L’Espresso 9.11.18
The Huffington Post Usa.Ilhan Omar: «Io, somala, a Washington per costruire ponti»
Il razzismo. L’islam. L’impegno per l’uguaglianza. Parla la prima ex rifugiata a entrare al Congresso. «Sono donna, musulmana e nera. So cosa dicono di me. Per questo faccio politica. Per unire le diversità»
di Carol Kuruvilla
Nel Minnesota Ilhan Omar ha vinto, anzi stravinto, con quasi l’80 per cento dei voti. A 37 anni appena compiuti, sarà la prima ex rifugiata eletta nel Congresso americano. Nata a Mogadiscio, ultima di sette figli, è rimasta orfana di madre quando era molto piccola. Poco dopo è dovuta fuggire dalla sua terra perché in Somalia era scoppiata la guerra civile. Poi ha vissuto per diversi anni in un campo profughi in Kenya, con la famiglia. Aveva 12 anni quando è arrivata negli Stati Uniti, una tra i tanti dell’ondata di somali che si sono stabiliti nel Minnesota negli anni ’90. Come racconta in questa intervista (rilasciata prima della vittoria elettorale) la sua coscienza politica ha iniziato a formarsi quando aveva 14 anni, dopo aver iniziato a partecipare a riunioni del “caucus” democratico insieme a suo nonno. Entrata all’università pubblica del North Dakota, a Fargo, ha quindi iniziato a occuparsi di problemi legati alla nutrizione e alla salute nella comunità locale, per poi dedicarsi all’attivismo politico. Nell’agosto scorso ha vinto a sorpresa le primarie dem, ottenendo la candidatura al Congresso. Adesso è, tra l’altro, la prima parlamentare musulmana degli Stati Uniti, insieme alla compagna di partito Rashida Tlaib, dell’ala sinistra del partito democratico.
Signora Omar, iniziamo dalla sua vita appena è arrivata negli Stati Uniti dal campo profughi in cui si era rifugiata. Com’era? Come si è trovata?
«Quando sono venuta in America il primo problema era che non parlavo inglese. Conoscevo solo due parole: “Hi” e “Shut-up”, stai zitto. Nient’altro. Così a scuola era difficile, diciamo che ho dovuto affrontare molte sfide. Tornavo a casa ogni giorno piangendo e sentendomi male per i problemi che avevo con i miei compagni, alcuni almeno. Mio padre mi diceva di lavorare sodo per imparare la lingua e aveva ragione: appena riesci a comunicare, allora puoi costruire relazioni e amicizie. Se parli con le persone, a poco a poco scompare anche la tua diversità di immigrata, di musulmana, di africana, di nera. Parlando, le persone iniziano a vederti per come sei. È stato così che ho iniziato a capire che la mia missione sarebbe stata quella di costruire ponti tra le persone».
Chi sinistra (e chi no): la copertina de L'Espresso in edicola da domenica 11 novembre
E poi?
«Al liceo c’erano tensioni tra i vari gruppi etnici: i ragazzi neri nati in America, i neri africani, i latinos, i nativi americani, i nuovi immigrati di varia provenienza, perfino tra i musulmani arabi e quelli dell’Africa orientale. Del resto, se si mettono insieme ragazzi così eterogenei senza creare buoni programmi per costruire relazioni tra loro, inevitabilmente avrai scontri razziali e culturali. Di nuovo, ho cercato di costruire ponti: sapevo che dovevo lavorare per creare una comunità coesa, anche solo allo scopo di rendere a tutti più facile sopravvivere al liceo. Si trattava di trovare studenti che si considerassero come me costruttori di ponti e che lavorassero insieme con gli altri ragazzi, con gli insegnanti, con i dirigenti della scuola, il preside, insomma gli altri. Così abbiamo creato un’atmosfera in cui alla fine mangiavamo insieme, parlavamo a lungo, ci confrontavamo e cercavamo una mediazione tra i conflitti prima che sfociassero nella violenza. Tutto ciò ha reso i miei ultimi anni di liceo un’esperienza molto forte e gratificante».
E questo l’ha portata alla politica?
«Penso che abbia reso più ancora più acuto il mio desiderio di costruire ponti e lavorare in direzione della collaborazione. Bisogna sempre cercare di trovare i punti in comune per affrontare le questioni più importanti. E non scordarsi mai che nessuna persona da sola ha la soluzione dei problemi: questa può arrivare solo dalla comunità, dalla collaborazione».
Lei è anche musulmana. E aveva vent’anni quando ci fu l’attentato alle Torri Gemelle...
«Per me la fede islamica è sempre stata molto importante. Sa, uno dei suoi valori fondamentali è che bisogna sempre cercare di costruire il consenso attorno a una decisione. Ad esempio, quando si tratta di capire se qualcosa è permesso o no nell’Islam, di solito questo avviene attraverso una discussione e le persone devono raggiungere un consenso comune per poter decidere qualcosa. Quindi questa idea di costruzione del consenso era quasi innata in me, faceva parte della fede in cui sono nata, nella cultura in cui sono cresciuta. Questo principio è fondamentale per quello che faccio»
Anche nell’attivismo politico?
«Penso che una grande parte degli insegnamenti della mia fede si riassuma nel principio che dobbiamo intraprendere insieme il cammino verso l’uguaglianza, siamo stati tutti creati uguali al cospetto di Dio, tutti abbiamo diritto alla libertà e a un uguale accesso ai nostri diritti. Partendo da questa premessa, io lavoro per l’uguaglianza e per assicurare che i nostri sistemi siano aperti a tutti».
Quali sfide prevede che dovrà affrontare?
«Voglio continuare a cercare di costruire un consenso generale, in modo da non affrontare i nostri problemi in un’ottica particolaristica. Io rappresento una comunità certamente particolare, ma devo lavorare al servizio di tutti. Affrontare la politica in questo modo è una sfida perché non è quello che la maggior parte della gente si aspetta. Ed essendo una donna somala musulmana proveniente dall’Africa orientale, sono esposta alle critiche di molte persone che cercano di farmi passare come una che difende un gruppo particolare. Voglio essere al servizio di tutti».
Quest’anno abbiamo visto molti musulmani organizzare campagne elettorali. Che cos’è stato a risvegliare questa coscienza politica?
«Questo non è stato un turno elettorale come qualsiasi altro in cui puoi startene in disparte e dire che ti lascia indifferente. Ecco perché molte persone si sono mobilitate in massa. Stiamo finalmente prendendo coscienza che le cose potrebbero finire molto male. È la prima volta nella mia vita e probabilmente nella storia della nostra nazione in cui abbiamo politici che cercano consensi facendo leva sulla paura e sull’islamofobia. Credo che stiamo rendendoci conto degli effetti collaterali di quel tipo di retorica, con tutti gli attacchi odiosi e i crimini di intolleranza che vediamo aumentare, e le manifestazioni di odio verso i bambini e gli adulti che potrebbero essere percepiti come musulmani. Dobbiamo evitare di renderci corresponsabili della catastrofe incombente e contribuire a imprimere una diversa direzione alla storia».
Qual è la sua più grande speranza per la sua carriera di rappresentante politico?
«Spero che la mia elezione dimostri che possiamo effettivamente correre in aree dove non tutti quelli che ci vivono ci assomigliano o hanno un’identità condivisa con noi. Non è una maggioranza della comunità musulmana che sta influenzando la mia elezione, anzi siamo una minoranza nel mio collegio. Spesso, quando si tratta di minoranze e di donne, siamo incoraggiati a scendere in campo solo quando i dati demografici sono a nostro favore - e siamo scoraggiati quando non lo sono. Spero che la mia candidatura consenta alle persone di avere l’audacia di incoraggiare le persone che non rientrano in un particolare gruppo etnico o demografico a mobilitarsi. E a credere nel loro messaggio e nella buona disposizione degli elettori a scegliere qualcuno che ritengono che condivida il loro orientamento. E non necessariamente la loro identità».
(Copyright The Huffington Post Usa.
Traduzione Mario Baccianini)
L’Espresso 9.11.18
Depressione post-partum: un fenomeno anche maschile
di Chiara Simonelli
Il periodo perinatale è comunemente associato a sentimenti di gioia ed euforia per tutto il nucleo familiare. L’arrivo di un bebè generalmente porta con sé vissuti e aspettative da parte non solo dei genitori ma di tutti i partecipanti ad un contesto di relazioni familiari.
Diversi sono gli studi in letteratura che, ormai da moltissimi anni, hanno evidenziato le principali motivazioni di piacere legate alla nascita di un nuovo componente; dalla sensazione di un senso di “normalità” finalmente soddisfatta, alla gratificazione della continuità familiare.
Andando oltre questo primo aspetto della questione esiste, però, un lato molto meno esplorato e molto meno documentato che è quello dei sentimenti di sofferenza, disagio e difficoltà legati alla nascita di un figlio. La spiegazione di questo scenario apparentemente contraddittorio può essere trovata citando quello che Galimberti chiama “il mito dell’amore materno”; con esso, infatti, l’Autore rappresenta la tendenza di molte culture ad assegnare alla maternità un valore univoco di accoglienza, affetto incondizionato ed instancabile istinto amorevole; il lato critico di questa visione è rappresentato proprio dalla supposizione che ne viene fatta alla base: una donna, fosse anche alla sua prima esperienza di maternità, ha il compito implicito di essere “pronta” ed “abile” nel mettere in gioco tutte queste caratteristiche, senza alcun segno di difficoltà. Nei contesti in cui questa aspettativa è particolarmente rigida accade non solo che una giovane mamma si possa percepire incapace e inadeguata al ruolo, ma che la sua stessa identità di donna ne possa uscire sconfitta.
Guardando al fenomeno della genitorialità in modo più ampio, inoltre, le dimensioni di cambiamento individuale e di coppia che essa comporta possono avere un notevole impatto sulle risorse dei futuri mamma e papà. La nascita di un bambino, infatti, modifica profondamente le abitudini, i ritmi del sonno e del riposo, la relazione di coppia e gli aspetti legati all’identità (personale, lavorativa e sociale). Proprio perché tutti questi cambiamenti vengono considerati normali e vissuti dalla maggioranza delle persone, vengono chiamati “normativi”; il fatto, però, che siano diffusi non significa che siano facili da affrontare! Dalla “difficoltà”, inoltre, si può passare alla presenza di un vero e proprio periodo critico (noto come “depressione post partum”) in presenza di alcuni fattori specifici, quali: l’aver vissuto eventi particolarmente stressanti durante la gravidanza, la presenza di una relazione di coppia affettivamente fragile e poco collaborativa, un limitato supporto sociale, un livello socio-educativo basso, la mancanza di una posizione lavorativa solida e una storia di precedenti episodi depressivi.
Partendo dall’ipotesi che entrambi i genitori costituiscano una fonte di accudimento importante per il neonato, è stato recentemente analizzato il vissuto dei padri e l’impatto che esso ha sul benessere del nuovo nucleo familiare. Dai primi studi è emerso che le manifestazioni maschili di depressione post partum non ricalcano quelle femminili (che tendono verso la tristezza, la trascuratezza e la difficoltà a svolgere le attività di accudimento); esse, al contrario, sembrerebbero propendere più per la manifestazione di rabbia, ostilità e conflittualità e per la messa in atto di comportamenti di evasione (incrementare l’attività sportiva o le ore trascorse a lavoro) o di sfogo della tensione (uso di sostanze, comportamenti sessuali promiscui).
In un recente studio di Perez e collaboratori, pubblicato sul Journal of Men’s Health, è emerso che, seppur in una percentuale significativamente inferiore rispetto alla popolazione di madri, l’indice di depressione post partum dei padri riguardi più del 18% del campione analizzato. La difficoltà a definire con maggiore esattezza la portata del fenomeno deriva dal fatto che sia scarsamente indagato e dalle grosse differenze culturali e di genere a cui è legato. Gli Autori evidenziano come sia necessario rivedere i programmi di screening perinatale a cui sono sottoposti i genitori, in quanto attualmente non esistono questionari per la valutazione della depressione perinatale da somministrare ai padri.
Questo risulta importante non solo per accogliere la sempre più frequente richiesta dei padri di essere coinvolti nella nascita dei figli, ma anche per ripensare al concetto di “salute familiare” non come strettamente legato alle sole risorse materne.
Ringrazio per la collaborazione la Dott.ssa Elisabetta Todaro
L’Espresso 9.11.18
Scenari
La sinistra? Nel mondo si riunisce mentre in Italia continua a dividersi
L'ala socialista dei democratici americani di Sanders dialoga con il gruppo europeo di Varoufakis. Da noi invece continuano le scissioni
di Adriano Botta
Gli scenari a sinistra, mettendo a parte le questioni del Pd e del suo futuro congresso, sembrano in queste settimane andare in due direzioni opposte:
a livello internazionale si stabiliscono nuove intese e alleanze, in Italia ci si schianta in ennesime frantumazioni e scissioni.
Le buone notizie vengono dall’“entente cordiale” che si è sviluppata tra l’ala socialista dei democratici americani (per capirci, Bernie Sanders e i suoi candidati alle elezioni di mid term) e il gruppo europeo di Yanis Varoufakis, che si presenterà alle elezioni Ue del maggio prossimo. Sanders e Varoufakis si sono messi insieme con l’idea di «progettare un piano comune per un New Deal internazionale, una nuova e progressista Bretton Woods», primo passo verso una collaborazione più ampia tra i neosocialisti americani e quelli europei.
«Il nostro compito è raggiungere chi in qualsiasi angolo del mondo condivide gli stessi valori e sta combattendo per un mondo migliore», ha sintetizzato lo stesso Sanders, il cui obiettivo è contrapporsi globalmente al «nuovo asse autoritario» che, sulle due sponde dell’Atlantico, «è guidato da leader profondamente connessi entro una rete di oligarchi multimiliardari che vedono il pianeta come il loro parcogiochi economico».
Assai meno costruttive, si diceva, le notizie che arrivano da quello che resta della sinistra extra Pd in Italia. Dopo la rottura dentro Potere al Popolo (scissione dell’atomo tra chi veniva da Rifondazione
e chi no) anche dentro Liberi e Uguali è avvenuto il divorzio: quelli di Sinistra Italiana (l'ex Sel di Nichi Vendola) se ne sono andati e ora tentano di agganciare il nascente movimento di Luigi De Magistris; al contrario, quelli di Mdp-Articolo 1 (D’Attorre, Speranza etc) restano in Leu ma sono sempre più vicini al rientro nel Pd in caso di vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie.
https://spogli.blogspot.com/2018/11/lespresso-9.html
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 10 novembre 2018
Corriere 10.11.18
Verdiglione va ai domiciliari
Ok dei giudici
di Elisabetta Andreis
Armando Verdiglione, 74 anni, detenuto da due mesi (nel carcere di Opera prima e all’ospedale S.Paolo di Milano poi), è stato liberato ieri sera. Il Tribunale di sorveglianza ha negato allo psicanalista la richiesta di differimento della pena per motivi di salute ma ha accolto la richiesta di detenzione domiciliare per motivi anagrafici. Il professore è dunque in esecuzione della pena, informano i suoi legali Lucio Lucia e Michele Passione: sconterà 5 anni e 6 mesi nella sua abitazione, lì dove si trova anche la moglie.
Verdiglione va ai domiciliari
Ok dei giudici
di Elisabetta Andreis
Armando Verdiglione, 74 anni, detenuto da due mesi (nel carcere di Opera prima e all’ospedale S.Paolo di Milano poi), è stato liberato ieri sera. Il Tribunale di sorveglianza ha negato allo psicanalista la richiesta di differimento della pena per motivi di salute ma ha accolto la richiesta di detenzione domiciliare per motivi anagrafici. Il professore è dunque in esecuzione della pena, informano i suoi legali Lucio Lucia e Michele Passione: sconterà 5 anni e 6 mesi nella sua abitazione, lì dove si trova anche la moglie.
Corriere 10.11.18
«La tv delle ragazze», nel guardare all’indietro c’è tutto da perdere
di Aldo Grasso
Ma perché? Perché si fanno operazioni come questa dove c’è tutto da perdere? Sono passati trent’anni e il tempo, per tutti, non è mai clemente.
In Rai non c’è più Angelo Guglielmi a teorizzare la sua tv e a incutere rispetto. Non c’è più il ceto medio riflessivo, spazzato via dal pressappochismo. Non c’è più quella sinistra che aveva la titolarità dell’ironia. È rimasto solo il grande Bruno Voglino, versante entertainment della gloriosa Raitre, che si presenta in studio con una giubba verde pisello, stile Peter Pan.
C’è ancora Serena Dandini, affiancata nella conduzione da Martina Dell’Ombra, di gialloverde vestita come il vento del cambiamento: ma certi vizi non cambiano mai, come quello di sentirsi più intelligenti del proprio pubblico. La riproposta de «La tv delle ragazze. Gli stati generali» spazza via la soccorrevole nebbia che avvolge i ricordi (la gag della donna ideale di Angela Finocchiaro non ha perso di smalto, è ancora mirabile e scoprire Maurizio Crozza che fa da comparsa a Carla Signoris è meraviglioso) e spinge il programma verso le dune di «Colorado», di «Made in Sud» (Rai3, giovedì, ore 21,15). Per non dimenticarli, mi sono segnato alcuni sketch: la Piattaforma Monroe (bisognava scriverci sotto: parodia della piattaforma Rousseau), la GEA - Grande Enciclopedia Approssimativa, la Sciarelli (Francesca Reggiani) che cerca la Sinistra, il TeleGiornale del Cambiamento (in stile Eiar che fa tanto Fascisti su Marte), Cinzia Leone che rifà se stessa trent’anni dopo, la parodia di Marco Travaglio e di Maria Elena Boschi della Guzzanti… E poi la gentile partecipazione di Paola Cortellesi, Isabella Ragonese, Lella Costa, Massimo Ghini. Ecco, gentile. Sì, poi però l’intervista a Emma Bonino e la lunghezza della trasmissione azzopperebbero persino Checco Zalone. Come tutti gli sguardi tv all’indietro, anche questo è un piccolo graffio sul presente, un liquore tonico di rispettosa indifferenza.
«La tv delle ragazze», nel guardare all’indietro c’è tutto da perdere
di Aldo Grasso
Ma perché? Perché si fanno operazioni come questa dove c’è tutto da perdere? Sono passati trent’anni e il tempo, per tutti, non è mai clemente.
In Rai non c’è più Angelo Guglielmi a teorizzare la sua tv e a incutere rispetto. Non c’è più il ceto medio riflessivo, spazzato via dal pressappochismo. Non c’è più quella sinistra che aveva la titolarità dell’ironia. È rimasto solo il grande Bruno Voglino, versante entertainment della gloriosa Raitre, che si presenta in studio con una giubba verde pisello, stile Peter Pan.
C’è ancora Serena Dandini, affiancata nella conduzione da Martina Dell’Ombra, di gialloverde vestita come il vento del cambiamento: ma certi vizi non cambiano mai, come quello di sentirsi più intelligenti del proprio pubblico. La riproposta de «La tv delle ragazze. Gli stati generali» spazza via la soccorrevole nebbia che avvolge i ricordi (la gag della donna ideale di Angela Finocchiaro non ha perso di smalto, è ancora mirabile e scoprire Maurizio Crozza che fa da comparsa a Carla Signoris è meraviglioso) e spinge il programma verso le dune di «Colorado», di «Made in Sud» (Rai3, giovedì, ore 21,15). Per non dimenticarli, mi sono segnato alcuni sketch: la Piattaforma Monroe (bisognava scriverci sotto: parodia della piattaforma Rousseau), la GEA - Grande Enciclopedia Approssimativa, la Sciarelli (Francesca Reggiani) che cerca la Sinistra, il TeleGiornale del Cambiamento (in stile Eiar che fa tanto Fascisti su Marte), Cinzia Leone che rifà se stessa trent’anni dopo, la parodia di Marco Travaglio e di Maria Elena Boschi della Guzzanti… E poi la gentile partecipazione di Paola Cortellesi, Isabella Ragonese, Lella Costa, Massimo Ghini. Ecco, gentile. Sì, poi però l’intervista a Emma Bonino e la lunghezza della trasmissione azzopperebbero persino Checco Zalone. Come tutti gli sguardi tv all’indietro, anche questo è un piccolo graffio sul presente, un liquore tonico di rispettosa indifferenza.
La Stampa 10.11.18
Eia eia Mompracem!
Così Salgari, defunto, diventò fascista
di Mario Baudino
Nel 1928, non del tutto all’improvviso, Emilio Salgari divenne fascista: anzi, il precursore del fascismo, lo scrittore che aveva destato un nuovo spirito guerriero nella gioventù italiana - quella della Grande guerra, scesa in trincea con i suoi romanzi, si volle credere, nello zaino. Un classico della letteratura moderna da anteporre, poniamo, a Leopardi. E una vittima, anzi un martire, degli editori «vampiri», che lo avevano sfruttato fino all’osso, come uno schiavo, spingendolo infine al tragico suicidio. Fu un «assassinio», proclamarono gli intellettuali fascisti più esagitati, sulle pagine di un settimanale di non immensa fortuna ma in grado di lanciare una campagna efficacissima. Si chiamava Il Raduno ed era l’emanazione del sindacato autori, scrittori, musicisti, pittori, scultori. Va da sé che il povero Salgari era totalmente incolpevole ed estraneo alla gazzarra.
La complicità dei figli
Morto a Torino nel 1911 (scegliendo la crudele modalità giapponese di tagliarsi il ventre), aveva sì accusato gli editori di essersi «arricchiti sulla mia pelle», ma in realtà era stato stroncato da un lungo percorso di depressione, alcolismo, guai economici e tragedie famigliari. Quanto al fascismo, poi, nessuno più di lui ne sembrava lontano: i suoi eroi erano pirati coraggiosi e romantici ma in lotta semmai contro i «bianchi» (si pensi a Sandokan e ai tigrotti di Mompracem), dediti ad amori «interrazziali», estranei a ogni forma di nazionalismo. E gli editori, considerati i tempi, lo pagavano bene.
Lo dimostra l’italianista inglese Ann Lawson Lucas, nel secondo volume di un’opera che ne prevede quattro, uscito per Olskchi col titolo Emilio Salgari. Una mitologia moderna tra letteratura, politica e società - Fascismo
. Lo sfruttamento personale e politico. Copre gli anni dal 1916 al 1943, quando non solo l’autore venne ascritto - non senza qualche isolata perplessità - al pantheon mussoliniano, ma si scatenò anche, in una sorta di complicità forzata tra gli editori e i figli Omar e Nadir, l’enorme produzione di falsi, che ancora oggi sembra complicata da disboscare.
Nacque così, ad esempio, la leggenda del «capitano di lungo corso» - diciottenne nei mari del Sud, dove avrebbe conosciuto di persona Sandokan o Tremal Naik e preso a odiare gli inglesi anche per via di qualche amore sfortunato - dovuta a un testo del tutto apocrifo, Le mie memorie (pubblicato nel ’28 da Mondadori). Faceva parte della «fabbrica» salgariana messa in piedi dai figli, con uno stuolo di ghost writer cui venivano commissionati sempre nuovi libri, in un gioco a rimpiattino con i molti editori, da Bemporad a Vallardi a Sonzogno ad altri minori. La Lawson sdipana una matassa intricata, ma l’aspetto più interessante dello studio è quello politico.
