sabato 28 settembre 2013

il Fatto 28.9.13
Ratzinger uno Odifreddi zero La rivincita che non ti aspetti
di Daniela Ranieri


Ultimamente se ti suona il postino o è Equitalia o il Papa. Ti intendi poco di teologia, ma hai un paio di bollettini arretrati. Non vuol dire niente: il Papa in carica ti telefona se sei povero, come la Vergine di Lourdes appariva alle pastorelle analfabete; l’altro Papa, l’emerito, ti scrive se sei colto, upper-class, ateo.
La storia più recente: uno scienziato talentuoso, la testa fumigante di calcoli, passa alcune giornate a smontare la sensatezza logica di un libro dell’allora Papa Benedetto XVI.
Ne esce un pamphlet, Caro Papa, ti scrivo, che mette istrionicamente in luce i passaggi per i quali Introduzione al cristianesimo di Ratzinger non è scientificamente attendibile. Sì: il matematico Odi-freddi ha scoperto nel 2011, con l’emozione della prima volta, che religione e scienza non vanno d’accordo, e ne ha resi edotti noi tutti col sorriso dell’erudito di prim’ordine che segna un punto per la Ragione sullo scacchiere universale. Nella foto di copertina gli si legge in faccia la soddisfazione dello scassinatore con destrezza che aspetta al varco una querela, per sferrare il colpo di grazia di un otto per otto sessantaquattro.
Ora, due anni dopo, non ti esce fuori che l’ex Papa in persona, come in una faida tra esclusi allo Strega, scrive a sua volta a Odi-freddi, per spiegargli come a) non avesse granché senso l’operazione di dimostrare la fallacia di quella che Odifreddi stesso chiama fantascienza; b) il libro-dedica è pieno di imprecisioni e di lacune storiche, specie in merito a Cristo (“Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico”). Piglia, e porta a casa.
Con l’ironia del prete di razza, l’eleganza sciolta di chi ha vissuto una vita a inumidirsi il medio per voltare paginoni di capziose, millenarie irrealtà, si concede pure di avvelenare la punta di un paio di frasi (“ciò che Lei dice (…) è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere”). Al confronto la lettera di Bergoglio a Scalfari pare scritta da pari a pari.
ESSENDO ANTICLERICALI, ci verrebbe da difendere Odifreddi e da bollare la lettera del teologo come una forma pop della Santa Inquisizione. Dal punto di vista della logica pura, però, quanto hanno più ragione, più humour, e persino più lucidità le parole dell’ex Papa! E parliamo di uno che ha passato il suo pontificato a dire che il diavolo esiste.
Certo la vita di un Papa in pensione deve essere lenta, distillata tra preghiere e silenzi; ma che Ratzinger, con tutto quello che ci sarebbe da leggere e criticare, si metta a confutare la tesi di uno che confuta le sue, rodate da duemila anni di sovrana illogicità, e lo faccia con la forza del logos, ha del-l’inaudito.
Non bastasse, Odifreddi si emoziona, manco fosse il primo a ricevere una lettera del Papa. Non che uno scienziato debba reagire al di sopra della troppo-umanità di noi sudditi della morale o di un Bruno Vespa, né che debba vedere in un Papa solo un composto di acqua e carbonio.
L’impressione è di essere finiti dentro un conflitto che ha più del personale che dei grandi temi collettivi: rivelatore che Odifreddi, come scrive lui, abbia chiesto a “un amico” di intercedere presso padre Georg perché desse il suo libro a Ratzinger – e lasciamo stare che da bambino sognava di fare il Papa.
Il sospetto è che si usi la scienza per un personale conflitto con la Chiesa e gli uomini delle sue gerarchie o per volgere narcisisticamente un riflettore su di sé in quanto esclusi dal cortile dei gentili, lo “spazio di incontro tra credenti e non credenti” voluto da Ravasi.
Queste epistole Papi-atei hanno il sapore del dialogo tra privilegiati, con tutti i manierismi da salotto bene, grazie, prego, si figuri, non c’è di che, e l’abuso di parole tra il sentimentale e il trascendente, proprio quello di cui si sentiva la mancanza nell’epoca dello svenimento dell’Illuminismo.
Invece di rivoltarsi per i tagli alla ricerca nel paese in cui il tunnel di neutrini passava sotto il Gran Sasso, i grandi atei, aspiranti senatori a vita, divulgatori di grido, esibiscono una missiva papale, manco contenesse una onorevole scomunica. La pubblicità dello scambio di cortesie ha come effetto (e forse come scopo) quello di far apparire tutti gli altri interessi della vita diversi dalla fede e dalla sua sterile confutazione meschini e angusti. In più, come spiega Emanuele Severino sul Corriere della Sera, pontefici e aspiranti tali spesso nemmeno si capiscono, e si ringraziano a prescindere convinti di aver aggiunto qualcosa alla vita collettiva. Tutti gli altri fingono che quello che si dicono abbia senso. Dov’è la resistenza ironica e politica a questa controriforma salottiera? Nella scienza, che finora se l’è cavata benissimo senza Dio, figuriamoci se le servono lettere del Papa; per la quale esiste solo il dubbio e la bizzarria quantistica, altrettanto invisibile di quella di Dio ma necessaria per spiegare fenomeni reali. Più ancora, forse, nella bellezza che salverà il mondo.
IL FOLLE SI AGGIRA per il mercato a gridare che Dio è morto e non è nemmeno amico di penna di un cardinale. A quando una telefonata di Bergoglio a Raffaele Morelli sull’autostima? Una cartolina a Cacciari sulla soteriologia? Un telegramma a Henri-Lévy sui matrimoni monosessuali? Un sms sul concetto di amore a Michela Marzano? Ci aspettiamo almeno un biglietto musicale a commento di questo pezzo.

il Fatto 28.9.13
Perché non amo il papa “piacione”
di Massimo Fini


E adesso ci tocca anche il Papa democratico, femminista, di sinistra e magari, chissà, antifascista. “Non sono mai stato di destra”. Da quando esistono queste due categorie, cioè dalla Rivoluzione francese, nessun Pontefice si era mai abbassato a tanto, a nominarle. E che significa “non sono mai stato di destra”? Forse che quel Cristo che ha sempre in bocca (povero Cristo), non del tutto legittimamente perché il cattolicesimo non coincide col cristianesimo, riserva una maggior misericordia a quelli di sinistra (il discorso naturalmente vale, a segno contrario, se avesse detto “non sono mai stato di sinistra”)? L’atteggiamento da “piacione”, cioè di uno che vuole piacere a tutti senza dispiacere nessuno, compresa la tambureggiante retorica della modestia, la sua (il massimo dell’immodestia), Bergoglio, intelligenza fine, da gesuita, non lo ha scelto a caso anche se magari ha assecondato un aspetto reale del suo carattere. Il significato profondo della fluviale intervista a Civiltà cattolica ce lo spiega in un pur contorto articolo sul Corriere della Sera (20/09) un cattolico doc come Vittorio Messori (cui, se lo conosco un po’, devono essersi torte le budella a far sue le “aperture” di Bergoglio): “È da questo desiderio di convertire il mondo intero, usando il miele ben più che l’aceto, che deriva una delle prospettive più convincenti fra quelle confidate dal Papa al confratello”. Siamo alle solite: all’evangelizzazione. Che muove da uno slancio di generosità (se io posseggo la Verità perché non farne partecipi anche gli altri?), ma è quel tipo di generosità, come certi favori non richiesti, che ti ricade in testa come una tegola.
NELL’EVANGELIZZAZIONE c’è infatti, in nuce, il vizio oscuro di tutta la storia dell'Occidente, il tentativo di reductio ad unum dell’intero esistente. L’evangelizzazione partorirà molti figli, apparentemente diversissimi. Il primo sarà l’eurocentrismo, il colonialismo europeo che si basa, almeno a partire dal XV secolo, sulla distinzione fra culture “superiori” e “inferiori” e il dovere delle prime di portare la civiltà alle altre. Il secondo figlio – anche se può apparir strano – sarà l’Illuminismo che a Dio sostituirà, assolutizzandola, la Dea Ragione. La Rivoluzione francese e le truppe napoleoniche si incaricheranno di esportare, sulla punta delle baionette, questa inedita “buona novella”. Il terzo – il che può apparire ancora più strano – sarà la Rivoluzione sovietica che, sotto il manto del materialismo scientifico e dell’internazionalismo proletario, tenterà di ricondurre tutto il mondo sotto il suo modello (Trotsky: “La Rivoluzione o è permanente o non è”). Il quarto, il più compiuto e realizzato, è il modello di tipo capitalista. La sua formidabile espansione si basa su una sorta di evangelizzazione mercantile e tecnologica che ha al suo fondo la convinzione che questo sia “il migliore dei mondi possibili”. È in virtù di questa convinzione che ci siamo intromessi in tutte le altre culture, assimilandole o, quando non è stato possibile, togliendole brutalmente di mezzo. Dio ha preso le forme della ruspa. Quando Bergoglio afferma che “senza lavoro non c’è dignità” non so se si renda conto che così si inserisce, a pieno titolo, nonostante le parole su solidarietà e misericordia, in questo modello disumano. Un suo predecessore, un po’ più autorevole, San Paolo, che la Chiesa l’ha fondata, definiva il lavoro “uno spiacevole sudore della fronte”. Io non sono credente ma, pistola alla tempia, sto con Paolo non con Bergoglio.

l’Unità 28.9.13
La civiltà del confronto
di Moni Ovadia


IL 12 GIUGNO DEL 2011, EBBI IL GRANDE PIACERE DI RECENSIRE SU «IL SOLE 24 ORE», il libro del Professor Piergiorgio Odifreddi Caro Papa, ti scrivo. Queste, fra le altre, erano alcune frasi della mia riflessione: «Ho avuto il piacere di presentarlo ai lettori di Milano e ho accettato con entusiasmo di scriverne, anche se sono sprovvisto di competenze tecniche, al fine di dare il mio piccolo contributo nel contrastare i pregiudizi e i luoghi comuni con cui si cerca di liquidare il professor Odifreddi che è invece personalità di grande rilievo portatore di una Weltanchaung atea di cui il nostro sinistrato Paese ha grande bisogno per confrontarsi con le proprie mediocri routine soprattutto, in una scialba epoca come questa, di opinionisti, tuttologi, sproloquiatori, chierici d’assalto e mutanti bicefali come gli atei devoti, che sembrano usciti da qualche bestiario borgesiano, sconcio. Odifreddi gode fama di mangiapreti, anticlericale e enfant terrible dei miscredenti senza Dio. Ora, è pur vero che il matematico impertinente ha scritto un paio di pamphlet di tono molto sarcastico e beffardo un po’ nello stile del suo celebre grande collega, il filosofo Bertrand Russel di Perché non sono cristiano e lo ha fatto senza mediazioni, con piglio tranchant. Ma come non capirlo?
L’Italia vive nell’anomalia di pseudo-ideologie di impianto feudale, come ha dimostrato il recente fallimento di un progetto di legge contro l’omofobia. Questo démi-penser ideologico, si fonda sull’autovittimismo dei religiosi più intolleranti, criminalizza i laici, gli agnostici e gli atei accusandoli di laicismo o di relativismo grazie ad un’accezione perversa di questi termini. Ma proprio perché, al di là delle polemiche e delle intemperanze stilistiche, lo scopo di Piergiorgio Odifreddi è ben altro che il motto ironico o sarcastico, il lettore, che sulla base del sentito dire o del rifiuto di essere messo in crisi sulle sue convinzioni, omettesse di leggere o giudicasse sommariamente questo suo ultimo libro, farebbe un grave torto a se stesso».
Oggi, Il mio invito sembra essere stato raccolto proprio dal più autorevole e titolato dei lettori, il destinatario dell’opera: il Papa Emerito Benedetto XVI, già teologo di Ratisbona e proprio in questa veste. Ovviamente io, nella decisione del Papa non c’entro nulla di nulla, ma la tentazione di giocare alla mosca cocchiera era toppo grande e Oddifreddi mi perdonerà. Il giorno 24 scorso, La Repubblica, ha pubblicato ampi estratti della lettera profonda, circostanziata e argomentata, inviata in risposta al geniale matematico da Papa Ratzinger. Piergiorgio Odifreddi ha comprensibilmente espresso soddisfazione e grande emozione. Quelli che, come me, credono nella civiltà del confronto, possono in questa circostanza vederla testimoniata da un Papa, alla faccia di tanti sedicenti cristiani con la bava alla bocca che volentieri avrebbero alzato un rogo per darvi alle fiamme un matematico la cui irredimibile colpa è quella dell’onestà intellettuale.

Corriere 28.9.13
«G8» vaticano e viaggio ad Assisi Settimana di svolta per la Chiesa
di Alberto Melloni


Con il primo incontro del «consilium» degli otto cardinali e il pellegrinaggio ad Assisi in calendario la prossima settimana papa Francesco attraverserà due appuntamenti decisivi per la fisionomia del suo pontificato. È vero, infatti, che Bergoglio ha già segnato con tratto sicuro i binari spirituali del proprio ministero. Trasformare lo Stato della Città del Vaticano in una parrocchia e diventarne parroco ha già legato il suo papato a quella cura animarum rimasta in ombra negli anni che egli stesso ha definito della «ingerenza spirituale». L'aver indossato con lieta eleganza l'abito della povertà ha già oscurato i disastri che negli anni scorsi avevano disgustato la Chiesa. L'aver scelto Gesù come registro del suo discorso l'ha già reso invulnerabile sia alla stizza di chi s'inchina solo al suo «ruolo» sia alle patetiche adulazioni che punteggiano questi mesi.
Eppure nella prossima settimana Francesco si misura (e per sua scelta) con «la» questione del cattolicesimo romano dell'ultimo mezzo secolo: quella della collegialità. Questo è il senso del «G8» dei porporati che comincia il 1° ottobre. Essi si adunano senza una bolla, una lettera, un'omelia che ne definisca lo statuto. Uno scarno comunicato istitutivo evocava una loro funzione di consiglio «ad gubernandam ecclesiam», che andava nella direzione della collegialità conciliare. In predica Francesco ha alluso al bisogno di sinodalità di cui sono la risonanza. Un accenno agostano sugli otto come outsider lasciava intendere che non era per cavar da lì dei prefetti di curia che il Papa li aveva scelti. Ma di specifico null'altro.
Quasi che Francesco volesse fare «con» gli otto e non «prima» di loro un passo che avrebbe, quello sì, una portata storica. Perché quando il Papa dice in aereo le cose che tutti i parroci dicono in confessionale, colpisce un immaginario e soprattutto quell'immaginario incolto che vede nella Chiesa l'ottusa custode di un assolutismo della verità. Ma quando si misura — e con gli otto ha deciso di misurarsi — con «la» questione della collegialità scrive davvero la sua pagina di storia: quella che deciderà se Francesco vuol obbedire ora al concilio, rinviare questa obbedienza o delegarla al successore.
Chi per interesse o diffidenza vuol minimizzare Francesco dice che gli otto saranno soltanto l'analogo dei consultori che i superiori gesuiti si mettono accanto. Cioè uno strumento vuoto, reso amabile dalla personalità di Francesco, ma incapace di esprimere la comunione. Chi ha fiducia pensa che convocando un organo con atto primaziale il Papa ha mostrato che non ha in mente di mettersi attorno dei potenti chiamati a diluire «democraticamente» un potere monarchico, ma dei vescovi, capaci di far sentire nella Chiesa universale la voce delle chiese locali, «nelle quali e dalle quali esiste la Chiesa una e cattolica». Come già sognavano i gesuiti, padre Tucci e padre Bertuletti alla fine del Vaticano II e poi Martini.
Da questa «obbedienza» dipenderà anche la riforma della curia. Una riforma della curia che migliori gli standard etico-culturali del personale (come il Papa ha iniziato a fare) o che ottimizzi le procedure decisionali, ma che rimanga all'interno di una ecclesiologia universalista sarà effimera come quelle che l'hanno preceduta nel secolo XX. Se la curia, come ha detto papa Francesco, deve servire le chiese locali e le conferenze episcopali, bisogna cambiarne la posizione, l'atteggiamento, la mentalità.
In altri termini la concezione del potere.
Ed è qui che si inserisce l'andata del Francesco papa da Francesco mendicante, il 4 ottobre. Bergoglio è cristiano troppo limpido per salire ad Assisi con l'intento di appropriarsi del dialogo interreligioso, di polemizzare con le fantasie antiche e recenti sulla nazione cattolica, di elogiare «il più italiano dei santi» o di usare il palcoscenico di Assisi per un ennesimo exploit. Se Francesco va da Francesco è per dire che quel papato che aveva cercato di imbrigliare nella «forma della santa Chiesa romana», come scrive il testamento del Poverello, la chiamata dell'Altissimo a vivere «secondo la forma del santo Vangelo», cerca oggi di compiere la sua spoliazione: sull'onda di una profezia di papa Giovanni XXIII sulla chiesa dei poveri del 1962, di un paragrafo della «Lumen Gentium» del 1964, del Patto delle catacombe del 1965 con il quale i vescovi promettono le cose di cui Bergoglio vive, dopo il compromesso con il povero dell'assemblea di Medellín del 1968 — un papa di nome Francesco porta ad Assisi nel 2013 col suo nome, col suo stile il riconoscimento che la povertà si oppone e cura l'idolatria del potere, cura e sbriciola la persuasiva seduzione dei mezzi di potere.
È questo che disegnerà il profilo di una settimana difficile e la fisionomia di un pontificato che ha già segnato un tempo:
il nostro.

l’Unità 28.9.13
Epifani compatta il Pd «Il Pdl tradisce l’Italia»
Il segretario pone l’aut aut alla destra: «Colpite le istituzioni»
Congresso, sì alle regole
Ma se si va subito al voto saranno necessarie nuove deroghe allo statuto per le primarie Renzi-Letta
di Maria Zegarelli


