sabato 28 gennaio 2012

l’Unità 28.1.12
Subito cittadini italiani i figli degli immigrati nati nel nostro Paese
Dopo la sortita di Grillo, mentre la destra annuncia barricate, è urgente che la legge sul diritto di cittadinanza venga posta in Parlamento come una priorità. E il tema dovrà pesare anche in campagna elettorale
di Francesco Cundari


La necessità di riconoscere il diritto di cittadinanza a persone che da anni vivono e lavorano regolarmente nel nostro Paese per non parlare dei loro figli, che in Italia sono nati e cresciuti, proprio come noi dovrebbe essere scontata. Non è scontato però che nel nostro Paese la questione torni a porsi proprio nel pieno della crisi economica, mentre più forte si fa sentire tra i cittadini il peso della convivenza comune e delle comuni responsabilità.
Non era scontato, ma è indicativo, che sia stato Beppe Grillo a risollevare in questo momento la questione, naturalmente per stroncare la proposta, avanzata da un comitato composto da una larga rete di organizzazioni sociali (dalla Cgil alla Caritas, dalle Acli all’Arci) e presieduto dal sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio.
Grillo è infatti il leader politico che più di ogni altro ha puntato le sue carte sul risentimento, speculando al ribasso su tutto ciò che potesse alimentare la rabbia di un ceto medio sempre più povero e sempre meno “riflessivo”. È l’ultimo e meno originale campione della società civile in guerra contro partiti, sindacati e Parlamento. Ed è un segno dei tempi non meno indicativo, da questo punto di vista, che a rilanciare positivamente la proposta sia ora Gianfranco Fini, che del resto sul tema si era già esposto in passato, mentre Grillo (che il presidente della Camera definisce
«disinformato o prevenuto») riceve in compenso la «totale solidarietà» dei leghisti toscani. E riceve anche l’approvazione di politologi liberali che negli anni Settanta si rifugiavano oltreoceano per il terrore di un’imminente ascesa al potere del Pci, e oggi, per negare il voto agli immigrati, paventano il rischio di vedere i Fratelli musulmani a Palazzo Chigi.
La posizione di Grillo e della Lega che annuncia «barricate» in Parlamento contro ogni ipotesi di discussione sulla cittadinanza mostra una volta di più come il primo discrimine della lotta politica in Italia al tempo della grande crisi sia quello tra risentimento e carità. Tra coloro che si sforzano di ricostruire le condizioni minime della coesione sociale e della solidarietà, e chi specula sulla divisione, sulla rabbia e sulla frustrazione. Agli esponenti del Pd e del Terzo Polo che rilanciano le loro proposte e chiedono una discussione parlamentare, il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, replica che il tema è «fuori dall’agenda». Mentre alla Camera Fabrizio Cicchitto e Massimo Corsaro esplicitano un vero e proprio ricatto. «Sconsiglio vivamente di inoltrarsi su questo terreno in assenza di una intesa preventiva dichiara il primo a meno che non si voglia aggiungere un’altra ragione di contrasto in una situazione che già di per sé si presenta come seria e delicata». Più secco il secondo: «Chi insiste col voto sulla cittadinanza intende, senza ombra di dubbio, accelerare la fine della legislatura».
Se si volevano dare nuovi argomenti alla furia antipolitica di questa brutta fase, non si poteva fare di meglio. Il ricatto del Pdl, ovviamente, è inaccettabile. Per ragioni di merito e di principio: perché a nostro giudizio tutti coloro che vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia regolarmente devono godere degli stessi diritti (compreso, naturalmente, il diritto di voto). Ma è un ricatto inaccettabile anche per il momento e il contesto in cui si inserisce, perché il legame tra crisi economica, questione sociale e questione democratica è inscindibile. Dopo il drammatico risveglio dall’utopia del liberismo globale, che portava con sé un’idea di società fondata sul solo valore della competizione senza limiti, la scelta è tra ripiegamento nel particolarismo (corporativo, regionale, etnico) e rilancio di una diversa e più umana idea di sviluppo, apertura, integrazione. Un’idea di società che in questi anni di crisi, peraltro, si è dimostrata nel mondo anche economicamente più solida ed efficiente.
Questa è la ragione per cui la questione del diritto di cittadinanza non è affatto «fuori dall’agenda» del Parlamento, come dice Gasparri. Al contrario, ci sono i numeri e c’è il tempo per rimediare almeno agli aspetti più intollerabili dell’attuale legislazione, che lascia i figli di genitori immigrati, nati e cresciuti nel nostro Paese, nella condizione di senza patria. E ci sono tutte le ragioni, in ogni caso, per farne il punto numero uno del programma di qualsiasi formazione, cartello o coalizione si presenti domani agli elettori in nome della ricostruzione sociale e civile dell’Italia.

l’Unità 28.1.12
Rapporto Istat: è straniero l’8% della popolazione
Il rapporto Istat fotografa il Paese. Se la popolazione aumenta e sfiora i 61 milioni è solo grazie agli immigrati: i residenti sono cresciuti dell’8%. In calo gli italiani, in totale 56 milioni. Al Sud nascite in calo
di Marzio Cecioni


La popolazione italiana cresce, ormai è arrivata a quasi 61 milioni, (60 milioni 851mila, al primo gennaio). Ma gli italiani sono in calo, si fermano al 56 milioni, con una perdita netta di 65 mila unità rispetto al primo gennaio dell’anno scorso.
Ad aumentare sono gli stranieri arrivati a 4 milioni 859 mila (289 mila in più), e rappresentano ormai l’8% della popolazione complessiva.
LA FOTOGRAFIA
A mettere nero su bianco come sta cambiando demograficamente il Paese è l’ Istat, che segnala anche come dal Sud Italia si continui a «emigrare» verso le regioni del Centro-nord. A determinare il calo degli italiani è stata soprattutto la forbice che si allarga sempre di più tra nascite e morti: complessivamente nel nostro Paese nel 2011 sono nati 556 mila bambini, 6 mila in meno dell’anno precedente; mentre il numero delle persone morte è stato pari a 592 mila, 4 mila in più dell’ anno precedente.
Sono le donne straniere a fare più figli: ne hanno una media di due a testa a fronte di uno delle italiane, che decidono di diventare mamme sempre più tardi (a 32 anni). Proprio la loro presenza rende il Nord Italia la zona più prolifica del Paese (con 1,48 figli per donna), capovolgendo il luogo comune che vorrebbe il Sud il posto dove si fanno più bambini e che ora invece è diventato il fanalino di coda (1,35).
La regione che ha il tasso di natalità più alto (il 10 per mille, con 1,63 figli per donna) è il Trentino Alto Adige e la Campania è l’unica tra quelle del Sud con un livello riproduttivo superiore alla media nazionale, (1,43 rispetto all’1,42).
Mentre la Liguria abbina alla più bassa natalità (7,3) anche il più alto tasso di mortalità (13,3 per mille). Tra le sole cinque regioni in cui il numero dei nati supera quello dei morti, c’è di nuovo il Trentino Alto Adige, insieme a Campania, Lombardia, Puglia e Veneto.
SI VIVE DI PIÙ
Italiani meno prolifici, ma sempre più longevi. La speranza di vita è cresciuta ulteriormente e ha raggiunto i 79 anni per gli uomini e gli 84 per donne. E se dunque la popolazione femminile è ancora in vantaggio, quella maschile sta recuperando, visto che rispetto al 2008 guadagna in media mezzo anno di vita supplementare rispetto ai quattro mesi delle donne. Gli ottantenni costituiscono ormai il 6,1% della popolazione totale, e se la conta parte dai 65 anni, gli anziani rappresentano il 20% dei residenti.
Risiedono soprattutto nel Nord-Est e nel centro del Paese; ed è chi vive nella provincia di Bolzano ad avere la speranza di vita più alta (80,5 anni gli uomini, e 85,8 le donne). Avanza anche l’esercito degli ultracentenari, che ha superato la soglia di 17 mila.
Ben 600 italiani hanno compiuto 105 anni e il più vecchio di tutti ha 113 anni e vive in Veneto. È cresciuta anche l’età media: il dato complessivo è 43,7 anni, e se per gli italiani si è attestata a 44 anni, è ferma a 32 per gli stranieri.
Le regioni del Mezzogiorno hanno una popolazione relativamente più giovane: in Campania l’età media è di 40,5 anni e la quota della popolazione di 65 anni e oltre è pari al 16,5%; segue la Sicilia con un’età media di 42 anni e una quota di 65enni pari al 18,8%.

Repubblica 28.1.12
I diritti dei nuovi figli d’Italia
di Ezio Mauro


Gli opposti populismi, che sempre più parlano la stessa lingua in questa Italia in cui la politica si rattrappisce, hanno finalmente trovato un bersaglio comune, di alto rango: è la proposta di introdurre anche nel Paese dello "ius sanguinis" il principio dello "ius soli", concedendo la cittadinanza ai bambini che sono nati in Italia da genitori stranieri.
L´idea era stata sollevata dal segretario del Pd Bersani alle Camere, al momento della fiducia per il governo Monti; poi, rilanciata con forza dal presidente della Repubblica Napolitano, secondo il quale «negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati sarebbe una vera assurdità». Oggi anche il presidente della Camera Fini e il ministro della Cooperazione Riccardi riprendono il tema, come il presidente della Cei Bagnasco, e lo ripropongono all´attenzione delle forze politiche e del Parlamento: dove sono state presentate proposte di legge in questo senso, mentre nel Paese diverse organizzazioni stanno raccogliendo le firme per abolire la normativa del 1991.
Stiamo parlando di un milione di bambini, i figli degli stranieri residenti in Italia. Poco più della metà, 650 mila, sono nati nelle strutture del servizio sanitario nazionale.
Venuti al mondo, dunque, nel nostro Paese, in ospedali italiani, figli di immigrati che hanno scelto di vivere e lavorare qui e che iscriveranno questi bambini agli asili comunali e alle scuole italiane, perché crescano con la lingua, l´istruzione e la cultura del Paese che li ospita.
Ora, come vogliamo pensare al rapporto tra il nostro Stato e quei ragazzi che sono nati nel suo territorio, spesso dopo una fuga dei genitori dalla fame, dalla miseria e dalla dittatura? Nella storia delle loro famiglie questo Paese rappresenta una sponda di civiltà e di sicurezza, dove appoggiare un futuro di libertà e di speranza: e dove - proprio per queste ragioni - poter investire per la crescita dei proprio figli, la prima generazione che nasce e vive nell´Europa dei diritti e della democrazia, l´Europa dei cittadini e delle istituzioni, in quell´Occidente che racconta se stesso - e noi vogliamo crederci - come la patria delle libertà, dello sviluppo, dell´uguaglianza delle opportunità, addirittura della fraternità.
Quei bambini venuti a nascere in Italia, sanno di essere nati in un Paese libero, come uomini finalmente liberi. Ma sanno che non saranno cittadini, non diventeranno italiani. Studieranno la nostra storia, l´epopea del Risorgimento, le radici di Roma e dei Cesari, la Costituzione repubblicana, parleranno la nostra lingua con gli accenti dei nostri dialetti, lavoreranno nelle fabbriche e negli uffici, sposeranno magari italiani e italiane. Ma resteranno stranieri, qualunque cosa facciano anno dopo anno, comunque la facciano, soltanto perché sono figli di stranieri.
È l´ultima, nuovissima forma del peccato originale: una sorta di "peccato d´origine", incancellabile, in un Paese che ha paura della diversità perché ha incertezza d´identità (tanto che persino il dato storico del centocinquantenario dell´unità viene ridotto a polemica politica contingente), e teme la perdita della vecchia uniformità vissuta più come un mito della tradizione che come una realtà. Come può spaventare la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia? Come non capire che la stessa identità nazionale, oggi, è in movimento continuo esposta com´è al contagio di culture diverse, alla complessità del sociale, alla pluralità dei soggetti con cui dobbiamo non solo convivere, ma scambiare e interagire?
La paura della cittadinanza separa queste identità ed esalta le differenze, riduce gli individui ai gruppi di origine, ripropone di fatto il modello distintivo delle tribù dentro il contesto dilatato e avvolgente della globalizzazione. Col peccato d´origine, gli steccati sono per sempre e le culture vengono concepite come strutture statiche, che non possono evolvere o mettersi in movimento, ma devono rimanere immobili e soprattutto chiuse. È il disegno di una società spaventata in un Paese che vede l´immigrazione altrui solo come un problema, mentre esalta le proprie radici magari mentre nega la sua storia.
È evidente che l´immigrazione comporta anche un problema di sicurezza, di spaesamento, a cui bisogna rispondere. Ma proprio per questo, come si può pensare che la risposta sia un modello sociale per cui si vive sullo stesso suolo, sottoposti alla medesima sovranità, formati dalle stesse scuole ma con due livelli diversi di cittadinanza? Tutto ciò comporta differenze non soltanto sociali, ma nei diritti, cioè nella sostanza democratica che è a fondamento del nostro discorso pubblico. Col risultato - pericoloso - che la democrazia rischia di non avere sostanza concreta per una categoria di persone che vive in mezzo a noi, noi per i quali soltanto vale il concetto pieno e realizzato di società democratica.
Ma dal punto di vista delle generazioni future, persino dal punto di vista della sicurezza, domandiamoci che Paese prepariamo se c´è tra noi chi considera la democrazia come un concetto non assoluto ma relativo, addirittura un privilegio di alcuni, che contempla gradi minori e persino esclusioni. Dunque un concetto per nulla universale e nemmeno neutrale, ma strumentale, perché avvantaggia alcuni a danno di altri. E infatti, per gli altri non usiamo ormai nemmeno più il termine "straniero", che presuppone una dimensione culturale, una scoperta, un viaggio o un percorso, ma li riduciamo alla categoria geometrica, spaziale e binaria di "extra", dove conta solo l´esito finale: dentro o fuori.
Se guardiamo avanti, ai prossimi anni, l´idea di Paese che il rifiuto della cittadinanza propone è quella di uno Stato-armadio, dove è previsto che le diverse culture si vivano semplicemente accanto, separate ed appese ognuna alla sua presunta radice: culture condannate a riprodursi nella separazione, magari ostili, certamente diffidenti, per definizione impermeabili. Come se la libertà e la democrazia non avessero fiducia in sé e nella loro capacità di far crescere, di contagiare, di seminare valori in chi le frequenta, le pratica e ne beneficia.
Dicendo questo non penso alla cittadinanza come strumento di assimilazione e riduzione delle diversità. Penso che l´Italia può offrire a chi sceglie di vivere e lavorare qui dei valori come la democrazia e l´uguaglianza e un metodo per valorizzarli nella vita sociale, che è proprio la cittadinanza. Il nostro modo di vivere è una cultura, e come tale sarà per forza di cose influenzato dalla convivenza e dal confronto con gli altri, non è un modello, come ogni cultura è mobile e negoziabile, un sistema in movimento insieme con gli altri, nel gioco del dialogo, dello scambio, del confronto. Ma la democrazia non è una cultura, è un valore di fondamento, su cui si regge lo Stato e la sua convivenza. Uno Stato neutro rispetto alle culture diverse, non rispetto ai principi democratici.
Questo Stato non può dunque non preoccuparsi del rischio che livelli diversi di democrazia e di partecipazione ai diritti facciano crescere fenomeni pericolosi di marginalità, di alterità, di ghettizzazione (e autoghettizzazione). Solo l´emancipazione attraverso il lavoro e la cittadinanza è la possibile salvaguardia, è la vera inclusione. Solo così, può valere fino in fondo il richiamo alle nostre leggi, alla regola democratica in cui crediamo. Leggi che devono essere pienamente rispettate da uomini pienamente liberi, perché diventati finalmente - grazie al nostro Paese - compiutamente cittadini.

il Fatto 28.1.12
Imbarazzo tecnico
Profumo di doppia poltrona, le giravolte del ministro inamovibile
di Marco Palombi


Francesco Profumo si tiene la sua doppia poltrona, almeno fino al 16 febbraio. Lo ha spiegato ieri lo stesso tecnico uno e bino, l’uomo che è ministro dell’Istruzione e pure presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, ovvero controllato e controllore di sé medesimo e perciò incompatibile per legge.
LA NOVITÀ è che ora sappiamo il motivo per cui il nostro non schioda nonostante le richieste di tutte le sigle sindacali: lo fa per il bene del Cnr e perché ultimamente è stato sfortunato. Da qualche tempo, infatti, dovunque si insedi lo chiamano subito a ricoprire un incarico più importante: solo che a quel punto lui ha già avviato progetti che deve portare a termine. Come dice lui, è “costretto a restare”. Era successo già ad agosto, quando Maria Stella Gelmini l’aveva nominato alla presidenza del più grande ente di ricerca italiano mentre era rettore del Politecnico di Torino: su quest’ultima poltrona, per dire, ci è rimasto fino a novembre, quando è diventato ministro, perché “non s’era ancora concluso l’iter di approvazione del nuovo Statuto” con cui andare alla scelta del suo successore (si voterà a fine febbraio). Altro giro, altra frombola dell’avversa fortuna: il 16 novembre giura da ministro che è alla guida del Cnr da nemmeno tre mesi, ma anche lì ha già avviato progetti che vanno necessariamente portati a conclusione da lui.
“Intanto - ha spiegato ieri a palazzo Chigi – io non ho mai preso uno stipendio dal Consiglio perché ero ancora pagato dal Politecnico”. Quanto al perché resti su una poltrona che la legge gli sconsiglia di occupare, è semplice: “La mia grande responsabilità”. In sostanza, dice il ministro, “al Cnr avevo avviato una serie di attività nella direzione di una riorganizzazione: il bilancio preventivo è concluso, la due diligence e il piano strategico invece stanno per terminare. Quando termineranno, lascerò a un nuovo presidente. Il Consiglio ha bisogno di stabilità e processi così complessi non possono essere lasciati per strada”. Il problema è tutto lì: senza di lui, niente processi complessi. La legge, però, la 215/2004 per la precisione, è semplice e lui ne è già fuori: la norma prescrive infatti l’incompatibilità tra incarichi di governo e “funzioni comunque denominate in enti di diritto pubblico”. Chiaro, senza fronzoli, come l’ingegno dell’allora ministro della P. A. Franco Frattini, che la partorì per salvare Silvio Berlusconi (è la legge per cui il “mero proprietario ” di una concessionaria può fare il premier, l’amministratore delegato no). Anche sui tempi in cui il conflitto di interessi va risolto non ci sono molti dubbi: entro trenta giorni Profumo doveva comunicare all’Autorità Antritrust la sua posizione “doppia” e quella in massimo trenta giorni deve dire se il nostro è costretto alle dimissioni o no.
NEL CASO del ministro/presidente vuol dire che la faccenda andava chiusa entro il 15 gennaio. “L’Antitrust mi ha chiesto altri trenta giorni, quindi la procedura arriva al 16 febbraio”, ha spiegato ieri. Evidentemente i commissari non riescono ancora a capire se il Cnr è o meno un “ente di diritto pubblico”. Fortunatamente Il Fatto quotidiano ha la risposta. Lo è: se all’Antitrust non trovano la legge di riforma del 2003, possono sempre dare un’occhiata al sito del Consiglio, c’è scritto.

il Fatto 28.1.12
Agonie di carta
Chiudono 5 mila edicole, crolla il fatturato dei giornali: in sette anni perdono 1,7 miliardi
di Carlo Tecce


Le previsioni sono brutte per chiunque, anche per chi le racconta. Crolla il prodotto interno lordo, crolla il mercato dei quotidiani e dei periodici: si polverizza, lentamente. Otto anni fa, le vendite in edicola generavano introiti per 4,8 miliardi di euro, quest’anno riuscire a galleggiare sui 3 miliardi sarebbe un successo. La tendenza preoccupa quelli che seguono le curve sui grafici che tratteggiano uno scenario drammatico: ogni dodici mesi si perdono circa cento milioni di euro, un ritmo che si ripete dal 2004 e sarà costante (almeno) nei prossimi tre anni. Il Fatto Quotidiano è in possesso di un recente studio che fotografa la recessione di un intero settore: che comincia nelle redazioni, prosegue nelle tipografie e finisce nelle edicole. Un effetto domino che rispedisce i giornali al passato di lastre piombate e telegrafi di periferia: si vendono 4,7 milioni di copie al giorno come nel ’39. Vanno male persino i collaterali (libri, dischetti, francobolli, modellini), ostinata moda e fonte di salvezza negli anni 80: quest’anno avranno un giro d’affari di 350 milioni di euro, sette anni fa superavano il miliardo. La filiera perde pezzi e posti di lavoro: i distributori locali erano 168 nel 2004, scesi a 109 nel 2011; le edicole erano 35.500 nel 2004 e adesso ne mancano 5.000 all’appello.
NON C’È un segno positivo che possa risollevare il morale e, soprattutto, i bilanci aziendali. La pubblicità si trasferisce in massa verso le tv, e ignora la carta: le maggiori 200 aziende italiane e straniere, che investono quasi 4 miliardi l’anno, spendono l’8,5 per cento per i quotidiani, il 10 per cento per i periodici, lo 0,67 per la free press, ma il 60 per cento è riservato alle televisioni. Prima di lasciare la scrivania per una vacanza pagata a sua insaputa, l’avvocato Carlo Malinconico, sottosegretario per l’Editoria, pensava di creare un cervellone elettronico per le 30.500 edicole superstiti: un sistema digitale per scoprire, in tempo reale, dove scarseggiano copie e dove abbondano. La riforma poteva ridurre sprechi di carta e di trasporto e aiutare le aziende a migliorare il prodotto offerto e la presenza sul mercato. Il governo suggeriva ai quotidiani che ricevono il contributo pubblico di abbandonare la carta stampata per traslocare su internet. Il problema è il solito, però: anche in rete la pubblicità scarseggia, decine di siti d’informazione si dividono il 4,8 per cento di un mercato dominato dal televisore, cioè un paio di centinaia di milioni di euro l’anno.
LE SOCIETÀ che editano quotidiani e periodici possono guadagnare in due modi: pubblicità o vendite. La giostra pubblicitaria gira sempre nella stessa e identica direzione, e dunque favorisce le concessionarie di Mediaset (in particolare), Rai (in diminuzione), La7 (in crescita). Il circuito di vendite è come un esercito a ranghi ridotti: meno distributori, meno edicole. Un esercito debole farà fatica a vincere la battaglia per la sopravvivenza.

il Fatto 28.1.12
Rcs, rivolta dei giornalisti “Soldi pubblici per pagare sprechi”
Stati di crisi e cassa integrazione per i dipendenti Manager coperti d’oro nonostante il grande flop dell’operazione Spagna
di Giovanna Lantini


Milano. La Spagna non lascia dormire sogni tranquilli a manager e azionisti della Rcs. Con un nuovo, durissimo, comunicato nell’edizione di ieri, i giornalisti e i dipendenti del gruppo editoriale del Corriere della Sera insistono sul flop dell’acquisizione spagnola Recoletos e alzano il tiro su amministratori e azionisti. Arrivano anche le prime sfiducie ai direttori.
Proprio mentre vengono chiuse testate come il free press City ricorrendo alla cassa integrazione o ai prepensionamenti, con “un aggravio straordinario per gli enti di previdenza”, secondo i giornalisti di via Solferino “una casta (questa sì) di intoccabili non paga neppure il minimo pegno per le scelte scellerate in termini di politica aziendale, di investimenti (l’acquisizione della Recoletos spagnola è l’esempio più eclatante) che, ben oltre la crisi congiunturale, hanno portato al disastro”.
Il primo a fare le spese di una protesta sempre più agguerrita è stato ieri il direttore della Gazzetta dello Sport, Andrea Monti, che è stato sfiduciato ad ampia maggioranza dai suoi redattori.
DOPO IL DRASTICO comunicato di martedì, firmato dai rappresentanti sindacali di Gazzetta dello Sport, Corsera e poligrafici, ieri sono tornati alla carica i giornalisti del quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli. Questi ultimi hanno scelto la formula della lettera ai lettori per tenere alta l'attenzione sul braccio di ferro in corso con l'azienda che, per salvare il salvabile, ha deciso di puntare sulla cessione dell'immobile di via Solferino trasferendo la Gazzetta alla periferia di Milano insieme a tutti i poligrafici. Smembrando, quindi, la redazione del Corriere che si troverebbe a dover “comporre un giornale «bionico», le cui parti vengono costruite in luoghi diversi e poi assemblate con escamotage informatici”. Non solo. Nei disegni della dirigenza ci sarebbe anche la separazione del corpo redazionale dello stesso Corsera, con il trasferimento in via Rizzoli anche di alcuni giornalisti della testata. Una scelta che secondo il sindacato chiama in causa direttamente i lettori proprio perché avrebbe un effetto negativo sulla qualità del giornale. Il tutto per costruire l'ennesima pezza che il management vorrebbe piazzare per sistemare i conti con il passato.
Ossia, appunto, la disastrosa acquisizione del gruppo editoriale spagnolo Recoletos effettuata all'inizio del 2007 per la ragguardevole cifra di 1,1 miliardi dall'attuale amministratore delegato di Rcs, Antonello Perricone, affiancato tra gli altri dai consulenti di Mediobanca, primo socio del gruppo. Allora si stimava che l'acquisizione avrebbe portato al gruppo italiano valore economico per 127 milioni. A distanza di cinque anni, invece, Rcs che all'epoca era in sostanziale equilibrio finanziario, si ritrova con un indebitamento di 981,7 milioni e una partecipazione che, secondo i sindacati, ha un valore contabile “che supera di poco la metà dell'investimento iniziale”. E se la stima dovesse venire certificata in bilancio con una pesante svalutazione, gli stessi soci, già in agitazione per i passaggi di mano di alcune quote di rilievo e le variazioni in corso nei pesi della finanza italiana, potrebbero trovarsi davanti alla necessità di aprire il portafoglio per ricapitalizzare la società, pena perdere la presa sul salotto buono lasciando spazio a chi vorrebbe crescere. Naturale, quindi, che il management le stia studiando tutte per evitare scelte estreme. Anche perché in questi anni è stato lautamente retribuito: complessivamente tra il 2007 e il 2010 amministratori e sindaci sono costati alla Rcs 22,6 milioni. La fetta più importante è andata a Perricone che nel quadriennio ha incassato 5,21 milioni, uno dei quali riferibile a un bonus datato proprio 2007, anno in cui ai soci andò un dividendo di oltre 80 milioni.
HANNO QUINDI avuto gioco facile i giornalisti del Corriere nel “denunciare il depauperamento qualitativo oltre che economico, l’attenzione continua a interessi esterni all’impresa editoriale a danno del prodotto, del marchio, dei suoi lavoratori e dei lettori”. Una denuncia fatta puntando il dito contro un’azienda che con una mano “negli ultimi due anni ha chiesto (e chiede) soldi pubblici tramite stati di crisi e ristrutturazione subentranti, con l’altra assegna a azionisti e vertici manageriali ricchi dividendi e premi quasi milionari”.

il Fatto 28.1.12
A dicembre i contributi per alcuni quotidiani


Prima che l’ex sottosegretario all’Editoria Carlo Malinconico fosse costretto alle dimissioni dalla scoperta del Fatto Quotidiano che l’imprenditore De Vito Piscicelli, il costruttore indagato nell'inchiesta sulla "cricca" per gli appalti del G8, gli avrebbe pagato le vacanze, un numeroso gruppo di testate aveva ricevuto a dicembre il bonifico bancario con i finanziamenti pubblici: 5,9 milioni per Avvenire; 5,2 per L'Unità; 3,4 per La Padania; 3,2 per Il Manifesto; 2,9 per Liberazione; 2,1 per La Discussione, 2 per Terra. Per un cavillo, il Foglio (2,9 milioni) e il Secolo d'Italia (2,4 milioni) dovranno aspettare (ma ieri quest’ultimo si è visto sbloccare i fondi). In attesa che finisca la partita giudiziaria fra la famiglia Angelucci e l'Autorita di garanzia per le comunicazioni, l'ormai ex sottosegretario Malinconico aveva accantonato 5,8 milioni per Libero e 2,2 per Il Riformista (adesso con una nuova proprietà). Da segnalare anche i 2,2 milioni bloccati per L'Avanti che fu di Valterino Lavitola.

il Fatto 28.1.12
I fondi per l’editoria
Sbloccati i ciontributi a una ventina di testate


Arriva una boccata d’ossigeno per una ventina di quotidiani non profit, politici, di società cooperative, di minoranze linguistiche, delle comunità italiane all’estero e per una decina di periodici gestiti da cooperative. I contributi sospesi in attesa di definizione di accertamenti amministrativi sono stati in gran parte finalmente sbloccati dopo le ultime verifiche”. Il primo incontro tra il segretario della Fnsi, Franco Siddi, e il nuovo sottosegretario all’editoria, Paolo Peluffo, viene definito “incoraggiante” nella nota diffusa ieri sera dal sindacato dei giornalisti per raccontare come procede la vicenda dei fondi per l’editoria. Il taglio alle risorse stabilito dal governo Berlusconi per il 2011 era stato confermato da Monti, con l’aggiunta di uno stop totale ai finanziamenti futuri, salvo ridefinizione dei criteri distributivi. Nel frattempo, un centinaio di testate restava col fiato sospeso attendendo ancora la distribuzione 2010. Già a dicembre l’allora responsabile, Carlo Malinconico, aveva distribuito una parte dei 150 milioni stanziati per l’anno scorso. Ieri sul tavolo sono state messe molte situazioni di giornali pressoché sconosciuti al grande pubblico, che garantiscono comunque diverse centinaia di posti di lavoro. Molte quelle che sono riuscite a veder sbloccato il contributo, dal “Corriere di Forlì” al “Giornale” di Calabria, da “Bari Sera” al “Dolomiten”, dalla “Voce di Romagna” al “Puglia”. Restano bloccate le pratiche di “Libero” e “Riformista” così come il “Foglio”. Preso in considerazione “l’Avanti” di Valter Lavitola, che s’è visto opporre uno stop: indagini in corso, niente soldi. Happy end invece per “L’Opinione”, il giornale diretto da Arturo Diaconale con sede in via del Corso 117, proprio dove c’è “l’Avanti”: la Guardia di Finanza ha certificato la netta distinzione delle due strutture. Via libera anche per altre testate storiche come il “Roma” e il “Secolo d’Italia”. Niente da fare per il “Giornale di Toscana”, edito da Denis Verdini: su di lui pende l’accusa di aver ottenuto indebitamente 17 milioni di euro in contributi all’editoria.
ch.p.