I «fascistizzatori» spuntarono subito, all’indomani della marcia su Roma. Tra loro per esempio tal Luigi Motta, che lo aveva frequentato negli ultimi anni di vita e avrebbe prodotto falsi fino agli Anni Sessanta. In una prefazione del ’22 già parlava dei marinai e soldati «vanto e gloria d’Italia» divenuti tali «per opera di quelle letture che non insegnano il vizio e la corruzione, ma le gesta generose che nobilitano veramente l’uomo».
«Il nostro contravveleno»
L’aspetto curioso della vicenda è che la fascistizzazione dello scrittore non risulta essere opera diretta del regime, attraverso i suoi strumenti istituzionali, per esempio i ministeri, ma di una comunità intellettuale fanatica e spregiudicata. Ebbe qualcosa di spontaneo, e in fin dei conti anche di casuale.
La campagna che lanciò Il Raduno puntava infatti un non troppo celato obiettivo polemico: l’editore Bemporad di Firenze, inviso per ragioni personali ad Antonio Beltramelli, poligrafo fascistissimo, futuro accademico d’Italia e segretario generale del sindacato scrittori; ma in generale attaccava anche l’intera categoria di chi stampava e vendeva libri, accusata di essere una sorta di casta affamatrice. Bemporad, nella fattinspecie, era l’affamatore di Salgari, di cui era stato l’ultimo editore in vita. Si cominciò col primo numero, uscito nel dicembre del ’27, additando nello scrittore «il nostro precettore, il nostro salvatore, il contravveleno» a un’educazione ricevuta da ragazzi con genitori «allucinati dalle idee socialiste-umanitarie», «quando ogni sogno romantico era automaticamente represso».
Gli articoli si susseguono, di numero in numero, facendone «il primo, il tacito e sicuro alleato di Benito Mussolini», l’«umile forgiatore di coscienze, precursore sepolto», ed esecrando gli «strozzini» a causa dei quali era morto in miseria. Bemporad, ebreo (e già si comincia a farlo notare, benché le leggi razziali siano ancora lontane), si difende anche se con poco successo, sopraffatto dalla canea. Verrà chiesto a gran voce l’esproprio dei diritti salgariani, per una «edizione nazionale» che avrebbe distribuito i proventi tra gli eredi e l’Opera Balilla, esproprio tecnicamente impossibile, ma non importa. È persino istituita una commissione d’inchiesta, che però «assolve» l’editore fiorentino dal delitto di strozzinaggio.
Nonostante le ironie di Arnaldo Mussolini e Margherita Sarfatti, amante e consigliera del Duce - che proprio non trova tracce di fascismo in Salgari -, i giochi sono fatti. Ormai è un dogma, destinato a culminare nel ’38 quando, morto Nadir, il fratello minore Omar prende le redini dell’«azienda», commissiona nuovi falsi, e pubblica nel ’40 a propria firma un’altra fantasiosa biografia del padre, scritta in realtà da uno dei più prolifici autori fantasma, il torinese Giovanni Bertinetti. Intanto lo scrittore era stato trasposto a fumetti, e poi sarebbero arrivati i film «bellici» di grande successo.
C’era ormai una consolidata verità di regime, di cui peraltro la fama postuma non ebbe a patire: basti pensare al Sandokan-Kabir Bedi dello sceneggiato tv, nel 1976. Ma tutto ciò non si poteva prevedere mentre l’Italia si avviava alla guerra e alla vergogna. Proprio nel ’38, l’anno delle leggi razziali, Il Popolo d’Italia pubblica un ennesimo articolo sulle vicissitudini editoriali con Bemporad. Titolo: «Salgari e l’ebreo».
Eia eia Mompracem!
Così Salgari, defunto, diventò fascista
di Mario Baudino
Nel 1928, non del tutto all’improvviso, Emilio Salgari divenne fascista: anzi, il precursore del fascismo, lo scrittore che aveva destato un nuovo spirito guerriero nella gioventù italiana - quella della Grande guerra, scesa in trincea con i suoi romanzi, si volle credere, nello zaino. Un classico della letteratura moderna da anteporre, poniamo, a Leopardi. E una vittima, anzi un martire, degli editori «vampiri», che lo avevano sfruttato fino all’osso, come uno schiavo, spingendolo infine al tragico suicidio. Fu un «assassinio», proclamarono gli intellettuali fascisti più esagitati, sulle pagine di un settimanale di non immensa fortuna ma in grado di lanciare una campagna efficacissima. Si chiamava Il Raduno ed era l’emanazione del sindacato autori, scrittori, musicisti, pittori, scultori. Va da sé che il povero Salgari era totalmente incolpevole ed estraneo alla gazzarra.
La complicità dei figli
Morto a Torino nel 1911 (scegliendo la crudele modalità giapponese di tagliarsi il ventre), aveva sì accusato gli editori di essersi «arricchiti sulla mia pelle», ma in realtà era stato stroncato da un lungo percorso di depressione, alcolismo, guai economici e tragedie famigliari. Quanto al fascismo, poi, nessuno più di lui ne sembrava lontano: i suoi eroi erano pirati coraggiosi e romantici ma in lotta semmai contro i «bianchi» (si pensi a Sandokan e ai tigrotti di Mompracem), dediti ad amori «interrazziali», estranei a ogni forma di nazionalismo. E gli editori, considerati i tempi, lo pagavano bene.
Lo dimostra l’italianista inglese Ann Lawson Lucas, nel secondo volume di un’opera che ne prevede quattro, uscito per Olskchi col titolo Emilio Salgari. Una mitologia moderna tra letteratura, politica e società - Fascismo
. Lo sfruttamento personale e politico. Copre gli anni dal 1916 al 1943, quando non solo l’autore venne ascritto - non senza qualche isolata perplessità - al pantheon mussoliniano, ma si scatenò anche, in una sorta di complicità forzata tra gli editori e i figli Omar e Nadir, l’enorme produzione di falsi, che ancora oggi sembra complicata da disboscare.
Nacque così, ad esempio, la leggenda del «capitano di lungo corso» - diciottenne nei mari del Sud, dove avrebbe conosciuto di persona Sandokan o Tremal Naik e preso a odiare gli inglesi anche per via di qualche amore sfortunato - dovuta a un testo del tutto apocrifo, Le mie memorie (pubblicato nel ’28 da Mondadori). Faceva parte della «fabbrica» salgariana messa in piedi dai figli, con uno stuolo di ghost writer cui venivano commissionati sempre nuovi libri, in un gioco a rimpiattino con i molti editori, da Bemporad a Vallardi a Sonzogno ad altri minori. La Lawson sdipana una matassa intricata, ma l’aspetto più interessante dello studio è quello politico.
I «fascistizzatori» spuntarono subito, all’indomani della marcia su Roma. Tra loro per esempio tal Luigi Motta, che lo aveva frequentato negli ultimi anni di vita e avrebbe prodotto falsi fino agli Anni Sessanta. In una prefazione del ’22 già parlava dei marinai e soldati «vanto e gloria d’Italia» divenuti tali «per opera di quelle letture che non insegnano il vizio e la corruzione, ma le gesta generose che nobilitano veramente l’uomo».
«Il nostro contravveleno»
L’aspetto curioso della vicenda è che la fascistizzazione dello scrittore non risulta essere opera diretta del regime, attraverso i suoi strumenti istituzionali, per esempio i ministeri, ma di una comunità intellettuale fanatica e spregiudicata. Ebbe qualcosa di spontaneo, e in fin dei conti anche di casuale.
La campagna che lanciò Il Raduno puntava infatti un non troppo celato obiettivo polemico: l’editore Bemporad di Firenze, inviso per ragioni personali ad Antonio Beltramelli, poligrafo fascistissimo, futuro accademico d’Italia e segretario generale del sindacato scrittori; ma in generale attaccava anche l’intera categoria di chi stampava e vendeva libri, accusata di essere una sorta di casta affamatrice. Bemporad, nella fattinspecie, era l’affamatore di Salgari, di cui era stato l’ultimo editore in vita. Si cominciò col primo numero, uscito nel dicembre del ’27, additando nello scrittore «il nostro precettore, il nostro salvatore, il contravveleno» a un’educazione ricevuta da ragazzi con genitori «allucinati dalle idee socialiste-umanitarie», «quando ogni sogno romantico era automaticamente represso».
Gli articoli si susseguono, di numero in numero, facendone «il primo, il tacito e sicuro alleato di Benito Mussolini», l’«umile forgiatore di coscienze, precursore sepolto», ed esecrando gli «strozzini» a causa dei quali era morto in miseria. Bemporad, ebreo (e già si comincia a farlo notare, benché le leggi razziali siano ancora lontane), si difende anche se con poco successo, sopraffatto dalla canea. Verrà chiesto a gran voce l’esproprio dei diritti salgariani, per una «edizione nazionale» che avrebbe distribuito i proventi tra gli eredi e l’Opera Balilla, esproprio tecnicamente impossibile, ma non importa. È persino istituita una commissione d’inchiesta, che però «assolve» l’editore fiorentino dal delitto di strozzinaggio.
Nonostante le ironie di Arnaldo Mussolini e Margherita Sarfatti, amante e consigliera del Duce - che proprio non trova tracce di fascismo in Salgari -, i giochi sono fatti. Ormai è un dogma, destinato a culminare nel ’38 quando, morto Nadir, il fratello minore Omar prende le redini dell’«azienda», commissiona nuovi falsi, e pubblica nel ’40 a propria firma un’altra fantasiosa biografia del padre, scritta in realtà da uno dei più prolifici autori fantasma, il torinese Giovanni Bertinetti. Intanto lo scrittore era stato trasposto a fumetti, e poi sarebbero arrivati i film «bellici» di grande successo.
C’era ormai una consolidata verità di regime, di cui peraltro la fama postuma non ebbe a patire: basti pensare al Sandokan-Kabir Bedi dello sceneggiato tv, nel 1976. Ma tutto ciò non si poteva prevedere mentre l’Italia si avviava alla guerra e alla vergogna. Proprio nel ’38, l’anno delle leggi razziali, Il Popolo d’Italia pubblica un ennesimo articolo sulle vicissitudini editoriali con Bemporad. Titolo: «Salgari e l’ebreo».
La Stampa TuttoLibri 10.11.18
L’Italia ha scelto il populismo ma non bisogna aver paura
Un saggio di Molinari per capire il terremoto elettorale che ha cambiato la scena politica e che può scuotere per sempre gli equilibri e l’anima dell’Europa (dis)unita
di Bernard-Henri Levy
Perché l’Italia è diventata, nell’Europa occidentale, il laboratorio dell’epilessia politica contemporanea? Perché vi troviamo in posizione di primato o, per dirla meglio, in pole position ciò che si usa definire populismo, sovranismo, neofascismo? E questo paese che ha così spesso mostrato la via del bello e dell’eccellenza, questa patria elettiva di poeti e pensatori di cui non sapremo mai abbastanza che, ben prima dei colossi del pensiero francesi e tedeschi, aveva già trovato la propria punta di diamante, facendo sì che i più grandi, i Cartesio, i Kant, e molti altri, si destassero dal loro sonno teologico, questo paese che, al contrario, ebbe, con dieci anni di anticipo sulla Germania, il sinistro privilegio d’inventare Mussolini e il primo fascismo - potrebbe essere, infine, che questo paese sia sul punto di vivere di nuovo un momento storico?
In Italia è appena stato pubblicato un libro che risponde a questa domanda. È firmato da Maurizio Molinari, uno degli editorialisti più ascoltati della scena italiana, direttore del grande quotidiano, La Stampa. E spero che si trovi, in Francia e in altri paesi europei, un editore per tradurlo. Impareremo così che l’improbabile accoppiata tra la Lega e il Movimento 5 stelle è tutt’altro che una sorpresa, e ancor meno un’aberrazione, almeno per un attento osservatore della scena italiana. Si vedrà come urlatori, teppisti ubriaconi e altri figuri di entrambi i movimenti si siano annusati a vicenda per anni, proprio come fanno, in Francia, i «ribelli» e i lepenisti - e si vedrà come, dalle alleanze tattiche agli istinti condivisi, dagli slittamenti sottili e impercettibili, alle vergognose collaborazioni, finiranno col proclamare che ciò che li unisce conta più di ciò che li divide.
Si troveranno pagine rigorose sul cancro della corruzione di cui gli italiani si dicono stanchi, ma di cui sono così intimamente e da lungo tempo impregnati che questa sembra essere diventata il collante che tiene insieme la società - e si vede come i 5 stelle, nati da un sito web, dall’affettazione di parlare «franco», tipica dei costumi digitali contemporanei e da una confusione, non meno caratteristica dei nostri tempi bui, tra la «sincerità» vomitata e l’amaro sforzo richiesto dalla vera ricerca della verità, ne abbiano fatto un cavallo di battaglia. L’autore insiste ancora sul trauma di una globalizzazione a cui ha corrisposto - la storia italiana insegna - una vera emorragia demografica. Mette in relazione - e questo è più discutibile - l’entità dello shock migratorio attuale con quest’altra specificità nazionale, che, come in Germania, ma a differenza della Francia o dell’Inghilterra, è l’assenza di tradizione coloniale (si ricordi la farsa di Mussolini a Tripoli) con ciò che potrebbe implicare la scoperta dell’altro.
Racconta - e qui è di nuovo molto convincente - il trauma rappresentato dall’elezione, in successione, di tre papi non italiani e quindi il tramonto del diritto di primogenitura che la Chiesa cattolica apostolica romana riconosceva di fatto all’Italia. Mette in scena - e questa è un’altra delle parti originali del libro - la fantasia di una «identità» che, in questo paese ontologicamente frammentato, ha ancora meno senso che altrove: che cosa c’è di più identitariamente lontano di un veneziano da un milanese? Di un romano da un napoletano? di un «gattopardo» lampedusiano da un fiorentino figlio di Dante? E poi il risentimento contro la Germania. E poi l’amore-odio per la nazione sorella, la Francia. E poi la burocrazia di Bruxelles, la cui complessità, Molinari lo sa bene, può anche essere, come nell’impero austro-ungarico, una garanzia di civiltà, ma che i congiurati della nuova alleanza rosso-bruna hanno trasformato in un capro espiatorio.
E Putin, infine, che manovra nell’ombra, ancora più formidabile del precedente Kgb, e che è diventato qui, come altrove, l’agente patogeno per eccellenza del cancro populista: non è forse dimostrato che abbia interferito, attraverso i social network, nelle elezioni italiane almeno tanto quanto in quelle degli Stati Uniti? E non ha forse trovato in Matteo Salvini una sorta di simile, un doppio mancato, un fratello fragile e asservito? A volte Maurizio Molinari sembra pensare che questi uomini che regnano oggi sull’Italia e propongono al resto dell’Europa un modo di governare alternativo, siano cavalli di ritorno, zombi, l’ombra dei loro padroni, la loro pallida copia: incapaci della minima elaborazione dottrinale, incompetenti a formulare qualsiasi proposta economica, politica o culturale, rielaborano i loro manuali di prefascismo e sono destinati a rimanere, con ogni probabilità, eterni comprimari.
A volte ricorda che, dalla più esangue e sfibrata debolezza, dalla più grande stanchezza e dalla più struggente angoscia, è successo, nella storia europea di veder nascere disprezzatori, distruttori, nichilisti, intenzionati ad annientarla, ahimè, riuscendoci - e allora non si sente più di escludere che, dal laboratorio italiano, possa uscire un giorno una di quelle terribili sintesi che consideriamo mere speculazioni fino al momento (ma è troppo tardi!) in cui si scopre che seguono le tendenze di un’epoca. La lotta per l’Europa, in Italia come altrove, è iniziata. E’ allarme rosso. È normale. È sempre così, nel teatro dell’umanità. L’essenziale è essere pronti e non avere paura.
Traduzione di Carla Reschia
L’Italia ha scelto il populismo ma non bisogna aver paura
Un saggio di Molinari per capire il terremoto elettorale che ha cambiato la scena politica e che può scuotere per sempre gli equilibri e l’anima dell’Europa (dis)unita
di Bernard-Henri Levy
Perché l’Italia è diventata, nell’Europa occidentale, il laboratorio dell’epilessia politica contemporanea? Perché vi troviamo in posizione di primato o, per dirla meglio, in pole position ciò che si usa definire populismo, sovranismo, neofascismo? E questo paese che ha così spesso mostrato la via del bello e dell’eccellenza, questa patria elettiva di poeti e pensatori di cui non sapremo mai abbastanza che, ben prima dei colossi del pensiero francesi e tedeschi, aveva già trovato la propria punta di diamante, facendo sì che i più grandi, i Cartesio, i Kant, e molti altri, si destassero dal loro sonno teologico, questo paese che, al contrario, ebbe, con dieci anni di anticipo sulla Germania, il sinistro privilegio d’inventare Mussolini e il primo fascismo - potrebbe essere, infine, che questo paese sia sul punto di vivere di nuovo un momento storico?
In Italia è appena stato pubblicato un libro che risponde a questa domanda. È firmato da Maurizio Molinari, uno degli editorialisti più ascoltati della scena italiana, direttore del grande quotidiano, La Stampa. E spero che si trovi, in Francia e in altri paesi europei, un editore per tradurlo. Impareremo così che l’improbabile accoppiata tra la Lega e il Movimento 5 stelle è tutt’altro che una sorpresa, e ancor meno un’aberrazione, almeno per un attento osservatore della scena italiana. Si vedrà come urlatori, teppisti ubriaconi e altri figuri di entrambi i movimenti si siano annusati a vicenda per anni, proprio come fanno, in Francia, i «ribelli» e i lepenisti - e si vedrà come, dalle alleanze tattiche agli istinti condivisi, dagli slittamenti sottili e impercettibili, alle vergognose collaborazioni, finiranno col proclamare che ciò che li unisce conta più di ciò che li divide.
Si troveranno pagine rigorose sul cancro della corruzione di cui gli italiani si dicono stanchi, ma di cui sono così intimamente e da lungo tempo impregnati che questa sembra essere diventata il collante che tiene insieme la società - e si vede come i 5 stelle, nati da un sito web, dall’affettazione di parlare «franco», tipica dei costumi digitali contemporanei e da una confusione, non meno caratteristica dei nostri tempi bui, tra la «sincerità» vomitata e l’amaro sforzo richiesto dalla vera ricerca della verità, ne abbiano fatto un cavallo di battaglia. L’autore insiste ancora sul trauma di una globalizzazione a cui ha corrisposto - la storia italiana insegna - una vera emorragia demografica. Mette in relazione - e questo è più discutibile - l’entità dello shock migratorio attuale con quest’altra specificità nazionale, che, come in Germania, ma a differenza della Francia o dell’Inghilterra, è l’assenza di tradizione coloniale (si ricordi la farsa di Mussolini a Tripoli) con ciò che potrebbe implicare la scoperta dell’altro.
Racconta - e qui è di nuovo molto convincente - il trauma rappresentato dall’elezione, in successione, di tre papi non italiani e quindi il tramonto del diritto di primogenitura che la Chiesa cattolica apostolica romana riconosceva di fatto all’Italia. Mette in scena - e questa è un’altra delle parti originali del libro - la fantasia di una «identità» che, in questo paese ontologicamente frammentato, ha ancora meno senso che altrove: che cosa c’è di più identitariamente lontano di un veneziano da un milanese? Di un romano da un napoletano? di un «gattopardo» lampedusiano da un fiorentino figlio di Dante? E poi il risentimento contro la Germania. E poi l’amore-odio per la nazione sorella, la Francia. E poi la burocrazia di Bruxelles, la cui complessità, Molinari lo sa bene, può anche essere, come nell’impero austro-ungarico, una garanzia di civiltà, ma che i congiurati della nuova alleanza rosso-bruna hanno trasformato in un capro espiatorio.
E Putin, infine, che manovra nell’ombra, ancora più formidabile del precedente Kgb, e che è diventato qui, come altrove, l’agente patogeno per eccellenza del cancro populista: non è forse dimostrato che abbia interferito, attraverso i social network, nelle elezioni italiane almeno tanto quanto in quelle degli Stati Uniti? E non ha forse trovato in Matteo Salvini una sorta di simile, un doppio mancato, un fratello fragile e asservito? A volte Maurizio Molinari sembra pensare che questi uomini che regnano oggi sull’Italia e propongono al resto dell’Europa un modo di governare alternativo, siano cavalli di ritorno, zombi, l’ombra dei loro padroni, la loro pallida copia: incapaci della minima elaborazione dottrinale, incompetenti a formulare qualsiasi proposta economica, politica o culturale, rielaborano i loro manuali di prefascismo e sono destinati a rimanere, con ogni probabilità, eterni comprimari.
A volte ricorda che, dalla più esangue e sfibrata debolezza, dalla più grande stanchezza e dalla più struggente angoscia, è successo, nella storia europea di veder nascere disprezzatori, distruttori, nichilisti, intenzionati ad annientarla, ahimè, riuscendoci - e allora non si sente più di escludere che, dal laboratorio italiano, possa uscire un giorno una di quelle terribili sintesi che consideriamo mere speculazioni fino al momento (ma è troppo tardi!) in cui si scopre che seguono le tendenze di un’epoca. La lotta per l’Europa, in Italia come altrove, è iniziata. E’ allarme rosso. È normale. È sempre così, nel teatro dell’umanità. L’essenziale è essere pronti e non avere paura.
Traduzione di Carla Reschia
La Stampa TuttoLibri 10.11.18
Nabokov: “Leggere è uno spreco di tempo
imparate a perdervi in questo magnifico lusso”
di Christian Raimo
Ci sono dei libri la cui recensione dovrebbe essere la copia anastatica del libro stesso, o addirittura la sua versione ampliata e critica, testi la cui intelligenza è tale da indugiarci sopra ogni pagina, rileggere e commuoversi.
Lezioni di letteratura
di Vladimir Nabokov è un lusso che Adelphi concede ai lettori italiani, ripubblicando dopo anni di assenza il volume che aveva edito Garzanti nel 1982; il saggio in originale è del 1980, la traduzione era di Ettore Capriolo, qui – senza molte modifiche – invece è di Franca Pece; onore al merito di entrambi visto che nel libro si discute anche delle traduzioni dei testi classici che vengono commentati.
Lezioni di letteratura raccoglie una parte piccola ma esemplare e magistrale delle lezioni che tenne nelle università di Wellesley e di Cornell negli anni precedenti a quelli in cui diventò uno dei più famosi scrittori al mondo per il successo planetario di Lolita. Sono dedicate a sette opere narrative, sei romanzi e un racconto, Casa desolata, Mansfield Park, Ulisse, Dottor Jeckyll e Mr.Hyde, Madame Bovary, La strada di Swann e La metamorfosi. Ad incipit ed explicit di queste immersioni nei testi ci sono altri tre brevi saggi (un’introduzione di John Updike, un apologo che s’intitola «Buoni lettori e buoni scrittori», una sorta di conclusione «L’arte della letteratura e il senso comune») e un’ultimo brevissimo testo, «Commiato», di una pagina e mezza, che è un saluto al lettore, ma anche una dichiarazione politica di un letterato che schifava qualunque interpretazione sociale o contenutistica della letteratura.