ROMA Il passaggio dedicato alle regole del congresso Pd dura pochissimo, veloce e indolore. Letto, si approva, un solo astenuto, Graziano Milia. I democratici provano così a suturare la ferita aperta con l’Assemblea nazionale e affrontare nel segno dell’unità il congresso che si chiuderà con l’elezione del segretario l’8 dicembre, sempre che non precipiti tutto e non si imponga un altro ordine del giorno. Non è un caso, dunque, se la Direzione resta convocata, permanentemente, proprio come si fa nei casi di massima emergenza.
Adesso ci si concentra sull’attualità più stringente, la crisi che se ieri mattina sembrava dietro l’angolo ieri sera sembrava già arrivata sulla porta di Palazzo Chigi e la situazione è ora più fluida che mai. Dopo le dimissioni in bianco che i parlamentari del Pdl hanno rimesso nelle mani dei loro capigruppo di Camera e Senato, una cambiale da mettere in pagamento come arma di ricatto al governo e al Pd in vista del voto della Giunta per la decadenza di Silvio Berlusconi, il segretario del Pd Guglielmo Epifani dice che adesso basta, «non si può andare avanti così».
LA RELAZIONE
Lo dice a Enrico Letta, in maniera esplicita quando lo incontra nel primo pomeriggio, trovando piena sintonia, ma lo spiega senza mezzi termini anche nel corso della relazione con cui apre i lavori al Nazareno. «Il governo ha una via obbligata dopo quello che è successo, lo so bene che anche qualcuno da noi, anche nei giorni scorsi è stato tentato di usare parole scherzose, l’ennesimo bluff», ma stavolta il Pdl è andato oltre. Ha sfidato le istituzioni, «siamo di fronte a qualcosa che ha cambiato segno, pelle, che non è più nella logica quantitativa che avevamo alle spalle, qualcosa di più profondo e di più delicato». Per questo, ragiona Epifani, Letta tornato dagli States, «deve aprire in Parlamento, che è il luogo della democrazia rappresentativa, il chiarimento che si rende urgente e che deve avere due aggettivi: chiaro e risolutivo». Vale a dire, una fiducia su cose concrete, fatti e misure, a partire dalla netta separazione delle vicende private di Berlusconi da quelle del governo e dal cosiddetto lodo Fassina, su Imu (da ripristinare sugli immobili di lusso) e Iva. Una fiducia che sia tale e che non si rimetta in discussione una settimana dopo. Non ultima priorità che il Pd intende imporre all’agenda politica: la legge elettorale.
Il segretario Pd usa toni duri verso l’affronto dei parlamentari Pdl, lo definisce «un tradimento all’Italia, un colpo alle spalle all’Italia che lavora e si sacrifica, all’Italia che ha pagato e sta pagando i morsi di una crisi senza fine. A quella parte dell’Italia che non si rassegna né al proprio declino né alla propria decadenza».
La risposta di Renato Schifani ( che è stato presidente del Senato e oggi si fa depositario delle dimissioni dei senatori del suo partito, una vera sfida all’istituzione che lui stesso ha presieduto e rappresentato) non si fa attendere: «I veri traditori dell'Italia sono quelli che hanno minato quotidianamente, fin dalla sua nascita, un governo che avrebbe dovuto essere di pacificazione». Ma è proprio sul significato di «pacificazione» che a detta di Epifani si è fondato il grande equivoco. Per Berlusconi, dice il segretario, «in quella pacificazione c’era evidente l’uso dell’alleanza di governo come tentativo di condizionare l’autonomia e le funzioni dei poteri e degli ordini dello Stato», e non «favorire un rasserenamento del confronto politico». Se il segretario Pd resta convinto che andare al voto adesso sarebbe disastroso per il Paese è altrettanto convinto che il governo non può andare avanti rischiando un logoramento costante e subendo un ricatto che per i democratici non è più sopportabile.
L’altro rischio che avverte è quello di un Pd che può apparire chiuso nei palazzi, aggrovigliato in una discussione interna che l’opinione pubblica non capirebbe, da qui l’invito a «spiegare con forza e chiarezza al Paese» la posizione che il partito ha assunto. Ossia quella di chiedere di porre il Pdl davanti alle proprie responsabilità con un voto di fiducia che non lasci spazio a zone d’ombra, che renda il voto della Giunta non vincolante per il sostegno degli azzurri al governo.
GLI SCENARI
Ovviamente lo scenario nel Pd cambierebbe se il Pdl dovesse rompere definitivamente. C’è chi ipotizza un Letta bis o un governo del presidente, c’è anche nel Pd chi inizia a mostrare palese insofferenza verso questa maggioranza. C’è chi, insomma, guarda come al male minore l’eventuale ritorno alle urne a novembre, soprattutto coloro che puntano a mandare Matteo Renzi a Palazzo Chigi senza farlo passare per la segreteria del Nazareno. Un precipitare della crisi rimanderebbe di fatto la celebrazione del congresso, imponendo sì le primarie, ma per decidere chi dovrà essere il candidato della coalizione di centrosinistra. E a quel punto non è neanche esclusa una nuova convocazione dell’Assemblea nazionale per votare la deroga che permetterebbe a Enrico Letta e a Matteo Renzi di candidarsi, considerato che lo Statuto così come è lo esclude. L’unico legittimato sarebbe Guglielmo Epifani.

il Fatto 28.9.13
Congresso Pd: regole ok, ma forse non si fa
Primarie l’8 dicembre
E nell’ipotesi elezioni anticipate, l’attuale premier corre per la segreteria
di Wanda Marra


Votare il congresso il giorno in cui c’è la crisi di governo è da trattamento sanitario obbligatorio”. Parola di dirigente democratico. Il Pd dà il via al regolamento per le sue assise e si schiera dietro Epifani sulla richiesta al governo di fare una verifica alla velocità della luce. Con una compattezza che suona sospetta. Dopo che l’assemblea di venerdì e sabato scorso era andata vicinissima allo show down, la direzione approva le stesse regole che erano state al centro di liti e spaccature furibonde lo scorso week end. E dunque: le candidature vanno presentate entro l'11 ottobre, le primarie per l’elezione del segretario ci saranno l’8 dicembre. Segretario e candidato premier restano da statuto un’unica figura. In ciascun collegio può essere presentata una lista (unica) collegata a ciascun candidato alla segreteria. Votano alle primarie per il segretario i tesserati e gli elettori che “dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del partito”, e “accettino di essere registrati nell’albo pubblico”. Contributo, 2 euro. Le stesse regole, con un’accelerazione sul percorso, che portarono alla segreteria Bersani. Il tutto però avviene con dei contorni surreali, con l’attenzione generale concentrata sul governo e la convinzione diffusa che il percorso congressuale e la vera natura delle primarie si aggiusterà strada facendo. A proposito del nodo politico che aveva fatto saltare il banco la settimana scorsa Epifani dice nella sua relazione: “Troveremo la modalità per risolvere in maniera corretta il problema del rapporto tra il candidato segretario e il candidato alla leadership per la guida del Paese”. Il modo dovrebbe essere quello per cui i candidati alla segreteria firmano una rinuncia all’automatismo. Cuperlo si è già detto favorevole in tutte le sedi, Renzi non dice nulla di ufficiale, ma da sempre fa sapere che per lui non è un problema, tanto vince qualsiasi primaria. Epifani dice ancora: “La direzione è convocata in maniera permanente”. Che vuol dire? Le interpretazioni differiscono nelle sfumature, ma convergono nella sostanza. Visto che le variabili della situazione politica sono molte e imprevedibili, la direzione può riunirsi in qualunque momento per tarare la strategia del Pd. E per “aggiustare” il congresso dice il responsabile Organizzazione, il bersaniano Zoggia: “Il congresso si fa, ma se c’è la crisi la parola va alla direzione”. E Antonio Funiciello, responsabile Cultura e comunicazione, più vicino a Renzi: “Crisi o no c’è tempo per il congresso”. Lui il sindaco di Firenze, se ne va dall’ingresso laterale. “Le elezioni? Aspettate che prendo un taxi”, scherza con i giornalisti, giocando con la metafora (molti lo accusano di voler usare il Pd come taxi).
LE DINAMICHE congressuali sono legate a doppio filo con quelle governative. E con le intenzioni di Letta. Nello scenario in cui il governo Letta - magari con una spaccatura del Pdl - riesca a sopravvivere, allora si fa il congresso, presumibilmente Renzi si prende il partito e poi si vedrà. Nello scenario in cui si va al voto da febbraio in poi, qualcuno ventila addirittura due primarie. Ora per la segreteria, poi per la premiership, con Letta candidato. Sempre che ci sia una coalizione, avvertono i renziani: perché il sindaco di Firenze chissà potrebbe persino decidere di andare al voto solo col Pd. Se poi, invece, si va al voto prima, a quel punto il congresso cambia natura e si trasforma in una lotta per Palazzo Chigi. Con Letta pronto a correre anche per la segreteria, spinto dai suoi e da chi pensa che il “giovane Matteo” non sarebbe “un fulmine di guerra” come capo del Governo. In serata i ministri Dem riuniti in gabinetto di guerra declinano dal loro punto di vista la richiesta del partito: la fiducia è necessaria, e il voto deve arrivare su un documento in cui il premier enunci come prossimi provvedimenti quelli contenuti nell’agenda del Pd.

l’Unità 28.9.13
La via delle elezioni non è più tabù
Il segretario Pd a Palazzo Chigi: «Non accettiamo ricatti, voteremo la decadenza di Berlusconi»
Posizione ribadita da tutti i ministri democratici
di Simone Collini


Il governo può andare avanti solo se c’è un chiarimento «vero e definitivo». E il Pd «non accetta ricatti» e voterà la decadenza di Berlusconi da senatore. Lo ha detto Guglielmo Epifani incontrando nel pomeriggio Enrico Letta a Palazzo Chigi. Lo hanno ribadito al Consiglio dei ministri convocato in serata Dario Franceschini, Graziano Delrio, Maria Chiara Carrozza, Andrea Orlando, Cécile Kyenge e Flavio Zanonato.
Il Pd ha deciso di tenere alti i toni, di fronte la minaccia di dimissioni di massa dei parlamentari Pdl. E ha trovato una sponda nel premier, che non solo vuole mettere Berlusconi di fronte a un prendere o lasciare, ma con una crisi provocata dal Pdl che renda obbligata la strada verso nuove elezioni potrebbe anche giocare la partita interna al Pd, sfidando Matteo Renzi nella corsa per la premiership. È vero che lo statuto del partito prevede che sia il segretario l’unico a correre per Palazzo Chigi, ma alla Direzione di ieri è stato siglato un accordo per cui ogni candidato alla segreteria si impegna a garantire la partecipazione anche di altri esponenti del Pd, oltre a quello che uscirà vincitore dalle primarie dell’8 dicembre.
Il sindaco di Firenze sa che per lui si sta aprendo una fase delicata, perché un’accelerazione della crisi potrebbe anche far saltare il congresso e richiedere soltanto primarie per il candidato premier. «La Direzione è convocata permanentemente, è chiaro che dovesse esserci la precipitazione delle cose la direzione valuterà il da farsi», ha spiegato il responsabile dell’Organizzazione Davide Zoggia. Ma andare alla sfida per Palazzo Chigi con l’incognita di avere come competitor Letta e senza la garanzia di avere in mano il partito è proprio ciò che vuole evitare Renzi, che chiede in ogni caso lo svolgimento del congresso. Ma tutti navigano a vista in queste ore, e se anche dovesse aprirsi una crisi gli scenari possibili sono numerosi. L’unico escluso è che ci sia un voto di fiducia da parte del Pdl, tra lunedì e martedì, per ricominciare poi con le minacce quando il Pd voterà la decadenza di Berlusconi da senatore. «È il momento della chiarezza, non c’è più tempo per furbizie e ipocrisie», è il messaggio che Franceschini manda a Renato Brunetta, dopo che il capogruppo del Pdl fa sapere che sono pronti a votare la fiducia. «Abbiamo visto parole e gesti che stanno facendo un danno enorme al paese e a ogni singolo italiano spiega il ministro per i Rapporti col Parlamento nei prossimi giorni, già dalle prossime ore il chiarimento sarà un modo per capire meglio e non per prendere tempo».
Alla Direzione di ieri non ci si è addentrati in ragionamenti sui possibili scenari in caso mancasse quel chiarimento invocato dal Pd e perseguito da Letta. Ma che si possa andare a nuove elezioni non è più un concetto tabù, tra i democratici. Altri «giri di valzer», per dirla con Epifani, non saranno consentiti. E se il governo non imbocca la «via obbligata» di un chiarimento definitivo, questa esperienza è destinata a chiudersi. E poi? Il Pd vuole evitare di tornare alle urne con il Porcellum, e non a caso Gianni Cuperlo chiede che il Parlamento sia «convocato a oltranza per licenziare una nuova legge elettorale».
Se il Pdl dovesse mantenere fede alla minaccia di dimissioni di massa, si dovrebbe verificare se ci sono altre maggioranze sufficienti a sostenere un governo di scopo che superi il Porcellum e approvi la legge di stabilità. Il via libera da parte di Sel è arrivato e anche dal Movimento 5 Stelle arrivano dei segnali positivi. Inoltre al Pd stanno arrivando messaggi incoraggianti circa una ventina di senatori del Pdl che potrebbero non seguire l’indicazione delle dimissioni. Se questi movimenti siano sufficienti per garantire un Letta-bis o un cosiddetto governo del presidente però non è dato sapere. L’alternativa sarebbe però tornare alle urne con il Porcellum.

l’Unità 28.9.13
I ribelli 5 Stelle: sì a un governo di scopo. «Al limite con Letta...»
Orellana e altri senatori pronti a rinunciare all’opposizione, pur di cambiare legge elettorale Ma Grillo spara nuove bordate contro Napolitano
di Andrea Carugati


Aogni vento di crisi di governo, e stavolta si può parlare di vera e propria tempesta, dentro il Movimento 5 stelle le acque tornano ad agitarsi. E in fondo il quesito che divide la truppa grillina è sempre lo stesso, da marzo a oggi. «Il cambiamento del nostro paese deve avere come punto di passaggio obbligato la rimozione dal panorama politico del signor Berlusconi. Ogni altra cosa verrà dopo», spiega a nome dei senatori dialoganti Francesco Campanella. Mentre Grillo e i suoi fedelissimi invocano le urne subito, anche con il Porcellum, pur di giocarsi la partita della maggioranza assoluta alla Camera contro Pd e Pdl.
Grillo fa di più, con un post al veleno torna a chiedere le dimissioni di Napolitano. «Lui ha perso la partita, ma si ostina a negarlo come chi avendo sempre vinto (o almeno pareggiato) non riesce a darsi pace per la sconfitta. Si alzi dal tavolo di gioco, e prima di uscire, spenga le luci del Quirinale».
Due partiti in uno, come è ormai chiaro da settimane. Con i talebani di Grillo che per settimane hanno accusato i dialoganti di aver fatto solo passi falsi, «visto che la crisi non ci sarà e Pd e Pdl troveranno come al solito l’accordo». I dialoganti invece hanno tenuto il punto. Sono circa una quindicina al Senato, in caso di crisi vogliono fare una proposta seria al Pd, «un governo di svolta della società civile», spiega Campanella. «Non si può accettare un nuovo parlamento di nominati, sarebbe delegittimato, per le stesse ragioni per cui tutti noi del M5S sosteniamo che questo parlamento di nominati non ha l’autorevolezza per cambiare la Costituzione». E Grillo? «Le sue opinioni, sul Porcellum come su altro, sono autorevoli. Ma lui non è la guida del movimento, noi siamo nati senza leader, è una parte del nostro dna».
GLI ERETICI
Luis Orellana, già candidato alla presidenza del Senato, è un altro degli eretici. Qualche settimana fa si è preso dello «Scilipoti» dal blog di Grillo, ha rischiato l’espulsione. Ma è rimasto nel gruppo e insiste: «Serve un governo della società civile. Magari guidato da uno dei nomi venuti fuori dalle nostre Quirinarie. O anche qualche tecnico dell’attuale governo», spiega al sito Europa.it. Orellana insiste sul cambio della legge elettorale. «È uno dei venti punti che abbiamo promesso di realizzare. Se il gruppo tradisce il mandato elettorale uno non può seguire il gruppo».
IL CASO
I due senatori M5S sono molto scettici su un eventuale Letta bis. Di certo non voteranno la fiducia la settimana prossima, sul futuro si tengono le mani libere. Orellana lascia capire che potrebbe votare, come extrema ratio, anche un nuovo governo presieduto dall’attuale premier. «Dovrei pensarci. Grillo non ha consultato nessuno. Non consulterò nemmeno io lui e saremo pari e patta», lancia il guanto di sfida. «Dobbiamo dialogare con il Pd, con Sel, con chi ci vuole stare»
Giovedì è stata eletta la nuova capogruppo dei senatori, Paola Taverna, che ha preso il posto di Nicola Morra. Super fedelissima, ad agosto era balzata agli onori delle cronache con un sonetto in romanesco in cui invitava i dissidenti ad andarsene. Mentre la collega Laura Bottici aveva aggiunto un bel «vaffa» all’indirizzo dei medesimi colleghi. Solo 20 voti su 50 voti per Taverna, e 13 alla sfidante Barbara Lezzi (anche lei ortodossa). Ben 13 le schede bianche e 1 nulla. Ed è proprio tra questi 14 che si annidano i potenziali “traditori” del verbo grillino. Un numero a cui vanno aggiunti i 4 senatori già fuoriusciti, a partire dall’espulsa Adele Gambaro, per un totale di 18. Altrettanti sono i deputati, ma a Montecitorio i loro voti non sono necessari.
Ma non sarà un appoggio a tutti i costi: «Il Pd deve cambiare rotta, non voteremmo un governo purchessia. Non ci interessano posti, non siamo i nuovi Scilipoti», avverte Campanella.
La partita in fondo è tutta qui. Tra i due M5S che si stanno delineando, quale rappresenta la maggioranza degli elettori? Grillo e Casaleggio sono con vinti che la linea del “tutti a casa” sia potenzialmente vincente. I dissidenti invece credono che, al fondo, la volontà dei loro elettori sia diversa. Passi per una collaborazione col Pd a determinate condizioni. Le due opzioni avrebbero potuto essere messe ai voti sulla Rete, come è successo nei casi delle espulsioni. Ma da Milano finora è arrivato un secco no. Il portale per far votare gli iscritti è stato sempre rinviato. E nei prossimi giorni dovrebbe essere attivato ma solo per discutere le proposte di legge. Spiega Orellana: «Di fatto le decisioni importanti come chiedere di andare subito al voto non sono condivise con nessuno, né con i parlamentari né con gli attivisti». La prossima settimana i due gruppi di Camera e Senato si riuniranno in assemblea per decidere che fare in caso di crisi. Si annunciano toni roventi, i due “partiti” contrapposti cercheranno di fare proseliti tra i tanti dubbiosi. Ma, al dunque, quello che conta sarà il voto di quei 14 senatori.