il Fatto 28.1.12
Finisce l’avventura di Sardegna24, fondato da imprenditori vicini a Soru


Un esperimento durato pochi mesi, quello di Sardegna24. Il quotidiano fondato dal gruppo di imprenditori vicini a Renato Soru, ex presidente della Regione, in edicola dall'1 luglio, cesserà le pubblicazioni domenica prossima, 29 gennaio. “Sono stati violati i patti nascondendo le reali passività della società”, ha tenuto a sottolineare il direttore ed editore, Giovanni Maria Bellu, ex di Repubblica e Unità. Sopravvissuto per due mesi grazie a risorse personali e familiari di Bellu, da lunedì causa liquidazione rimarranno a casa 25 persone tra collaboratori e giornalisti stabili in redazione, circa una quindicina. Per loro, a seguito dell'apertura di una vertenza sindacale, la prospettiva è quella della cassa integrazione. Sul suo profilo facebook, però, il direttore lascia trapelare la possibilità dell'avvio di “una nuova iniziativa editoriale o il proseguio di questa”. Sardegna24 è nata grazie alla cordata di imprenditori sardi riconducibili a Soru, per poi trasformarsi in una srl con l’ingresso di Bellu-editore, il 16 novembre scorso.

il Fatto 28.1.12
Il tramonto della Free Press
Stop per City (Rcs), era già toccato a E-Polis e 24 Minuti, ridimensionato Leggo
di Chiara Paolin


La crisi della Free Press italiana ha il sapore aspro della quotidianità: i giornali distribuiti gratuitamente davanti a caffè, metro e bus sono sempre più letti e apprezzati (specie da chi non potrebbe permettersi di comprarli), ma i costi di stampa e distribuzione sono talmente alti da spingere gli editori a chiudere i battenti.
L’ULTIMA vittima è City, testata del gruppo Rcs con 11 anni d’attività, 8 redazioni (Milano, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Bari), 19 giornalisti (ma erano 24 fino a pochi mesi fa) e un popolo di lettori assidui: quasi 1,8 milioni ogni giorno. Eppure, secondo Rcs, il gioco non vale la candela. La raccolta pubblicitaria non basta a coprire le spese. “Negli ultimi anni è stata una strage - conferma dalla Federazione Nazionale della Stampa Giampaolo Gozzi - Ormai sono rimaste solo tre testate quotidiane a larga diffusione: Leggo, Metro e DNews. La pluralitàdivocichec'erasoloqualcheannofa ce la scordiamo oggi”. Perché sia Metro (1,6 milioni di lettori, 12 redattori) che DNews (323 mila, 8 giornalisti) appartengono all’editore Mario Farina, fratello del più celebre stampatore Vittorio salito alla ribalta per gli affari con Luigi Bisignani e Alfonso Papa, assai interessato all’acquisto delle testate periodiche Rcs messe ultimamente sul mercato per sanare i conti. Ma, a Vittorio Farina, City non è stato nemmeno proposto: si preferisce chiudere in blocco, e i giornalisti rimasti a spasso chiedono di essere integrati nel gruppo. Spiegava una nota del Cdr: “In questi 11 anni di vita i giornalisti di City hanno fatto il loro lavoro con professionalità, competenza, passione e senso di responsabilità, in un percorso di crescita professionale tangibile come, ad esempio, il lavoro su più piattaforme. Ora, quanto meno, ci aspettiamo e chiediamo con forza che la Rcs, primo gruppo editoriale italiano, si assuma le proprie responsabilità e tuteli il lavoro dei 19 giornalisti della redazione, dei collaboratori e dei poligrafici di City, con la piena ricollocazione di tutti i colleghi all’interno delle testate del gruppo”.
LE TRATTATIVE sul punto sono appena iniziate, nel frattempo i colleghi di comparto si chiedono se la morte di City sia una buona opportunità per ampliare la diffusione o piuttosto il segnale di un trend che li travolgerà. Il caterpillar Leggo, Gruppo Caltagirone, non è in acque serene: ha appena rinunciato a tutte le sedi locali concentrando le forze su Roma e Milano. Dei 12 esuberi, 8 sono stati ricollocati, 4 sono usciti, lo staff attuale è di 18 giornalisti. I lettori, 2,4 milioni, restano la miglior risorsa. Ma non bastano a tranquillizzare, specie considerando che in Italia il successo dei free paper è stato inutile per le altre due testate già nate e defunte nel giro di un decennio (EPolis e 24Minuti). Eppure, dicono i dati Audipress 2011, il consumo di quotidiani a pagamento è calato del 7 per cento mentre è aumentato quello della free press (più 1,8%) portando i giornali gratuiti a raggiungere una quota di utenza vicina al 50 per cento. Come dire che quando oggi un italiano ha in mano un giornale, una volta su due è una free press. Che, d'ora in poi, sarà frutto del duopolio Farina-Caltagirone.

l’Unità 28.1.12
Oltre lo Stato c’è solo l’antipolitica
Nel tempo della sovranità dell’economico, il tema della statualità diventa centrale per la sinistra. La stessa Europa si dimostra debole davanti alla crisi perché la sovranazionalità non è riuscita ancora a farsi sovrastatualità
di Mario Tronti


Pubblichiamo ampi stralci del saggio di Mario Tronti che compare sull'ultimo numero di Democrazia e Diritto. Il titolo del volume è «Le culture giuridiche dell'Italia unita»

Il discorso sullo Stato segue al discorso sul partito. La fase, cioè l’oggi, li stringe in un abbraccio: che si vorrebbe mortale e che bisognerebbe rendere vitale. Del resto, questo è un tempo in cui tra ciò che si vuole e ciò che si deve, vale la regola dell’incomunicabilità. Tra Stato politico e partito politico, in mezzo troviamo la crisi strutturale della politica moderna.
Fenomeno storico, lo Stato, limitato nel tempo, che ha avuto una nascita e può avere una morte. Se è solo Stato moderno, la fine dell’epoca moderna segna la fine dell’epoca statuale della politica. C’è una sola via per combattere efficacemente, con l’intento di sconfiggerla, quell’apologia del presente che sono le ideologia del postmoderno. Ed è l’assunzione in proprio dell’orizzonte di crisi della modernità, come un processo lungo, lento, in atto e in transito, come deriva, come decadenza, come dissoluzione.
Del partito possiamo discorrere nella contingenza, per lo Stato dobbiamo chiamare in causa la storia. Il movimento operaio ha pagato un prezzo altissimo, che ha deciso infine sul destino della sua sopravvivenza, per il fatto di non aver risolto la confusione, formale e materiale, e dunque teorico-pratica, tra partito e Stato. Il socialismo, non è vero che ha peccato per troppo Stato, direi invece per troppo poco. La classe operaia al potere, conquistato giustamente il potere attraverso il partito, avrebbe dovuto gradualmente abbandonare la forma partito per farsi forma Stato. In questo, ripercorrendo tutta intera la vicenda dello Stato moderno, dalla monarchi assoluta allo Stato sociale di diritto. La costruzione del socialismo, tanto più in un Paese solo, soltanto lo Stato poteva salvarla: l’autonomia politica dello Stato, politica e giuridica.
A un certo punto al capitale è sembrato che non avesse più bisogno dello Stato. Direi di più: che questa forma tutta politica del dominio fosse di intralcio ai propri liberi movimenti. E che il dominio potesse ormai direttamente venire incorporato nei meccanismi economici, o economico-finanziari, della produzione e della circolazione. Progetto in parte riuscito, dopo la svolta di sistema, che ha archiviato i trent’anni gloriosi, e ha inaugurato il trentennio del cosiddetto neoliberismo. Questo ritorno restaurativo di Ottocento reagiva con quel piglio dell’innovazione, che ha incantato i modernizzatori della sinistra, alla pretesa novecentesca dello Stato di farsi sociale e alla politica di occuparsi della società, e ai partito popolari di portare le masse nello Stato.
Tutto si tiene. E il punto che decide è da dove partono i bisogni d’epoca. Partono da chi comanda. Poi si può reagire, anche con successo, si può controbattere e tenere provvisoriamente o a lungo in scacco l’iniziativa vincente. Lo hanno fatto gli operai con le lotte nei punti alti dello sviluppo, i contadini in altre parti di mondo in condizioni di arretratezza, lo hanno fatto gli Stati socialisti dividendo giustamente il campo mondiale in sfere di influenza. Mai illudersi che improvvise spontanee insorgenze dal basso possano minimamente, e stabilmente, impensierire i proprietari effettivi del potere. Anzi, in queste insorgenze va volta a volta riconosciuto quel bisogno specifico di sistema, entro cui stanno, nascono e crescono. Solo conosciuto questo, si possono politicamente utilizzare, in una qualche funzione alternativa.
Il passo indietro verso il liberismo si è coniugato con i due passi avanti della globalizzazione. Qui si è verificato un accumulo di quantità che ha prodotto un salto di qualità, per usare polemicamente e consapevolmente categorie obsolete. Il capitalismo mondo era iscritto fin dal principio nel rapporto di produzione, scambio e consumo, che ha occupato militarmente tutta intera la modernità. Il Novecento, con tre grandi guerre civili mondiali, ha imposto, o ha permesso questo salto. Il grado attuale di sovranazionalità del rapporto di capitale non ha precedenti nella storia. L’età del colonialismo, e la connessa fase imperialistica e di capitale finanziario dei tempi di Hilferding e di Lenin, impallidisce di fronte alle dimensioni contemporanee del fenomeno. L’esercito di riserva, ormai anch’esso mondiale, del lavoro sta lì, a volte in prima fila a volte nelle retrovie, a seconda di come fa comodo, a combattere una guerra non sua.
La forma Stato viene aggredita qui dall’esterno, da macroprocessi, che ne riducono il peso, la funzione, la consistenza, e ne destrutturano la forza. Vale ancora la classica definizione weberiana dello Stato come «monopolio dell’uso legittimo della forza fisica nell’ambito di un determinato territorio»? Dov’è più la sovranità, da Bodin in poi intesa come facoltà esclusiva di «fare leggi»? Quali e quante le leggi di movimento della società rimaste in mani esclusivamente statuali? E l’hobbesiano Stato-macchina, persona giuridica regolato dalle leggi, è questo oggi il Leviatano, o non piuttosto questa oggettività sistemica di leggi economiche extragiuridiche, che esercitano potere senza legittimità, sovranità senza popolo? Chi e quando squarcerà il velo della finzione democratica, di cittadini che eleggono forme di governo senza forma Stato?
La cessione di potere dall’autonomia del politico alla sovranità dell’economico si esprime in questo paradosso, che butto lì come la scintilla che una volta doveva incendiare la prateria: c’è solo più Stato dove c’è ancora partito e dove la classica obbligazione politica garantisce, essa, il libero movimento delle leggi economiche. È stato un capolavoro della soggettività politica moderna l’atto della congiunzione tra lo Stato e la Nazione. Di lì, grande storia. Ambigua, doppia, tragica e gloriosa. Movimenti di popoli, in lotta di liberazione da antichi servaggi, ma anche di eserciti l’un contro l’altro armati, in guerre micidiali. In nome della nazione, per il proprio Stato, si sono commessi crimini, contro i propri stessi popoli, ma anche provocando così risorgimenti e resistenze.
Il nesso tra Stato e nazione si va divaricando. La nazione sembra in migliore condizione di salute politica rispetto allo Stato. Anche se il concetto si restringe e, come tutto oggi, si involgarisce, da spazio si fa territorio, da storia si fa tradizione, da popolo si fa etnia, e perfino a volte religione. Chi favorisce questa divaricazione sono, di nuovo, produzione e mercato, che non temono e superano d’un balzo i confini geografici, temono e rimangono impigliati nelle sovranità politiche. Insomma, l’esperienza se vogliamo chiamare così, con una parola banale, le repliche della storia ci ha insegnato che lo Stato si cambia, non si abbatte. A volerlo abbattere sono oggi gli interessi diretti di capitale, che portano avanti questo proposito in due modi: o utilizzandolo o subordinandolo, come cassa di depositi e prestiti e in più concessore di ammortizzatori sociali, oppure come guardiano notturno e apparato di repressione. I lavoratori hanno ben conosciuto la faccia brutale dello Stato al servizio dei loro padroni. Ma quando sono stati liberi e forti hanno provato essi stessi a introdursi nello Stato, per garantire la propria libertà e ingigantire la propria forza. Anche questa è storia del maledetto Novecento.
È vero, c’è il mito dello Stato. Ma esso, prima di diventare un mito reazionario, è stato un mito rivoluzionario. Su quel terreno infatti si giocava la questione del potere. Questa questione sembra non essere più in gioco. Anche potere viene ormai declinato al plurale: poteri forti, poteri occulti e soprattutto poteri micro, una sorta di politeismo dei poteri, come un dio che sta dappertutto e quindi da nessuna parte. Una condizione felice per l’orizzonte di capitale, che non ha più da misurarsi con un potere politico, forte e autorevole, concentrato e autonomo. È quanto consegue all’emarginazione avvenuta della forma Stato. Decisivi sono stati sicuramente i processi di spoliticizzazione degli individui e di neutralizzazione dei conflitti.
Qui da noi, lo Stato nato e cresciuto nel contesto storico del «sistema europeo degli Stati», si è perduto nel sentiero interrotto di una sovranazionalità che non riesce a farsi sovrastatualità. Al posto di «la Germania non è più uno Stato», bisognerebbe dire oggi «l’Europa non è ancora uno Stato». Di più: nemmeno, questa idea di Europa, ma, direi piuttosto, questa pratica di Europa, che si estende nello stesso modo in cui si deprime, essa stessa spoliticizzata e neutralizzata, rischia di essere una forma di anti-Stato e comunque una causa di crisi del sistema europeo degli Stati. Se esistesse una sinistra europea farebbe di questo problema il suo stesso problema, trovando forse una ragione per esistere, nel solco storico della sua tradizione politica internazionalista. Nel frattempo, Paese per Paese, andrebbe consigliata una decisa presa di distanza dalle tentazioni, vogliamo dire dalle pulsioni, di una «politica oltre lo Stato». Una politica oltre lo Stato vuol dire oggi nient’altro che un’antipolitica. Come lo è di fatto la politica oltre il partito. Ce n’è fin troppo in giro, per suscitarla anche da questo lato. Se è vero che, nel Moderno, la politica ha fondato lo Stato, in questo crepuscolo del Moderno, è a partire dal nuovo Stato che diventa possibile rifondare la politica. Invece che chiedere beni comuni per un capitalismo democratico.

il Fatto 28.1.12
E se fossimo tutti berluschini?
di Angelo d’Orsi


Il primo era stato Alberto Asor Rosa, in articolo dell’estate 2008 a paragonare il berlusconismo al fascismo, spingendosi ad affermare che il primo era peggiore del secondo, suscitando non poche polemiche. Poi la battaglia quotidiana prevalse, contro il Cavaliere di Arcore, che andava collezionando epiteti di varia efficacia, a cominciare da quello di “Caimano”, con la variante, inventata da Marco Travaglio, ben nota ai lettori del Fatto Quotidiano, di “Cainano”. E cresceva intanto la produzione di libri sul fenomeno Berlusconi, sul suo “partito di plastica”, che qualcuno infine cominciò a prendere sul serio, esaminandone gli effetti pervasivi sulla vita pubblica, grazie a un sistema di cricche affaristiche, con contorno di escort, di cui gran collezionista risultava essere proprio il capo del governo, capitano di una nave tanto pronto a cianciare e farsi fotografare, quanto inetto al comando, assai più occupato a gestire affari e affarucci privati – d’ogni genere – che ad affrontare i problemi di un’Italia ormai piegata su se stessa, “Concordia” senza timoniere, ferita nella sua etica pubblica, più ancora che nella sua capacità produttiva. Oggi scaffali di biblioteche e librerie sono debordanti di biografie e di studi sull’inventore di Forza Italia: memorabile quello del compianto Giuseppe Fiori (Il venditore, Garzanti 1995) ; ma da tempo si sono aggiunte analisi del fenomeno, anche in previsione di una uscita di scena dell’uomo, non foss’altro che per ragioni biologiche.
E LE ANALISI si sono infittite, anche sul piano giornalistico, dopo le “dimissioni coatte” dello scorso novembre. Analisi che interpretano forse una paura: che “quella roba lì” sia destinata a rimanere anche dopo la definitiva scomparsa del personaggio che l’ha messa in piedi? Dopo un memorabile fascicolo doppio di MicroMega – intitolato senza infingimenti, “Berlusconismo e fascismo” – sono arrivati altri libri, articoli, dibattiti. Oltre alla paura degli uni e al pessimismo di altri, tra le motivazioni, probabilmente, c’è un’attitudine scaramantica: ma è emerso altresì il bisogno di studiare il fenomeno berlusconiano, prescindendo dal capo, mettendone in luce i complessi aspetti politici, sociali, mediatici e di costume. Si tratta di capire, insomma, se tanti di noi non siano stati contagiati dal virus, diventandone “portatori sani”, fino al suo manifestarsi in forma violenta. Una sorta di Invasione degli ultracorpi, l’angoscioso romanzo di Jack Finney, portato al cinema da Don Siegel. Ma allora – metà anni Cinquanta – si era in piena Guerra fredda e l’allusione possibile era ai comunisti che “sembrano come noi”, ma come noi non sono, e si impadroniscono un po’ alla volta delle nostre menti. Qui si tratta di capire se il berlusconismo, giunto apparentemente a fine corsa, abbia permeato di sé i nostri modi, abitudini, pratiche. Se lo chiedono, per esempio, due libretti recenti, uno di un sociologo, Rino Genovese (Che cos’è il berlusconismo, Manifestolibri), l’altro, ancor più smilzo e sbrigativo, di un militante anarchico, Piero Flecchia (Da Mussolini a Berlusconi, Mimesis). Gli autori vanno a caccia delle costanti, delle manifestazioni che in un passato più o meno lungo hanno non solo preparato, ma evidenziato il berlusconismo. Al di là insomma della traiettoria personale di Silvio Berlusconi, si tenta di mettere a fuoco il quesito: la sua affermazione prima, la durata poi, sono dovute, oltre che a capacità personali e incapacità dei suoi avversari (inevitabili le bordate, peraltro ormai inevitabilmente e giustamente divenute moneta corrente, contro una sinistra rinunciataria, debole, spesso connivente), e a specifiche cause storiche, anche a “precondizioni” antropologiche? E dietro affiora l’altro interrogativo: il berlusconismo – fusione di populismo, leaderismo, familismo, affarismo, immoralismo, antipoliticismo – sarebbe stato possibile senza Berlusconi? Genovese risponde di sì: si tratta di un processo di “deformazione della democrazia” (che però ha risvolti sovranazionali) che può essere caratterizzata così: un fenomeno politico che vede lobby economico-finanziarie che non si accontentano di esercitare pressioni politiche, ma mirano (e con Berlusconi da noi giungono) alla conquista diretta del potere, in tal modo svuotando nella pratica il sistema democratico che rimane più o meno intatto nella sua forma esteriore.
UNA SORTA di parassitismo della democrazia, scaturito dal più generale fenomeno di “ibridazione del moderno”, la coesistenza sempre più problematica di modi, tempi, culture tipici della modernità (o addirittura postmodernità), e forme sconcertanti di arcaismo. In tale quadro, se il berlusconismo diventa paradigmatico a livello almeno europeo, la figura di Berlusconi non è essenziale, anche se, aggiungo, ha fornito all’Italia un primato sulla scena forse mondiale, con un’overdose di volgarità sconcertante, ma con peculiarità che a mio avviso non possono essere svalutate. E soprattutto, non va accolto il pessimismo totale di chi ritiene (come Genovese) che l’Italia sia ormai inguaribile. Oggi che il pifferaio sembra ritornato nel cono d’ombra da cui era balzato fuori un ventennio fa, il quesito deve essere: come facciamo non solo a impedire che torni a istupidire gli italiani, ma a risanare il corpo e l’anima dell’Italia dal morbo berlusconiano? Ma su questi due punti non bastano le analisi: sono necessarie le azioni.

l’Unità 28.1.12
Intervista a Saeb Erekat
«Il processo di pace? Israele gioca con le parole ma non fa passi avanti»
Il capo negoziatore Anp: «A territori ceduti ne devono corrispondere altri
che entrano a far parte dello Stato di Palestina. Altrimenti la trattativa è una farsa»
di Umberto De Giovannangeli


Si è seduto e alzato più volte dai tanti «tavoli della pace» che hanno contrassegnato la crisi infinita israelo-palestinese. È stato così anche nei giorni scorsi ad Amman, nel round negoziale fortemente voluto da re Abdallah II di Giordania. «La nostra volontà di negoziare non è mai venuta meno, ma non possiamo accettare che ogni volta Israele si fermi all’enunciazione di principi senza mai fare un passo avanti nel merito dei tanti contenziosi aperti, a cominciare dai confini». A parlare è Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
La comunità internazionale ha letto il suo alzarsi dal tavolo negoziale di Amman come il fallimento delle trattative israelo-palestinesi.
«Se fossimo stati animati da una volontà di rottura non avremmo accettato di tornare al tavolo del negoziato. In discussione non è la volontà palestinese di ricercare il dialogo, il problema è un altro...».
Quale?
«Anche ad Amman il rappresentate israeliano si è limitato ad una enunciazione verbale di principi generici, senza presentare documenti scritti che entrassero nel merito dei contenziosi aperti. Un simile atteggiamento non può essere “spacciato” come volontà di pace. È solo fumo negli occhi della comunità internazionale».
Le autorità israeliane sostengono che il negoziatore dello stato ebraico, Yitzhak Molko, le avrebbe illustrato la posizione del governo Netanuyahu sulla questione dei confini...
«Si gioca con le parole. Noi avevamo chiesto un documento scritto che attestasse le posizioni israeliane. È un fatto di sostanza, non di forma. Questa richiesta è stata lasciata cadere. Voglio essere ancora più esplicito: non chiedevamo un documento dettagliato, ma quanto meno una presa di posizione che mostrasse la disponibilità di Israele ad accettare un riferimento ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967 come base di discussione...».
Confini che Netanyahu, e non solo lui, non accetta perché metterebbero a rischio al sicurezza d’Israele...
«Quel riferimento doveva essere la base di una discussione, non il suo sbocco finale. Quello su cui abbiamo sempre insistito è che alla base di una trattativa degna di questo nome debba esserci il principio della reciprocità...».
Vale a dire?
«I confini possono essere, sia pur in termini limitati, modificati rispetto a quelli antecedenti la Guerra dei Sei giorni, ma a territori ceduti devono corrispondere territori che entrano a far parte dello Stato di Palestina, e tutto ciò deve scaturire da un accordo tra le parti. Il principio di reciprocità e agli antipodi dell’unilateralismo che continua a caratterizzare, nei fatti, la politica d’Israele: guadagnare tempo, trascinando all’infinito il negoziato, e intanto determinare sul terreno una serie di fatti compiuti che finiscono per svuotare di ogni significato concreto la trattativa».
Un esempio concreto di questa volontà che lei imputa a Israele?
«È la crescita degli insediamenti, in Cisgiordania come a Gerusalemme Est. Non siamo da soli nel chiedere a Israele una moratoria nella costruzione-ampliamento degli insediamenti nei territori occupati. La risposta è sempre stata negativa. Anche quando a chiederlo è stato il presidente degli Stati Uniti d’America».
A proposito degli Usa: uno dei più accreditati candidati repubblicani alle presidenziali di novembre, Mitt Romney, ha sostenuto pubblicamente che i palestinesi non vogliono una soluzione fondata su due Stati, ma vogliono eliminare Israele.
«Al signor Romney vorrei chiedere su quali basi, su quali documenti, si è formato questa convinzione. Per chiarirsi le idee sulla nostra determinazione, posso solo consigliargli di parlare non con pericolosi antisionisti, ma con l’ex presidente George W.Bush e la signora Rice...Certe posizioni aiutano soltanto i nemici della pace».
Per tornare alle trattative. Israele vi accusa di voler imporre i tempi del negoziato.
«Il fattore tempo è decisivo. Perché senza indicare i tempi del negoziato, il dialogo non ha un solido ancoraggio. È stato lo stesso presidente Obama a parlare di questo, e come lui tutti i maggiori leader europei. Un negoziato non può durare in eterno, altrimenti non di negoziato si tratta ma di una farsa. E nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso, può esserne complice. Tutti devono essere consapevoli che in Medio Oriente il tempo non lavora per la pace».

La Stampa 28.1.12
Intervista
“Il regime mostra le crepe I soldati ora sono stanchi di questi massacri”
David Schenker: immagini choc, è un segno di debolezza
di Maurizio Molinari


Avevano imparato dall’Iran a limitare il numero dei morti Ma ora lo schema è saltato

L’esperto americano David Schenker del Washington Institute Dal 2002 al 2006 è stato direttore dell’ufficio per la Siria al Pentagono
L’ apparato di sicurezza responsabile della repressione di Bashar Assad mostra segni di stanchezza: così David Schenker, ex consigliere del Pentagono per la Siria e oggi analista del Washington Institute, interpreta le crude immagini che arrivano dalla città di Homs.
Che cosa pensa degli scatti sulle salme di bambini uccisi?
«Sono macabri. Rendono esplicita la violenza della repressione contro i civili e svelano la stanchezza di chi la conduce».
Perché parla di «stanchezza»?
«Il regime di Bashar Assad finora ha represso le proteste applicando i manuali del regime iraniano, che nel 2009 riuscì a limitare il numero delle vittime. Se facciamo attenzione a quanto è avvenuto negli ultimi mesi, ci accorgiamo che il numero quotidiano delle vittime civili in Siria non ha mai superato le 50 e c’è stata sempre grande attenzione nel limitare l’impatto delle violenze, al fine di contenere le proteste internazionali. Queste sono state le istruzioni dei servizi iraniani ai siriani. Ma per rispettarle serve una disciplina ferrea, che evidentemente il regime non riesce più a mantenere».
Quale può essere stata la genesi della strage di civili a Homs?
«Homs è la culla della rivolta. Il regime ha aspettato il ritiro degli osservatori arabi, poi le forze di sicurezza hanno voluto impartire una severa lezione ai civili. Facendolo, hanno violato le disposizioni iraniane e il risultato è un’indignazione internazionale che potrebbe scuotere il Consiglio di Sicurezza».
Come avvenne per il massacro di bosniaci a Srebrenica che nel 1995 spinse la comunità internazionale a intervenire contro la Serbia?
«È presto per dirlo, certo le immagini dei bambini uccisi a Homs rendono per la Russia più difficile opporsi alle richieste di intervento che la Lega Araba sta rivolgendo alle Nazioni Unite».
È più Mosca o Pechino a proteggere Damasco all’Onu?
«È Mosca e il motivo è che la Russia si è sentita ingannata sulla Libia. Diede il via libera all’Onu per l’operazione di Bengasi solo a fini umanitari, ma poi quell’intervento ha portato a deporre Gheddafi. Il Cremlino non vuole che tale precedente si ripeta in Siria col rovesciamento di Assad, che è un suo stretto alleato».
Che grado di controllo ha Assad sulla situazione interna?
«Oltre alla foto dei bambini morti ce n’è un’altra importante che arriva sempre da Homs. Vi si vede un disertore della IV divisione portato in trionfo dalla folla. La IV divisione è stata finora uno degli strumenti più efficaci ed efferati della repressione e il fatto che inizi ad avere defezioni conferma come nei ranghi del regime si registrino delle crepe».
Che giudizio dà dell’Esercito di liberazione siriana?
«L’opposizione armata cresce lentamente ma registra progressi. Riesce a creare posti di blocco, impedisce alle truppe di Assad di entrare in alcuni quartieri alla lontana periferia di Damasco ed è anche riuscita ad assumere, per breve tempo, il controllo di piccoli centri ai confini con il Libano. Gli elementi di maggiore efficacia finora sono i posti di blocco, perché sono efficaci nell’ostacolare i movimenti delle forze di sicurezza contro i civili».

