan?
Il discorso utopistico non cambia la realtà infernale.
6. Quindi domando al presidente Obama “ambasciatore” di esperienze storiche amare, non soltanto vittoriose, portatore di promesse a favore dei diseredati, come farà a combattere in nome della giustizia e della pace in Siria senza vedere, allo stesso tempo, l’aggressione storica quotidiana contro i palestinesi, la terra palestinese e contro le leggi e il diritto internazionale? Non vede Obama la violazione dei diritti umani nei Paesi suoi alleati?
Preferire un’azione militare contro la Siria anziché un negoziato politico a Ginevra favorisce una soluzione di forza e fa cadere il principio che dovrebbe essere adottato, in base alle regole delle Nazioni Unite, tramite il Consiglio di sicurezza. Anzi, è l’affermazione del principio delle soluzioni militari.
L’opzione bellica è il peccato mortale in cui sono scivolati sia l’opposizione armata, sia il regime siriano.
La verità è che i grandi Stati, e per primi gli Stati Uniti, benedicono e promuovono la scelta militare, ignorano l’esistenza dell’opposizione democratica pacifica siriana o non la prendono neppure in considerazione, mentre sostenendo l’opposizione armata si invischiano in un ginepraio militare.
7. È comprensibile che l’America difenda alcuni regimi arabi, in quanto Paesi di importanza vitale per le risorse energetiche. Però, come comprendere che la grande nazione americana accetti, e faccia propri, i progetti di regimi tribali, familiari, sempre pronti a combattere con le armi chiunque sia considerato un nemico? Come può l’America accettare di essere a fianco di questi regimi nelle loro guerre?
Così facendo l’America apparirà parte del gioco politico, tribale, confessionale in Medio Oriente: complice fondamentale nell’ostacolarne la liberazione, nell’impedire la costruzione di una società moderna, di un uomo moderno, di una cultura moderna. In altre parole, la più importante forza mondiale verrà considerata come il paese che fonda e difende tirannia e schiavitù, intento a proteggere i regimi che su tirannia e schiavitù si reggono, a cominciare dai regimi arabi islamici. Se non ne prendono coscienza, gli Stati Uniti diventeranno uno strumento al servizio dei tiranni in MedioOriente.
L’autore, considerato il massimo poeta arabo contemporaneo, è candidato al Nobel. Vive a Parigi, esule dalla Siria dagli Anni Cinquanta (traduzione dall’arabo di Fawzi Al Delmi)

Repubblica 5.9.13
Norimberga, scontro sullo stadio “Non restaurate le memorie di Hitler”
Deciso un lifting da 70 milioni. È polemica: “Deve andare in rovina”
di Andrea Tarquini


BERLINO — Era il più grande complesso di adunate del nazismo, forse anche il più grande del genere mai costruito da una dittatura. Leni Riefenstahl, la bravissima fotografa e regista di corte del Fuehrer, ci girò Il trionfo della volontà il più celebre tra i suoi film di propaganda razzista ariana. Quell’area enorme ospitava i congressi e le grandi cerimonie della Nsdap, delle SS e della Wehrmacht, della Hitlerjugend, con i suoi undici chilometri quadrati alle porte di Norimberga, la città dove l’ideologia della Shoah nacque. Adesso cade in rovina, come la maggior parte dei pochi edifici nazisti sopravvissuti alla guerra. E con una scelta controversa il municipio ha deciso di restaurarlo. Ma non certo per esaltare l’orrore hitleriano, bensì in modo critico, come monito per la Memoria, per non dimenticare l’orrore.
Costerà almeno 70 milioni di euro — non poco in tempi di austerità salva euro, anche per la ricca Norimberga e la prospera Baviera — il restauro dell’enorme complesso, con la famigerata (ma allora famosa) “Tribuna Zeppelin” da cui il tiranno e i suoi gerarchi arringavano le folle ariane esaltate, le sue 24 torri da cui sventolavano bandiere con la svastica e pendevano fiaccole accese e aquile naziste, nelle tetre cerimonie di peana alla superiorità ariana che cominciarono là, continuarono a Guernica, con l’attacco alla Polonia, poi con la prima disfatta con la Battaglia d’Inghilterra e con Stalingrado, infine con la Germania ridotta in cenere.
«Duecentomila persone visitano il complesso ogni anno», ha spiegato alla Sueddeutsche Zeitung il sindaco di Norimberga, Ulrich Maly, aggiungendo: «Se lo demolissimo ci attireremmo critiche, ma vogliamo rinnovarlo in nome della Memoria, non per abbellire quel passato».
Non tutti sono d’accordo con lui. Tanto più che parte del megacomplesso nazista fu già demolito negli anni sessanta per far posto a nuove abitazioni. E soprattutto, perché farlo infine saltare tutto in aria con la dinamite o lasciarlo cadere a pezzi — «lo dicono in molti nella mia città», ammette Maly — sarebbe lo schiaffo più giusto al sogno nazista di un Reich millenario, un regime del terrore e dei genocidi che Adolf Hitler, Joseph Goebbels, Heinrich Himmler, Hermann Goering e i loro fantocci (da Mussolini a Szalasi) volevano tenere mille anni alla guida del mondo.
La decisione però è presa. Pian piano, l’enorme lugubre luogo delle adunate del Reich millenario sarà restaurato. Per ricordare i crimini dei tedeschi di allora ai crimini dei tedeschi di domani, certo. Infatti tutti i graffiti lasciati su muri torri e tribune dell’orrido mega tempio pagano delle adunate dai soldati americani, dopo la vittoria alleata, saranno lasciati là e restaurati. Graffiti che inneggiano alla disfatta del Reich, come quelli incisi dai soldati del maresciallo Zhukov a Berlino all’interno del Reichstag espugnato. Il rischio che neonazi ci vadano in pellegrinaggio c’è, la polizia si tiene pronta. Il film di Leni Riefenstahl,Il trionfo della volontà,
in Germania è severamente proibito, se lo proietti vai in carcere. E dei deliri pronunciati dai capi del nazismo là nel megatempio di adunate pagane restano solo ricordi cupi e della loro ridicola vanagloria. Come quando qui, come altrove, Goering disse «nessun aereo nemico volerà mai sui cieli del Reich». La frase fu scritta da piloti britannici sul muso d’un Lancaster, esposto oggi al museo della Royal Air Force.