Repubblica 28.9.13
Il senatore del M5S
Orellana: “Pronto a sostenere un esecutivo anti Porcellum”


ROMA — Un gruppo di grillini, soprattutto al Senato potrebbero fornire i voti necessari per formare un governo senza il Pdl. Uno di loro, Alberto Luis Orellana, già entrato in rotta di collisione con Beppe Grillo, esce allo scoperto e lo dice chiaro e tondo in un intervista ad Europa, uno dei due quotidiano del Pd: «Non possiamo tornare a votare con questa legge elettorale» e dunque serve «un governo della società civile, dei cittadini». Per questo, conclude, «dobbiamo dialogare con il Pd, con Sel, con chi ci vuole stare ». Il senatore grillino pensa ad un esecutivo di cui facciano parte i nomi «venuti fuori dalle Quirinarie. Anche qualche tecnico dell’attuale governo. Per fare una proposta ragionevole bisognerà accettare anche quelle degli altri». Una posizione chiara che prende in considerazione anche un altro governo guidato da Enrico Letta. Uno scenario che Orelliana non boccia: «Dovrei pensarci, — dice — Letta è molto caratterizzato politicamente, ma la priorità è cambiare il Porcellum».
Così le voci sui 10, forse 15, senatori grillini pronti a votare per un nuovo governo riprendono corpo. E conferme si trovano su Facebook. C’è, per esempio, un post di Francesco Campanella, un altro senatore grillino, indicato come “dissidente”. In sintonia con Orellana, perché Campanella dice: «Io devo fare quello che la mia intelligenza e la mia dignità mi spingono a fare nel rispetto dell’impegno che ho con tutti i miei elettori». E per concludere aggiunge: «Far bene il portavoce o il rappresentante non vuol dire aspettare le elezioni per ottenere del 51% dei voti».

Repubblica 28.9.13
Gianni Cuperlo: necessario condurre in porto legge di stabilità e riforma elettorale
“Non si può fare finta di nulla pronti a un’altra maggioranza”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Gianni Cuperlo non ha pensato neanche per un istante che le dimissioni di massa del Pdl potessero essere annoverate nella categoria dei “bluff”. Il candidato alla segreteria del Pd le considera, invece, «un fatto gravissimo, che mina le fondamenta del patto repubblicano ».
Quindi Letta ha fatto bene, a non sottovalutare le minacce del centrodestra?
«Ha fatto benissimo. La minaccia di un Aventino collettivo, che non ha precedenti in nessuna democrazia, è stata fatta mentre il premier era negli Stati Uniti, dove cercava di accreditare il nostro Paese davanti agli investitori internazionali. Per non parlare degli inaccettabili attacchi a Napolitano. Stanno attaccando gli equilibri istituzionali e avvelenando i pozzi della democrazia. Ora sarà Letta a valutare i tempi della risposta, che dovrà passare da un dibattito parlamentare improntato alla massima chiarezza. Non possono esserci zone d’ombra, i comportamenti di ogni forza politica saranno verificati davanti al Paese».
Nessuna zona d’ombra neanche sulla giustizia?
«Il tema è sempre stato affrontato dal premier nei termini corretti. Se si tratta di norme per velocizzare la giustizia civile, siamo sempre stati disponibili. Se invece si pensa ancora a proporre provvedimenti a uso esclusivo di una persona, questo è per noi un argomento irricevibile. È vero che la sovranità appartiene al popolo, ma il popolo la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, che prevede l’equilibrio dei poteri e nega che il potere politico sia tale da poter sovrastare gli altri, negando la loro legittimità. È qui che si rompe lo spazio di un possibile dialogo. Nessuna logica di convenienza temporanea o momentanea può sovrastare l’affermazione di un principio».
A questo punto, come può questo governo avere un futuro?
«Gli spazi sono ristretti. È del tutto evidente che così non si va avanti. Lo slittamento del decreto che doveva sistemare i conti dimostra che l’irresponsabilità del Pdl mettea rischio l’economia del Paese. Sappiamo che l’impatto di una crisi oggi ricadrebbe sulle tasche delle famiglie e delle imprese, ma è evidente che il governo non rimane in piedi a qualunque costo. Ascolteremo le parole del premier e il dibattito che ne seguirà consapevoli del fatto che sono scaduti i termini delle minacce, delle tattiche,dei ricatti».
Serve un nuovo governo?
«Se Letta dovesse cadere non c’è alcun automatismo che ci porti al voto. Bisognerebbe verificare in Parlamento la possibilità di una maggioranza di segno diverso, in grado di assumersi l’onere di portare a compimento i due obiettiviprincipali: la legge di stabilità e la riforma elettorale».
Si può fare con qualche decina di transfughi Pdl o 5 stelle?
«Non faccio ipotesi perché indebolirebbero la verifica di Letta, che ha la nostra piena fiducia, ma non si può proseguirecome se nulla fosse».
Se si andasse al voto e Renzi fosse il candidato premier, lei potrebbe guidare il partito.
«Diamo gerarchia alle priorità. Siamo di fronte a rischi enormi e a un pericolo grave. Il congresso del Pd è cosa serissima che spero si possa fare nei tempi previsti, ma se la situazione dovesse accelerare verso nuove elezioni sarà importantissimo costruire un centrosinistra largo, che vada ben oltre i confini del Pd, recuperi il rapporto con Sel, parli alla società italiana, ai movimenti, alle forze vive del Paese, con un candidato premier scelto dalle primarie di coalizione».

il Fatto 28.9.13
Caccia alla “stampella” Conta al Senato senza Pdl
Il Pd minaccia: “La maggioranza si trova”
Ipotesi esecutivo di minoranza ma c’è anche chi ricorda che Monti ha retto gli affari correnti per 5 mesi
di Paola Zanca


Lo spauracchio, nemmeno troppo velato, lo agita un autorevole esponente dei senatori democratici. Dice che una maggioranza, Pdl o no, si deve trovare. E si troverà. Non solo perché il Porcellum passerà solo a dicembre il vaglio della Corte Costituzionale, ma perchè se si torna a votare con la legge firmata da Calderoli, ci si ritrova al punto di partenza: senza vincitori (o peggio ancora con i grillini in testa), condannati alle larghe intese. Così, la caccia al senatore è già aperta. Non deve necessariamente votare la fiducia all’esecutivo di scopo. Può anche semplicemente fare in modo che nasca “un governo di minoranza”. Se ne era discusso a lungo, già ai tempi dell’esploratore Bersani. Poi, Napolitano disse che, di soluzioni rattoppate, non era aria. Ma adesso sono passati sei mesi, tante cose sono cambiate e ci si può persino accontentare.
ACCORDI PREVENTIVI non sono ancora stati siglati, ma basta questa minaccia a mettere il Pdl di fronte alle sue responsabilità: con o senza di voi, si va avanti comunque. Non si tratterebbe, almeno questo è il messaggio che fanno filtrare i più vicini al premier, di un Letta-bis: l’attuale primo ministro non ha intenzione di intestarsi nessun prosieguo. Piuttosto, un esecutivo nato di nuovo sotto l’egida di Giorgio Napolitano, pronto a verificare l’esistenza di nuove “maggioranze”. I numeri con cui costruire la nuova intesa contano già alcune prese di posizione pubbliche. C’è Paolo Naccarato, con la pattuglia di 10 senatori di Gal (Giulio Tremonti, a dire il vero, si tira fuori) che non ha intenzione di seguire i vecchi amici pidiellini e annuncia “tradimenti” illustri (al momento, al Senato, non hanno firmato le dimissioni in bianco Carlo Giovanardi e Gaetano Quagliariello). Ci sono i 4 ex senatori grillini, che tutti danno già per acquisiti, ci sono altrettanti dissidenti M5S che di fronte a un governo finalizzato a cambiare la legge elettorali sarebbero pronti a fare il grande salto. Non hanno gradito che il capogruppo uscente Nicola Morra abbia liquidato come un “bluff” le dimissioni dei Pdl. Scrive Luis Orellana: “Sarà vero o no. È poco importante. È importante invece proporre una soluzione seria e responsabile al Paese e capire chi ci sta”. Ci starebbero i senatori di Sel (sono 7): ieri è stato lo stesso Nichi Vendola a invocare un esecutivo per “cancellare il Porcellum e avviare l’Italia verso la ripresa”. La Lega invece è secca: “Se la scorsa volta ci siamo astenuti, stavolta voteremo contro”, spiega il capogruppo a palazzo Madama Massimo Bitonci. Sa anche lui che le elezioni subito non sono realistiche. Ma sostiene che si può tirare avanti fino a febbraio anche “a Camere sciolte”.
SEMBREREBBE una follia, invece, non è detto che non stia in piedi. Tra le ipotesi che lo stesso entourage lettiano non esclude, c’è quella di una “lunga gestione degli affari correnti”. Tradotto, significa che lunedì o martedì Letta esce sfiduciato dal Parlamento. Napolitano avvia le consultazioni e perde un discreto tempo alla ricerca di nuove soluzioni. Alla fine però, il Quirinale si trova costretto a sciogliere le Camere e a indire nuove elezioni al massimo entro 70 giorni. Il Parlamento può comunque legiferare e addirittura si cita un caso scuola in cui il Presidente potrebbe autorizzare il governo ad emanare un decreto in maniera elettorale. Fantascienza, pura teoria. Eppure c’è chi fa notare che la lunga gestione degli affari correnti ha un precedente molto ravvicinato. Di mezzo ci sono state le elezioni, ma Mario Monti ha sbrigato l’ordinaria amministrazione dal 9 dicembre al 28 aprile: quasi cinque mesi.

l’Unità 28.9.13
La minaccia del Pdl alla Costituzione
di Stefano Passigli


LE MINACCIATE DIMISSIONI DEI PARLAMENTARI PDL SONO UN GESTO POLITICO CHE: 1) non trova precedenti nella storia e nei regolamenti del Parlamento); 2) non ha fondamento alcuno nella teoria democratica); 3) viola alcuni fondamentali principi costituzionali.
1) È del tutto fuorviante operare come taluni suggeriscono un parallelo storico con l’Aventino, appello estremo al Re di una opposizione colpita dall’assassinio di uno dei suoi massimi esponenti affinché sciogliesse un Parlamento inquinato da brogli elettorali e impedisse il consolidarsi di una maggioranza oramai indirizzata verso la dittatura. Niente a che vedere con dimissioni motivate non dall’interesse generale ma solo dalla necessità di difendere l’interesse particolare di Berlusconi. Anche dal punto di vista procedurale l’annuncio di dimissioni non tiene conto dei regolamenti parlamentari: le dimissioni sono un atto individuale che, sia alla Camera che al Senato, vengono discusse in aula nome per nome, votate accettandole o respingendole, e che se accettate implicano il subentro del primo dei non eletti. È evidente che obiettivo di un annuncio di dimissioni collettive non può essere l’avvio di un simile percorso, (le dimissioni potrebbero infatti venire respinte, e se accettate i subentranti dovrebbero a loro volta dimettersi, e così dopo ogni nuovo subentro): l’obiettivo è chiaramente quello di provocare la caduta del governo, per il quale basterebbe il ritiro della fiducia, ritiro che però mostrerebbe apertamente la responsabilità del Pdl mentre il tentativo di Berlusconi è quello di provocare le dimissioni di Letta e attribuire la responsabilità della crisi al Pd.
2) Ancor più grave è la decisione di Berlusconi dal punto di vista della teoria democratica. Sin dai grandi teorici del ’600 e ’700, la teoria democratica consolidatasi con le grandi rivoluzioni in Inghilterra, Francia e America ha ritenuto la limitazione del potere il fondamento della democrazia, e la separazione ed equilibrio tra poteri il cardine di tale limitazione. Sostenere come apertamente fanno gli esponenti del Pdl che una condanna passata in giudicato dopo tre gradi di giudizio (da parte di giudici che, contrariamente a quanto affermato dai pasdaran del Pdl, sono risultati essere iscritti alle correnti moderate della magistratura e non militanti della sinistra) non può limitare la «agibilità politica» di un leader eletto da milioni di cittadini, e rappresenta una «indebita ingerenza della giustizia nella politica», contraddice apertamente il principio della separazione dei poteri. Affermarlo equivale a sostenere che è il voto popolare e non la giurisdizione che determina l’innocenza o la colpevolezza di un accusato. Anche ricordare i tanti processi che hanno visto imputato Berlusconi, senza ricordare che in una larga parte di questi lo stesso è stato condannato in primo e secondo grado di giudizio e salvato solo dall’intervento della prescrizione (i cui termini erano stati abbreviati da leggi, come la Cirielli, voluti dallo stesso imputato) non può valere a mostrare una volontà persecutoria della magistratura nei suoi confronti, ma semmai solo a dimostrare un suo persistente agire oltre i limiti della legalità.
3) Ma è sul piano del dettato costituzionale, che la decisione di Berlusconi giustifica ulteriori riserve. Come è ben noto, le costituzioni democratiche prevedono che ogni parlamentare svolga le proprie funzioni senza vincolo di mandato, e che egli rappresenti la Nazione e non singoli interessi o territori. Dimettersi in massa, teorizzando di dovere la legittimità del proprio mandato al «leader padrone» che li ha inclusi nelle liste bloccate del Porcellum, è un’evidente violazione dei due principi su ricordati, e mostra lo scarso rispetto che i parlamentari del Pdl portano alla nostra Costituzione. Evidentemente, essi non si sentono rappresentanti della Nazione ma piuttosto di un singolo individuo, e non agiscono in libertà di mandato ma come mandatari dello stesso, al punto da accettare di essere da costui di fatto revocati: cos’altro se non una revoca di fatto sarebbero delle dimissioni richieste e pedissequamente accettate?
L’aspetto più grave di questa incredibile vicenda è infine rappresentato dal suo obiettivo ultimo: obbligare il Capo dello Stato a sciogliere il Parlamento. Se posto in essere con atti violenti qualsiasi tentativo di limitare un organo costituzionale nell’esercizio delle proprie funzioni, violerebbe l’art. 289 del codice penale; ma un tentativo posto in essere con una massiccia campagna mediatica, possibili mobilitazioni popolari, e pressioni sul Capo dello Stato (cui Berlusconi non è certo nuovo: si ricordi ad esempio la campagna contro Scalfaro mirata anche in tal caso ad ottenere lo scioglimento delle Camere) non configurerebbe una forma nuova e moderna di violenza in linea con le odierne modalità di sviluppo della comunicazione e di formazione dell’opinione pubblica? I codici sono spesso in ritardo sui tempi: se non la lettera, lo spirito del 289 del codice penale viene sicuramente violato dall’iniziativa del Pdl.
Come si vede, anche senza nulla dire della irresponsabilità politica del Pdl nel creare le condizioni di una crisi di governo nell’attuale grave situazione del Paese -, e mentre il presidente del Consiglio si proponeva nel suo viaggio di rassicurare partner politici e investitori esteri sulla ripresa e sulla stabilità dell’Italia -, vi sono anche più fondamentali ragioni per condannare senza appello l’attuale comportamento di un centro-destra incapace di costruirsi un ruolo autonomo rispetto al suo fondatore.

Repubblica 28.9.13
La politica dell’eversione
di Gianluigi Pellegrino


Ormai è chiaro che nemmeno la legge Severino c’entra più niente. Né lo stanco ritornello di una incostituzionalità che semplicemente non esiste. Il Pdl infatti brandisce argomenti pronti ad essere usati anche contro la solenne interdizione dai pubblici uffici che da qui a breve sarà definitiva. Siamo così al plastico e persino ostentato abuso di potere politico contro la sanzione di un grave illecito comune, doverosamente punito dal controllo giurisdizionale che la Costituzione garantisce “in nome del popolo italiano”. La maschera è quindi definitivamente gettata. Non c’è più nemmeno l’argomento di facciata che allegava una pretesa reazione al Pd che starebbe tradendo un patto di solidarietà e di salvacondotto che peraltro sarebbe gravissimo, e nullo di diritto, se fosse mai stato stipulato. C’è invece la dichiarata volontà sovversiva di un intero partito ridotto a mero esecutore degli ordini di un condannato che è disperato perché nonostante i mille espedienti utilizzati per sfuggirvi (censurati più volte dalla Corte costituziona-le), ha infine dovuto fare i conti con il lento, ma per fortuna inesorabile principio della “legge uguale per tutti”. Per quanto incredibile possa essere, è proprio contro questo che annunciano dimissioni di massa i parlamentari del Pdl ridotti alla mera obbedienza al capo, dal combinato disposto di un partito padronale e del porcellum, che ne è la più cristallina proiezione e ne reca infatti le impronte digitali, perché riduce persino dal punto di vista istituzionale senatori e deputati a soldatini di latta nelle mani di chi li ha nominati.
Siamo così alla prova provata di un eversione conclamata come l’ha definita ieri Ezio Mauro. Un’eversione non più sottesa o malcelata ma eletta a programma politico annunciato, declamato in pubblica piazza e perseguito con disperata ma geometrica potenza. Del resto la straordinaria gravità di quanto accade è nella necessaria reazione che il Capo dello Stato, supremo garante dell’ordine costituzionale, ha dovuto mettere nero su bianco, consegnando suo malgrado anche al resoconto documentale della storia repubblicana, la fotografia di una sedizione senza precedenti che si riteneva impossibile dover registrare in una democrazia occidentale nel terzo millennio. È la riaffermazione di principi basali di uno Stato di diritto che il Presidente della Repubblica ha dovuto ufficialmente sottolineare, essendosi superato ogni possibile limite e avendo lo stesso Capo dello Stato fatto esercizio del massimo possibile di pazienza costituzionale a partire dalla già inquietante occupazione manu militari del tribunale di Milano, che i parlamentari del Pdl inscenarono all’alba di questa nuova e definitiva escalation eversiva.
Tutto questo riesce persino a mettere in secondo piano la pur straordinaria gravità dei fatti per cui Berlusconi è stato condannato, per altro verso trascurati dai troppi che solo adesso appaiono scoprire quello che sin dall’inizio era ben chiaro. Non c’era purtroppo spazio per alcun serio progetto di larghe intese con chi persegue come unico e irricevibile punto di programma il salvacondotto di un condannato.
Senza dire poi che a sancire un definitivo giudizio politico bastava quanto affermato dalla stessa difesa del Cavaliere davanti ai giudici dove infine si riconosceva l’enorme e straprovato sistema di frode fiscale orchestrato dalla sue aziende, cercandosi soltanto di sostenere come non raggiunta la prova sulle sue personali responsabilità penali. Bastava fermarsi qui, alle sue stesse parole e domandarsi se potesse avere un ruolo politico e istituzionale di qualche minima spendibilità il proprietario di imprese che si riconosce abbiano scippato all’erario e quindi a tutti noi, centinaia di milioni di euro a diretto beneficio del padrone.
Ma ora che lo Stato di diritto, comprovata anche la sua responsabilità penale, sta imponendo la dovuta interdizione alle cariche pubbliche, una logica proprietaria bulimica e ipertrofica impone di piegare definitivamente anche quel che resta delle istituzioni rappresentative. Dopo aver comprato con ogni mezzo donne, giudici, testimoni e forse anche senatori per ribaltare governi in carica, non si accetta che non proprio tutto alla fine si possa acquistare. Si materializza così non solo il finale di fiamme del Caimano di Moretti, ma anche la ballata sublime e angosciante che al cavaliere dedicò il grande Benigni: “Io compro tutto dall’A alla Z ma quanto costa questo c.... di pianeta. Lo compro io. Lo voglio adesso. Poi compro Dio, sarebbe a dir compro me stesso”.