Corriere della Sera 28.1.12
«Dieci, cento, mille Wukan». Campagne cinesi in rivolta
di Paolo Salom


PECHINO — La parola d'ordine corre di villaggio in villaggio. «Impariamo da Wukan», gridano contadini e residenti stufi delle «prepotenze» di costruttori e funzionari locali che — spesso in combutta — strappano loro, letteralmente, la terra sotto i piedi. Perché la Cina non si può fermare. Deve continuare a costruire, espandersi, produrre. Autostrade, ferrovie, palazzi: intorno alle megalopoli lo spazio vale oro, mentre spesso chi lo abita non vale nulla, almeno agli occhi di chi ha obiettivi «più alti». «Impariamo da Wukan», ovvero il villaggio che il 15 gennaio, dopo mesi di rivolta contro espropri e mancati indennizzi, aveva ottenuto un'incredibile «vittoria»: rimozione dei responsabili cittadini del partito comunista e, addirittura, promozione a segretario del leader della sommossa, Lin Zuluan, 65 anni. Nei giorni scorsi è stata la volta di un altro piccolo centro del Sud della Cina, Wanggang, alle porte di Canton. Mille rivoltosi hanno marciato fino alla capitale provinciale per reclamare i propri diritti. «Se la Cina non cambia e non comincia ad aiutare i residenti più deboli dei villaggi — ha dichiarato spavaldo, alla Reuters, un trentatreenne di nome Wang — ogni villaggio si trasformerà in una nuova Wukan».
La protesta era inscenata contro il capo del partito, Li Zhihang, accusato di aver sottratto la terra ai legittimi proprietari con l'inganno. Ma è bastato ricordare il nome di Wukan perché i rappresentanti dei «mille di Wanggang» fossero immediatamente ricevuti dal vicesindaco di Canton, Xie Xiaodan, che ha subito promesso una rapida inchiesta sugli abusi denunciati. «Ci ha garantito una risposta entro il 19 febbraio», ha spiegato ancora Wang. Tutto risolto? Macché. I disordini sono continuati, nel Fujian, poco più a nord, lungo la costa. A gridare questa volta i residenti del villaggio di pescatori di Xibian. Anche loro con un cartello che recitava: «Impariamo da Wukan».
Per quanto nascoste all'opinione pubblica (su Internet le pagine che parlano di Wukan, Wanggang o Xibian sono bloccate), le rivolte locali sono il fenomeno più evidente delle contraddizioni, delle ineguaglianze, dei tumulti provocati da un rapido quanto ineguale sviluppo. Soltanto nel 2011 sarebbero 90 mila gli «incidenti» che hanno coinvolto comunità locali più o meno grandi. Il governo di Pechino non nasconde la preoccupazione, se è vero che il premier Wen Jiabao ha sottolineato più volte la necessità di «migliorare le condizioni di vita nelle aree rurali».
Wukan non è tuttavia percepita come l'inizio di una possibile rivolta generalizzata, almeno fino a quando il mirino dei dimostranti eviterà di guardare verso Pechino. Che per ora si limita a stringere il pugno sui dissidenti, voci molto più pericolose.

l’Unità 28.1.12
Addio al padre delle pulsar
Franco Pacini, l’astrofisico pioniere delle stelle di neutroni è scomparso all’età di 72 anni. Grande scienziato si è impegnato moltissimo, anche attraverso la tv, a divulgare le scoperte sul cosmo fra il grande pubblico
di Pietro Greco


Giovedì mattina all’età di 72 anni Franco Pacini, astrofisico, se n’è andato. Dopo Paolo Rossi, scomparso due settimane fa, Firenze, l’Italia, noi tutti abbiamo perso un altro maestro. Di scienza e anche di vita. Non è retorica. Chi spulcia gli annali di storia dell’astronomia sa quanto grande sia stato il suo contributo alla fisica di quei bizzarri oggetti presenti nell’universo che sono le stelle di neutroni rotanti dei veri e propri radiofari o, se volete, dei grossi ma precisissimi orologi atomici che oggi chiamiamo pulsar.
Chi lo ha frequentato anni fa, sa quanto lo rattristasse l’opposizione di un gruppo di americani nativi (sì, insomma, di indiani d’America) alla costruzione del Large Binocular Telescope, da lui fortemente voluto, lì sul Monte Graham in Arizona. La riteneva un’opposizione pretestuosa, perché diceva prima che ci andassimo noi quel posto era frequentato solo da scoiattoli. Ma non dimenticava che quegli oppositori erano i discendenti di un popolo che aveva subito gravi discriminazioni. Chi lo ha frequentato negli ultimi anni ricorda ancora quel signore alto, dinoccolato, dal sorriso solare, vestito per così dire «casual», con lo zainetto in spalle che zompando da un treno all’altro si affanna a diffondere cultura scientifica ovunque: ai bambini della comunità cinese di Firenze come ai membri dell’Accademia dei Lincei di Roma, dal museo «hands on» del Balì di Sartara, nelle Marche (quello che amava di più) allo stesso Osservatorio di Arcetri.
Non disdegnava neppure la tv, dove, come usa dire, bucava il video. E infatti per anni è stato, con un’altra fiorentina, Margherita Hack, il «volto» dell’astronomia italiana. Riteneva un suo dovere e un suo piacere sia produrre nuove conoscenze in astrofisica Wikipedia riporta quella sua frase che la dice tutta: «Come fai a fare un altro lavoro, se puoi fare l’astronomo?» sia comunicare al grande pubblico, con ogni mezzo, purché in maniera colta e accattivante, i risultati delle ricerche proprie e altrui.
Franco Pacini è nato a Firenze il 10 maggio 1939. Si è laureato poi a Roma nel 1964 e, dopo un breve soggiorno di studio in Francia, aveva lavorato a lungo alla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York. È qui che giovanissimo raggiunge quello che, probabilmente, è il suo massimo risultato scientifico: prevede l’esistenza delle stelle di neutroni che ruotano, vorticosamente, su se stesse. Le stelle di neutroni sono oggetti cosmici molto densi e pesanti: una di loro, con un diametro di appena 20 chilometri, può contenere una massa pari a una volta e mezzo quella del Sole. Nel 1967 Pacini scrive un articolo in cui prevede che le stelle di neutroni possano ruotare velocemente su se stesse. L’anno successivo, nel 1968, quelle stelle furono scoperte. E oggi sono conosciute come pulsar (sorgente radio pulsante), perché ruotando emettono impulsi di radiazione elettromagnetica alle frequenze radio che ne fanno dei veri e propri fari cosmici. Gli impulsi sono così regolari che le pulsar si propongono come orologi tra i più precisi che conosciamo.
PRESTIGIO INTERNAZIONALE
Tornato in Italia, nel ’78 Franco Pacini diventa professore ordinario all’Università di Firenze e direttore dell’Osservatorio astronomico di Arcetri. Carica, quest’ultima, che ha mantenuto fino al 2001. Quando, a riconoscimento dei suoi meriti, è stato eletto alla presidenza dell’Unione Astronomica Internazionale. Ha sempre interpretato con dinamismo questi e altri incarichi. Tant’è che è difficile ricordare quanto ha fatto in poche righe. Ma in questa frenetica attività non ha mai dimenticato che la scienza e gli scienziati hanno il dovere di partecipare del piacere della scoperta il resto della società.

Repubblica 28.1.12
L’altro carcere di Gramsci
"Il giallo del quaderno sparito che svelava le critiche al Pci"
di Nello Ajello


Un saggio di Franco Lo Piparo ricostruisce una biografia parallela dell´intellettuale censurato e messo a tacere dal suo partito
L’edizione revisionata della sua opera in 33 volumi avrebbe "cancellato" il trentaquattresimo
Nel libro vengono trascritte molte lettere che mostrano, tra le righe, i rapporti sempre più difficili

Un romanzo storico e un romanzo a tesi. Sono i "generi" che s´intrecciano nel volume di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci, appena uscito per Donzelli. Mai come questa volta spiegare un titolo non sarà superfluo. La trama storica percorre il destino toccato all´esponente sardo che nel 1928 il Tribunale speciale fascista condannò a vent´anni di reclusione (ne avrebbe scontati sei, ovvero otto se si calcola la fase d´arresto preventivo). Ecco, invece, la tesi. Secondo l´autore, alla pena inferta a Gramsci si sarebbe aggiunta, dopo la concessione della libertà condizionata, una condanna al silenzio. La decretò, a suo danno, il partito di cui egli era stato a capo. Fu un altro carcere, metaforico, di cui Gramsci avrebbe sofferto fino alla morte, nell´aprile del ´37 (con una postilla finale in cui si avanza la tesi di un quaderno, l´ultimo, scomparso).
È in questa seconda direzione che si sviluppa la ricerca di Lo Piparo, un filosofo del linguaggio che con Gramsci si è più volte misurato. Egli illustra ogni passo degli scritti gramsciani che sorreggono l´assunto. Il quale, agli occhi di chi abbia familiarità con la figura del leader sardo, risulterà meno provocatorio di quanto prometta. È infatti lontano il tempo in cui veniva data per scontata la concordia fra i testi gramsciani e le posizioni di quel Pci che lo avrebbe assunto a proprio nume tutelare.
Ben presto il carattere strumentale dell´operazione era emerso fra gli studiosi. Non a caso un certo sentore, se non di liberalismo, certo di socialdemocrazia emergeva dagli scritti gramsciani, anche se questi erano stati revisionati da Togliatti con l´aiuto di intellettuali di comprovata ortodossia comunista. Non a caso sia Benedetto Croce a proposito delle Lettere dal carcere, sia un suo seguace indocile come Luigi Russo, avevano espresso su Gramsci un giudizio quanto meno comprensivo. Basterà, d´altronde, scorrere la bibliografia che Lo Piparo include nel suo saggio per notare la presenza di studiosi che di Gramsci hanno posto in risalto l´eterogeneità rispetto alla liturgia staliniana. Vi si trovano, per esempio, Aldo Natoli, Carlo Muscetta, Paolo Spriano e Giuseppe Fiori. Di quest´ultimo aggiungerei all´elenco di Lo Piparo la monografia Gramsci Togliatti Stalin (Laterza, 1991), in cui viene documentato quel contrasto fra l´obbedienza di partito e il dovere della verità, che nell´autore dei Quaderni fu centrale.
Nelle pagine di I due carceri (sostantivo maschilizzato nel plurale con l´autorevole consenso di Tullio De Mauro) ciò che più conta non è la tesi generale, quanto l´insieme dei personaggi. Soprattutto due: Tania, la cognata di Gramsci, e Piero Sraffa. Essi rappresentano la metà d´un quadrilatero che presiede al passaggio di impressioni, invocazioni ed ukase fra "dentro" e "fuori" il luogo di pena. I terminali del tragitto sono Gramsci e Togliatti. Tania, che può avvicinare il prigioniero e forse prova amore per lui, ne trasferisce i messaggi a Sraffa, che li trascrive per Togliatti a Mosca. La stessa trafila funziona in direzione inversa.
Le censure, sia fascista sia bolscevica, trasformano le lettere, rendendole, a tratti, esemplari nell´arte del dire e non dire. Sraffa, intellettuale raffinato, amico di Togliatti ma vigile nei rapporti con il vertice sovietico e apparentemente opaco quanto a ideologia (sarà «un comunista coperto»?), rappresenta la parte più ardua del rebus. Tania è un interrogativo in forma di donna. Della sua «vita privata», scrive Lo Piparo, «si sa pressoché niente», se non che è «la meno comunista delle sorelle Schucht» (meno di Giulia, la moglie di Antonio, donna dalla psiche delicata, legata come le sue sorelle ai servizi segreti sovietici. Meno ancora si sa di Eugenia, considerata una "bolscevica" integrale). Trascritte e commentate da Lo Piparo, molte delle lettere di Gramsci, pur sottoposte a quegli arrischiati tragitti, conservano un fascino inquieto.
Non sapremmo, costretti alla brevità, quali scegliere tra le missive. In quella datata 27 febbraio 1933, Lo Piparo mette in rilievo la dichiarazione, da parte del prigioniero, della «propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo»: e infatti sarà espunta da Togliatti nell´edizione del ´47 delle Lettere dal carcere. Ce n´è una del 14 novembre 1932 in cui il prigioniero comunica la sua decisione di divorziare da Giulia, madre dei suoi figli. Segna il massimo dell´emotività epistolare, esprimendo il doppio ruolo interpretato da quella donna nell´animo del recluso: è sua moglie ma, nota Lo Piparo, «è la Russia sovietica».
L´eco di un´altra lettera aleggia nel libro. La scrisse nel 1928, durante il processo Gramsci, l´alto esponente comunista Ruggero Grieco. Indirizzata a Mosca, dove risiedeva Togliatti, e poi spedita a Gramsci nel carcere di San Vittore, s´intrattiene sui casi del comunismo nel mondo. All´intellettuale sardo non sfugge però di essere lui il protagonista di quei fogli. Vi si sottolinea il ruolo centrale che egli ha svolto nel Pci. Il giudice istruttore del processo non mancherà infatti di osservare: «Onorevole, lei ha degli amici i quali certamente desiderano che rimanga un pezzo in galera». Un «atto deplorevolissimo» Gramsci avrebbe sempre giudicato la lettera di Grieco.
Nel complesso, quella tracciata da Lo Piparo è la parabola di un comunista a sé stante, di cui il partito volle reprimere ansie e anticonformismi. Il trattamento a lui riservato dopo la morte, con l´edizione revisionata dei suoi trentatré Quaderni (in una lunga postilla finale del volume emerge la possibile esistenza di un quaderno poi scomparso, il trentaquattresimo: per mano di chi?) resta un promemoria della perfidia di Togliatti. Quegli scritti - così si sarebbe espresso il segretario del Pci il 25 aprile 1941 - «possono essere utilizzati solo dopo un´accurata elaborazione»: solo così il partito li darà alle stampe. Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste, il Pci decise in ritardo di ricordarsi di lui onorandone la memoria. Ma l´interpretazione di Lo Piparo è, a questo riguardo, molto netta: un Gramsci libero, in era fascista, non avrebbe avuto lunga vita: «Un plotone di esecuzione o un attentato erano a portata di mano». Su questa linea è la conclusione dell´autore dei Due carceri di Gramsci: proprio perché opportunista, Togliatti salvò Gramsci. Al che non si sa bene che cosa replicare. A volte, in tempi politicamente atroci, c´è più verità in un paradosso che in cento professioni di fede.

Repubblica 28.1.12
Lo scrittore ha proposto di costruire a Londra una cattedrale laica. Contrario il biologo
Sfida De Botton-Dawkins sul tempio dell’ateismo
di Enrico Franceschini


Dice l´autore: "Esistono luoghi di culto per Gesù, Maometto e Buddha, possiamo averne uno per i non credenti, dedicato al pensiero positivo e al bene comune"

Londra. I cristiani hanno le chiese, i musulmani hanno le moschee, gli ebrei hanno le sinagoghe, ma dove possono andare gli atei? Alain de Botton, filosofo e scrittore (il cui ultimo libro, uscito in Italia per Guanda s´intitola proprio Del buon uso della religione), pensa di saperlo: potrebbero andare in un "Tempio dell´Ateismo", un luogo dedicato «all´amore, all´amicizia, al raziocinio, a tutto quanto c´è di positivo al di fuori della religione». E de Botton non solo lo pensa ma sta già cercando di costruirlo: ha raccolto metà dei fondi necessari per costruire un grattacielo di cinquanta metri nel cuore della City, il quartiere finanziario di Londra. All´interno della torre secolarista, ogni centimetro corrisponderebbe a un milione di anni di vita sulla Terra, dentro ci sarebbe una specie di museo dell´umanità e sulle pareti esterne verrebbe disegnato un codice con la sequenza del genoma umano. Senonché l´iniziativa ha scatenato subito un conflitto: non con seguaci di questa o quest´altra fede, bensì con altri atei.
«Il problema dell´ateismo è che alcuni suoi sostenitori, come lo scienziato Richard Dawkins o lo scomparso giornalista e scrittore Christopher Hitchens, lo hanno presentato come una forza distruttrice, negativa», afferma il filosofo anglo-svizzero. «C´è un sacco di gente che non crede in dio ma che non è aggressiva verso la religione. Esistono templi per Gesù, Maometto e Buddha, possiamo averne uno anche per noi atei, dedicato al pensiero positivo e al bene comune».
Hitchens, ateo convinto fino all´ultimo istante di vita (è morto di tumore il mese scorso), non può più rispondergli, ma Dawkins sì: «Sciocchezze», ha detto il biologo. «Ai laici non servono i templi. Ci sono cose migliori per cui spendere soldi. Per esempio per migliorare l´insegnamento secolarista nelle scuole, per fare scuole non-religiose dove si insegna ai ragazzi l´approccio razionale e scientifico». Concorda Andrew Copson, presidente della British Humanist Society: «Ciò che i religiosi ricevono dalla fede, i non religiosi lo ricevono dall´arte, dalla natura, dalle relazioni umane, dal significato che diamo all´esistenza, senza bisogno di ritrovarsi uniti in un tempio».
Paradossalmente, un benvenuto al progetto arriva dalla chiesa anglicana. «L´idea di un tempio laico riflette un bisogno di trascendenza, la consapevolezza che nella vita c´è qualcosa di più del materialismo», commenta il reverendo George Pitcher, un consigliere dell´arcivescovo di Canterbury, «costruire un edificio del genere vuol dire riconoscere che siamo più che un mucchietto di polvere, è un ateismo più costruttivo di quello di Dawkins».
Il quotidiano Guardian di Londra ricorda che il piano evoca altri spazi secolaristi esistiti nel passato, come le chiese convertite a "templi della ragione" durante la Rivoluzione francese o come Conway Hall, una chiesa sconsacrata della capitale gestita dagli umanisti della South Place Ethical Society. De Botton dice di voler costruire il suo nella City perché è dove è andata maggiormente perduta «la bussola sulle priorità della vita». E spiega che un ateo ha lo stesso diritto di un credente di sentirsi ispirato da maestose architetture come quelle delle cattedrali religiose: «La sensazione che uno dovrebbe provare entrando in un tempio simile è la stessa che uno prova quando entra in una chiesa. Dovrebbe sentirsi piccolo, ma non nel senso di venire intimidito».
Neanche su questo però sono tutti d´accordo. «Il timor di Dio non viene dalla maestosità di una chiesa», ribatte il reverendo Keith Rumens, rettore della chiesa di St. Giles, nella zona di Barbican, dove dovrebbe sorgere il Tempio dell´Ateismo, «bensì da una sensazione di appartenenza, dal voler dare qualcosa e ottenere qualcosa in cambio».
Ma a parte il problema di trovare la seconda metà dei fondi (de Botton ha lanciato una colletta pubblica e auspica donazioni di benefattori), c´è quello di ottenere un permesso edilizio dalle autorità che governano la City: «Qui abbiamo certi valori non potremmo costruire nulla – ammonisce un portavoce – che sia connesso con l´ateismo». Gesù scacciava i mercanti dal tempio, a dire il vero. Ma accadde tanto tempo fa.

Repubblica 28.1.12
Dagli indignati ai grillini le nuove mappe della politica
C’è un modo progressista di rifiutare le categorie classiche e uno reazionario? Ecco cosa pensano gli studiosi
Queste forme di "agnosticismo" hanno una lunga tradizione nel nostro Paese
di Michele Smargiassi


"Sopra", "oltre", "avanti", "altrove": deve convocare un´intera famiglia di avverbi di luogo chi vuole evadere la topografia politica del Novecento, disposta su una linea che corre da destra a sinistra. Affermare "non sono né di destra né di sinistra" rientra, è vero, nel diritto d´opinione del singolo cittadino, ma che succede quando il verbo viene coniugato al plurale collettivo, "non siamo né di destra né di sinistra", quando è un movimento politico che rifiuta di collocarsi sugli assi cartesiani della democrazia occidentale? Succede che qualcuno gli ritorce addosso la furbizia: «Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra...».
È il beffardo «paradosso spaziale da disegno di Escher» con cui WuMing1, uno dei componenti "senza nome" del collettivo di scrittura che si affermò con l´allegoria storico-politica del romanzo Q, ha aperto le ostilità su Nuova rivista letteraria e poi su Giap, il blog che esprime il coté militante del sodalizio bolognese. Troppi, ormai, i movimenti sedicenti atopici nel mondo, dai nordici "partiti dei Pirati" agli Occupy Wall Street, per arrivare alle primavere arabe. Ma questo è «un velo che dobbiamo lacerare», sostiene WuMing1, e affonda: se gli Indignados spagnoli incarnano palesemente un "né-né" di sinistra, "egualitario, anticapitalista", i grillini italiani per esempio sono senza dubbio un movimento di destra: "diversivo, poujadista, sovente forcaiolo". Un testo articolato che procede citando criticamente George Lakoff e la sua coppia antitetica progressista/conservatore e utilizzando Fredric Jameson che intimava, nel suo Inconscio politico, a "Storicizzare sempre".
Nel dibattito, ovviamente, i né-né rivendicano il loro rifiuto della polarizzazione obbligatoria con parole che risuonano nei sondaggi (l´ultimo quello di giovedì scorso dell´Ipsos dove il 57% ha risposto che «conta la capacità dei leader, che siano di destra o di sinistra è secondario») e in qualsiasi pizzeria: «destra e sinistra hanno fallito entrambe, fanno ugualmente schifo». Nascosto nel muto magma dell´astensionismo elettorale, è questo il voltafaccia dell´elettore identitario tradito, è il disgusto del consumatore insoddisfatto, «di chi non è contento dell´offerta sul mercato delle idee, comprensibile, perfino condivisibile», riconosce il politologo Piero Ignazi, studioso di postfascismo e quindi esperto di partiti "migratori", «ma non ce la raccontiamo: non c´è altro modo, per chiunque chieda consensi, che collocarsi da qualche parte nel campo politico».
E la polarità destra-sinistra è ancora quella che meglio visualizza la mappa di quel territorio. Norberto Bobbio, che difese la bipartizione in un libro più citato che letto, avrebbe ribadito a questo punto che «chi dice di non essere né da una parte né dall´altra, non vuole semplicemente far sapere da che parte sta», lo ripete per lui uno dei suoi più accreditati eredi, Michelangelo Bovero: «È una collocazione inevitabile, qualunque altra cosa si affermi, perché destra e sinistra non sono concetti identitari, ma relazionali. Ti chiedono di rispondere non alla domanda "chi sei?", ma a "dove sei rispetto agli altri?": se non lo dichiari tu, saranno le tue relazioni a collocarti». Ma è proprio per evitare questo che il movimento di Beppe Grillo si impone di "non stare con nessuno"... «Allora saranno i tuoi "no", la tua retorica, il tuo linguaggio a definire il tuo luogo politico».
Eppure la tentazione agnostica ha una lunga storia nella nostra democrazia caotica. A parte la parabola postbellica dell´Uomo qualunque, che oggi non si fa fatica a riconoscere come un movimento reazionario, la vicenda italiana ha conosciuto diverse anguille politiche. Quando nel ´76 la prima pattuglia di Radicali entrò in Parlamento, fu quasi zuffa per la scelta dei seggi: si piazzarono a un´estremità (quella sinistra, però...) per evidenziare la loro estraneità all´"arco costituzionale" e alla "partitocrazia" più che per autodefinizione logistica. La Lega Nord, com´è noto, ha rimpiazzato il destra-sinistra con altre polarità, geografiche o etniche, pseudonaturali, mitiche o folcloristiche. Ma anche Antonio Di Pietro, in più di una intervista, ha ceduto alla dolce tentazione del né-né. E tuttavia sono stati poi tutti quanti incastonati senza pietà a destra o a sinistra dalle rispettive alleanze politiche. Anche il pragmatismo localista delle liste civiche comunali, che visse un momento di fortuna alla fine degli anni Novanta, non riuscì a far credere a lungo al suo slogan: "i problemi non sono né di destra né di sinistra", proprio perché, alla fine, governò le città alleandosi con la destra o, più raramente, con la sinistra.
Un luogo politico inesistente, il né-né? Per Gustavo Zagrebelski «esiste solo nel prepolitico, dove si incontrano i vasti princìpi condivisibili da tutti: ma appena si affronta il piano delle decisioni, la scelta è inevitabile». «Forse solo l´ecologismo radicale, che ha come orizzonte la specie, sfugge all´inevitabilità di scegliere fra l´interesse superiore dell´individuo o quello della comunità, fra destra e sinistra» aggiunge Carlo Galli, autore di Perché ancora destra e sinistra, «al di là dei contenuti che queste definizioni esprimono, e che variano nel tempo e nei contesti: non sono la stessa cosa nell´Italia odierna e negli Usa, o nell´Italia degli anni Cinquanta. Si può anche essere più cose contemporaneamente, come i grillini che sono di sinistra per l´attenzione ai diritti, e di destra per gli atteggiamenti populisti. Ma pretendere di stare da un´altra parte è insipienza politica, o più verosimilmente tattica».
Non c´è "terzismo" che tenga, sostengono dunque concordi i politologi: anche Sofia Ventura, considerata vicina al Terzo Polo politico, non deflette: «Se non ci fossero disposizioni nello spazio politico, non ci sarebbe neppure la politica. Le posizioni possono non essere stabili, di fatto non lo sono mai nel lungo periodo, ma chi si muove è tenuto a dire dove va». Negli anni del terrorismo, in effetti, chi diceva "né con lo Stato né con le Br" rivendicava una collocazione politica chiara, di sinistra critica ma non omicida. Mentre col suo preteso rifiuto bilaterale anticapitalista e anticollettivista Terza Posizione era fin troppo chiaramente un movimento di estrema destra.
Ma il marketing politico non ascolta certo le lezioni teoriche dei professori. Da Celentano a don Verzè, da Gaber a Grillo, proclamare la fuga sprezzante o snob o furbesca dalla geografia dell´agorà è una strategia d´immagine che paga sempre. Un grave difetto di lateralizzazione in un bambino di prima elementare impone una visita dal medico; in un adulto, può fondare una carriera.

Repubblica 28.1.121
La rivista "Foreign Affairs" cita il filosofo, e Gentile, tra i pensatori più influenti
E l´America riscopre le idee di Croce
Il magazine ha stilato una lista dei saggi dell´ultimo secolo per spiegare "come siamo arrivati fin qui"
di Angelo Aquaro


New York. «Dicono che stiamo vivendo nella crisi delle ideologie» attacca l´ultimo numero di Foreign Affairs «ma dal punto di vista della prospettiva storica è invece il contrario: i problemi di oggi sono reali quanto basta ma hanno a che fare con le politiche piuttosto che con i principi». E come si fa a far riquadrare le politiche tenendo saldi i principi? La rivista più prestigiosa di politica internazionale un´idea ce l´ha. E comprende, pensa te, anche l´Italia. Proprio così. Tra Fukuyama e Brezinski chi ti compare in copertina? Benedetto Croce. E non è la sola sorpresa tricolore. L´unico altro italiano presente è nientedimeno che il suo sodale poi smarcatosi a destra, Giovanni Gentile – sì, il filosofo idealista che convertito al fascismo fu giustiziato (allora si diceva così) dai partigiani.
La scelta della rivista che negli ultimi anni si è già distinta per avere recuperato la lezione di Antonio Gramsci è presto detta: i due filosofi fanno parte della lista dei pensatori che per il novantesimo anniversario Foreign Affairs ha raccolto per spiegare ai suoi lettori "Come siamo arrivati fin qui". E "How we got here" si chiama la parte speciale di questo numero che ripropone venti interventi che hanno fatto la storia della rivista. La crisi che viviamo non è questione di ideologie perché – scrive il direttore Gideon Rose riassumendo un illuminante saggio di Harold Lanski datato addirittura 1922 – la sintesi tra capitalismo e democrazia è quanto di meglio l´uomo sia riuscito a concepire. È la politica che oggi latita. Certo, è vero che la prospettiva di alcuni autori qui raccolti «è particolarmente cupa – e basta dare solo un´occhiata ai giornali per capire perché. Ma ricordando i grandi ostacoli che sono stati superati nel passato, l´ottimismo sembra la migliore scommessa da fare a lungo termine».
Parole sacrosante. Ma guardando appunto alla realtà che i giornali sono costretti a riportare ce ne vuole tanto di ottimismo. E soprattutto bisogna voler scommettere davvero a lungo termine. Del resto un brivido scorre anche a rileggere le tesi di chi aveva puntato tutto sul breve, anzi brevissimo. Sentite Giovanni Gentile e la sua appassionata esposizione non solo del fascismo ma del suo amato Duce: Mussolini, scrive il filosofo nel 1928 sulla rivista americana, «si vanta di essere un "tempista" (in italiano nel testo), dice che il suo vero orgoglio è l´ottima scelta di tempo. Prende decisioni e agisce su quelle nel preciso momento in cui tutte le condizioni e le considerazioni che le rendono fattibili e opportune sono opportunamente maturate». Come la discesa in guerra accanto alla Germania nazista – ultima di altre "ottime scelte di tempo" e scellerate – poi dimostrò.
Ma lasciamo anche perdere le profezie sbagliate di Gentile. Basta leggere quello che scriveva quattro anni dopo – sempre su Foreign Affairs – Benedetto Croce per riconoscere che scommettere sull´ottimismo è possibile solo sul lungo periodo. In pieno fascismo don Benedetto si scagliava contro «quelli che dibattono sul futuro dell´ideale di libertà». Nel microsaggio sta parlando dei comunisti: ma si capisce che il riferimento è anche ai neri di casa. «E a loro» continua «rispondiamo che la libertà ha più di un futuro: ha l´eternità». E già. Ma solo un visionario come lui poteva sintonizzarsi sull´eternità per giurare che «in tutte le parti d´Europa stiamo assistendo alla nascita di nuove coscienze, a una nuova nazionalità. Francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri risorgeranno per diventare europei – penseranno come europei, i loro cuori batteranno per l´Europa come oggi battono per i loro piccoli paesi, senza dimenticarli ma amandoli ancora di più». Peccato, anche qui, che la profezia si realizzerà, sì, ma solo dopo un´altra, sanguinosissima guerra. Per poi rischiare di sbriciolarsi, più di mezzo secolo dopo, sotto il peso insostenibile dell´euro e dei suoi debiti. Che fare?
Dice Foreign Affairs che non viviamo la crisi delle ideologie ma delle politiche. E allora bentornata in copertina, Italia. Ottant´anni dopo, queste due lezioni americane – diametralmente opposte – sono ancora la strada migliore per ritrovare quelle giuste. Sempre che il lungo periodo non si riveli poi troppo lungo.