Corriere 6.9.13
Ecco perché la democrazia liberale non è l'ultima parola dell'Europa
Il dopoguerra insegna che non esiste un modello unico
di Michele Salvati


«Le idee politiche nell'Europa del Novecento», dice il sottotitolo del bellissimo libro di Jan-Werner Müller L'enigma democrazia (Einaudi). Sicuramente di questo si tratta, ma si tratta anche — seppure in modo sommario — di una storia dei fatti politici di quel «secolo breve»: l'analisi non obbedisce a ripartizioni accademiche. E poi di una storia dei protagonisti, soprattutto intellettuali ma anche politici: dal gigante che domina la prima parte del libro, Max Weber, a Sorel, Lenin e Stalin; da Lukács a Mussolini e Hitler; da Maritain a Gramsci; da Marcuse a Sartre; da Carl Schmitt ad Adenauer e De Gasperi; da Hayek a Oakeshott a Furet e tanti, tanti altri. A volte piccoli medaglioni, a volte biografie più approfondite, con giudizi personali forti. Si tratta infine di una storia dell'Europa intera, dell'Ovest, del Centro e dell'Est, vista da un tedesco educato in Gran Bretagna e insegnante in una università americana: come Tony Judt, alla cui visione del compito dello storico, se non alle idee politiche, è molto vicino, Müller sa che non si può parlare di Europa se ci si limita all'Europa occidentale.
Questa miscela su tempi lunghi di idee, fatti, persone e Paesi — a partire dai due primi decenni del '900, quando le grandi masse ottennero il diritto di voto e scardinarono la democrazia ristretta del secolo precedente — dà luogo a un tour de force intellettuale straordinario. A volte penetrante, analitico e originale, più spesso selettivo in una gran massa di materiali di seconda mano, ma sempre effettuato con maestria e sicurezza. Insomma, un decennio di lavoro ben speso, questo di Müller, trasfuso in un libro che consiglierei caldamente a chiunque voglia farsi un'idea della storia politica da cui proveniamo.
Un libro impossibile da riassumere. Ma il messaggio centrale è senz'altro quello colto da Shlomo Avineri («Foreign Affairs», Special Anniversary Issue, 2012, p. 69): «Il consolidamento democratico dell'Europa occidentale nel secondo dopoguerra non fu raggiunto facilmente né consistette in una semplice ripresa del precedente ordine politico. Emerse dalle lezioni apprese dalla fragilità delle concezioni e delle pratiche della democrazia europea tra le due guerre e dall'eredità dei movimenti non democratici di quel periodo. E fu molto favorito dall'urgenza e dalla coesione imposte dal contesto di guerra fredda». Questo messaggio trae la sua forza dall'analisi della crisi della democrazia tra le due guerre contenuta nei primi tre capitoli del libro e dall'ampliamento della prospettiva ai Paesi dell'Est europeo. Si articola poi in altri tre lunghi capitoli, sul pensiero della ricostruzione e il ruolo delle democrazie cristiane e sulle sfide che questa concezione benevola ma controllata di democrazia dovette subire, prima dal movimento del '68, e poi, a partire dagli anni 80, dal neoliberismo. Ma qual è la concezione di democrazia che emerse nel secondo dopoguerra e che condusse al suo «consolidamento»?
Lasciamo parlare Müller: è «storicamente … impreciso sostenere che la seconda metà del XX secolo vide "il ritorno della democrazia" o "il ritorno del liberalismo", prima in buona parte dell'Europa occidentale e poi nei Paesi meridionali e orientali del continente. I cittadini europei crearono piuttosto qualcosa di nuovo, ovvero una democrazia fortemente limitata, per lo più da istituzioni non elettive, come le corti costituzionali… Due innovazioni particolarmente importanti del dopoguerra — lo Stato democratico del welfare e la Comunità europea — devono essere considerate nella stessa luce: il primo era volto a scongiurare rigurgiti fascisti garantendo la sicurezza ai cittadini (la competizione con i Paesi dell'Est era una preoccupazione rilevante ma, in ultima analisi, secondaria)… e anche l'integrazione europea… puntava a creare ulteriori limitazioni all'idea di Stato-nazione democratico, grazie alla presenza di istituzioni non elettive» (p. XV). Corti costituzionali, Welfare state, Comunità e poi Unione Europea: una concezione «socialdemocratica» di democrazia? Questo è vero solo in parte — il welfare state — e soprattutto nei piccoli Paesi nordici e nel Regno Unito, ma l'insieme delle limitazioni a una concezione puramente liberale della democrazia è il frutto della reazione alle tragiche esperienze tra le due guerre, al fascismo come risposta all'insufficienza delle istituzioni liberali. Nei tre grandi Paesi del continente, Germania, Francia, Italia, non fu la socialdemocrazia a disegnare la risposta postbellica, ma altre correnti politiche e soprattutto le democrazie cristiane.
Per la maggior vicinanza alla nostra esperienza politica, per l'ampiezza e l'approfondimento dell'analisi, ma soprattutto perché sfatano convinzioni ampiamente diffuse, i tre capitoli della seconda parte del libro sono quelli la cui lettura raccomanderei maggiormente.
La Chiesa cattolica, con grande fatica, aveva abbandonato le posizioni radicalmente antiliberali ancora molto forti tra le due guerre e l'attenzione per i ceti più deboli avvicinava i partiti cattolici alle posizioni socialiste moderate. Grandi intellettuali cattolici — Müller non ricorda soltanto Maritain — erano infaticabili nel cercare compromessi tra il pensiero della tradizione e le esigenze politiche e sociali della fase storica che si apriva con il dopoguerra. Politici coraggiosi e avveduti colsero l'occasione dell'anticomunismo e del tradizionalismo che ancora dominava le masse contadine di allora per creare grandi partiti e stringere compromessi con le forze del liberalismo e del socialismo moderato: le grandi costituzioni antifasciste dell'immediato dopoguerra nascono da questi compromessi. Da questi nasce anche il Welfare state del continente, non dall'iniziativa dei socialdemocratici. Da questi nasce la Comunità Economica Europea. Da questi nasce, in sintesi, una democrazia limitata e difesa da istituzioni forti ma non elettive. Una democrazia che finora ha retto ad assalti ideologici e politici seri: per equilibrio, ampiezza e intelligenza è difficile trovare un'analisi dell'ondata antiautoritaria del '68 migliore di quella di Müller. E sta reggendo allo tsunami neoliberale che il capitalismo della globalizzazione ha scagliato sulle sponde di tutte le economie avanzate.
Müller è storico delle idee e filosofo politico cauto e realista, e non si avventura a predire che cosa ci riserva un futuro in cui le vicende ideologiche e politiche europee probabilmente saranno sempre meno rilevanti. Del suo atteggiamento di studioso è esempio mirabile il modo in cui conclude l'Introduzione al suo libro. «Non vedo motivo di andare particolarmente fieri dell'ordinamento costituzionale assunto dall'Europa occidentale nel dopoguerra… e degli ideali che lo ispirarono. Se mai, la coscienza storica del modo in cui gli europei giunsero a tale assetto potrebbe contribuire almeno in piccola parte a spegnere la confortante illusione che la democrazia liberale sia necessariamente la condizione politica predefinita dell'Europa o, più generalmente, dell'Occidente». Prenda nota, Fukuyama!