«Ad alcuni di voi potrà sembrare», scrive Nabokov, «che, nella situazione assai irritante del mondo in cui viviamo oggi, studiare la letteratura e, in particolare, studiarne la struttura e lo stile sia uno spreco di energia. […] I romanzi di cui ci siamo imbevuti non vi insegneranno nulla che possiate applicare alle difficoltà̀ della vita; non vi aiuteranno in ufficio, né sul campo di battaglia, né in cucina, né in camera dei bambini. Il sapere di cui ho cercato di farvi partecipi è lusso, puro e semplice. Non vi aiuterà̀ a capire l’economia sociale della Francia, o i segreti del cuore di una donna o di un giovane. Ma, se avrete seguito le mie indicazioni, potrà̀ aiutarvi a provare il senso di appagamento puro e assoluto che dà l’opera d’arte ispirata e ben costruita».
Ci sono infinite cose che si imparano da queste Lezioni di letteratura, ma sicuramente la più importante è il metodo con cui Nabokov lavorava di volta in volta per entrare dentro i mondi di finzione che gli autori avevano costruito. Nelle sue lezioni il piano biografico dell’autore, quello linguistico del testo, sono delle entrate secondarie che ci servono per penetrare quello che è davvero lo scrigno che custodisce il tesoro dei capolavori che affronta: quello della struttura che dà vita al ritmo dell’opera. Ogni scrittore va conosciuto con una lente diversa: Kafka attraverso la scansione spaziale (le mappe delle stanze dove si muove l’insetto Gregor Samsa), Flaubert attraverso la sovrapposizione di strati (i vestiti, anche qui le stanze, le bare...) che nascondono un’essenza che forse si compone solo di maschere, Stevenson attraverso una mappatura insiemistica della psiche che riflette anche la struttura domestica della casa di Jekyll, eccetera.
Fa impressione, per chi non l’ha ancora fatto, leggere queste lezioni per almeno due ragioni. Perché è come scoprire che dietro il capolavoro che abbiamo avuto sempre davanti – i romanzi che affronta sono esplicitamente tra i più letti e conosciuti della storia della letteratura – c’è una tela nascosta che non avevamo riconosciuto solo per la nostra superficialità. E perché abbiamo immaginato che la letteratura avesse sempre a che fare con il tempo di chi l’ha scritta e non con il tempo di chi la legge; il modo in cui Nabokov liquida l’etichetta di realismo e naturalismo per Madame Bovary, quel testo che nelle antologie scolastiche leggiamo ancora come pietra miliare del naturalismo, è inappellabile: «Ma realismo e naturalismo sono concetti relativi: ciò che per una determinata generazione è naturalismo in uno scrittore, a una generazione successiva potrà sembrare sovrabbondanza di particolari incolori, e, a una generazione precedente, scarsità di particolari incolori. Gli ismi scompaiono; l’istico muore; l’arte rimane». Ed è superfluo dire che per queste Lezioni di Nabokov vale la stessa profezia.
Nabokov: “Leggere è uno spreco di tempo
imparate a perdervi in questo magnifico lusso”
di Christian Raimo
Ci sono dei libri la cui recensione dovrebbe essere la copia anastatica del libro stesso, o addirittura la sua versione ampliata e critica, testi la cui intelligenza è tale da indugiarci sopra ogni pagina, rileggere e commuoversi.
Lezioni di letteratura
di Vladimir Nabokov è un lusso che Adelphi concede ai lettori italiani, ripubblicando dopo anni di assenza il volume che aveva edito Garzanti nel 1982; il saggio in originale è del 1980, la traduzione era di Ettore Capriolo, qui – senza molte modifiche – invece è di Franca Pece; onore al merito di entrambi visto che nel libro si discute anche delle traduzioni dei testi classici che vengono commentati.
Lezioni di letteratura raccoglie una parte piccola ma esemplare e magistrale delle lezioni che tenne nelle università di Wellesley e di Cornell negli anni precedenti a quelli in cui diventò uno dei più famosi scrittori al mondo per il successo planetario di Lolita. Sono dedicate a sette opere narrative, sei romanzi e un racconto, Casa desolata, Mansfield Park, Ulisse, Dottor Jeckyll e Mr.Hyde, Madame Bovary, La strada di Swann e La metamorfosi. Ad incipit ed explicit di queste immersioni nei testi ci sono altri tre brevi saggi (un’introduzione di John Updike, un apologo che s’intitola «Buoni lettori e buoni scrittori», una sorta di conclusione «L’arte della letteratura e il senso comune») e un’ultimo brevissimo testo, «Commiato», di una pagina e mezza, che è un saluto al lettore, ma anche una dichiarazione politica di un letterato che schifava qualunque interpretazione sociale o contenutistica della letteratura.
«Ad alcuni di voi potrà sembrare», scrive Nabokov, «che, nella situazione assai irritante del mondo in cui viviamo oggi, studiare la letteratura e, in particolare, studiarne la struttura e lo stile sia uno spreco di energia. […] I romanzi di cui ci siamo imbevuti non vi insegneranno nulla che possiate applicare alle difficoltà̀ della vita; non vi aiuteranno in ufficio, né sul campo di battaglia, né in cucina, né in camera dei bambini. Il sapere di cui ho cercato di farvi partecipi è lusso, puro e semplice. Non vi aiuterà̀ a capire l’economia sociale della Francia, o i segreti del cuore di una donna o di un giovane. Ma, se avrete seguito le mie indicazioni, potrà̀ aiutarvi a provare il senso di appagamento puro e assoluto che dà l’opera d’arte ispirata e ben costruita».
Ci sono infinite cose che si imparano da queste Lezioni di letteratura, ma sicuramente la più importante è il metodo con cui Nabokov lavorava di volta in volta per entrare dentro i mondi di finzione che gli autori avevano costruito. Nelle sue lezioni il piano biografico dell’autore, quello linguistico del testo, sono delle entrate secondarie che ci servono per penetrare quello che è davvero lo scrigno che custodisce il tesoro dei capolavori che affronta: quello della struttura che dà vita al ritmo dell’opera. Ogni scrittore va conosciuto con una lente diversa: Kafka attraverso la scansione spaziale (le mappe delle stanze dove si muove l’insetto Gregor Samsa), Flaubert attraverso la sovrapposizione di strati (i vestiti, anche qui le stanze, le bare...) che nascondono un’essenza che forse si compone solo di maschere, Stevenson attraverso una mappatura insiemistica della psiche che riflette anche la struttura domestica della casa di Jekyll, eccetera.
Fa impressione, per chi non l’ha ancora fatto, leggere queste lezioni per almeno due ragioni. Perché è come scoprire che dietro il capolavoro che abbiamo avuto sempre davanti – i romanzi che affronta sono esplicitamente tra i più letti e conosciuti della storia della letteratura – c’è una tela nascosta che non avevamo riconosciuto solo per la nostra superficialità. E perché abbiamo immaginato che la letteratura avesse sempre a che fare con il tempo di chi l’ha scritta e non con il tempo di chi la legge; il modo in cui Nabokov liquida l’etichetta di realismo e naturalismo per Madame Bovary, quel testo che nelle antologie scolastiche leggiamo ancora come pietra miliare del naturalismo, è inappellabile: «Ma realismo e naturalismo sono concetti relativi: ciò che per una determinata generazione è naturalismo in uno scrittore, a una generazione successiva potrà sembrare sovrabbondanza di particolari incolori, e, a una generazione precedente, scarsità di particolari incolori. Gli ismi scompaiono; l’istico muore; l’arte rimane». Ed è superfluo dire che per queste Lezioni di Nabokov vale la stessa profezia.
Repubblica 10.11.18
Prospettive
Progetti di pace in un mondo senza uguaglianza
di Laura Montanari
Alla decima conferenza di Fondazione Umberto Veronesi, a Milano il 15 e il 16 novembre, si discute delle disparità che nelle diverse aree del Pianeta sono alla base della povertà e dell’ingiustizia. E che minacciano la democrazia
Non hanno accesso alle stesse risorse e quindi nemmeno alle stesse fortune, sembrano venire da mondi distanti anche se magari vivono nelle medesime città o Paesi, o continenti. Certo la crisi economica ha inflazionato le disuguaglianze, le ha sparse nelle aree geografiche, le ha alimentate in diversi strati della società. Ma le differenze hanno radici anche meno recenti e più profonde: pescano dalla storia e non soltanto da quella economica. Scriveva Zygmunt Bauman che nel pianeta delle disuguaglianze è l’ingiustizia che uccide la democrazia. Siamo sicuramente davanti a un problema complesso e le letture sul come siamo arrivati qui sono molteplici: per questo il tema delle "disuguaglianze globali" è stato scelto da Fondazione Umberto Veronesi per la decima edizione di Science for Peace, il progetto nato nel 2008 da un’idea di Umberto Veronesi, per la due giorni che si terrà il 15 e 16 novembre all’Università Bocconi di Milano. Ogni anno si svolge questa "chiamata" che seleziona su scala internazionale ricercatori ed esperti. «Le Nazioni Unite hanno inserito la lotta alle disuguaglianze come uno dei diciassette obiettivi fondamentali nel quindicennio 2015-2030», spiega Alberto Martinelli, vicepresidente di Science for Peace e professore emerito di Scienza Politica e Sociologia dell’Università degli Studi di Milano. «Noi abbiamo voluto affrontare questo tema perché è sempre più rilevante, la percezione delle disuguaglianze accresce il rancore sociale e questo influenza la politica», prosegue Martinelli. Naturalmente è la politica che si deve far carico di trovare le chiavi per tagliare le distanze: come? «Una delle caratteristiche di Science for Peace», aggiunge Martinelli, «è di non fermarsi all’analisi dei fenomeni ma di individuare soluzioni. In questo caso welfare, investimenti su istruzione e salute, lotta all’evasione fiscale e altre strade che ci verranno suggerite nel corso dei lavori». Disparità di reddito, ma anche di genere. «Le disuguaglianze economiche tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo si sono ridotte, anche se i poli restano molto distanti, mentre sono cresciute quelle interne ai singoli Paesi», osserva ancora Martinelli.
L’Italia ne è un esempio. Il divario tra Nord e Sud è evidente. E di questo parlerà Federico Toth, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna, focalizzando il suo intervento sulla salute: «Nascere in Trentino piuttosto che in Campania regala oggi un’aspettativa di vita media di tre anni in più. Perché? Non c’è una sola risposta, ma un orizzonte ampio da indagare che spazia dalla politica sanitaria all’organizzazione dei servizi, alla qualità dell’ambiente, all’alimentazione, agli stili di vita. Il gap è aumentato negli ultimi anni e questo è, a mio avviso, il principale problema della sanità italiana». Per fare un esempio, nel Sud c’è un maggior tasso di obesità. I dati 2017 parlano del 14 percento per il Molise, oltre il 12 per Abruzzo e Puglia, contro il 7,8 di Bolzano e l’8,7 della Lombardia. Ma questo è soltanto uno dei tanti indicatori possibili che mostrano il divario tra le due aree del Paese. Cosa è stato fatto per colmare il gap? «Molto poco», risponde Toth. «Negli ultimi due decenni il governo si è preoccupato più che altro dell’aspetto finanziario, il principale strumento messo in campo sono stati i piani di rientro per le regioni indisciplinate nei conti e nelle spese. Va detto che non sono stati attuati ovunque: infatti alcune regioni sono state commissariate. I piani di rientro sono stati sostanzialmente delle cure dimagranti che hanno avuto l’effetto di risanare in parte i bilanci, ma allo stesso tempo hanno impoverito la qualità dei servizi». Dunque cosa fare? «Esistono sul territorio situazioni che funzionano. Penso per esempio alle case della salute in Emilia Romagna e in Toscana, poliambulatori che si rivolgono ai malati cronici e altri pazienti. Penso anche che potremmo pensare a forme di gemellaggio fra regioni del Nord e del Sud con uno scambio tra modelli e competenze».
Chiara Saraceno interverrà a Science for Peace per parlare delle differenze di genere, che negli ultimi 50 anni hanno registrato dei miglioramenti importanti, ma con un andamento disuguale e discontinuo: «A fronte di una uguaglianza nei livelli di istruzione, non corrisponde una uguaglianza nei percorsi di studio», spiega la sociologa dell’Università di Torino. «E la differenza è ancora più manifesta nel mondo del lavoro, nelle carriere e nella remunerazione». L’ultimo dato Istat sul tasso di occupazione femminile segna per l’Italia un valore vicino al 50 per cento contro il 65 della media Europea e questo è un dato su cui riflettere: non avere un lavoro significa spesso non avere un’indipendenza e quindi, per esempio, «uscire con difficoltà da un matrimonio che non funziona. Allo stesso tempo», prosegue Chiara Saraceno, «l’uguaglianza è lontana nella partecipazione al lavoro familiare: le coppie italiane sono le più asimmetriche nei Paesi sviluppati anche quando la donna è occupata. Per lei i carichi domestici diventano una specie di secondo lavoro. Anche i modelli culturali sono ambivalenti, si aderisce in via di principio a un’idea di uguaglianza, ma quando si scende nei dettagli emerge una visione tradizionale della divisione delle responsabilità e delle capacità tra uomini e donne».
Prospettive
Progetti di pace in un mondo senza uguaglianza
di Laura Montanari
Alla decima conferenza di Fondazione Umberto Veronesi, a Milano il 15 e il 16 novembre, si discute delle disparità che nelle diverse aree del Pianeta sono alla base della povertà e dell’ingiustizia. E che minacciano la democrazia
Non hanno accesso alle stesse risorse e quindi nemmeno alle stesse fortune, sembrano venire da mondi distanti anche se magari vivono nelle medesime città o Paesi, o continenti. Certo la crisi economica ha inflazionato le disuguaglianze, le ha sparse nelle aree geografiche, le ha alimentate in diversi strati della società. Ma le differenze hanno radici anche meno recenti e più profonde: pescano dalla storia e non soltanto da quella economica. Scriveva Zygmunt Bauman che nel pianeta delle disuguaglianze è l’ingiustizia che uccide la democrazia. Siamo sicuramente davanti a un problema complesso e le letture sul come siamo arrivati qui sono molteplici: per questo il tema delle "disuguaglianze globali" è stato scelto da Fondazione Umberto Veronesi per la decima edizione di Science for Peace, il progetto nato nel 2008 da un’idea di Umberto Veronesi, per la due giorni che si terrà il 15 e 16 novembre all’Università Bocconi di Milano. Ogni anno si svolge questa "chiamata" che seleziona su scala internazionale ricercatori ed esperti. «Le Nazioni Unite hanno inserito la lotta alle disuguaglianze come uno dei diciassette obiettivi fondamentali nel quindicennio 2015-2030», spiega Alberto Martinelli, vicepresidente di Science for Peace e professore emerito di Scienza Politica e Sociologia dell’Università degli Studi di Milano. «Noi abbiamo voluto affrontare questo tema perché è sempre più rilevante, la percezione delle disuguaglianze accresce il rancore sociale e questo influenza la politica», prosegue Martinelli. Naturalmente è la politica che si deve far carico di trovare le chiavi per tagliare le distanze: come? «Una delle caratteristiche di Science for Peace», aggiunge Martinelli, «è di non fermarsi all’analisi dei fenomeni ma di individuare soluzioni. In questo caso welfare, investimenti su istruzione e salute, lotta all’evasione fiscale e altre strade che ci verranno suggerite nel corso dei lavori». Disparità di reddito, ma anche di genere. «Le disuguaglianze economiche tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo si sono ridotte, anche se i poli restano molto distanti, mentre sono cresciute quelle interne ai singoli Paesi», osserva ancora Martinelli.
L’Italia ne è un esempio. Il divario tra Nord e Sud è evidente. E di questo parlerà Federico Toth, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna, focalizzando il suo intervento sulla salute: «Nascere in Trentino piuttosto che in Campania regala oggi un’aspettativa di vita media di tre anni in più. Perché? Non c’è una sola risposta, ma un orizzonte ampio da indagare che spazia dalla politica sanitaria all’organizzazione dei servizi, alla qualità dell’ambiente, all’alimentazione, agli stili di vita. Il gap è aumentato negli ultimi anni e questo è, a mio avviso, il principale problema della sanità italiana». Per fare un esempio, nel Sud c’è un maggior tasso di obesità. I dati 2017 parlano del 14 percento per il Molise, oltre il 12 per Abruzzo e Puglia, contro il 7,8 di Bolzano e l’8,7 della Lombardia. Ma questo è soltanto uno dei tanti indicatori possibili che mostrano il divario tra le due aree del Paese. Cosa è stato fatto per colmare il gap? «Molto poco», risponde Toth. «Negli ultimi due decenni il governo si è preoccupato più che altro dell’aspetto finanziario, il principale strumento messo in campo sono stati i piani di rientro per le regioni indisciplinate nei conti e nelle spese. Va detto che non sono stati attuati ovunque: infatti alcune regioni sono state commissariate. I piani di rientro sono stati sostanzialmente delle cure dimagranti che hanno avuto l’effetto di risanare in parte i bilanci, ma allo stesso tempo hanno impoverito la qualità dei servizi». Dunque cosa fare? «Esistono sul territorio situazioni che funzionano. Penso per esempio alle case della salute in Emilia Romagna e in Toscana, poliambulatori che si rivolgono ai malati cronici e altri pazienti. Penso anche che potremmo pensare a forme di gemellaggio fra regioni del Nord e del Sud con uno scambio tra modelli e competenze».
Chiara Saraceno interverrà a Science for Peace per parlare delle differenze di genere, che negli ultimi 50 anni hanno registrato dei miglioramenti importanti, ma con un andamento disuguale e discontinuo: «A fronte di una uguaglianza nei livelli di istruzione, non corrisponde una uguaglianza nei percorsi di studio», spiega la sociologa dell’Università di Torino. «E la differenza è ancora più manifesta nel mondo del lavoro, nelle carriere e nella remunerazione». L’ultimo dato Istat sul tasso di occupazione femminile segna per l’Italia un valore vicino al 50 per cento contro il 65 della media Europea e questo è un dato su cui riflettere: non avere un lavoro significa spesso non avere un’indipendenza e quindi, per esempio, «uscire con difficoltà da un matrimonio che non funziona. Allo stesso tempo», prosegue Chiara Saraceno, «l’uguaglianza è lontana nella partecipazione al lavoro familiare: le coppie italiane sono le più asimmetriche nei Paesi sviluppati anche quando la donna è occupata. Per lei i carichi domestici diventano una specie di secondo lavoro. Anche i modelli culturali sono ambivalenti, si aderisce in via di principio a un’idea di uguaglianza, ma quando si scende nei dettagli emerge una visione tradizionale della divisione delle responsabilità e delle capacità tra uomini e donne».
La Stampa TuttoLibri 10.11.18
Predrag Finc
Il filosofo bosniaco è rinato a Oxford ma rivuole il freddo dei suoi monti
di Andrea Marcolongo
Ma toccherà proprio a ogni generazione? Davvero il destino di tutti è una chiave attorno al collo?». Sigarette si accendono e si spengono nella notte su un autobus in fuga dalla disperazione e in viaggio verso la speranza. Qualcuno saluta agitando le mani, forse le stesse che sparano. Una donna singhiozza: «la mia Sarajevo». Un uomo con un parrucchino sussurra: siamo «il popolo del diluvio».
Questa frase diventa, come un gemito, il titolo del saggio di Predrag Finci, professore di filosofia all’Università dell’allora jugoslava Sarajevo: nel 1992 l’assedio è appena cominciato, ma lo studioso sa che in guerra le premonizioni più nere possono essere superate da un’esperienza ancora più nera.
«Se rimango – mi dicevo – mi aspettano sciagure, se me ne vado mi attendono sofferenze.» Finci all’epoca ha quarantasei anni, arriva a Londra come profugo insieme a mille altri esiliati che festeggiano la salvezza e insieme la perdita irreparabile della loro terra. Presto il filosofo si ritrova in un nuovo Paese a parlare una nuova lingua e con il ruolo di visiting professor dell’università di Oxford. Che cosa potrebbe desiderare di meglio di una delle migliori cattedre al mondo? Finci vorrebbe, come tutti, essere a casa. Tra gli amici, tra le sue montagne di Bosnia, mangiare le solite cose, čevapi, pasticcio di verdure, bere birra e rakjia. Vorrebbe sentire il solito freddo.
Il Popolo del Diluvio, articolato in tre sezioni e accompagnato dalle preziose prefazione di Maria Bettetini e postfazione di Božidar Stanišić, è il tentativo meta-letterario di raccontare un viaggio di andata e di ritorno dall’inferno della guerra di Bosnia Erzegovina.
«Vorrei scrivere il libro di un altro, di qualcuno che mi appartiene ma è affrancato dalla mia parzialità, dalla mia soggettività, da me stesso», dichiara Finci: della guerra di Sarajevo vuole farsi testimone e mai giudice.
Da subito rifiuta il cliché della «narrazione del profugo», in cui si «paga soltanto un tributo alla sofferenza con la parola»: non può e non vuole raccontare i tragici avvenimenti in patria, il convulso periodo dell’esilio, le varie peripezie intorno allo status di rifugiato e infine l’inserimento nella nuova casa e nella nuova vita.
Dopo un inizio in cui vediamo il professore in qualità di viaggiatore con un sogno ricorrente -quello di svegliarsi e non vedere più la follia e l’orrore che scorrono lungo la Miljacka- arriva la parte più travagliata e tormentata di questo straordinario saggio: il racconto di ciò che è stato perché «la mia vita di un tempo mi ha abbandonato, ma il mio passato è rimasto con me.»
Finci (che fino al 2002, anno del suo ritorno a Sarajevo, non ha mai più scritto), in filosofico conflitto tra realtà e memoria, «poiché ci sono troppi racconti in un racconto per diventare un solo racconto» ne scrive ben undici.
A poco a poco, lo scrittore abbandona il suo ruolo per rifugiarsi nella fenomenologia della letteratura e lascia che siano gli autori che ama a parlare al suo posto, liberandolo dal limite di doversi rappresentare e imponendogli però i limiti della scrittura altrui.
Il lettore troverà dunque un esilio raccontato attraverso Joyce, l’oscurità bellica narrata da Conrad e Huxley; i libri perduti saranno la biblioteca di Borges e i sogni quelli di Calderón de la Barca; Kafka muterà il suo protagonista non in uno scarafaggio, ma in un enorme straniero e il punto più basso del dolore è affidato allo scrivano B. di Melville - anche se è alla vita che Finci vorrebbe dire preferirei di no.
Infine, il ritorno è sempre un evento duplice: tutto è cambiato rispetto al ricordo consolidato del passato eppure conserviamo il desiderio di ritrovare identico ciò che si è perso.
Ma «nello stesso fiume non è possibile discendere due volte», diceva Eraclito, e Finci lo sa bene: atterrato all’aeroporto, viene mandato all’ufficio stranieri perché la Jugoslavia di Tito non esiste più e ormai è cittadino inglese nonostante sul passaporto ci sia scritto nato a Sarajevo. All’Università nessuno si ricorda di lui e, quando incontra per caso un conoscente, quasi si scusa per essere ancora vivo.
