martedì 21 luglio 2015

Corriere La Lettura 24.6.12
La medicina è servizio
La società ha ribaltato il senso del termine terapia: non più «prendersi cura», ma «curare»
di Umberto Curi


«Servizio» — è questo il significato originario del termine greco therapeía. E dunque è letteralmente «servitore», colui che svolga la funzione del therápon. Nell'Iliade, Patroclo, Automedonte, Alcimo sono presentati come therápontes rispetto ad Achille, perché sono appunto al suo «servizio», perché lo «assistono», agendo quali attendenti del grande guerriero. Di qui anche il comportamento al quale essi dovranno attenersi. In quattro luoghi distinti del poema, riferendosi specificamente a Patroclo, Omero impiega la stessa formula: phílo epepeítheth' etaíro — «obbedì all'amico». La therapeía implica l'obbedienza. Non si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, se non ponendosi totalmente al servizio del proprio «assistito» e dunque prestandogli obbedienza.
Un contesto di significati molto simile si ritrova anche in relazione al termine latino che corrisponde quasi letteralmente alla parola greca therapeía. Difatti, cura sta a indicare anzitutto la «sollecitudine», la «premura», l'«interesse» per qualcuno o (più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa disposizione affettiva e/o emotiva debba necessariamente concretizzarsi in qualche atto definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire per prima cosa «stare in pensiero», essere «preoccupati» per lui.
Una traccia non irrilevante di questa accezione originaria si ritrova peraltro anche in alcune lingue moderne. In inglese, to care for vuol dire «prendersi cura», senza riguardo ai possibili modi concreti nei quali può tradursi questo atteggiamento, come è confermato dall'uso prevalentemente intransitivo e «assoluto» dell'espressione I care («mi interessa», «mi riguarda», «mi sta a cuore»). Ancora più interessante è il termine tedesco Sorge (abitualmente tradotto con l'italiano «cura»), soprattutto se ci si riferisce al significato col quale compare in particolare in Essere e tempo di Martin Heidegger, dove esso sta a indicare la determinazione ontologica fondamentale dell'Esserci, vale a dire il fatto che l'Esserci è sempre «proteso verso qualcosa» ed è in quanto tale espressione del «movimento» che è proprio della vita umana.
Per quanto inevitabilmente cursoria, questa ricognizione etimologico-linguistica lascia emergere con chiarezza un punto. Alle origini della tradizione culturale dell'Occidente — pensiamo a quanto la Grecia resta importante — le parole che designano la «cura» alludono a una condizione soggettiva — quella di chi «si preoccupa» e dunque si pone al «servizio» — e non a un contenuto determinato nel quale si oggettiverebbe tale «preoccupazione». Anche quando il soggetto di cui si parla assume una configurazione in qualche modo tecnica, come avviene nel caso del medico, ciò che i termini antichi sottolineano in lui non è la messa in campo di atti specifici, bensì la presenza di una «preoccupazione» per colui che egli dovrebbe assistere. Patroclo è genuinamente therápon di Achille non perché faccia concretamente delle cose per lui, ma perché è in pensiero per l'amico, perché lo ascolta (obbedire — ob-audire — vuol dire «mettersi all'ascolto»). Analogamente, per essere fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico dovrà essere mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui che gli è stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa attitudine debba tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche terapeutiche.
Con il passare dei secoli, si assiste a una trasformazione radicale nel significato dei termini, quale riflesso di un altrettanto profondo mutamento di ciò a cui questi termini si riferiscono, in direzione di una spiccata tecnicizzazione. Da un lato, infatti, titolare pressoché esclusivo della «cura» diventa il medico, unica figura legittimata a svolgere il ruolo del therápon. Io posso bensì «essere in pensiero» per il mio amico o il mio familiare; ma se voglio «curarlo» devo affidare questo compito al medico. Dall'altro lato, e in connessione con questa «professionalizzazione», la «cura» perde ogni connotazione «affettiva» e viene piuttosto a indicare un complesso di pratiche che hanno quale loro oggetto il paziente. Curare non è più — come in precedenza — un verbo che allude allo stato d'animo del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo. Da verbo intransitivo diventa un verbo transitivo che riguarda gli atti concreti effettuati su colui che sia «oggetto» della cura.