Il libro di Jan-Werner Müller, «L'enigma democrazia. Le idee politiche nell'Europa del Novecento», Einaudi, pagine XX-356, 26

La Stampa 6.9.13
Mussolini e Maria José una storia a luci rosse
Ne Le donne del Duce lo storico Mimmo Franzinelli rivela la liaison con la principessa
di Mirella Serri


Il dittatore aveva amanti di ogni età e non disdegnava i rapporti con le minorenni
Durò dieci anni la love-story con la Sarfatti e la figlia di questa, Fiammetta
Claretta Petacci, fu forse la più famosa amante del Duce, morì con lui il 28 aprile del 1945
Bianca Ceccato, segretaria del Popolo d’Italia, fu tra le minorenni amate da Mussolini
Margherita Sarfatti e la figlia Fiammetta, il Duce ebbe una relazione con entrambe
Il libro di Franzinelli ripercorre le vicende amorose del Duce

Una situazione degna del miglior Boccaccio! Claretta Petacci, tutta sudata e infuriata, chiusa nell’estate del 1937 per ben due ore nella cabina-doccia del capanno del Duce a Castelporziano, mentre Mussolini s’intratteneva con un’ospite presentatasi all’improvviso nella tenuta reale. Qui il capo del governo, oltre a godersi il mare e a sbrigare il lavoro d’ufficio, di solito faceva accedere le sue partner più fidate. Ma solo Maria José di Savoia si poteva permettere il gesto ardito di visitare a sorpresa il più grande amatore d’Italia. Il testamento dell’ultima regina d’Italia prevede che i suoi diari, dove ogni giorno «ho annotato» scrive lei stessa, «i nomi degli imbecilli che ho incontrato, ma anche degli altri», siano consultabili solo nel 2071. Non dobbiamo però aspettare quella data per conoscere l’incredibile verità. La sposa infelice del principe ereditario Umberto, la futura, convinta antifascista di casa Savoia, si presentò seminuda al capanno, spiegando di essere naturista, abituata ai bagni di sole. Mussolini, di fronte alla generosa profferta, fu incerto se far prevalere l’uomo o il politico che non voleva turbare i suoi rapporti con la Real Casa. Poi cedette. E offrì pessima prova di sé e del suo Lui.
Ora a dimostrare, documenti alla mano, il legame tra il creatore del fascismo e Maria José, di cui si è discusso a volte ma senza certezze nel dopoguerra, arriva il saggio di Mimmo Franzinelli Il duce e le donne (Mondadori). Un libro che rappresenta un’importante integrazione alla vicenda politico-sentimentale di Benito e porta in luce tanti aspetti inediti della vita erotica del Duce Truce. E non c’è niente di più azzeccato del nomignolo gaddiano: oltre le centinaia di incontri occasionali e le avventure più prolungate con Ida Dalser (a cui Marco Bellocchio ha dedicato Vincere ), con l’anarchicamusulmana Leda Rafanelli, la squadrista Giulia Mattavelli, la pianista bretone Magda Brard, la contessa Alice de Fonseca Pallottelli, emergono altre relazioni sconosciute di Mussolini. Ai suoi appetiti erotici il dittatore non negava niente e rivolgeva le sue pulsioni persino a Fiammetta, figlia adolescente della sua amante Margherita Sarfatti. Solo Maria José riuscì però a prendersi una bella rivincita sul libidinoso tiranno. Dopo l’iniziale défaillance con la moglie di Umberto, noto per la sua omosessualità descritta nei mattinali di polizia impilati sul tavolo del dittatore, il rapporto non terminò ma si sviluppò in maniera intermittente per circa tre anni.
L’ammirazione della principessa belga per il seduttore-conquistatore risaliva al 1936: arruolata nella Croce Rossa, dall’Abissinia aveva telegrafato per la proclamazione dell’Impero: «Esulto… fiera del mio alto privilegio di avere ascoltato il suo glorioso messaggio». A fine settembre 1939 le simpatie di Maria José andavano all’Asse, alla fine del 1940 si iscrisse al Pnf (Partito nazionale fascista). Ma a far scemare progressivamente l’attrazione per il Duce sarà la delusione che proverà nei confronti del Reich e per l’occupazione tedesca del suo paese natio. Durante i loro incontri Mussolini, intimidito dalla spregiudicatezza e dal lignaggio, si sentirà in una «scomoda posizione di sudditanza», spiega Franzinelli. Il dittatore, connotato dal suo superomismo, non si trovava a suo agio tra le lenzuola con la signora di sangue blu. Facendo eccezione alle sue abitudini, fu proprio lui stesso a negarsi e a non voler più abboccamenti.
La serie degli amorazzi con le minorenni prende avvio con la 17enne Bianca Ceccato, segretaria del Popolo d’Italia. Il direttore Mussolini aveva superato i 30 anni e le si propose come un buon padre, l’accompagnava in carrozza, le accarezzava le mani. Conosciutone l’interesse per un coetaneo bersagliere, gelosissimo, la licenziò. Lei contrita e senza una lira tornò sui suoi passi e Benito la convocò in un albergo. Le fece bere spumante a garganella e la violentò in una squallida camera. La costrinse poi ad abortire e quando gli darà un figlio, Glauco, non vorrà nemmeno incontrarlo. Bianca in seguito volle provare a rifarsi una vita e a sposarsi e il dittatore inviò la polizia nel suo appartamento per intimorirla e dissuaderla. Ci riuscirà, condizionandone la vita. Persecutorio lo sarà anche con la 14enne Fiammetta, nata da una delle poche donne che sosteneva di aver amato, l’ebrea Margherita. La Sarfatti, che sarà costretta dalle leggi razziali a fuggire a Montevideo, supplicò in una lettera il quarantenne statista di non «farle richieste indegne». Ma l’Orco-Benito non rinunciò al rapporto a tre che durerà, tra scenate e rivalità tra madre e figlia, almeno una decina di anni. Mussolini stesso confiderà menzognero a Claretta che Margherita gli aveva offerto su un piatto d’argento la prosperosa fanciulla.
Anche la Petacci finì nel tourbillon del ménage à trois, come denunceranno i giornali l’indomani della caduta di Mussolini nell’agosto del 1943. Fin dal 1938 la quindicenne Myriam, detta Mimì, fece da mediatrice nella liaison tra la sorella maggiore e Ben. Toccava a Mimì, ad esempio, fare da chaperon nelle trasferte del Duce e di Claretta al Terminillo. Ma a un certo punto la Petacci si impensierì: «Viene Mimì, lui si sofferma a parlare e la guarda con occhio diverso, da maschio, come prima mai. Rimango un po’ perplessa. Infatti dopo, riprendendo la passeggiata, ha uno strano atteggiamento d’uomo che pensa di poter piacere, di avere ciò che vuole, e altri pensieri che qui non trascrivo». Da quel momento sarà sempre più preoccupata: «In tutto il tempo che ha parlato ha guardato molto Mimì e mi ha veramente seccato che abbia tenuto questi discorsi dinanzi a lei. Tanto che molte volte ho cercato di farlo smettere, ma inutilmente: non capisce queste cose... ». Non è solo Claretta a notare la bramosia del maturo satiro. Le chiacchiere sul terzetto dilagano e i Petacci faranno sposare Myriam in gran pompa e in gran fretta. A dare scacco al Duce, tra le tante, sarà Maria José. Entrata in rapporto con il gruppo di Umberto Zanotti Bianco, antifascista liberale che la introdusse al cenacolo di Benedetto Croce, diventerà una delle pedine nella débâcle e nella rovina di Mussolini. Ma dovrà aspettare fino al 25 luglio 1943.

l’Unità 6.9.13
Variazioni su Eros e Psiche
Tema caro ai pittori del ’500 sentito anche dai moderni
di Renato Barilli


Amore e Psiche, la favola dell’anima, a cura di Elena Fontanella Mantova, Palazzo Te e Palazzo S. Sebastiano fino al 10/11, cat. Bompiani
Sala dei Giganti, ivi, a cura di Marco Tonelli, fino al 15/9

