sabato 25 maggio 2013

La Stampa 25.5.13
Il giorno triste delle piazze senza popolo
Comizi finali privi di entusiasmo, spettacoli raggelanti Il Pd ricorre al romanesco, il Pdl alle donne, Marchini a Venditti
di Mattia Feltri


Se ci si mettono gli dèi e gli uomini insieme, sanno combinare danni inenarrabili. Quattro piazze malinconiche ma adeguatamente blindate, il solito sciopero dei mezzi pubblici, due moldavi che litigano in metropolitana e cascano sui binari bloccando la linea A, fin lì miracolosamente funzionante. Poi un vento novembrino che ha abbattuto gli alberi e ostruito alcune strade. Qualora i fantastici quattro - Ignazio Marino del Pd, Gianni Alemanno del Pdl, Marcello De Vito del M5S e Alfio Marchini di sé stesso - speravano di conquistare gli indecisi con le rispettive adunate, competitive nella simultaneità, dovranno riconsiderare le loro strategie. Intanto perché il problema immediato pare piuttosto di contare i decisi, pochini a vedere l’affluenza. Il dato di ieri - oltre alla solita giornataccia della viabilità - è la tristezza infinita delle festicciole, in realtà convocazioni raccogliticce e stanche. Al Colosseo, sotto l’arco di Costantino, ad ascoltare Alemanno e il suo grande sponsor, Silvio Berlusconi, erano in duemila a essere molto buoni. Pareva la rappresentazione in miniatura della folla oceanica, il presepe del popolo dell’amore, e a dare un minimo di scossa - diciamo così - gli altoparlanti che squassavano la sacralità delle pietre con «Meno male che Silvio c’è».
Come possono i romani avere voglia dell’eterno replay, ancora adesso, tre mesi dopo le Politiche, al centomillesimo appuntamento con le urne che arriva per di più al termine della campagna elettorale più moscia, banale e malinconica del ventennio? A San Giovanni c’era giusto un po’ più di vita grazie ai cantanti sul palco, i cui numeri di telefono stanno tutti nell’agendina di Goffredo Bettini, l’inesauribile totem della sinistra e del Pd romano. Ma anche lì le presenze erano quelle che erano. Senz’altro più che dai rivali di centrodestra sotto il Palatino, e sui quali gli speaker di Marino invocavano la pioggia. Un cliché raggelante e globale. Le band delle periferie della Capitale salivano sul palco con programmatica spettinatura, barbette pensose, pashmine come divise. Anche bravini, simpatici. Uno cantava così: «Ho avuto tanti uomini...». La perfezione assoluta di stampo equo solidale, insomma. Sul palco si alternavano ragazzi che parlavano il linguaggio dei segni per i sordomuti (in piazza?). C’era il gonfiabile per i bambini. L’artista che dipingeva il murale. E poi il terrificante recupero della romanità - forse per le polemiche sul genovese Marino - con la profusione dei «daje», dei «famose senti’», dei «nun se ne po’ più». Naturalmente gli immancabili stand con le t-shrit sopravvissute a tutto, quelle della guerrilla, del Che, quando dentro alle sedi del Pd gli under cinquanta vanno cercati con la lente. Ma San Giovanni, per come si era abituati, stringeva il cuore.
Intanto al Colosseo arrivava Berlusconi. Svogliato. Con quattro gatti sotto gli occhi. Non ha rinunciato alla piacioneria ganassa, le ragazze belle, oh quanto erano belle, guardate qui, sapete come sono fatto io. Non ha rinunciato nemmeno al tocco evangelico-manageriale: «Andate e convertite le genti». Troppo facile per Marchini, trainato del suo campione Antonello Venditti (e delle migliaia di fan del cantautore) rendere il suo parco Schuster, a San Paolo fuori le Mura, più convincente e persino più pop, altro che glamour. Altro che la romanità pretesa di Marino, o la romanità adottiva di Alemanno: lì c’era la romanità der Cupolone di Venditti. E troppo facile vincere per Beppe Grillo, che ha un seguito giovane e ancora incuriosito. Piazza del Popolo a cinque stelle aveva spazi vuoti, ma mancava un’ora e mezzo alle 21, orario previsto dell’arrivo del comico, e già sotto il palco si accalcavano numerosi in quell’ansia di farsi raccontare un mondo che non s’è mai sentito. Un tipetto piccolo e brioso, una specie di sosia di Paolo Rossi (non il bomber, l’umorista) interrogava quelli sotto sulla velocità della terra. Cioè, sapete voi a che velocità viaggia il nostro pianeta? No che non lo sapevano. Non lo sa nessuno. Non che non sia interessante ma che c’entra? C’entra, diceva il tipetto, perché la terra si muove a 104 mila chilometri orari e la nozione dovrebbe colmarci di meraviglia per la bellezza del cosmo e la bellezza del nostro corpo, e sarebbe folle lasciare queste bellezze alla gestione della casta. Di tutte le caste. Ecco, i soliti squinternati, verrebbe voglia di dire, ma anche lì, come nel popolo di Marchini, si sentiva sangue scorrere nelle vene. E però le acclamazioni raccontano soltanto una piccola verità, come sempre. Al ballottaggio, dicono i sondaggi (se per una volta ci pigliano) ci vanno Alemanno e Marino con le loro piazze vuote.

La Stampa 25.5.13
Epifani: “Pentito? No I luoghi sono simboli”
Il Pd si riappropria di piazza San Giovanni Il leader: “È vero, la città sembra indifferente”
di Carlo Bertini


Se l’intenzione era quella di riappropiarsi di piazza San Giovanni, scippata da Grillo per la chiusura delle politiche di febbraio, la riconquista della storica roccaforte della sinistra romana si può dire riuscita neanche a metà, il colpo d’occhio non è esaltante per i militanti che si son portati dietro pure la bandiera. Ignazio Marino mette in scena la sua «festa» di chiusura, si fa «intervistare» da Dario Vergassola per strappare qualche risata, ma la guerra delle piazze che combattono i leader nazionali rimanda un’immagine desolante: così i «compagni» si consolano, il tam tam è che anche da Alemanno «sono ancora di meno». E pazienza se nel pratone antistante la Basilica quelli che da qualche lustro hanno più dimestichezza con questi eventi stimano vi siano non più di cinquemila persone. Epifani non sale sul palco, i suoi ricordano che fece così anche Bersani a Milano con Pisapia, il neo segretario cerca di ridare coraggio ai militanti sconfortati. Ma la paura del flop d’immagine di un Pd che tenta di risollevarsi, già alta alla vigilia, trova conferma, complice lo sciopero dei mezzi pubblici nella capitale. E se pure la Cgil era pronta a mobilitare i suoi dalle regioni più vicine, i pullman li avrebbe dovuti pagare il partito che fondi non ne ha, «ormai la realtà è questa», è lo scambio di battute di due dirigenti, condito da risata amara.
«Pentito?, No, per nulla», risponde pacato Epifani a chi glielo chiede mentre passeggia dietro al palco di una piazza semivuota. «I luoghi sono importanti, hanno un valore simbolico, e i simboli parlano al cuore delle persone». Poco più in là Gianni Cuperlo, forse il suo sfidante al congresso, chiacchiera con Vincenzo Vita. Si affacciano Sassoli, Gentiloni, Gozi, Meta, Tocci, brillano per la loro assenza Veltroni e D’Alema, i due big romani per eccellenza. Epifani non si scompone e fa notare che se nel parterre molti non ci sono «è perché Marino ha assunto un profilo molto civico, è una scelta sua, d’altronde Roma è un po’ un laboratorio in questo. Certo è vero, la città sembra indifferente, vive con distacco questo voto». E quanto si è impegnato il Pd per Marino? «Certo, il Pd ha vissuto giorni difficili, la mancata vittoria, il problema del Colle, era un partito piegato su sè stesso. Ma sono convinto che il primo turno andrà bene e la sfida ai ballottaggi la possiamo vincere ovunque, anche da Siena e Brescia abbiamo buoni segnali». Ci saranno effetti sul governo da questo voto? «No, perché riguarda solo l’8% degli italiani e risponde più a pulsioni locali. Alla fine i romani sceglieranno se vogliono tenersi Alemanno o no e anche questo è un test per capire se le città tengono..»
Intanto Marino si ripara dalla tramontana tirandosi su il bavero. «Siamo qui perché Roma torni a sorridere. Siamo qui perché Roma torni a occuparsi dei più deboli e torni capitale mondiale della cultura e del turismo. I romani sono stanchi degli scandali di Alemanno», scandisce dal palco. Usa toni alati e un piglio da vincente, «non esiste criminalità dove c’è luce, non esiste dove c’è passione e dove c’è entusiasmo, entusiasmo», ripete. Proprio quello che sembra scarseggiare di più in questo popolo che non diventa massa.