l’Unità 28.9.13
Camusso: la Fiom non firmi contratti di altri
di Massimo Franchi


Nel secondo giorno dell’Assemblea nazionale della Fiom a Rimini arriva l’atteso intervento di Susanna Camusso. Il segretario generale della Cgil strappa applausi da una platea che conosce bene ma che in passato aveva riservato fischi a molti esponenti della segreteria generale. I passaggi più delicati e importanti per la situazione dei metalmeccanici sono così riassumibili. Sul tema della richiesta alle altre organizzazioni metalmeccaniche di tornare al tavolo solo dopo aver firmato il contratto, Camusso è stata chiarissima: «È inaccettabile che Fim e Uilm chiedano alla Fiom di firmare gli accordi separati». I rapporti con gli altri inquilini di corso Trieste 36 sono ancora pessimi. E il segretario della confederazione auspica un miglioramento partendo da una lezione storica: «Nella divisione al massimo ci si difende ma non si può avanzare, le stagioni delle conquiste sindacali infatti sono state tutte unitarie». Ma precisa Camusso allo stesso tempo che «per un avanzamento della situazione non può avvenire con la resa di qualcuno».
Per «avanzare» dunque lo strumento è quello dell’accordo del 31 maggio con Confindustria, sul quale si spera di arrivare ad una applicazione in tempi brevi. Un accordo che prevede «la consultazione certificata» dei lavoratori sui contratti nazionale, cara alla Fiom, in parallelo con l’esigibilità dei contratta e la certificazione degli iscritti che, sottolinea Camusso citando Landini, «porta ad una maggiore responsabilità» anche per la Fiom. Anche per Landini infatti «l’accordo sulla rappresentanza è lo strumento che può superare gli accordi separati e permettere di riaprire il confronto partendo dal tema della democrazia sindacale».
L’altro tema delicato è quello del congresso. E qui Camusso ha ribadito l’idea di una assise partecipata soprattutto «sui luoghi di lavoro», l’unico modo per «coinvolgere e rimotivare» iscritti e lavoratori. ll congresso dunque «dovrà essere davvero libero» e per esserlo serve «non discutere sui documenti ma delle cose da fare» con «emendamenti» su un testo snello e unico «che potranno arrivare da gruppi di lavoratori». La chiusura è tutta improntata all’unità. Riferendosi alle divisioni passate Camusso ha detto: «II noi e voi è la morte della nostra organizzazione, siamo una cosa unica, una sola famiglia».
Landini commenta così le parole di Camusso sul congresso. «Concordo sul fatto che il congresso dovrà essere libero, ma dovrà affermare anche una reale pratica democratica tale da permettere che le idee e le proposte che esistono dentro la Cgil possano confrontarsi senza produrre separazioni, ma mettendo gli iscritti e le iscritte nella condizione di partecipare alle scelte della Cgil in questa fase delicatissima. In più conclude Landini il congresso dovrà parlare e coinvolgere anche i non iscritti e i giovani che vivono in una situazione di grave precarietà».
Nella chiusura di oggi Landini rinnoverà l’invito a Fim e Uilm di uno sciopero generale unitario «su obiettivi molto precisi: evitare la chiusura delle fabbriche, la richiesta di una politica industriale, favorire i contratti di solidarietà e una redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori».

La Stampa 28.9.13
Dossier /Il carico fiscale
Le tasse al contrario Ai poveri aumenti più forti che ai ricchi
Un’analisi delle aliquote Irpef regionali
di Marina Cassi


L’accusa dei sindacati «Al di sotto dei 15 mila euro il prelievo dell’imposta produrrà un aggravio del 37,4%, mentre per i redditi al di sopra dei 28 mila euro c’è addirittura un decremento, del 2%».

Alla faccia dell’equità: nel 2013 l’Irpef regionale penalizza chi sta peggio. Lo sostengono Cgil, Cisl, Uil regionali che hanno fatto due conti e scritto all’assessore regionale Gilberto Pichetto Fratin per dirgli che così non va. Chiedono che le norme cambino e annunciano iniziative di protesta.
Fanno esempi pesanti. Scrivono: «Al di sotto dei 15 mila euro il prelievo dell’imposta produrrà un aggravio di ben 37,4%, in media 60 euro in più all’anno, mentre per i redditi al di sopra dei 28 mila euro c’è addirittura un decremento, pari in media al meno 2%».
E non basta perchè le tabelle dimostrano che chi ha più 75 mila euro page quest’anni rispetto al 2012 1280,20 euro contro i 1297,50 dell’anno prima. In sostanza «risparmia» 17 euro pari al meno 1,35%. Quindici euro sborsa meno chi ha un reddito di 55 mila euro, 10 chi arriva ai 30 mila, quasi 10 chi ne ha 28 o 25 mila.
Ma a sorpresa ecco che chi ha un misero reddito di 10 mila euro paga quest’anno 46 euro in più con un incremento del 37,4%. Peggio ancora per chi ha 15 mila euro di reddito che tira fuori 69 euro in aggiunta.
Questo squilibrio ha suscitato la protesta di Elena Ferrod ella Cgil, Giovanna Ventura della Cisl e Lorenzo Cestari della Uil che hanno scritto la missiva. Dicono: «La mancata riforma del prelievo fiscale in Piemonte che da tempo invochiamo ha prodotto le storture particolarmente evidenti per l’addizionale all’Irpef regionale».
E aggiungono: «Occorreva non gravare sui redditi più bassi da lavoro e da pensione già fortemente colpiti dalla crisi e incidere più che proporzionalmente su quelli più alti. Analogamente è stata completamente abbandonata dalla giunta l’idea di individuare gli strumenti per agevolazioni o sgravi fiscali in relazione a tipologie di reddito e carichi familiari». I sindacati confederali chiedono l’immediato ritiro di questo provvedimento «iniquo e regressivo».
Ribatte alla lettera aperta inviata dai sindacati confederali il vice presidente e assessore regionale al Bilancio, Gilberto Pichetto Fratin, che precisa: «La Regione è perfettamente consapevole dello squilibrio venutosi a determinare limitatamente a quest’anno». Ma assicura: «Lo squilibrio è conseguenza del passaggio obbligatorio, previsto dalla legge, dal sistema delle classi a quello degli scaglioni. Tra l’altro si tratta di aliquote applicate nel rispetto di quanto previsto dal tavolo Massicci per il piano di rientro della sanità».
Non nega che ci siano stati effetti distorti però ritiene che siano «riferibili solamente al 2013 perché, come si ricorderà, per il 2014 è stata prevista una formula di tassazione differente che, pur mantenendo l’obbligatorietà degli scaglioni, allevierà comunque il disagio dell’incremento Irpef ai redditi più bassi, spostandolo su quelli più elevati».
Pichetto non ha dubbi: «La Regione in queste settimane sta comunque mettendo a punto una nuova forma di alleggerimento fiscale che, ispirandosi all’istituto del quoziente familiare, permetta ulteriori detrazioni in base a determinati casi di disagio, economico e non solo».

il Fatto 28.9.13
Italiani nati all’estero e ius soli
di Francesca La Marca

deputata Pd

Gentile direttore. Sono una deputata al Parlamento italiano eletta nella Circoscrizione Estero. Dopo aver letto su ilfattoquotidiano.it   l'interessante articolo di Pio d’Emilia del 27 maggio 2013 intitolato “lus soli, i figli di italiani che vivono all'estero senza assistenza sanitaria gratuita” ho accolto il vostro suggerimento (...) e ho presentato In Commissione Affari Sociali e Sanità una Interrogazione a risposta immediata al ministro della Salute chiedendo l'estensione delle cure ospedaliere urgenti gratuite anche al cittadini italiani nati all'estero che rientrano per un soggiorno temporaneo in Italia. Ho chiesto al ministro della Salute di eliminare la disparità di trattamento tra cittadini italiani residenti all’estero nati in Italia e cittadini italiani residenti all’estero nati all’estero.
ATTUALMENTE (...) solo i nati in Italia hanno diritto alle cure urgenti ospedaliere gratuite, in caso di necessità, durante un soggiorno temporaneo in Italia, mentre ai cittadini italiani nati all’estero tali cure vengono erogate a pagamento, spesso molto oneroso. Sovente si riscontrano situazioni paradossali per cui in una famiglia di cittadini italiani residenti all’estero che rientra per un soggiorno temporaneo in Italia, i genitori hanno diritto alle cure gratuite e i figli – anch’essi cittadini italiani – devono pagare. In realtà il Decreto del primo febbraio 1996 che ha introdotto le cure ospedaliere urgenti gratuite per i cittadini italiani residenti all'estero non esclude esplicitamente gli italiani nati all’estero. Si tratta quindi di una interpretazione restrittiva del ministero che contrasta in modo evidente con il diritto alla salute e all’uguaglianza tra cittadini sanciti dalla nostra Costituzione. Per cure urgenti si intendono, nella legge, le cure di pronto soccorso che non possono essere differite senza pericolo per la vita o danno per la salute della persona. Le cure ospedaliere urgenti gratuite, insieme alle cure essenziali, sono inoltre garantite agli stranieri irregolari in Italia, cioè privi di permesso di soggiorno, i quali hanno diritto, in base alla legge Turco “alle cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti ed essenziali, ancorché continuative, per malattia o Infortunio”. Si tratta di cure garantite gratuitamente, lo ripeto, agli stranieri irregolari in Italia, ma non ai cittadini italiani nati all’estero. È grande atto di civiltà garantire cure ai cittadini stranieri che ne hanno bisogno, ma allo stesso tempo sono fermamente convinta che tali cure debbano essere garantite, durante un soggiorno temporaneo in italia, anche ai cittadini italiani nati all’estero i quali vivono in Paesi con i quali l’Italia non ha stipulato accordi sull'assistenza sanitaria e siano sprovvisti di una copertura assicurativa pubblica o privata.
*Deputato del Partito democratico eletta nella circoscrizione America Settentrionale e Centrale

l’Unità 28.9.13
In Europa democrazia malata. E l’Italia peggiora
Nel rapporto Demos allarme per l’Ungheria ma anche per la Grecia
La denuncia dello strapotere mediatico del Cav e della corruzione
di Marco Mongiello


Aggressioni razziste in Grecia, autoritarismo in Ungheria, mafia e corruzione nell’Italia stravolta dalle battaglie giudiziarie di Berlusconi, deportazioni di Rom in Francia e schedature etniche perfino in Svezia. Da qualche anno in Europa le lancette della storia hanno iniziato a girare all’indietro e oggi la democrazia nel continente «non può più essere data per scontata». È questa l’amara conclusione a cui sono arrivati i ricercatori del think tank britannico Demos nel rapporto sullo stato delle democrazie europee, commissionato dal gruppo dei Socialisti e Democratici all’Europarlamento, tra cui siedono gli eurodeputati del Partito democratico.
Due settimane fa a Strarburgo il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, ha denunciato il deterioramento della democrazia chiedendo che l’esecutivo comunitario vigili come «un arbitro indipendente e obiettivo». Per anni i rappresentanti europei del Pd, e non solo loro, si sono sgolati per denunciare a Bruxelles le eclatanti violazioni alla libertà di stampa compiute dal Cavaliere e per anni Barroso ha fatto finta di non sentire, accogliendo Berlusconi con sorrisi e strette di mano. Poi è toccato agli eurodeputati della sinistra ungherese scontrarsi con il muro di gomma delle istituzioni comunitarie, mentre il premier Victor Orban violava ogni principio costituzionale possibile, e poi ancora ai greci, allarmati per il dilagare dei neonazisti di Alba Dorata, e alle tante organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani e minoranze. Niente da fare. La Commissione europea si fa sentire solo quando bisogna ridurre il deficit e oggi il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Gli indicatori di democrazia sono peggiorati in quasi tutti i Paesi europei e soprattutto nell’Est, dove molti si illudevano che l’adesione all’Ue funzionasse come una bacchetta magica. Oggi Bulgaria, Romania e Ungheria sono i Paesi più a rischio. Ma anche tra i vecchi quindici Stati membri dell’Ue i problemi sullo stato di diritto si sono accentuati, a partire da Grecia e Italia.
IL DECLINO DI ATENE
La Grecia, notano i ricercatori, è il Paese in cui la democrazia ha subito «il declino più significativo» e in cui continua a deteriorarsi a causa di «alta disoccupazione, corruzione, agitazione sociale, aumento dell’estremismo e un profondo malessere pubblico». L’Italia invece, si legge nel rapporto, «continua a lottare con corruzione endemica e crimine organizzato. La corruzione e il sottrarsi all’azione penale del primo ministro Berlusconi hanno minato la fiducia pubblica nelle istituzioni politiche e sociali» e il successo di Beppe Grillo e del suo movimento alle elezioni «riflettono la frustrazione del pubblico».
In un paragrafo dedicato al nostro Paese, intitolato «Mani non così pulite» i ricercatori ripercorrono brevemente gli ultimi vent’anni dominati dalla figura di Berlusconi e dai suoi scandali e si ricorda che tutt’ora l’Italia non ha ratificato la Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa. In un altro paragrafo, intitolato «Il complesso Berlusconi» si punta il dito contro lo strapotere mediatico del Cavaliere. Per misurare lo stato di salute della democrazia i ricercatori britannici hanno utilizzando cinque indicatori: democrazia procedurale ed elettorale, diritti e libertà fondamentali, tolleranza delle minoranze, cittadinanza attiva e soddisfazione per la democrazia. Sul primo indicatore si registra che in Italia «è peggiorato lo stato di diritto e il controllo della corruzione». Mentre sul terzo indicatore, quello relativo alla tolleranza delle minoranze, «tutti i Paesi al di sotto della media tendono ad essere nell’Europa dell’Est, ad eccezione di Austria e Italia».
Il rapporto suggerisce alla Commissione di adottare indici obiettivi per misurare il grado di democrazia in Europa e vigilare attentamente, come oggi fa con la disciplina di bilancio.
«La democrazia è una fondamento non negoziabile dell’Unione europea e su questo nessun Paese può riposare sugli allori», ha ammonito Hannes Swoboda, l’eurodeputato austriaco che guida il gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento Ue, secondo cui la Commissione dovrebbe «monitorare lo stato della democrazia e delle libertà civili in Europa in base a criteri obiettivi, attraverso la creazione di una pagella complessiva di giustizia». La democrazia «non va mai data per scontata e il rapporto Demos lo conferma», ha commentato David Sassoli, capo delegazione degli eurodeputati Pd. Secondo l’ex giornalista Rai in questi anni, «che avrebbero dovuto essere cruciali per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa», la Commissione europea è stata «spesso sorda e preda dei governi della destra e dell’ideologia del rigore», lasciando al Parlamento il compito di vigilare sui valori democratici. Per questo i problemi in Ungheria «o la concentrazione di potere mediatico in Italia hanno continuato praticamente indisturbati a far danni». Quindi, ha concluso Sassoli, «è importante che l’anno prossimo i cittadini facciano sentire forte la loro voce a difesa dell’Europa democratica, votando in tanti alle elezioni europee e contribuendo a determinare una maggioranza in grado di ribaltare le politiche che abbiamo visto fino ad ora».

il Fatto 28.9.13
In Svezia i rom schedati come razza da studiare
Lo scandalo della “lista nera” creata dalla polizia
Pratica iniziata negli anni 50, che prevedeva - fino agli anni 70 - la sterilizzazione forzata
di Michela Danieli


Stoccolma Schedare i rom come una “razza”, da studiare e codificare, in Svezia, è prassi. Una prassi attuata dalla Polizia, su precise direttive del Consiglio Nazionale datate 10 dicembre 1954, e che si è protratta sino a oggi, passando anche per le sterilizzazioni di massa perpetrate fino agli anni ’70. A trasformare in notizia sconcertante la drammatica verità storica sull’eugenetica, che solo l’ottusa ipocrisia scandinava poteva aver il coraggio di ostinarsi a negare fino a oggi, sono gli strascichi dell’inchiesta giornalistica condotta dal maggior quotidiano nazionale svedese, il Dagens Nyheter.
IN PRIMA BATTUTA la Testata ha annunciato l’esistenza di una lista di circa 4mila cittadini rom, tra cui bambini, schedati dal distretto di polizia di Skåne, una città del sud. Una sorta di “Gestapo” moderna che si è avvalsa della tecnologia per ricostruire nomi, indirizzi, estremi dei documenti di riconoscimento, gradi di parentela tra i singoli, discendenza delle famiglie. Unico il criterio applicato: l’etnia. Meglio: la razza. Il tutto archiviato in file sotto il titolo “Itineranti”. Subito si scatena la polemica, perché la notizia è di quelle destinate a varcare i confini nazionali, e a sfregiare l’icona del Paese (presunta) culla della legalità e della tolleranza.
Il ministro per l’Integrazione Ullenhag, definisce l’episodio “sconvolgente”. Alcune ore dopo arrivano le scuse pubbliche da parte della Svezia alla comunità rom, per bocca della ministro della Giustizia Ask. Il capo della Polizia però, fiutando odor di cappio, si affretta a precisare che la schedatura è frutto di iniziativa personale interna a quel distretto. Un caso isolato, dunque. Da Skåne, il commissario prima nega tutto, poi, quando il giornale pubblica la lista, precisa che alla classificazione razziale “non ha fatto seguito alcun provvedimento”. Viene da chiedersi quale fosse l’ambizione finale: forse un’elegante e silenziosissima deportazione di massa? La ministra della Giustizia, dopo la protesta popolare contro la schedatura, promette un’interrogazione parlamentare affinché venga disposta per la Polizia, una linea d’azione nazionale, finora mancante. Il giornalisti però non mollano: trovano e pubblicano il contenuto di un registro della polizia di Stoccolma risalente al ’96. In esso si dimostra come il gruppo speciale di polizia denominata “Sezione zingari”, avesse ricevuto dal Comune della capitale il compito di stendere un catalogo di biologia razziale. Tra i criteri di classificazione, il grado d’igiene, il livello d’intelligenza, la presunta differenza intellettiva tra uomini e donne (che conclude una netta superiorità dei primi) e la “capacità di connessione emotiva” che “in nessuno di loro sembra ampia”. Infine, la voce “Famiglie decenti”.
Insomma una perfetta radiografia antropologico-emotiva, da eugenetica. Vanno ricordate poi le campagne di sterilizzazioni di massa condotte fino agli anni ’70 su disabili e zingari, troppo prolifici e quindi pericolosi per la superiorità numerica della popolo svedese. Ma finora questo tasto non l’ha toccato ancora nessuno.