COME BEN SI SA, IL MONDO CLASSICO GRECO-ROMANO HA PARTORITO MITI ECCELLENTI, CANTATI DAI POETI DELLA LATINITÀ, quali Ovidio e Apuleio. Tra questi, spicca il vincolo drammatico tra Eros e Psiche, pieno di risvolti complessi, che si prestano a infinite interpretazioni allegoriche. Per semplificare, diciamo che in sostanza è lo scontro tra la componente umana, Psiche, mossa dal bisogno di dialogare con la divinità, in questo caso Eros, o addirittura di sfidarla, superando i tabù che il potere divino le impone. Psiche non resiste alla tentazione di guardare il volto di Eros, mentre giace in letto con lui, del che viene punita, dovendo affrontare un lungo processo di espiazione.
Del tutto analogo il mito di Orfeo e Euridice, anche in questo caso il protagonista umano viola il veto divino, contempla l’amata, ma così la perde. Il primo di questi miti, sempre coltivato nei secoli, è risultato particolarmente caro agli artisti del primo Cinquecento, dal massimo Raffaello, che ne ha condotto una splendida illustrazione a Roma, Villa Farnesina, ai due allievi, a loro volta capofila dei Manieristi, Perin del Vaga, che ha dipinto quella medesima fascinosa vicenda in Castel S. Angelo, e Giulio Romano, che le ha dedicato una stanza a Mantova, Palazzo Te. In quel particolare momento storico, sospeso tra le ultime fiammate dell’Italia delle Signorie e l’imporsi delle grandi monarchie centralizzate di Francia e Spagna, il mito dell’ardimento umano si coniugava con l’altro di segno opposto che vedeva i giganti, cioè gli umani insuperbiti, tentare di dare la scalata all’Olimpo, da cui però erano miseramente ricacciati al suolo. Questo secondo tema domina la stanza più famosa dipinta da Giulio nel medesimo Palazzo Te.
Non ci stupirà quindi che la triste storia di Eros e Psiche sia stata fatta oggetto di mostre, in quei due luoghi deputati, a Castel S. Angelo l’anno scorso, e ora nel luogo mantovano d’eccellenza, con appendice in un minore, per prestigio, Palazzo di S. Sebastiano. Dominano, come è ovvio, statue di provenienza da un patrimonio archeologico, ma a dire il vero ci appaiono molto stereotipate, con una Psiche non particolarmente mossa da palpiti ed emozioni, congelata anzi in una assorta eternità. Pare quasi che il mito sia stato sentito meglio nei tempi moderni, un anonimo caravaggesco, noto come il Maestro del lume di candela, in una tela conservata a Teramo coglie proprio l’attimo dello svelamento, quando nel cuore della notte Psiche perlustra al lume di candela il volto dell’amato.
Ma al difficile compito sono attesi soprattutto gli artisti dell’Otto e Novecento, che se da un lato devono rispettare i dati esteriori della vicenda, da un altro devono anche introdurre gli indici di deformazione propri dei nostri codici dominanti. Se la cavano bene l’insuperabile maestro della scultura ottocentesca Auguste Rodin, che ci propone la coppia congiunta in un nodo dinamico quasi inestricabile, e anche un suo tardo seguace come il nostro Giacomo Manzù sfrutta bene il suo linguaggio figurativo per fornirci un’immagine veritiera del viluppo dei due corpi, con tanto di vesti ugualmente attorte nell’abbraccio.
Altri invece, in forza del loro stile, sono tenuti a prendere le vie del riferimento puramente analogico e da lontano, Lucio Fontana ci propone una delle sue sfere informi con due voragini d’entrata, forse le porte attraverso cui i due amanti si sono insinuati per costituire un unico corpo. Salvador Dalì si avvale della carta vincente del suo repertorio, quella di ricorrere a forme liquide, come dire che la forza di eros discioglie, liquefà i nostri sentimenti. Ma in questa sorta di gara a chi riesce meglio ad alludere alla storia d’amore e morte senza passare per riferimenti espliciti vince probabilmente il testimone più giovane, Alfredo Pirri (1957), che ha deciso di lavorare proprio nella stanza del Palazzo Te consacrata a quell’episodio, limitandosi a stendere sul pavimento uno strato di vetri infranti, che rispecchiano gli affreschi delle pareti e del soffitto, ma intendendo dire che qualcosa è andato per traverso, che il sogno umano si è infranto, si è ridotto in pezzi. Qualcosa del genere ha fatto pure nella sublime stanza della caduta dei Giganti un ospite invitato a un intervento monografico, Fabrizio Plessi, inserendo in quello spazio un sistema di piani inclinati e di scorrimento, quasi per tentare una mediazione tra noi poveri esseri mondani e l’alto dei cieli.