Corriere 25.5.13
Le solite promesse, accuse e canzoni
Ma in piazza Pd e Pdl fanno flop
Semivuoti i comizi di Epifani e Berlusconi, il più seguito è Grillo
di Aldo Cazzullo

qui

Corriere 25.5.13
Roma al voto,  le occasioni mancate
di Antonio Macaluso


Come esclamò Giulio Cesare passando il Rubicone e avviandosi a diventare il padrone assoluto di Roma, «il dado è tratto». Qualche anno dopo quel 49 avanti Cristo, il dado è tratto anche per i quattro candidati a guidare il Comune di Roma. Vietato qualsiasi paragone con Giulio Cesare, uno di loro sarà sindaco di una Roma che di quei tempi conserva (male) alcuni pezzi unici come il Colosseo, l'arco di Costantino, i Fori. Un eccentrico come Andy Warhol sosteneva che Roma è l'esempio di ciò che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Ma del resto: che città eterna sarebbe se non fosse sopravvissuta alle crescenti sevizie della civiltà «moderna» e di amministratori modesti quando non deleteri?
Il voto di domani va ben oltre un qualunque test amministrativo. Perché Roma è la storia, perché è la Capitale, perché c'è il Papa e perché tutti i potenti della terra — qualsiasi sia il motivo per il quale ci approdino — chiedono al sindaco di affacciarsi dal balconcino del suo ufficio, a picco sul cuore del Fori. I romani decideranno — domenica al primo turno e il 9 giugno in via definitiva al ballottaggio — chi tra Gianni Alemanno, Ignazio Marino, Alfio Marchini e Marcello De Vito sia il più adatto a ridare luce a questa metropoli con pochi soldi ed enormi problemi. Vinca il migliore e vinca con la promessa di non girare per salotti ma per le strade — troppo spesso sporche, buie e scassate — di una città vedova di un grande progetto di sviluppo. Incapace di sfruttare al meglio il proprio passato, non ha avuto la fortuna di qualcuno che volesse davvero traghettarla tra le grandi capitali moderne.
Chi ci vive sa di cosa scriviamo, chi ci è capitato anche una sola volta, pure. Dovessimo dar credito a tutto quel che abbiamo sentito in campagna elettorale, chiunque vinca farà di tutto e di più. E Roma sarà un po' come Londra e Parigi, ma anche New York e perfino Shanghai. Luci della ribalta e non più — come ebbe a dire un sindaco bravo e colto come Giulio Carlo Argan — «polenta molle». Promette il sindaco uscente Gianni Alemanno — forte di un Pdl che raccoglie un centrodestra storicamente solido in città — che l'eventuale secondo mandato sarà ben altra cosa: ha imparato la lezione al prezzo di molti errori (il conto lo paghiamo tutti). Dice il dottor Ignazio Marino, medico-candidato di un Pd simile alla Jugoslavia del dopo Tito, che per cinque anni e solo per cinque (la gaffe è insita nella promessa) sarà un corpo e un'anima con la città. Il grillino De Vito fa il grillino: scardinare, spezzare, tagliare, rivoltare e via dicendo. Ma se finisse come i colleghi approdati in Parlamento? Altro che «polenta molle». Infine c'è Marchini: un giovane imprenditore che ha deciso di «prestarsi» — gratis — alla sua città. Dietro non ha né un partito né un movimento. Il fegato non gli manca.
Lunedì arriveranno le prime risposte. E saranno interessanti sopra e sotto il Rubicone perché per Pd, Pdl e Movimento 5 Stelle questo voto si annuncia come il primo test dopo le elezioni politiche di febbraio, che non ci hanno regalato un vincitore, dividendo in tre grandi gruppi il Parlamento. Il voto dei romani sarà una sorta di pagella di questo primo scorcio di legislatura ma anche delle prime mosse del governo di Enrico Letta. Un esecutivo sostenuto da una maggioranza forte più di numeri che di anima e attraversato dai sospetti e dalle trame dei molti che vorrebbero tornare presto, prestissimo, alle elezioni politiche.

Repubblica 25.5.13
Roma, le piazze flop dei partiti in pochi a San Giovanni per il Pd il Colosseo vuoto per Berlusconi
Epifani: la città sembra indifferente, ma non è un voto sul governo
di Giovanna Casadio e Carmelo Lopapa


ROMA — «La città sembra indifferente, vive con distacco questo voto...». Guglielmo Epifani guarda piazza San Giovanni dal sotto palco. È stato il neo segretario del Pd a volere che il centrosinistra si riprendesse la piazza dei lavoratori, la piazza-simbolo della sinistra per la chiusura della campagna elettorale di Ignazio Marino. La piazza è un flop, è quasi vuota. E accade la stessa cosa a pochi chilometri di distanza, ai piedi del Colosseo. Non ci sono più di duetre mila aficionados a salutare Silvio Berlusconi e Gianni Alemanno.
Loro dicono «siamo tantissimi». A San Giovanni invece il segretario democratico prende atto, ma non è «per niente pentito» della scelta. Sostiene che «la politica
si serve di simboli, i quali parlano al cuore delle persone», e perciò avere visto quella piazza occupata da Grillo per le politiche «ha dato un forte senso di disagio». Torna a San Giovanni dopo tre anni, Epifani: «L’ultima volta è stato nell’autunno del 2010 a una manifestazione Fiom», racconta, sorvolando sul fatto che una settimana fa a piazza San Giovanni all’appuntamento sempre della Fiom di Landini, ha evitato di andare. Sul palco il candidato sindaco del centrosinistra, Marino parla della speranza di riprendersi la città. Saluta i romani: «Ho bisogno di voi, daje». Lancia un affondo «contro la politica di parentopoli», quella di Alemanno, e un appello ai dubbiosi. Sventolano bandiere nella piazza semivuota. Il segretario del Pd parla del «profilo civico» di Marino, così giustificando l’assenza dei big del partito, tranne pochi. Sul palco Marino ha voluto che parlasse solo il neo “governatore” Zingaretti: è anche questa una presa di distanza dall’apparato del partito.
Ai piedi del Colosseo, invece, al fianco di Alemanno (presentato dalla commossa moglie Isabella Rauti) comizio spento, svogliato che il Cavaliere sembra si sarebbe volentieri risparmiato. Sarà il discorso elettorale più breve della sua carriera politica: 22 minuti. Con un leader del Pdl ormai quasi irriconoscibile, nei nuovi panni di moderato. Non nomina nemmeno una volta la “sinistra”, li chiama “loro”. Rinuncia a qualsiasi tirata polemica sui giudici nonostante le batoste di Cassazione e Consulta di due giorni fa. Accenna solo: «Della magistratura parliamo un’altra volta». E nel discorso più soft che si ricordi, il capo rivendica la nascita del governo Letta. «Lo sosteniamo e lo sosterremo con lealtà, riponiamo tanta speranza» dice stroncando i “falchi” Pdl. «È un accadimento epocale: non è mai successo dal '47 che destra e sinistra si mettessero d’accordo per dare vita a un governo di coalizione». Ma subito rivendica una vittoria quasi personale: «Si è deciso di posticipare a settembre la rata dell’Imu. Questi sono i primi passi per l’abrogazione totale. Si tratta di un successo importante». Di Ignazio Marino dice che non è romano e «ci metterebbe due o tre anni a capire dove mettere le mani», riservando gli attacchi più duri ai grillini: «Burattini manovrati via internet da un capo comico sconclusionato».
Dall’altra parte, piazza San Giovanni è stata pensata dal Pd come una festa di musica e parole, e si scalda alla fine sulle note di “Bella ciao”. Epifani è convinto che le larghe intese non turbino il voto per le amministrative, né viceversa. «Questo è un voto che riguarda l’8%degli elettori». Il Pd rischia un bagno di sangue a queste amministrative? Epifani è ottimista: «Sappiamo amministrare e sono convinto che arriveremo al ballottaggio dappertutto, compresa Siena, e Brescia dove ci sono buoni segnali. Roma comunque è un laboratorio». E qui, la posta in gioco è il sì o il no alla «destra vorace» di Alemanno.