Corriere 28.9.13
«Via i Rom» E i socialisti incoronano il loro Sarkò
di Stefano Montefiori


PARIGI — Lo chiamano il Sarkozy di sinistra, ma Sarkozy non era arrivato a tanto. Manuel Valls è il ministro dell’Interno socialista, e l’unico membro del governo davvero popolare oggi in Francia grazie ai suoi modi risoluti contro la criminalità, l’estremismo islamico, l’immigrazione clandestina.
Critico in passato nei confronti delle durezze di Sarkozy e in particolare del famigerato discorso di Grenoble (2010) su nomadi e cittadinanza, Valls ha cambiato atteggiamento appena diventato ministro. E dopo una rincorsa durata oltre un anno, fatta di non poche dichiarazioni severe, negli ultimi giorni il ministro ha definitivamente perso ogni scrupolo retorico contro i Rom. «Sono popolazioni che hanno dei modi di vita estremamente diversi dai nostri, e che sono evidentemente in opposizione». «Non siamo qui per accogliere quella gente». «È illusorio pensare che risolveremo il problema delle popolazioni Rom unicamente tramite l’integrazione». «Solo poche famiglie vogliono integrarsi nella nostra società. La vocazione dei Rom è tornare in Romania e Bulgaria».
Di fronte all’obiezione che si tratta di cittadini europei, e che in ogni caso dal 1° gennaio 2014 Romania e Bulgaria faranno parte della zona Schengen e le espulsioni diventeranno inutili, Valls ha risposto: «Ciò che è in discussione, e non ancora deciso, è solo un’apertura parziale delle frontiere limitata ai soli aeroporti. Una misura che faciliterà la vita degli uomini d’affari, nient’altro».
Anche senza tenere inchiodata la sinistra a categorie — e ipocrisie — d’altri tempi, fa un certo effetto sentire un ministro socialista preoccuparsi della qualità di viaggio degli uomini d’affari, mentre invoca l’espulsione di massa per un’intera popolazione: non la parte che delinque ma tutta, in blocco, tranne «poche famiglie». Quando l’allora presidente Sarkozy aveva definito gli accampamenti illegali dei Rom «zone di non-diritto che non possiamo tollerare» e organizzato all’Eliseo una riunione sui «problemi sollevati da alcuni tra i Rom», sollevò l’indignazione della sinistra francese e anche dell’Unione europea, con la commissaria lussemburghese Viviane Reding pronta a evocare le deportazioni della Seconda guerra mondiale. Eppure Sarkozy cercava — almeno a parole — di restare al di qua del confine che separa la difesa della legalità dalla discriminazione. Il suo emulo di sinistra (secondo detrattori ed estimatori), Manuel Valls, sembra avere oltrepassato quel confine. Per questo la collega di governo Cécile Duflot (ministro ecologista all’Uguaglianza dei territori e all’Alloggio) ha protestato duramente, e in pubblico: «Valls è andato al di là di quel che mette in pericolo il patto repubblicano, non si può dire che esistono intere categorie di persone incapaci di integrarsi in virtù della loro origine. Ci siamo scandalizzati per il discorso di Grenoble considerandolo uno scandalo assoluto, e non possiamo usare gli stessi metodi, adesso che siamo al governo».
Duflot ha chiesto a Hollande di intervenire, ma per adesso il presidente tace. E dalla parte di Valls si è schierato, con entusiasmo variabile, tutto il governo. Le elezioni comunali di marzo si avvicinano, e il Front National di Marine Le Pen avanza nei sondaggi: non c’è ragione di cambiare proprio adesso una politica ben radicata. Secondo Amnesty International, da quando Hollande è presidente (6 maggio 2012) le espulsioni dei Rom sono aumentate: da 11.982 in tutto il 2012 a 10.174 nei primi sei mesi del 2013. Se costretto a scegliere tra Valls e Duflot, Hollande non avrà dubbi.

Repubblica 28.9.13
L’Austria verso le elezioni con l’incubo dell’ultradestra
In forte ascesa la Fpoe che fu dello xenofobo Haider
di Andrea Tarquini


VIENNA — Nuovo voto-chiave per il futuro dell’Europa, in un paese piccolo ma importante, domani, una settimana dopo le elezioni tedesche. L’Austria va alle urne per rinnovare il Nationalrat (Parlamento federale), e la grande sfida viene dalla destra radicale: la Fpoe di Heinz-Christian Strache è certa di un aumento dei consensi e punta a sorpassare la Oevp, cioè la Dc austriaca, strappandole il ruolo di secondo partito. Per la Grande coalizione guidata a Vienna dai socialdemocratici del cancelliere Werner Faymann con la Oevp è la prova del fuoco. L’ultradestra in ascesa, il possibile rafforzamento dei Verdi e l’incognita di nuovi partiti quasi in stile ‘grillino’, potrebbero negarle i voti per governare, e imporle la ricerca di un alleato.
L’Europa già ebbe a che fare una volta, nel 2001, col caso speciale austriaco: quando i democristiani allora guidati da Wolfgang Schuessel formarono una coalizione con la Fpoe radicale, xenofoba di Joerg Haider. Allora l’Unione europea, accodandosi aBerlino e di Parigi, varò sanzioni che poi si rivelarono inutili o controproducenti. Adesso, nel bel mezzo della crisi dell’euro, affronta appunto una dura prova del nove nella Repubblica alpina.
I sondaggi in teoria promettono bene per i socialdemocratici di Faymann: attorno al 28 per cento, la Spoe resterebbe primo partito, sebbene Faymann appaia incolore. «Quando viene a trovarmi a Berlino arriva senza idee, e di solito riparte convinto della mia opinione», si dice lo abbia descritto Angela Merkel. Masono i suoi alleati democristiani a temere. Nelle indagini d’opinione il partito del vice-cancelliere Michael Spindelegger oscilla tra il 22 il 26 per cento. Mentre la Fpoe del giovane, dinamico, aggressivo e telegenico Strache è data sicuramente sopra il 20, in corsia di sorpasso. Poco la preoccupa il partito-azienda anti-euro dell’85enne imprenditore austro- canadese Frank Stronach, che chiede la pena di morte per i killer di professione.
Rischi paradossali, in un’economia ricca e in crescita, con la minima disoccupazione dell’eurozona. Una campagna elettorale grigia, e duri scontri in tv tra socialdemocratici e democristiani, hanno indebolito l’immagine dei partiti storici. «Stai da troppo tempo al potere, lascia», ha detto Spindelegger al cancelliere. Mentre Strache, con i suoi duri slogan anti-israeliani e insieme contro la «criminalità straniera» e contro i «parassiti - stranieri, s’intende - che abusano del Welfare» finora ha sempre guadagnato. Ambienti vicini al suo gruppo hanno diffuso online vignette orride, con forni sul cui camino siede un turco ostruendo il fumo e impiegati austriaci che lo esortano a scendere «per far posto al prossimo, magari sei tu», o speculatori finanziari disegnati con chiari tratti ebraici. A Vienna, dove manca una Angela Merkel, domenica sera vedremo in che misura la destra radicale si avvicinerà al potere.

il Fatto 28.9.13
Grecia, l’Aventino di Alba dorata


Alba Dorata, il partito filo-nazista greco, minaccia di uscire dal Parlamento evocando urne anticipate. Ma il governo replica seccamente, escludendo qualsiasi ipotesi d’elezioni ipotizzando solo, nel caso, nuove consultazioni in quei collegi rimasti “or-fa n i ” dei loro deputati, che sono in tutto 18. LaPresse

il Fatto 28.9.13
Pussy Riot.  Peggiorata la salute di una detenuta


Ancora guai per le Pussy Riot; Nadejda Tolokonnikova, una delle esponenti del gruppo che era stata arrestata e condannata, dopo aver intrapreso lo sciopero della fame da lunedì 23 settembre è stata trasferita ieri nell’infermeria della prigione, a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute. A denunciarlo è stato il marito Piotr Verzilov che si è rivolto all’agenzia Interfax, spiegando che il medico e il direttore della colonia penitenziaria hanno giudicato la stato di salute di Nadejda “pessimo”. Tolokonnikova, 23 anni, sposata e madre di una bimba di 5 anni, è stata condannata nel-l’agosto 2012 a due anni assieme alle altre due componenti del suo complesso musicale, le Pussy Riot per aver cantato una preghiera punk con versi anti-Putin nella Cattedrale di Mosca. Una delle tre ragazze era stata scarcerata. Le altre due rimangono in cella, la pena si concluderà nel marzo 2014. Tolokonnikova è detenuta nel campo di lavoro femminile numero14 a Mordovia, a 600 chilometri a est di Mosca. Aveva cominciato uno sciopero della fame dicendo di essere stata minacciata di morte dopo aver denunciato le condizioni di lavoro nel campo.
In seguito la donna aveva affermato di essere stata privata dell’acqua e di essere stata costretta in una cella gelata. La direzione del carcere ha smentito.

l’Unità 28.9.13
Grosse Koalition, la Spd deciderà con un referendum
La prossima settimana i contatti con Cdu/Csu
Sul tavolo anche il Redemption fund
Nel programma socialdemocratico: salario minimo, più tasse per i redditi alti e patrimoniale
di Paolo Soldini


Toccherà agli iscritti al partito decidere se la Spd negozierà con la Cdu/Csu la formazione di una grosse Koalition. È questo l’orientamento che, secondo le indiscrezioni che circolavano, i massimi dirigenti socialdemocratici si preparavano ad esporre nella riunione a porte chiuse prevista per ieri sera a Berlino. L’ipotesi del referendum alla base è stata appoggiata da diversi esponenti di primo piano, tra i quali il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz.
Intanto, il presidente del partito Sigmar Gabriel, l’ex candidato alla cancelleria Peer Steinbrück e il capogruppo al Bundestag Frank-Walter Steinmeier hanno fatto filtrare l’ipotesi che già nella settimana entrante si avviino «sondaggi» con il partito di Angela Merkel per verificare l’eventualità di possibili convergenze. Si tratterebbe, comunque, di contatti assolutamente informali perché a decidere l’eventuale offerta di un vero negoziato, o a rispondere positivamente a una richiesta che venisse dai cristiano-democratici, sarebbero in ogni caso gli iscritti che voteranno nel referendum. Sarà il caso di ricordare, a questo proposito, che, essendo in Germania i partiti organismi di diritto pubblico, le deliberazioni espresse nelle dovute forme dalla base sono a tutti gli effetti impegnative per i dirigenti.
CONDIVISIONE DEL DEBITO
Annunciando il «sondaggio» con la Cdu in programma per la prossima settimana, il vice di Steinmeier, Hubertus Heil ha invitato alla prudenza. L’ipotesi di un esito positivo dell’eventuale negoziato dipende ha detto da quanto la Spd riuscirà a strappare agli interlocutori sulle questioni essenziali del proprio programma.
Tra queste si è appreso ieri – i dirigenti socialdemocratici annoverano anche il cosiddetto Schuldentilgung-
sfonds per i paesi dell’euro. Si tratta del Redemption Fund di cui si è parlato qualche mese fa: una forma di condivisione del debito di tutti i Paesi dell’Eurozona che dovrebbe escludere in ogni Paese le quote eccedenti il 60% del Pil. Il fatto che la Spd ne voglia fare uno dei temi della trattativa lascerebbe supporre che abbiano ricevuto qualche segnale di disponibilità da parte della Cdu, finora pregiudizialmente ostile ad ogni ipotesi di mutualizzazione del debito. Se fosse davvero così, si tratterebbe di uno sviluppo positivo nell’orientamento del governo di Berlino.
Heil ha aggiunto che i socialdemocratici intenderebbero porre sul tavolo dell’eventuale negoziato con i cristiano-democratici innanzitutto i capitoli del loro programma elettorale che riguardano le questioni del lavoro e della fiscalità.
Argomenti di confronto sarebbero la formulazione per legge del salario minimo garantito a 8,5 euro l’ora, che invece il governo attuale vorrebbe lasciare alla contrattazione tra le parti sociali, e le proposte per rendere più equa la tassazione generale, con un aumento dell’aliquota per i redditi più alti (la Spd propone il 49% oltre i 130mila euro) e l’introduzione di un’imposta patrimoniale.

Corriere 28.9.13
Ed il Rosso a tutto gas (il New Labour ormai è storia)
di Fabio Cavalera


LONDRA — Una, cento, mille lettere. Dibattito aperto nei giornali e nei blog. È tornato Ed il rosso. Con una forte iniezione di populismo di sinistra e con un discreto coraggio, il giovane Miliband si è ripreso il partito laburista togliendogli ogni residuo di blairismo. Il New Labour dei tempi d’oro, del decennio post Thatcher, è ormai «roba» da archivio, è un arnese arrugginito.
È nato il New Old Labour, un nuovo e vecchio labour, che vuole essere meno moderato e più progressista. Non anticapitalista però avversario dei banchieri coi quali andava a braccetto, movimentista e pacifista, ammiccante alle nazionalizzazioni (due mozioni votate all’ultimo congresso di Brighton chiedono di riportare sotto il controllo statale le poste e le ferrovie), deciso a mettere nell’angolo le sei «big company» dell’energia, i «sei predatori» che hanno alzato le bollette della luce e del gas per «ingrassare i loro profitti» e che saranno costrette a congelare per due anni i rincari se mai Ed il rosso dovesse vincere alle prossime elezioni, un partito che minaccia di dare agli amministratori locali il potere di confiscare le terre inutilizzate dai grandi proprietari per costruire migliaia di nuove case.
Addio indugi. La strada per cercare di conquistare Downing Street è tracciata. Se è quella giusta è tutto da vedere. Ma la metamorfosi piace all’anima radicale del laburismo e inorridisce gli architetti della terza via, del New Labour «cool» e modernista. Lord Mandelson contesta. Tony Blair si rifiuta di sottoscrivere l’endorsement a Ed Miliband. David Miliband, il fratello, è già scappato negli Stati Uniti. Sono ormai fuori dai giochi, dimenticati o sopportati.
Il New Old Labour è altra cosa e riaccoglie i nostalgici del socialismo. Si erano autoesclusi. Ora Martin Sheldon da Oxford manda queste righe al Guardian : «All’età di 92 anni ho aspettato a lungo un discorso come quello di Ed martedì scorso con politiche basate su principi socialisti. Dieci anni fa abbandonai il partito. Ed Miliband mi incoraggia a tornare. E spero molti altri come me». Sono in tanti, sì. Si sono svegliati dal torpore. E ora scrivono ai quotidiani e nei dibattiti in rete. Giovani no Tav inglesi e anziani reduci del marxismo accomunati dall’idea e dall’entusiasmo di condizionare il nuovo corso del partito.
Lo accusavano di non sapere scegliere. Di non volere sposare una causa. Lo tiravano di qui e di là. Ed Miliband ha deciso di essere Ed il rosso. Calcolo e scommessa assai rischiosi ma la sua partita per vincere nel 2015 è cominciata così: con una sterzata a sinistra per cavalcare il risentimento popolare e populista contro i mercati e contro le liberalizzazioni, per mettere in cantina le medaglie di Tony Blair mai citato, solo attaccato se non fischiato.
I conservatori hanno già cominciato il fuoco di sbarramento: torna il labour del collettivismo e dello sfascio sociale. Il Financial Times sfida Ed il rosso ad essere meno demagogo e più realista ma sentenzia: scelta astuta la sua (partire lancia in resta contro le sei «big company» responsabili delle bollette energetiche). Ceto medio o no non c’è famiglia britannica che non sia irritata per i rincari. Semmai dovrà spiegare come intende regolamentare i mercati, come intende conciliare i promessi investimenti per la sanità pubblica e per l’educazione con l’austerità fiscale e di bilancio. Ma Ed il rosso l’ha già preannunciato: il rigore non sarà abbandonato. Anzi. Ma pagheranno le banche e i patrimoni di elevato valore. Le note giuste per richiamare i radicali dell’Old Labour. Ci saranno altre capriole dialettiche perché voltare le spalle al centro sarebbe un suicidio preannunciato. Intanto pugni alzati.