Repubblica 6.9.13
No limits
Bodei: “Noi, poveri postumani, schiavi delle nuove libertà”
Il filosofo spiega come vivere in un’epoca che ha ormai varcato tutti i confini: morali, biologici religiosi e scientifici
di Franco Marcoaldi


Esistono ancora dei limiti ultimi, invalicabili, che condizionano le nostre vite? Limiti di ordine biologico, morale, religioso, sessuale, ambientale? O siamo entrati in un mondo illimitato dove tutto, almeno in apparenza, è possibile? L’intera modernità è segnata da una violazione consapevole e inesausta dei limiti e dei confini, a cominciare da quelli geografici, continuamente superati nella grande stagione delle scoperte, e delle avventurose spedizioni verso l’ignoto. Ma oggi siamo entrati in una fase ulteriore e diversa, in cui l’autogoverno della propria finitezza è un valore apprezzato da singoli individui: non il volano di una morale condivisa. E il peccato di superbia, commesso da chi sfida la volontà di Dio e il suo disegno, non rappresenta più un freno sufficiente al contenimento degli umani appetiti. Oggi sono il desiderio e la libertà individuale a spingerci avanti, e lo sviluppo della tecnica si è fatto talmente inarrestabile da prefigurare addirittura l’avvento di una società post-umana.
Da qui l’idea di compiere una perlustrazione a tutto campo, capace di coinvolgere scienziati, teologi, psicoanalisti e filosofi. A cominciare da Remo Bodei, uomo di grande equilibrio e competenza, capace di offrirci il quadro introduttivo necessario di una questione che mette in gioco i fondamenti stessi del nostro stare al mondo.
«Sul muro esterno del tempio di Delfi, accanto alla più nota frase “Conosci te stesso”, ve n’era un’altra che dice: “Niente di troppo”. Nel mondo antico, andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita: l’esempio più noto è quello di Icaro. La filosofia classica insiste sull’ideale della medietà, in quanto virtù che squalifica gli estremi per difetto e per eccesso:est modus in rebus.Per ciascun essere la perfezione è avere un limite. L’infinito è un concetto negativo, sinonimo di amorfo, confuso, indistinto».
Poi, con la modernità, cambia tutto.
«Non si deve avere una concezione trionfalistica della modernità come innovazione pura, come completa rottura dei ponti con il passato, ma certamente essa ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana. Ha cercato di svelare gli arcana naturae, gli arcana dei e gli arcana imperii.
Del resto, che gli uomini non possano accettare i limiti perché segnati dalla “mala contentezza”, lo mostrano sia Machiavelli che Hobbes. Il limite così diventa provvisorio, si sposta con noi al pari dell’orizzonte, chiude per aprire. È fatto per essere oltrepassato».
Ora però sta accadendo qualcosa di ulteriore. Viene messa in discussione l’idea stessa di umano, almeno per come l’abbiamo conosciuta sin qui.
«Sono in particolare le biotecnologie che mettono in crisi convinzioni, abitudini e idee di durata millenaria. Fin qui è stato ovvio, evidente, che un individuo viene al mondo secondo i vecchi e collaudati metodi della riproduzione sessuata naturale, con un corpo e una mente soggetti a malattie e deformità congenite e soffre,gode e muore assieme a tutti i suoi organi; ora non più. Si nasce — ormai lo sappiamo — con frequenza sempre maggiore attraverso metodi di fecondazione assistita, si è padri o madri al di fuori dell’età fisiologica abituale, si hanno trasferimenti di materia vivente attraverso trapianti di organi, che collegano storie e vicende differenti in un solo corpo. Secondo una proiezione abbastanza attendibile di una prestigiosa rivista di medicina, in Occidente, alla fine di questo secolo saremo tutti pluri trapiantati e provvisti di numerose protesi che faranno funzionare organi malati del nostro corpo, miglioreranno le prestazioni esistenti o aggiungeranno prestazioni nuove».
Quali le conseguenze sui nostri sentimenti e le nostre passioni?
«Enormi. Perché si modifica la trama dei rapporti di sangue e parentela che sono stati alla base della struttura della famiglia e, in parte, della composizione della società. Non siamo abituati a questa nuova e rischiosa libertà, che esorcizziamo spesso attraverso vecchi fantasmi, e ci vorrà tempo per esercitarla. Servirà una più limpida visione della questione. Non abbiamo ancora potuto misurare il senso della metamorfosi in corso dallo stadio dell’umano a quello del post-umano, dai corpi organici agli esseri formati di carne e metallo, silicio e plastica, di parti umane e animali, trasferibili con trapianti da un individuo all’altro. Sulla ponderazione dei pro e dei contro prevalgono le paure, trasformando la soluzione dei problemi bioetici in un ripetuto referendum. Al quale il cittadino si presenta immancabilmente in uno stato di solitudine e oggettiva incompetenza».