Repubblica 25.5.13
Amministrative, i comizi finali
Grillo vince la sfida delle piazze
di Monica Rubino

qui

Repubblica 25.5.13
Il cuore freddo della politica
Il triste ritorno nell’ex roccaforte rossa il governissimo non scalda i cuori
di Curzio Maltese


RIPRENDERSI piazza San Giovanni, come da slogan, non è stato difficile per la sinistra. Difficile era riempirla. Infatti in tanti anni di comizi non s’era mai vista così vuota. Poche migliaia, stretti nel freddo di un improvviso autunno, a sventolare nella tramontana le bandiere di Sel, dei Verdi, del pacifismo e perfino qualcuna del Pd.
IL CONFRONTO con la folla Cinque Stelle dell’ultima vigilia elettorale è imbarazzante. Ma quello era il Grillo di ieri. Il Grillo di oggi, anche lui, fatica a colmare i buchi della più modesta piazza del Popolo, un salotto al confronto. Per non dire del comizio di Berlusconi, ampiamente disertato dal popolo di destra, nonostante l’enorme lancio pubblicitario, le migliaia di manifesti sparsi per la città ad annunciare «Tutti al Colosseo con Alemanno e Berlusconi». Corretti qua e là da allegre pasquinate, del tipo: «Portate i leoni».
Le piazze vuote della capitale non sono soltanto il segno che il governissimo non scalda i cuori. Sembrano tanto l’annuncio di una nuova e forse definitiva ondata di gelo intorno alla politica. Nel caos e spesso nella volgarità dello scontro personale, le elezioni di febbraio avevano comunque sollevato qualche confusa speranza di cambiamento,
agitato le acque di una nomenclatura politica uguale a se stessa da un ventennio. Ora che il mare si è richiuso, tutto è tornato come prima, i delusi si contano a milioni in tutte le fila. Delusi di sinistra, di destra, di centro e delusi da Grillo, che a conti fatti, scontrini compresi, si è rivelato il miglior alleato dello status quo. E i delusi non vanno in piazza, stanno a casa, tanto più se c’è sciopero dei mezzi pubblici e tira vento. Molti non andranno neppure a votare domani e alla fine, fra un due per cento in più o in meno per questo o quello, vincerà ancora una volta il partito degli astenuti.
Ignazio Marino parte favorito e ci mancherebbe, contro la peggior giunta della storia della capitale. Fare campagne elettorali non è proprio il suo mestiere e si è visto anche nel giorno della chiusura, con discorso un po’ così, concluso con l’urlo urlato: «Daje!». Uno slogan che intenerisce noi zemaniani, per quanto non fortunatissimo. Ma l’uomo è capace e intelligente ed è stato un eccellente chirurgo, esattamente quel che occorre a una città malatissima e bisognosa di una serie di trapianti. Il principale avversario di Marino, a parte l’inconsistente Alemanno, è il Pd, che è quasi sempre il vero ostacolo dei propri candidati. Nel retropalco del comizio finale di San Giovanni il neo presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, commentava: «Bisognerebbe avvisare i nostri dirigenti che domenica votano sette milioni di italiani e quindi magari per qualche giorno potrebbero decretare il cessate il fuoco sul fronte interno. Nelle vigilie elettorali capita anche nelle zone di guerra». Intorno sfilano appunto i dirigenti, ovviamente in ordine sparso. Sono tutti molto ottimisti sul voto romano, il che non è un bel segno. Molti invece sono pessimisti sulla durata del governo Letta, che quindi potrebbe concludere serenamente la legislatura. Il segretario reggente Gugliemo Epifani, a proposito della nuova legge elettorale, ribadisce che il partito rimane favorevole al ripristino del Mattarellum e dei collegi elettorali, ma anche no, dipende. Negli anni hanno imparato un po’ tutti la tecnica dell’avversario Berlusconi, quella di stare al governo fingendo che la faccenda non li riguardi.
Alle otto e un quarto, quando il candidato Marino si decide a parlare, con il ritardo giusto per bucare le aperture dei telegiornali, dalla piazza si solleva comunque un’onda di entusiasmo. Almeno quelli che sono venuti erano contenti di stare qui, ad ascoltare qualcosa di sinistra, con Berlusconi da un’altra parte.

Repubblica 25.5.13
Nella scheda-mostro da 1 metro e 20 la mappa del degrado della Capitale
di Francesco Merlo


ESE fosse vivo Andy Warhol sicuramente plastificherebbe queste mostruose schede per metterle in cornice e magari le vulcanizzerebbe pure per farne degli ombrelli.
La sola cosa che non si può fare è usarle come schede, cioè portarsele in cabina, aprirle, leggerle ed esprimere i propri voti al candidato sindaco e al raggruppamento, poi aggiungere le eventuali preferenze. E non è facile, tenendo bene aperti questi mussoliniani “ludi cartacei”, decodificare i 19 simboli che sono i geroglifici che mistificano la realtà. Si va da “Salviamo Roma” a “Forza Roma”, da “Italia cristiana” a “No alla chiusura degli ospedali”, da “Cantiere Italia” a “Roma capitale è tua”, e ci sono ben 12 simboli che fanno capo a Ignazio Marino e a Gianni Alemanno, 6 a testa quindi per la famosa pesca di voti a strascico. L’operazione più difficile è rimettere a posto la scheda, un vero test di capacità manuale che, tra calcolo e ripiegatura, richiede dodici movimenti (né uno di più né uno di meno), stando molto attenti quando si gira la scheda sottosopra (bisogna farlo almeno due volte) perché è facile sbagliare e ottenere così delle “tasche” che, incastrando i lati, formerebbero due orecchie di coniglio o due ali di farfalla che obbligherebbero poi gli scrutatori e il presidente di seggio ad annullare il voto a coniglio o il voto a farfalla.
Ma, come dicevamo, è come metafora della politica sempre meno in sintonia con il Paese, e soprattutto del pittoresco di Roma, che la scheda va guardata e appunto valorizzata. Una volta dispiegata, meglio di un saggio la scheda infatti spiega la tristissima bruttezza della nostra bellissima capitale che, come già scriveva il Gibbon, nel suo celebre e ineguagliato trattato di storia, «tra le rovine del Campidoglio contempliamo, prima con ammirazione e poi con pietà». E chissà cosa scriverebbe oggi se potesse annettere la scheda elettorale più lunga del mondo nell’iconografia del suo libro.
Questa scheda infatti è la mappa della nostra degradazione. Aprendola, leggiamo, al di là dei nomi di Ignazio Marino e Alfio Marchini, di Marcello De Vito e Gianni Alemanno, i simboli anonimi e tutti uguali delle periferie anonime e tutte uguali, la periferia di Roma che non è città che comincia o finisce ma città che si sfinisce, e persino nei luoghi del pasolinismo, da Ostia sino a Torbellamonica e Torpignattara il sottoproletariato, con felpa e cappellino, è pronto ai reality. E nella stramberia della scheda ci sono gli ambulanti di piazza Navona che vendono le cose più brutte nel posto più bello, e le facciate sbrecciate delle case storiche, la finta vita bohemienne di Trastevere con gli orribili graffiti spacciati per creatività, e le auto dei vigili urbani posteggiate sui marciapiedi come documenta il benedetto sito www. romafaschifo (sottotitolo: “chi ha ridotto così la città più bella del mondo?”), e i camion vela elettorali posteggiati all’Eur, e le bambine borseggiatrici della Stazione Termini e l’illegalità dei furgoncini-bar che smerciano immangiabili panini davanti al Colosseo e a tutti gli altri monumenti, e la cartellonistica abusiva, e i finti gladiatori attorno alle vestigia, e gli autobus che non arrivano mai e sono così affollati che «un povero ma onesto borseggiatore non sa come muoversi» è la battuta che raccolgo da un vecchio pizzardone che ha lavorato con il fratello di Andreotti. E si intravedono nella scheda i guasti della giunta Alemanno, l’inchiesta giudiziaria su 850 assunzioni all’Atac e altrettanti all’Ama, e infine il buco di bilancio di decine di miliardi di euro che fonti autorevoli di Bruxellles definiscono «un rischio sistemico che la città di Roma pone all’intera eurozona», « un debito pari a quello dell’Austria».
L’idea forte del film “La Grande Bellezza” è il meraviglioso dettaglio fermo, lo splendido fotogramma inanimato, lo sguardo su Trinità dei Monti per esempio o la passeggiata al Gianicolo, una grande bellezza morta come i tempi di chi aspetta un autobus o vuole andare al mare o pretende di risolvere una pratica, i lunghi tempi della morte lunga, lunghi come la scheda elettorale.

il Fatto 25.5.13
I leader parlano, piazze semivuote
Domani si vota, ma a Roma in poche migliaia ad ascoltare Berlusconi, il Pd e M5S
Record negativo per il Cavaliere, al Colosseo fra pochi intimi
Delusi anche i democratici in piazza San Giovanni
Vince la sfida piazza del Popolo che si “scalda” all’arrivo di Grillo
di Antonello Caporale