La Stampa TuttoLibri 28.1.12
“Sarkò, il Medioevo non è affatto buio”
Le Goff: “Scoprii la Storia nel frigorifero”
di Alberto Mattioli


L’intervista. Dalle imprese di Dracula alla leggenda aurea di Jacopo da Varazze, le nuove curiosità del grande studioso


Un’intervista con Jacques Le Goff dà un nuovo significato all’espressione «parlare come un libro stampato». Sulla scrivania sommersa da un quadruplo strato di libri e di carte, il computer non c’è. La macchina per scrivere, nemmeno. «Mai usati. Ho sempre scritto a mano. Adesso, però, non ci riesco più». E allora come fa? «Detto. Viene qualche studente, oppure l’editore mi manda qualcuno». Forse è il segreto del suo francese netto, scandito, cartesiano, con le frasi che si susseguono senza mai un’incertezza o una ripetizione.
Il medievista ottimo massimo ha 88 anni, è vedovo, solo, non esce più di casa e dentro si muove appoggiato a un girello. Le gambe lo tradiscono. Il cervello, no. Dal ‘56, da Mercanti e banchieri nel Medioevo, passando per saggi diventati classici come La nascita del Purgatorio o la monumentale biografia di San Luigi, Le Goff continua a raccontare il Medioevo in modo tale che sembra di viverci. E, in ogni caso, verrebbe voglia di farlo. L’ultimo libro è appena stato pubblicato da Perrin: A la recherche du temps sacré, «Alla ricerca del tempo sacro», sottotitolo Jacques de Voragine et la Légende dorée, «Jacopo da Varazze e la Leggenda aurea», cioè la più celebre raccolta di vite di santi dell’epoca e non solo di quella: «La Leggenda aurea è uno dei libri più importanti del Medioevo. Me ne sono interessato da molto tempo e non ho mai smesso di pensarci. Ma disponevo solo di traduzioni francesi del Diciannovesimo secolo o dell’inizio del Ventesimo. Nel 2004 è stato finalmente pubblicato il testo originario in latino. Jacopo da Varazze era un domenicano, prima a capo della provincia della Lombardia e poi vescovo e cronachista di Genova».
Il suo libro fu il bestseller del Medioevo: «Soltanto per la Bibbia esiste un numero maggiore di manoscritti. E, cosa interessante e rara per l’epoca, la Leggenda ebbe molte traduzioni nelle lingue volgari. Jacopo era al centro di tutto quel che c’era di più interessante nel suo tempo. Intanto stava a Genova, che nella seconda metà del XIII secolo era il centro economico più importante d’Europa. Poi era un domenicano, quindi un esponente del movimento religioso, ma anche intellettuale, più nuovo e dinamico. Inoltre, ha beneficiato di alcune novità importanti della cultura medievale: per esempio, la lettura silenziosa. Fino al XIII secolo, la lettura si faceva a voce alta, e non solo nei conventi. La lettura silenziosa si diffonde insieme alla cultura laica e chiaramente significa anche una lettura più facile e più frequente. Infine, Jacopo aveva certamente anche un talento letterario: le sue vite sono piene di racconti e di aneddoti». Ma se fosse finalmente inventata la macchina del tempo e gli potesse parlare, cosa gli chiederebbe? «Credo che per prima cosa gli esprimerei, molto umilmente, la mia ammirazione».
L’appartamento, nel Diciannovesimo arrondissement di Parigi, è moderno e abbastanza anonimo. La stanza dove Le Goff passa le sue giornate insieme alle sue pipe e ai libri, i suoi e quelli degli altri, è piccola, silenziosa, un po’ buia: un invito alla concentrazione. Su uno scaffale, uno stemma di Solidarnosc: Bronislaw Geremek era un suo grande amico.
Professor Le Goff, perché ha scelto la storia?
«Mi ha sedotto da sempre. Però l’importante è capire quale storia. A me piace la storia che ti vedi passare davanti agli occhi. Negli Anni Trenta vivevo a Tolone con i miei genitori. Mi accorsi che per le strade si vedevano sempre più automobili e nelle case sempre più telefoni e frigoriferi. Noi eravamo una famiglia della piccola borghesia, mio padre era professore d’inglese, e non avevamo né automobile né telefono né frigorifero. C’era la ghiacciaia, e sento ancora il venditore ambulante di ghiaccio urlare per strada: " La glace! La glace! ". E allora mi facevano scendere per comprarlo. Ma questo non è importante. L’importante, per me, è stato capire molto presto che l’avvento del "«Ho sempre scritto a mano, adesso non ci riesco più e detto i saggi ai miei allievi» «Nel Medioevo si facevano un sacco di risate: sarà il mio prossimo campo di ricerca»"
Un’educazione europea, i ricordi di giovinezza e una frecciata ai “barbari” della modernità
frigorifero e la scomparsa della ghiacciaia era un avvenimento storico, perché cambiava la vita quotidiana, la vita delle persone, molto più delle guerre e dei Re. Per me, la storia è sempre stata storia sociale».
D’accordo: ma perché il Medioevo?
«Oh, anche questo l’ho deciso molto presto, avrò avuto dodici anni, e per due ragioni molto precise. La prima, perché in quel periodo lessi Ivanhoe di Walter Scott, che mi entusiasmò. E poi perché a scuola c’era un professore bravissimo, il migliore che abbia mai avuto, e quell’anno il programma di Storia era incentrato appunto sul Medioevo».
Insomma, la vocazione di uno dei maggiori storici del Novecento la dobbiamo a un frigorifero e a Ivanhoe. L’ha più riletto?
«Certo! Walter Scott l’ho letto tutto e Ivanhoe, l’ultima volta, qualche anno fa. E’ un bellissimo libro, che parla di storia sociale, del rapporto fra cristiani ed ebrei e in più è scritto benissimo, perché Scott aveva un grandissimo talento. Anche se l’ho capito davvero solo quando l’ho letto in inglese».
Poi, certo, di libri ne sono seguiti molti.
«Testi che mi hanno formato? Certamente I re taumaturghi di Marc Bloch, per il quale ho anche scritto una prefazione cui tengo molto, nell’edizione ripubblicata da Gallimard. Ed ero molto vicino ai grandi medievisti italiani, per esempio Arsenio Frugoni, autore della bellissima biografia di Arnaldo da Brescia».
Di andare in pensione, ovviamente, non si parla.
«Per la verità, ho pensato, come autore, di ritirarmi. Però continuano a chiedermi libri, sarebbe un peccato non scriverli... ».
Scriverli, al plurale?
«In cantiere ne ho due. Il primo è in realtà una raccolta di articoli, soprattutto di prefazioni. E’ un genere che ho sempre coltivato perché trovo che sia importante per gli storici giovani. Una prefazione generica, modello " comprate questo libro, è buono" non serve a niente. Credo che una prefazione analitica e magari anche critica, invece, aiuti il libro e anche chi l’ha scritto».
E l’altro?
«L’altro è in realtà un’opera collettiva che sto dirigendo, un centinaio di brevi biografie di personaggi importanti del Medioevo. Compresa una quindicina di personaggi immaginari, perché per la storia l’immaginazione è importantissima. Dunque, o figure leggendarie, come Merlino o la fata Melusina, oppure figure realmente esistite ma poi mitizzate e diventate altro. Come Artù o Dracula».
Le Goff si interessa al conte Dracula?
«Sì, proprio quel Dracula. In realtà era un principe della Valacchia, nell’attuale Romania, si chiamava Vlad III e nel suo XIV secolo era famoso come l’Impalatore, perché aveva una predilezione per questo supplizio. Poi con il tempo il personaggio leggendario ha preso il sopravvento su quello storico, ha cambiato, diciamo così?, metodo criminale ed è diventato un vampiro. Fino a diventare una star del cinema, a partire da quello muto. Generando tutto un filone letterario e anche cinematografico che comprende personaggi come Frankenstein».
A questo punto è inutile chiederle se abbia rimpianti...
«No. Anzi sì: forse non sono contento proprio di tutto quello che ho scritto. Però se ci sono dei soggetti che non ho trattato è perché ho avuto delle buone ragioni. Per esempio, il riso nel Medioevo. Ho scritto degli articoli, ma il tema era decisamente troppo ampio. Ma sono rimasto colpito dalla quantità di risate che si incontra nella Leggenda aurea. E un mio allievo che è diventato il massimo esperto della Scolastica mi segnala che sul riso esistono dei testi quasi sconosciuti di Tommaso d’Aquino e di Alberto Magno. Quindi magari il terzo libro sarà quel saggio sul riso nel Medioevo che finora non ho mai potuto scrivere... ».
Lei è sempre stato un intellettuale europeo.
«In Europa ho anche studiato, grazie a delle borse di studio. Prima a Praga, una città meravigliosa ma triste. Poi a Oxford: la Biblioteca Bodleiana è straordinaria, però il modo di comportarsi degli inglesi non mi è mai piaciuto. Dell’Inghilterra amo solo Londra. E poi naturalmente ho lavorato anche in Italia. Ci passai un anno prima di sposarmi e fu forse uno dei più belli della mia vita. La Scuola francese mi metteva a disposizione una camera su piazza Navona: che splendore. E che rumore: la sera la gente conversava in strada fino a tardi, poi all’alba arrivavano i netturbini, quindi le notti erano brevissime. Ma che incanto, quella piazza... ».
Ultima domanda: di recente Nicolas Sarkozy ha usato ancora una volta l’aggettivo «medievale» nel senso di retrivo e oscurantista. Professor Le Goff, ha forse insegnato invano?
«Per me monsieur Sarkozy è di un’intollerabile volgarità sia come uomo che come politico. Basti pensare alla sua politica disgustosa verso i giovani che vengono a studiare in Francia. Non mi stupisco che usi gli aggettivi in maniera sbagliata: a parte tutto, non ha nemmeno una buona conoscenza della lingua francese».

il Fatto 28.1.12
12 mila per il saluto ad Angelopoulos


Una folla di oltre 12 mila persone è affluita ieri pomeriggio nel cimitero di Atene, dove si sono svolti i funerali di Theodoros Angelopoulos. Alla cerimonia funebre celebrata con rito ortodosso sono seguiti gli interventi di amici e collaboratori, tra cui quello di Toni Servillo che ha elencato i nomi degli attori che erano stati diretti dal maestro greco. Presente anche lo scrittore Petros Markaris, arrivato da Monaco di Baviera, mentre quasi assente la rappresentanza del cinema internazionale. Il grande regista greco è morto la sera di martedì scorso, in seguito alle gravi ferite riportate dopo essere stato investito da una moto mentre attraversava la strada nel quartiere del Pireo mentre girava L'altro Mare, un film sulla crisi dell'economia greca che ha per protagonista proprio Servillo.

venerdì 27 gennaio 2012

l’Unità 27.1.12
Camusso: sul lavoro il governo ancora non ci ha detto nulla
Il segretario della Cgil, nella manifestazione che si è tenuta al Forum di Assago, ha ribadito il suo no alla riforma delle pensioni voluta dal governo Monti e la volontà di difendere i diritti dei lavoratori
di Giuseppe Caruso


«La manovra sulle pensioni è iniqua e va cambiata». Non ha usato giri di parole Susanna Camusso, ieri, per esprimere ancora una volta la sua posizione sulla più importante delle riforme volute dal governo Monti. L’occasione è stata offerta dalla manifestazione interregionale «Non pieghiamo i diritti, lavoriamo per crescere» organizzata dalle sette sigle regionali del Nord della Cgil al Forum di Assaso, alle porte di Milano. La Camusso ha parlato di diversi argomenti, spaziando dalle pensioni alla Fiat, da camionisti in sciopero al futuro del Paese.
«COSÌ NON VA»
Per quanto riguarda le pensioni, il segretario ha ribadito che «l’attuale riforma così non la si regge, perché non la regge il mercato del lavoro e non la reggono i lavoratori. Noi siamo disposti a ragionare su come si possa garantire una pensione ai giovani, ma non su come si possa fare cassa su quanto già versato dai lavoratori e sulle loro aspettative». «Se fossimo stati di fronte all'idea che si cambiava qualcosa per garantire ai giovani la pensione ha aggiunto tutti noi avremmo detto sì e saremmo stati disposti a fare un sacrificio. Ciò che invece rende iniqua e insopportabile la manovra è che si tolgono i diritti a chi li ha oggi senza dare prospettive ai giovani. Il vero obiettivo sottostante è l'idea che ognuno debba fare la propria polizza privata e non c'è più il senso e il senno di un sistema che è solidale al suo interno».
Per quanto riguarda la riforma del lavoro, il segretario in mattinata, via facebook e twitter, aveva ricordato come «la priorità del sindacato sia quella di ricomporre il mercato del lavoro, superare la precarietà e offrire una prospettiva a tuti quelli che sono fuori dal mercato del lavoro. Se vogliono ridurre i diritti dei lavoratori, sarà un nuovo conflitto». Dal palco della manifestazione invece la Camusso ha invitato il governo a varare «la fase due, che deve essere qui ed ora e non quando verrà. Devono domandarsi come si rimettono in moto gli investimenti perché altrimenti non si crea lavoro».
Il segretario poi ha parlato della situazione della Fiat: «Ci dicano una volta per tutte che cosa vogliono fare in questo Paese, perché degli spot non ce ne facciamo nulla: vogliamo sapere qual è il suo piano industriale e perché mai vuole produrre in questo Paese vetture che non si producono più nemmeno negli Stati Uniti».
CAMION E SCIOPERI
Quindi un accenno agli scioperi di questi giorni contro le liberalizzazioni, in modo particolare a quello dei camionisti. Secondo il segretario la protesta degli autotrasportatori «sta facendo aumentare l'inflazione, quindi chiediamo all'esecutivo ascoltare le ragioni, ma anche di non cedere a frammentazioni e corporazioni. Il governo deve fermare lo sciopero dei Tir». Il pensiero va a chi utilizza ogni giorno l'automobile per recarsi al lavoro: «Non ci può essere la logica per cui i sacrifici sono sempre per qualcuno, mentre per altri si riconosce la logica della corporazione e dei diritti acquisiti, siamo l'unico Paese in Europa dove andare alla pompa di benzina significa fare un mutuo».
IL SINDACATO LOMBARDO
Il segretario della Cgil Lombardia, Nino Baseotto, che ha avuto il compito di aprire l’incontro, ha voluto ricordare come quella di ieri non fosse «un manifestazione per così dire leghista e se qualcuno ha sperato che fosse una sorta di allontanamento delle organizzazioni regionali della Cgil del nord del Paese, rimarrà deluso. Guardiamo all’Europa e non sappiamo cosa sia la Padania». Quindi il segretario lombardo si è augurato l’adozione «di politiche di crescita, tutte incentrate sul lavoro e da questo punto di vista crediamo di poter contribuire in modo costruttivo grazie alle nostre idee».

Corriere della Sera 27.1.12
Potere d'Acquisto ai Minimi dal '95 Mai così distanti Prezzi e Salari

Guadagnano di più i militari, statali in coda. Nell'industria stanno meglio i chimici
di Stefania Tamburello

Lo scorso anno, nel 2011, le retribuzioni contrattuali sono cresciute poco, meno dell'inflazione e il potere d'acquisto dei lavoratori dipendenti si è ridotto. Il succo delle rilevazioni, diffuse ieri dall'Istat, è questo, ed è un ulteriore segnale che la crisi morde. Mercoledì era stata la Banca d'Italia con la sua indagine sui bilanci delle famiglie italiane a segnalarlo, ieri è intervenuto l'Istituto di statistica, presieduto da Enrico Giovannini a ripeterlo accendendo il faro su un aspetto più specifico che riguarda comunque la larga schiera dei lavoratori dipendenti ai quali si applicano i contratti collettivi.
Ebbene, dice l'Istat, nel 2011 l'aumento delle retribuzioni è stato pari nella media all'1,8%, l'incremento più basso dal 1999. E soprattutto non in grado di coprire il rialzo dei prezzi registrato nel corso dell'anno, pari nella media al 2,8%. Ed è un elemento importante perché vuole dire che si è corroso il potere d'acquisto dei lavoratori. Lo si vede meglio se invece di prendere in considerazione il dato medio si guarda al dato tendenziale. Cioè al raffronto tra la situazione a dicembre 2012 rispetto a quella dello stesso mese di un anno prima, senza considerare le variazioni intermedie. In questo caso si ha un aumento di salari e stipendi dell'1,4%, il più basso dal 1995, che si raffronta a un balzo dell'inflazione del 3,3%: i prezzi sono saliti a un ritmo decisamente più veloce di quanto non siano cresciute le retribuzioni.
Visto che l'Istat fornisce i dati definitivi dell'anno è meglio comunque tornare alle cifre medie più efficaci per analizzare il fenomeno. Tanto le cose non cambiano. Anche perché potremmo prendere per valutare quanto si sia ridotto il potere d'acquisto degli italiani che lavorano alle dipendenze non l'indice dei prezzi generale ma quello dei beni a più alta frequenza di acquisto, quelli del cosiddetto carrello della spesa, che nel 2011 sono aumentati in termini tendenziali del 4,3% e nella media del 3,5%. La differenza in questo caso è più evidente.
Cosa è successo? I sindacati sono stati troppo timidi nel negoziare i contratti? Gli accordi devono essere rinnovati? O l'inflazione è salita oltre le previsioni?
I contratti
Prendiamo in considerazione i diversi comparti, agricoltura, industria, servizi privati e pubblica amministrazione: le retribuzioni orarie contrattuali sono rispettivamente cresciute nella media del 2,2%; del 2,5% (con una punta del 3% per le categorie della gomma e plastica e del 2,9% per l'edilizia); dell'1, 5% e dello 0,7% (con le punte del 3,3% per i militari del 3,1% delle forze dell'ordine e del 2,7% dei vigili del fuoco). Tutti incrementi, comunque, che nel complesso dei diversi settori non hanno coperto l'inflazione, con qualche differenza sotto l'aspetto contrattuale: nell'agricoltura e nell'industria la gran parte degli accordi (per quel che riguarda il numero dei lavoratori) è stata siglata, nei servizi privati è mancato il rinnovo dei bancari, il cui contratto è stato siglato solo qualche giorno fa. Mentre nella pubblica amministrazione, come si sa, è tutto bloccato per tre anni dal 2010 al 2012. In totale i contratti in attesa di rinnovo sono 29, di cui 16 appartenenti alla pubblica amministrazione relativi a circa 4,1 milioni di dipendenti (circa tre milioni nel pubblico impiego). In dicembre, quando l'Istat ha fatto l'indagine, risultavano in vigore 48 accordi a cui si aggiunge quello dei bancari siglato la scorsa settimana, che regolavano il trattamento economico di 9 milioni di dipendenti, cioè il 63,1% del monte retributivo complessivo. A questo proposito l'Istituto di statistica informa che i mesi di attesa per il rinnovo dopo la scadenza per il settore privato sono 27,6.
Non è quindi la mancanza di un contratto in vigore a spiegare la perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni. Ma evidentemente lo sono gli accordi siglati. E lo è il tasso di inflazione aumentato in misura maggiore del previsto.
L'inflazione
I prezzi hanno preso la rincorsa in particolare negli ultimi mesi del 2011 riflettendo soprattutto gli aumenti delle imposte indirette, Iva e accise sui carburanti. Mentre si sono andate attenuando le pressioni provenienti dai prezzi alla produzione. Il risultato è come si è detto un incremento medio del 2,8 %, in sensibile accelerazione rispetto all'1,5% del 2010. A incidere soprattutto i rincari dei carburanti e dei prodotti energetici: al netto di questi beni, il tasso tendenziale di inflazione pari in dicembre come si è detto 3,3%, scenderebbe al 2,3%.
Una differenza non lieve che potrebbe aver fatto la sua parte nella dinamica delle retribuzioni. I contratti collettivi di lavoro, sulla base dell'accordo tra le parti sociali siglato nel gennaio del 2009, prendono in considerazione nel definire gli aumenti salariali l'Ipca, che è l'indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo (pari nella media del 2011 al 2,9% mentre a livello tendenziale in dicembre è risultato del 3,7%) depurato però degli effetti della spesa energetica importata.
Le previsioni
Un distacco così ampio tra retribuzioni e inflazione non si vedeva da metà degli anni Novanta, dice l'Istat. Anche se in misura più ridotta l'erosione del potere d'acquisto di salari e stipendi non è una novità per gli anni Duemila. E potrebbe non esserlo anche nell'immediato futuro visto che l'Italia è in recessione. E visto che in attesa delle statistiche, gli economisti della Banca d'Italia, nel loro Bollettino economico, qualche giorno fa hanno comunicato che secondo proprie stime «la dinamica delle retribuzioni rimarrebbe negativa in termini reali nel biennio 2012-2013».

Corriere della Sera 27.1.12
La sinistra riparte da Vasto Bersani apre, malumori nel Pd
Idv e Sel rilanciano l'asse. Patto tra il capo democratico e Vendola
di Maria Teresa Meli


ROMA — Bersani e Vendola, superato l'iniziale gelo seguito alla nascita del governo Monti, tornano a parlarsi. Il segretario del Pd e il leader di Sel si sono incontrati la settimana scorsa. E hanno aperto un tavolo di trattativa nel quale finirà per essere coinvolto anche Di Pietro.
Il colloquio è stato chiesto dal governatore della Puglia, che vuole riallacciare i fili dell'alleanza con il Partito democratico. Bersani non si è opposto all'idea. Anzi. I due hanno sottoscritto una sorta di patto di mutuo soccorso per salvare le leadership di entrambi, che potrebbero risultare molto compromesse dopo l'esperienza del governo Monti. E c'è chi dice che Vendola abbia addirittura rinunciato alle primarie, pur di venire incontro al segretario del Pd. Del resto, anche nel centrosinistra si fanno discorsi simili a quelli che Berlusconi ha fatto qualche giorno fa: «Bisogna valutare se andare alle elezioni anticipate, non per vincerle, ma per evitare che dopo un altro anno e mezzo di Monti tutti i leader attuali, me incluso, vengano spazzati via». Il Pd, naturalmente, non intende interrompere anzitempo la legislatura, ma il pericolo di un rivolgimento che porti nuovi personaggi alla ribalta è ben presente anche a Largo del Nazareno.
Certo, è ancora presto per dire come andrà a finire nel mondo variegato e inquieto della sinistra, però i tentativi di riavviare un dialogo ci sono. Ieri Bersani, in un'intervista all'Unità, ha dichiarato che si possono «riaprire dei tavoli programmatici con Sel», mentre a Di Pietro ha chiesto, come condizione per far ripartire un confronto, di smetterla di parlare di «inciucio» Pd-Pdl. E il giorno dopo, in una conferenza stampa congiunta, il governatore della Puglia e il leader dell'Idv hanno mostrato di apprezzare le aperture del segretario del Partito democratico. «Non pronuncerò più la parola inciucio», ha assicurato Di Pietro, mentre Vendola ha dichiarato: «Primarie? Ho fatto il voto di non parlarne ogni giorno». Quindi l'appello comune: «Riapriamo il cantiere del centrosinistra, senza veti per nessuno, nemmeno per l'Udc, ci stia anche il Pd, altrimenti...». Altrimenti Vendola e Di Pietro faranno da soli. Se il Partito democratico rifiutasse la proposta di alleanza, o, peggio, se facesse approvare una legge elettorale per emarginare Sel e Idv, allora si formerebbe un polo di sinistra, aperto anche ai sindaci di area, come Michele Emiliano e Luigi de Magistris. Valore potenziale? Intorno al 13 per cento, stando ai sondaggi. Ma Bersani, ieri, è stato più che conciliante: «La mia prospettiva resta quella di un centrosinistra di governo che sottopone le sue proposte ai moderati e alle forze civiche». Come a dire che il nucleo originario dell'alleanza resta quello raffigurato nella foto di Vasto. Ed è questo che ha fatto scattare un campanello d'allarme in una parte del Pd. Beppe Fioroni, intervenendo al seminario «Moro, 50 anni fa il primo governo di centrosinistra», a cui ha partecipato anche il ministro Riccardi, è stato nettissimo: «Non possiamo pensare di sostenere oggi questo governo e, nel frattempo, di preparare per il domani un'alleanza elettorale con coloro che si sono schierati senza se e senza ma contro Monti». Dello stesso avviso Marco Follini: «L'immagine di Vasto è ingiallita, Bersani giri la macchina fotografica dall'altra parte».

il Riformista 27.1.12
Mario Monti tra Asor Rosa e Rossana Rossanda
di Emanuele Macaluso


Ieri in prima pagina di Libero, un grande titolo: «Monti si fuma il Pdl». Molti gli osservatori a mettere in evidenza il fatto che Berlusconi è «indeciso a tutto». Del resto i sondaggi confermano la difficoltà di un partito che dopo la rottura con la Lega non ha più una strategia per ridefinire alleanze e progetto politico. Insomma, il governo Monti e la sua iniziativa per una difesa del Paese, anche sul piano internazionale, ha messo alle corde la destra berlusconiana. Eppure c’è un pezzo della sinistra che considera una sciagura il governo Monti e discute come se l’alternativa possibile a Berlusconi fosse stata una pronta coalizione di sinistra. Su questo tema, sul manifesto, si è svolto un gustoso dialogo fra Alberto Asor Rosa e Rossana Rossanda a cui hanno partecipato Mario Tronti e tanti lettori. Ne parlo anche perché queste posizioni le ritrovo nel dibattito della Sel e anche nel Pd. Riassumere il lunghissimo articolo di Asor è difficile, ma ci aiuta Rossana, quel testo l’ha fatta «sussultare» e ci dice perché: «Asor Rosa vede nel formarsi extra e post parlamentare del governo Monti voluto dal presidente della Repubblica e accettato più o meno obtorto collo dalle intere Camere, esclusa la Lega, un passaggio salvifico che ci ha estratti dalla palude del berlusconismo». Invece non è così!
Rossana critica Asor perché ha scritto che le misure adottate da Monti per fronteggiare la crisi erano necessarie e inevitabili: «Non si poteva fare di più e soprattutto di meglio nello spazio consentito dall’incalzare degli eventi». Rossana spiega che il governo Monti è in linea con la destra europea (tesi anche di Vendola) e che non andava né apprezzato né sostenuto perché, questa è la sostanza del suo ragionamento, non fa quel che farebbe la sinistra. Grande scoperta.
ossana Rossanda, infatti, lamenta che il presidente della Repubblica non abbia chiesto (a chi?) «una destituzione del precedente premier, per recidivo assalto alle istituzioni repubblicane, anziché lasciarlo con la sua maggioranza da dove potrebbe riemergere». Qui siamo al delirio. Sempre sul manifesto c’è un successivo intervento della Rossanda per dire che Asor Rosa si era «doluto» del fatto che il suo articolo era stato letto come «appoggio al governo Monti». Terribile equivoco subito chiarito. In sostanza Asor ora dice: meno male che c’è Monti, ha operato bene per fronteggiare la crisi, ma non mi confondo con chi l’appoggia! E Rossana spiega perché bisogna opporsi: «Non si può ignorare che il rigore prediletto da Monti, a sua volta prediletto del nostro Presidente, ha paralizzato la crescita siamo dovunque in recessione (perfino la Germania rallenta) cresce la disoccupazione e calano le entrate pubbliche». Quindi il rigore di Monti ha «paralizzato la crescita». Prima la crescita c’era. I guai, conclude la Rossanda, ci sono «non perché non seguiamo Bruxelles, ma perché la seguiamo». E dà un consiglio al presidente della Repubblica: «Se invece che a Monti ci si fosse rivolti a qualcuno dei molti che del liberismo non ne possono più, non saremmo a goderci una reazione tanto onesta quanto spietata». Chi è il «qualcuno» che aveva in tasca anche la maggioranza per reggere un governo? Di Pietro?
Sino a quando una certa sinistra non finirà di scambiare i propri desideri con la realtà e la necessità con la possibilità, darà spazio solo alle forze moderate, o alla destra come si verificò con la crisi della coalizione di Romano Prodi.
Il riferimento non è solo a Rossana e ai suoi amici del manifesto.

l’Unità 27.1.12
«Svuota carceri» atto di civiltà
di Alberto Maritati


L’approvazione, in Senato, del decreto-legge sul sovraffollamento delle carceri è un passo importante per la nostra civiltà giuridica. Finalmente si affronta un tema, quale quello del carcere, da sempre dimenticato, ridotto a un problema di mera edilizia penitenziaria o, peggio, strumentalizzato in chiave securitaria, secondo una logica che identifica nel reo un nemico pubblico da escludere, privo di diritti e garanzie, anziché un trasgressore della legge da rieducare ai valori della legalità. Particolarmente significativa in tal senso è l’estensione a diciotto mesi del residuo di pena che consente al detenuto di essere ammesso alla detenzione domiciliare. Questa disposizione non si applica ai detenuti per reati particolarmente gravi o soggetti al regime di sorveglianza particolare ed è comunque disposta caso per caso dal giudice di sorveglianza, che acquisisce una relazione dal carcere sulla condotta penitenziaria del condannato. Il bilanciamento – realizzato da tale norma tra difesa sociale ed esigenze di rieducazione (del condannato) è quindi, in un certo senso, la “cifra” del decreto-legge.
Che è uscito dal Senato ulteriormente migliorato, soprattutto nelle parti volte a evitare il fenomeno delle ‘porte girevoli’, ossia dell’ingresso in carcere di soggetti in attesa della convalida dell’arresto e che spesso vengono subito rilasciati a piede libero e, talora, addirittura senza che l’arresto sia convalidato. L’esigenza di fermare il fenomeno delle ‘porte girevoli’ è del resto necessario non solo in funzione deflattiva della popolazione degli istituti penitenziari, ma anche e soprattutto perché, come dimostrano le statistiche, il maggior numero di suicidi in carcere si verifica proprio nei primi giorni di ingresso, quando i detenuti sono in attesa di giudizio e per giunta presunti innocenti! Va dunque evitato il più possibile che, laddove non vi siano esigenze di difesa sociale, soggetti non pericolosi siano tradotti in carcere nella fase pre-cautelare. In questa
direzione, il testo votato dal Senato prevede un sistema di custodia graduale, ispirato al principio della residualità della detenzione in carcere. In sintesi, quale misura ordinaria da disporsi in caso di arresto per reati di competenza del tribunale monocratico (esclusi furto con strappo, in abitazione e rapina) si prevedono gli arresti domiciliari. Solo in caso di indisponibilità di un domicilio o di luoghi di cura ovvero di pericolosità dell’arrestato, egli sarà condotto in strutture idonee nella disponibilità della polizia giudiziaria o, in caso di necessità, in carcere. Benché limitata nella sua sfera di applicazione rispetto al testo votato in Commissione, questa previsione è un’importante conquista sul terreno delle garanzie. Prevedere in prima istanza, e salvi i soggetti pericolosi, l’arresto domiciliare, serve infatti non solo a deflazionare le carceri, ma anche e soprattutto a non immettere nel circuito penitenziario persone che ne uscirebbero dopo due giorni, ma gravemente segnate da quell’esperienza, che non può non dirsi traumatica. Inoltre, si è esteso alle camere di sicurezza il diritto di visita riconosciuto (per le carceri) a parlamentari (anche europei), garanti dei diritti dei detenuti, etc.,.
Infine, si è previsto il superamento di quell’”estremo errore inconcepibile in qualsiasi paese appena civile” (così il Pres.Napolitano) degli ospedali psichiatrici giudiziari, in favore di strutture a vocazione essenzialmente terapeutica, garantite tuttavia dalla presenza all’esterno della polizia penitenziaria, così da coniugare esigenze di difesa sociale e diritti alla salute e alla dignità per gli internati. Anche questo è un passo importante di civiltà giuridica, atteso da anni e non più rinviabile, segno di una rinnovata attenzione alle garanzie e ai diritti fondamentali, che speriamo possa essere il tratto caratterizzante di questa stagione politica. In primo luogo, ma non solo, sul terreno della giustizia.

il Riformista 27.1.12
«Detenute discriminate»
di S. O.