E qui si misura il deficit della politica. Che dovrebbe avere l’autorità necessaria per regolare la dismisura intrinseca allo sviluppo delle varie tecniche.
«È il problema della democrazia. San Paolo, sotto Nerone, scriveva che ogni autorità viene da Dio e quindi bisogna obbedire. Tutto questo ha funzionato per secoli, millenni. Era la doppia autorità rappresentata dai due soli, Chiesa e Impero, a stabilire i limiti entro i quali il comportamento umano è lecito, virtuoso e non peccaminoso. Ora non ci sono più i due soli e l’autorità non viene più dall’alto, ma dal basso. Dal popolo. Quindi l’autorità democratica è costitutivamente debole, il che è un vantaggio, perché garantisce la libertà individuale; ma anche uno svantaggio, perché ci si deve appoggiare a stampelle offerte da altre agenzie formative, essenzialmente la tradizione religiosa e la morale. Si aggiunga che la democrazia ha sempre cercato di mediare tra quantità e qualità, accettando l’idea kantiana del “legno storto” dell’umanità, ma anche promuovendo l’educazione di ciascuno alla cittadinanza attiva. Oggi, in epoca di populismi, si scivola sempre più verso una democrazia anemica, sin troppo benevola verso le debolezze del cittadino. E in cui la mancanza di autorità favorisce la licenza. Senza contare che le figure esemplari da prendere a modello non abbondano ».
In un mondo dove tutto sembra possibile, non si finisce per rimuovere il lato tragico di ogni scelta e quindi l’idea ultima della vita e della morte?
«Il mancato riconoscimento della tragicità delle scelte porta a impegni che non impegnano, all’erosione della responsabilità, all’appuntamento mancato con il futuro. E anche, certo, alla rimozione della morte, limite ultimo e indiscusso. In precedenza vigeva una possibile redenzione della vita dopo la morte. Oggi invece si assiste a una presunta redenzione della vita a scapito della morte, che finisce così per incarnare l’osceno».
Paradossale a dirsi, mentre l’esplosione dei diritti individuali e le accelerazioni della tecnica ci invitano a infrangere ogni limite, una terribile situazione economica pare risospingerci entro vecchi limiti: duri, spietati.
«Gli stoici dicevano: se vuoi essere ricco, sii povero di desideri, e Lao Tse più o meno altrettanto. Si era all’interno di una società della scarsità. Ora si parla della cosiddetta “abbondanza frugale”, che anziché sui consumi indotti, dovrebbe puntare su sobrietà, amicizia, convivialità. Adattarsi a questi comportamenti non sarà facile. Di sicuro non torneremo indietro da un punto di vista tecnologico e scientifico. D’altronde spero che nessuno voglia santificare i vecchi limiti. Il pensiero filosofico-scientifico consiste nel varcare i confini, è un incessante viaggio di scoperta. Né si possono imporre limiti per decreto, perché la democrazia per quanto debole non lo consente. Ma non si può neppure più affidare tutto alla libertà individuale e narcisistica di cui parlava Lasch. Credo sia necessario rimodulare l’idea di limite sulla base dei vincoli dettati dalle nuove condizioni storiche. E in questo ci possono aiutare molto proprio i saperi umanistici. Oggi si esaltano e finanziano soprattutto scienze dure e tecnologia e si pensa che la cultura umanistica non serve a niente. Ritengo, al contrario, che essa sia più che mai necessaria per dare senso alla vita individuale e sociale. Così come si ara il terreno per smuoverlo e favorire la crescita delle piante, oggi sarebbe necessario fare altrettanto per coltivare al meglio l’umanità. Per spingerla a varcare nuovi limiti e a considerare l’opportunità di preservarne o rafforzarne altri».
Ad esempio?
«Ad esempio non abbiamo ancora parlato della rapina costante dell’ambiente e della Terra. Non le sembra da automi miopi e incoscienti distruggere la biosfera? Andare verso l’esaurimento delle risorse senza avere nessun pianeta di ricambio? Non sarebbe questo il primo limite da tenere presente?».