Roma non ha fatto la stupida stasera. Non ha piovuto. Certo fa il freddo d’ottobre e già tutti i maglioni sono traslocati nell’armadio, “e con questa camicetta come fai?, non gliela facciamo più ad aspettare”. Marisa e Lina sono venute a San Giovanni ma si arrendono alla brezza gelata. È la prima fuga dalla prima delle quattro piazze che si rifiutano di riempirsi malgrado abbiano sistemato il castello gonfiabile con gli scivoli e topolini sorridenti e bambini al centro del prato, con gli stand a stringere l’inquadratura. “Macchè, siamo pochi stasera”. La mestizia con la quale Simone porta la sua bandiera non cancella l’amore meraviglioso che ancora lo costringe ad essere qua, nonostante il dolore. “E quando vi vedo in televisione, voi del Fatto, mi viene paura perchè ci date tante legnate. Non conto niente ma anch’io le sento addosso perchè il partito è la mia famiglia, papà si chiamava Palmiro. Dimmi un po’, ma cos’hanno veramente combinato quelli? ”. Simone è come quei genitori in pena che sono alla ricerca della verità sui figli, la rivelazione. Epifani non si vede, neanche Ignazio Marino. “C’avemo tanti professori universitari, tanti intellettuali”: la coppia di compagni maturi non si capacita, la scelta non sembra la migliore, malgrado quel che dice Goffredo Bettini, il dominus del partito romano: “È l’Argan della scienza. Non ha il sacro fuoco del candidato, questo è vero... ”. Da via Merulana sparute avanguardie della terza età, con la bandierina bianca e il Daje, il motto elettorale stampato su cartoncino che oggi è un’esclamazione fuori posto. “Sto andando a vedere chi c’è in piazza, ma certo la città è sfiancata, lo senti”. È Mimmo Calopresti, il regista, e si sta avviando col passo lento del militante recidivo che non ce la fa a fermarsi. Malinconico tango in questa piazza, “eppure Ignazio ha una sua caratteristica: agguanta i problemi e se carbura non lo fermi più. Ha difficoltà nel rompere il clima, forse perchè è genovese e lo vediamo estraneo alla città”.
FLAVIO, MEDICO OTORINO al Sant’Eugenio, sicuro del sol dell’avvenire. Si sta larghi sul prato. Ne siamo tremila? Quattromila? Anche di più? “Miei cojoni! ” esclama un uomo con la barba del sessantotto. Sarcasmo freddo, disorientamento della classe operaia: chi siamo, dove andiamo. Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria: “Il nostro problema è la base che non si fa sentire, che non protesta, dileguata in una depressione solitaria”. Ecco quel che rimane di un popolo, che pure è doppio rispetto a quel che si annuncia laggiù, appena conclusa la discesa della bellissima via dei Santissimi Quattro Coronati. Roma è a quattro piazze stasera e per raggiungere la seconda, quella di Berlusconi e di Alemanno, passo davanti a Pasqualino al Colosseo, il ristorante dove l’egregio onorevole Fiorito ordinava per sé e i numerosi amici spaghettini all’astice, calamari, tonno, frittura mista, gnocchetti, qualche volta la carne alla brace, l’ottimo abbacchio. Una ricevutona di poco inferiore ai ventimila euro: ha pagato Pantalone per tutti. Pasqualino è stato il punto ristoro del Pdl laziale, ora è deserto. Un signore solo al tavolino ascolta la radio: “Basta con le bande! ”, dicono nel talk elettorale. Il palco di Alemanno è ancora più mesto di quello di Marino. Impalato davanti l’Arco di Costantino, consente al migliaio di passanti un largo passeggio. Una coppia di sposi smamma, le foto sono impossibili oggi, bisogna salire verso Colle Oppio. Turisti americani interdetti, giungla di poliziotti sfaccendati, pochi fascisti ma comunque resistono anch’essi all’oblìo. Se vince Alemanno non sarà grazie a loro, ma ai mille imprenditori che per esempio hanno sborsato mille euro a testa alla cena di degustazione elettorale. Una sola cena è valsa, complice Silvio Berlusconi, un milione di euro. Gli assegni sono stati prontamente sganciati e l’attesa ripagata. Non qui, non stasera, ma due pomeriggi fa, al Tempio di Adriano, sede della Camera di Commercio. Lì Alemanno ha spiegato, con la voce di Andrea Augello, il suo spin doctor, la meraviglia che attende tutti: “Sono stati sbloccati 571 milioni di euro che andranno ai creditori del comune di Roma. Dal 21 maggio sono iniziati i pagamenti, e tutti gli uffici sono impegnati allo spasimo per dare risposte concrete, adempiere a un obbligo, risollevare il morale e il portafogli di tanti imprenditori che hanno lavorato per Roma e attendono il frutto di quel lavoro”.
“Questo è voto di scambio, un interminabile voto di scambio con il quale si condizione il voto”. È un imprenditore danaroso, capostipite di una famiglia che ha vissuto nell’era e nell’ombra della sinistra, a parlare. Alfio Marchini, il quarto dei gareggianti, si concede agli amici nel parco Schuster. Lo affianca Antonello Venditti, anch’egli traslocato dalle storiche posizioni, nel finale di partita che ha giocato al meglio. L’aria qui è più festosa, il clima è più ottimista. Sul taxi Parigi 48: “La metà di noi voterà Marchini. Alemanno ha deluso. E senza i tassisti Alemanno perde”. Voteranno Mar-chini anche la borghesia, anche i Caltagirone, anche Casini e Ma-rio Monti. Un po’ di centro, un po’ di sinistra, un po’ di destra. Un mix che conduce a cifre misteriose, più elevate del prevedibile. Marchini ha avuto buoni consiglieri per la comunicazione, e il suo “Roma ti amo” è divenuto un refrain che ha collegato il volto del ricco e bello a un impegno che è sembrato sincero. “La borghesia vota me perchè ha trovato un pazzo che si mette in gioco. Ma con me si mette in gioco tutto quel mondo”.
“Amici, sono a Radio Popolare e cerco di capire dov’è la sauna. Roma ti amo”, scrive il suo alter ego “Arfio”. Lui ci gioca. L’autoironia produce consensi. Ce la farà? “Se vado al ballottaggio scelgo come vice sindaco De Vito, il candidato dei cinquestelle”, ha infine dichiarato. Non è certo, anzi non è proprio così. Ma insomma è l'affermazione della potenza del voto irregolare. Nè Pd, né Pdl. Lo sciopero dei bus chiama tutti al metrò. Siamo a piazza del Popolo. Per metà è vuota, ma Beppe Grillo parlerà intorno alle nove di sera, e basta già questa metà a rendere questo popolo il più numeroso dei quattro in gara. Fosse questione di numeri, la classifica sarebbe presto detta: primo Grillo, secondo Marchini, poi Marino e infine Alemanno. Ma i voti si contano nell’urna. “Vuoi fare il rappresentante di lista? ”, mi chiede una militante “Ma è un giornalista! ” la rimprovera Luciano Emili, candidato al consiglio comunale. La ragazza retrocede: il giornalista è la figura più temuta e odiata dalla tribù grillina. Un po’ di preoccupazione c’è e si vede: “Paghiamo la rappresentazione che avete fatto di noi”. “Siamo inesperti, capite che per noi è difficile fare ogni cosa per bene? ”. Certo che sì, capiamo. “Ah, ma non aspetti Grillo? ”.

il Fatto 25.5.13
San Giovanni è troppo grande per il Pd
di Wanda Marra


“L’ultima volta che sono salito sul palco di San Giovanni? Nell’autunno 2010 alla manifestazione della Fiom, come segretario della Cgil”. Altri tempi, quando Guglielmo Epifani a manifestare con i metalmeccanici ci poteva andare. Da segretario Pd ha l’aria infreddolita, compressa. Nella piazza in cui Ignazio Marino chiude la sua campagna elettorale arriva alle 18. Foto col candidato sindaco. Dichiarazioni ai tg. Chiacchierata con i giornalisti. Sul palco non sale. Non si fa neanche un giro in piazza. Ai militanti - molto pochi - che accorrono non parla. È un flop. La manifestazione inizia alle 17 e 30. Gruppi musicali. In scaletta addirittura Dario Vergassola e Piovani. All’inizio, poche centinaia di persone, poi si arriva a qualche migliaio. “Grazie per averci fatto ritornare e ritrovare questa nostra piazza”. Alle 20 Marino inizia così il suo comizio. Parole dissonanti con quello che ha intorno. Il palco è in un angolo, taglia mignon. Le bandiere che spiccano sono quelle dei Verdi. “Non è politica è Roma”, recita uno dei suoi slogan. Difficile prendere le distanze più di così. Dietro al palco Epifani mette le mani avanti: “Il voto amministrativo è un voto locale. Ma naturalmente poi ha una valenza nazionale, soprattutto quello di Roma”. Un pronostico? “Noi siamo bravi ad amministrare le città, almeno questo giudizio non può cambiare in poco tempo. Andremo al ballottaggio un po’ ovunque. Poi ce la giochiamo”. Ricadute sul governo? “No, è iniziato da troppo poco. Al voto ci va solo l’8% degli italiani”. L’atmosfera è moscia che più non si può. “No, non sono pentito di aver scelto San Giovanni. Ha un valore simbolico. La gente va e viene”. Un’ammissione. E comunque, “poi conteremo i voti... ”. La scelta di non salire sul palco? Marino si presenta come una sorta di candidato civico, ha preferito così.
“FORSE sarebbe stato meglio non venire qui, magari se vincevamo al ballottaggio aveva un’altra valenza”, bisbigliano nell’organizzazione. “Ma poi come si fa a mettere solo musica? Nessun candidato che parla, ore di concerto”, commentano in piazza. Epifani osserva: “C’è molto distacco, molta indifferenza per queste elezioni”. Poi si riprende: “Però, i romani giudicheranno anche l’operato di Alemanno. E uno sciopero dei mezzi nel giorno della chiusura della campagna elettorale: che scelta da parte sua! ”. Se non si vede gente, non si vedono neanche i dirigenti Pd. Dietro al palco, il volto sponsor Alessandro Gassman regala foto. A salutare Epifani arriva Armando Cossutta, in carrozzella. La storia del Pci e delle sue divisioni (“l’Armando” con la svolta della Bolognina fondò Rifondazione, quando Bertinotti fece cadere Prodi il Pdci) che si materializza. Nell’assenza generale si presentano Sassoli e Vita, Fassina e Gentiloni. Spicca Gianni Cuperlo. Candidato in pectore al congresso. Con lui Walter Tocci commenta: “Venire qui? C’era voglia di rivincita”. La scelta di Bersani di chiudere all’Ambra Jovinelli la campagna per le politiche mentre Grillo gli soffiava San Giovanni era stata duramente criticata. Ma l’ultima manifestazione del Pd in questa piazza, nel novembre del 2011, al confronto appare oceanica.
CUPERLO si guarda intorno e ricorda un aneddoto, che, spiega, Massimo D’Alema amava raccontare: “Quando nel 1996 l’Ulivo vinse le elezioni, a un certo punto della sera lui scese da Botteghe Oscure. Gli andò incontro una vecchia militante, lo abbracciò dicendo ‘Abbiamo vinto! Faremo una bella opposizione’. E lui: ‘No, stavolta veramente ci tocca governare’”. Il presidente della Regione Zingaretti dal palco recita da copione: “Marino ce la farà a cambiare Roma”. Il candidato, lontanissimo dalla tradizione comunista, che arriva in Bmw e sorride continuamente, esorta la folla: “Entusiasmo, entusiasmo”. E da genovese mentre chiude urlando il romanissimo “Daje” quasi cade disteso sul palco.