Il culmine di questo processo si raggiunge in concomitanza con la produzione industriale di massa e poi in maniera sempre più accentuata nel corso degli ultimi decenni. La «cura» non ha più alcun rapporto con la disposizione d'animo del terapeuta. Al contrario, questi scarica sulla cura — i farmaci e ogni altro intervento di manipolazione del paziente — ogni sua residua «preoccupazione». Materialmente impossibilitato a stare in pensiero contemporaneamente per molte centinaia di individui, il medico trasferisce e oggettiva la sua sollecitudine in una pluralità di atti concreti, inevitabilmente «neutri» dal punto di vista sentimentale, la cui efficacia dipende dunque esclusivamente da un'incidenza «misurabile» in termini quantitativi. Si verifica dunque un vero e proprio capovolgimento. Il terapeuta — non importa se del corpo (quale è il medico generico) o dell'«anima» (come vorrebbe essere lo psicologo) — non è colui che, mosso da premura, «obbedisce» al suo assistito ma, all'opposto, è colui che a questi impone di assoggettarsi a una «cura», ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti chimici di un farmaco. E tanto più valente sarà quel terapeuta che saprà svolgere la sua funzione tecnica nella forma più a-patica, evitando quel coinvolgimento emotivo/affettivo che potrebbe offuscare o compromettere la sua capacità di «curare». Fino al paradosso del medico perfetto — immune da ogni coinvolgimento personale, ignaro dell'identità e della «storia» del paziente, e proprio per questo in grado di «curarlo» secondo protocolli astratti universalmente convalidati, e dunque di principio «efficaci» per qualunque paziente, a prescindere da peculiarità individuali.
Non è nota l'origine del termine greco therápon. Si sa, tuttavia, che il suo significato richiama il latino comes — «colui che accorre accanto», «che sta vicino», «che assiste», magari senza «fare» nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà perfino consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via informatica i nomi impronunciabili di alcuni farmaci.
Corriere 21.7.15
Un intervento di Emmanuel Faye sull’antisemitismo del pensatore tedesco
Heidegger scelse Hitler e non cambiò mai idea
di Emmanuel Faye


Più di un anno e mezzo fa, in un mio articolo pubblicato da «Le Monde» il 24 gennaio 2014, menzionavo la «guerra di successione» ormai in atto tra gli heideggeriani incaricati di pubblicare la cosiddetta Opera completa dell’autore di Essere e tempo . Da una parte la Heidegger Gesellschaft controllata da Friedrich-Wilhelm von Herrmann, l’ultimo assistente di Heidegger, e da François Fédier, che supervisiona da decenni la traduzione francese dei testi di Heidegger per conto degli eredi. Dall’altra il Martin Heidegger Institut di Wuppertal creato recentemente da Peter Trawny, uno dei curatori dei volumi dell’ Opera completa e in particolare di quelli dei Quaderni neri . La notizia fornita dal «Corriere della Sera» il 4 luglio scorso, a firma Antonio Carioti, conferma quella mia diagnosi.
Se infatti il Martin Heidegger Institut non è che un’istituzione locale, nell’articolo di Carioti si legge che Peter Trawny annuncia adesso un progetto più ambizioso: il «Circolo internazionale Martin Heidegger» che egli intende fondare insieme a Donatella Di Cesare, già vicepresidente della Heidegger Gesellschaft prima delle sue recenti dimissioni. Lo scopo di tale «Circolo» sarebbe quello di «favorire la discussione critica dell’opera del filosofo». Nello stesso tempo Trawny, nel suo intervento apparso nello stesso numero del «Corriere», si propone di difendere la libertà di pensiero rispetto a chi, come me, avrebbe il torto di proporre una critica «mor ale» di Heidegger. Che dire?
Desta molta ironia vedere Trawny porsi come paladino della libertà di pensiero, che è inscindibile dalla libertà di espressione e di pubblicazione, quando la cura dei Quaderni neri è stata affidata a Trawny con il sostegno del figlio di Heidegger, Hermann, che si è reso famoso per tutta una serie di censure. Una delle più memorabili è quella subita da Franco Volpi quando ha voluto muovere delle critiche ad Heidegger nella sua prefazione alla traduzione italiana dei Contributi alla filosofia , di cui era curatore. In quel caso Hermann Heidegger ha letteralmente impedito la pubblicazione di quei passaggi.