Repubblica 5.9.13
Dì qualcosa di sinistra
Parla il fondatore dei “Quaderni Rossi” e dell’operaismo teorico che oggi si definisce “intellettuale comunista senza un partito comunista”
Mario Tronti
“Non facciamoci distrarre, la lotta di classe c’è ancora”
intervista di Michele Smargiassi


Dalla finestra dello studio del senatore Mario Tronti si sbircia il Borromini: la sua cupola di Sant’Ivo, tutta una controcurva, è un’antinomia barocca, una stravaganza, eppure sta in piedi. Un po’ come la sinistra. «Strana e affascinante », la osserva appoggiato al davanzale il filosofo, teorico dell’operaismo, che a 82 anni è la personificazione del pensiero critico della sinistra italiana. Di sé ha scritto, autoironico: «Sono anch’io un’antichità del moderno », non si vergogna della sua nostalgia per il «magnifico Novecento», ma osservale controcurve del nuovo millennio.
Ha mai detto di se stesso «sono un uomo di sinistra»?
Qualcosa mi fa supporre di no...
«Ha indovinato. Non lo direi mai, mi sembra banale. Penso che “sinistra” sia qualcosa di cui c’è necessità forse più che in passato, per quel che ha significato e può significare ancora. Ma vede, io sono un teorico della forza e non posso non vedere la debolezza della parola».
È sopravvissuta a parole che sembravano eterne, una sua forza l’avrà pure...
«Sì, quella che dovrebbe avere. Metodologicamente sono contrario ad abbandonare una definizione vecchia prima di trovarne una nuova che la sostituisca. Mantengo questa, allora, consapevole dei limiti, perché per adesso non ne ho un’altra. La vado cercando».
Ipotesi?
«In autunno uscirà un mio libro il cui saggio finale, inedito, si intitolaLa sinistra è l’oltre.Ecco, la sinistra dovrebbe coltivare qualcosa che va al di là del presente, ricostruire una narrazione, ma io preferisco dire visione, di quel che può esistere dopo la forma sociale e politica del mondo che abbiamo».
Non è sempre stata questo? Un movimento che «abolisce lo stato di cose presente »?
«A questo si erano dati nomi più forti, socialismo, comunismo, e più efficaci, perché dicevano immediatamente anche all’uomo più semplice che si andava verso qualcosa al di là dell’orizzonte».
Mentre sinistra è uno “stato in luogo”?
«Di certo non ha la stessa capacità di evocazione, serve magari a criticare il presente ma non contiene il futuro. È rimasta in campo, ma non è riuscita a creare quella grande appartenenza umana, antropologica, che le vecchie parole suggerivano. Forse “sinistra” riflette proprio questo passaggio dalla prospettiva all’autodifesa, dal movimento alla trincea».
Ma si diventa di sinistra? O ci si nasce?
«Ognuno ha la propria risposta. Non amo parlare di me, ma posso dirle che nel mio caso è stato quasi un fatto naturale, da giovanissimo, diventare comunista. Perché quella è stata la mia parola, subito. Ha contato molto l’estrazione popolare della mia famiglia, mio padre comunista col quadro di Stalin sopra il letto, mi sono immesso in quell’orizzonte in modo naturale, ovviamente da lì è partito un percorso lungo e critico...».
Fino alla dramma del crollo. Lei ha scritto: fu uno strabismo, credevamo fosse il rosso dell’alba, era quello del tramonto...
«Ma prima di questo avevamo già declinato la categoria del disincanto. Quando sono caduti nome e forma del partito, ricordo bene che in quel travaglio mi sono affidato a una scelta: rimarrò un intellettuale comunista in qualunque partito mi troverò a militare. E così ho fatto.
Resto in quest’area, con la mia identità».
Una volta non era concepibile essere comunisti senza il partito.
«È diventata una scelta libera dalle strutture. Io mi sono iscritto presto nel filone del realismo politico, lungo la linea anti-ideologica Machiavelli Hobbes Marx Weber Schmitt... Essere comunista in questa linea non è facile, ma le grandi idee vanno portate dentro la storia in atto. Tra la visione e la politica c’è la mediazione della pratica, io devo tener conto di quel che c’è, e di come c’è».