Repubblica Tv
Videoforum con Sandro Medici, candidato sindaco di Roma
Sandro Medici, 'Repubblica Romana', è candidato sindaco per una capitale più solidale e attenta ai diritti e ai rischi di povertà ed emarginazione
Con il candidato Pd rapporti difficili: ''Ho preso atto che il rapporto con noi non interessava, e su molti argomenti abbiamo idee diverse. In futuro vedremo''

Un  video qui

l’Unità 25.5.13
Scuola, la battaglia che divide Bologna
Il ministro Carrozza: «Più risorse alla scuola pubblica o mi dimetto»
No ai finanziamenti alle materne paritarie
La consultazione riguarda sì un segmento specifico dell’istruzione ma ha un grande significato nazionale e simbolico
La città delle due torri anticipa tendenze generali della società
di Nadia Urbinati


Bononia caput mundi. Sui muri delle nostre camere di studenti universitari appendevamo manifesti con questo motto campanilista di cui andavano orgogliosi. E Bologna non ha mai deluso le aspettative poiché quando non anticipa trasformazioni della società nazionale, mostra come su un grande palcoscenico le sue interne contraddizioni. In questo senso, il referendum (solo consultivo) che si terrà domani è di grande significato nazionale e molto simbolico se la Cei stessa è intervenuta direttamente in campagna elettorale (mettendo il Comune a guida Pd nella imbarazzante situazione di doversi schierare con la Curia per riconfermare l’impegno a finanziare le scuole materne private).
Un referendum simbolico perché il campione di un conflitto insanabile che lacera il Pd (non da oggi). Poiché i due quesiti referendari pro e contro il finanziamento pubblico della scuola materna privata dividono la sinistra in tutte le sue situazioni: quella che governa il Comune da quella che sta fuori; e poi ancora, in quella che sta fuori, quella parte che ha una concezione cattolica dello Stato e quella parte che ne ha una laica. Le tensioni sotto le due torri sono rivelatrici di quelle che dividono il Pd, un esperimento volto a tenere insieme queste due anime (e forse altre ancora) che però quando si trova a dover fare scelte che implicano questioni «fondamentali» o si paralizza (una parte facendo veto all’altra) o si spacca, come a Bologna.
Veniamo al tema del referendum che è appunto il finanziamento pubblico delle scuole dell’infanzia private parificate. Scuole non dell’obbligo. Eppure il tema apre a più larghe implicazioni perché mette il dito sulla piaga della legge 62/2000, la quale aggirò l’ostacolo dell’art. 33 (che parla di scuola privata «senza oneri» per lo Stato) stabilendo che se le scuole private (quelle religiose in primis) rispettano determinati requisiti (stabiliti dallo Stato) possono richiedere e ottenere il finanziamento pubblico. La «parificazione» secondo gli interpreti di tradizione cattolica cambia il senso del pubblico poiché crea un sistema del pubblico nel quale le scuole statali e quelle parificate si equivalgono. Su questa base interpretativa il Comune ha diversi anni fa istituito convenzioni con le scuole private parificate. Il referendum chiede ai cittadini di dare un’indicazione all’amministrazione: se continuare a finanziare le scuole private parificate oppure no. La convenzione tra il Comune e le scuole materne private parificate venne messa in essere quando c’erano più disponibilità finanziarie. Ma oggi quella convenzione è un problema perché non riesce a gestire la penuria della risorse in maniera equa. Ma, dicono i politici «pratici», costa comunque meno sovvenzionare le private parificate che aprire nuovi posti per le comunali. Non vedono che il problema non è solo pratico. Infatti questa convenzione penalizza alcuni cittadini, in particolare quelli che volendo iscrivere i figli alla scuola pubblica vedono la loro domanda inevasa. Mentre la libera scelta non richiede il sostegno del finanziamento pubblico se non opta per un servizio pubblico, la libera scelta che opta per il servizio pubblico e resta insoddisfatta ha tutte le ragioni di protestare e chiedere di reperire le risorse. In questi tempi di grande crisi, il reperimento passa per la strada della ridiscussione della convenzione. Questo è il tema.
Ma in effetti il dissenso è ben più ampio e profondo: si scontrano nella sinistra, e nel Pd, due concezioni del pubblico. In un caso è visto come un «sistema» che comprende tutto il pubblico e quel privato riconosciuto dallo Stato o parificato. In un altro, è ciò che è pubblico dai fondamenti. La legge 62/2000 aggirò l’ostacolo dell’art. 33 ma non lo fece rendendo «pubblico» il privato. La legge dice che le scuole private che raggiungono determinati requisiti possono richiedere il finanziamento pubblico. La «parificazione» ci mostra una gerarchia di status tra le scuole. E inoltre, non trasforma la natura delle scuole private, ma stabilisce che queste, pur restando private, possono adeguarsi a criteri che le pubbliche hanno costitutivamente. Quindi il privato resta tale anche se «riconosciuto» dal potere pubblico. Finanziarlo è perciò un problema serio per chi ha una visione coerentemente costituzionale.
Eppure vi è una parte del Pd che si schiera per la difesa ideologica delle scuole cattoliche, con l’argomento che queste sono parte del «pubblico». La tensione tra visione cattolica e visione laica dei diritti e del pubblico è sotto gli occhi di tutti, e non c’è soluzione mediana. La tensione sui fondamenti dilacera il Pd, dunque, senza possibilità di soluzione. Questo di Bologna è un caso evidente della reale difficoltà di questo partito ad essere attore politico funzionale: poiché o si spacca quando deve prendere decisioni su questioni fondamentali, o non decide. Il fatto è che questi casi intrattabili sono sempre più frequenti e non rinviabili. E il Pd sempre meno attrezzato a risolverli con coerenza e forza argomentativa.

Repubblica 25.5.13
L’amaca
di Michele Serra


Chi sostiene (come il Pd di Bologna, come Romano Prodi, come il ministro dell'Istruzione Carrozza) che è necessario finanziare con fondi pubblici anche le scuole private paritarie, ha le sue ottime ragioni. È possibile che dal punto di vista tecnico-amministrativo queste ragioni siano perfino più solide di quelle che animano i cittadini che, a Bologna, hanno promosso il referendum di domani contro il finanziamento alle private paritarie. E allora come mai uno schieramento che sulla carta è politicamente molto più debole minaccia di poter vincere il referendum, o di andarci molto vicino? Per una ragione molto semplice: perché la domanda (inascoltata) che milioni di cittadini di sinistra muovono ai loro rappresentanti è fissare almeno una manciata di princìpi, e poi rispettarli. Uno di questi princìpi è la laicità dello Stato. Un altro è l'istruzione pubblica (non “privata paritaria”: pubblica) per tutti. È vero che i princìpi hanno un costo: economico e politico. Ma ha un costo, enorme, anche dimenticarsi di rispettarli. Considerarli sempre negoziabili. Sempre rimandabili. Mai fondanti e mai strategici, in una parola sola: ininfluenti. Il referendum di domani, ben al di là del risultato, aiuterà il Pd, non solo bolognese, a quantificare qual è il costo dell'omissione sistematica dei princìpi.

il Fatto 25.5.13
Pd&Pdl

Le bicamerali degli affari. Super inciucio di soldi e favori
All’origine delle larghe intese sul governo Letta c’è la più larga delle intese tra Pd e Pdl fondata su due regole:
“Tutti sanno tutto di tutti” e “Cane non morde cane”
Incroci pericolosi dall’Ilva al Monte Paschi, dal caso Penati alle escort in Puglia
di Antonio Massari, Giorgio Meletti e Davide Vecchi