«Ogni vita si estende tra i ricordi di Atlantide e l’Utopia. Anche la mia è così», dichiara Finci nell’ultima parte del libro, che reca il titolo struggente di In luogo di un epilogo, la felicità.
Sì, a Sarajevo tutto è diverso, ma anziché una fine il filosofo trova inaspettatamente la gioia maturata nel dolore, la «felicità raggiunta» della poesia omonima di Montale.
Il lusso di non aver più niente da perdere ma tutto da vivere, nessun palloncino attaccato a nessun filo, la capacità di godere di ciò che si è.
Sarajevo dove, dinanzi a qualunque problema, ogni cittadino oggi risponde con un disarmante bit će dobro, «andrà tutto bene». La città dove vivo, dove amo e dove, come Predrag Finci, ho imparato ad essere felice anch’io.
Predrag Finc
Il filosofo bosniaco è rinato a Oxford ma rivuole il freddo dei suoi monti
di Andrea Marcolongo
Ma toccherà proprio a ogni generazione? Davvero il destino di tutti è una chiave attorno al collo?». Sigarette si accendono e si spengono nella notte su un autobus in fuga dalla disperazione e in viaggio verso la speranza. Qualcuno saluta agitando le mani, forse le stesse che sparano. Una donna singhiozza: «la mia Sarajevo». Un uomo con un parrucchino sussurra: siamo «il popolo del diluvio».
Questa frase diventa, come un gemito, il titolo del saggio di Predrag Finci, professore di filosofia all’Università dell’allora jugoslava Sarajevo: nel 1992 l’assedio è appena cominciato, ma lo studioso sa che in guerra le premonizioni più nere possono essere superate da un’esperienza ancora più nera.
«Se rimango – mi dicevo – mi aspettano sciagure, se me ne vado mi attendono sofferenze.» Finci all’epoca ha quarantasei anni, arriva a Londra come profugo insieme a mille altri esiliati che festeggiano la salvezza e insieme la perdita irreparabile della loro terra. Presto il filosofo si ritrova in un nuovo Paese a parlare una nuova lingua e con il ruolo di visiting professor dell’università di Oxford. Che cosa potrebbe desiderare di meglio di una delle migliori cattedre al mondo? Finci vorrebbe, come tutti, essere a casa. Tra gli amici, tra le sue montagne di Bosnia, mangiare le solite cose, čevapi, pasticcio di verdure, bere birra e rakjia. Vorrebbe sentire il solito freddo.
Il Popolo del Diluvio, articolato in tre sezioni e accompagnato dalle preziose prefazione di Maria Bettetini e postfazione di Božidar Stanišić, è il tentativo meta-letterario di raccontare un viaggio di andata e di ritorno dall’inferno della guerra di Bosnia Erzegovina.
«Vorrei scrivere il libro di un altro, di qualcuno che mi appartiene ma è affrancato dalla mia parzialità, dalla mia soggettività, da me stesso», dichiara Finci: della guerra di Sarajevo vuole farsi testimone e mai giudice.
Da subito rifiuta il cliché della «narrazione del profugo», in cui si «paga soltanto un tributo alla sofferenza con la parola»: non può e non vuole raccontare i tragici avvenimenti in patria, il convulso periodo dell’esilio, le varie peripezie intorno allo status di rifugiato e infine l’inserimento nella nuova casa e nella nuova vita.
Dopo un inizio in cui vediamo il professore in qualità di viaggiatore con un sogno ricorrente -quello di svegliarsi e non vedere più la follia e l’orrore che scorrono lungo la Miljacka- arriva la parte più travagliata e tormentata di questo straordinario saggio: il racconto di ciò che è stato perché «la mia vita di un tempo mi ha abbandonato, ma il mio passato è rimasto con me.»
Finci (che fino al 2002, anno del suo ritorno a Sarajevo, non ha mai più scritto), in filosofico conflitto tra realtà e memoria, «poiché ci sono troppi racconti in un racconto per diventare un solo racconto» ne scrive ben undici.
A poco a poco, lo scrittore abbandona il suo ruolo per rifugiarsi nella fenomenologia della letteratura e lascia che siano gli autori che ama a parlare al suo posto, liberandolo dal limite di doversi rappresentare e imponendogli però i limiti della scrittura altrui.
Il lettore troverà dunque un esilio raccontato attraverso Joyce, l’oscurità bellica narrata da Conrad e Huxley; i libri perduti saranno la biblioteca di Borges e i sogni quelli di Calderón de la Barca; Kafka muterà il suo protagonista non in uno scarafaggio, ma in un enorme straniero e il punto più basso del dolore è affidato allo scrivano B. di Melville - anche se è alla vita che Finci vorrebbe dire preferirei di no.
Infine, il ritorno è sempre un evento duplice: tutto è cambiato rispetto al ricordo consolidato del passato eppure conserviamo il desiderio di ritrovare identico ciò che si è perso.
Ma «nello stesso fiume non è possibile discendere due volte», diceva Eraclito, e Finci lo sa bene: atterrato all’aeroporto, viene mandato all’ufficio stranieri perché la Jugoslavia di Tito non esiste più e ormai è cittadino inglese nonostante sul passaporto ci sia scritto nato a Sarajevo. All’Università nessuno si ricorda di lui e, quando incontra per caso un conoscente, quasi si scusa per essere ancora vivo.
«Ogni vita si estende tra i ricordi di Atlantide e l’Utopia. Anche la mia è così», dichiara Finci nell’ultima parte del libro, che reca il titolo struggente di In luogo di un epilogo, la felicità.
Sì, a Sarajevo tutto è diverso, ma anziché una fine il filosofo trova inaspettatamente la gioia maturata nel dolore, la «felicità raggiunta» della poesia omonima di Montale.
Il lusso di non aver più niente da perdere ma tutto da vivere, nessun palloncino attaccato a nessun filo, la capacità di godere di ciò che si è.
Sarajevo dove, dinanzi a qualunque problema, ogni cittadino oggi risponde con un disarmante bit će dobro, «andrà tutto bene». La città dove vivo, dove amo e dove, come Predrag Finci, ho imparato ad essere felice anch’io.
Il Fatto 10.11.18
Hamas, i giorni della rabbia valgono 15 milioni di dollari
Confine turbolento - Il Qatar manda i soldi, l’organizzazione si impegna a tenere bassa la protesta, Fatah attacca: “Ha sfruttato la sofferenza”
di Fabio Scuto
È stato un venerdì diverso nella Striscia di Gaza. Animazione per le strade, lungo la lingua d’asfalto sulla costa che arriva fino a sud, fino a Rafah, la città tagliata in due dal confine con l’Egitto. La notizia ha percorso la Striscia come un fulmine. I frutti dell’accordo raggiunto al Cairo – fra Hamas e le altre fazioni palestinesi di Gaza, e Israele con l’Anp di Abu Mazen a fare da spettatore – grazie alla mediazione dell’Egitto e alla “generosità” dell’emirato del Qatar sono arrivati. Stipati in quattro valigie di quart’ordine, 15 milioni di dollari in contanti pagheranno gli stipendi ai dipendenti pubblici da mesi senza salario, una prima boccata d’ossigeno per un territorio devastato dalle guerre e dalla miseria nera. Mohammed Al Amadi, “l’ambasciatore” del Qatar a Gaza, è tornato l’altra notte nella Striscia con in tasca gli esiti della lunga trattativa, Israele acconsente al pagamento dei dipendenti pubblici, all’acquisto di gasolio per far funzionare la centrale elettrica, in cambio Hamas e le fazioni si impegnano a mantenere basso il tasso di violenza lungo i 37 km di frontiera con lo Stato ebraico e a ridurre il numero di aquiloni incendiari che hanno devastato le coltivazioni nel sud del Paese.
Uno dei portavoce di Fatah, Osama Qawasmi – citato dall’agenzia Wafa – ha detto che “Hamas ha sfruttato i bambini e le donne di Gaza e approfittato della sofferenza del popolo palestinese accettando senza il minimo dubbio”, le richieste americane e sioniste, approvando “il principio di ‘sangue per denaro’”.
Dopo sei mesi di manifestazioni, costati 200 vite e 16.000 feriti, è iniziata una hudna, tregua di 6 mesi – al ritmo di 15 milioni di dollari al mese – da perfezionare con l’allentamento dell’embargo israeliano e l’ingresso nella Striscia di altri genere di prima necessità. Una delegazione egiziana era ben visibile ieri nella zona di Khan Younis per osservare Hamas fare la sua magia sui manifestanti. C’erano meno manifestanti, mantenevano una distanza maggiore dal Muro. La conclusione, sia egiziana che israeliana, è che Hamas non solo è in grado di innescare lo scontro ma può anche regolarne l’intensità. Se vuole, in migliaia torneranno a confrontarsi come nei mesi scorsi con l’Idf lungo la frontiera, se invece lo ritiene, può fermare gli attacchi alla barriera.
Nei giorni scorsi già si percepiva un’atmosfera di cambiamento, soprattutto nella vita quotidiana, causato da un aumento della fornitura di energia elettrica fino a 12-16 ore al giorno. È la fornitura giornaliera più lunga per gli abitanti di Gaza dalla guerra del 2014, più del doppio della media giornaliera dello scorso anno, da quando l’Anp di Abu Mazen impose sanzioni contro Hamas dopo il fallimento della “riconciliazione”. La luce è arrivata grazie a una fornitura di carburante pagata sempre dal Qatar. La relativa calma lungo il confine nella scorsa settimana ha consentito ai camion di carburante di entrare nella Striscia attraverso il valico israeliano di Kerem Shalom.
È arrivata l’elettricità, sono arrivati i primi (pochi) soldi per gli stipendi. I gazawi tornano a sperare che il peggio sia alle spalle. Nessuno dei boss di Hamas si è visto in giro negli ultimi giorni, ma i loro “uomini di fiducia” hanno fatto circolare progetti che prevedono la creazione di 10.000 nuovi posti di lavoro per laureati (il 56% è disoccupato). Con i soldi arrivati dal Qatar verranno pagati il 60% dei salari ai dipendenti pubblici (350 euro) e verrà data una sovvenzione della metà a 5.000 famiglie i cui componenti sono rimasti feriti durante le proteste iniziate a marzo. Mai s’erano visti per le strade di Gaza tanti mendicanti all’angolo di ogni strada, alle uscite delle scuole, agli angoli dei mercati. L’economia di Gaza è in ginocchio, i settori trainanti – pesca, economia e edilizia, sono bloccati, l’Unrwa – l’agenzia Onu che assiste un milione su due di abitanti ha iniziato a ridurre il personale locale e da quattro mesi Hamas non paga gli stipendi. Economia ferma e disoccupazione alle stelle, una miscela che come una bomba poteva esplodere in faccia a Hamas. Se lo aspettavano per motivi diversi anche Israele e l’Anp di Abu Mazen. Non è successo.
Il presidente egiziano al Sisi ha dovuto faticare molto per far “ingoiare” al presidente palestinese i termini dell’accordo, che di fatto riconoscono in Hamas l’interlocutore per Gaza – anche per Israele – mandando in soffitta i sogni della riconciliazione palestinese.
Sarebbe facile farsi contagiare dall’euforia che si avverte a Gaza City sulla Omar Mukhtar, nei giardini davanti all’università, nelle conversazioni che si colgono per la strada, ma la speranza anche a Gaza non costa niente.
Hamas, i giorni della rabbia valgono 15 milioni di dollari
Confine turbolento - Il Qatar manda i soldi, l’organizzazione si impegna a tenere bassa la protesta, Fatah attacca: “Ha sfruttato la sofferenza”
di Fabio Scuto
È stato un venerdì diverso nella Striscia di Gaza. Animazione per le strade, lungo la lingua d’asfalto sulla costa che arriva fino a sud, fino a Rafah, la città tagliata in due dal confine con l’Egitto. La notizia ha percorso la Striscia come un fulmine. I frutti dell’accordo raggiunto al Cairo – fra Hamas e le altre fazioni palestinesi di Gaza, e Israele con l’Anp di Abu Mazen a fare da spettatore – grazie alla mediazione dell’Egitto e alla “generosità” dell’emirato del Qatar sono arrivati. Stipati in quattro valigie di quart’ordine, 15 milioni di dollari in contanti pagheranno gli stipendi ai dipendenti pubblici da mesi senza salario, una prima boccata d’ossigeno per un territorio devastato dalle guerre e dalla miseria nera. Mohammed Al Amadi, “l’ambasciatore” del Qatar a Gaza, è tornato l’altra notte nella Striscia con in tasca gli esiti della lunga trattativa, Israele acconsente al pagamento dei dipendenti pubblici, all’acquisto di gasolio per far funzionare la centrale elettrica, in cambio Hamas e le fazioni si impegnano a mantenere basso il tasso di violenza lungo i 37 km di frontiera con lo Stato ebraico e a ridurre il numero di aquiloni incendiari che hanno devastato le coltivazioni nel sud del Paese.
Uno dei portavoce di Fatah, Osama Qawasmi – citato dall’agenzia Wafa – ha detto che “Hamas ha sfruttato i bambini e le donne di Gaza e approfittato della sofferenza del popolo palestinese accettando senza il minimo dubbio”, le richieste americane e sioniste, approvando “il principio di ‘sangue per denaro’”.
Dopo sei mesi di manifestazioni, costati 200 vite e 16.000 feriti, è iniziata una hudna, tregua di 6 mesi – al ritmo di 15 milioni di dollari al mese – da perfezionare con l’allentamento dell’embargo israeliano e l’ingresso nella Striscia di altri genere di prima necessità. Una delegazione egiziana era ben visibile ieri nella zona di Khan Younis per osservare Hamas fare la sua magia sui manifestanti. C’erano meno manifestanti, mantenevano una distanza maggiore dal Muro. La conclusione, sia egiziana che israeliana, è che Hamas non solo è in grado di innescare lo scontro ma può anche regolarne l’intensità. Se vuole, in migliaia torneranno a confrontarsi come nei mesi scorsi con l’Idf lungo la frontiera, se invece lo ritiene, può fermare gli attacchi alla barriera.
Nei giorni scorsi già si percepiva un’atmosfera di cambiamento, soprattutto nella vita quotidiana, causato da un aumento della fornitura di energia elettrica fino a 12-16 ore al giorno. È la fornitura giornaliera più lunga per gli abitanti di Gaza dalla guerra del 2014, più del doppio della media giornaliera dello scorso anno, da quando l’Anp di Abu Mazen impose sanzioni contro Hamas dopo il fallimento della “riconciliazione”. La luce è arrivata grazie a una fornitura di carburante pagata sempre dal Qatar. La relativa calma lungo il confine nella scorsa settimana ha consentito ai camion di carburante di entrare nella Striscia attraverso il valico israeliano di Kerem Shalom.
È arrivata l’elettricità, sono arrivati i primi (pochi) soldi per gli stipendi. I gazawi tornano a sperare che il peggio sia alle spalle. Nessuno dei boss di Hamas si è visto in giro negli ultimi giorni, ma i loro “uomini di fiducia” hanno fatto circolare progetti che prevedono la creazione di 10.000 nuovi posti di lavoro per laureati (il 56% è disoccupato). Con i soldi arrivati dal Qatar verranno pagati il 60% dei salari ai dipendenti pubblici (350 euro) e verrà data una sovvenzione della metà a 5.000 famiglie i cui componenti sono rimasti feriti durante le proteste iniziate a marzo. Mai s’erano visti per le strade di Gaza tanti mendicanti all’angolo di ogni strada, alle uscite delle scuole, agli angoli dei mercati. L’economia di Gaza è in ginocchio, i settori trainanti – pesca, economia e edilizia, sono bloccati, l’Unrwa – l’agenzia Onu che assiste un milione su due di abitanti ha iniziato a ridurre il personale locale e da quattro mesi Hamas non paga gli stipendi. Economia ferma e disoccupazione alle stelle, una miscela che come una bomba poteva esplodere in faccia a Hamas. Se lo aspettavano per motivi diversi anche Israele e l’Anp di Abu Mazen. Non è successo.
Il presidente egiziano al Sisi ha dovuto faticare molto per far “ingoiare” al presidente palestinese i termini dell’accordo, che di fatto riconoscono in Hamas l’interlocutore per Gaza – anche per Israele – mandando in soffitta i sogni della riconciliazione palestinese.
Sarebbe facile farsi contagiare dall’euforia che si avverte a Gaza City sulla Omar Mukhtar, nei giardini davanti all’università, nelle conversazioni che si colgono per la strada, ma la speranza anche a Gaza non costa niente.
Repubblica 10.11.18
Chiara Tonelli sulle disuguaglianze in campo sanitario
Ridurre le spese per la ricerca è il primo peccato
di Valentina Della Seta
La ricerca è fondamentale, ma il problema è anche politico, economico e sociale. Le disuguaglianze in campo sanitario continuano a uccidere: «Nei Paesi in via di sviluppo un milione e mezzo di bambini muoiono ogni anno perché non sono vaccinati per le malattie di base», spiega Chiara Tonelli, professore di Genetica all’Università degli Studi di Milano e presidente del Comitato Scientifico di Fondazione Umberto Veronesi, che presenta la decima conferenza mondiale Science for Peace.
«Ci sono persone che ancora oggi non hanno accesso a un programma di vaccinazione.
Soprattutto in Africa, dove è difficile raggiungere certi villaggi e ci sono tantissimi morti sotto i cinque anni».
Sono dati spaventosi che, visti da qui, ci riportano indietro di almeno cento anni. Ai racconti dei nonni, che in molti casi avevano perso fratellini o sorelline per malattie che oggi, grazie alla disponibilità di vaccini e antibiotici, non dovrebbero preoccupare più di tanto. Se non fosse per le persone che le disuguaglianze se le vogliono creare: «Nei Paesi occidentali abbiamo un tasso crescente di non accesso ai vaccini perché c’è chi pensa che non siano necessari, o crede addirittura che possano recare danno alla salute. È un problema serio. Come tutti sanno abbiamo anche in Italia dei casi recenti di bambini morti per morbillo. C’è da riflettere anche sul fatto che a essere colpiti sono i piccoli che partono svantaggiati, da uno stato di disuguaglianza, perché per problemi di salute non possono vaccinarsi e hanno un sistema immunitario fragile. A renderli uguali dovrebbe pensarci la comunità, gli altri bambini che vaccinandosi tutti ostacolerebbero il diffondersi dei virus». Il problema dei vaccini, che in Italia ha occupato la maggior parte dei discorsi sulla salute di questi ultimi anni, fa capire come i fattori culturali abbiano una grande importanza in campo medico: «Proprio per questo per la prima volta a Science for Peace trattiamo un argomento a tutto tondo», afferma Tonelli. «La scienza produce risultati, ma poi devono esserci le condizioni per applicarli». Una di queste condizioni è la diffusione della cultura della prevenzione: «Una merendina costa molto meno di un chilo di frutta», spiega la genetista. «Per le famiglie più povere la crisi economica favorisce un’alimentazione sbilanciata, e questo aumenta il rischio di sviluppare malattie croniche. Durante la conferenza vedremo come alcune fasce della popolazione italiana stiano abbandonando la dieta mediterranea per un’alimentazione ricca di grassi e carboidrati». L’altro tema centrale sarà la medicina di genere: «La maggior parte delle cure e dei protocolli in passato sono stati testati sugli uomini. Ma le donne, oggi lo sappiamo, rispondono in maniera diversa alle cure», dice Tonelli. Alla fine della conferenza, Fondazione Umberto Veronesi presenterà un appello per risvegliare la società sulle conseguenze delle disuguaglianze nella ricerca: «La riduzione delle spese per la ricerca rappresenta il primo peccato di disuguaglianza», dice il documento. «Esso si traduce, da un lato, in disuguaglianze in termini di opportunità di lavoro per chi fa ricerca, dall’altro, in disuguaglianze in termini di fruizione dei risultati della ricerca da parte dei normali cittadini. Ciò peggiora la qualità della vita di tutti, cittadini e ricercatori».
Chiara Tonelli sulle disuguaglianze in campo sanitario
Ridurre le spese per la ricerca è il primo peccato
di Valentina Della Seta
La ricerca è fondamentale, ma il problema è anche politico, economico e sociale. Le disuguaglianze in campo sanitario continuano a uccidere: «Nei Paesi in via di sviluppo un milione e mezzo di bambini muoiono ogni anno perché non sono vaccinati per le malattie di base», spiega Chiara Tonelli, professore di Genetica all’Università degli Studi di Milano e presidente del Comitato Scientifico di Fondazione Umberto Veronesi, che presenta la decima conferenza mondiale Science for Peace.
«Ci sono persone che ancora oggi non hanno accesso a un programma di vaccinazione.
Soprattutto in Africa, dove è difficile raggiungere certi villaggi e ci sono tantissimi morti sotto i cinque anni».
Sono dati spaventosi che, visti da qui, ci riportano indietro di almeno cento anni. Ai racconti dei nonni, che in molti casi avevano perso fratellini o sorelline per malattie che oggi, grazie alla disponibilità di vaccini e antibiotici, non dovrebbero preoccupare più di tanto. Se non fosse per le persone che le disuguaglianze se le vogliono creare: «Nei Paesi occidentali abbiamo un tasso crescente di non accesso ai vaccini perché c’è chi pensa che non siano necessari, o crede addirittura che possano recare danno alla salute. È un problema serio. Come tutti sanno abbiamo anche in Italia dei casi recenti di bambini morti per morbillo. C’è da riflettere anche sul fatto che a essere colpiti sono i piccoli che partono svantaggiati, da uno stato di disuguaglianza, perché per problemi di salute non possono vaccinarsi e hanno un sistema immunitario fragile. A renderli uguali dovrebbe pensarci la comunità, gli altri bambini che vaccinandosi tutti ostacolerebbero il diffondersi dei virus». Il problema dei vaccini, che in Italia ha occupato la maggior parte dei discorsi sulla salute di questi ultimi anni, fa capire come i fattori culturali abbiano una grande importanza in campo medico: «Proprio per questo per la prima volta a Science for Peace trattiamo un argomento a tutto tondo», afferma Tonelli. «La scienza produce risultati, ma poi devono esserci le condizioni per applicarli». Una di queste condizioni è la diffusione della cultura della prevenzione: «Una merendina costa molto meno di un chilo di frutta», spiega la genetista. «Per le famiglie più povere la crisi economica favorisce un’alimentazione sbilanciata, e questo aumenta il rischio di sviluppare malattie croniche. Durante la conferenza vedremo come alcune fasce della popolazione italiana stiano abbandonando la dieta mediterranea per un’alimentazione ricca di grassi e carboidrati». L’altro tema centrale sarà la medicina di genere: «La maggior parte delle cure e dei protocolli in passato sono stati testati sugli uomini. Ma le donne, oggi lo sappiamo, rispondono in maniera diversa alle cure», dice Tonelli. Alla fine della conferenza, Fondazione Umberto Veronesi presenterà un appello per risvegliare la società sulle conseguenze delle disuguaglianze nella ricerca: «La riduzione delle spese per la ricerca rappresenta il primo peccato di disuguaglianza», dice il documento. «Esso si traduce, da un lato, in disuguaglianze in termini di opportunità di lavoro per chi fa ricerca, dall’altro, in disuguaglianze in termini di fruizione dei risultati della ricerca da parte dei normali cittadini. Ciò peggiora la qualità della vita di tutti, cittadini e ricercatori».
il manifesto 10.11.18
Referendum Atac, perché voto no
Votare No, soltando cambiando politica cambia l'Atac. Le liberalizzazioni hanno fallito ovunque, servono persone capaci slegate dai partiti
di Paolo Berdini
I «furbetti» del referendum sulla liberalizzazione-privatizzazione di Atac, l’azienda romana di trasporto pubblico, che si terrà domani (Radicali, Fi e il Pd romano) ce l’hanno messa tutta per far passare se stessi come gli unici innovatori e i sostenitori del no come i grigi difensori dello status quo. Purtroppo per loro poiché è vero l’esatto contrario, il gioco non è riuscito. Sono trenta anni che moltissime aziende pubbliche sono state sottoposte alla cura delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni e oggi il mondo degli economisti -a parte i pasdaran del pensiero neoliberista- si interrogano sul disastro avvenuto. La sfera pubblica si è impoverita e i privati hanno macinato utili vertiginosi a scapito dei servizi erogati e, come nel case del ponte di Genova, a scapito della sicurezza dei cittadini.