«Le donne in carcere hanno difficoltà di accesso alle opportunità di studio e lavoro, difficoltà riconducibili alla mancanza di risorse e alle pratiche discriminatorie poste in essere dal personale delle strutture carcerarie»: non sono dettagli privi di rilievo, quelli emersi dalla missione conoscitiva in Italia di Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’Onu per la violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze, soprattutto a proposito di politiche detentive, proprio nel momento in cui l’esecutivo sta faticosamente tentando di decongestionare gli istituti di pena. Monjoo ha visitato le prigioni femminili di Napoli e Roma (oltre che istituti di detenzione minorile, ospediali psichiatrici giudiziari e centri d’identificazione ed espulsione degli immigrati), verificando la condizione di cronico sovraffollamento che «in taluni casi supera il 50% in più della capienza reale delle strutture». Ma il problema principale resta l’accesso all’istruzione e al lavoro: «Con il taglio dei fondi, si è estremamente limitato il campo d’azione delle associazioni in grado di assistere le detenute in questo senso, e dello stesso Stato. Le opportunità di formazione è impiego, per le donne detenute, sono ridotte all’osso». E, in un contesto del genere, ad avere la peggio, o a credere di essere discriminate, sono le minoranze: «Molte detenute appartenenti a questi gruppi, pensano che il fatto di non avere lavoro sia direttamente funzionale alla loro etnia».
Come pure le detenute lamentano «disparità di trattamento da parte di alcuni giudici di sorveglianza nel riesame delle sentenze per la scarcerazione anticipata delle detenute che soddisfano i requisiti per misure alternative al carcere». Secondo le informazioni della relatrice Onu, «c’è preoccupazione per la disparità del trattamento riservato alle detenute nelle decisioni dei giudici in materia di pene alternative alla detenzione, e per l’applicazione incoerente della legge sull’affidamento in comunità o sulla destinazione agli arresti domiciliari». Nella percezione delle detenute, continua l’avvocato sudafricano, non c’è certezza della legge: «Alcune delle intervistate hanno già scontato per intero la propria pena, non sono state scarcerate e non sanno spiegarne il motivo. Ma la maggior parte di loro, non si sente tutelata dagli avvocati d’ufficio che gli sono assegnati».
Infine, Monjoo sottolinea «i problemi che affrontano le donne detenute con figli minorenni all’interno e fuori dal carcere», e boccia l’ipotesi che le donne possano tenere con sé (in galera) fino al compimento dei 6 anni (ora ci restano dalla nascita ai 3 anni).

il Fatto 27.1.12
Benedetta Corruzione
Furti, truffe, veleni. Scandalo in Vaticano
Il Vaticano ignorò le truffe e i reati che l’arcivesco Viganò denunciò al cardinale Bertone
In una lettera inedita, monsignor Viganò accusa alti prelati e giornalisti. E minaccia di rivolgersi alla giustizia
di Marco Lillo


Furti nelle ville pontificie coperti dal direttore dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini. E poi fatture contraffatte all’Università Lateranense a conoscenza addirittura dell’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per l’evangelizzazione. E ancora: interessi del monsignore in una società che fa affari con il Vaticano ed è inadempiente per 2,2 milioni di euro. Ammanchi per centinaia di migliaia di euro all’Apsa - rivelati dal suo stesso presidente - e frodi all’Osservatore, rivelate da don Elio Torregiani, ex direttore generale del giornale. C’è tutto questo nella lettera che Il Fatto pubblica oggi. I toni e i contenuti sono sconvolgenti per i credenti che hanno apprezzato gli appelli del Papa. “Maria ci dia il coraggio di dire no alla corruzione, ai guadagni disonesti e all’egoismo” aveva detto nel giorno dell’Immacolata del 2006 Ratzinger.
EPPURE il Papa non ha esitato a sacrificare l’uomo che aveva preso alla lettera quelle parole: Carlo Maria Viganò, l’arcivescovo ingenuo ma onesto, approdato alla guida dell’ente che controlla le gare e gli appalti del Vaticano. La lettera di Viganò è diretta a “Sua Eminenza Reverendissima il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato della Città del Vaticano”, praticamente al primo ministro del Vaticano. Quando scrive a Bertone l’8 maggio del 2011, Viganò è ancora il segretario generale del Governatorato. Ed è proprio dopo questa lettera inedita, e non dopo quella del 27 marzo già mostrata in tv da Gli intoccabili, che Viganò viene fatto fuori. La7 si è occupata mercoledì scorso della lotta di potere che ha portato alla promozione-rimozione di Viganò a Nunzio apostolico negli Usa. L’arcivescovo-rinnovatore aveva trovato nel 2009 una perdita di 8 milioni di euro e aveva lasciato al Governatorato nel 2010 un guadagno di 22 milioni (34 milioni secondo altri calcoli). Nonostante ciò è stato fatto fuori da Bertone grazie all’appoggio del Papa e del Giornale di Berlusconi. A questa faida vaticana è stata dedicata buona parte della trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi che, nonostante lo scoop, si è fermata al 3,4% di ascolto. In due ore sono sfilati anche il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, un uomo del Vaticano in Rai, Marco Simeon e il vice di Viganò al Governatorato, monsignor Corbellini. Sono state poste molte domande sulle lettere scritte prima e dopo ma non su quella dell’8 maggio che è sfuggita agli Intoccabili. Peccato perché proprio in questa lettera si trovano storie inedite che coinvolgono nella parte di testimoni o vittime di accuse anche diffamanti, gli ospiti di Nuzzi.
E PECCATO anche perché nella lettera ci sono molte risposte (di Viganò ovviamente) ai quesiti posti da Nuzzi. Tipo: chi è la fonte del Giornale che ha scatenato la polemica tra Viganò e i suoi detrattori? Oppure: perché Viganò è stato cacciato? Probabilmente dopo la lettera che pubblichiamo sotto era impossibile per il Papa mantenere Viganò al suo posto. Il segretario del Governatorato non scriveva solo di false fatture e ammanchi milionari. Non lanciava solo accuse diffamatorie sulle tendenze sessuali dei suoi nemici ma soprattutto metteva nero su bianco i risultati di una vera e propria inchiesta di controspionaggio dentro le mura leonine. E non solo spiattellava i risultati, (tipo: la fonte del Giornale è monsignore Nicolini che vuole prendere il mio posto. O peggio: Monsignor Nicolini ha contraffatto fatture e defraudato il Vaticano) ma sosteneva che le sue fonti erano personaggi di primissimo livello come don Torregiani, monsignor Fisichella e monsignor Calcagno. Infine minacciava: “I comportamenti di Nicolini oltre a rappresentare una grave violazione della giustizia e della carità sono perseguibili come reati, sia nell’ordinamento canonico che civile, qualora nei suoi confronti non si dovesse procedere per via amministrativa, riterrò mio dovere procedere per via giudiziale”. Una minaccia ancora valida nonostante l’oceano separi l’arcivescovo dalla Procura. Anche perché il telefonino di Viganò continua a squillare a vuoto. La Procura di Roma riaprirà le indagini sull’aggressione fascista avvenuta in un comprensorio sulla Camilluccia e coperta per due anni e mezzo da una coltre di omertà e paura. Altro che vicenda irrilevante. Altro che “inaccettabile strumentalizzazione di un familiare minorenne per attaccare Gianni Alemanno”, come ha dichiarato ieri Mara Carfagna. Altro che “barbarie” (riferita all’articolo del Fatto non al pestaggio dei fascisti, ovviamente) come ha dichiarato Fabrizio Cicchitto. L’inchiesta della Polizia presentava delle lacune e il pm titolare, Barbara Zuin, dopo aver letto sul Fatto alcuni particolari che non erano stati evidenziati nelle informative, ha deciso di riaprire l’indagine, per la quale aveva chiesto l’archiviazione, non ancora disposta però dal Gip. Magari si chiuderà comunque con un nulla di fatto ma - per rispetto alle vittime e alla dignità dello Stato - l’istruttoria sarà riaperta e le persone presenti sulla scena (forse anche il figlio del sindaco) saranno ascoltate direttamente dal pm. Anche perché nella strana storia di questo fascicolo ogni giorno Il Fatto scopre circostanze nuove e interessanti. TRA I TESTIMONI convocati dalla Polizia come persone informate sui fatti c’è anche un signore che si chiama Luigi Bisignani. Proprio lui, l’ex giornalista già iscritto alla P2, finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4 e per la quale ha patteggiato due mesi fa una condanna a un anno e sette mesi. Cosa c’entra l’uomo che sussurrava ai potenti, da Giulio Andreotti a Gianni Letta, passando per le ministre del governo Berlusconi in questa storia di pestaggi e giovani fascisti? Ovviamente personalmente Bisignani non c’entra nulla mentre è molto importante in questa storia seguire le mosse di un telefonino a lui intestato. Come è stato raccontato dal Fatto ieri, il 2 giugno del 2009 una comitiva di 13enni e 14enni si era “imbucata” in un comprensorio chiuso della Camilluccia per fare il bagno in piscina. I ragazzi, tra i quali c’era anche il figlio di Gianni Alemanno e Isabella Rauti, avevano cominciato a fare saluti fascisti urtando la sensibilità di un altro gruppo, invitato dal figlio di un primario, Carlo Vitelli, e di una giornalista, Ma-rida Lombardo Pijola, che risiedono nel comprensorio. Un amico del figlio della coppia aveva chiesto in malo modo ai ragazzini di destra “imbucati” di smetterla. Per tutta risposta un amico del figlio del sindaco, di nome Tommaso (la cui posizione è stata poi trasmessa alla Procura dei minori da parte del pm Barbara Zuin) aveva ribattuto a muso duro di appartenere al Blocco Studentesco, l’organizzazione che fa proseliti nei licei inneggiando al fascismo. Subito dopo, secondo alcuni testimoni - Tommaso (che sentito dalla Polizia su delega del pm Zuin si è avvalso della facoltà di non rispondere) aveva chiamato alcuni numeri con il suo telefonino. La Polizia aveva esaminato i tabulati e aveva scoperto che le chiamate più interessanti erano poche: quella brevissima (probabilmente un contatto a vuoto) con il leader del Blocco Studentesco a Roma, Guelfo Bartalucci, allora ventenne. Bartalucci, convocato in commissariato aveva ammesso solo di conoscere Tommaso ma aveva negato la sua partecipazione all’aggressione e aveva detto di non ricordare dove si trovasse quel giorno. Subito dopo la chiamata a Bartalucci però dal telefono del piccolo Tommaso partivano altre chiamate, più lunghe, a un’utenza intestata a Luigi Bisignani. Il potente lobbista non era ancora su tutti i giornali per i suoi rapporti con l’allora sottosegretario alla presidenza Gianni Letta o con il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro e i poliziotti non hanno contezza dello spessore del personaggio. Bisignani spiega che forse il telefonino era in uso al figlio Giovanni Bisignani, che oggi ha 21 anni ed è una figura importante nell’area che fa riferimento a Casa-Pound e al Blocco Studentesco e all’epoca del pestaggio era un simpatizzante di destra al quale mancavano solo due settimane al compimento dei 18 anni. Le indagini non incedono con un ritmo forsennato. Solo un anno dopo, nel settembre del 2010 e poi ancora a distanza di quasi un anno nel maggio 2011 per la seconda volta, il denunciante, il primario Carlo Vitelli, viene finalmente convocato in commissariato per il riconoscimento. Tra le decine di foto che gli mostrano c’è anche quella di Bisignani jr. Vitelli scruta le foto tessera un pò sfocate e - un po’ scocciato per un simile riconoscimento solo a distanza di due anni - risponde che non è in grado di riconoscere nessuno. L’indagine della Polizia non va oltre. Nessuno convoca per esempio l’autista dell’auto che porta via Alemanno jr. Gli amici della vittima del pestaggio, che certamente erano più attenti alla scena della vittima, non sono chiamati a testimoniare. Il pm Barbara Zuin si convince che non c’è altro da fare e chiede l’archiviazione. IERI Gianni Alemanno e Isabella Rauti hanno emesso un comunicato in cui non spiegano se è vero - come è stato riferito al Fatto da un investigatore - che alla guida della Mercedes che porta via il figlio dal comprensorio sulla Camilluccia c’era un poliziotto che nel tempo libero fa da autista alla famiglia. La famiglia Alemanno però si lamenta: “l’uso di nostro figlio per attaccare noi genitori è tanto più grave quanto è evidente l’assoluta inconsistenza delle illazioni. Nostro figlio”, prosegue la nota, “all’epoca appena quattordicenne, è stato un involontario testimone di un fatto gravissimo - spiega Alemanno -. Respingiamo in maniera netta e decisa l’insinuazione di aver tentato in qualche modo di insabbiare l’indagine: non avremmo potuto, non avremmo voluto, né ne avremmo avuto interesse”. E quindi la famiglia sarà contenta, come Il Fatto, della riapertura dell’inchiesta.

il Fatto Saturno 27.1.12
Mali culturali
Siena: assassinio della Cattedrale
Il patrimonio del Duomo rischia d’esser gestito da un cinico marketing, mentre nel restauro del pavimento le bandiere diventano giraffe
di Tomaso Montanari


«QUANTI, COL PIÈ fangoso, nulla curanti calpestano il bellissimo pavimento della chiesa cattedrale di Siena? … Egli è tutto a gran lastre di fino marmo bianco istoriate con tratti di scarpello in semplici linee piane che sol descrivono i corpi. Ma l’opera è d’eccellente lavoro». Quando, nel 1660, scriveva Daniello Bartoli, quel famoso pavimento era già antico: se ancora oggi possiamo goderne è merito dell’Opera della Metropolitana di Siena, fossile vivente che da quasi ottocentocinquant’anni tramanda il gran corpo del Duomo, sede dell’arcivescovo metropolita. Oggi, tuttavia, nubi tempestose si affollano sul destino di quella gloriosa istituzione: dove non hanno potuto la Peste Nera, la caduta di Siena e la dominazione medicea potrebbe riuscire il cinico marketing del patrimonio artistico.
Una recentissima interrogazione parlamentare della deputata PD Susanna Cenni rivela che l’Opera (una onlus con un volume d’affari annuo di sei milioni di euro) ha ceduto un ramo d’azienda (quello che si occupa di accoglienza, marketing e – tenetevi forte – iniziative culturali), con ben dodici dipendenti (i quali hanno fatto ricorso, impugnando la cessione), ad una società privata con fini di lucro: Opera Laboratori Fiorentini, una controllata di Civita. La cessione è avvenuta per un prezzo incredibilmente esiguo (42.000 euro) e, contemporaneamente, l’Opera Metropolitana ha appaltato ad Opera Laboratori quelle stesse funzioni. L’interrogante chiede al ministro degli Interni (il quale, attraverso il prefetto di Siena, nomina i vertici dell’Opera) se questa singolare operazione non finisca per modificare occultamente la natura dell’ente, da onlus a normale azienda, rischiando inoltre «di mettere in discussione la centralità degli enti cittadini nella gestione del proprio patrimonio culturale, diminuendo attività e prestigio di una delle più antiche istituzioni italiane ed europee ». E i dubbi sono più che fondati, visto che Opera Laboratori Fiorentini è uno dei pilastri del discutibile sistema del Polo Museale di Firenze così come è stato costruito da Antonio Paolucci ed ereditato da Cristina Acidini. Basti dire che pochi giorni fa un giornalista del «Giornale della Toscana» ha annunciato di esser stato assunto come addetto stampa dell’Acidini, specificando che il suo stipendio sarà pagato proprio da Opera: così quest’ultima parteciperà a gare (per mostre, gestioni museali e servizi aggiuntivi) in cui dovrà esser selezionata dalla soprintendente a cui paga il portavoce, in un monumentale conflitto di interessi. E colpisce che lo spirito felicemente municipalista di Siena si sia sgretolato fino ad appaltare a maneggi fiorentini nientemeno che il Duomo, monumento civico e identitario non meno che religioso.
Sarà il ministro dell’Interno, e poi forse la magistratura, a dirci se è in corso una mutazione genetica dell’Opera del Duomo. Ma anche se – come speriamo – non ci saranno implicazioni fiscali o penali, esiste un colossale problema culturale. L’Opera è un bene comune per eccellenza, chiamato da secoli a fare solo e soltanto gli interessi della collettività, cioè del popolo di Siena: come si concilia con questa storia l’idea di appaltare, e addirittura cedere, le sue iniziative culturali ad una società privata con fini di lucro?
Alcune conseguenze di questa mutazione investono già il patrimonio artistico. Da anni, gli interventi di restauro e di manutenzione nella Cattedrale sfuggono sistematicamente al controllo e al vaglio della Soprintendenza (specie da quando questa è retta da Mario Scalini, uscito proprio dal vivaio del Polo museale fiorentino), con la conseguenza che opere di artisti come Nicola Pisano, Michelangelo o Bernini sono oggetto di restauri ispirati più al marketing che non a ragioni di conservazione o conoscenza. Ma il punto più basso si è forse toccato con il restauro del famoso pavimento, dove gli scalpellini vanno manipolando le forme, trasformando arbitrariamente vessilli in teste di giraffa, e serpenti in lombrichi.
Così, la metafora barocca del padre Bartoli è ormai realtà: «Quanti, col piè fangoso, calpestano il bellissimo pavimento della chiesa cattedrale di Siena? ». Possibile che nella colta e orgogliosa Siena nessuno voglia fermare quei piedi fangosi?

l’Unità 27.1.12
Dio non si è dimenticato dei democratici
I quattro candidati alle primarie per la carica di segretario Pd del Lazio hanno radici nei gruppi cattolici. E il popolo delle parrocchie avrà un ruolo importante nella consultazione del 12 febbraio
di don Filippo Di Giacomo


Lunedì scorso anche a Roma, si sono concluse le votazioni degli iscritti che dovranno scegliere i candidati alle segreterie regionali per le primarie. Quando il 12 febbraio avranno luogo quelle pubbliche, aperte cioè a tutti gli elettori, i nomi entrati in lizza indicheranno al partito su quali energie dovrà indirizzarsi, per proporre ai cittadini un’immagine e un programma emendati da molti errori, quali l’incapacità di reagire alla pessima qualità del governo della città e all’allegra spartizione del welfare privato della Regione; e magari bisognerà essere capaci di fare ammenda di qualche peccato contro natura, come aver candidato nel 2010, alla presidenza di una Regione di cassaintegrati la prima fautrice dell’abolizione dell’articolo 18. A Roma hanno concorso in quattro: Enrico Gasbarra, Marta Leonori, Giovanni Bachelet, Marco Paciotti. Dietro la prevedibile affermazione di Enrico, Marta si è attestata come la vera sorpresa di questa prima fase delle primarie 2012, la candidatura più competitiva: ha avuto lo stesso risultato sia nelle sezioni cittadine sia in quelle sparse nelle province laziali. Giovanni Bachelet e Marco Paciotti rispettivamente hanno ottenuto il terzo e il quarto risultato. I primi tre, scenderanno di nuovo in lizza a febbraio.
A tutti e quattro comunque, appartiene una qualche “pertinenza” con l’ambito formativo cattolico: Enrico Gasbarra e Giovanni Bachelet, ciascuno a loro modo, il segno lo hanno da sempre; Marta Leonori (classe 1977) è stata scout nella sua intera proposta formativa, fino alla “comunità capi”, Marco Paciotti ha svolto le sue prime attività di volontariato con i gruppi di Sant’ Egidio. Ognuno per la propria strada, in un partito che, nelle sue cellule di base, (citando Ilvo Diamanti) sta sperimentando positivamente la dimensione personale, locale, delle interazioni quotidiane. Che poi Marta Leonori sia molto gradita al popolo della parrocchie, dovrebbe far riflettere anche i pochi che, a vario titolo e per motivi diversi, invitano a fischiare sempre i cattolici in via preventiva. Perché, almeno nel Lazio, dopo le batoste elettorali del 2008 e 2010 i democratici dovrebbero fare attenzione ai dati che (sempre citando Diamanti, quando ricorda le analisi sulle «subculture politiche territoriali, bianche e rosse e spiega le relazioni fra elettori, che hanno mostrato la persistenza, su base locale, delle organizzazioni e degli orientamenti sociali e politici, nel lungo periodo») smentiscono la presunta perdita di rilievo del voto di appartenenza e il presunto “allargamento” della fluidità e della mobilità sociale.
In uno scenario politico come quello romano, dove i borghesi “de sinistra” a sessant’anni non hanno ancora deciso da che parte schierarsi, quest’anno la base cattolica, è andata a pregare ad Ancona e non a Todi a fare fiera e carriera. E, per intenderci, facendo la via crucis per le strade anconetane, pregava invocando la forza (ottava stazione) per riuscire a medicare «le meschinità e lo schifo del nostro tempo». Forse, va considerato che questo popolo profumato di sudore e carico delle fatiche che sta affrontando per dare forma e forza alle sfide dell’evangelizzazione, è buona risorsa anche per la valorizzazione dei circoli, delle iniziative delle donne (lo abbiamo visto l’anno scorso) e dei giovani; anche mediante la proposta di vera formazione politica, della messa in rete delle tante e dei tanti che stanno fornendo le gambe (scegliendo come principale vincolo partitico l’autofinanziamento) a chi vuole rimobilitare questo Paese verso una politica diversa e davvero migliore.
A Roma si voterà l’anno prossimo, e il Partito democratico non potrà certamente presentarsi alle elezioni con una classe dirigente ottusamente conglomerata in un conformismo che, da decenni, riesce nell’incredibile esercizio di clericalizzarsi e, al contempo, mantenere in vita il feticcio di una secolarizzazione, trasformata ed esibita, al servizio di un’ideologia collaterale ai poteri forti, addirittura occulti.
In un’epoca in cui lo Stato non ha più il monopolio della vita politica e la Chiesa ha perso il monopolio della religione, largo dunque al nuovo che avanza. Anche una regola evangelica dice che i talenti, tutti i talenti, sia quelli cattolici sia quelli laici, fruttano solo se messi dinamicamente in gioco e sfruttati nelle loro potenzialità. Imbalsamati e adorati nelle sacrestie e nelle segreterie dei partiti, non servono a niente.
Quando poi vengono messi in gioco a proprie spese, specialmente dai giovani, è il segno che Dio non si è ancora dimenticato dei democratici.

l’Unità 27.1.12
Capitalismo in crisi
Intervista a Giorgio Ruffolo
«Marx aveva capito tutto. Vince l’avidità economica»
«Per ricostruire i suoi margini di profitto il capitalismo si è liberato di tutti i lacci Da qui il debito sovrano incontrollato. Il problema è che manca l’Europa politica»
di Bruno Gravagnuolo


Ci vogliono riforme profonde, rivoluzionarie, per tirarsi fuori da questa crisi. Che ha un nome ben preciso: crisi del capitalismo manageriale monetario». Allarme radicale, persino impensato, quello di Giorgio Ruffolo, economista ed esponente di punta del riformismo italiano. Che fa corpo con un’analisi anticipata nel finale del suo ultimo libro: Testa e croce. Una breve storia della moneta (Einaudi, pp. 176, Euro 17). La tesi: la liquidità finanziaria, in moneta e titoli, si autoalimenta, e «scommette» su di sé. Divaricandosi dai beni e dai servizi reali. Fino al crollo e al contagio dopo la vertigine. Che inghiottono in un vortice globale risparmiatori, economia e stati. Inclusa la crisi del debito italiano.
Bene, come raddrizzare la barra? Quali contromisure anticicliche? E poi: va bene Monti? O ci vuole dell’altro? E sinistra e centrosinistra, come devono muoversi in questo scenario? Sentiamo Ruffolo. Ruffolo, tutti parlano di crisi del capitalismo, dall’Economist a Tremonti, passando per una selva di economisti. Però le politiche sono sempre quelle: rigore e correttivi finanziari. Dunque solo geremie moralistiche? «Attenzione, c’è una crisi di legittimazione e di consenso sociale. Sicché anche l’aspetto etico conta, come un tempo nelle dispute tra gli avversari cristiani del capitalismo avido e i suoi apologeti settecenteschi. Il punto è che l’avidità economica fine a se stessa ha preso oggi il sopravvento. Ma senza mostrare i benefici della prosperità, come nel capitalismo industriale di un tempo, e nel capitalismo manageriale successivo....».
Un’inversione mezzi -fini. È questo che è accaduto?
«Esatto. Prima la finanza convogliava i risparmi verso gli investimenti. Con l’avvento del terzo capitalismo, quello monetario, la finanza si rivolge a sé stessa, cresce e scommette su di sé. E il circuito risparmi-investimenti si capovolge in impieghi speculativi. Un circolo vizioso, che penalizza la produzione, crea impoverimento e genera fenomeni simili alla grande depressione del 1929. Con una fondamentale differenza...».
Quale?
«Allora la crisi fu causata dalla sfasatura tra sovrapproduzione e sottoconsumo. Con crollo dei titoli azionari, aumento dei prezzi e inflazione. Oggi, ad accendere la miccia è stata l’inflazione finanziaria. Cioè l’aumento della liquidità totale, comprensiva di moneta e titoli. Nel 2007 tale ammontare di liquidità eccedeva di ben 12 volte il Pnl mondiale! Non sono aumentati i prezzi dei beni, bensì i prezzi dei titoli, sopravavalutati all’eccesso. Fino allo scoppio finale della bolla negli Usa».
Si è inventata e venduta ricchezza per accorgersi che non c’era?
«Già. In passato l’aumento dei prezzi frenava la domanda, ristabilendo un possibile equilibrio tra massa di prodotti e prezzi. L’inflazione era una spia. Con la finanza globale tutto è molto più pericoloso. Perché quando il prezzo dei titoli cresce, pompato dalle agenzie di rating e dalle banche, la gente acquista in massa titoli sul nulla. Titoli sorretti da credito al consumo e mutui, dunque da debiti.
Che vengono rinnovati e crescono. Fino all’impossibilità di onorarli e al crollo, annunciato da vendite al ribasso che travolgono tutti: risparmiatori, imprese e proprietari di case ipotecate. Altro che distruzione creatrice!».
Colpa del capitalismo liberista giunto all’acme finanziario, o anche di welfare states troppo indebitati?
«La colpa è stata delle disuguaglianze, alimentate da un capitalismo che per ricostruire i suoi margini di profitto s’è liberato di lacci e lacciuoli. Ristrutturandosi, e comprimendo salari e occupazione. E così, dopo gli anni 70, invece di redistribuire senza sprechi e rilanciare gli investimenti, si è scelta la strada dell’indebitamento pubblico e privato. Per ricostruire la domanda e sostenerla. La conseguenza è stata il debito sovrano incontrollato. E il ruolo egemone della finanza mondiale nel valutarlo e gestirlo».
Un certo Marx lo aveva detto: a un certo punto il capitalismo si indebita, invoca la finanza e vi si mescola. E scarica tutto sulle spalle dello stato...
«Marx aveva capito quasi tutto. Incluso il passaggio dal capitalismo industriale e manageriale, a quello finanziario, con le sue logiche autodistruttive. Aggiungerei un certo Braudel, che parla di autunno del capitalismo nella fase finanziaria».
Veniamo al che fare. Nel suo ultimo libro Lei parla addirittura di “decumulo monetario”, in chiave anti-finanza. Che cos’è?
«Significa fermare la bolla. E ripristinare l’equilibrio tra beni e moneta. Penalizzando l’accumulo di titoli e denaro, e riconducendo quest’ultimo a mezzo di pagamento e investimento. Vuol dire Tobin Tax, far costare di più le transazioni, e ricondure le banche alla loro funzione di sostegno alla crescita e alla creazione di posti di lavoro. Insieme però ci vuole una politica in grado di indicare obiettivi generali. La piena occupazione innanzitutto. E il rilancio della domanda di beni e servizi non effimeri. Con particolare attenzione all’ambiente, che non è un vincolo ma un moltiplicatore di crescita. Sia in termini di qualità della vita, che come innovazione tecnologica ad alto valore aggiunto».
Lei auspica una sorta di comando politico sull’accumulazione economica. Quasi a plasmare il capitalismo oltre se stesso. Ma come si fa con «questa» Europa?
«Il problema è lì. Manca l’Europa. Manca la Banca centrale in funzione anticiclica. Mancano gli Eurobond. Manca un vero parlamento sovrano. In una parola, manca l’Europa politica».
E Monti, rispetto a tutto questo, sta facendo bene o male?
«Ha fatto nell’immediato, le uniche cose possibili. Frenare l’indebitamento e ricostruire l’onorabilità dell’Italia in Europa. Ma non si vedono ancora le scelte nuove ed essenziali: rilancio della domanda e redistribuzione. È su questo che Monti deve concentrarsi».
Chiede cose di sinistra a un governo che non lo è...
«È un paradosso. Ma lo uso per esortare la sinistra a sostenere questo governo in autonomia. E a battersi al suo interno oggi, per le cose da fare domani».