Sono i silenzi che colpiscono. Il 2013 si è aperto con una campagna elettorale preceduta e accompagnata da una raffica di scandali. Mentre più di un osservatore si spingeva a valutare la nuova stagione del malaffare ancora più grave di quella di Tangentopoli (1992-1994), l’argomento è stato cancellato dal dibattito politico tra le forze nominalmente contrapposte che si sono poi riunite sotto la cupola del governo Letta. E anche dopo le elezioni si è visto il Pd inchinarsi disciplinatamente all’elezione del pluriindagato Roberto Formigoni alla presidenza della commissione agricoltura del Senato. E del resto, se nei lunghi mesi di agonia della giunta regionale lombarda distrutta dagli scandali l’opposizione di centrosinistra non ha mai affondato il colpo, come dimenticare che da parte sua il centrodestra nordista ha sempre accompagnato con signorile distacco le disavventure giudiziarie dell’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati? Distrazioni, afasie, minimizzazioni e garantismi pelosi trovano un comune punto di caduta. Nelle grandi storie (giudiziarie e non) all’incrocio tra politica e affari i big di Pd e Pdl si ritrovano sempre fianco a fianco. Che sia complicità o semplice buon vicinato, l’effetto non cambia: tutti sanno tutto di tutti e cane non morde cane.
I PATTI D’ACCIAIO SU TARANTO INQUINATA
Anche gli ultimi eclatanti sviluppi dell’inchiesta di Taranto sul gruppo Riva-Ilva sono caduti nel silenzio. Nessun esponente politico della larga maggioranza di governo sembra avere niente da dire. Guardiamo l’antefatto. Emilio Riva, 86 anni, è antico e buon amico di Silvio Berlusconi. Nel 1994 è il primo governo del centrodestra, nei suoi soli sette mesi di vita, a spianargli la strada verso la conquista dell’Ilva di Taranto, la più grande acciaieria europea svenduta dall’Iri per 1649 miliardi di lire, meno degli utili del primo anno di gestione Riva (oltre 1800 miliardi). Ai Riva piace Forza Italia, che finanziano negli anni 2003-2004 con 330 mila euro. Anche Pier Luigi Bersani piace ai siderurgici: nel 2004 la Federacciai (la Confindustria del settore) lo finanzia con 20 mila euro, nel 2006, alla vigilia della sua seconda incoronazione a ministro dell’Industria, gli dà altri 50 mila euro. Nel 2008 la Federacciai versa a Bersani altri 40 mila euro. Nella campagna elettorale del 2006 sono scesi in campo anche i Riva: mano al portafoglio e 98 mila euro per Bersani. Due anni dopo, quando Berlusconi invoca i “patrioti” per salvare l’Alitalia, Riva risponde prontamente, e investe 120 milioni nella nuova Cai di Roberto Colaninno. Dai loro luoghi di detenzione più o meno domicialiari Riva e i suoi figli si sono sbracciati in questi mesi a minacciare querele a chiunque insinuasse che in cambio della partecipazione al salvataggio dell’Alitalia “italiana” l’Ilva abbia ottenuto un occhio benevolo del ministero dell’Ambiente retto da Stefania Prestigiacomo (2008-2001) per l’Autorizzazione integrata ambientale che le ha permesso di inquinare spensieratamente fino all’estate del 2012. Buoni rapporti a destra, buoni rapporti a sinistra, un modo tutto sommato classico di vivere bene in Italia. Quando l’emergenza ambientale comincia a farsi veramente calda, a luglio del 2012, Riva cede la presidenza dell’Ilva di Taranto al prefetto Bruno Ferrante, già candidato del centrosinistra a sindaco di Milano nel 2006. Quando il deputato ambientalista del Pd Roberto Della Seta dà fastidio con la sua attività parlamentare, Riva scrive una lettera a Bersani per chiedergli un intervento. Bersani non se ne dà per inteso, ma è un fatto che alle elezioni dello scorso febbraio nelle liste del Pd non si è trovato posto per Della Seta. Nel frattempo l’inchiesta giudiziaria rivela che il deputato Pd di Taranto Ludo-vico Vico discuteva al telefono con il capo delle relazioni esterne dell’Ilva, Girolamo Archinà, poi arrestato, come “far buttare il sangue” a Della Seta. In tanta armonia l’unico disturbo è la magistratura, che certe volte non rinuncia a fare il suo dovere. Toghe rosse? Il primo politico arrestato per il caso Ilva è stato, a novembre scorso, l’ex assessore provinciale all’Ambiente Michele Conserva, del Pd. Il 15 maggio scorso è stato arrestato nuovamente insieme al presidente della Provincia di Taranto, un altro Pd, Gianni Florido. Quest’ultimo ha alle spalle una vita da dirigente sindacale della Cisl di Taranto, iniziata proprio dal settore metalmeccanico. Partiti di destra, di centro, di sinistra, sindacati. Tutti dentro fino al collo, per questo nessuno fiata.
DALLE COOP A PONZELLINI TUTTI I TIFOSI DI SESTOGRAD
Luca Ronconi scelse Sesto San Giovanni per mettere in scena lo spettacolo “Il silenzio dei comunisti”. Mai location fu più azzeccata. Su quanto accaduto nell’ex Stalingrado d’Italia, travolta dallo scandalo del compagno Filippo Penati, non una voce s’è alzata. Da sinistra. Ma neanche da destra. Solo la classica “fiducia nella magistratura”. Le maglie dell’inchiesta ribattezzata “sistema Sesto”, del resto, hanno avvolto tutti. I filoni sono diversi. Come i livelli di coinvolgimento. Nel processo a carico dell’ex capo della segreteria politica di Bersani, oltre all’acquisto delle quote dell’autostrada Milano-Serravalle, ci sono le presunte tangenti per l’acquisto dell’area Falck e il finanziamento illecito attraverso la sua fondazione Fare Metropoli. Nella prima si va dalle coop rosse agli uomini di Berlusconi. Uno in particolare: Mario Resca, ex direttore generale del ministero dei Beni culturali ai tempi di Sandro Bondi, consigliere dell’Eni, designato dal governo guidato dall’amico Silvio, e della Mondadori del gruppo Fininvest. Resca compra anche una quota del 5 per cento della holding che possiede la Sesto Immobiliare, di cui è vicepresidente. La società guidata da Davide Bizzi nel 2010 compra i terreni al centro dell’inchiesta penale sulle mazzette a Penati, e affida a Massimo Cavrini i poteri per “la gestione di tutti i rapporti con l’amministrazione” comunale. Cavrini è un manager coop. Lavora per il Consorzio cooperative costruttori di Bologna, una delle aziende più importanti della Legacoop. A sinistra dunque le coop, a destra la copertura è assicurata da Berlusconi. Quando nel luglio 2011 i giornali resero nota l’indagine a carico di Penati, l’ex sindaco di Sesto e presidente della Provincia di Milano era seduto comodo nel Consiglio regionale della Lombardia e furono pochi “ribelli” del Pd a chiederne le dimissioni. Il Pdl gli dimostrò piena solidarietà. Del resto, il “leghista di sinistra”, era simpatico a molti. Tanto da sfiorare la vittoria sul Celeste Formigoni, superandolo nei risultati a Milano. Pochi mesi dopo il Fatto rese nota l’esistenza della fondazione Fare Metropoli, creata da Penati per finanziare le sue campagne elettorali e foraggiata da amici noti di sinistra e altri, insospettabilmente interessati al successo politico di Penati, di destra. Come Massimo Ponzellini, indagato per finanziamento illecito. L’ex presidente della Banca Popolare di Milano, poi arrestato, con una mano dava all’ex sindaco di Sesto e con l’altra aiutava, sempre attraverso la banca, gli amici del Pdl, da Ignazio La Russa a Daniela Santanchè, da Paolo Berlusconi a Michela Vittoria Brambilla. Oltre a Ponzellini, Fare Metropoli poteva contare su un altro banchiere: Enrico Corali, alla guida della Banca di Legnano e membro del cda di Expo 2015 come rappresentante della Provincia di Milano. Infine gli amici di sempre: Renato Sarno, Enrico Intini e Roberto De Santis. Il primo è l’architetto indicato da Piero Di Caterina come il “collettore e gestore degli affari di Penati” nonché potente funzionario in Serravalle. Intini, indagato a Bari per turbativa d’asta, è azionista di maggioranza della Milano Pace. Infine De Santis, anche lui nel mirino dei pm per gli appalti nella sanità pugliese. I tre investono a Sesto 100 milioni di euro in un progetto immobiliare. E non dimenticano di finanziare Fare Metropoli.
SPARTIZIONE ALLA SENESE DI UNA BANCA IN COMUNE
Un consigliere d’amministrazione in Monte dei Paschi a te e due a me. Ma ti garantisco anche la conferma della presidenza di Antonveneta e altri incarichi. Denis Verdini e Franco Ceccuzzi l’accordo di spartizione di poltrone e incarichi nella Siena che viveva attorno a Rocca Salimbeni lo hanno messo proprio per scritto. Due paginette dettagliatissime che illustrano con sconcertante precisione la divisione tra Pd e Pdl redatto il 12 novembre 2008. Tutto ciò che è scritto in quelle due pagine si è poi avverato nei mesi successivi con assoluta precisione. Il documento, pubblicato dal Fatto il 16 febbraio scorso, è stato smentito dai diretti interessati. Ceccuzzi, ex deputato e primo cittadino di Siena, ha vinto le primarie del centrosinistra ma è stato costretto a rinunciare alla corsa a sindaco dalle polemiche che lo hanno travolto a seguito dell’inchiesta partita sull’acquisto di Antonveneta. E per il papello che oltre a spartire poltrone con il Pdl sigla un “patto di non belligeranza” tra i due partiti. Quindi incarichi nella banca e nella fondazione Mps ma anche nei consorzi, nelle municipalizzate, nella società della gestione delle terme di Chianciano e l’accordo politico: “L’onorevole Verdini si impegna in vista delle elezioni amminsitrative 2009 a ricercare una candidatura del Pdl per la presidenza della provincia di Siena che non tenti di sconvolgere gli attuali equilibri e a presentare liste del Pdl nei Comuni rifuggendo da qualsiasi accordo destabilizzante con le liste civiche”. Non che nell’anno 2013, a pochi mesi dallo scandalo che ha travolto l’istituto di credito, la situazione cambi. Al voto di domani si presentano liste civiche che ospitano insieme esponenti sia del centrosinistra sia del centrodestra. In terra di Siena ha messo radici il romanissimo volemose bene. Del resto basta guardare a chi la Fondazione, che controlla la banca e i cui vertici sono nominati dalla politica cittadina, ha elargito a piene mani milioni di euro nel corso degli anni. Dalla fondazione Ravello, oggi presieduta dall’attuale capogruppo del Pdl, Renato Brunetta, alla Giuseppe Di Vittorio della Cgil. Dai circoli Arci alla fondazione Craxi, fondata e presieduta da Stefania Craxi. Dai bonifici per l’ex senatore del Pdl, ora candidato sindaco a Pisa e storico braccio destro dell’ex ministro Altero Matteoli, Franco Mugnai (legale nel caso Ampugnano). Ma non solo Toscana e Roma. I fondi arrivano anche a Lecce: arcidiocesi (120 mila euro), varie onlus e 50 mila euro alla provincia. Guidata da Antonio Maria Gabellone, ex Dc oggi Pdl, legato a Vincenzo De Bustis e, in particolare a Lorenzo Gorgoni, membro del cda di Mps. Ma è anche terra politica di MassimoD’Alema e della Banca 121 acquistata da Rocca Salimbeni. I versamenti sono compresi tra i diecimila euro e i due milioni, che vanno alla fondazione Ravello, per un importo complessivo che sfiora il miliardo. Finita l’era di Giuseppe Mussari, scoperta la banda del 5% guidata da Gianluca Baldassarri e gli artifizi compiuti sui bilanci, la pioggia di denaro è finita. L’ente che controlla la banca senese ha chiuso il 2012 con un disavanzo notevole: 193,7 milioni di euro. Mps? Ha chiuso il bilancio con 3,1 miliardi di perdite.
TUTTI PAZZI PER GIANPI E PER LE SUE BELLE AMICHE
“Ricordati che io a vent’anni andavo in barca con D’Alema e a trenta dormivo da Berlusconi”. Così Gianpi Tarantini si vantava con il sodale Valter Lavitola. Millanterie che però mostrano l’importanza dei legami trasversali per il malaffare del terzo millennio. Certo è che alcune delle donne presentate a Berlusconi nell’estate 2009 per ingraziarsi l’allora premier furono poi presentata anche a un esponente del Pd, Sandro Frisullo, ex braccio destro di Nichi Vendola in Regione Puglia, condannato a due anni e otto mesi per reati vari. La “bicamerale del piacere” organizzata da Tarantini è poca cosa rispetto alla “bicamerale degli affari” che stava mettendo su, sfruttando da un lato il debole di Berlusconi per le donne, dall’altro il fiuto di alcuni dalemiani per il business. L’obiettivo: gli affari con la Protezione Civile. Si attornia di imprenditori in buoni rapporti con D’Alema, come Enrico Intini, e per raggiungere l’uomo decisivo per le sue mire – Guido Bertolaso, all’epoca capo della Protezione Civile – fa leva su Berlusconi.
Alle spalle di Tarantini c’era già una storia di affari trasversali nella sanità pugliese. Un sodalizio con l’assessore alla Sanità Alberto Tedesco (Pd) diventato poi rivalità acuta, mentre l’esponente dalemiano finirà nei guai per i suoi affari sanitari: prima salvato con un seggio al Senato, poi finito agli arresti. Gianpi si muove con scioltezza su tutto lo scacchiere politico. Celebre la cena organizzata nel 2007 a Bari da Gianpi in collaborazione con l’amico di D’Alema Roberto De Santis, con un scelto gruppo di medici e dirigenti sanitari. Ospite d’onore proprio D’Alema. Tedesco, già in rotta con l’amico di Berlusconi, si sfoga al telefono: “Sta cosa l’ha organizzata, mi ha richiamato adesso adesso il vice segretario regionale del Pd tale Michele Mazzarano, sta cosa l’ha organizzata De Santis con Tarantini (…) Allora voi volete avere i rapporti, che cazzo volete avere con i Tarantini, li abbiate, abbiateli pure a me non me ne fotte niente”. Racconterà poi il sindaco di Bari Michele Emiliano: “D’Alema arrivò verso le 11. Rimase 10 minuti, non di più, il tempo dei saluti. Poi scappammo via: non si poteva essere commensali di quel signore”. E Tarantini insiste con Berlusconi. Vuole entrare nella partita grandi opere utilizzando la società di Intini, che pochi mesi prima lo premia con un contratto da promoter, per 150mi-la euro. Quando il premier si dimostra disponibile a presentargli Bertolaso, secondo la Guardia di finanza, Gianpi lo tempesta di telefonate per “coinvolgerlo in nuove serate, in compagnia di giovani e disponibili donne”: “Stasera è a Roma? Vogliamo organizzare una cena? Volevo presentarle, un’amica mulatta, fantastica”. I pm chiedono a Gianpi: “Ma prima di fargli questa proposta, con Intini aveva parlato? ”. “Certo! ”, risponde lui: “Intini sapeva che frequentavo Berlusconi”.