Repubblica 28.9.13
Obama telefona a Rohani primo colloquio diretto dal ’79 è svolta tra Stati Uniti e Iran
Storico dialogo tra i presidenti: “Possibile un accordo”
di Federico Rampini


NEW YORK — Il ghiaccio è rotto. Per la prima volta in 34 anni, l’America e l’Iran si parlano al massimo livello. Lo rivela Barack Obama per primo, annunciando: «Ho chiamato io al telefono Hassan Rohani». Pochi minuti e arriva la conferma dal leader di Teheran, via Twitter: «E’ il primo contatto diretto dal 1979». Tra i due c’è spazio perfino per lo scambio di cortesie poliglotte. «Have a nice day», ha detto Rohani in inglese. «Khodahfez », gli ha risposto Obama in persiano («Dio sia il tuo custode »), dopo essersi scusato per il «terribile traffico di New York» durante l’assemblea Onu. Quando annuncia la clamorosa telefonata, parlando alla stampa, Obama è fiducioso: «Adesso un accordo onnicomprensivo tra di noi è possibile».
La svolta è storica, conferma i primi segnali di disgelo che i due si erano lanciati qui a New York. Parlando al Palazzo di Vetro martedì, Obama aveva salutato con ottimismo la “moderazione” del neopresidente iraniano. Aveva riconosciuto come legittimo il desidero del suo popolo di dotarsi dell’energia atomica a scopi civili. Aveva espresso la speranza che ai primi segnali concilianti di Teheran possa seguire un vero accordo. La posta in gioco: ottenere garanzie credibili che l’Iran non voglia costruirsi una bomba atomica, che destabilizzerebbe gli equilibri strategici in Medio Oriente minacciando anzitutto due alleati strategici dell’America come Israele e Turchia. A questo fine Obama aveva annunciato pubblicamente all’Onu il primopasso verso il ristabilimento di normali relazioni diplomatiche: «Ho incaricato il segretario di Stato John Kerry di avviare un dialogo bilaterale». Le due nazioni hanno rapporti diplomatici quasi inesistenti dai tempi della crisi degli ostaggi americani a Teheran, che seguì la cacciata dello Scià, nell’anno 1979.
Poche ore dopo quel discorso di Obama, era arrivata la replica di Rohani sempre al Palazzo di vetro. E con messaggi altrettanto incoraggianti. Rohani aveva espresso l’auspicio di un accordo sul nucleare «in tempi rapidi, dai tre ai sei mesi». Poi, in un’intervista allaCnn, aveva fatto un passo dall’alto valore simbolico denunciando l’orrore dell’Olocausto. Un’evidente rottura rispetto al suo predecessore Ahmadinejad che invece professava il negazionismo. Le grandi manovre avviate all’assemblea Onu non si erano concretizzate in una stretta di mano fra i due. La delegazione americana ciaveva provato, gli iraniani avevano preferito soprassedere. C’era già troppa carne al fuoco, e da Teheran arrivavano messaggi ostili dalle fazioni più radicali del regime, per prevenire l’avvicinamento agli Stati Uniti.Ma è stata solo questione di tempo. Pur senza incontrarsi in un faccia a faccia newyorchese, prima ancora che finisse la settimana Obama e Rohani sono riusciti ad avere il dialogo diretto, un contatto inaudito e impensabile ancora poco tempo fa.
Per Rohani si tratta del coronamento di una vittoria elettorale all’insegna della moderazione, per uscire dall’isolamento internazionale, ottenere un riconoscimento “di dignità” dall’America, e possibilmente allentare le sanzioni che hanno provocato pesanti disagi alla popolazione. In quanto a Obama, proprio l’ipotesi di un disgelo con l’Iran lo aveva distinto come una “colomba” durante la sua prima campagna presidenziale, nel 2008. Allora Obamaosò dire che lui era disposto a parlare con tutti, anche col diavolo, se questo poteva servire la causa della pace e gli interessi strategici dell’America. Il suo rivale di allora, il repubblicano John McCain, lo aveva accusato di ingenuità. Un fuori-programma a microfoni spenti aveva rivelato la battuta guerrafondaia di McCain che canterellava sul motivo di una celebre canzone dei Beach Boys (“Barbara Ann”) lo slogan “Bomb-Bomb Iran”, bombardiamo l’Iran. Le aperture di Obama potrebbero portare a risultati che sfuggirono a tutti i suoi predecessori.
Ora tutto si rimette in moto: il dossier nucleare, e possibilmente anche la questione della Siria. L’Iran è insieme alla Russia il protettore di Assad. Suitempi del negoziato nucleare, prima ancora di decollare da New York per tornare in patria, Rohani ha ribadito che non intende tergiversare. A ottobre il primo appuntamento è fissato a Ginevra in seno al gruppo 5 + 1 che include i membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania. Tra i dettagli cruciali ci sarà l’accesso degli ispettori internazionali a tutti i siti nucleari iraniani. Obiettivo primario per Obama è garantire che si fermino quei programmi di arricchimento dell’uranio suscettibili di sfociare nell’uso bellico dell’atomo. Resta da verificare quanto Rohani voglia insistere sul coinvolgimento di Israele nel trattato di non-proliferazione nucleare.

Repubblica 28.9.13
Il presidente iraniano ha specificato di aver avuto dalla Guida Suprema ampio mandato per trattare
Il via libera di Khamenei al negoziato con il Nemico
di Giampaolo Cadalanu


IL TEMPO delle bandiere a stelle e strisce bruciate in piazza è finito, il “grande Satana” non esiste più: quello Stato odioso che aveva coccolato lo scià, che aveva dato via libera all’attacco di Saddam Hussein, che continuava a considerare la Repubblica islamica come nemico numero uno, è in realtà «una grande nazione che sta cambiando rapidamente», come l’ha definita ieri Hassan Rohani. Il presidente iraniano aveva promesso di essere un innovatore e di voler migliorare i rapporti della Repubblica islamica con l’Occidente, ma adesso la svolta di New York dimostra che di fatto è un rivoluzionario.
Il via a colloqui distesi fra Teheran e Washington sembra destinato ad avere conseguenze planetarie, con una nuova distensione potenzialmente in grado di ridisegnare le mappe geopolitiche del Medio Oriente.
Parlando al Palazzo di Vetro, Rohani ha scherzato: «Credete che sia diverso da Mahmoud Ahmadinejad? », lasciando capire che le differenze con il suo predecessore sono ben radicate nel consenso del suo popolo. Evidentemente è lo stesso popolo che marciava brandendo le bandiere verdi contro la repressione del vecchio regime, dopo le contestate elezioni del 2009. È quella parte del paese che mal sopportava il pugno di ferro degli ayatollah e che sotto turbanti e veli ha continuato a coltivare un’apertura verso l’Occidente non rispecchiata nella politica dei vertici.
Adesso un filo di ottimismo è legittimo: appare difficile che l’ala più dura del paese, cioè i Guardiani della Rivoluzione e gli esponenti più retrivi del regime, siano in grado di “controllare” le aperture che l’offensiva diplomatica di Rohani lascia intravedere. È significativo in questo senso il basso profilo, apparentemente ricercato e voluto, della Guida suprema, quell’ayatollah Ali Khamenei che in passato aveva messo il suo peso per stroncare sul nascere ogni tentativo di evoluzione meno che ortodosso. Ma negli ultimi anni i rapporti fra Khamenei e l’allora presidente Ahmadinejad si erano fatti burrascosi, mentre il nuovo presidente è di fatto il prescelto dalla Guida. E Rohani lo dice apertamente: Khamenei è con me, ho da lui un ampio mandato a trattare. Insomma, anche il leader religioso è d’accordo, il gelo deve finire, l’Iran deve aprirsi all’Occidente.
Il nuovo clima potrebbe favorire sin da subito una ripresa economica, anche perché nel futuro dell’Iran non dovrebbero esserci più sanzioni economiche della comunità internazionale. Lo ha chiesto esplicitamente il ministro degli Esteri Javad Zarif, ma la risposta, anziché dal segretario di Stato John Kerry, è arrivata direttamente da Barack Obama: «Se ci saranno azioni significative, le sanzioni saranno alleggerite».

Repubblica 28.9.13
Neruda e il gigante
Quei funerali al canto dell’Internazionale
Quarant’anni fa moriva il poeta cileno. Lo accompagnarono nell’ultimo viaggio centinaia di giovani che sfidarono la polizia di Pinochet schierata
E un oratore d’eccezione, lo scrittore Francisco Coloane
di Stefano Malatesta


Pablo Neruda morì quarant’anni fa, nel settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe dei militari cileni. Anni prima era stato candidato alla presidenza del Cile, ma i medici a Parigi, gli trovarono una malattia che lasciava poche speranze e al suo posto venne eletto Salvador Allende, il primo e unico presidente delle Americhe che si autodefiniva marxista.
Così Pablo tornò in Cile per l’ultima volta perché voleva essere seppellito sulla spiaggia di Isla Negra vicino a Valparaiso, dove aveva costruito una casa come un “barco”, in cima alle dune, come se fosse stata spinta lassù dalle lunghe ondate del Pacifico. Era nato a Temuco, un paesetto del Sud, nascosto in quelle vallate che dalle Ande scendono verso il tratto di mare più pescoso del mondo, percorso dalla corrente gelida di Humboldt, dove si incontrano banchi immensi di sardine pescate con un sistema di idrovore, che in poco tempo ingoiano tutto il banco. Questi erano territori che appartenevano agli auraucani, grande popolo guerriero, gli unici indios che furono capaci di fermare i tercios spagnoli, guidati da Valdivia e di sconfiggerli. A Temuco, un posto dove piove sempre, non c’era molto da fare e si poteva anche morire di noia, ma il giovane Neruda passava molto del suo tempo ascrivere i suoi versi incantato dal rumore che facevano le gocce sulla lamiera di ferro ondulato, l’unica copertura delle case povere cilene. Quando costruì la casa di Isla Negra, fece ricoprire la sua camera da letto dello stesso materiale: quella pioggia lo faceva tornare giovane.
Non so bene perché Pablo non venne seppellito, come aveva desiderato sulla spiaggia di Isla Negra. Morì in un’altra casa seminascosta tra le montagne che dominano Santiago. Una costruzione pendula che stava tra la capanna di Tarzan sugli alberi e il rifugio del barone rampante di Calvino. Quando arrivai sul posto, insieme con tutti i giornalisti presenti in città e il mio amico Saverio Tutino, che era stato corrispondente da Cuba per l’Unità e Le Monde, trovammo cinque o seicento ragazzi venuti da tutto il paese con il rischio di essere catturati dalla polizia scatenata dai gendarmi di Pinochet.
Davanti alla casa di Pablo i ragazzi avevano di fronte centinaia di agenti dei servizi speciali che stavano fotografando e filmando tutti i presenti alla cerimonia. All’uscita del feretro, questi ragazzi alzarono il braccio sinistro con il pugno chiuso nel saluto comunista. Tutti sapevano che la sera stessa qualcuno avrebbe bussato alla loro porta, per prelevarli e spedirli all’isola di Dawson, nella Tierra del Fuego, un carcere infame da cui non era facile tornare. Ma nessuno di loro avrebbe rinunciato a dare l’ultimo saluto al loro più grande poeta. Poi qualcuno intonò l’Internazionale subito seguito da un coro potente che fece irrigidire gli agenti della polizia.
Io non ho un passato di militante comunista, ma anche io, come molti altri giornalisti, cantai l’Internazionale e forse avrei cantato anche Bandiera rossa, quello era il momento. Gli uomini dei servizi speciali che stavano a sentire quella canzone, posarono le macchine fotografiche per terra e tolsero i fucili mitragliatori dalla tracolla per puntarli contro la processione. Ma gli uomini della Cia che avevano appoggiato e manovrato il golpe dopo i primi massacri avevano consigliato la massima prudenza a Pinochet, soprattutto in presenza di giornalisti.
La tensione si allentò quando prese la parola un gigante dai capelli corvini, abbronzato come un marinaio. L’uomo indossava un maglione blu. Il gigante, che sembrava arrivare direttamente dallo stretto di Drake, fece l’elogio di Pablo con voce tonante. Alla fine molti ragazzi piangevano e i giornalisti avevano inforcato gli occhiali da sole per non fare vedere gli occhi arrossati.
Dopo il golpe sono ritornato due o tre volte in Cile, l’ultima una decina di anni fa, non per scrivere un reportage politico, ma per intervistare Francisco Coloane, il cantore del mondo australe che aveva scritto racconti bellissimi su Cabo de Hornos e sulla Tierra del Fuego. Io non lo avevo mai incontrato ma avevo contribuito a far diffondere i suoi libri in Italia. Negli anni precedenti qualcuno del governo, vergognandosi che la casa di Neruda fosse stata svaligiata dalla polizia durante i giorni del golpe, l’aveva trasformata in un museo recuperando tutta la meravigliosa collezione di Polene, le decorazioni di legno che Pablo aveva trovato in giro per il mondo.
Il pomeriggio tornai a Santiago per l’appuntamento con Coloane. Lo trovai seduto su un divano perché aveva avuto da poco una paresi ad una gamba e non riusciva a camminare. La casa aveva pochi mobili estremamente eleganti, di genere marinaro, alla parete era appesa una pelle di guanaco conciata dagli indios e si vedevano dappertutto utensili del folklore australe soprattutto ami e coltelli fatti di osso e magnificamente scolpiti e un paio di revolver che dovevano essere stati usati molti anni prima.L’accoglienza di Coloane fu estremamente calorosa, io rimasi incantato dai racconti dello scrittore che parlava delle sue avventure nell’estremo sud americano popolato una volta dagli indios yamanes e onas, sterminati dai terratenientes che si volevano impadronire dei loro territori per allevare i merinos.
Parlò ininterrottamente per tre o quattro ore e vedendolo un po’ affaticato lo interruppi per raccontare come era andata la mattina la mia visita a Isla Negra. E un po’ di sfuggita accennai che nel settembre ’73 io ero a Santiago e avevo partecipato ai funerali di Neruda, rimanendo molto impressionato da un oratore dalla voce tonante. Coloane, a sentire quello che stavo raccontando, diventò prima pallido con le mani che gli tremavano per l’emozione, poi tentò di alzarsi in piedi e solo allora mi accorsi che era un gigante, più alto di me, e aveva folti capelli che un tempo dovevano essere corvini. Con la sua voce diventata roca mi disse: «Non te requerde? Ero jo quell’oratore». Mi diede un grande abbraccio e poi consegnandomi un pennarello mi indicò il vasto quadro che stava di fronte al divano dove c’erano tutte le firme dei suoi amici e mi disse: «Vai al quadro e metti la tua firma sotto quella di Pablo».

l’Unità 28.9.13
Il film. I guerrieri della scuola
Ci sono bambini che rischiano la pelle per poter studiare
Un documentario del francese Pascal Plisson, nelle sale italiane, racconta l’eroismo quotidiano di tanti ragazzini del Terzo Mondo che non vogliono rinunciare all’istruzione
di Gabriella Gallozzi


ROMA JACKSON HA DIECI ANNI, VIVE IN UN PICCOLO VILLAGGIO IN KENIA ED OGNI GIORNO INSIEME A SUA SORELLA, FA 15 KILOMETRI A PIEDI NELLA SAVANA PER ANDARE A SCUOLA. Circa due ore di cammino, con una tanica d’acqua, una sacca con i libri in spalla e il pericolo costante della carica degli elefanti. Zahira di anni ne ha pochi di più, vive in un paesino arroccato sui monti dell’Atlante, in Marocco: la sua scuola è a quattro ore di cammino da casa ed ogni lunedì si mette in strada insieme a due compagne convinta che lo studio sia l’unica possibilità per cambiare la sua vita. Come loro anche Carlito, un ragazzino cresciuto in Patagonia che, tutti i giorni, con la sorellina percorre più di 25 kilometri a dorso di cavallo per arrivare nella sua scuola di là dai monti. E poi Samuel, undici anni del Bengala, India. Per lui tutto è ancora più difficile: una poliomielite lo costringe su una sedia a rotelle, malconcia e arrugginita. Eppure, anche lui, non perde un giorno di lezione, nonostante i quattro kilometri di percorso lungo il quale lo «spingono», letteralmente, i suoi fratelli minori.
Sono loro i protagonisti di Vado a scuola, l’incredibile documentario del francese Pascal Plisson che, molto applaudito allo scorso festival di Locarno, è nelle nostre sale per la Academy Two. Attraverso le quattro storie ambientate ai quattro angoli del mondo, il film si propone come un commovente apologo sul diritto all’istruzione. Sul potere dello studio e della conoscenza come arma per cambiare il mondo, vincere la povertà e le disuguaglianze sociali.
Col marchio Unesco e «Aide et action», un’organizzazione internazionale che lavora per l’istruzione, Vado a scuola racconta di una realtà così inimmaginabile per l’Occidente da sembrare addirittura una fiction. O almeno un’astratta metafora. Invece le storie di Jackson, Zahira, Carlito e Samuel sono drammaticamente reali. E il regista Pascal Plisson, da anni attivo in Africa, le ha selezionate ad una ad una proprio col sostegno di «Aide et Action». L’idea del film, infatti, è nata anche per lui dall’incredulità: dei ragazzini masai con delle cartelle in spalla che ha visto anni fa camminare solitari tra i pericoli della savana. Così si è messo in cerca di storie. E ne sono venute fuori tante.
«Abbiamo trovato una meravigliosa storia in Cina per esempio racconta lui stesso nelle note di regia -. Un bambino che percorreva un cammino lungo e pericoloso, perché il ponte che collegava la sua casa alla scuola non c’era più. Ma le autorità cinesi non gradivano che parlassimo delle difficoltà dell’accesso all’istruzione nel loro paese e ci hanno fatto sapere che stavano lavorando alla realizzazione del ponte. Siamo molto soddisfatti del risultato, naturalmente!!».
Sono piccoli guerrieri del diritto all’istruzione, i quattro protagonisti del film. Li seguiamo nel loro cammino a tratti, spaventati per i pericoli che corrono, a tratti increduli della loro ostinata consapevolezza. Zahira, per esempio, che vuole diventare medico, è la prima della sua famiglia ad andare a scuola. E forse, quello che colpisce di più, sono proprio i suoi genitori che la spingono al «cammino», in una terra dove l’istruzione delle ragazze è oggetto di divieti da parte degli integralismi religiosi. Anche la mamma di Samuel, il ragazzino disabile indiano, è una resistente a suo modo. Sono ben pochi, infatti, i genitori di ragazzi nelle «sue condizioni» che dell’istruzione dei loro figli ne fanno una questione di principio, rivendicandone il diritto. E Jackson, poi, il bimbo della savana. A colpire è l’ostinazione e la dignità. Dopo kilometri e kilometri di cammino ricorda alla sorella di mettersi a posto la divisa, per sfuggire alle prese in giro dei compagni. Ci tiene così tanto Jackson che per tener pulita la sua «uniforme» da studente, la lava nonostante la mancanza di acqua, cercandola sul fondo della terra che scava con le mani. «Siccome sono povero ha raccontato allo stesso regista dovrei essere sporco?». Lui, con la sorella, si sveglia ogni mattina alle 5e30 perché non vuole rinunciare neanche all’alza bandiera della sua piccola scuola. Arrivare fin lì è una sorta di battaglia. E lo sa bene pure il maestro che ad ogni appello, quando non manca nessuno tira un sospiro di sollievo, ringraziando il cielo per aver salvato i suoi coraggiosi studenti. Ai nostri, invece, consigliamo sicuramente la visione del film.