l’Unità 27.1.12
Negazionismo demolito dai quattro scatti di Alex
La prova Era un membro dei Sonderkommando, le squadre speciali che gasavano i detenuti nei campi di sterminio, e fotografò l’orrore.
Perché ancora occorre vigilanza contro chi nega l’esistenza di Auschwitz
di Massimo Adinolfi


Urgente. Inviate il più rapidamente possibile due rullini di pellicola in metallo per macchina fotografica 6x9. Possiamo fare foto»: possiamo fotografare l’orrore, possiamo inviare scatti da Birkenau. Possiamo, perché lo abbiamo fatto: Alex, un ebreo greco membro dei Sonderkommando le squadre speciali che gasavano i detenuti del campo di sterminio nascosto proprio dentro le camere a gas appena svuotate, è riuscito a fotografare le fosse di incinerazione e i suoi compagni di lavoro mentre si muovono macabri fra i cadaveri. Il biglietto della resistenza polacca e i quattro scatti di Alex sono giunti fino a noi, infilati in un tubetto di pasta dentifricia. Noi, perciò, lo sappiamo: le camere a gas sono esistite, lo sterminio di massa è stato compiuto. E in verità esiste ormai una documentazione imponente: non solo i quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno, come li ha definiti Didi-Huberman, ma documenti, testimonianze, ritrovamenti. Non solo non c’è spazio alcuno per il dubbio, ma non c’è modo di considerare una semplice opinione quella di chi, no-
nostante tutto, nega la Shoah.
Contro il negazionismo Donatella Di Cesare ha scritto il suo ultimo libro, teso e fermo, «Se Auschwitz è nulla», per richiamare l’attenzione su un fenomeno che non ha nulla di intellettualmente presentabile, nulla di storicamente valido, nulla di politicamente accettabile, e che tuttavia non cessa di presentarsi in forme che non offendono solo la memoria delle vittime, ma minacciano l’identità stessa dell’Europa democratica: ricostituitasi, come dice Di Cesare, «sulla ce-
nere, su un luogo, fragile e friabile, come le pagine dei libri dati ai roghi».
Ma come fanno a negare coloro che negano? Jean Francois Lyotard lo ha spiegato esponendo l’ignobile sofisma del negazionista Faurisson, il quale aveva scritto: «Ho cercato, invano, un solo ex deportato capace di provare che aveva realmente visto, con i suoi occhi, una camera a gas». Ecco come fa, il buon Faurisson: per avere visto e provare che le camere davano la morte, occorre essere morti. Se si è morti, si può testimoniare che quelle che si sono viste sono effettivamente camere a gas, che è Ziklon B il gas che vi viene iniettato, che sono forni crematori quelli in cui le vittime vengono bruciate. La testimonianza del sopravvissuto, in quanto è un sopravvissuto, non è probante e non basta; la sua memoria non vale.
E invece vale. Vale ed è la cosa più preziosa. Vale anzitutto per smascherare quelli come Faurisson, o come David Irving, gente che sotto una lacca di rispettabilità scientifica non si limita a instillare dubbi, ma finisce con l’assecondare di fatto il progetto genocidiario di uno spazio judenrein, depurato dagli ebrei. Cosa infatti negano coloro che negano, se non che vi siano tracce dei crimini commessi? Essi negano cioè proprio quello che i nazisti volevano cancellare. Nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Nel negare l’accaduto, i negazionisti accusa Di Cesare proseguono l’opera: «sorvolano i lager per accertarsi che la terra si sia chiusa definitivamente e il fumo si sia disperso». Ogni domanda sulla memoria della Shoah deve dunque partire dal fatto che, serbandola, si impedisce che svanisca anche la cenere di coloro che passarono per i camini. Per questo, abbiamo la risposta alla domanda di Adorno se sia possibile poesia dopo Auschwitz. E sappiamo anche se davvero Auschwitz sia stato un orrore così grande da essere indicibile. «La lotta contro i negazionisti sarebbe già persa, se si concedesse l’indicibilità di Auschwitz», scrive infatti Di Cesare. E dire Auschwitz, spiegare, comprendere, non vuol dire né giustificare né banalizzare o relativizzare, ma ricordare e vigilare.
La vigilanza deve però essere affidata alla memoria collettiva, e non semplicemente al ricordo individuale. Perché la memoria non è solo la registrazione obiettiva dei fatti, ma anche il debito di giustizia nei confronti di coloro che sono morti, e che purtroppo, come diceva Benjamin, neppure da morti possono sentirsi al riparo dall’affronto dell’oblio. Perché negano, infatti, coloro che negano? Non certo per stabilire come davvero andarono le cose, ma per farle andare ancora oggi in una certa maniera. Il negazionismo non è un incomprensibile rigurgito del passato; è anche un pericolo nel presente. Cosa ha spinto difatti Ahmadinejad a organizzare una conferenza sull’Olocausto, se non l’intenzione di togliere a Israele la religione della memoria, e minarne così la legittimità? Ma noi sappiamo: Auschwitz è esistita, Birkenau è esistita. E lo sterminio di ebrei (di zingari, di omosessuali, handicappati, nemici politici) chiama non Israele ma l’Europa intera, tutti noi, l’umanità stessa, a ricordare e tramandare per poter ancora vivere con dignità. Noi lo sappiamo: ci sono le foto, e ci siamo noi.

il Fatto Saturno 27.1.12
Giorno della memoria
Shoah, la rivolta degli ultimi testimoni
Molti sopravvissuti ai campi criticano lo sfruttamento mediatico dell’Olocausto , come il Nobel Imre Kertész
di Daniela Padoan


NEL CINQUANTENNALE della liberazione dei campi, Elie Wiesel e Jorge Semprún vennero invitati per un faccia a faccia dalla trasmissione televisiva francese Entretien - ARTE. Wiesel era stato deportato ad Auschwitz come ebreo, Semprún a Buchenwald come politico. L’incontro si concluse con parole abissali alle quali ancora oggi è difficile sottrarsi. «Io me lo immagino: un giorno o l’altro, tra qualche anno, poniamo, si troverà l’ultimo rimasto. L’ultimo sopravvissuto. […] Non vorrei essere al suo posto», disse Wiesel. Semprún annuì: «Penso a quell’uomo, a quella donna, se mai arrivasse a saperlo… Sì, perché in pratica non lo saprà mai. Immagina una troupe televisiva che arriva e comincia: “Signore, signora, lei è l’ultimo superstite”. Quello che fa? Si uccide». Wiesel scrollò la testa: «No, io preferisco pensare che verrà subissato di domande. Domande d’ogni genere. Tutte, proprio tutte. E lui le ascolterà, senza eccezioni. Dopodiché, tutto finirà con un’alzata di spalle. “E va bene”, diranno, “e con questo? ” E allora lui dirà…». Semprún lo interruppe: «Se non sarà il suicidio, sarà il silenzio. Il risultato non cambia». «È il silenzio fecondo», disse Wiesel, «l’ultimo. Non vorrei essere l’ultimo a sopravvivere». «E io nemmeno».
Sembra un dialogo di Beckett, eppure, a diciassette anni di distanza, i sopravvissuti non possono che guardare con crescente inquietudine a questa prospettiva; non solo perché, inevitabilmente, anno dopo anno la viva voce di qualcuno di loro si spegne, ma perché – nella sbrigatività con cui alcuni sembrano accompagnarli alla porta mentre altri li santificano, ostendendone nelle commemorazioni rituali la sempre più rarefatta presenza – si perpetua una solitudine e addirittura un’offesa. Non è facile parlare di questo argomento, nei convegni e negli incontri in cui si riflette sulla memoria e sull’insegnamento della Shoah: la compulsione a contrapporre conoscenza e sentimenti, storiografia ed empatia, scatta immediata. Il punto, però, è che non si tratta di scegliere tra la verità storica e il sentimentalismo, ma di porsi un’interrogazione pienamente politica: che società è, quella che non sa rispettare i testimoni del suo stesso precipizio, dello scacco della sua stessa cultura?
Ci interroghiamo sul testimone, ragioniamo sulla sua affidabilità, sul suo ripetere con le stesse parole la medesima storia, teorizziamo sullo statuto della testimonianza; ma chi siamo, noi, visti con gli occhi del testimone? Quest’anno, sia Goti Bauer che Liliana Segre, due fra le più importanti e attive testimoni italiane di Auschwitz, hanno deciso di diradare le loro uscite pubbliche e progressivamente smettere di testimoniare. «Non voglio correre il rischio di essere l’ultimo dei mohicani», ha detto Liliana Segre, mentre Goti Bauer ha parlato apertamente di una «delusione della testimonianza».
Sempre più, il testimone somiglia al vecchio marinaio di Coleridge evocato da Primo Levi; non già scacciato dal banchetto del matrimonio, ma seduto al posto d’onore, e tuttavia ingombrante, colmato di paternalistiche e sbrigative attenzioni. Non gli si impedisce di parlare, lo si sollecita, anzi, nei giorni deputati, ma il suo dire continua a non avere la gravità che Levi immaginava nelle notti del Lager.
La Shoah è stata istituzionalizzata, stilizzata, e su di essa è stato fondato un rito morale-politico che ne rende il pensiero estraneo agli uomini. Secondo Imre Kertész – sopravvissuto di Auschwitz, premio Nobel per la letteratura, e tuttavia anch’egli acutamente consapevole dell’«onda anomala della delusione» che si è abbattuta sui testimoni – si è creato «un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto, un canone dell’Olocausto, un sistema di tabù dell’Olocausto, accompagnato da un mondo linguistico e religioso; sono stati creati i prodotti dell’Olocausto per il consumismo dell’Olocausto». Una subcultura, e persino un «kitsch dell’Olocausto». Perché «ritengo che sia kitsch quel tipo di rappresentazione che non è in grado, o non vuole, comprendere la relazione fondamentale tra la nostra deforme vita civile e privata e la possibilità dell’Olocausto; che estrania una volta per tutte l’Olocausto dalla natura umana e si impegna a escluderlo dalla cerchia delle esperienze umane».
In questi giorni di commemorazione si è molto parlato dei sopravvissuti come vittime, si è raccontato di case di accoglienza per dar loro sostegno, ma non si è mai nominata la loro signoria, il loro sapere qualcosa che noi ignoriamo, la loro doppia cittadinanza tra i vivi e tra i morti. Il testimone che ci guarda è il nostro specchio, l’inviato nell’avamposto più estremo: accogliere il suo verdetto può essere un salutare rovesciamento, l’ultimo invito a dubitare di alcuni dei mattoni con cui la nostra cultura ha edificato Auschwitz.

il Fatto Saturno 27.1.12
«Auschwitz? Un viaggio inutile»


LAURA SIMONETTA FONTANA è la responsabile per l’Italia del Memorial de la Shoah di Parigi e tra le prime organizzatrici dei viaggi della memoria in Italia, per il comune di Rimini. Le abbiamo chiesto se, nelle scuole italiane, il viaggio ad Auschwitz sta progressivamente sostituendo l’insegnamento della Shoah? «Gli insegnanti tendono a vederlo come un viaggio iniziatico, un vaccino contro l’indifferenza, una scossa salutare capace di orientare al bene, alla democrazia, al rispetto dei diritti umani. Ma vale davvero la pena di fare così tanti chilometri e investire centinaia di migliaia di euro per andare a discutere di valori democratici e di diritti dell’uomo proprio sulle rovine dei crematori? Auschwitz non ha mai redento nessuno, e l’evidenza che i genocidi e i crimini di massa continuano a compiersi nell’indifferenza del mondo è sotto i nostri occhi. Ben più importante sarebbe contrastare il declino dell’insegnamento della storia del fascismo nelle scuole italiane, direttamente proporzionale al fiorire di questi viaggi, quasi fosse possibile studiare la Shoah senza un’analisi delle condizioni politiche e sociali che l’hanno prodotta». Ma il fenomeno dei treni della memoria è altrettanto radicato, nel resto d’Europa? «I treni esistono in molti paesi europei, ma non godono di una popolarità paragonabile a quella che hanno da noi, né di un unanime sostegno bipartisan. Anche se si tratta di esperienze collettive intense e partecipate, spesso ben preparate didatticamente, questi viaggi non sono di per sé garanzia di un buon insegnamento della storia della Shoah: da un lato rischiano di far dimenticare i campi di sterminio – come Chelmo, Sobibor, Belzec e Treblinka, che hanno costituito l’essenza della politica criminale nazista – e dall’altro devono necessariamente fare i conti con una sovraesposizione mediatica e una confusione di obiettivi. Un esempio per tutti, l’episodio inquietante di studenti condotti davanti ai crematori di Birkenau per commemorare pubblicamente le vittime di mafia. Eppure quest’anno, a fronte dei tagli nei bilanci scolastici, le regioni da sempre più attive sulla memoria della Shoah hanno deciso di destinare i fondi a loro disposizione al viaggio ad Auschwitz, eliminando i corsi di formazione per gli insegnanti. Il risultato lo si può ben immaginare: la conoscenza puntuale dei fatti, il ragionamento politico sul crimine e la riflessione etico-morale sul male declineranno sempre più verso una sorta di catechismo laico, una generica apologia del bene e dei diritti umani, senza un nesso tra il vedere e il conoscere, tra il comprendere e il reagire. Ma l’accadimento di Auschwitz ci chiede altro: rivalutare pienamente la nostra capacità di pensare e di agire di conseguenza. Perché nella società contemporanea i germi che hanno preparato i massacri di massa sono ancora presenti, potenzialmente fertili». (Daniela Padoan)

il Fatto Saturno 27.1.12
E il lager diventa business
di Jáchym Topol


TEREZÍN È UNA città militare, squadrata e regolare, è per questo che lì ti orienti, campagnolo che non sei altro, Praga invece è una città medievale, perciò è tutta ritorta, tortuosa e contorta, dice Sára e mi spiega perché senza di lei nella capitale finirei per perdermi. In questa stanzetta dormiamo, mettiamo ordine tra gli acquisti, ci abbracciamo, chiacchieriamo, durante le nostre spedizioni d’affari stiamo sempre qui.
La vostra Terezín, caro il mio vecchio capraio, mi ricorda, e non poco, addirittura Venezia, dice Sára, che in questo momento è appoggiata con nonchalance sulla mia spalla, ovunque sul pavimento intorno a noi stanno ad asciugare le magliette con sopra Kafka, montagne di magliette, siamo appena rientrati da un giro d’acquisti e ci siamo inzuppati sotto un acquazzone, dai suoi capelli respiro la nera umidità della pioggia praghese...
Sai, San Marco e le gondole, è un po’ come il vostro Monumento mantenuto in buono stato dal governo perché il mondo lo possa vedere... ma lì a due passi, tra mura scalcinate, ci vive gente normalissima, Sára scuote la testa, od-dio, normalissima, scoppia a ridere... e mi spiega che in tutta l’Europa occidentale i luoghi di sepoltura di massa risalenti alla guerra sono conservati e curati scrupolosamente, mentre da noi a Terezín... è affascinante vedere che nel posto dove hanno ammazzato della gente il vecchio Hamácek ci vende i suoi cavoli rapa... che nel punto da cui i treni partivano per andare a Est, verso i campi di sterminio, la vecchia Bouchalová e la vecchia Fridrichová se ne stanno a imprecare per la pressa da stiro che si inceppa di continuo... e poi che da bambini abbiate giocato dentro camere mortuarie e vi siate dati delle toccatine dentro ai bunker! È proprio allucinante, dovete essere tutti quanti pervertiti e manco lo sapete...
Ovunque in Occidente spedizioni simili sarebbero state severamente vietate ai bambini, mi spiega...
Ma anche qui lo sono!, mi affretto a ribatterle...
Voi però ve ne fregate, obietta lei... Sì, ce ne freghiamo, io, per esempio, dei divieti me ne infischio alla grande, tutto sta nel fare in modo che nessuno mi becchi, spiego io, lei scuote la testa, continuiamo a parlare, poi a un certo punto andiamo a dormire.
Il brano è tratto dal volume L’officina del diavolo, Zandonai, pagg. 167, • 14,50, in libreria da oggi.
Jáchym Topol è un apprezzato narratore ceco. Nato nel 1962, si è fatto conoscere da noi con Artisti e animali del circo socialista (Einaudi 2011). In questo nuovo romanzo affronta, con il suo stile grottesco degno del migliore Hrabal, un tema spinoso: l’uso commerciale della memoria collettiva. Una riflessione su come alcuni dei luoghi simbolo dei crimini perpetrati dai regimi totalitari siano stati trasformati in appetibili mete del turismo di massa.

La Stampa 27.1.12
Auschwitz, l’antidoto è il silenzio
di Elena Loewenthal


Una palestra di Dubai che, per rendere convincente la promessa di addio alle calorie, usa per la sua campagna pubblicitaria una gigantografia dell’ingresso di Auschwitz. Degli ultraortodossi indignati con il governo israeliano e dei loro concittadini indignati vuoi con la polizia vuoi con gli avversari politici, che si battono a suon di stelle gialle appuntate sul petto ed esclamazioni «nazista! » elargite un po’ qua e un po’ là. Stelle gialle, ancora, usate da islamici di Svizzera per protestare contro la discriminazione. Per non parlare di chi con queste armi va nella direzione opposta: rimpiangere quei tempi e auspicarne il ritorno. E non sono pochi.
Il giorno della memoria cade in un anniversario tanto feroce quanto ambiguo: il 27 gennaio, infatti, Auschwitz fu liberata. Quelle porte si aprirono. Sarebbe, teoricamente, un momento festoso: la fine di un incubo, di un inferno bruciato per anni dentro l’Europa. In realtà, è un giorno di sgomento, di occhi sbarrati di fronte a quell’assurdità: come è potuto succedere? Le porte aperte di Auschwitz furono sì, liberazione. Ma furono anche e soprattutto svelamento di una ferocia quale non s’era mai vista. E, come diceva Primo Levi (ma perché, invece di cercare sempre qualcosa di «nuovo» da dire, non si legge una sua pagina? Una soltanto, e basterebbe), il fatto che sia già successo non ci vaccina, anzi, moltiplica le probabilità che accada di nuovo.
Quasi a farlo apposta, intorno al giorno della memoria i suoi simboli spuntano a destra e a manca come funghi velenosi. Si moltiplicano in sequenza incontrollata, come per dare un calcio alla memoria. L’uso trasversale di questi riferimenti, che accomuna partiti diversi, etnie disparate, posizioni ideologiche e vissuti enormemente distanti fra loro, è la prova inequivocabile che essi si sono svuotati. Che hanno perso il loro senso. L’unico che avevano: risvegliare la memoria. Fare andare, con la mente e con il cuore, a quel laggiù da cui ci separa una distanza di anni esigua - per quanto sempre più grande - ma soprattutto l’abisso di un intero universo. Quei simboli, infatti, servivano a farci intuire che quel passato non saremo mai in grado di capirlo. Che bisogna sentirlo e basta. Possibilmente in silenzio. Come si fa a entrare nei panni di un bambino che entra in una camera a gas? È impossibile. La stella gialla che portava sul cappotto questo ci diceva: ricordami. Ma sappi che non comprenderai cos’è stata la vita per me. Tieniti a distanza dalla mia storia, perché è inafferrabile.
Invece, la moltiplicazione del ricordo, l’inevitabile ritualismo che si porta con sé la puntuale commemorazione, hanno portato a quella memoria una pubblicità a doppio senso. Da una parte, certo, il rispetto. Dall’altra la banalizzazione e, senza soluzione di continuità, l’abuso. I simboli si sono svuotati, il ricordo è diventato cerimonia, la parola non può mancare e così, ogni anno, gli editori si sentono irresponsabili se non pescano l’ultimo sopravvissuto, le lettere rimaste nel cassetto, la storia ancora da raccontare. Un po’ come le strenne per Natale. Il cinema, idem. Scuole ed enti pubblici s’ingegnano per non ripetersi con i loro «eventi». L’evento, comunque, è indispensabile.
È inevitabile, tutto questo? Qualunque celebrazione ha per conseguenza la trasfigurazione della memoria, la sua metamorfosi in rito più o meno svuotato, non tanto di contenuti quanto di pathos? Difficile dare una risposta. Forse, l’unico antidoto è il silenzio. Quello che offre una pagina scritta, ad esempio. In Israele il giorno della Shoah cade in primavera: la rievocazione è un interminabile minuto di sirena che suona in tutto il paese. Un silenzio assordante. Tutti si fermano, tutto si ferma. È un momento tremendo e basta.
Come tremendo dev’essere, per chi è stato laggiù ed è ancora su questa terra, ritrovare i segni di quei ricordi e l’abuso che a volte se ne fa. Ma ancora una volta, come facciamo noi a immaginare cosa prova qualcuno che l’ha portata davvero, la stella gialla sul petto, vedendola brandire così? Dev’essere tremendamente doloroso, e anche tanto frustrante. La memoria, e quella che si celebra oggi più di ogni altra, non è mai innocua.

La Stampa 27.1.12
Il Giorno della Memoria
Ma l’Olocausto non è misura di tutte le cose
Dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente a conferirci uno status morale
di Abraham B. Yehoshua


«I detenuti a cui era assegnata una responsabilità, dal caposquadra al decano del campo, erano parte di quell’immenso sistema di repressione. Quanto a me, stavo sempre al livello più basso di quella piramide del terrore. Prima fila (da sinistra a destra): caposquadra, sotto-kapo, kapo, super-kapo, capo del blocco, infermiere-kapo, decano del campo. Seconda fila (da sinistra a destra): barbiere, interprete, segretario, servizio del lavoro, portiere, fattorino, sorvegliante»

Abraham Yehoshua riceve oggi alla Scuola Normale Superiore di Pisa il diploma di Perfezionamento honoris causa in Letteratura contemporanea. Nell’occasione pronuncerà una lectio (rielaborazione del suo Elogio della normalità , ed. Giuntina), di cui qui anticipiamo uno stralcio. Dello scrittore israeliano è da poco uscito per Einaudi il romanzo La scena perduta .

Pur caricandoci di un grande peso, l’Olocausto ci pone di fronte a delle sfide chiare. Come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali.
Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Abbiamo visto sulle nostre carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo, e insisto, nessun popolo è immune. [... ]
Ma gli anni che sono passati da allora ci provano purtroppo che manifestazioni naziste sono possibili anche tra altri popoli. Gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista.
Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi.
Dobbiamo inoltre fare attenzione a non perdere il senso della misura, e a non misurare tutto in rapporto all’Olocausto. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Chi ha molto sofferto può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere degli atti morali; e per questo affrontiamo degli esami quotidiani.
Ho già detto che l’Olocausto può condurre l’uomo a un atteggiamento di disperazione nei confronti del mondo. È del tutto naturale non avere fiducia nell’uomo e nei suoi atti dopo un’esperienza del genere. Noi, figli delle vittime, possiamo esprimere la nostra delusione con un vigore raddoppiato. Ma dobbiamo ricordare che la sfiducia nel mondo è proprio un atteggiamento tipico del nazismo. Il nazismo è nato anch’esso dalla sensazione che il mondo è nella sua essenza privo di valori, che non si può sperare nulla di buono dall’uomo, e che gli unici valori che hanno un peso sono la forza e l’astuzia. Chi, in seguito all’esperienza dell’Olocausto, arriva a una conclusione nichilista, dà paradossalmente ragione alle tesi naziste. Non è cosa facile nutrire speranza e fiducia nell’uomo dopo l’Olocausto, ma se vogliamo essere coerenti nel nostro antinazismo dobbiamo fare nostra questa sfida.
Quando esaminiamo quello che è avvenuto e ci domandiamo meravigliati come sia potuto avvenire, siamo costretti a riconoscere quanto scarsa e povera fosse la nostra conoscenza delle atrocità durante la guerra. Ci chiediamo spesso come sia stato possibile che una parte consistente del popolo (compresa la colonia ebraica in terra di Israele) fosse all’oscuro di quanto avveniva nell’Europa occupata. E se avessimo saputo quello che avveniva laggiù, forse avremmo potuto essere più utili. Il problema della chiusura dei canali di comunicazione non è solo un problema oggettivo di una situazione imposta da un ferreo regime totalitario, preoccupato di nascondere le proprie atrocità agli occhi del mondo: la chiusura di questi canali ha anche origine da un rifiuto interno di sapere quello che avviene, il rifiuto di scavare dietro ogni briciola di notizia che potrebbe fornire un quadro più chiaro degli avvenimenti. L’importanza della comunicazione umana, l’apertura dei canali di comunicazione, lo sviluppo della stampa e di altri mezzi di comunicazione, sono uno degli insegnamenti chiari di quel periodo. E mi pare che il mondo dopo l’Olocausto, il mondo occidentale, lo abbia capito bene, e cerchi per quanto è possibile di assicurare una situazione in cui l’occultamento e la soppressione delle notizie non siano più possibili. [... ]
E per finire, l’esperienza dell’Olocausto in quanto esperienza prettamente ebraica ha un significato perenne per tutta l’umanità. Anche tra molti anni si continuerà a studiare quel periodo, perché gli eventi di quella guerra tremenda hanno esteso il concetto di uomo, il ventaglio delle sue possibilità. Quella guerra ci ha insegnato cose che non conoscevamo sulla natura dell’uomo. Il concetto di uomo non è più lo stesso di prima, nel bene e nel male. Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. E’ vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava.
Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo. "La Shoah ha insegnato cose che ignoravamo sulla natura dell’uomo Nel male e nel bene Quella esperienza può indurci a disperare. Ma la sfiducia nel mondo è tipica del nazismo"

La Stampa 27.1.12
Il medico Haffner, reduce di Auschwitz
La condizione di internati era già una malattia
di Umberto Gentiloni