Evidentemente non soddisfatti del disastro, i promotori del referendum vorrebbero applicare quelle stesse ricette anche al trasporto locale. Il primo quesito riguarda la possibilità di liberalizzare il servizio mettendolo a gara. Il secondo apre addirittura alla possibilità di presentare proposte sostitutive delle linee esistenti: si spalanca la porta a colossi come Uber. Questi innovatori all’amatriciana non si sono dunque accorti che se vogliamo rilanciare il paese, il tema fondamentale è quello di ricostruire l’ossatura delle amministrazioni e delle aziende pubbliche.
Il vasto fronte del No (i tre sindacati confederali, Usb, i comitati Atac bene comune, Mejo de no e Calma) ha svelato bugie e furbizie dei sostenitori del referendum. A partire dal silenzio sul fatto che a Roma la privatizzazione già esiste da venti anni. Le periferie romane sono infatti servite da Tpl, una società interamente privata che gestisce circa il 40% dell’offerta di trasporto e non brilla certo per efficienza.
Questa stessa mancanza di efficienza riguarda naturalmente anche Atac e qui si può misurare la profonda distanza tra i due schieramenti. I sostenitori del No hanno infatti impostato la loro campagna sul fatto che il debito di Atac (circa 800 milioni) non è dovuto soltanto alla difficoltà di servire una città frammentata dalla speculazione immobiliare e dall’abusivismo, ma anche dalla scandalosa ingerenza della mala politica sull’azienda. Con Alemanno furono assunte a chiamata diretta 784 persone, lo scandalo «parentopoli». Ogni anno queste assunzioni sono costate 30 milioni, 300 milioni in dieci anni. Stesso discorso vale per i dirigenti, oltre 100, e i manager cambiati vorticosamente e ricompensati con buonuscite milionarie: in dieci anni ci sono costati 200 milioni. La politica dell’occupazione del potere ha pensato anche di clonare i biglietti, sottraendo alle casse pubbliche altri 70 milioni di euro. Insomma, la mala politica ha formato un debito di Atac di circa 600 milioni.
Lo schieramento del No ha posto al primo punto della sua piattaforma la chiusura di questo vergognoso processo per lasciare tutte le aziende pubbliche nella mani di persone capaci e indipendenti nominate da organismi di terzietà. Il solo modo per risanare le aziende non è liberalizzarle, ma metterle nella condizione di aprirsi a nuove competenze e tecnologie. Tecnologie che serviranno per chiudere un’ulteriore vergogna di cui non si trova traccia nei quesiti referendari. Atac trasporta il 56% della platea degli utenti su autobus vecchi e inquinanti che restano soffocati nel traffico quotidiano della città, Milano ne trasporta l’80% sulla rete del ferro. Occorre dunque invertire le modalità di trasporto costruendo quelle linee tramviarie di cui Roma è pressochè priva. Anche in questo caso, è il pubblico che deve compiere il salto di qualità, programmando, trovando le risorse e avviando la realizzazione delle opere.
Privatizzazioni e liberalizzazioni non servono. La capitale ha il dovere di lanciare un messaggio chiaro a tutto il paese: quello di chiudere la stagione del neoliberismo e di ricostruire aziende efficienti e governate da persone estranee alle lobby dei partiti. Per aprire questa fase si deve dire No a questo referendum.
Referendum Atac, perché voto no
Votare No, soltando cambiando politica cambia l'Atac. Le liberalizzazioni hanno fallito ovunque, servono persone capaci slegate dai partiti
di Paolo Berdini
I «furbetti» del referendum sulla liberalizzazione-privatizzazione di Atac, l’azienda romana di trasporto pubblico, che si terrà domani (Radicali, Fi e il Pd romano) ce l’hanno messa tutta per far passare se stessi come gli unici innovatori e i sostenitori del no come i grigi difensori dello status quo. Purtroppo per loro poiché è vero l’esatto contrario, il gioco non è riuscito. Sono trenta anni che moltissime aziende pubbliche sono state sottoposte alla cura delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni e oggi il mondo degli economisti -a parte i pasdaran del pensiero neoliberista- si interrogano sul disastro avvenuto. La sfera pubblica si è impoverita e i privati hanno macinato utili vertiginosi a scapito dei servizi erogati e, come nel case del ponte di Genova, a scapito della sicurezza dei cittadini.
Evidentemente non soddisfatti del disastro, i promotori del referendum vorrebbero applicare quelle stesse ricette anche al trasporto locale. Il primo quesito riguarda la possibilità di liberalizzare il servizio mettendolo a gara. Il secondo apre addirittura alla possibilità di presentare proposte sostitutive delle linee esistenti: si spalanca la porta a colossi come Uber. Questi innovatori all’amatriciana non si sono dunque accorti che se vogliamo rilanciare il paese, il tema fondamentale è quello di ricostruire l’ossatura delle amministrazioni e delle aziende pubbliche.
Il vasto fronte del No (i tre sindacati confederali, Usb, i comitati Atac bene comune, Mejo de no e Calma) ha svelato bugie e furbizie dei sostenitori del referendum. A partire dal silenzio sul fatto che a Roma la privatizzazione già esiste da venti anni. Le periferie romane sono infatti servite da Tpl, una società interamente privata che gestisce circa il 40% dell’offerta di trasporto e non brilla certo per efficienza.
Questa stessa mancanza di efficienza riguarda naturalmente anche Atac e qui si può misurare la profonda distanza tra i due schieramenti. I sostenitori del No hanno infatti impostato la loro campagna sul fatto che il debito di Atac (circa 800 milioni) non è dovuto soltanto alla difficoltà di servire una città frammentata dalla speculazione immobiliare e dall’abusivismo, ma anche dalla scandalosa ingerenza della mala politica sull’azienda. Con Alemanno furono assunte a chiamata diretta 784 persone, lo scandalo «parentopoli». Ogni anno queste assunzioni sono costate 30 milioni, 300 milioni in dieci anni. Stesso discorso vale per i dirigenti, oltre 100, e i manager cambiati vorticosamente e ricompensati con buonuscite milionarie: in dieci anni ci sono costati 200 milioni. La politica dell’occupazione del potere ha pensato anche di clonare i biglietti, sottraendo alle casse pubbliche altri 70 milioni di euro. Insomma, la mala politica ha formato un debito di Atac di circa 600 milioni.
Lo schieramento del No ha posto al primo punto della sua piattaforma la chiusura di questo vergognoso processo per lasciare tutte le aziende pubbliche nella mani di persone capaci e indipendenti nominate da organismi di terzietà. Il solo modo per risanare le aziende non è liberalizzarle, ma metterle nella condizione di aprirsi a nuove competenze e tecnologie. Tecnologie che serviranno per chiudere un’ulteriore vergogna di cui non si trova traccia nei quesiti referendari. Atac trasporta il 56% della platea degli utenti su autobus vecchi e inquinanti che restano soffocati nel traffico quotidiano della città, Milano ne trasporta l’80% sulla rete del ferro. Occorre dunque invertire le modalità di trasporto costruendo quelle linee tramviarie di cui Roma è pressochè priva. Anche in questo caso, è il pubblico che deve compiere il salto di qualità, programmando, trovando le risorse e avviando la realizzazione delle opere.
Privatizzazioni e liberalizzazioni non servono. La capitale ha il dovere di lanciare un messaggio chiaro a tutto il paese: quello di chiudere la stagione del neoliberismo e di ricostruire aziende efficienti e governate da persone estranee alle lobby dei partiti. Per aprire questa fase si deve dire No a questo referendum.
il manifesto 10.11.18
Referendum Atac, quorum difficile nonostante gli appelli
Trasporto Pubblico. Domani romani ai seggi: serve un terzo di votanti. Radicali e Pd fanno leva sui disagi, ma molti comitati pendolari sono per il No. Il blogger Mercurio: dal 2010 la politica ha tagliato 30% del servizio, ora va subito rilanciato
di Massimo Franchi
Fra appelli dei vip – Verdone e Ferilli che mai sono stati visti su un bus – e di Salvini al voto e accuse di scarsa informazione, si è chiusa la campagna elettorale per il referendum consultivo sull’Atac. Quasi 2,4 milioni di romani domani (dalle 8 alle 20) saranno chiamati a decidere se liberalizzare il servizio di trasporto pubblico della capitale. All’elettore saranno consegnate due schede di colore diverso, una per ciascun quesito: il primo riguarda l’affidamento dei servizi di trasporto di linea mediante gare pubbliche, il secondo chiede la nascita di nuovi servizi di trasporto collettivo a imprese concorrenti.
Perché il referendum sia valido serve che votino un terzo degli aventi diritto: 759mila cittadini. Difficile che accada.
LA CAMPAGNA PER IL SÌ ha fatto leva sulla rabbia degli utenti per i disservizi. Parecchi comitati di pendolari però sono convintamente per il No. Fra loro anche Mercurio Viaggiatore, blogger seguito su Twitter che ogni mattina fornisce i dati in tempo reale sui mezzi Atac che sono in funzione. «Sono dati pubblici che le aziende forniscono a Roma Servizi per mappare il tempo di attesa degli autobus che io utilizzo in altro modo». Mercurio è un «pendolare appassionato fin da bambino al trasporto pubblico: vorrei vivere in una città nella quale l’uso dell’auto privata fosse ridotto al minimo». Negli anni ha cumulato conoscenze e competenze che lo portano «a fare un discorso tecnico» e ad evitare paragoni impropri: «ogni città ha le sue caratteristiche e problematiche urbanistiche e culturali, a Roma l’uso dell’auto privata è forte e ci sono quartieri con densità altissima nelle periferie più esterne dal centro con spazi inabitati più centrali».
DAL SUO PUNTO DI VISTA, il referendum proposto dai Radicali poteva essere «positivo se fosse servito ai romani per prendere consapevolezza con le ragioni della crisi di Atac e che la giunta fosse portata ad investire più risorse. Invece i quesiti sono banali e hanno polarizzato politicamente la discussione: i Radicali e il Pd usano il referendum in chiave anti Raggi, il M5s lo sta boicottando per evitare che raggiunga il quorum». Anche la distinzione tra liberalizzazione e privatizzazione in questo quadro perde di senso: «Per legge è la Regione Lazio a stabilire tratte e tariffe del servizio, mentre nessun privato si prenderebbe Atac così com’è».
Mercurio snocciola i dati che certificano la crisi sempre più profonda di Atac. «Dal 2010 in avanti l’azienda ha ridotto il servizio: sono diminuiti i bus (circa 200 l’anno di un «parco» sempre più vecchio) e i milioni di chilometri in superficie (da 113 agli 80 di quest’anno). Insomma in 8 anni c’è stato un calo del 30 per cento del servizio, soprattutto in periferia. Un calo che ha portato un circolo vizioso: più macchine private e bus che vanno più piano e passano più raramente, portando il tasso di motorizzazone ad un mostruoso 65%. Sulle linee della metropolitana e i treni locali il discorso è diverso: mancano investimenti e i contratti di servizio sono tarati sulle possibilità di Atac. Ad esempio la linea Roma-Lido che ha vinto il premio Caronte come più lenta in Italia ha rispettato il contratto di servizio al 95 per cento, ma solo perché la frequenza dei treni è bassisima e rispettarla è semplice».
LA CRISI DI ATAC È ANDATA di pari passo con l’uso che la politica ha fatto della sua municipalizzata più grande con i suoi 11mila dipendenti. «La politica ha rovinato Atac perché non ha mai considerato centrale il servizio ma da Parentopoli in poi ha fatto assumere personale e manager incapaci, con le false bigliettazioni e gli appalti dubbi ha aumentato un buco di bilancio spaventoso».
QUELLO CHE MERCURIO non riesce a spiegarsi è perché la giunta non investa: «Ha comprato 165 bus con fondi già stanziati da Marino, non ha utilizzato i 425 milioni per le metropolitane e ha deciso di spalmare i 167 per comprare nuovi bus con 38 milioni del 2018, 30 nel 2019 e ben 99 nel 2020: come fa a sostenere che sta accelerando sul cambio di un parco bus vecchissimo?».
LO SCENARIO in caso di vittoria del Sì lo «preoccupa molto». «Nel 2021 verrebbe messo a bando il servizio; immagino divendendolo in più lotti, probabilmente 4: solo poche società sarebbero interessate ma chiederanno garanzie per avere margini di profitto che saranno possibili solo aumentando le tariffe e licenziando il personale che, specie fra gli autisti, non è eccessivo mentre andrebbe riconvertito fra i troppi amministrativi».
L’alternativa esiste. «E votando No si può ottenerla: investire più risorse pubbliche per aumentare il servizio trovando manager capaci che abbiano questo come obiettivo».
Referendum Atac, quorum difficile nonostante gli appelli
Trasporto Pubblico. Domani romani ai seggi: serve un terzo di votanti. Radicali e Pd fanno leva sui disagi, ma molti comitati pendolari sono per il No. Il blogger Mercurio: dal 2010 la politica ha tagliato 30% del servizio, ora va subito rilanciato
di Massimo Franchi
Fra appelli dei vip – Verdone e Ferilli che mai sono stati visti su un bus – e di Salvini al voto e accuse di scarsa informazione, si è chiusa la campagna elettorale per il referendum consultivo sull’Atac. Quasi 2,4 milioni di romani domani (dalle 8 alle 20) saranno chiamati a decidere se liberalizzare il servizio di trasporto pubblico della capitale. All’elettore saranno consegnate due schede di colore diverso, una per ciascun quesito: il primo riguarda l’affidamento dei servizi di trasporto di linea mediante gare pubbliche, il secondo chiede la nascita di nuovi servizi di trasporto collettivo a imprese concorrenti.
Perché il referendum sia valido serve che votino un terzo degli aventi diritto: 759mila cittadini. Difficile che accada.
LA CAMPAGNA PER IL SÌ ha fatto leva sulla rabbia degli utenti per i disservizi. Parecchi comitati di pendolari però sono convintamente per il No. Fra loro anche Mercurio Viaggiatore, blogger seguito su Twitter che ogni mattina fornisce i dati in tempo reale sui mezzi Atac che sono in funzione. «Sono dati pubblici che le aziende forniscono a Roma Servizi per mappare il tempo di attesa degli autobus che io utilizzo in altro modo». Mercurio è un «pendolare appassionato fin da bambino al trasporto pubblico: vorrei vivere in una città nella quale l’uso dell’auto privata fosse ridotto al minimo». Negli anni ha cumulato conoscenze e competenze che lo portano «a fare un discorso tecnico» e ad evitare paragoni impropri: «ogni città ha le sue caratteristiche e problematiche urbanistiche e culturali, a Roma l’uso dell’auto privata è forte e ci sono quartieri con densità altissima nelle periferie più esterne dal centro con spazi inabitati più centrali».
DAL SUO PUNTO DI VISTA, il referendum proposto dai Radicali poteva essere «positivo se fosse servito ai romani per prendere consapevolezza con le ragioni della crisi di Atac e che la giunta fosse portata ad investire più risorse. Invece i quesiti sono banali e hanno polarizzato politicamente la discussione: i Radicali e il Pd usano il referendum in chiave anti Raggi, il M5s lo sta boicottando per evitare che raggiunga il quorum». Anche la distinzione tra liberalizzazione e privatizzazione in questo quadro perde di senso: «Per legge è la Regione Lazio a stabilire tratte e tariffe del servizio, mentre nessun privato si prenderebbe Atac così com’è».
Mercurio snocciola i dati che certificano la crisi sempre più profonda di Atac. «Dal 2010 in avanti l’azienda ha ridotto il servizio: sono diminuiti i bus (circa 200 l’anno di un «parco» sempre più vecchio) e i milioni di chilometri in superficie (da 113 agli 80 di quest’anno). Insomma in 8 anni c’è stato un calo del 30 per cento del servizio, soprattutto in periferia. Un calo che ha portato un circolo vizioso: più macchine private e bus che vanno più piano e passano più raramente, portando il tasso di motorizzazone ad un mostruoso 65%. Sulle linee della metropolitana e i treni locali il discorso è diverso: mancano investimenti e i contratti di servizio sono tarati sulle possibilità di Atac. Ad esempio la linea Roma-Lido che ha vinto il premio Caronte come più lenta in Italia ha rispettato il contratto di servizio al 95 per cento, ma solo perché la frequenza dei treni è bassisima e rispettarla è semplice».
LA CRISI DI ATAC È ANDATA di pari passo con l’uso che la politica ha fatto della sua municipalizzata più grande con i suoi 11mila dipendenti. «La politica ha rovinato Atac perché non ha mai considerato centrale il servizio ma da Parentopoli in poi ha fatto assumere personale e manager incapaci, con le false bigliettazioni e gli appalti dubbi ha aumentato un buco di bilancio spaventoso».
QUELLO CHE MERCURIO non riesce a spiegarsi è perché la giunta non investa: «Ha comprato 165 bus con fondi già stanziati da Marino, non ha utilizzato i 425 milioni per le metropolitane e ha deciso di spalmare i 167 per comprare nuovi bus con 38 milioni del 2018, 30 nel 2019 e ben 99 nel 2020: come fa a sostenere che sta accelerando sul cambio di un parco bus vecchissimo?».
LO SCENARIO in caso di vittoria del Sì lo «preoccupa molto». «Nel 2021 verrebbe messo a bando il servizio; immagino divendendolo in più lotti, probabilmente 4: solo poche società sarebbero interessate ma chiederanno garanzie per avere margini di profitto che saranno possibili solo aumentando le tariffe e licenziando il personale che, specie fra gli autisti, non è eccessivo mentre andrebbe riconvertito fra i troppi amministrativi».
L’alternativa esiste. «E votando No si può ottenerla: investire più risorse pubbliche per aumentare il servizio trovando manager capaci che abbiano questo come obiettivo».
il manifesto 10.11.18
«Indivisibili» contro il decreto sicurezza
No al razzismo. In piazza oggi a Roma sfila il Paese dell’accoglienza. In arrivo da tutta Italia, con il sindaco di Riace Domenico Lucano
Ad aprire il corteo ci sarà uno striscione con la scritta: «Uniti e solidali contro il governo e il razzismo del decreto Salvini». E’ la parola d’ordine che riunirà oggi a Roma migliaia di manifestanti (sono attese almeno 20 mila persone in arrivo a Roma con treni e 100 pullman provenienti da tutte le regioni) decise a rispondere alla deriva securitaria e xenofoba che ormai da troppi mesi caratterizza l’Italia.
L’appuntamento è per le 14 a piazza della Repubblica da dove partirà un corteo che dopo aver percorso il centro cittadino si concluderà a piazza San Giovanni dove sono previsti alcuni interventi e la presenza di numerosi attori e musicisti (tra quanti hanno aderito ci sono Ascano Celestini, Modena City Ramblers, Assalti frontali ed Eugenio Bennato). Più di 400 le realtà che hanno aderito all’iniziativa rispondendo all’appello lanciato anche da Baobab Experience, i volontari che da in quattro anni hanno accolto e dato assistenza a decine di miglia di migranti in transito nella capitale. Tra le sigle che hanno garantito la propria partecipazione ci sono Cgil, Anpi, Arci, Oxfam, la ong Proactiva Open Arms, Action Aid, Un Ponte per, insieme a esponenti di LeU, Possibile e all’europarlamentare di Rifondazione comunista Eleonora Florenza. Ma sono attese tantissime realtà locali. «E’ il momento di unirsi, mobilitarsi e reagire contro gli attacchi del governo, a cui Minniti ha aperto la strada, contro l’escalation razzista e il decreto Salvini che attacca le libertà di tutti», hanno spiegato gli organizzatori.
La posta in gioco è alta. Mercoledì scorso dal Senato è arrivato il via libera al decreto Sicurezza e immigrazione con cui il governo, e in particolare il ministro degli Interni Matteo Salvini, si prepara a smantellare il sistema di accoglienza dei migranti creato negli ultimi anni.
Le conseguenze delle nuove misure – dall’abrogazione delle protezione umanitaria allo smantellamento della rete Sprar gestita dai Comuni, al prolungamento fino a 180 giorni della permanenza nei Centri per il rimpatrio (Cpr) – saranno pesanti per tutti, immigrati e italiani.
L’Anci, l’associazione dei comuni italiani, ha calcolato in almeno 50 mila i migranti destinati a diventare irregolari nel 2019 e in 280 milioni di euro i costi sociali in più a cui i Comuni dovranno fare fronte. Motivi che hanno spinto molti amministratori locali a chiedere al governo di sospendere il decreto modificandolo. Inutilmente.
Ma nel corteo non si parlerà solo di immigrazione. Non a caso la parola chiave della giornata è «Indivisibili) per sottolineare – hanno spiegato gli organizzatori – la volontà di non accettare nessuna separazione di diritti tra italiani e stranieri, ma anche tra donne e uomini, al punto che nella piattaforma c’è anche l’opposizione al ddl Pillon sulla genitorialità.
Prevista, infine, la partecipazione alla manifestazione anche del sindaco di Riace Domenico Lucano.
«Indivisibili» contro il decreto sicurezza
No al razzismo. In piazza oggi a Roma sfila il Paese dell’accoglienza. In arrivo da tutta Italia, con il sindaco di Riace Domenico Lucano
Ad aprire il corteo ci sarà uno striscione con la scritta: «Uniti e solidali contro il governo e il razzismo del decreto Salvini». E’ la parola d’ordine che riunirà oggi a Roma migliaia di manifestanti (sono attese almeno 20 mila persone in arrivo a Roma con treni e 100 pullman provenienti da tutte le regioni) decise a rispondere alla deriva securitaria e xenofoba che ormai da troppi mesi caratterizza l’Italia.