La Stampa Tuttolibri 28.9.13
Massimo Recalcati
“Il padre perfetto non è un padre esemplare”
Dall’Odissea alla Strada di McCarthy, i modelli di un ruolo difficile
Oggi lo psicoanalista è a Torino Spiritualità per parlare di Giobbe
L’esploratore dell’anima «Quante volte siamo stati come Giobbe, esposti al silenzio di Dio e orfani del capofamiglia?»
«I migliori genitori letterari sono vulnerabili come Ulisse: è questo che li umanizza»
intervista di Francesco Moscatelli


Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, docente di Psicopatologia del comportamento alimentare a Pavia e fondatore di Jonas – una Onlus che promuove la democratizzazione della psicanalisi – è uno di quegli accademici capaci di farsi capire da tutti. Look alla Jonathan Franzen, 53 anni, grande appassionato di letteratura americana, si occupa di nuovi sintomi (bulimia, anoressia, dipendenze, attacchi di panico) e, da quando i suoi saggi sul desiderio e sulla paternità hanno scalato le classifiche, è una presenza fissa a festival ed eventi culturali.
Professore, lei sabato (oggi, ndr) sarà a Torino spiritualità per parlare di Giobbe. Giobbe, l’uomo paziente della Bibbia, è stato una figura centrale nel­la letteratura novecentesca, da Jung a Joseph Roth, Bec­kett e Kafka. Partendo dalla sua riflessione sull’«evapora zione del padre», cosa testi­monia Giobbe all’uomo con­ temporaneo?
«Giobbe è l’icona della preghiera, dell’invocazione a Dio; è l’icona della non sufficienza dell’umano. Il problema è che se l’umano si costituisce sempre come un’invocazione rivolta all’Altro, come una preghiera, a partire dai primi vagiti con i quali viene al mondo, Dio resta inaccessibile e silenzioso. Di questo patisce Giobbe: della non risposta di Dio. È questo silenzio che lo sprofonda nell’abisso. Quante volte siamo stati Giobbe? Esposti al silenzio di Dio, orfani del padre. In effetti l’etimologia ebraica del termine Giobbe significa “Dov’è il padre?”».
Il suo discorso sulla paternità può essere sintetizzato nella frase: «Quel che resta del pa­dre è l’essere portatore del fuoco nella buia notte di un mondo senza Dio». Nei suoi li­bri cita come esempio il padre de La Strada di Cormac Mc Carthy, un uomo che nello scenario apocalittico in cui si svolge il romanzo trasmette comunque al figlio l’amore per la vita, un amore ancestra­ le, quasi biologico. Come si impara ad essere padri così?
«Il padre de La strada non è un padre esemplare. I migliori padri non sono padri ideali. La clinica psicoanalitica insegna che quando un padre si presenta ai suoi figli come l’incarnazione dell’ideale può generare sui suoi figli un effetto di oppressione che non favorisce affatto lo sviluppo della vita. Anzi. Quello che resta del padre, evaporata la sua potenza autoritaria garantita dalla forza della tradizione, è un padre che vive la propria vita con desiderio e che educa i propri figli non con la forza del provvedimento disciplinare o con il sermone morale ma con la potenza dell’atto, del dare corpo al proprio desiderio... Il padre de La strada decide di continuare a vivere giorno dopo giorno in un universo disabitato da Dio... Resiste. Non viene meno alla sua responsabilità illimitata, ma non pretende di essere colui che ha l’ultima parola su tutto, sul senso del bene e del male, della vita e della morte».
Cosa ha letto questa estate? « I fatti di Philip Roth che è un testo fondamentale per intendere il valore della scrittura e della poetica di Roth in generale. Ma è anche un grande libro sulla disperazione amorosa dove sesso e morte si miscelano in modo esplosivo. Roth ci pone di fronte non tanto all’estasi dell’amore ma a una vertigine e a un godimento mortale che sprofondano verso la distruzione reciproca. Poi ho letto per la prima volta Memorie di Adriano della Yourcenar: testo che restituisce una visione stoica della vita nei suoi affanni... La conquista e la difesa del potere, l’amore, l’ambizione, lo spettro della morte, l’eredità... Un altro libro che mi ha appassionato è stato L’adorazione , un saggio di Jean Luc Nancy sul cristianesimo... In estate cerco di evitare la lettura di testi psicoanalitici... È per respirare meglio...». Quali libri consiglierebbe a un padre di oggi? «L’Odissea, e poi quelli che cito nei miei ultimi lavori: oltre a La strada di McCarthy , Patrimonio di Philip Roth. Ma anche i film Million Dollar Baby eGran Torino di Clint Eastwood. In tutti i padri protagonisti di queste opere, sebbene in modi diversi, incontriamo una vulnerabilità che li umanizza profondamente. Ulisse compreso: Ulisse nomade, mendicante, extracomunitario, Ulisse che per amore di sua moglie e di suo figlio rinuncia al sogno dell’immortalità». Quale libro re­galerebbe a un figlio? «Non esiste un figlio in senso universale. A volte i regali dei genitori contengono l’aspirazione inconscia di rendere il proprio figlio adeguato al nostro ideale di figlio. Un vero dono implica la messa in valore della particolarità dell’altro che lo riceve. Tenere conto di questa particolarità comporta fare doni diversi a seconda delle diverse attitudini dei miei figli. In realtà sono i figli che devono trovare i propri libri». Nel suo Il complesso di Telema­co suggerisce che dopo i figli Edipo ­ che conoscono il con­flitto con il padre e il trauma della Legge ­ e i figli Narciso ­ prigionieri di un mondo che sembra incapace di ospitare la differenza tra le generazioni ­ oggi è il momento dei figli Tele­maco, che come il figlio di Ulis­se attendono il ritorno del Pa­dre, ovvero «una testimonian­za di come si possa vivere con slancio e vitalità su questa ter­ra». Secondo lei i figli di oggi hanno consapevolezza di que­sta attesa, di questo bisogno? «Non chiaramente. Ma è evidente che quello che manca oggi sono gli adulti. Sono loro che latitano, che anziché supportare i propri figli si comportano e vivono come dei figli smarriti. Quando però incontriamo la violenza, le pratiche distruttive, come l’uso della droga, o la riduzione del corpo a puro strumento di godimento, siamo di fronte ad una domanda muta... Questi figli sono dei Telemaco disperati. Domandano che ci sia un padre, ma lo fanno senza parole. Piuttosto con atti al limite del suicidio...». In Patria senza padri , che ha scritto con Christian Raimo, si è occupato dei «padri» della poli­tica italiana. Che modello incarnano oggi Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi ed Enrico Letta? «Berlusconi e Grillo appartengono all’antipolitica. Sono a loro modo padri eversivi. Certamente sono diversi i fantasmi inconsci che li abitano: in Berlusconi è il fantasma della libertà che comporta il vivere l’esistenza della Legge come un impedimento… Dalla parte di Grillo troviamo un fantasma adolescenziale di purezza: i grillini sono i puri e tutti gli altri gli impuri. È il tipico manicheismo dell’adolescente. Con la conseguenza di una sterilità di fondo della loro azione politica incapace di mediare e con tutte le contraddizioni di fondo entro cui finisce ogni integralismo. Letta mi pare viva sotto il segno del sacrificio sino al rischio di incarnare un vero e proprio masochismo morale. In Renzi invece, se saprà far girare il vento nella direzione giusta, vedo un potenziale Telemaco. Il suo sforzo è diametralmente opposto a quello di Grillo e di Berlusconi: non si tratta di demolire la politica e le sue istituzioni ma di rianimarla, di ridarle lo slancio del desiderio. Il carisma di Renzi è legato allo slancio vitale,alla giovinezza, al desiderio, all’apertura di un nuovo orizzonte... Deve però liberarsi dell’ideologia della rottamazione se vuole davvero essere un figlio giusto. Non può volere la pelle dei padri. Lacan diceva che per liberarsi dei padri bisogna essere in grado di servirsene».

Repubblica 28.9.13
Il compito più difficile è condividere l’amore per il sapere
La replica all’articolo di Massimo Recalcati sugli insegnanti
Su Repubblica del 20/9 l’articolo di Recalcati
di Pier Aldo Rovatti


Appena dopo aver letto l’articolo di Massimo Recalcati sui problemi dell’insegnare oggi (Repubblica, venerdì 20 settembre) sono andato a Pordenonelegge a parlare di scuola, anzi di “scuola impossibile”. L’occasione era fornita dalla presentazione di un fascicolo speciale della rivista
aut aut,curato da Beatrice Bonato e recante esattamente questo titolo:La scuola impossibile. Un titolo dal sapore freudiano che però è possibile intendere in due modi, uno decisamente più nobile, appunto quello di Freud, e cioè che l’insegnamento non è un compito che si possa ridurre dentro regole prestabilite dato che è un compito incondizionato, incondizionabile e in tal senso “impossibile”; l’altro meno nobile e più terra terra, e cioè che oggi, in questa nostra scuola, in questa determinata società, insegnare è un’impresa fallimentare per una spaventevole quantità di motivi, materiali e culturali, che tutti insieme costituiscono i ben noti “guai” della scuola italiana. Una scuola che avrebbe bisogno di essere strutturalmente rianimata.
Eppure l’insegnamento resta l’obiettivo e perfino il desiderio principale di una parte consistente della giovane forza lavoro intellettuale: la destinazione che moltissimi vorrebbero raggiungere, se solo riuscissero a valicare le strettoie e le griglie concorsuali, una destinazione che darebbe loro un posto di lavoro in condizioni appunto difficili e per un salario alquanto avvilente. Che cosa sorregge questo loro desiderio di insegnare? Sono una massa di masochisti? Al contrario, sembra che essi apprezzino proprio il lato nobile dell’insegnamento e la sfida che gli appartiene. Forse rimarranno incrodati in parete, ma il rischio dell’impresa supera — nel suo potere di attrazione — il calcolo presumibile dei danni personali. A guardar bene, ci si accorge che ciò che attira è precisamente quella “impossibilità” del compito di insegnare che si lega con evidenza tanto al sapere quanto alla relazione con gli altri. Immagino che fin qui Recalcati sia pienamente d’accordo. Qualche differenza potrebbe nascere nel momento in cui andiamo a vedere cosa significano, oggi, per l’insegnante, il “sapere” e la “relazione”, perché essi non possano mai essere separati, come non si possa insegnare l’“amore per il sapere” senza mettere ogni volta in gioco il complicato rapporto tra insegnante e allievi (un rapporto che non è sufficiente impacchettare nella parola “seduzione”).
Quanto al sapere, certo la scuola deve essere un apprendistato, un’educazione che insegni ad apprezzarlo in quanto tale, tuttavia il sapere non è mai qualcosa di chiuso in se stesso: è sempre un tessuto storico e sociale connesso al potere, un gioco di verità che è anche, ogni volta, un regime di verità, e insomma il sapere non sta in alto e fuori, bensì in basso e dentro, nella concretezza delle pratiche reali. E, quanto alla relazione, è difficile negare che la scuola sia innanzi tutto una palestra di comunità e di socializzazione e che — nel caso contrario, cioè quando prevalgono altre istanze o si privilegiano altri obiettivi, per esempio l’apprendimento della disciplina — essa rischia di mancare clamorosamente al proprio mandato.
Per essere ancora più chiaro, vorrei sottolineare che l’amore per il sapere, per il fatto stesso di essere un “amore”, deve passare necessariamente per la relazione, cioè attraverso l’accomunamento e la socializzazione. Se ciò accade, si produce anche una trasformazione delle soggettività, una doppia trasformazione poiché riguarda al tempo stesso gli allievi e l’insegnante. Se l’insegnante non è toccato da tale processo la scuola gira a vuoto e costruisce una relazionalità bloccata e perfino negativa. So che Recalcati condivide la sostanza di queste riflessioni, volevo solo dare a esse una maggiore esplicitazione.

La Stampa 28.9.13
Il capolavoro di Albert Camus per il laico e l’uomo di fede
Nel centenario della nascita di Albert Camus il lettore indica «La peste» come libro fondamentale della sua vita
di Mario Calabresi, Locio Coco Bée


Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Albert Camus. Per questo motivo vorrei porre l’attenzione su un libro, La peste, che è stata una mia lettura ripetuta fin dai tempi giovanili. In particolare mi ha sempre fatto riflettere la figura di padre Paneloux, il sacerdote gesuita che si muove sulla scena di una città di Orano ormai sconvolta dal contagio e isolata dal resto del mondo.
Anche per questo religioso la peste è una scoperta. Nel senso che si può sapere tutto su di essa dal punto di vista clinico e medico ma non appena se ne cerca una motivazione che vada oltre il fenomeno stesso, una ragione metafisica oppure teologica, le cose non sono così facili. Per questo anche per il padre gesuita la peste rappresenta una scoperta. A motivo di ciò la prima predica di padre Paneloux ai fedeli di Orano riuniti in chiesa è solo l’inizio di un percorso di approfondimento che avrà esiti significativi nella esperienza spirituale non solo sua ma di tutta la comunità. La peste infatti che in quella circostanza egli evoca come flagello di Dio, la peste come punizione divina, sono temi di un registro troppo noto che possono impressionare e preoccupare l’uditorio ma non arrivano a incidere realmente sulle coscienze che si interrogano sulle cause di tanto male.
Ecco perché la seconda predica di padre Paneloux, che segue di circa sette mesi la prima (da maggio a novembre) è quella che davvero scava nel profondo e lascia un segno. La malattia non stava salvando nessuno, buoni e cattivi, santi e dannati, anziani e bambini. Anzi il tema del «dolore innocente» è proprio quello che precede e anticipa la sua omelia. L’aporia sollevata dal dottor Rieux (il medico degli appestati di Orano) al Dio-Amore dei cristiani, vale ancora oggi: «Mi rifiuterò sino alla morte – egli ha modo di dire al sacerdote – di amare questa creazione dove i bambini sono torturati». È il paradosso di sempre, del male che sovverte la fede, del dolore innocente, non necessariamente bambino, che reclama un perché. L’obiezione della sofferenza come via per negare Dio. L’umanesimo laico del dottor Rieux contro il dilemma di chi crede.
Il tormento scava i pensieri del padre gesuita più delle febbri della peste. Come risolvere questa contraddizione che la malattia presentava alla coscienza sua e di tutti? Perciò la religione del tempo di peste, egli dice in quel secondo e più sofferto discorso, non può essere la religione del tempo normale, dei giorni feriali. Non si potevano fare obiezioni:
, «Bisognava o tutto credere o tutto negare». Non ci si poteva opporre: «Era necessario arrivare a volere ciò che Dio voleva». Occorreva fare questo salto, apparentemente paradossale e assurdo, e far coincidere la nostra volontà con quella di Dio. È un passaggio difficile, ammette lo stesso padre Paneloux, che «suppone un totale abbandono di sé e il disprezzo per la propria persona. Ma Dio solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla». Ecco la difficile fede alla quale bisogna avvicinarsi: «Dobbiamo amare quello che non riusciamo a capire», così padre Paneloux sintetizza in maniera folgorante la sua teologia della peste e più in generale dell’incomprensibile.
È questo Dio che la religione del tempo di peste ci fa conoscere, un Dio che vuole che la sua volontà sia la nostra e che quasi ci impone di arrivare ad amare quello che non possiamo comprendere: «Ora ho capito quello che chiamano grazia», può dire alla fine padre Paneloux, indicandoci una condizione, quella appunto della grazia, nella quale le contraddizioni della vita, l’assurdo della vita, non scandalizza più ma trova ancora un senso e un orientamento, una risposta, si potrebbe dire, anche se non è quella che si vorrebbe. Con queste riflessioni mi faceva piacere ricordare Camus e il suo libro più noto. La sua ricerca infatti non cessa di alimentare solo il pensiero del laico ma anche quello dell’uomo di fede, nella misura in cui entrambi questi uomini condividono le stesse interrogazioni sul senso e sulle ragioni dell’esistenza.

Corriere 28.9.13
Edipo ed Omero. Un enigma, due destini
di Eva Cantarella


Per i greci, essere in grado di rispondere a un indovinello non era un semplice gioco. La vita stessa di colui che era sottoposto all'indovinello poteva radicalmente cambiare, a seconda della sua capacità o meno di risolvere l'enigma. Il caso più celebre è, ovviamente, quello di Edipo che salvò la città di Tebe sciogliendo un enigma che nessuno era riuscito a risolvere. La domanda postogli dalla Sfinge era stata: qual è l'essere che cammina ora a quattro gambe, ora a due, ora a tre? La riposta era: l'uomo, che da piccolo gattona, da adulto cammina eretto e in vecchiaia si appoggia a un bastone. Come ricompensa, tra il tripudio generale, Edipo divenne il re di Tebe e ne sposò la regina. Non trascurabile particolare: la regina era sua madre. Ma allora nessuno lo sapeva. Quel che accadde quando la cosa venne scoperta è ben noto. Qui basta ricordare il trionfo di Edipo e la gloria che, anche se solo temporaneamente, gli venne dall'aver saputo risolvere l'enigma. E passiamo al secondo caso, radicalmente diverso: per non essere riuscito a venire a capo di un enigma, Omero, nientedimeno che il grande Omero, si lasciò morire dalla disperazione. Ormai molto vecchio, era tornato all'isola di Kos, dove si diceva fosse nato. Un giorno vide un gruppo di pescatori che, scesi dalla barca, presero a spidocchiarsi: Omero chiese loro se avessero pescato qualcosa. E quelli: «Ciò che abbiamo preso lo abbiamo lasciato. Ciò che non abbiamo preso, lo portiamo con noi». Alludevano ai pidocchi: di quelli che avevano ucciso si erano liberati. Non altrettanto, invece, di quelli che erano rimasti sul loro corpo. L'umiliazione, la vergogna per non essere stato in grado di risolvere l'indovinello fu tale che Omero di lì a poco ne morì.