Désiré Haffner medico ebreo, nato a Galati (Galatz) Romania il 14 luglio 1918, viene arrestato dai nazisti a Tours in Francia e condotto nel seminario vescovile di Angers. Il 20 luglio 1942 con quasi mille prigionieri inizia il suo cammino di deportato, destinazione Auschwitz. Sopravvissuto torna agli studi e inizia la sua nuova esistenza. Si unisce in matrimonio con Stella Roditi, una ragazza che dalla Romania si era nascosta in Italia per sfuggire alle persecuzioni. Il Dottor Haffner muore a Parigi il 13 novembre 1998, da pochi mesi è venuta a mancare anche sua moglie Stella. Tracce della sua vita sono racchiuse in un prezioso libretto, pubblicato in forma semiclandestina nel lontano 1946 in Francia, dal titolo Aspetti patologici del Campo di Auschwitz-Birkenau .
La sorella di Stella, Lucia Roditi, vive a Verona, e ha conservato il dattiloscritto del cognato, con rispetto e attenzione. Quest’anno ha chiesto ai suoi nipoti, Alain ed Eliane, figli del medico autore dello scritto se fosse giunto il tempo di tirar fuori quelle pagine. E così è stato. Con la traduzione di Irene Picchianti, il sostegno dell’Ame (Associazione Medici Ebrei) e grazie all’impegno di Fabio Gaj esce per la prima volta in italiano il testo del 1946 del Dott. Désiré Haffner (Union Printing Edizioni, 2012).
Pagine dense, fitte di richiami alla realtà del campo e attraversate da ipotesi e diagnosi che definiscono il contesto drammatico, l’orizzonte di riferimento che sta di fronte ai prigionieri, fino al confine più invalicabile degli esperimenti medici. Si vive poco, da dieci giorni a due mesi, in un quadro igienico sanitario che non ammette eccezioni. L’analisi scorre spietata alternando richiami scientifici e giudizi dell’autore: «Abbiamo registrato l’insorgere di una serie di malattie che nella vita civile si riscontrano solo in casi eccezionali».
Ma è il contesto che definisce gli esiti delle patologie: «Precedentemente ritenevamo che fosse il tempo a determinare simili stati di consunzione. Tuttavia la nostra triste esperienza nel campo di Auschwitz-Birkenau ci ha dimostrato che se a gravi privazioni alimentari, sia qualitative che quantitative, si aggiungono sforzi fisici costanti, violenti e prolungati, è possibile che nell’arco di due o tre settimane insorga una vera e propria sindrome da carenza acuta che porta alla morte dell’individuo in pochi giorni».

l’Unità 27.1.12
La figlia di Carmelo Bene:
«CasaPound non può usare il nome di mio padre»
Salome e la madre Raffaella Barracchi danno mandato ai loro legali
E diffidano l’associazione di estrema destra: giù le mani dal genio pugliese
di Mariagrazia Gerina


Non bastava la figlia di Pound, che li ha portati in tribunale per riprendersi il nome del padre. Quelli di Casapound cercavano una trovata per uscire dall’angolo. E hanno finito per mettersi contro anche la figlia di Carmelo Bene.
A Salome Bene, dall’alto del suo nome e dei suoi diciannove anni, la trovata di intitolare l’occupazione di via Napoleone III all’attore di cui porta il nome, appunto, sia pure per un giorno, non è piaciuta per niente. Perciò, ieri mattina, insieme alla madre aveva diffidato CasaPound «dall’utilizzare il nome, l’immagine e le opere del Maestro Bene, invitandola a desistere da ogni iniziativa intrapresa o da intraprendere ed a rimuovere ogni elemento che associ il Maestro all'attività della Associazione». Ma siccome queli di Casapound hanno rispedito la «diffida» al mittente, spiegando che Raffaella Baracchi, «avendolo denunciato in vita» non può «improvvisarsi depositaria della sua memoria», ha deciso che toccava a lei replicare. «Sono poco gentili a dire che mia madre non ha titolo per parlare, quelle sono vecchie storie, difficile inquadrare mio padre e i suoi rapporti d’amore in qualche schema, e loro sono gli ultimi che ne possono parlare. Io comunque sono la figlia, mi chiamo Bene e non ho piacere che quelli di Casapound utilizzino il nome di mio padre e il mio...», risponde, pacata e piccata, affidando all’Unità la sua replica. Condita con qualche nota autobiofrafica.
«No, non faccio l’attrice, studio Giurisprudenza però nella vita mai dire mai», si schermisce Salome. «Mio padre lo ricordo come una bambina di dieci anni. E ricordo come dopo la sua morte insulti che invece una bambina di dieci anni non meriterebbe: era mio padre, il fatto che non vivessimo insieme non vuol dire che io non gli voglia un bene dell’anima». L’opera ha imparato a conoscerla da grande: «A parte la Salomè, a cui, per forza, sono legata fin dalla nascita». Da lui, però, oltre ai diritti d’autore e di immagine, ha ereditato un «amore fortissimo» per Dante.
PROVOCAZIONI E RICORDI
Mica facile essere figlia di Carmelo Bene. «Significa avere tante responsabilità sulle spalle, devi tutelare l’immagine di tuo padre che, a parte il legame affettivo, è anche il personaggio che è stato lui: tutti vogliono dire la loro, intromettersi in rapporti anche molto delicati e tu devi gestire continue prove e difficoltà». Ecco quella di vedere CasaPound intitolata a suo padre proprio non se l’aspettava. Una provocazione molto poco gradita. «Una delle qualità di mio padre era proprio che ognuno poteva credere e interpretare ciò che era in qualsiasi modo, ma pensare di potersi appropriare del suo nome come vuole fare Casapound è un’altra storia».
PAROLA DI VENTENNE
Quasi ventenne, Salome sa bene di cosa parla. «Da quelli del Blocco studentesco ho sempre girato alla larga, prima che per l’ideologia, per il modo di porsi e per le azioni», spiega.
Ha le idee chiare la ragazza. E le fa anche specie doverle ribadire. Comunque: «A Casapound non sono per niente favorevole, in generale, anzi mi stupisco anche che sia permessa l’esistenza di un gruppo del genere». In contrasto «con i principi condivisi». E «con quelli che ho imparato da mia madre quanto da mio padre». In breve: «Io sono per migliorare la società in cui viviamo spiega e il fatto che ci siano movimenti del genere non aiuta». Perciò confessa «capisco la figlia di Pound: l’ideologia propugnata da queste persone crea grossi problemi a tutti, però c’è una differenza estrema tra Pound e mio padre: lui qualche connessione con il fascismo ce l’aveva, mio padre direi proprio di no». Comunque: «L’arte è arte, non si può contaminare con queste cose». Detto questo, non c’è molto da aggiungere.
Solo: «Peccato che Carmelo non ci sia, lui che era contro tutti gli -ismi si sarebbe fatto una grossa risata», viene da ricordare a sua madre Raffaella Baracchi. Qualche risata se la fa lei, però, a leggere ciò che scrivono da Casapound. «Siamo davanti a un caso psichiatrico», osserva: «D’altra parte ad accostare Carmelo Bene e Casapound davvero non c’è nessuna logica, è una idiozia totale, un caso psichiatrico, ripeto. Ma figuriamoci! Uno che ha recitato Majakovskij in Russia».

il Fatto 27.1.12
“Picchiatori neri, Alemanno deve chiarire”
Il pestaggio fascista a Roma e i silenzi del sindaco diventano un caso politico


Gianni Alemanno deve dare chiarimenti sul pestaggio fascista di cui è stato testimone suo figlio. Deve spiegare perché è stato dimenticato, taciuto”. Lo chiedono, tra gli altri, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Per Ignazio Marino (Pd) il sindaco dovrebbe “rinnegare definitivamente il suo passato ideologico e gli sbagli della gioventù”. L’episodio rivelato dal Fatto Quotidiano non è più soltanto un caso di cronaca, ma è sempre più politico.
DI PIETRO, sottolinea i punti ancora oscuri della vicenda: “Alemanno deve spiegare, lui più di altri. Per la sua storia personale, con il passato nella destra, e per il ruolo che svolge di primo cittadino in una città che deve affrontare il rinascere del fascismo”. Il leader Idv si sofferma su un altro punto della storia: “Il sindaco deve anche chiarire il ruolo delle persone che stanno venendo alla ribalta e che sono da lui ben conosciute. Per esempio Luigi Bisignani”. Il giorno dell’aggressione da uno dei telefoni dei ragazzi che avrebbero chiamato i picchiatori fascisti sarebbe partita una chiamata diretta a un cellulare intestato a Bisignani. Il protagonista dell’inchiesta P4, sentito dalla polizia, avrebbe detto che il telefonino era in uso dal figlio Giovanni, figura importante dell’area che fa riferimento a Casa Pound e a Blocco Studentesco. Bisignani senior, rivelarono le carte dell’inchiesta P4, conosce bene Alemanno senior. Aggiunge il leader Idv: “Dal sindaco ci aspettiamo assoluta chiarezza. Alemanno è persona in grado di assumersi le sue responsabilità, se tace deve esserci un motivo”. Conclude Di Pietro: “C’è un clima di grande indulgenza verso il rialzare la testa dell’estremismo di destra. Pensiamo alla vicenda del console Vattani che è stato richiamato in Italia solo dopo una martellante campagna stampa. Non possiamo accettare che persone con queste idee rappresentino l’Italia all’estero”.
Nichi Vendola, leader Sel, punta il dito verso l’atteggiamento di una certa destra romana: “Da anni hanno deposto uova di serpente nella città e ora ne vediamo i risultati. Assistiamo alla caccia ai gay, ai rom, ai ragazzi dei centri sociali. Tutte quelle forme di “diversità” che i fascisti vorrebbero destinare al fuoco ideologico”. E la destra che guida la Capitale? “Dalle autorità abbiamo avuto parole anche importanti che prendevano le distanze dalla violenza. Ma sembravano spesso delle foglie di fico per coprire la concreta legittimazione che veniva data all’universo dell’estremismo politico. Insomma, sembrava una presa di distanza formale”. Vendola sottolinea: “Questa vicenda non chiama in causa tanto la sfera personale del sindaco, ma soprattutto quello istituzionale. Per questo non possono restare ombre. Se questa vicenda non fosse chiarita, sarebbe grave non solo dal punto di vista giudiziario, ma anche pedagogico. È una storia che chiama in causa la politica, ma anche il rapporto tra generazioni”.
IGNAZIO MARINO (altri esponenti del Pd, come Ettore Rosato, hanno chiesto chiarimenti al sindaco di Roma) ricorda: “Alemanno fu eletto sull’onda emotiva di un gravissimo episodio di cronaca e promise ai romani che avrebbe garantito la sicurezza. L’impegno è stato disatteso. Roma oggi non è più una città sicura. Ma la protezione dei cittadini non dipende solo dal numero di poliziotti per le strade. Dipende anche dal clima culturale che si respira in una città. Ecco il grande problema di Roma. Credo che Alemanno dovrebbe con chiarezza prendere definitivamente le distanze da qualsiasi forma di violenza e rinnegare il suo passato ideologico”. (M. Li. e F. Sa.)

il Fatto 27.1.12
La legge della giungla
di Antonio Padellaro


Il 2 giugno 2009, festa della Repubblica e giorno del pestaggio di un quindicenne ad opera di una squadretta di picchiatori fascisti, punito per non essersi adeguato al rito dei saluti romani, il Fatto non esisteva ancora. Se fossimo esistiti avremmo naturalmente pubblicato la notizia con la stessa evidenza con cui l’abbiamo pubblicata due anni e mezzo dopo, ma resta da capire per quali misteriosi motivi la stampa italiana al completo decise di ignorare un episodio di tale, enorme gravità che fu come cancellato risultando, dunque, come mai avvenuto. Ed ecco Luca, “pestato con ferocia inaudita” dai “teppisti neri” che dopo l’irruzione in un condominio privato “hanno infierito su di lui per mezzo di pugni, calci, colpi di casco mirando prevalentemente alla testa, fino a ridurlo una maschera di sangue” leggiamo nella coraggiosa lettera che Marida Lombardo Pijola, madre di uno degli amici del ragazzo, scrisse tre giorni dopo l’accaduto al sindaco di Roma Gianni Alemanno, invitandolo a un gesto contro la brutalità e che non ricevette mai risposta alcuna. Alemanno, appunto, padre di un altro ragazzo presente alla spedizione selvaggia organizzata per “difendere l’onore” del Blocco Studentesco, movimento di estrema destra nella cui lista Alemanno jr. è stato eletto, nel novembre scorso, rappresentante nel suo liceo. Furono carica e peso politico di cotanto genitore a suggerire l’immediata archiviazione della notizia da parte di tutti i giornali (sull’altra subitanea archiviazione,quella giudiziaria, sembra che il pm possa ripensarci dopo l’inchiesta pubblicata sul nostro giornale da Marco Lillo e Ferruccio Sansa)? O è stata la minore età dell’Alemanno rampollo e di altri partecipanti al pestaggio a suggerire alla stampa una cautela che sa di candeggina? A questo proposito è francamente indecente che la famiglia del cosiddetto primo cittadino (con il coro dei Cicchitto e delle Carfagna) si faccia scudo della Carta di Treviso, che giustamente tutela l’identità dei minori nei fatti di cronaca, per attaccare l’inchiesta del Fatto. Essendo evidente a tutti che se non si fosse scritto che quel giorno tra i camerati del blocco nero c’era anche il ragazzo Alemanno non si sarebbe potuto dare conto del silenzio e dell’inattività del padre e della madre. Infine, a parte il Corriere della Sera (e il Messaggero a pag. 37 in cronaca), intorno a questo vergognoso caso che intreccia violenza, omertà, arroganza e disinformazione ancora una volta tutto tace. Così Luca e i suoi amici, bastonati e minacciati impareranno una buona volta che in Italia impera una sola vera legge: la legge della giungla.

l’Unità 27.1.12
L’intervista
Joshua Foer, l’uomo che ricorda tutto
Parla il fratello del celebre scrittore. Campione di mnemotecnica, denuncia lo «scandaloso sottoutilizzo» della memoria: «Ho capito che la nostra mente è capace di cose incredibili e quasi inavvicinabili»
di Maria Serena Palieri


La nostra è una società fondata sulla memoria o sull’oblìo? Il segno più vero le è impresso dalla capacità che ha il Web di non cancellare nulla, né fatti né nomi né numeri, oppure dall’ignoranza crescente del passato anche prossimo nelle nuove generazioni?
A condurci a questi interrogativi è Joshua Foer col suo libro L’arte di ricordare tutto (Longanesi, pp. 333, euro 19,90), resoconto della sua avventura nel mondo della mnemotecnica, che lo ha visto prima affacciarsi da giornalista tra i cosiddetti «savants» capaci di traguardi del ricordo, e poi trasformarsi lui stesso in «mostro», vincendo nel 2006 il Campionato statunitense del settore, grazie alla capacità di memorizzare in un minuto e quaranta secondi un mazzo di 52 carte, appresa con la guida del Gran Maestro Ed Cooke.
È un mondo, quello da lui esplorato, anche molto circense, molto americano. Ma la decina di pagine di bibliografia in coda al libro rende subito chiaro che tipo di mente l’abbia ideato. Foer, laureato a Yale, è nato a Washington da Esther e Albert, coppia di lavoratori del’intelletto (lui dirige un think thank, lei una società di pubbliche relazioni) già genitori di Franklin, direttore di New Republic, e Jonathan, lo scrittore di culto di Ogni cosa è illuminata e Molto forte incredibilmente vicino. E con quest’ultimo celebre fratello condivide forma del viso, taglio degli occhi, aria da tipo meticoloso e impegnato. Di lui dice: «Non è solo mio fratello, è il mio migliore amico. In quest’avventura mi ha fatto da supporto e si è molto divertito».
Foer è un ventinovenne poliedrico: ha fondato la Athanasius Kircher Society, devota allo studioso tedesco del Seicento che si è meritato la definizione di «ultimo uomo del Rinascimento», Atlas Obscura, compendio online di esoterismi e altre meraviglie ma anche Sukkah City, concorso di design ebraico da tenersi in coincidenza con l’autunnale festa di Sukkot. A Venezia a lui l’onore dell’allocuzione, in questa edizione 2012, alla Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri. Dove, ieri pomeriggio, ha illustrato quello che lui ritiene lo «scandaloso sottoutilizzo» della nostra memoria e «l’epidemia di amnesia» che ci affligge. Lei ha cominciato a studiare l’argomento come giornalista e ha finito per diventare lei stesso campione di mnemotecnica. Qual è il frutto più importante che le ha regalato questa esperienza?
«Ho capito che la nostra mente è capace di cose incredibili. Può raggiungere obiettivi che non credevamo mai fossero possibili e che invece, con la giusta impostazione, diventano avvicinabili».
La supememoria che ha conquistato le è utile ora oppure nella vita quotidiana sta lì in un angolo, riposta, come uno strumento da olimpiadi? «Sono vere le due cose. È vero che non sono molte le occasioni in cui farvi ricorso, ma qualche volta capita: è utile poter memorizzare un elenco di nomi oppure un intero discorso da tenere in pubblico».
Paolo Rossi Monti, lo studioso italiano scomparso nei giorni scorsi, è stato autore del primo studio moderno sull’argomento («Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz» del 1960). Nel ricordarlo Umberto Eco ha messo in guardia da eccessi speculari: l’oblio ma anche la memoia onnivora, non selettiva, che, osservava Nietzsche, uccide la capacità di sorprendersi e di entrare in azione. Lei cosa ne pensa?
«Paolo Rossi per me è stato uno degli autori di riferimento. Ed è stato entusiasmante scoprire quanto lavoro, nel suo complesso, sia stato fatto a livello accademico su questo tema, senza che a livello diffuso ce ne sia coscienza. Pensiamo al Funes di Borges, l’uomo che ricordava troppo e non riusciva appunto a vivere... Saper dimenticare ci insegna a scegliere: a ricordare ciò che è importante e cancellare quello che non lo è».
Nell’epoca di Google le tecniche di memorizzazione umana non sono obsolete? Studiarle, come ha fatto lei, non è paradossale?
«È come chiedersi: perché studiare calligrafia nell’epoca delle tastiere? Le tecnologie sono un “outsorcing” per la nostra memoria. Lo sono da tempi remoti, dai primi disegni umani nelle grotte di Lascaux. Grazie al ricorso a esse i nostri processi cognitivi si sono modificati. E oggi siamo arrivati al punto di aver dimenticato come si ricorda!».
Foer, lei è ebreo. Che effetto le fa parlare di memoria in questo senso nella Giornata della Memoria dedicata al ricordo della Shoah?
«Non sapevo che oggi qui ci fosse questa ricorrenza. Ecco quanti significati assume la stessa parola. Cos’è la memoria? Secondo a chi lo chiediate, un tecnocrate o un neuroscienziato, uno storico o uno psicoanalista, la risposta sarà diversa».

Repubblica 27.1.12
Germaine, la donna che ha riscritto la tragedia del Lager
di Tzvetan Todorov


Germaine Tillion (1907-2008) è una figura esemplare nella storia del XX secolo in Francia. Da una parte, è un personaggio impegnato attivamente nella vita politica del suo paese: resistente della prima ora, prigioniera e deportata nel corso della Seconda guerra mondiale; militante per la pace e la dignità umana, contro la violenza durante la guerra d'Algeria (1954-1962) ; combattente per i diritti umani nei decenni seguenti. Dall'altra, è una delle etnologhe più originali che la Francia abbia conosciuto e una storica di prim'ordine, autrice di studi esemplari sulla guerra d'Algeria, Les Ennemis complémentaires (1960), e sulla deportazione, con Ravensbrück.
Germaine Tillion è dunque prima di tutto un'abitante del campo, e solo dopo la sua storica. Viene deportata per la sua attività di resistente nel campo di Ravensbrück, situato a nord di Berlino e destinato principalmente alle donne, alla fine dell'ottobre 1943.
Poiché Ravensbrück descrive nel dettaglio la vita del campo, qui sarà sufficiente indicare alcune date che scandiscono la prigionia di Tillion. Nel febbraio 1944, ha la brutta sorpresa di vedere la propria madre arrivarvi a sua volta: Émilie Tillion è stata imprigionata e deportata in quanto complice della figlia. All'inizio del mese di marzo 1945 accade un evento traumatico per Tillion: la madre viene inviata nella camera a gas di Ravensbrück, condannata a morte per i suoi capelli bianchi. Il 23 aprile 1945, infine, fa parte di un gruppo di deportate liberate dalla Croce Rossa svedese.
Molto presto viene sollecitata a dare la propria testimonianza su quanto ha vissuto. Il suo primo testo su Ravensbrück, scritto nel 1945, viene pubblicato l'anno seguente in un volume dedicato al campo, contenente i contributi di numerose ex deportate. Il suo capitolo, di gran lunga il più corposo, si intitola "à la recherche de la vérité"; è scritto in prima persona, ma Tillion non vi riporta delle esperienze personali, si propone al contrario di accertare, nella misura del possibile, fatti oggettivi, corroborati dalle testimonianze di altre deportate. Ma, proprio in questo periodo, interviene un cambiamento importante nella maniera in cui Tillion concepisce il lavoro di conoscenza nell'ambito delle scienze umane e sociali. Le parole "fame"o "sofferenza" hanno cambiato senso; ora sa, infinitamente meglio di prima, a cosa corrispondano. Non si tratta affatto di sostituire il sapere con l'autobiografia, ma di ammettere che, di per sé, gli avvenimenti sono privi di senso: questo non può nascere che grazie all'interrogazione formulata da un essere umano particolare. La necessità di armonizzare queste due fonti, la materia esteriore e l'esperienza interiore, condurrà Tillion a rimettere mano al suo Ravensbrück.
È dopo la fine della guerra d'Algeria e dopo aver pubblicato la sua opera capitale sulla condizione delle donne che Tillion ritorna a Ravensbrück. La ragione immediata di questa decisioneè la pubblicazione di un libro che la tocca personalmente: si tratta di un saggio in cui si sostiene l'inesistenza delle camere a gas nel campo femminile. Tillion, che vi ha perduto la madre, ne è profondamente colpita e mette mano a una nuova versione della sua descrizione di Ravensbrück. Ma la trasformazione che impone alla sua pubblicazione originale è molto più radicale.
Quella che nel 1972 intraprende questa riscritturaè una persona differente da quella che, nel 1945, componeva il suo sobrio resoconto. Ora Tillion è decisa a introdurre la propria esperienza personale nella descrizione oggettiva del campo. Fin dall'introduzione al libro, offre il racconto del proprio arresto e della deportazione, come quello, più doloroso per lei, della prigionia, della deportazione e dell'uccisione di sua madre. Questa prospettiva rinnova tutto lo scritto che segue e conduce a un'ultima parte dove si trovano formulate alcune fondamentali questioni di metodo, soprattutto quella del difficile rapporto tra impegno e imparzialità, esperienza vissuta e riflessione astratta.
Un esempio dell'impatto del vissuto sul sapere è fornito dall'analisi che Tillion conduce sulla stratificazione per classi e per nazioni osservabile all'interno del campo. Mentre, nella versione del 1946, faceva prova di un certo "etnocentrismo" di classe, descrivendo le lavoratrici volontarie come provenienti dalla «feccia della nostra società» e le prostitute come «scorie irrimediabilmente perdute per la società», nel libro pubblicato nel 1973 sostituisce la prima frase con «non provenivano certo dall'élite della nostra società» ed elimina completamente la seconda. L'esperienza del dopoguerra l'ha condotta a cambiare un'altra descrizione: partendo dalla sua nuova concezione di patriottismo, rinuncia ad attribuire in modo definitivo delle qualità e dei difetti alle etnie e alle nazioni. Nella prima versione poteva ancora parlare dell'«indegno popolo tedesco» che aveva «osato reclamare delle colonie», poteva evocare «quella propensione a tutte le dissolutezze che si trova nei tedeschi di entrambi i sessi». Dopo aver vissuto la guerra d'Algeria, non si permette più alcuna generalizzazione di questo tipo.
Negli anni che seguono la pubblicazione di questa seconda versione, Tillion non smette di tenersi al corrente su tutto ciò che si pubblica su Ravensbrück e i campi, non smette neppure di interrogare e di reinterpretare le proprie riflessioni, e questo la conduce, nel 1988 (ha appena compiuto ottant'anni!), a una terza e ultima versione di Ravensbrück, quella che esce oggi in italiano. I cambiamenti sono di nuovo numerosi, il piano del libro è completamente rivoltato, ma il punto di vista resta lo stesso: dopo aver assimilato tutto il materiale disponibile, ricrea il mondo del campo a partire da se stessa, e questo porta a una sintesi feconda degli elementi soggettivi e oggettivi. Ravensbrück ci appare oggi come un libro unico, che riesce a superare non solo la separazione tra testimonianza e storia, ma anche quella tra conoscenza e saggezza. Il risultato delle meditazioni dell'autrice non è tuttavia sempre incoraggiante. Il ritratto di Himmler è abbozzato in un paragrafo intitolato "I mostri sono uomini".
Conclusione piuttosto inquietante, perché se i mostri sono rari, gli uomini siamo tutti noi.
Non è tuttavia la paura ciò che Tillion ha trattenuto della sua terribile esperienza, ma l'irreprimibile voglia di dare il proprio contributo perché al mondo ci sia un po' più di giustizia e un po' più di verità. Se Ravensbrück, malgrado i fatti deprimenti che evoca, non produce un sentimento di disperazione, è perché attraverso questo libro si entra in contatto con un essere luminoso, animato d'umorismo e anche, per quanto ciò possa sembrare paradossale, di gioia di vivere. Può darsi che Germaine abbia ereditato questa forza da sua madre, Émilie Tillion, se si guarda alla lettera in cui quest'ultima si rivolge a una delle sue amiche del campo, solamente pochi giorni prima di essere uccisa. Scrive: «L'idea delle larghe compensazioni che la nostra vita presente ci offre mi ha d'altronde sempre sostenuta. Al di fuori delle grandi, imperiose ragioni che abbiamo di essere qui, sono convinta che vi troviamo uno straordinario allargamento del nostro orizzonte, in tutti gli ordini di idee, e possibilità insospettate». Ravensbrück è uno dei prodotti più compiuti di questo "straordinario allargamento".
©Fazi editore 2012 (traduzione di Gabriella Bacelli)Germaine Tillion (1907-2008) è una figura esemplare nella storia del XX secolo in Francia. Da una parte, è un personaggio impegnato attivamente nella vita politica del suo paese: resistente della prima ora, prigioniera e deportata nel corso della Seconda guerra mondiale; militante per la pace e la dignità umana, contro la violenza durante la guerra d'Algeria (1954-1962) ; combattente per i diritti umani nei decenni seguenti. Dall'altra, è una delle etnologhe più originali che la Francia abbia conosciuto e una storica di prim'ordine, autrice di studi esemplari sulla guerra d'Algeria, Les Ennemis complémentaires (1960), e sulla deportazione, con Ravensbrück.
Germaine Tillion è dunque prima di tutto un'abitante del campo, e solo dopo la sua storica. Viene deportata per la sua attività di resistente nel campo di Ravensbrück, situato a nord di Berlino e destinato principalmente alle donne, alla fine dell'ottobre 1943.
Poiché Ravensbrück descrive nel dettaglio la vita del campo, qui sarà sufficiente indicare alcune date che scandiscono la prigionia di Tillion. Nel febbraio 1944, ha la brutta sorpresa di vedere la propria madre arrivarvi a sua volta: Émilie Tillion è stata imprigionata e deportata in quanto complice della figlia. All'inizio del mese di marzo 1945 accade un evento traumatico per Tillion: la madre viene inviata nella camera a gas di Ravensbrück, condannata a morte per i suoi capelli bianchi. Il 23 aprile 1945, infine, fa parte di un gruppo di deportate liberate dalla Croce Rossa svedese.
Molto presto viene sollecitata a dare la propria testimonianza su quanto ha vissuto. Il suo primo testo su Ravensbrück, scritto nel 1945, viene pubblicato l'anno seguente in un volume dedicato al campo, contenente i contributi di numerose ex deportate. Il suo capitolo, di gran lunga il più corposo, si intitola "à la recherche de la vérité"; è scritto in prima persona, ma Tillion non vi riporta delle esperienze personali, si propone al contrario di accertare, nella misura del possibile, fatti oggettivi, corroborati dalle testimonianze di altre deportate. Ma, proprio in questo periodo, interviene un cambiamento importante nella maniera in cui Tillion concepisce il lavoro di conoscenza nell'ambito delle scienze umane e sociali. Le parole "fame"o "sofferenza" hanno cambiato senso; ora sa, infinitamente meglio di prima, a cosa corrispondano. Non si tratta affatto di sostituire il sapere con l'autobiografia, ma di ammettere che, di per sé, gli avvenimenti sono privi di senso: questo non può nascere che grazie all'interrogazione formulata da un essere umano particolare. La necessità di armonizzare queste due fonti, la materia esteriore e l'esperienza interiore, condurrà Tillion a rimettere mano al suo Ravensbrück.
È dopo la fine della guerra d'Algeria e dopo aver pubblicato la sua opera capitale sulla condizione delle donne che Tillion ritorna a Ravensbrück. La ragione immediata di questa decisioneè la pubblicazione di un libro che la tocca personalmente: si tratta di un saggio in cui si sostiene l'inesistenza delle camere a gas nel campo femminile. Tillion, che vi ha perduto la madre, ne è profondamente colpita e mette mano a una nuova versione della sua descrizione di Ravensbrück. Ma la trasformazione che impone alla sua pubblicazione originale è molto più radicale.
Quella che nel 1972 intraprende questa riscritturaè una persona differente da quella che, nel 1945, componeva il suo sobrio resoconto. Ora Tillion è decisa a introdurre la propria esperienza personale nella descrizione oggettiva del campo. Fin dall'introduzione al libro, offre il racconto del proprio arresto e della deportazione, come quello, più doloroso per lei, della prigionia, della deportazione e dell'uccisione di sua madre. Questa prospettiva rinnova tutto lo scritto che segue e conduce a un'ultima parte dove si trovano formulate alcune fondamentali questioni di metodo, soprattutto quella del difficile rapporto tra impegno e imparzialità, esperienza vissuta e riflessione astratta.
Un esempio dell'impatto del vissuto sul sapere è fornito dall'analisi che Tillion conduce sulla stratificazione per classi e per nazioni osservabile all'interno del campo. Mentre, nella versione del 1946, faceva prova di un certo "etnocentrismo" di classe, descrivendo le lavoratrici volontarie come provenienti dalla «feccia della nostra società» e le prostitute come «scorie irrimediabilmente perdute per la società», nel libro pubblicato nel 1973 sostituisce la prima frase con «non provenivano certo dall'élite della nostra società» ed elimina completamente la seconda. L'esperienza del dopoguerra l'ha condotta a cambiare un'altra descrizione: partendo dalla sua nuova concezione di patriottismo, rinuncia ad attribuire in modo definitivo delle qualità e dei difetti alle etnie e alle nazioni. Nella prima versione poteva ancora parlare dell'«indegno popolo tedesco» che aveva «osato reclamare delle colonie», poteva evocare «quella propensione a tutte le dissolutezze che si trova nei tedeschi di entrambi i sessi». Dopo aver vissuto la guerra d'Algeria, non si permette più alcuna generalizzazione di questo tipo.
Negli anni che seguono la pubblicazione di questa seconda versione, Tillion non smette di tenersi al corrente su tutto ciò che si pubblica su Ravensbrück e i campi, non smette neppure di interrogare e di reinterpretare le proprie riflessioni, e questo la conduce, nel 1988 (ha appena compiuto ottant'anni!), a una terza e ultima versione di Ravensbrück, quella che esce oggi in italiano. I cambiamenti sono di nuovo numerosi, il piano del libro è completamente rivoltato, ma il punto di vista resta lo stesso: dopo aver assimilato tutto il materiale disponibile, ricrea il mondo del campo a partire da se stessa, e questo porta a una sintesi feconda degli elementi soggettivi e oggettivi. Ravensbrück ci appare oggi come un libro unico, che riesce a superare non solo la separazione tra testimonianza e storia, ma anche quella tra conoscenza e saggezza. Il risultato delle meditazioni dell'autrice non è tuttavia sempre incoraggiante. Il ritratto di Himmler è abbozzato in un paragrafo intitolato "I mostri sono uomini".
Conclusione piuttosto inquietante, perché se i mostri sono rari, gli uomini siamo tutti noi.
Non è tuttavia la paura ciò che Tillion ha trattenuto della sua terribile esperienza, ma l'irreprimibile voglia di dare il proprio contributo perché al mondo ci sia un po' più di giustizia e un po' più di verità. Se Ravensbrück, malgrado i fatti deprimenti che evoca, non produce un sentimento di disperazione, è perché attraverso questo libro si entra in contatto con un essere luminoso, animato d'umorismo e anche, per quanto ciò possa sembrare paradossale, di gioia di vivere. Può darsi che Germaine abbia ereditato questa forza da sua madre, Émilie Tillion, se si guarda alla lettera in cui quest'ultima si rivolge a una delle sue amiche del campo, solamente pochi giorni prima di essere uccisa. Scrive: «L'idea delle larghe compensazioni che la nostra vita presente ci offre mi ha d'altronde sempre sostenuta. Al di fuori delle grandi, imperiose ragioni che abbiamo di essere qui, sono convinta che vi troviamo uno straordinario allargamento del nostro orizzonte, in tutti gli ordini di idee, e possibilità insospettate». Ravensbrück è uno dei prodotti più compiuti di questo "straordinario allargamento".
©Fazi editore 2012 (traduzione di Gabriella Bacelli)