L’appuntamento è per le 14 a piazza della Repubblica da dove partirà un corteo che dopo aver percorso il centro cittadino si concluderà a piazza San Giovanni dove sono previsti alcuni interventi e la presenza di numerosi attori e musicisti (tra quanti hanno aderito ci sono Ascano Celestini, Modena City Ramblers, Assalti frontali ed Eugenio Bennato). Più di 400 le realtà che hanno aderito all’iniziativa rispondendo all’appello lanciato anche da Baobab Experience, i volontari che da in quattro anni hanno accolto e dato assistenza a decine di miglia di migranti in transito nella capitale. Tra le sigle che hanno garantito la propria partecipazione ci sono Cgil, Anpi, Arci, Oxfam, la ong Proactiva Open Arms, Action Aid, Un Ponte per, insieme a esponenti di LeU, Possibile e all’europarlamentare di Rifondazione comunista Eleonora Florenza. Ma sono attese tantissime realtà locali. «E’ il momento di unirsi, mobilitarsi e reagire contro gli attacchi del governo, a cui Minniti ha aperto la strada, contro l’escalation razzista e il decreto Salvini che attacca le libertà di tutti», hanno spiegato gli organizzatori.
La posta in gioco è alta. Mercoledì scorso dal Senato è arrivato il via libera al decreto Sicurezza e immigrazione con cui il governo, e in particolare il ministro degli Interni Matteo Salvini, si prepara a smantellare il sistema di accoglienza dei migranti creato negli ultimi anni.
Le conseguenze delle nuove misure – dall’abrogazione delle protezione umanitaria allo smantellamento della rete Sprar gestita dai Comuni, al prolungamento fino a 180 giorni della permanenza nei Centri per il rimpatrio (Cpr) – saranno pesanti per tutti, immigrati e italiani.
L’Anci, l’associazione dei comuni italiani, ha calcolato in almeno 50 mila i migranti destinati a diventare irregolari nel 2019 e in 280 milioni di euro i costi sociali in più a cui i Comuni dovranno fare fronte. Motivi che hanno spinto molti amministratori locali a chiedere al governo di sospendere il decreto modificandolo. Inutilmente.
Ma nel corteo non si parlerà solo di immigrazione. Non a caso la parola chiave della giornata è «Indivisibili) per sottolineare – hanno spiegato gli organizzatori – la volontà di non accettare nessuna separazione di diritti tra italiani e stranieri, ma anche tra donne e uomini, al punto che nella piattaforma c’è anche l’opposizione al ddl Pillon sulla genitorialità.
Prevista, infine, la partecipazione alla manifestazione anche del sindaco di Riace Domenico Lucano.
il manifesto 10.11.18
Boldrini: «Al governo una cultura retrograda. Ma è partita la riscossa: dalle donne»
Intervista. Contro il ddl Pillon «la voce della piazza deve alzarsi così forte da non poter essere ignorata dal parlamento. I 5 Stelle piegheranno la testa?»
di Daniela Preziosi
Laura Boldrini, il ddl Pillon contro il quale oggi scendono i piazza tante donne svela una mentalità, una cultura di governo?
Tante donne si sono mobilitate in tutta Italia, prima contro gli attacchi alla 194 e poi contro il disegno di legge Pillon. Non hanno atteso input di partiti o chiamate dall’alto, ma si sono incontrate, hanno formato comitati e oggi riempiranno le piazze italiane. Mi ha fatto piacere partecipare ai lavori del Comitato NoPillon a Milano e a Genova. Se la sinistra non capisce che per rilanciarsi ha bisogno dell’energia e del protagonismo delle donne non andrà lontano. La cultura che esprime questo governo è illiberale e retrograda ed è per questo che la riscossa è partita. Ed è partita dalle donne.
Di Maio si dissocia dal ddl Pillon. Ma le sue colleghe leghiste e 5 stelle pubblicamente non hanno detto nulla. Lei ci ha parlato?
Mi chiedo come i 5 stelle dopo aver ingoiato il decreto sicurezza, la legittima difesa, il condono per gli evasori fiscali, il sequestro della nave Diciotti, possano piegare la testa anche di fronte questo disegno di legge che colpisce i diritti delle donne e dei bambini. Tra loro colgo un certo imbarazzo.
I suoi temi di impegno, penso ai diritti e ai migranti, sono poco popolari, per non dire invisi a una parte della pubblica opinione. Dopo la brutta vicenda della nave di Diciotti un sondaggio ha dato a Salvini oltre il 60% dei favorevoli al suo operato. Sbaglia lei o sbaglia la maggior parte degli italiani?
Sbaglia Salvini. Strumentalizza il tema migranti, lo usa in modo fuorviante proprio per alimentare la paura nei loro confronti e creare tensione sociale. Penso comunque che sia imperativo difendere i diritti umani e i principi costituzionale a prescindere dai sondaggi.
Il ddl Pillon è un’iniziativa di propaganda o rischia davvero di essere approvato, magari con qualche aggiustamento?
La maggioranza vive di propaganda, ma il pericolo che questa orrenda legge venga approvata esiste. La mobilitazione di oggi è sacrosanta e importante, la voce delle donne in piazza deve alzarsi così forte da non poter essere ignorata nelle aule parlamentari.
Insieme al pil e alla crescita che rallentano, l’occupazione non aumenta e come sempre il dato per le donne è peggiore che per gli uomini. Questo governo ha promesso molto su quel campo, ma i risultati non si vedono.
Proprio per questo ho presentato alla Camera una proposta di legge per il sostegno all’occupazione e all’imprenditoria femminile, frutto di un lavoro collettivo. Ho organizzato incontri in dieci città italiane, ho raccolto proposte e suggerimenti di associazioni, sindacati, donne del mondo lavoro e dell’impresa. Le loro opinioni sono diventate articoli e commi: dal congedo obbligatorio di paternità portato a 15 giorni al contrasto alle molestie sui luoghi di lavoro, dagli sgravi contributivi alle aziende che assumono donne agli incentivi per le start up femminili. Ne ho discusso anche con due deputate della Lega. Sarebbe un bene se pure esponenti della maggioranza la firmassero.
Lei fa parte di Leu, una lista il cui percorso unitario sostanzialmente si è fermato. A che punto è il suo lavoro per una sinistra «popolare e unitaria»?
Quando si lanciò la proposta di trasformare Leu in un partito io espressi pubblicamente e lealmente le mie riserve. L’ho fatto nell’assemblea nazionale e negli incontri con i militanti. A un risultato elettorale così negativo come quello ottenuto da Leu bisognava rispondere con una rigenerazione di idee, programmi e rappresentanza politica. E con un’apertura reale a tutte quelle componenti della società civile che non si sono sentite rappresentate alle elezioni e che oggi si stanno mobilitando contro il governo. Io lavoro su questa linea di rinnovamento e di partecipazione.
Minniti candidato segretario del Pd. Che Pd sarebbe quello diretto da Minniti?
Non voglio entrare nel merito del dibattito interno a un partito di cui io non faccio parte. Ma mi auguro che il Pd, che è una forza essenziale del mondo progressista, scelga la strada della discontinuità con le politiche del passato che non hanno funzionato e della ripresa di un contatto reale con le tante persone che hanno voltato le spalle al centrosinistra.
Non ci sono più le Ong in mare, è la denuncia della Mar Jonio. Frutto di un processo di delegittimazione delle Ong che parte proprio con Minniti?
Da presidente della Camera criticai apertamente la campagna di delegittimazione nei confronti delle Ong. Che invece di essere messe sul banco degli imputati dovevano essere ringraziate per le tante vite che avevano salvato. Ma con Salvini si è fatto un salto di qualità negativo impressionante: siamo alla caccia al migrante, alla xenofobia, alla propaganda costruita sulla pelle dei più deboli.
Boldrini: «Al governo una cultura retrograda. Ma è partita la riscossa: dalle donne»
Intervista. Contro il ddl Pillon «la voce della piazza deve alzarsi così forte da non poter essere ignorata dal parlamento. I 5 Stelle piegheranno la testa?»
di Daniela Preziosi
Laura Boldrini, il ddl Pillon contro il quale oggi scendono i piazza tante donne svela una mentalità, una cultura di governo?
Tante donne si sono mobilitate in tutta Italia, prima contro gli attacchi alla 194 e poi contro il disegno di legge Pillon. Non hanno atteso input di partiti o chiamate dall’alto, ma si sono incontrate, hanno formato comitati e oggi riempiranno le piazze italiane. Mi ha fatto piacere partecipare ai lavori del Comitato NoPillon a Milano e a Genova. Se la sinistra non capisce che per rilanciarsi ha bisogno dell’energia e del protagonismo delle donne non andrà lontano. La cultura che esprime questo governo è illiberale e retrograda ed è per questo che la riscossa è partita. Ed è partita dalle donne.
Di Maio si dissocia dal ddl Pillon. Ma le sue colleghe leghiste e 5 stelle pubblicamente non hanno detto nulla. Lei ci ha parlato?
Mi chiedo come i 5 stelle dopo aver ingoiato il decreto sicurezza, la legittima difesa, il condono per gli evasori fiscali, il sequestro della nave Diciotti, possano piegare la testa anche di fronte questo disegno di legge che colpisce i diritti delle donne e dei bambini. Tra loro colgo un certo imbarazzo.
I suoi temi di impegno, penso ai diritti e ai migranti, sono poco popolari, per non dire invisi a una parte della pubblica opinione. Dopo la brutta vicenda della nave di Diciotti un sondaggio ha dato a Salvini oltre il 60% dei favorevoli al suo operato. Sbaglia lei o sbaglia la maggior parte degli italiani?
Sbaglia Salvini. Strumentalizza il tema migranti, lo usa in modo fuorviante proprio per alimentare la paura nei loro confronti e creare tensione sociale. Penso comunque che sia imperativo difendere i diritti umani e i principi costituzionale a prescindere dai sondaggi.
Il ddl Pillon è un’iniziativa di propaganda o rischia davvero di essere approvato, magari con qualche aggiustamento?
La maggioranza vive di propaganda, ma il pericolo che questa orrenda legge venga approvata esiste. La mobilitazione di oggi è sacrosanta e importante, la voce delle donne in piazza deve alzarsi così forte da non poter essere ignorata nelle aule parlamentari.
Insieme al pil e alla crescita che rallentano, l’occupazione non aumenta e come sempre il dato per le donne è peggiore che per gli uomini. Questo governo ha promesso molto su quel campo, ma i risultati non si vedono.
Proprio per questo ho presentato alla Camera una proposta di legge per il sostegno all’occupazione e all’imprenditoria femminile, frutto di un lavoro collettivo. Ho organizzato incontri in dieci città italiane, ho raccolto proposte e suggerimenti di associazioni, sindacati, donne del mondo lavoro e dell’impresa. Le loro opinioni sono diventate articoli e commi: dal congedo obbligatorio di paternità portato a 15 giorni al contrasto alle molestie sui luoghi di lavoro, dagli sgravi contributivi alle aziende che assumono donne agli incentivi per le start up femminili. Ne ho discusso anche con due deputate della Lega. Sarebbe un bene se pure esponenti della maggioranza la firmassero.
Lei fa parte di Leu, una lista il cui percorso unitario sostanzialmente si è fermato. A che punto è il suo lavoro per una sinistra «popolare e unitaria»?
Quando si lanciò la proposta di trasformare Leu in un partito io espressi pubblicamente e lealmente le mie riserve. L’ho fatto nell’assemblea nazionale e negli incontri con i militanti. A un risultato elettorale così negativo come quello ottenuto da Leu bisognava rispondere con una rigenerazione di idee, programmi e rappresentanza politica. E con un’apertura reale a tutte quelle componenti della società civile che non si sono sentite rappresentate alle elezioni e che oggi si stanno mobilitando contro il governo. Io lavoro su questa linea di rinnovamento e di partecipazione.
Minniti candidato segretario del Pd. Che Pd sarebbe quello diretto da Minniti?
Non voglio entrare nel merito del dibattito interno a un partito di cui io non faccio parte. Ma mi auguro che il Pd, che è una forza essenziale del mondo progressista, scelga la strada della discontinuità con le politiche del passato che non hanno funzionato e della ripresa di un contatto reale con le tante persone che hanno voltato le spalle al centrosinistra.
Non ci sono più le Ong in mare, è la denuncia della Mar Jonio. Frutto di un processo di delegittimazione delle Ong che parte proprio con Minniti?
Da presidente della Camera criticai apertamente la campagna di delegittimazione nei confronti delle Ong. Che invece di essere messe sul banco degli imputati dovevano essere ringraziate per le tante vite che avevano salvato. Ma con Salvini si è fatto un salto di qualità negativo impressionante: siamo alla caccia al migrante, alla xenofobia, alla propaganda costruita sulla pelle dei più deboli.
Corriere 10.11.18
L’umanità di Mozart
Muti: «il suo punto di vista siamo noi e ci guarda con un sorriso triste»
Il maestro apre la stagione del San Carlo di Napoli con «Così fan tutte», unico suo impegno operistico della stagione in Italia. La regia è della figlia Chiara. «La persona giusta per portare in scena il mondo di Amadeus con rispetto»
di Valerio Cappelli
Un gioco di inganni che richiede adesione intellettuale, il titolo più controverso della trilogia italiana di Mozart-Da Ponte. Riccardo Muti dice che Così fan tutte , insieme con il Falstaff , è l’opera che porterebbe sull’isola deserta. È l’apertura di stagione del San Carlo di Napoli, il 25; è al momento l’unico impegno operistico del grande direttore in Italia; è la terza volta che lavora con sua figlia Chiara alla regia.
Maestro, è il suo quinto «Così fan tutte»: il primo?
«Nel 1979, mentre ero in tournée in Usa con la Filarmonica di Londra. Un giorno alle sette del mattino mi telefonò Karajan per propormi il Così fan tutte da fare tre anni dopo al Festival di Salisburgo. Ero titubante, non l’avevo mai diretto ed era un’opera legata ad anni di trionfo di Karl Böhm. Gli risposi: è un suo invito, sua la responsabilità. Accettò. Quel successo diede una spinta straordinaria alla mia carriera internazionale. C’erano in giro i giganti del podio, un’opera che si riteneva di proprietà culturale austro-germanica, spesso non si coglievano le sottigliezze del libretto di Da Ponte. Io partii dalle parole, che danno la scintilla alla musica e non viceversa. Lo stesso percorso lo aveva fatto molti anni prima Guido Cantelli alla Piccola Scala».
Lo si considera un testo «matematico», difficile.
«Da Ponte raggiunge vette di alta poesia, pensiamo soltanto a “Soave sia il vento, tranquilla sia l’onda”. Il testo è difficile per chi non capisce la lingua italiana, o per il cittadino italiano che non approfondisce i giochi di parole. C’è una lettura “ufficiale” che si presenta nel suo candore, ma le stesse parole possono significare altre cose e diventano piene di allusioni erotiche. Quando Fiordiligi e Dorabella riconoscono gli amanti, e di aver commesso un grave errore, dicono: Il mio fallo tardi vedo. Oppure Don Alfonso: Folle è quel cervello che sulla frasca ancor vende l’uccello. Non è che il testo abbia volgarmente questi doppi sensi, è un gioco di estrema leggerezza ed eleganza, il segreto è di comprendere il sublime che nasce da situazioni apparentemente banali. Per questo è l’opera più misteriosa ed enigmatica di Mozart. Penso alla finta partenza dei due giovani che diventa un fatto profondo, e cioè la partenza dalla vita. Il finale è una considerazione negativa sull’umanità».
Come nel Falstaff.
«Esatto, sono occhi critici sulla condizione umana, su chi siamo veramente. Non c’è niente di misogino, avrebbe dovuto chiamarsi “Così fan tutti”, perché tutti e quattro i giovani sono colpevoli e alla fine gabbati, come dirà Verdi concludendo la sua esistenza. Le due opere hanno in comune questo triste sguardo sull’umanità, espresso con un sorriso lieve. Senza Mozart non ci sarebbe stato Verdi, e senza “Così fan tutte” non ci sarebbe stato “Falstaff”».
Ci sono citazioni di Metastasio e Sannazaro.
«E prese in giro di certi autori. Mozart non amava Gluck, che parla di miti e mondi epici, lo trovava retorico. Il punto di vista di Mozart, come di Verdi, è l’uomo: siamo noi, uomini che si specchiano negli uomini. È un’opera che irritò Beethoven, che era un moralista, e Wagner, il che è curioso».
Si dovette aspettare il ’900 e Strauss per rivalutarla.
«Mozart muore nel 1791, la Scala fu inaugurata nel 1778. Mozart non ebbe mai il piacere, in vita, di vedere rappresentata l’opera alla Scala».
Lavorare con sua figlia?
«Da tempo sognavo di fare un’opera con la regia di Chiara, che ha studiato alla scuola di Strehler, da cui ha assorbito il concetto della Bellezza e conosce a memoria il testo. Essendo il titolo meno prorompente dal punto di vista immediato, è quello che si presta a soluzioni registiche le più improbabili e infami. Chiara è la persona giusta per creare un mondo mozartiano che sia moderno e rispettoso».
È una coproduzione con l’Opera di Vienna.
«Tornerò alla Staatsoper nel 2020, a dodici anni proprio dal “Così fan tutte”. I teatri di Stato hanno il vantaggio di avere un grande repertorio, per cui si possono mettere in scena una sessantina di titoli dall’oggi al domani, e si va all’opera come al cinema. Lo svantaggio è che certe vecchie produzioni, senza essere provate, diventino fatalmente routine. Ma parliamo di Vienna, e di una grande realtà culturale».
L’umanità di Mozart
Muti: «il suo punto di vista siamo noi e ci guarda con un sorriso triste»
Il maestro apre la stagione del San Carlo di Napoli con «Così fan tutte», unico suo impegno operistico della stagione in Italia. La regia è della figlia Chiara. «La persona giusta per portare in scena il mondo di Amadeus con rispetto»
di Valerio Cappelli
Un gioco di inganni che richiede adesione intellettuale, il titolo più controverso della trilogia italiana di Mozart-Da Ponte. Riccardo Muti dice che Così fan tutte , insieme con il Falstaff , è l’opera che porterebbe sull’isola deserta. È l’apertura di stagione del San Carlo di Napoli, il 25; è al momento l’unico impegno operistico del grande direttore in Italia; è la terza volta che lavora con sua figlia Chiara alla regia.
Maestro, è il suo quinto «Così fan tutte»: il primo?
«Nel 1979, mentre ero in tournée in Usa con la Filarmonica di Londra. Un giorno alle sette del mattino mi telefonò Karajan per propormi il Così fan tutte da fare tre anni dopo al Festival di Salisburgo. Ero titubante, non l’avevo mai diretto ed era un’opera legata ad anni di trionfo di Karl Böhm. Gli risposi: è un suo invito, sua la responsabilità. Accettò. Quel successo diede una spinta straordinaria alla mia carriera internazionale. C’erano in giro i giganti del podio, un’opera che si riteneva di proprietà culturale austro-germanica, spesso non si coglievano le sottigliezze del libretto di Da Ponte. Io partii dalle parole, che danno la scintilla alla musica e non viceversa. Lo stesso percorso lo aveva fatto molti anni prima Guido Cantelli alla Piccola Scala».
Lo si considera un testo «matematico», difficile.
«Da Ponte raggiunge vette di alta poesia, pensiamo soltanto a “Soave sia il vento, tranquilla sia l’onda”. Il testo è difficile per chi non capisce la lingua italiana, o per il cittadino italiano che non approfondisce i giochi di parole. C’è una lettura “ufficiale” che si presenta nel suo candore, ma le stesse parole possono significare altre cose e diventano piene di allusioni erotiche. Quando Fiordiligi e Dorabella riconoscono gli amanti, e di aver commesso un grave errore, dicono: Il mio fallo tardi vedo. Oppure Don Alfonso: Folle è quel cervello che sulla frasca ancor vende l’uccello. Non è che il testo abbia volgarmente questi doppi sensi, è un gioco di estrema leggerezza ed eleganza, il segreto è di comprendere il sublime che nasce da situazioni apparentemente banali. Per questo è l’opera più misteriosa ed enigmatica di Mozart. Penso alla finta partenza dei due giovani che diventa un fatto profondo, e cioè la partenza dalla vita. Il finale è una considerazione negativa sull’umanità».
Come nel Falstaff.
«Esatto, sono occhi critici sulla condizione umana, su chi siamo veramente. Non c’è niente di misogino, avrebbe dovuto chiamarsi “Così fan tutti”, perché tutti e quattro i giovani sono colpevoli e alla fine gabbati, come dirà Verdi concludendo la sua esistenza. Le due opere hanno in comune questo triste sguardo sull’umanità, espresso con un sorriso lieve. Senza Mozart non ci sarebbe stato Verdi, e senza “Così fan tutte” non ci sarebbe stato “Falstaff”».
Ci sono citazioni di Metastasio e Sannazaro.
«E prese in giro di certi autori. Mozart non amava Gluck, che parla di miti e mondi epici, lo trovava retorico. Il punto di vista di Mozart, come di Verdi, è l’uomo: siamo noi, uomini che si specchiano negli uomini. È un’opera che irritò Beethoven, che era un moralista, e Wagner, il che è curioso».
Si dovette aspettare il ’900 e Strauss per rivalutarla.
«Mozart muore nel 1791, la Scala fu inaugurata nel 1778. Mozart non ebbe mai il piacere, in vita, di vedere rappresentata l’opera alla Scala».
Lavorare con sua figlia?
«Da tempo sognavo di fare un’opera con la regia di Chiara, che ha studiato alla scuola di Strehler, da cui ha assorbito il concetto della Bellezza e conosce a memoria il testo. Essendo il titolo meno prorompente dal punto di vista immediato, è quello che si presta a soluzioni registiche le più improbabili e infami. Chiara è la persona giusta per creare un mondo mozartiano che sia moderno e rispettoso».
È una coproduzione con l’Opera di Vienna.
«Tornerò alla Staatsoper nel 2020, a dodici anni proprio dal “Così fan tutte”. I teatri di Stato hanno il vantaggio di avere un grande repertorio, per cui si possono mettere in scena una sessantina di titoli dall’oggi al domani, e si va all’opera come al cinema. Lo svantaggio è che certe vecchie produzioni, senza essere provate, diventino fatalmente routine. Ma parliamo di Vienna, e di una grande realtà culturale».
Repubblica Roma 10.11.18
“Niente comunità” Il no del giudice che segnò Desirée
di Maria Elena Vincenzi
La richiesta dei familiari bocciata dal magistrato minorile appena tre giorni prima della morte nel cantiere abbandonato nel cuore di San Lorenzo
Doveva andare in comunità Desirée. E magari si sarebbe salvata. Ma il tribunale dei Minori, pochi giorni prima che la sedicenne morisse in un immobile abbandonato di San Lorenzo, aveva detto che non c’era urgenza, che quella pratica poteva attendere. Il pubblico ministero, su istanza della famiglia e dei servizi sociali ( Desirèe era stata fermata con della droga all’inizio di ottobre) aveva chiesto il ricovero presso una struttura. Ma il giudice aveva detto di no.
Ieri mattina si è celebrata l’udienza davanti al tribunale del Riesame di Chima Alinno, il nigeriano accusato, insieme ad altri tre africani, di aver drogato, violentato e ucciso la sedicenne Desirè Mariottini. I giudici, che nei prossimi giorni dovranno valutare anche le posizioni di altri due ( i senegalesi Mamadou Gara e Brian Minteh), si sono riservati e decideranno nelle prossime ore.