Tornando a Trawny, che ha dichiarato di voler «salvare Heidegger», egli è ora il rappresentante della nuova apologetica ufficiale autorizzata e sostenuta dall’editore dell’ Opera completa di Heidegger, Vittorio E. Klostermann. Quest’ultimo infatti, a proposito di una nuova edizione del saggio di Trawny sull’antisemitismo dei Quaderni neri a ridosso dell’uscita di un nuovo volume di tali quaderni, ha dichiarato: «Ci tenevo che il soggetto (l’antisemitismo di Heidegger) non arrivasse alla casa editrice dall’esterno, ma fosse trattato al nostro interno». Questa è dunque la strategia attuale: assicurarsi il monopolio di una sedicente critica in realtà sotto controllo. Se ormai si riconosce l’antisemitismo di Heidegger, che invece von Herrmann e Fédier persistono a negare contro ogni evidenza, lo si confina a «una decina di anni» (Trawny), cioè al periodo tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, in cui secondo la nuova apologetica non ci sarebbe vicinanza di Heidegger al nazionalsocialismo. In breve, Heidegger sarebbe diventato antisemita quando non era più nazista.
Tale tesi problematica consente di disconoscere il carattere trivialmente nazista degli attacchi al «giudaismo mondiale» contenuti nei Quaderni neri, per elevarli all’altezza di tema «inscritto nella storia dell’Essere» (Trawny), sino a parlare di un «antisemitismo metafisico» (Di Cesare). Ma bisogna anche sostenere, come fa Trawny sempre nel suo intervento sul «Corriere», che il pensiero dell’Heidegger antisemita degli anni Trenta «non aveva più alcun nesso con le effettive vicende storiche», il che consente di decontestualizzare il suo antisemitismo.
In realtà, è vero il contrario. La lettura dei Quaderni neri ci rivela un Heidegger costantemente attento all’effettività storica, diplomatica e militare, come si nota dal fatto che è nel momento del patto tedesco-sovietico che egli pronuncia un elogio del popolo russo. Peraltro, la pubblicazione nel 1953 di un corso in cui egli vanta la «verità e grandezza» del movimento nazionalsocialista, così come il contenuto dei Quaderni neri degli anni 1942-1948 da poco disponibile (volume 97 dell’ Opera completa ), ci mostra come Heidegger non abbia mai chiuso con il nazismo, anche se negli anni Trenta lo ha superficialmente tacciato di essere «piccolo-borghese» e non abbastanza «barbaro».
Trawny, dissociando nazismo e antisemitismo in Heidegger, tende a rendere accettabili sia l’uno che l’altro. Non è la libertà di pensiero che in realtà si difende, né la libertà di espressione, che non è mai stata messa in discussione da qualsiasi critica al pensiero di Heidegger, bensì la libertà di «errare con Heidegger», come indica il titolo francese di un secondo saggio di Trawny pubblicato lo scorso anno, un testo nel quale si arriva a proporre Heidegger come «filosofo che ha salvato Auschwitz». Ebbene, concedersi oggi la libertà di partecipare all’«erranza» dell’autore dei Quaderni neri , significa concretamente accettare il suo antisemitismo come inscritto in una «storia dell’Essere» da cui è scartata qualsiasi idea di responsabilità morale. Allo stesso modo, nello stesso testo, Trawny respinge la forma argomentativa della filosofia. Cosa ci resterebbe dunque, se non i soli rapporti di forza e la barbarie? E cosa resterebbe del pensiero critico se la responsabilità umana e l’argomentazione filosofica ne fossero di colpo allontanate? Non ci ispira dunque fiducia il «Circolo Heidegger» con il quale la nuova apologetica heideggeriana intende gestire il pensiero critico, soprattutto leggendo che Trawny, nel suo intervento, continua a presentare Heidegger come paradigma del «grande filosofo». Con ben altra lucidità Hans Jonas, già a partire dagli anni Venti, aveva visto che l’insegnamento heideggeriano «non era una filosofia ma un affare segreto, pressoché una nuova credenza».
Quanto al nuovo campo di ricerche critiche internazionali che abbiamo costruito con Sidonie Kellerer, Johannes Fritsche, Richard Wolin, Julio Quesada, François Rastier, Livia Profeti, Gaëtan Pégny, Jocelyne Sfez, Édith Fuchs e molti altri, pensiamo che esso abbia molto da guadagnare nel rimanere libero, aperto a tutti, senza una rigida struttura istituzionale. Perché è di una filosofia libera e senza Scuola che abbiamo bisogno oggi.