La Stampa 27.1.12
Australia, gli aborigeni mettono in fuga la premier
Julia Gillard salvata dalla scorta, ma correndo perde una scarpa
470.000 indigeni, minoranza tra i 22 milioni di australiani
224 anni fa. I primi inglesi arrivarono a Sydney il 26 gennaio 1788
di Stefano Gulmanelli


SYDNEY Un agente della sicurezza protegge la premier laburista australiana Julia Gillard contestata a aggredita da un gruppo di aborigeni Diritti Solo nel 1967 è stato riconosciuto ai nativi australiani il diritto di voto Nel 2008 sono state presentate le scuse ufficiali del governo per le sofferenze inflitte nei secoli
Scortata fuori fra le braccia di un poliziotto, a testa china, il viso stravolto e con una sola scarpa, perché l’altra era rimasta sulla scalinata del ristorante da cui è dovuta scappare. È finita così la partecipazione del Primo Ministro Australiano Julia Gillard a una celebrazione indetta durante l’«Australia Day», la giornata in cui si ricorda l’arrivo nella Baia di Sydney, il 26 gennaio 1788, della First Fleet, la flotta britannica con cui iniziò la colonizzazione.
L’uscita del tutto non convenzionale della Gillard dal ristorante «The Lobby» di Canberra si è resa necessaria dopo che circa duecento manifestanti aborigeni, provenienti dalla «Ambasciata della Tenda Aborigena», avevano cominciato a picchiare sulle vetrate del locale urlando «razzisti» e «vergogna» a coloro che si trovavano al suo interno.
L’Ambasciata Aborigena della Tenda è un accampamento permanente di attivisti allestito nel parco davanti al vecchio Parlamento a Canberra, di cui cade in questi giorni il 40˚ anniversario. Attraverso questo presidio gli aborigeni promuovono richieste e rivendicazioni su diritti e sovranità territoriale. Per quanto il governo federale non l’abbia mai riconosciuta - come vorrebbero i gruppi promotori - quale vera e propria delegazione diplomatica, la Tenda è considerata anche dalle autorità australiane un sito legittimo di lotta politica degli aborigeni.
La protesta violenta degli attivisti radunati nelle sue vicinanze è stata innescata dai commenti fatti durante la mattinata dal Leader dell’Opposizione Tony Abbott, il quale, pur riconoscendo che la Tenda - con le iniziative promosse dal gruppo che la anima - ha ottenuto risultati ragguardevoli per la causa aborigena, ha concluso che «forse è il momento di chiuderne l’esperienza». Va ricordato che per la stragrande maggioranza degli Aborigeni l’«Australia Day» è nient’altro che la celebrazione di un’invasione - infatti loro lo chiamano «Invasion Day» - e i commenti di Abbott proprio in un giorno simile sono stati considerati da molti attivisti una provocazione. Da qui l’assalto al ristorante dove sia la Gillard sia Abbott si trovavano per presenziare alla premiazione di membri appartenenti ai servizi di emergenza.
Alcuni degli assalitori, interpellati dai media locali, hanno sostenuto di aver creduto che nel ristorante ci fosse solo Abbott, ma questo non ha mutato il giudizio fortemente critico anche nei confronti del Primo Ministro. «Non è nemmeno venuta fuori a parlare con noi - ha detto Sean Gordon, uno dei manifestanti -. Invece è corsa via, come una codarda».
A dire il vero, le circostanze non erano davvero di quelle che lasciavano molto spazio a tentativi di incontri conciliatori: durante l’assalto, le vetrate del locale rimbombavano sotto le manate dei manifestanti e lo stesso Abbott ha detto di aver avuto paura che potessero prima o poi essere frantumate. L’immediato intervento delle forze di sicurezza - alle quali si sono aggiunti anche membri della squadra antisommossa - ha consentito ai due leader di lasciare in fretta il locale da un’uscita laterale.
È stato durante questa fuga precipitosa che al Primo Ministro Gillard si è sfilata la scarpa blu marina. Il fatidico momento è finito immortalato sulla pagina Facebook della «Ambasciata della tenda», accompagnato da una didascalia dal tono beffardo e amaro: «Che cosa volete che sia perdere una scarpa in confronto alla perdita di un intero Continente? »

La Stampa 27.1.12
“Ma Castellucci mette in scena la predica di un prete”
di Gabriele Vacis


Autore, regista teatrale, cinematografico e televisivo Gabriele Vacis, torinese, è tra i fondatori della Cooperativa Laboratorio Teatro Settimo. Ha curato la regia di spettacoli quali «Libera nos» ispirato alle opere di Meneghello; «Novecento», «Olivetti», con Laura Curino. Premio UBU 1995 per il teatro civile, ha promosso festival teatrali e diretto le regie di opere liriche. Ha assistito allo spettacolo di Castellucci accusato di blasfemia.
Una scena dello spettacolo di Castellucci Sul concetto di volto nel figlio di Dio

Io l’ho visto. Lo spettacolo di Castellucci «Sul concetto di volto nel figlio di Dio», io l’ho visto. Comincio dicendolo perché credo che molti di coloro che ne parlano non l’abbiano visto. Soprattutto credo che non l’abbiano visto molti di quelli che lo contestano, che vorrebbero censurarlo o che recitano litanie per espiarne l’esistenza. Io ne parlo perché l’ho visto. E perché mi hanno insegnato che San Tommaso è una figura positiva. Mi hanno insegnato che quel ragazzo che non ci credeva fin che non aveva visto, a Gesù, stava a cuore più di altri.
Quando ho visto lo spettacolo di Castellucci ho pensato a un prete. Un prete che organizzava il Grest quand’ero piccolo. Uno che ci faceva giocare a pallone, e alla fine della giornata, tutti sudati, ci radunava in chiesa e ci leggeva «I ragazzi della via Paal». Quando ho visto lo spettacolo di Castellucci ho pensato ad una predica di quel prete. Una domenica, alla messa delle nove, la messa del fanciullo che lui aveva ribattezzato «messa dei ragazzi». Quella domenica era andato al microfono, aveva guardato tutti, uno per uno, poi aveva staccato una domanda, così, senza preamboli: - perché Dio permette che esista il male? Don Ferrero non era uno che andava per il sottile. Era uno che «prendeva per il collo i problemi», l’ho sentito dire una volta. Quando ho visto lo spettacolo di Castellucci ho pensato che la domanda era la stessa. Forse declinata un po’ più brutalmente: com’è possibile che esista Dio se permette tutto questo male? Ma la sostanza è quella. E anche il tono: il tono di uno che prende per il collo i problemi. Come Bernanos, come Testori, come Don Ciotti o Padre Bianchi. Il tono di quei credenti che non fondano la loro fede sulla superstizione, sull’adesione supina a riti consolatori, ma che, la fede, se la conquistano andando a mettere il naso nelle questioni più spinose. Come San Tommaso. Se è il caso anche scandalizzando. Non è scandaloso che un prete, una domenica mattina, sbatta in faccia a dei ragazzini quel problema enorme e, probabilmente insolubile? Lo è. Com’è scandaloso un padre che continua a farsela addosso mentre il figlio deve andare a lavorare.
Perché questo racconta lo spettacolo di Castellucci: una delle nostre tante miserie quotidiane. Solo che sul fondo della scena realistica, talmente realistica da farci sentire la puzza, sul fondo c’è un enorme ritratto di Cristo dipinto da Antonello da Messina. La miseria più cruda e la bellezza assoluta. Insieme. C’è bellezza nello spettacolo di Castellucci. E c’era molta bellezza in quei ragazzini assonnati alla messa dei ragazzi messi di fronte alla realtà più cruda. Era bella la voce di don Ferrero, era bello il nostro stupore, era bello sentirsi sbattere sulla faccia la verità. Perché la bellezza e la verità forse sono la stessa cosa.
Così nello spettacolo di Castellucci c’è la verità di una tragedia molto comune. Raccontata con grande cura. Mentre l’altra sera, al telegiornale, il servizio sulla contestazione allo spettacolo, ha mostrato persone che alla domanda: ma lei lo spettacolo l’ha visto? Si arrampicavano sui vetri per non ammettere che, no, non l’avevano visto... Però erano lì a urlare e a celebrare messe di riparazione. Due chiese, quella di don Ferrero e quella dei contestatori dello spettacolo di Castellucci. Due realtà molto diverse. Una chiesa che guarda in faccia la realtà quindi intima domande scomode, e in questo modo produce bellezza, utile anche a chi non crede. Una chiesa che si rifiuta di andare a vedere, si consola di liturgie senza memoria e, non riuscendo ad intimare alcuna domanda, alcuna verità, cerca di intimidire quelli che ci provano. "COME SAN TOMMASO «Il tono è di quei credenti che conquistano la fede mettendo il naso in questioni spinose»"

Corriere della sera 27.1.12
Magra e nevrotica: se la donna è un processo mentale (degli uomini)
di Francesca Bonazzoli


Sarà l'aria poco allegra che tira nei consumi, sarà che nel commercio non si può propinare la stessa confezione per troppi anni, fatto sta che la pubblicità dei prodotti femminili sta cominciando ad abbandonare il cliché della modella emaciata, scontrosa e imbronciata, il tipo dell'esistenzialista annoiata e nevrotica alla Kate Moss, per intenderci. Finalmente fanno timidamente capolino sorrisi, sguardi diretti, espressioni più vivaci se non intelligenti, insomma più gioia di vivere rispetto all'altezzoso e annoiato distacco delle anoressiche che ci è stato propinato più o meno negli ultimi vent'anni.
La colpa, però, non è dei pubblicitari: loro non inventano mai niente, ma rielaborano immagini già conosciute e riconoscibili, anche se in modo subliminale, che fanno insomma già parte del nostro Dna visivo e dunque provengono dall'arte. Più che mai per quanto riguarda l'immagine della donna, soggetto per eccellenza di millenni di scultura, pittura e poi fotografia.
Il repertorio che l'arte mette a disposizione della pubblicità copre tutta la gamma della bellezza fisica e psicologica femminile, ma si può dividere in due grandi gruppi: le grasse e felici da una parte e le magre e nevrotiche dall'altra.
Le donne di Wildt, con le guance scavate, le occhiaie profonde, il naso affilato e le mani lunghe e affusolate, a un passo dal sembrare artigli, appartengono a pieno titolo al secondo gruppo. Ma a loro volta hanno illustri antenate o contemporanee, prime fra tutte le femmes fatales della Vienna fin de siècle di Klimt: le Giuditte, le Salomé e le signore dell'alta borghesia industriale praticamente coeve alle vergini, alle Marie e sante immacolate di Wildt: queste ultime più spirituali nei pensieri, ma non meno nevrotiche nelle apparenze.
Un altro celebre cultore della bellezza emaciata fu Edvard Munch che, nella vita, le donne le temeva davvero e infatti le dipinse anche come vampiri. Ma l'elenco sarebbe troppo lungo: andare a cercare questo modello muliebre nel Novecento appare fin troppo facile e basti pensare a Kirchner, Schiele o Helmut Newton. Quello che può sorprendere di più è invece ritrovare la bellezza estenuata già nel Cinquecento, nella prima epoca nevrotica, quella manierista.
Dopo le bellezze perfette, serene e sensuali di Raffaello, Giorgione, Leonardo e Tiziano, gli artisti si interrogarono su come superare tali maestri e non trovarono di meglio che accentuare la perfezione ideale della Bellezza trasformandola in artificiosità. Ecco quindi che Parmigianino inventa ben prima di Modigliani colli allungati, teste piccole ed espressioni malinconicamente assenti. Lo stesso si può dire per le figure dai volti allampanati del Rosso Fiorentino, delle nobildonne algide e assenti di Bronzino o di quelle serpentinate e dagli occhi interrogativi del Pontormo, accusato di essere tedesco, ovvero di aver abbandonato l'armonia della venustà classica per quella gotica, alla Cranach, il padre di tutte le donne ossute della pittura nordeuropea.
Insomma, quando a essere rappresentata non è tanto la donna, quanto la sua idea, allora assistiamo alla stilizzazione mentale della sua forma come già era successo nel Quattrocento per esempio con Pisanello e Cosmè Tura che dipingevano donne uscite dall'immaginario fiabesco dei poemi di corte e cavallereschi, più illustrazioni da codice miniato che rappresentazioni reali. Una tentazione in cui cadde anche Botticelli, con le sue donne algide e distanti, più mentali che carnali, il tipo femminile in voga nella Firenze neoplatonica, opposto a quello esaltato a Venezia, capitale della prostituzione dove certi predicatori come il Savonarola non potevano mettere piede e dove veniva apprezzata la Venere formosa e sensuale.
Alla base di ogni ideale di bellezza, quale che sia, ci sono dunque gli stereotipi sulla virtù morale della donna, gli stessi imperituri, da secoli. Da una parte la donna diavolo tentatrice (Eva) e dall'altra la donna vergine e santa (Maria), una rielaborazione cristiana del kalòs kai agathòs greco dove al bello corrisponde il buono morale (mentre in Grecia il buono era civico). A stabilire il canone di bellezza, poi, è sempre l'uomo, dal mito di Paride in su: è lui ad assegnare la mela che sancisce il modello. Soltanto, a volte, l'uomo è confuso e non sa se preferire Eva o Maria finendo così per mescolare i canoni di bellezza, se non addirittura i generi sessuali come fecero Michelangelo che mascolinizzò le donne o Leonardo che femminilizzò gli uomini.
Nel frattempo, per la donna, la cristianità ha trovato una terza via, quella della Maddalena penitente, la peccatrice che non può ambire alle virtù di Maria, ma che può redimersi attraverso la preghiera, il digiuno, la sottomissione.
Siamo entrati nel secondo millennio ma anche a causa della pubblicità che li perpetua, gli stereotipi sulla bellezza femminile non sono cambiati.

Repubblica 27.1.12
La fabbrica-lager in Cina dove nascono gli iPad
di Charles Duhigg e David Barboza


Un venerdì sera del maggio scorso un'esplosione ha dilaniato l'Edificio A5.
Quando le tute blu che erano a mensa sono corse fuori a guardare cosa fosse accaduto, hanno visto alzarsi fumo nero dall'area nella quale gli operai lucidavano migliaia di tavolette iPad al giorno. Due sono rimasti uccisi sul colpo e molte decine di altri hanno subito lesioni. Tra i feriti, uno pareva particolarmente grave: aveva i lineamenti del volto cancellati dalla forte esplosione.
Bocca e naso erano ridotti a una poltiglia rossa e nera. «Lei è il padre di Lai Xiaodong? », ha chiesto una voce quando il telefono è squillato nella casa in cui è cresciuto Lai, e dalla quale il giovane ventiduenne si era trasferito a Chengdu, nel Sud Ovest della Cina, per diventare una delle milioni di ruote umane del grande ingranaggio che alimenta la più veloce e sofisticata catena di montaggio sulla Terra. «Suo figlio sta male. Si rechi subito in ospedale».
Negli ultimi dieci anni, Apple è diventata una delle più potenti, ricche aziende di successo al mondo. Malgrado ciò, gli operai che assemblano iPad, iPhone e altri apparecchi spesso lavorano in condizioni estreme, secondo quanto affermano i dipendenti delle fabbriche, i difensori dei lavoratori e alcuni documenti pubblicati dalle stesse aziende. I problemi vanno da ambienti di lavoro gravosia questioni di sicurezza.
Gli operai lavorano in turni lunghi, fanno molti straordinari, talvolta anche sette giorni su sette, e vivono in affollati dormitori. Alcuni stanno in piedi per così tante ore che le gambe si gonfiano al punto da non permettere loro di camminare. Operai in età minorile aiutano ad assemblare alcuni prodotti Apple, e le fabbriche che la riforniscono hanno smaltito in modo improprio rifiuti pericolosi e falsificato i registri: a sostenerlo sono alcuni rapporti aziendali e gruppi di difesa che, in Cina, sono spesso considerati affidabili.
La cosa più preoccupante, però - prosegue la denuncia del gruppo - è che le fabbriche non tengono in alcun conto la salute degli operai. Due anni fa presso uno stabilimento Apple della Cina orientale 137 operai si ammalarono gravemente dopo essere stati costretti a utilizzare una sostanza chimica tossica per lucidare gli schermi degli iPhone. Nel giro di soli sette mesi l'anno scorso due esplosioni avvenute in altrettante fabbriche di iPad - una a Chengdu - hanno fatto 4 morti e 77 feriti. L'Apple era stata avvisata delle condizioni pericolose di lavoro all'interno dell'impianto di Chengdu: così afferma il gruppo cinese che aveva reso noto l'avvertimento. «Se l'Apple era stata avvertita e nonè intervenuta, è da biasimare» dice Nicholas Ashford, ex presidente del National Advisory Committee on Occupational Safety and Health, un ente che offre consulenze al Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. L'Apple non è l'unica società di elettronica a fare affidamento su simili fabbriche e stabilimenti. Pessime condizioni di lavoro sono state documentate anche negli impianti di produzione di Dell, Hewlett-Packard, IBM, Lenovo, Motorola, Nokia, Sony, Toshiba e altri ancora.
Dirigenti ed ex dirigenti dell'Apple affermano che negli ultimi anni l'azienda ha messo a segno significativi progressi nel migliorare gli stabilimenti di produzione. L'Apple ha un codice comportamentale che gli stabilimenti dei fornitori sono tenutia rispettare, e che precisa gli standard inerenti al lavoro, alla sicurezza, a numerose altre questioni. Apple ha anche avviato un'importante campagna di verifiche e revisioni. I problemi più significativi, però, sussistono.
Si è scoperto che oltre la metà degli stabilimenti che riforniscono la Apple ha violato ogni anno e dal 2007 una almeno delle norme previste. «Alla Apple non è mai interessato altro che aumentare la qualità del prodotto e abbassare i costi di produzione», dice Li Mingqi, ex manager alla Foxconn Technology, uno dei più importanti partner della catena di produzione di Apple. Li, che ha portato in tribunale Foxconn per essere stato licenziato, ha aiutato a dirigere lo stabilimento di Chengdu dove si è verificata l'esplosione.
Lai Xiaodong sapeva che la fabbrica di Foxconn a Chengdu era particolare: gli operai costruiscono l'iPad, il prodotto della Apple più innovativo. Ottenuto un posto per riparare le apparecchiature dello stabilimento, avevano subito notato le luci, accecanti. I turni di lavoro erano anche di 24 ore al giorno e la fabbrica era illuminata notte e giorno. Alcuni avevano gambe talmente gonfie da trascinarsi a fatica. Dalle pareti i manifesti ammonivano i 120mila operai a "sgobbare sodo oggi o a sgobbare sodo domani per trovarsi un nuovo lavoro". Il codice comportamentale della Apple per le fabbriche fornitrici prevede che, salvo eccezioni, gli operai non debbano lavorare più di 60 ore a settimana. A Foxconn, invece, alcuni lavoravano molto di più, come documentano le buste paga e alcuni sondaggi condotti da gruppi esterni. Gli operai che arrivavano in ritardo al lavoro spesso dovevano scrivere una confessione di colpevolezza e copiare citazioni.
Da alcune rivelazioni risulta che c'erano "turni continui". In alcuni dormitori della Foxconn dormono fino a 70mila persone, stipate anche in 20 in un trilocale. La Foxconn ha definito menzognere le dichiarazioni degli operai sui turni continui, gli straordinari e gli alloggi sovrappopolati.
La mattina in cui si è verificata l'esplosione, Lai si era recato al lavoro in bicicletta. L'iPad era stato appena lanciato sul mercato e gli operai avevano l'ordine di lucidarne a migliaia ogni giorno. Il lavoro nella fabbrica era frenetico.
C'era polvere d'alluminio ovunque. Due ore dopo l'inizio del secondo turno di Lai si è verificata una serie di esplosioni. Alla fine il bilancio delle vittime sarebbe stato di quattro morti, e 18 feriti. Il corpo di Lai è stato straziato sul 90 per cento della superficie. La fabbrica ha fatto avere alla famiglia circa 150mila dollari. A dicembre è esplosa un'altra fabbrica di iPad, a Shanghai. Il bilancio delle vittime è stato di 59 feriti. Nel rapporto sulle proprie responsabilità, Apple ha scritto che anche se in entrambi i casi le esplosioni hanno coinvolto polvere di alluminio combustibile, le cause erano diverse, ma si è rifiutata di fornire dettagli. Per la famiglia di Lai, molte domande restano senza risposte. (Copyright New York Timesla Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 27.1.12
L'astrofisico, padre delle Pulsar, è scomparso ieri all'età di 72 anni
Addio a Pacini, scienziato e signore delle stelle
di Claudia Di Giorgio


Di Franco Pacini, il grande astronomo scomparso ieri all'età di 72 anni, si può ricordare la lunga carriera scientifica, a partire dai suoi studi degli anni Sessanta, quando le sue previsioni sull'esistenza di stelle rotanti di neutroni furono poi confermate dalla scoperta delle pulsar, e che sono proseguiti portando a oltre cento pubblicazioni scientifiche di livello internazionale. Carriera che la comunità mondiale degli scienziati ha deciso di onorare dedicandogli un asteroide.
Si può ricordare l'impegno costante e instancabile di promozione e organizzazione della ricerca scientifica: in primo luogo all'Osservatorio astronomico di Arcetri, di cui è stato direttore dal 1978 al 2001 e che era un po' la sua creatura, e senz'altro il suo orgoglio-e in altre istituzioni internazionali come l'European Southern Observatory, e l'Unione astronomica internazione (Uai), di cui è stato presidente dal 2001 al 2003.
Si possono ricordare le battaglie civili e culturali, spesso combattute insieme alla sua amica Margherita Hack.
Per la diffusione della cultura scientifica, che l'ha sempre visto in prima linea, per cui ha lavorato e lottato ritenendola una questione di democrazia ancor prima che di cultura. Ma anche battaglie più strettamente politiche, come quella contro la riforma Moratti, per cui scese in piazza a difesa dell'autonomia della ricerca insieme ai giovani ricercatori che restituivano simbolicamente provette e microscopi.
Eppure la cosa di Franco Pacini che più resta impressa a chi lo ha conosciuto è la passione. La sensazione che in tutto ciò che faceva mettesse tutto se stesso, senza risparmio e a volte persino senza cautele. Era un uomo di entusiasmi profondi e profonda energia e determinazione, toscanissimo nelle ironie - e nelle invettive: anche in queste non sempre badava al risparmio.
Uno scienziato che a fare scienza non solo ci credeva ma ci si divertiva anche parecchio, e forse il segreto della sua grande abilità di comunicatore era proprio questo. La capacità di trasmettere quella passione e quel divertimento non tanto con le parole ma col suo essere semplicemente se stesso: Franco Pacini, astronomo e instancabile difensore della scienza.
Grande, alto, armato di pipa appena era possibile, aveva la struttura fisica del burbero e invece era capace di tratti gentilissimi. Con i bambini, a cui negli ultimi anni aveva dedicato grande attenzione impegnandosi in ogni modo per avvicinarli alla scienza fin da piccoli, era, semplicemente, fantastico. Lo ricordiamo, durante un festival della scienza, mentre stava dentro un tendone torreggiando su un gruppetto di bimbi piccolissimi che lo seguivano rapiti mentre parlava della natura, del cielo e delle stelle con una semplicità che non diventava mai né stucchevole né condiscendente.
Sapeva raccontare, Franco Pacini, era un narratore eccellente. Ma non raccontava favole o fantasie. Sapeva raccontare la gioia della scoperta scientifica, il piacere dello studio della natura, la felicità di usare l'intelligenza per cercare risposte a domande grandi quanto l'universo.
E non importa se quelle risposte le troverà qualcun altro. Lo spiegò proprio lui, in una intervista di diversi anni fa, alla giornalista poco esperta e anche un po' spaventata dalla complessità delle cose di cui parlava, che gli chiedeva dove trovasse il coraggio un astronomo come lui per lavorare a progetti i cui risultati si sarebbero concretizzati nell'arco di decenni, di cui insomma era impossibile raccogliere personalmente i frutti.
Rispose che non serviva alcun coraggio. Che il fatto che il lavoro e gli sforzi di chi indaga oggi sulla natura del cosmo siano la base delle scoperte di domani è il corso normale della ricerca scientifica. Che far parte di quel lungo filo di intelligenze umane che si dipana nei secoli, costruendo un po' alla volta la comprensione del mondo, è un privilegio. «E io, Franco Pacini, sono un uomo privilegiato».

Repubblica 27.1.12
Udine
"Qui il film non si fa" la clinica di Eluana dice no a Bellocchio


UDINE - Lunedì a Cividale del Friuli cominciano le riprese della "Bella addormentata", il film di Marco Bellocchio liberamente ispirato alla storia di Eluana Englaro. Ma dopo la Regione, che a dicembre ha firmato un ordine del giorno per non concedere finanziamenti alla produzione, anche la casa di cura la Quiete di Udine, dove venne ricoverata e morì il 9 febbraio del 2009 per la ragazza in stato vegetativo da 17 anni, chiude la porte in faccia al regista dei "Pugni in tasca" e di "Vincere".
Con voto unanime il consiglio di amministrazione ha infatti detto no alla richiesta di concedere riprese all'interno della clinica e appoggi logistici al film interpretato da Toni Servillo e Alba Rohrwacher.
«La richiesta riguarda attività del tutto estranee ai fini istituzionali dell'azienda che ci impongono di assistere persone fragili ed anziani. E poi dobbiamo tutelare la tranquillità, la sicurezza e la privacy dei nostri ospiti», si giustifica il presidente dell'Asp, Aldo Gabriele Renzulli. Ben diverso l'atteggiamento della città di Udine. La giunta Honsell ha infatti subito comunicato alla Film commission la disponibilità ad ospitare in città la troupee il set. Non solo, ha dato in affitto un appartamento in via Dante per le riprese e assicurato la disponibilità del Comune ad agevolare la realizzazione del film attraverso il rilascio dei permessi, le ordinanze stradali, la presenza di vigili. Intanto tre giorni fa la casa di produzione, Cattleya, ha presentato alla Film Commission la richiesta di un contributo sino 150mila euro.

Repubblica 27.1.12
Primo ciak per Bellocchio, fondi o non fondi

Dopo la polemica sui fondi regionali, Marco Bellocchio lunedì a Udine farà il primo ciak di La Bella Addormentata, film ispirato alla storia di Eluana Englaro con Rohrwacher e Servillo.