Lei ha scritto anche: basta con gli aggettivi,
ai sostantivi. Cosa voleva dire?
«La parola sinistra è stata aggettivata tantissimo. Questo capita alle parole deboli. La differenza tra socialismo e comunismo è che il primo a un certo punto sentì il bisogno di aggiungere “democratico”. Il comunismo non lo fece mai. Non se sia stato un bene o un male, forse è stata una delle cause del suo fallimento».
Ma quale strada porta all’oltre? Fare qualcosa di sinistra oggi sembra ridursi a una deontologia civica di onestà, rispetto...
«Da un po’ di tempo dico che si è aperta nel mondo contemporaneo una grande questione antropologica: il senso dell’essere qui, in un mondo allargato e transitorio, in questo disagio di civiltà che non è solo politico e sociale o economico. Come essere donne e uomini in questo mondo? La domanda vera è questa. Rispondo così: è importante avere un punto di vista, partire da una posizione. Che può essere soltanto parziale. In una società profondamente divisa non è possibile essere d’accordo con tutti. Certo una volta era più semplice, le parti erano chiare e distinte, erano le classi. La parte ora te la devi andare a cercare».
E come si riconosce?
«Per essere riconoscibile come parte, la sinistra dovrebbe dire una cosa semplicissima: siamo gli eredi della lunga storia del movimento operaio. Lunga storia, ho detto. Abusivamente ridotta a pochi decenni, quelli del socialismo realizzato, mentre viene dalla rivoluzione industriale, si diversifica nell’Ottocento grande laboratorio, affronta nel Novecento la sfida della rivoluzione...».
La perde...
«Quella storia del movimento operaio ovviamente si è conclusa, ma la storia resta storia. La Spd non è il mio orizzonte politico preferito, ma ha appena celebrato senza imbarazzi i suoi 150 anni di vita. Ecco, quello è un partito! Non può essere partito quello che azzera tutto ogni volta che viene convinto a farlo dalla contingenza politica».
Cosa resta di quella storia?
«Una parzialità. La parte del popolo attorno a un concetto che non è sparito con la fine del movimento operaio: il lavoro. Una sinistra del futuro non può che essere la sinistra del lavoro come è oggi, complicato frantumato in figure anche contraddittorie, il dipendente l’autonomo il precario, il lavoro di conoscenza, quello immateriale... La sinistra dovrebbe unificare questo multiverso in un’opzione politica. Ma essendo anche un teorico del pessimismo antropologico, la vedo difficile ».
La politica al tramonto. È il titolo di un suo libro recente.
«Io teorizzo pessimisticamente il tempo della fine. Viviamo in un tempo della fine, lo dico senza emozioni apocalittiche che non mi appartengono.
Ma è forse anche la fine del grande capitalismo e delle sue ideologie. Vede, la maledizione della sinistra dopo il Pci è stata non avere avversari di rango. Per essere grandi ci vogliono avversari grandi. Altrimenti, per tornare alla sua domanda sulla deontologia civica, si cade nella la deriva eticista».
Può spiegare meglio?
«La cosiddetta sinistra dei diritti, maggioritaria oggi. Quella che si limita a difendere un certo elenco di diritti civili, presentandoli come valori generali. Finisce per essere un intellettualismo di massa, un consolatorio scambio al ribasso. Basta qualche battaglia contro l’immoralità e ti senti a posto dentro questa società ».
La rivolta contro la “casta” sembra verbalmente forte e gratificante.
«La famosa antipolitica... La sinistra non ha messo a fuoco il pericolo vero, la sua violenza, il suo obiettivo vero, che è deviare lo scontento popolare su una base che per il potere è sicura perché non minaccia davvero le basi della diseguaglianza. Se non trovi lavoro è perché i ministri hanno le auto blu?».
Un’arma di distrazione di massa?
«Un disorientamento politico di massa. Le grandi classi non ci sono più, il conflitto frontale non c’è più, i grandi partiti neppure, ma la lotta di classe c’è ancora. Di questo mi permetto di essere ancora sicuro».