Corriere 28.9.13
Il paesaggio appartiene al popolo
L'articolo 9 della Costituzione, un patrimonio minacciato
di Corrado Stajano


Quando, nel 1947, l'Assemblea costituente stava discutendo sull'articolo 9 della somma Carta che riguarda la tutela del paesaggio, i giornali umoristici dell'epoca, non propriamente progressisti, andarono a nozze nell'ironizzare pesantemente, in malafede o incoscienti, su quel che significava quell'argomento focale per la vita di un Paese come il nostro. «Il Travaso» e poi «Candido» e «L'uomo qualunque» non lesinarono gli scherni, scrissero di ovvietà e di stupidità, come se la norma fosse una bizzarria degli uomini politici di allora. Basterebbero due film d'autore, Le mani sulla città di Francesco Rosi e Il ladro di bambini di Gianni Amelio, se non esistessero le ragioni della Storia, della Cultura e della Politica pulita a mostrare quel che è successo dopo e far capire com'era essenziale nell'Italia distrutta dalla guerra l'articolo 9 della Costituzione. Anche oggi non ha perso nulla della sua attualità.
Quattro autori — Alice Leone, storica; Paolo Maddalena, giurista; Tomaso Montanari, storico dell'arte; Salvatore Settis, archeologo, già direttore della Normale di Pisa, presidente del consiglio scientifico del Louvre — hanno firmato insieme un libro polemico e documentato, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, pubblicato da Einaudi (pagine 185, 16,50) che mette intelligentemente il dito sulle piaghe tormentose che seguitano a dilaniare un Paese disastrato, moralmente e materialmente, com'è l'Italia di oggi. Un libro che riesce a fondere la memoria di quel che accadde nel passato, con il presente e il futuro da ricostruire dopo il ventennio berlusconiano segnato dallo slogan «ognuno è padrone in casa propria».
Non era un'elegante astrazione intellettuale discutere quasi settant'anni fa del paesaggio e dell'arte come un fatto pubblico. Non fu, come scrive Alice Leone, né semplice né lineare, arrivare alla dizione dell'articolo 9. Rivolgimenti, mediazioni, scontri accesi, polemiche fuori e dentro gli schieramenti videro infatti contrapporsi interessi e scuole di pensiero. Non fu facile arrivare alla dizione definitiva: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Racconta Salvatore Settis, con amara nostalgia, che ci fu in Italia un tempo in cui la direzione generale delle Antichità e belle arti del ministero della pubblica istruzione poteva essere affidata a un uomo come Ranuccio Bianchi Bandinelli, «massimo archeologo italiano del Novecento e vigile coscienza della cultura europea»: la tutela delle bellezze naturali non può essere disgiunta da quella delle antichità e belle arti e deve essere sottoposta alla medesima regolamentazione legislativa, era il suo pensiero.
Sembra inimmaginabile un'idea così netta nella società dei consumi di oggi dove anche i beni culturali devono essere strumenti di «valorizzazione economica», dove — come documenta Paolo Maddalena — quei beni, violando la legge, sono diventati soltanto merce; dove trionfa la religione del privato; dove si costruisce senza vergogna, contro la volontà popolare, con l'avallo della Soprintendenza, un immenso parcheggio sotto e tutt'intorno alla più importante basilica milanese, Sant'Ambrogio; dove i prestiti selvaggi di delicatissime opere d'arte sono la regola, esportate all'estero come gingilli, utili più che altro a funzionari per i loro traffici di potere. (Pazienti viaggiatori hanno tentato più volte, per esempio, di vedere a Mazara del Vallo il meraviglioso Satiro danzante, sempre in trasferta come tanti altri capolavori, e hanno potuto esaudire il loro desiderio soltanto a un'esposizione alla Royal Academy di Londra dove il bronzo era ospite d'onore).
L'articolo 9 della Costituzione non nacque dal nulla. Il dopoguerra fu un momento fervido di riscatto e di comune visione del mondo di uomini e donne di diverse fedi e culture, dai liberali di gran nome come Benedetto Croce e Luigi Einaudi, al socialista Pietro Nenni, ai comunisti Togliatti e Concetto Marchesi al democristiano Aldo Moro all'azionista Piero Calamandrei che ebbero un ruolo essenziale nella stesura della Carta. La legge Croce del 1922 e la legge Bottai del 1939 furono il punto di partenza dei costituenti.
Tomaso Montanari spiega con chiarezza la sostanza dell'articolo 9: se la sovranità appartiene al popolo, com'è scritto nell'articolo 1, «anche il patrimonio storico e artistico appartiene al popolo. E la Repubblica tutela il patrimonio innanzitutto per rappresentare e celebrare il nuovo sovrano cui il patrimonio ora appartiene: il popolo».
Fu Concetto Marchesi, il grande latinista, a sostenere con energia la necessità di quell'articolo, voluto e difeso da costituenti di spicco. E fu Tristano Codignola a proporre con forza la parola «tutela», più completa della parola «protezione».
Che cos'è il patrimonio storico e artistico secondo gli autori del libro? «Non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio — cioè al territorio "della Nazione" — come la pelle alla carne di un corpo vivo».
Il libro (manca un indispensabile indice dei nomi) imposta un'infinità di problemi: la funzione delle Soprintendenze: Montanari propone una sorta di magistratura del patrimonio indipendente dalla politica; il perenne conflitto tra lo Stato e le Regioni competenti in materia urbanistica (un errore fatale dei costituenti); il consumo del suolo: l'8,1 per cento della superficie nazionale è coperta da costruzioni, la media europea è del 4,3 per cento. Dopo ogni terremoto, alluvione, disastro si piange (non per molto).
Chi deve provvedere, chi deve controllare i controllori? Lo Stato siamo noi, amava dire Calamandrei. E Bianchi Bandinelli: «Noi siamo, davanti al mondo, i custodi del più grande patrimonio artistico, che appartiene, come fatto spirituale, alla civiltà del mondo».
Ce ne siamo dimenticati. Spaesati tra Imu e Iva.

Corriere 28.9.13
Siti Unesco sempre più in pericolo. L’Arte minacciata da troppe guerre
di Francesco Battistini


Chiaro: è ancora troppo feroce la mattanza dell'umanità contemporanea, perché ci si preoccupi già dell'umanità precedente e di ciò che ci ha lasciato in eredità. Se ad Aleppo si tenta di spegnere l'inferno, chi perde tempo con la Moschea del Paradiso? Eppure, per i tesori mondiali dell'arte, pochi lustri sono stati neri come l'ultimo. Ce lo dice l'Unesco: le tombe sufi incendiate in Tunisia, i mausolei picconati a Timbuctù, le chiese d'Egitto carbonizzate, i musei copti saccheggiati, i mosaici bizantini, le fortezze crociate della Siria prese a cannonate.
Le pietre sono mute, ma fanno gridare questi danni collaterali delle rivolte arabe, delle offensive qaediste nel Nord Africa, della guerra religiosa fra sciiti e sunniti. Fra il 2004 e il 2008, l'organizzazione Onu aveva elencato sei siti minacciati da guerre e guerriglie. Dal 2009 al 2013 la lista è salita a ventuno, una dozzina solo nel Maghreb e nel Medio Oriente. Due anni fa, poco prima d'essere scannato, Gheddafi non ha esitato a bombardare le perle di Ghadames. Nei mercati di Beirut e di Amman succede ormai d'acquistare con una certa facilità statuette in pietra, vasi di ceramica, reperti di bronzo contrabbandati con le armi. Una ricercatrice americana, scioccata, s'è trovata fra le mani pezzi scomparsi dalla cittadella di Amapea.
L'Unesco a dire il vero è pure ottimista, perché parla solo delle meraviglie del mondo che tutti conoscono: per uno scempio come quello del museo egizio di Minya, che viene almeno fotografato e denunciato sul web, per un allarme lanciato sui resti romani di Palmira o sul Krak dei Cavalieri di Homs, quante sono le rovine che l'Unesco non ha mai censito e che i salafiti furiosi o i tombaroli curiosi devastano nei deserti del Mali o tra le oasi libiche? Il Metropolitan Museum di New York e il Dipartimento di Stato americano stanno mettendo a punto in questi giorni una «lista rossa d'emergenza» e sostengono che le bellezze archeologiche in pericolo, solo in Siria, sono 46. Il doppio di quelle che l'Unesco conta in tutta l'area. Gli ispettori per le armi chimiche vanno bene. Ma aspettare per le arti, in fondo, non dà un po' di dispiacere?

Corriere 28.9.13
Luciano Canfora al Festival del diritto
Malanni della democrazia. E anticorpi
di Antonio Carioti


Sarà Luciano Canfora a chiudere domani sera il Festival del diritto attualmente in corso a Piacenza. Per l'occasione, il filologo dell'Università di Bari, firma di spicco del «Corriere», riprenderà il filo del suo recente libro La trappola (Sellerio) sui sistemi elettorali. Il tema della manifestazione, giunta quest'anno alla sua sesta edizione, è «Le incertezze della democrazia». E non c'è dubbio che tra i fattori più insidiosi nel minare il sistema rappresentativo in Italia c'è l'incapacità delle forze politiche di riformare il famigerato «Porcellum», la legge elettorale promossa a suo tempo dal ministro leghista Roberto Calderoli.
Canfora però non si limita a constatare l'oggettiva difficoltà d'intervenire su una materia così delicata. A suo avviso il «piagnisteo» sull'argomento è «assiduo ma finto», perché in realtà i due maggiori partner dell'attuale zoppicante coalizione di governo non disdegnano per nulla una legge che permette di scegliere gli eletti dall'alto, con il sistema delle liste bloccate, e di ottenere un cospicuo premio di maggioranza, un vero e proprio «malloppo», con margini di vantaggio esigui.
Ideato e progettato dall'editrice Laterza, promosso dall'amministrazione comunale piacentina, dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano e da due atenei (l'Università cattolica del Sacro Cuore e il Politecnico di Milano), il Festival del diritto quest'anno intende approfondire, come spiega il direttore scientifico Stefano Rodotà, le cause che determinano in molti Paesi occidentali «un preoccupante abbassamento del livello degli anticorpi rispetto al rischio di derive neoautoritarie e alla negazione dei diritti».
Agli incontri in programma oggi partecipano, tra gli altri, Remo Bodei, Carlo Galli, Geminello Preterossi, Marco Revelli, Tamar Pitch.
In serata, è previsto il contributo del presidente della Camera Laura Boldrini, sul tema «Non c'è democrazia senza dignità», mentre domani interverranno a Piacenza il ministro delle Riforme costituzionali Gaetano Quagliariello e il cronista giudiziario del «Corriere» Luigi Ferrarella.
Un argomento attuale quanto scottante sarà toccato oggi da Sergio Romano, che segnala il rischio «di passare dalla democrazia alla iurecrazia» per il crescente condizionamento che esercitano sulle assemblee rappresentative e sui governi i giudici e i tribunali nazionali e internazionali, cioè organi privi di un mandato popolare. Il programma completo della manifestazione è sul sito www.festivaldeldiritto.it.

Corriere 28.9.13
L'esemplare microcosmo di una comunità «politica»
Come il far musica assieme dà valore al vivere civile
di Carlo Sini


Gli antichi Greci assegnavano alla musica il più alto valore educativo. Univano sotto il suo nome l'insieme delle arti dinamiche (danza, poesia e canto) e ne facevano il culmine della formazione. Noi moderni abbiamo perduto questa concezione organica in favore della specializzazione e della separazione delle discipline. È un fatto che le nostre arti pedagogiche sono più efficienti nell'informare che nel formare. Sulla formazione, come sul valore estetico dei prodotti artistici, svolgiamo una gran quantità di discorsi, talora ammirevoli, altre volte vacui, retorici e imparaticci, dimenticando che la formazione è anzitutto un'azione, una prassi, e non una chiacchierata di seconda mano. E il fatto è che proprio la pratica musicale, in particolare il far musica insieme, è un'azione fortemente educativa.
Oggi si lamenta che i giovani sono irrequieti e incapaci di concentrazione: giocano di continuo con i loro minischermi e messaggini, persino quando sono tra loro o addirittura mentre ascoltano una lezione. C'è qualcosa di inquietante in questa contemporaneità di azioni, ma anche qualcosa di potenzialmente virtuoso, se consideriamo invece la pratica orchestrale o la musica da camera. Qui ogni esecutore deve armonizzare il suo intervento con quello degli altri; deve collaborare a una finalità comune, senza imporre la propria; deve saper capire quando tocca a lui essere in primo piano e quando gli tocca invece di accompagnare gli altri; nel contempo deve suonare il suo strumento in modo impeccabile, maneggiandolo con grazia, delicatezza ed energia; deve osservare una adeguata postura del corpo e del respiro; leggere attentamente il suo spartito e contare mentalmente le battute, per andare a tempo con gli altri; deve ascoltare e ascoltarsi, guardare e guardarsi; se c'è un direttore, deve sempre tenerlo d'occhio e comprenderne le intenzioni interpretandone la mimica. Vi pare poco? Qui la simultaneità delle azioni è incredibilmente complessa, ma non è finalizzata a scopi privati e personali, bensì a un fine pubblico condiviso nel quale si compendiano ragioni estetiche, capacità tecniche, sensibilità di gruppo, amore dell'armonia collettiva, dedizione totale alla «cosa» e al suo successo (molto prima che al proprio): che cosa immaginare di più educativo, di più «democratico», di più civile e di più formativo? di più «morale»?
La pratica musicale, il suo gesto, è una vera e propria «matematica dell'esperienza vivente», cioè qualcosa di globale, di sensibile e di concretamente «sperimentale». Oggi siamo molto distratti dalla peraltro meravigliosa disponibilità di strumenti tecnici di registrazione: dimentichiamo che la musica va non solo ascoltata, ma anche guardata. Bisogna esporsi allo spettacolo meraviglioso di un quartetto d'archi al lavoro: bisogna osservare i respiri, gli sguardi, le movenze, il continuo dialogo dei corpi che si accompagnano, si sorreggono, si incoraggiano, si emozionano, si slanciano, tornano nei ranghi, accennano al ritmo, agli attacchi e alle battute: ecco l'esemplare microcosmo di una perfetta comunità «politica», razionale e insieme appassionata.
È accaduto che la musica sia stata utilizzata per il riscatto dei più miseri: per esempio nel '700 con i quattro conservatori (cioè orfanotrofi) napoletani, poi fonte di rinnovamento per tutta la musica europea; oppure con il jazz dei neri (il 45 giri fu la loro sala da concerto); oggi con le straordinarie orchestre venezuelane, costituite da ragazzini tolti dalla strada. Cammini di civiltà, non soltanto episodi di storia della musica. Analogamente va considerata l'azione della Società del Quartetto: diffondere in Italia la musica strumentale, messa in ombra da noi dalla grande tradizione del melodramma, fu (ed è) un'impresa pedagogica che mostrava di saper assegnare all'arte e alla cultura il suo ruolo verace: quello di promuovere la civile convivenza e di diffondere i sensi e i valori più alti dell'esperienza umana.

La Stampa 28.9.13
Bray: non esistono teatri di serie A e serie B
Il ministro della Cultura: la situazione è grave, l’intenzione è salvarli senza licenziare, ma tutti devono fare sacrifici
intervista di Sandro Cappelletto


Teatri in subbuglio Scioperi e manifestazioni contro l’approvazione - già avvenuta al Senato e in programma alla Camera per la prossima settimana del decreto «Valore Cultura», fortemente voluto dal presidente del Consiglio e dal ministro dei Beni e delle Attività Culturali Massimo Bray
I teatri d’opera, i dirigenti, i sindacati, i lavoratori, hanno reagito con scioperi, presidi, richieste urgenti di audizioni parlamentari, all’approvazione - già avvenuta al Senato e in programma alla Camera per la prossima settimana - del decreto «Valore Cultura», fortemente voluto dal premier e dal Ministro della Cultura.
Ministro Bray, nelle intenzioni sue e del governo il provvedimento intende «salvare» i teatri; ora però sono in molti a temerne la liquidazione.
«Il governo è convinto che i teatri d’opera italiani rappresentino una delle esperienze culturali più importanti della storia del paese. Devo però ricordare la situazione gravissima che ho trovato al mio arrivo al Ministero: 360 milioni di debiti complessivi delle Fondazioni, i patrimoni spesso azzerati, il rischio serio per alcune di esse di non poter sopravvivere».
La crisi è strutturale: le sole spese per il personale superano il contributo pubblico, diminuito negli ultimi dieci anni di oltre il 30%. Come se ne esce?
«Il decreto istituisce un fondo immediato per le più drammatiche situazioni di crisi, ma intende salvare tutto il settore e i suoi cinquemila posti di lavoro, in un momento in cui la crisi del lavoro è la prima emergenza. Non ci saranno teatri di serie A e altri di serie B, chiediamo a tutti un piano industriale rigoroso, il riequilibrio dei conti, il raggiungimento del pareggio finanziario. Se questo accadrà, se questo sforzo verrà fatto e condiviso, si potranno aprire nuove opportunità di occupazione».
Intanto, niente licenziamenti?
«No. Né cassintegrazione, né mobilità. Il decreto prevede che gli eventuali lavoratori in soprannumero siano occupati negli enti locali o al ministero».
Protestano in molti, e con diversi motivi: la Scala e Santa Cecilia chiedono che venga riconosciuta la loro specifica eccellenza, che ora vedono negata.
«Nell’applicazione del decreto troveremo le forme di governance più adatte per tenere conto della loro storia e della loro qualità. L’elezione del Presidente di Santa Cecilia spetta per statuto agli Accademici e alla loro autonomia, ma voglio ricordare che l’Anci e il suo presidente Piero Fassino mi hanno chiesto che il sindaco o un suo rappresentante continui, come accade ora, ad essere il presidente della Fondazione liricasinfonica della sua città per valorizzare al meglio il ruolo e l’attività dei comuni».
Molta preoccupazione, da parte delle istituzioni che più attirano finanziamenti dagli sponsor, anche per una nuova composizione del Cda che penalizzerebbe i privati. Che cosa cambierà?
«Nella revisione degli statuti potranno essere trovate soluzioni ed equilibri adeguati affinché nessuno sia penalizzato, tantomeno i privati».
Oggi, al Festival dell’Accademia Perosi di Biella, Cristiano Chiarot e Walter Vergnano, sovrintendenti della Fenice e del Regio di Torino, diranno che il decreto non fa differenze tra teatri mal governati e «virtuosi», comeiloro.
«Ripeto: l’intenzione è salvare tutti i teatri, senza perderne per strada nessuno. Chi è virtuoso, e i due esempi sono appropriati, sarà premiato con un ulteriore contributo pari al 5% del budget annuale erogato dal Ministero».
Il San Carlo di Napoli fa sciopero. Annullati i concerti di oggi e domani, che avrebbero inaugurato la stagione e dove era annunciato il Presidente della Repubblica. Una decisione pesante.
«Faccio un appello ai lavoratori del San Carlo. Il loro prestigioso teatro negli ultimi anni ha creato le condizioni per un effettivo risanamento, a fronte di precedenti gestioni molto discutibili. Ma è necessario ancora uno sforzo per un definitivo risanamento patrimoniale».
Il FUS continuerà a diminuire?
«Ne discuteremo in sede di legge di stabilità. Il nostro impegno per invertire la tendenza è massimo. Il ministro dell’economia Saccomanni ha dimostrato una forte sensibilità al tema, che ben conosce».
Molte istituzioni - tra loro il Piccolo Teatro, l’Accademia dei Lincei, della Crusca - protestano contro i tagli ai cosiddetti «consumi intermedi», spesi per manutenzione, ricerca, sviluppo, formazione. Una decisione irrevocabile?
«E’ una norma della spending review che reputo sbagliata. Il problema è riconoscere nelle istituzioni che si occupano di cultura quelle che sono capaci di avere una buona gestione. Non si può quindi penalizzare un’istituzione come il Piccolo che dimostra da anni la capacità di conciliare la qualità artistica con la gestione ordinata. Quanto a istituzioni come la Crusca o la scuola archeologica di Atene è assurdo che li si accomuni. Le attese che dobbiamo avere da queste istituzioni non possono essere di produttività, ma di eccellenza scientifica e culturale. E nessuno può dubitare del ruolo che hanno».