Per dare forza al quadro probatorio, il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il sostituto Stefano Pizza che hanno coordinato le indagini, hanno depositato una serie di atti, tra cui anche alcune intercettazioni nelle quali i testimoni, in attesa di essere sentiti in questura, parlano tra di loro di quella notte, tra il 18 e il 19 ottobre. Conversazioni non sempre lineari: tutti i frequentatori dello stabile di via dei Lucani erano tossicodipendenti, ma in alcuni casi importati per le indagini. «Quella ragazzina - dice a un certo punto una di loro, Noemi Cometto- chiamava aiuto con l’anima, ve lo dico io». Alcune delle ragazze raccontano che Desirée aveva raccontato di avere quasi 18 anni. A un certo punto, sempre Noemi, viene registrata mentre racconta, annotano gli agenti della mobile, « potevano limitarsi a scopare, basta e ciao. E invece no, hanno dovuto gioca’ così co ‘na ragazzina, co la vita de ‘na ragazzina di 16 anni. Ma ce ne poteva ave’ pure 30, nun se fa’».
Le donne aspettano tutte di essere interrogate. Sono tese, angosciate. Muriel Kafusa, la ragazza che ha rivestito Desirèe e chiamato i soccorsi, « dice che le sta venendo l’ansia preoccupata di avere potuto riferire qualcosa di sbagliato - scrivono gli investigatori - Dice di averla rivestita perché era un’opera di bene, non poteva lasciare una ragazzina in quello stato davanti a degli uomini. Dice anche che quando ha iniziato a respirare con affanno le hanno tirato addosso dell’acqua».
“Niente comunità” Il no del giudice che segnò Desirée
di Maria Elena Vincenzi
La richiesta dei familiari bocciata dal magistrato minorile appena tre giorni prima della morte nel cantiere abbandonato nel cuore di San Lorenzo
Doveva andare in comunità Desirée. E magari si sarebbe salvata. Ma il tribunale dei Minori, pochi giorni prima che la sedicenne morisse in un immobile abbandonato di San Lorenzo, aveva detto che non c’era urgenza, che quella pratica poteva attendere. Il pubblico ministero, su istanza della famiglia e dei servizi sociali ( Desirèe era stata fermata con della droga all’inizio di ottobre) aveva chiesto il ricovero presso una struttura. Ma il giudice aveva detto di no.
Ieri mattina si è celebrata l’udienza davanti al tribunale del Riesame di Chima Alinno, il nigeriano accusato, insieme ad altri tre africani, di aver drogato, violentato e ucciso la sedicenne Desirè Mariottini. I giudici, che nei prossimi giorni dovranno valutare anche le posizioni di altri due ( i senegalesi Mamadou Gara e Brian Minteh), si sono riservati e decideranno nelle prossime ore.
Per dare forza al quadro probatorio, il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il sostituto Stefano Pizza che hanno coordinato le indagini, hanno depositato una serie di atti, tra cui anche alcune intercettazioni nelle quali i testimoni, in attesa di essere sentiti in questura, parlano tra di loro di quella notte, tra il 18 e il 19 ottobre. Conversazioni non sempre lineari: tutti i frequentatori dello stabile di via dei Lucani erano tossicodipendenti, ma in alcuni casi importati per le indagini. «Quella ragazzina - dice a un certo punto una di loro, Noemi Cometto- chiamava aiuto con l’anima, ve lo dico io». Alcune delle ragazze raccontano che Desirée aveva raccontato di avere quasi 18 anni. A un certo punto, sempre Noemi, viene registrata mentre racconta, annotano gli agenti della mobile, « potevano limitarsi a scopare, basta e ciao. E invece no, hanno dovuto gioca’ così co ‘na ragazzina, co la vita de ‘na ragazzina di 16 anni. Ma ce ne poteva ave’ pure 30, nun se fa’».
Le donne aspettano tutte di essere interrogate. Sono tese, angosciate. Muriel Kafusa, la ragazza che ha rivestito Desirèe e chiamato i soccorsi, « dice che le sta venendo l’ansia preoccupata di avere potuto riferire qualcosa di sbagliato - scrivono gli investigatori - Dice di averla rivestita perché era un’opera di bene, non poteva lasciare una ragazzina in quello stato davanti a degli uomini. Dice anche che quando ha iniziato a respirare con affanno le hanno tirato addosso dell’acqua».
Il Fatto 10.11.18
“Desirée doveva andare in comunità: non c’era posto”
Il tribunale dei minori ha cercato invano un centro di recupero per la ragazza dopo che era stata sorpresa a spacciare. Le strutture però erano tutte piene
di Vincenzo Bisbiglia
Il Tribunale dei minori stava cercando una comunità di recupero per Desirée Mariottini. Ma nelle strutture contattate non ci sarebbero stati posti disponibili. Il “nulla di fatto” sarebbe arrivato pochi giorni prima che la 16enne perdesse la vita nello spazio abbandonato di via dei Lucani a Roma. Un nuovo retroscena che, se confermato, potrebbe aggiungere ulteriore rammarico sulla morte della teenager di Cisterna di Latina. La ragazza era stata assegnata ai servizi sociali un paio di settimane prima dei fatti di San Lorenzo, quando fu denunciata per spaccio di hashish e Rivotril. In quell’occasione, gli assistenti sociali avrebbero concordato con la famiglia l’affidamento in comunità, mobilitando proprio il Tribunale dei minori. Ma, secondo alcune indiscrezioni sulla vicenda, non confermate dai legali della famiglia di Desirèe, il giro di telefonate alle strutture abilitate fu infruttuoso.
Nel frattempo, ieri, il Tribunale del Riesame di Roma ha discusso la richiesta di scarcerazione del nigeriano 46enne, Chima Alinno, detto ‘Sisko’, uno dei 4 africani arrestati per il presunto omicidio e la violenza sessuale della ragazzina. L’avvocato Giuseppina Tenga ha chiesto la scarcerazione dell’uomo in quanto, citando il Gip presso il Tribunale di Foggia con riferimento a Salia Yusif, uno dei quattro indagati ha spiegato che “non si evince chi sia stato (lui) a cedere alla vittima quel mix di gocce, metadone, tranquillanti e pasticche che ne avrebbe determinato la morte per grave insufficienza respiratoria”. I pm Monteleone e Pizza hanno depositato, fra le altre cose, i risultati dell’esame tossicologico che certifica come Desirée sia morta per mix di psicofarmaci e metadone. Agli atti sono finite anche intercettazioni ambientali carpite dalla polizia nella sala d’attesa della Questura di Roma, nel giorno in cui sono sfilati come testimoni, di fronte al capo della Squadra Mobile, Luigi Silipo, alcuni dei frequentatori di via dei Lucani.
A essere intercettati Narcisa, Giovanna, Muriel e Noemi, oltre al bulgaro Nasko. Stando alle trascrizioni, Giovanna avrebbe detto: “Desirée se l’è cercata, era una cretina”; “nessuno merita di morire così”. Riguardo al ruolo degli italiani, Noemi, raccontando di quando la polizia era venuta a prelevarla a casa, dice: “Hanno bussato alla porta, erano quello alto e quello grosso e pensavano che erano gli scagnozzi di Mirko”. Quindi “Giovanna cerca di zittirla facendo il verso ‘shhhh zitta’ come sa sapesse di essere ascoltata lasciando intendere che non vuole che si metta in mezzo Mirko”. Mirko sarebbe “l’ultra salviniano” di San Lorenzo (residente ad Aprilia) con precedenti per spaccio, divenuto noto per le ‘ronde’ di quartiere e gli appelli al ministro dell’Interno, che la sera successiva alla morte di Desirée aveva accompagnato il keniota ‘Pi’ a raccontare la propria versione al commissariato di zona con “l’intenzione di dare una mano”.
Si parla anche di Marco, il misterioso 35enne che tutti sembrano conoscere ma di cui la polizia non ha notizia, che potrebbe aver fornito al gruppo gli psicofarmaci letali: “Dicono sottovoce – si legge nella trascrizione – che Marco ha un coltello infilzato nella gamba. Muriel ripete che per questo motivo forse non lo aveva più visto. Giovanna dice che è stato accoltellato e ha il cranio fasciato”. E sempre sul mix di farmaci, Narcisa rivela che “Ibrahim ha detto che Marco le ha dato le gocce e lui solo le pasticche e Giovanna dice ‘uno le gocce, uno le pasticche, uno il metadone e ha fatto il cocktail’”. E Narcisa rivela che “questa boccetta l’ha portata Marco là dentro”.
“Desirée doveva andare in comunità: non c’era posto”
Il tribunale dei minori ha cercato invano un centro di recupero per la ragazza dopo che era stata sorpresa a spacciare. Le strutture però erano tutte piene
di Vincenzo Bisbiglia
Il Tribunale dei minori stava cercando una comunità di recupero per Desirée Mariottini. Ma nelle strutture contattate non ci sarebbero stati posti disponibili. Il “nulla di fatto” sarebbe arrivato pochi giorni prima che la 16enne perdesse la vita nello spazio abbandonato di via dei Lucani a Roma. Un nuovo retroscena che, se confermato, potrebbe aggiungere ulteriore rammarico sulla morte della teenager di Cisterna di Latina. La ragazza era stata assegnata ai servizi sociali un paio di settimane prima dei fatti di San Lorenzo, quando fu denunciata per spaccio di hashish e Rivotril. In quell’occasione, gli assistenti sociali avrebbero concordato con la famiglia l’affidamento in comunità, mobilitando proprio il Tribunale dei minori. Ma, secondo alcune indiscrezioni sulla vicenda, non confermate dai legali della famiglia di Desirèe, il giro di telefonate alle strutture abilitate fu infruttuoso.
Nel frattempo, ieri, il Tribunale del Riesame di Roma ha discusso la richiesta di scarcerazione del nigeriano 46enne, Chima Alinno, detto ‘Sisko’, uno dei 4 africani arrestati per il presunto omicidio e la violenza sessuale della ragazzina. L’avvocato Giuseppina Tenga ha chiesto la scarcerazione dell’uomo in quanto, citando il Gip presso il Tribunale di Foggia con riferimento a Salia Yusif, uno dei quattro indagati ha spiegato che “non si evince chi sia stato (lui) a cedere alla vittima quel mix di gocce, metadone, tranquillanti e pasticche che ne avrebbe determinato la morte per grave insufficienza respiratoria”. I pm Monteleone e Pizza hanno depositato, fra le altre cose, i risultati dell’esame tossicologico che certifica come Desirée sia morta per mix di psicofarmaci e metadone. Agli atti sono finite anche intercettazioni ambientali carpite dalla polizia nella sala d’attesa della Questura di Roma, nel giorno in cui sono sfilati come testimoni, di fronte al capo della Squadra Mobile, Luigi Silipo, alcuni dei frequentatori di via dei Lucani.
A essere intercettati Narcisa, Giovanna, Muriel e Noemi, oltre al bulgaro Nasko. Stando alle trascrizioni, Giovanna avrebbe detto: “Desirée se l’è cercata, era una cretina”; “nessuno merita di morire così”. Riguardo al ruolo degli italiani, Noemi, raccontando di quando la polizia era venuta a prelevarla a casa, dice: “Hanno bussato alla porta, erano quello alto e quello grosso e pensavano che erano gli scagnozzi di Mirko”. Quindi “Giovanna cerca di zittirla facendo il verso ‘shhhh zitta’ come sa sapesse di essere ascoltata lasciando intendere che non vuole che si metta in mezzo Mirko”. Mirko sarebbe “l’ultra salviniano” di San Lorenzo (residente ad Aprilia) con precedenti per spaccio, divenuto noto per le ‘ronde’ di quartiere e gli appelli al ministro dell’Interno, che la sera successiva alla morte di Desirée aveva accompagnato il keniota ‘Pi’ a raccontare la propria versione al commissariato di zona con “l’intenzione di dare una mano”.
Si parla anche di Marco, il misterioso 35enne che tutti sembrano conoscere ma di cui la polizia non ha notizia, che potrebbe aver fornito al gruppo gli psicofarmaci letali: “Dicono sottovoce – si legge nella trascrizione – che Marco ha un coltello infilzato nella gamba. Muriel ripete che per questo motivo forse non lo aveva più visto. Giovanna dice che è stato accoltellato e ha il cranio fasciato”. E sempre sul mix di farmaci, Narcisa rivela che “Ibrahim ha detto che Marco le ha dato le gocce e lui solo le pasticche e Giovanna dice ‘uno le gocce, uno le pasticche, uno il metadone e ha fatto il cocktail’”. E Narcisa rivela che “questa boccetta l’ha portata Marco là dentro”.
Repubblica 10.11.18
l sondaggio Demos
Salvini convince gli elettori grillini due su tre dicono no ai migranti
Oltre la metà degli italiani condivide i respingimenti delle navi. In dodici mesi atteggiamento ribaltato, soprattutto tra i ceti più esposti alla crisi. Ma ci sono anche motivi di ordine politico
di Ilvo Diamanti
L’immigrazione è divenuta un tema determinante nella scelta di voto. Non solo In Italia. Dove, però, ha condizionato l’esito delle elezioni di marzo, ma anche gli orientamenti politici nei mesi seguenti. Ha, infatti, contribuito a canalizzare i consensi a favore della Lega di Salvini. Che ha utilizzato l’argomento per alimentare l’in-sicurezza degli italiani. Presentandosi come il "Ministro della Paura". Un personaggio "raffigurato", in modo esemplare, oltre che "pre-figurativo", da Antonio Albanese, alcuni anni fa.
D’altronde, nello scorso mese di giugno abbiamo inseguito, sui media, oltre che per mare, la nave Aquarius. Per 9 giorni, ha vagato nel Mediterraneo, alla ricerca di un porto dove sbarcare gli oltre 600 migranti (e più di 100 minori) che trasportava. Prima di approdare a Valencia, dopo il rifiuto di Malta e dell’Italia.
Dettato, anzitutto dal vice-premier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Un "viaggio" accompagnato, un passo dopo l’altro, dai media (come rileva Osservatorio di Pavia per Associazione Carta di Roma).
All’Aquarius, infatti vengono dedicati circa 4-5 servizi ogni sera nei principali notiziari tv ( TG1, TG2, TG3, TG4, TG5, Studio Aperto, TgLa7). Il caso Aquarius occupa, peraltro, per 35 volte le prime pagine dei quotidiani nazionali ( Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, Il Giornale, Avvenire, Il Fatto quotidiano). Significativa è anche l’attenzione dedicata, a fine agosto, alla nave Diciotti.
Trasportava anch’essa oltre cento migranti, accolti in larga parte dalla Cei. Cioè, dai vescovi italiani. Il sondaggio, condotto da Demos nelle ultime settimane, rileva come questa "chiusura" verso gli sbarchi costituisca una scelta "popolare", oltre che "populista".
Condivisa da oltre la metà degli italiani (nel campione intervistato). Per la precisione: il 52%. Mentre la disponibilità ad accogliere le navi che trasportano migranti si riduce sensibilmente: al 40%. Tuttavia, non è stato sempre così. Anzi, solo un anno fa, le opinioni degli italiani presentavano un profilo molto diverso. Quasi rovesciato. Il 49%, infatti, sosteneva che fosse importante puntare sull’accoglienza. Mentre il 44% avrebbe preferito respingerli.
L’atteggiamento degli italiani, dunque, è cambiato sensibilmente. In tempi relativamente brevi.
La richiesta di tenere lontani gli stranieri dai nostri porti e dal nostro Paese risuona particolarmente forte fra gli operai (quasi 62%) ma soprattutto fra i disoccupati (oltre il 70%).
Dunque, presso i gruppi sociali più esposti alla crisi. Tuttavia, risulta molto elevato anche fra i lavoratori autonomi. Che sentono anch’essi il peso dei cambiamenti economici. In altri termini: c’è maggiore chiusura (in ogni senso) fra le componenti sociali più vulnerabili, sul mercato del lavoro. L’aspetto che condiziona maggiormente l’ostilità verso gli sbarchi, però, appare l’orientamento politico. La scelta di voto. Fra gli elettori della Lega, infatti, la preclusione verso gli sbarchi raggiunge l’84%. Al contrario, quasi l’80% tra gli elettori del Pd dimostra apertura verso il fenomeno. Tuttavia, è interessante valutare come il sentimento sia cambiato sensibilmente nell’ultimo anno.
Cioè: dopo le elezioni di marzo. In particolare, se teniamo conto della posizione assunta dai principali partiti fra governo e opposizione. Tra gennaio 2017 e ottobre 2018, il favore verso l’accoglienza, nella base elettorale del Pd, sale di oltre 10 punti. Dal 66% al 79%. Ma lo stesso avviene tra chi vota per Forza Italia: dal 37% al 49%. In questo caso, più della posizione politica sull’asse destra/sinistra, conta la volontà di distinguersi e distanziarsi dalla Lega di Salvini. Che ha ripudiato l’alleanza con Berlusconi, dopo le elezioni, per governare. Insieme al M5S. Il Pd e FI, d’altronde, negli ultimi mesi hanno visto ridursi la loro base elettorale.
Nel M5S è avvenuto un percorso opposto. Soltanto un anno fa: imprevedibile. Nel 2017, infatti, quasi metà degli elettori a 5S approvava l’accoglienza delle navi che trasportano immigrati. Oggi, però, poco più di un quarto sostiene questa posizione, mentre i due terzi la pensano come i leghisti. Cioè: che le navi vadano respinte.
Così, si conferma un processo già rilevato, alcune settimane fa, in una precedente Mappa.
L’avvicinamento e, ancor più l’integrazione, dei 5S e della loro base elettorale non solo all’area di governo. Ma alla Lega e, ancor più, a Matteo Salvini. In altri termini: alla Lega di Salvini. LdS. E ciò suggerisce due diverse riflessioni.
La prima, di breve periodo, riguarda la leadership assunta da Salvini e dalla sua Lega. In grado di attrarre e, quasi, riassumere anche il M5S. Trasformandosi in una L5S: una Lega a 5 stelle.
Capace, inoltre, di imporsi come punto di attrazione e divisione per l’intero sistema politico. Usando le paure come argomento e come bandiera.
L’altra riflessione è che le opinioni non sono immobili. Che gli italiani non sono contrari agli sbarchi di navi che trasportano immigrati dalle sponde del Nord Africa. Per principio. Un anno fa non lo erano. Lo sono divenuti in seguito. Spinti e orientati dagli argomenti e dalla comunicazione politica. Di Salvini. Della Lega.
Gli italiani. Non sono xenofobi per cultura e natura. Possono cambiare ancora. Dipende dalla capacità dei soggetti sociali e politici che la pensano "diversamente" di promuovere idee e convinzioni "diverse". Volte a superare "la paura dell’altro".
Non per principio. Ma con "ragioni ragionevoli".
l sondaggio Demos
Salvini convince gli elettori grillini due su tre dicono no ai migranti
Oltre la metà degli italiani condivide i respingimenti delle navi. In dodici mesi atteggiamento ribaltato, soprattutto tra i ceti più esposti alla crisi. Ma ci sono anche motivi di ordine politico
di Ilvo Diamanti
L’immigrazione è divenuta un tema determinante nella scelta di voto. Non solo In Italia. Dove, però, ha condizionato l’esito delle elezioni di marzo, ma anche gli orientamenti politici nei mesi seguenti. Ha, infatti, contribuito a canalizzare i consensi a favore della Lega di Salvini. Che ha utilizzato l’argomento per alimentare l’in-sicurezza degli italiani. Presentandosi come il "Ministro della Paura". Un personaggio "raffigurato", in modo esemplare, oltre che "pre-figurativo", da Antonio Albanese, alcuni anni fa.
D’altronde, nello scorso mese di giugno abbiamo inseguito, sui media, oltre che per mare, la nave Aquarius. Per 9 giorni, ha vagato nel Mediterraneo, alla ricerca di un porto dove sbarcare gli oltre 600 migranti (e più di 100 minori) che trasportava. Prima di approdare a Valencia, dopo il rifiuto di Malta e dell’Italia.
Dettato, anzitutto dal vice-premier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Un "viaggio" accompagnato, un passo dopo l’altro, dai media (come rileva Osservatorio di Pavia per Associazione Carta di Roma).
All’Aquarius, infatti vengono dedicati circa 4-5 servizi ogni sera nei principali notiziari tv ( TG1, TG2, TG3, TG4, TG5, Studio Aperto, TgLa7). Il caso Aquarius occupa, peraltro, per 35 volte le prime pagine dei quotidiani nazionali ( Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, Il Giornale, Avvenire, Il Fatto quotidiano). Significativa è anche l’attenzione dedicata, a fine agosto, alla nave Diciotti.
Trasportava anch’essa oltre cento migranti, accolti in larga parte dalla Cei. Cioè, dai vescovi italiani. Il sondaggio, condotto da Demos nelle ultime settimane, rileva come questa "chiusura" verso gli sbarchi costituisca una scelta "popolare", oltre che "populista".
Condivisa da oltre la metà degli italiani (nel campione intervistato). Per la precisione: il 52%. Mentre la disponibilità ad accogliere le navi che trasportano migranti si riduce sensibilmente: al 40%. Tuttavia, non è stato sempre così. Anzi, solo un anno fa, le opinioni degli italiani presentavano un profilo molto diverso. Quasi rovesciato. Il 49%, infatti, sosteneva che fosse importante puntare sull’accoglienza. Mentre il 44% avrebbe preferito respingerli.
L’atteggiamento degli italiani, dunque, è cambiato sensibilmente. In tempi relativamente brevi.
La richiesta di tenere lontani gli stranieri dai nostri porti e dal nostro Paese risuona particolarmente forte fra gli operai (quasi 62%) ma soprattutto fra i disoccupati (oltre il 70%).
Dunque, presso i gruppi sociali più esposti alla crisi. Tuttavia, risulta molto elevato anche fra i lavoratori autonomi. Che sentono anch’essi il peso dei cambiamenti economici. In altri termini: c’è maggiore chiusura (in ogni senso) fra le componenti sociali più vulnerabili, sul mercato del lavoro. L’aspetto che condiziona maggiormente l’ostilità verso gli sbarchi, però, appare l’orientamento politico. La scelta di voto. Fra gli elettori della Lega, infatti, la preclusione verso gli sbarchi raggiunge l’84%. Al contrario, quasi l’80% tra gli elettori del Pd dimostra apertura verso il fenomeno. Tuttavia, è interessante valutare come il sentimento sia cambiato sensibilmente nell’ultimo anno.
Cioè: dopo le elezioni di marzo. In particolare, se teniamo conto della posizione assunta dai principali partiti fra governo e opposizione. Tra gennaio 2017 e ottobre 2018, il favore verso l’accoglienza, nella base elettorale del Pd, sale di oltre 10 punti. Dal 66% al 79%. Ma lo stesso avviene tra chi vota per Forza Italia: dal 37% al 49%. In questo caso, più della posizione politica sull’asse destra/sinistra, conta la volontà di distinguersi e distanziarsi dalla Lega di Salvini. Che ha ripudiato l’alleanza con Berlusconi, dopo le elezioni, per governare. Insieme al M5S. Il Pd e FI, d’altronde, negli ultimi mesi hanno visto ridursi la loro base elettorale.