il Fatto 25.5.13
Antiche solidarietà
Da Telecom a Unipol-Bnl, c’eravamo tanto aiutati


IN PRINCIPIO fu l’Hopa, la finanziaria bresciana che faceva capo a Emilio “Chicco” Gnutti e deteneva il controllo della lussemburghese Bell. La Bell controllava la Olivetti, e dal quartier generale di Ivrea Roberto Colaninno lancia, tra fine ‘98 e inizio ‘99 la scalata a Telecom Italia. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema benedice il coraggio della “razza padana” dell’amico Colaninno, che nel 2008 diventerà berlusconiano proprio mentre suo figlio Matteo viene nominato deputato dal Pd. Nella Hopa ci sono tutti. Tra gli azionisti figurano la Fininvest di Berlusconi insieme alla rossa Unipol di Gianni Consorte (nella foto), la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani e la banca Antonveneta, ovviamente il Monte dei Paschi ma anche l’immobiliarista Stefano Ricucci. Quando nel 2001 la Bell venderà il controllo di Telecom Italia alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera in un clima di concordia, il berlusconianissimo Gnutti, per problemi di salute, delega al fidato Consorte la chiusura della trattativa con Tronchetti. Nel 2005, la calda estate delle scalate bancarie li vede di nuovo tutti insieme. Fiorani dà l’assalto all’Antonveneta, prima di essere fermato dalla magistratura. Consorte vuole conquistare Unipol. Le intercettazioni telefoniche danno conto di un network fitto. Gnutti parla con Berlusconi della necessità di appoggiare la scalata di Ricucci al Corriere della Sera per non far finire il primo quotidiano italiano nelle mani “dei comunisti”, ma nello stesso tempo partecipa alla regia della scalata di Unipol su Bnl. Vito Bonsignore, esponente Udc oltre che ricco finanziere, va in visita da Massimo D’Alema per discutere la sua partecipazione all’operazione Unipol-Bnl. D’Alema racconta il colloquio in un’imbarazzante telefonata con Consorte che termina con il fatidico “noi non ci siamo parlati”. Pochi mesi prima è esploso lo scandalo Parmalat. Calisto Tanzi elenca ai magistrati, per poi smentire e minimizzare, i politici foraggiati per tanti anni. Fa i nomi di Romano Prodi, Massimo D’Alema, e poi Berlusconi, Fini, Casini, Alemanno, La Loggia, Castagnetti e tanti altri. Ciascuno smentisce e si indigna, ma a titolo personale. Nessuno si chiede perché il signor Parmalat parli di finanziamenti a 360 gradi e nessuno ne rilevi l’insensatezza. Tutti infatti lo troverebbero normale.

il Fatto 25.5.13
Giovani editori
Ricotta e passerella, il funerale dei giornaloni sembra una festa
di Carlo Tecce