Nel M5S è avvenuto un percorso opposto. Soltanto un anno fa: imprevedibile. Nel 2017, infatti, quasi metà degli elettori a 5S approvava l’accoglienza delle navi che trasportano immigrati. Oggi, però, poco più di un quarto sostiene questa posizione, mentre i due terzi la pensano come i leghisti. Cioè: che le navi vadano respinte.
Così, si conferma un processo già rilevato, alcune settimane fa, in una precedente Mappa.
L’avvicinamento e, ancor più l’integrazione, dei 5S e della loro base elettorale non solo all’area di governo. Ma alla Lega e, ancor più, a Matteo Salvini. In altri termini: alla Lega di Salvini. LdS. E ciò suggerisce due diverse riflessioni.
La prima, di breve periodo, riguarda la leadership assunta da Salvini e dalla sua Lega. In grado di attrarre e, quasi, riassumere anche il M5S. Trasformandosi in una L5S: una Lega a 5 stelle.
Capace, inoltre, di imporsi come punto di attrazione e divisione per l’intero sistema politico. Usando le paure come argomento e come bandiera.
L’altra riflessione è che le opinioni non sono immobili. Che gli italiani non sono contrari agli sbarchi di navi che trasportano immigrati dalle sponde del Nord Africa. Per principio. Un anno fa non lo erano. Lo sono divenuti in seguito. Spinti e orientati dagli argomenti e dalla comunicazione politica. Di Salvini. Della Lega.
Gli italiani. Non sono xenofobi per cultura e natura. Possono cambiare ancora. Dipende dalla capacità dei soggetti sociali e politici che la pensano "diversamente" di promuovere idee e convinzioni "diverse". Volte a superare "la paura dell’altro".
Non per principio. Ma con "ragioni ragionevoli".
Il Fatto 10.11.18
A Trieste cacciamo i profughi: le prove
Dall’Italia alla Serbia. Pachistani e afghani avrebbero diritto all’asilo, vengono però riconsegnati al confine dalla nostra polizia a quella slovena. Da qui ripercorrono a ritroso la rotta balcanica. Obiettivo: respingerli dall’Ue. Ma è illegale
Non-persone. Gli abusi e le violazioni dei diritti fondamentali dei migranti all’interno delle frontiere europee sono stati più volte denunciati dalle ong. Questo reportage fotografico racconta uno dei tanti “campi profughi spontanei” nati in Serbia in edifici abbandonati – Ansa
di Gianni Barbacetto
La prova dei comportamenti fuori legge della polizia italiana al confine di Trieste è un documento un po’ stropicciato che Nveed K. tira fuori dalla tasca dei jeans. È nato 21 anni fa a Jalalabad, in Afghanistan. Il 28 ottobre scorso è stato fermato a Trieste. In quanto afghano, dovrebbe avere diritto all’asilo in un Paese europeo. Certamente ha il diritto di farne richiesta, aspettando la risposta in Italia. Invece è stato preso, portato nella caserma di Fernetti, al confine con la Slovenia, identificato e poi consegnato ai poliziotti sloveni.
È stato riportato in Serbia, la nuova Libia delle rotte di terra. Faceva parte di un gruppetto di quindici afghani, arrivati insieme quel giorno a Trieste, tutti espulsi in modo irregolare dall’Italia e ora finiti nel ghetto serbo di Šid, una minuscola nuova “Giungla di Calais”, abitata dai migranti cacciati segretamente dall’Italia e in attesa di ritentare la fortuna, riprendendo il viaggio della speranza verso Trieste.
A raccontare la storia è un compagno d’avventura di Nveed. Si chiama Mosum K. È un ragazzo di 19 anni con i capelli ricci. Parla solo pashtun, non capisce né l’italiano, né l’inglese. Lo traduce, collegato a Internet, un connazionale che ce l’ha fatta a stabilirsi in Italia.
“Eravamo felici, dopo un viaggio di mesi
siamo finalmente arrivati in Italia”
“Siamo arrivati a Trieste il 28 ottobre. Eravamo felici. Avevamo fatto un viaggio durato sei giorni, dalla Serbia all’Italia. Eravamo un gruppo di quindici afghani. Io ho pagato 2 mila euro a un capo, per il viaggio attraverso la Croazia e la Slovenia. Ci portavano in macchina, di giorno. Le persone che ci portavano cambiavano ogni volta. Di notte ci fermavamo nei boschi e dormivamo in qualche riparo, in qualche casa abbandonata. L’ultimo pezzo, nei boschi, l’abbiamo fatto a piedi. Ci hanno fatto passare il confine invisibile tra Slovenia e Italia non tutti insieme, ma cinque alla volta, finché siamo arrivati tutti in territorio italiano e abbiamo raggiunto la fermata di un autobus che ci ha portato a Trieste. Eravamo proprio felici. Ce l’avevamo fatta”. Continua Mosum: “Era mattina. Stavamo camminando per la città, quando è arrivata la polizia. Non ci hanno chiesto niente, ci hanno solo presi e portati in caserma. Siamo stati fotografati, ci hanno preso le impronte digitali, ci hanno fatto firmare delle carte. Mi hanno dato un pezzo di carta con stampate delle parole e delle firme e un timbro. No, non ce l’ho più, l’ho buttato via. Io non capivo niente. Volevo chiedere asilo e restare in Italia. Mi sembrava stesse andando tutto bene. A un certo punto ci hanno portato via. Io credevo ci portassero in un campo d’accoglienza, avevo capito così, invece ci hanno portato di nuovo alla frontiera e consegnati alla polizia slovena. È ricominciato il nostro viaggio all’incontrario”.
“Riportati in Slovenia, poi in Croazia bastonati e cacciati in Serbia”
“Il ritorno è stato molto più breve”, prosegue Mosum. “In un giorno e mezzo siamo arrivati in Serbia, portati nei furgoni dei poliziotti sloveni, che poi ci hanno consegnato a quelli croati. Fino al confine con la Serbia, dove ci hanno lasciato i croati, che ci hanno salutato prendendoci a bastonate. Adesso sto qui, di giorno vado in giro, la notte mi riparo nel campo di Šid. È una struttura abbandonata e ci sono varie tende. Per fortuna ci sono dei volontari che vengono ad aiutarci. Ho riprovato a tornare verso l’Italia una decina di volte. Non ce l’ho mai fatta. Non ci lasciano più uscire dalla Serbia. Sono disperato, non so più cosa fare. Ho perso la speranza”.
“In Afghanistan”, racconta Mosum, “studiavo scienza informatica. In famiglia siamo in otto, mio padre, mia madre, due sorelle e quattro fratelli. Per arrivare in Serbia ci avevo messo più di un mese, attraverso l’Iran e la Turchia. Viaggiavo con mezzi privati e i confini li passavo a piedi. In tutto, il viaggio dall’Afghanistan all’Italia mi è costato più di 6 mila euro”, conclude Mosum, “ma adesso non so più davvero che cosa fare”.
Il campo di Šid, la “Giungla di Calais” in Serbia “Qui ho perso tutte le speranze”
Šid è una cittadina serba a 5 chilometri dal confine con la Croazia. Da anni è zona di passaggio dei migranti che cercano di entrare in Europa percorrendo la rotta balcanica. Attorno a Šid ci sono alcuni campi profughi ufficiali, gestiti dal governo serbo, in cui vivono migliaia di persone. Uno di questi, quello di Principovac, ne ospita circa 350. “Molti ragazzi preferiscono però non stare nei campi ufficiali”, racconta Alessia, una volontaria appena tornata da Šid, “e vivono in un campo informale fuori città. È un edificio abbandonato, senza più né porte né finestre, dove di notte ci sono, in questo periodo, circa 150 persone. Accanto alle strutture in muratura ci sono anche alcune tende. Negli ultimi mesi sono aumentati i minori non accompagnati, ragazzini dagli undici, dodici anni, fino ai diciassette. Tutti sono in attesa di ripartire, di tentare l’ingresso in Italia. Di giorno vivono in giro, cercano di non farsi vedere troppo in città perché sanno di non essere graditi, la sera tornano a dormire nel campo. Per mangiare si arrangiano. Ora è presente una organizzazione spagnola, ‘No name kitchen’, che fornisce a tutti un pasto al giorno e qualche vestito”.
Si chiamano, con un eufemismo che nasconde nel nome la brutalità della cosa, “riammissioni”. Sono respingimenti di migranti che la polizia italiana ferma appena hanno passato il confine e riconsegna alla polizia slovena. “Sono regolari, compiute in forza di un accordo bilaterale tra Italia e Slovenia”, spiegano alla questura di Trieste.
Il questore, Isabella Fusiello, lo aveva già messo nero su bianco dopo le polemiche suscitate da un’inchiesta del quotidiano La Stampa, che il 2 novembre aveva scritto di migranti consegnati agli sloveni e rimandati in Bosnia. “I migranti che vengono riammessi sono quelli che hanno espresso al personale della polizia di Stato la volontà di non richiedere asilo politico”, aveva scritto Fusiello. “L’intera procedura viene documentata con provvedimento formale anche alla presenza di interpreti esterni all’organizzazione della polizia di Stato e impiegati come mediatori culturali”.
La catena informale internazionale che caccia i migranti fuori dall’area Schengen
Scuote la testa Gianfranco Schiavone, presidente di Ics, l’organizzazione che a Trieste si occupa d’accoglienza insieme alla Caritas diocesana. “Le riammissioni sono illegali. Abbiamo molte testimonianze di persone che sono state ricacciate in Slovenia e poi portate in Serbia o in Bosnia, quindi buttate fuori dall’area di Schengen, ma che invece avevano diritto di chiedere asilo in Italia e quindi di attendere qui la risposta sull’accoglimento o meno della loro richiesta. La verità è che la polizia non ha interpreti che si facciano davvero capire, quei poveretti che arrivano non sanno una parola né di italiano, né di inglese. Noi abbiamo offerto più volte l’intervento dei nostri mediatori culturali: ci hanno sempre respinto”.
L’ipotesi di Schiavone è che negli ultimi mesi si sia affermata una pratica che punta a espellere più persone possibile, riconsegnate agli sloveni, che a loro volta le consegnano ai croati, i quali li buttano fuori dall’area Schengen in Serbia o in Bosnia, con metodi spicci e non senza violenza. Si è creata una catena internazionale informale Italia-Slovenia-Croazia-Serbia che serve ad alleggerire gli ingressi in Italia e a sgonfiare le statistiche. “Per i migranti è una lotteria”, dice Schiavone, “alcuni sono accolti regolarmente, altri riconsegnati agli sloveni. Alcuni ce la fanno a chiedere asilo al secondo o terzo tentativo. È la prova delle riammissioni illegittime: è sempre la stessa persona, se alla seconda o terza volta riesce a fare domanda d’asilo, vuol dire che poteva farla anche la prima”.
Il questore di Trieste: “Se cambiano idea, non è colpa nostra”
“Tutto quello che facciamo, lo facciamo secondo le regole”, assicura il questore di Trieste Isabella Fusiello. “A chi è fermato in prossimità della frontiera viene presentato un modulo plurilingue in cui è chiaramente chiesto se vuole chiedere asilo oppure no. Solo chi dice no viene ‘riammesso’ in Slovenia. Oltre al modulo, c’è anche l’interprete, che oltretutto non è della questura, ma ci viene ‘prestato’ dalle organizzazioni che gestiscono i migranti. Ripeto, chi è stato riportato in Slovenia è perché ha fatto capire di non voler chiedere asilo. Se poi cambia idea, e a voi viene a dire un’altra cosa, non ci posso fare niente. Loro possono dire quello che vogliono, noi abbiamo gli atti che provano la correttezza del nostro operato”.
Comunque sia, il fronte orientale dell’immigrazione è diventato ben più “caldo” di quello occidentale, che pure nei mesi scorsi ha visto l’accendersi di una piccola guerra fredda tra Italia e Francia, per alcuni episodi di sconfinamento della Gendarmerie a Bardonecchia, dove i gendarmi francesi hanno fermato un cittadino nigeriano alla stazione, e a Claviere, dove sono stati riportati migranti, scaricati dai francesi in un bosco in territorio italiano. Sui fatti sta indagando, non senza difficoltà, la Procura di Torino. Ma Italia e Francia sono due Paesi dell’Unione europea che si rimpallano tra loro migranti. Sul fronte orientale starebbe invece avvenendo qualcosa che infrange le norme del regolamento di Dublino 3: l’espulsione in Paesi fuori area Schengen (Serbia e Bosnia) di persone a cui non viene permesso di fare domanda di asilo in Italia, con poliziotti italiani che le consegnano, al confine, alla polizia slovena. Da chi hanno avuto l’ordine?
A Trieste cacciamo i profughi: le prove
Dall’Italia alla Serbia. Pachistani e afghani avrebbero diritto all’asilo, vengono però riconsegnati al confine dalla nostra polizia a quella slovena. Da qui ripercorrono a ritroso la rotta balcanica. Obiettivo: respingerli dall’Ue. Ma è illegale
Non-persone. Gli abusi e le violazioni dei diritti fondamentali dei migranti all’interno delle frontiere europee sono stati più volte denunciati dalle ong. Questo reportage fotografico racconta uno dei tanti “campi profughi spontanei” nati in Serbia in edifici abbandonati – Ansa
di Gianni Barbacetto
La prova dei comportamenti fuori legge della polizia italiana al confine di Trieste è un documento un po’ stropicciato che Nveed K. tira fuori dalla tasca dei jeans. È nato 21 anni fa a Jalalabad, in Afghanistan. Il 28 ottobre scorso è stato fermato a Trieste. In quanto afghano, dovrebbe avere diritto all’asilo in un Paese europeo. Certamente ha il diritto di farne richiesta, aspettando la risposta in Italia. Invece è stato preso, portato nella caserma di Fernetti, al confine con la Slovenia, identificato e poi consegnato ai poliziotti sloveni.
È stato riportato in Serbia, la nuova Libia delle rotte di terra. Faceva parte di un gruppetto di quindici afghani, arrivati insieme quel giorno a Trieste, tutti espulsi in modo irregolare dall’Italia e ora finiti nel ghetto serbo di Šid, una minuscola nuova “Giungla di Calais”, abitata dai migranti cacciati segretamente dall’Italia e in attesa di ritentare la fortuna, riprendendo il viaggio della speranza verso Trieste.
A raccontare la storia è un compagno d’avventura di Nveed. Si chiama Mosum K. È un ragazzo di 19 anni con i capelli ricci. Parla solo pashtun, non capisce né l’italiano, né l’inglese. Lo traduce, collegato a Internet, un connazionale che ce l’ha fatta a stabilirsi in Italia.
“Eravamo felici, dopo un viaggio di mesi
siamo finalmente arrivati in Italia”
“Siamo arrivati a Trieste il 28 ottobre. Eravamo felici. Avevamo fatto un viaggio durato sei giorni, dalla Serbia all’Italia. Eravamo un gruppo di quindici afghani. Io ho pagato 2 mila euro a un capo, per il viaggio attraverso la Croazia e la Slovenia. Ci portavano in macchina, di giorno. Le persone che ci portavano cambiavano ogni volta. Di notte ci fermavamo nei boschi e dormivamo in qualche riparo, in qualche casa abbandonata. L’ultimo pezzo, nei boschi, l’abbiamo fatto a piedi. Ci hanno fatto passare il confine invisibile tra Slovenia e Italia non tutti insieme, ma cinque alla volta, finché siamo arrivati tutti in territorio italiano e abbiamo raggiunto la fermata di un autobus che ci ha portato a Trieste. Eravamo proprio felici. Ce l’avevamo fatta”. Continua Mosum: “Era mattina. Stavamo camminando per la città, quando è arrivata la polizia. Non ci hanno chiesto niente, ci hanno solo presi e portati in caserma. Siamo stati fotografati, ci hanno preso le impronte digitali, ci hanno fatto firmare delle carte. Mi hanno dato un pezzo di carta con stampate delle parole e delle firme e un timbro. No, non ce l’ho più, l’ho buttato via. Io non capivo niente. Volevo chiedere asilo e restare in Italia. Mi sembrava stesse andando tutto bene. A un certo punto ci hanno portato via. Io credevo ci portassero in un campo d’accoglienza, avevo capito così, invece ci hanno portato di nuovo alla frontiera e consegnati alla polizia slovena. È ricominciato il nostro viaggio all’incontrario”.
“Riportati in Slovenia, poi in Croazia bastonati e cacciati in Serbia”
“Il ritorno è stato molto più breve”, prosegue Mosum. “In un giorno e mezzo siamo arrivati in Serbia, portati nei furgoni dei poliziotti sloveni, che poi ci hanno consegnato a quelli croati. Fino al confine con la Serbia, dove ci hanno lasciato i croati, che ci hanno salutato prendendoci a bastonate. Adesso sto qui, di giorno vado in giro, la notte mi riparo nel campo di Šid. È una struttura abbandonata e ci sono varie tende. Per fortuna ci sono dei volontari che vengono ad aiutarci. Ho riprovato a tornare verso l’Italia una decina di volte. Non ce l’ho mai fatta. Non ci lasciano più uscire dalla Serbia. Sono disperato, non so più cosa fare. Ho perso la speranza”.
“In Afghanistan”, racconta Mosum, “studiavo scienza informatica. In famiglia siamo in otto, mio padre, mia madre, due sorelle e quattro fratelli. Per arrivare in Serbia ci avevo messo più di un mese, attraverso l’Iran e la Turchia. Viaggiavo con mezzi privati e i confini li passavo a piedi. In tutto, il viaggio dall’Afghanistan all’Italia mi è costato più di 6 mila euro”, conclude Mosum, “ma adesso non so più davvero che cosa fare”.
Il campo di Šid, la “Giungla di Calais” in Serbia “Qui ho perso tutte le speranze”
Šid è una cittadina serba a 5 chilometri dal confine con la Croazia. Da anni è zona di passaggio dei migranti che cercano di entrare in Europa percorrendo la rotta balcanica. Attorno a Šid ci sono alcuni campi profughi ufficiali, gestiti dal governo serbo, in cui vivono migliaia di persone. Uno di questi, quello di Principovac, ne ospita circa 350. “Molti ragazzi preferiscono però non stare nei campi ufficiali”, racconta Alessia, una volontaria appena tornata da Šid, “e vivono in un campo informale fuori città. È un edificio abbandonato, senza più né porte né finestre, dove di notte ci sono, in questo periodo, circa 150 persone. Accanto alle strutture in muratura ci sono anche alcune tende. Negli ultimi mesi sono aumentati i minori non accompagnati, ragazzini dagli undici, dodici anni, fino ai diciassette. Tutti sono in attesa di ripartire, di tentare l’ingresso in Italia. Di giorno vivono in giro, cercano di non farsi vedere troppo in città perché sanno di non essere graditi, la sera tornano a dormire nel campo. Per mangiare si arrangiano. Ora è presente una organizzazione spagnola, ‘No name kitchen’, che fornisce a tutti un pasto al giorno e qualche vestito”.
Si chiamano, con un eufemismo che nasconde nel nome la brutalità della cosa, “riammissioni”. Sono respingimenti di migranti che la polizia italiana ferma appena hanno passato il confine e riconsegna alla polizia slovena. “Sono regolari, compiute in forza di un accordo bilaterale tra Italia e Slovenia”, spiegano alla questura di Trieste.
Il questore, Isabella Fusiello, lo aveva già messo nero su bianco dopo le polemiche suscitate da un’inchiesta del quotidiano La Stampa, che il 2 novembre aveva scritto di migranti consegnati agli sloveni e rimandati in Bosnia. “I migranti che vengono riammessi sono quelli che hanno espresso al personale della polizia di Stato la volontà di non richiedere asilo politico”, aveva scritto Fusiello. “L’intera procedura viene documentata con provvedimento formale anche alla presenza di interpreti esterni all’organizzazione della polizia di Stato e impiegati come mediatori culturali”.
La catena informale internazionale che caccia i migranti fuori dall’area Schengen
Scuote la testa Gianfranco Schiavone, presidente di Ics, l’organizzazione che a Trieste si occupa d’accoglienza insieme alla Caritas diocesana. “Le riammissioni sono illegali. Abbiamo molte testimonianze di persone che sono state ricacciate in Slovenia e poi portate in Serbia o in Bosnia, quindi buttate fuori dall’area di Schengen, ma che invece avevano diritto di chiedere asilo in Italia e quindi di attendere qui la risposta sull’accoglimento o meno della loro richiesta. La verità è che la polizia non ha interpreti che si facciano davvero capire, quei poveretti che arrivano non sanno una parola né di italiano, né di inglese. Noi abbiamo offerto più volte l’intervento dei nostri mediatori culturali: ci hanno sempre respinto”.
L’ipotesi di Schiavone è che negli ultimi mesi si sia affermata una pratica che punta a espellere più persone possibile, riconsegnate agli sloveni, che a loro volta le consegnano ai croati, i quali li buttano fuori dall’area Schengen in Serbia o in Bosnia, con metodi spicci e non senza violenza. Si è creata una catena internazionale informale Italia-Slovenia-Croazia-Serbia che serve ad alleggerire gli ingressi in Italia e a sgonfiare le statistiche. “Per i migranti è una lotteria”, dice Schiavone, “alcuni sono accolti regolarmente, altri riconsegnati agli sloveni. Alcuni ce la fanno a chiedere asilo al secondo o terzo tentativo. È la prova delle riammissioni illegittime: è sempre la stessa persona, se alla seconda o terza volta riesce a fare domanda d’asilo, vuol dire che poteva farla anche la prima”.
Il questore di Trieste: “Se cambiano idea, non è colpa nostra”
“Tutto quello che facciamo, lo facciamo secondo le regole”, assicura il questore di Trieste Isabella Fusiello. “A chi è fermato in prossimità della frontiera viene presentato un modulo plurilingue in cui è chiaramente chiesto se vuole chiedere asilo oppure no. Solo chi dice no viene ‘riammesso’ in Slovenia. Oltre al modulo, c’è anche l’interprete, che oltretutto non è della questura, ma ci viene ‘prestato’ dalle organizzazioni che gestiscono i migranti. Ripeto, chi è stato riportato in Slovenia è perché ha fatto capire di non voler chiedere asilo. Se poi cambia idea, e a voi viene a dire un’altra cosa, non ci posso fare niente. Loro possono dire quello che vogliono, noi abbiamo gli atti che provano la correttezza del nostro operato”.
Comunque sia, il fronte orientale dell’immigrazione è diventato ben più “caldo” di quello occidentale, che pure nei mesi scorsi ha visto l’accendersi di una piccola guerra fredda tra Italia e Francia, per alcuni episodi di sconfinamento della Gendarmerie a Bardonecchia, dove i gendarmi francesi hanno fermato un cittadino nigeriano alla stazione, e a Claviere, dove sono stati riportati migranti, scaricati dai francesi in un bosco in territorio italiano. Sui fatti sta indagando, non senza difficoltà, la Procura di Torino. Ma Italia e Francia sono due Paesi dell’Unione europea che si rimpallano tra loro migranti. Sul fronte orientale starebbe invece avvenendo qualcosa che infrange le norme del regolamento di Dublino 3: l’espulsione in Paesi fuori area Schengen (Serbia e Bosnia) di persone a cui non viene permesso di fare domanda di asilo in Italia, con poliziotti italiani che le consegnano, al confine, alla polizia slovena. Da chi hanno avuto l’ordine?