“Ohhh”, l’allarme antincendio non ha mai scatenato tanto entusiasmo. La sirena smette di ansimare e le maestranze in giacca e cravatta, dotate di auricolare stile 007, congelano l’intervento di Pietro Scott Jovane, il nuovo (e spietato) amministratore delegato di Rcs, e convocano la platea per il pranzo in terrazza. La frittura di arancini di ragù e dei fiori di zucca emana un profumo di liberazione e azzera le chiacchiere fra giornalisti, direttori e banchieri che celebrano se stessi. Quelli che pagano l’Osservatorio Giovani-Editori, invenzione di un uomo che s’inventò 13 anni fa, ma guai a dire che ha familiarità massoniche, il fiorentino Andrea Ceccherini. Ogni due anni, precettate carovane di studenti, costretti a un esperimento in vitro, il quotidiano in classe (non quotidiani a caso), Ceccherini regala la passerella ai suoi finanziatori (Telecom, Unicredit, Intesa, Enel, Eni…), anche refrigerante e antireumatica, a Borgo La Bagnaia, una tenuta che si pianta sul collo di Siena. I mille ettari di verde, che ospitarono il matrimonio di Pier Ferdinando Casini e Azzurra Caltagirone, sono di proprietà del casato Monti-Riffeser, editori di Nazione, Il Giorno e Resto del Carlino: oddio, si può contestare un’imprecisione, il Monte dei Paschi di Siena detiene un non proprio simbolico 20 per cento, segno che i debitori vanno coccolati. E ovvio, le coccole vanno scambiate: qui non mancherà il profilo di bonificatore di Alessandro Profumo, il presidente. Prima di poter addentare la mozzarella e un cesto di ricotta che, per estensione e morbidezza, in Campania viene definita “zizzona”, John Elkann – che giustifica il cambio di residenza fiscale di Fiat a Londra, ma non giustifica le tasse sottratte all’erario italiano – quasi si diverte a insegnare la sobrietà ai media: “La difficoltà della categoria in Italia è essere pronti a rinunciare a un passato molto buono da un punto di vista dei privilegi ed essere più imprenditoriali e cogliere le sfide che l'innovazione ci offre”. Un linguaggio perfettamente aderente al nuovo incarico, da consigliere, in News Corporation di Rupert Murdoch, lo squalo. Disposto un cero votivo all’allarme antincendio, nel punto più alto (e ventilato) del Borgo, fra carabinieri e poliziotti in apprensione, trionfa quella che Totò chiamava “’a livella”: tutti uguali, i ragazzi con i brufoli e le cuffie in fila, accanto a Elkann e Jovane, De Bortoli e Calabresi, a procacciare l’insalata di pomodori e la torta rustica. Qualcuno si lamenta per il caffè servito in ritardo. Ma non si può rinviare ancora la festa dei giornali che non hanno nulla da festeggiare: milioni da tagliare per chiunque, dal Corriere della Sera al Sole 24 Ore, da La Stampa al gruppo Riffeser. Anzi, qualcosa va festeggiato, la perseveranza con cui Ceccherini riesce a portare questi giornali – e pure l’Osservatore Romano – nelle scuole superiori, che fanno aumentare la diffusione che, in teoria, dovrebbe far aumentare la pubblicità. Ma non importa, non si parla di argomenti importanti. Questo è un borgo incantato: Jovane finge che non esista l’implosione degli azionisti (e dei bilanci) di Rcs, che dieci periodici verranno spazzati via il 30 giugno. A Maria Concetta Mattei (Tg2), che lo intervista con riguardo, confessa che ha preparato un diario digitale per i figli, e la giornalista chiosa: “Lei è nato a Cambridge e ha fatto le scuole elementari a Napoli e le scuole medie fra Napoli e Bari. Quanto è utile sapere l’inglese?”. E chissà cosa avrà sussurrato Jovane a Elkann, che l’ha placcato per dieci minuti tra il secondo e i dolcetti: pare abbiano orientato le coordinate per l’assemblea di Rcs di giovedì prossimo. Tanti ragazzi leggono le domande preparate, così Federico Ghizzoni (ad di Unicredit) può vestirsi da missionario: “Non assumiamo mai per raccomandazione”. E poi fa una riflessione un po’ sfrontata senza che nessuno scatti in piedi per obiettare: “Il precariato non è un problema europeo perché i lavoratori ambiziosi preferiscono essere precari”. Questa prova di arguzia non vince un premio perché la famiglia Monti-Riffeser, il premio “arte e cultura”, l’ha già consegnato a Emma Marcegaglia per “la strada finora percorsa, volta a essere un esempio del fare”. Marisa Monti Riffeser la chiama “Mercegaglia”, e fa pure ridere. Ma fa ancora più ridere sapere che nell’albo d’oro figuri Maurizio Gasparri per le sue qualità di politico semplificatore. Ma non fate troppi schiamazzi, tra un po’ è il momento del cardinale Ravasi. Prima, la merenda con biscottini e succhi di frutta.

il Fatto 25.4.13
Letta: “Via i soldi ai partiti” Ma è Twitter, non il Cdm
Dal consiglio dei ministri solo l’annuncio di prossimi decreti
E la ragioneria generale deve ancora fare i conti
di Marco Palombi


Intanto una premessa: al Consiglio dei ministri di ieri l’unica cosa di rilievo che si è potuta osservare è stato il sapiente uso dei media di Enrico Letta. Rimandato per mancanza di soldi il decreto di proroga delle detrazioni fiscali su ristrutturazioni edilizie ed efficientamento energetico (“lo approveremo al prossimo Cdm”, promette Zanonato), il premier si è guadagnato le aperture di siti e tg – a due giorni dalle amministrative - annunciando via twitter che l’esecutivo aveva “trovato l’accordo sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti”. Si tratta cioè dell’annuncio di un disegno di legge che dovrebbe arrivare la prossima settimana. Contenuti? Parecchio vaghi al momento. Ma sarà azzerato l’intero fondo per i rimborsi elettorali (ridotto a circa 90 milioni annui)? Per alcuni ministri sì, per altri non del tutto. Insomma, è un po’ come per l’Imu: è sospesa, ma ancora non si sa se, e per chi, verrà cancellata. Tornando ai soldi dei partiti, fonti di governo sostengono che la base di discussione è il progetto del professor Pellegrino Capaldo, già presentato come ddl in Parlamento da un gruppo di deputati del Pd di rito renziano (primo firmatario: Nardella). Questi i contenuti: abrogazione di tutti finanziamenti o i rimborsi diretti nell’arco di tre anni; introduzione contestuale di un credito d’imposta al 40% sulle erogazioni liberali ai partiti (oggi è al 24%) fino ad un tetto massimo di 10 mila euro di detrazione; trasparenza su bilanci e statuti. Nel comunicato finale del governo, rispetto a questo ddl, si parla in più anche di “tracciabilità” della donazione, di forme di “sostegno non monetario al funzionamento dei partiti in termini di strutture e servizi” e di un ddl – anch’esso di là da venire – per regolamentare “l’attività delle lobbies e la rappresentanza degli interessi economici”.
ORA TOCCA alla Ragioneria generale calcolare il costo dell’operazione per le casse dello Stato: con l’abrogazione totale c’è, infatti, un risparmio di 90 milioni l’anno, ma il mancato gettito dovuto all’aumento delle detrazioni ha un costo e il guadagno finale per l’erario rischia di non essere memorabile. Non che il Fondo per i rimborsi elettorali sia la terra del Bengodi: anche tagliandolo e basta non sarebbe sufficiente a finanziare nemmeno metà del decreto di proroga per sei mesi degli ecobonus nell’edilizia su cui ieri s’è incagliato il governo (dovrebbe costare circa 200 milioni e al Tesoro non hanno ancora trovato coperture certe per quest’anno né per i prossimi). Nonostante il valore economico minore, però, il finanziamento pubblico ai partiti è diventato un simbolo della battaglia alla cosiddetta “casta”, anche perché un disatteso referendum popolare l’aveva già abrogato con maggioranza bulgara nel 1993. Beppe Grillo, com’è noto, ne ha fatto un suo cavallo di battaglia e non ha gradito per niente la sortita pre-elettorale di Letta: “È un bluff”, ha sostenuto a voce; “una presa per il culo - ha scolpito il suo blog - Non servono accordi: noi abbiamo già rinunciato a 42 milioni”. La capogruppo M5S alla Camera, Roberta Lombardi, era stata più morbida prima dell’intervento del capo: “Collaboreremo”, aveva dichiarato. Poi in serata, dal palco di piazza San Giovanni, s’è un po’ riposizionata: “Vedremo, ma mi sembra solo propaganda”. Il Pdl, invece, festeggia - “un’altra promessa mantenuta” – e mette nel mirino proprio Grillo: un ddl presentato in Senato da Lucio Malan prevede che il comico sia costretto a rendere pubblici i suoi redditi come tutti i “capi e tesorieri dei soggetti politici rappresentati in Parlamento” (in realtà Grillo, proprio in quanto tesoriere del M5S, sarebbe già obbligato a farlo da una legge del 2012).

Repubblica 25.5.13
Il finanziamento pubblico ai partiti
Il peccato originale
di Piero Ignazi


PARTIAMO da una premessa: in tutti i paesi europei ad eccezione della Svizzera vi sono forme di finanziamento pubblico ai partiti.
Eliminandolo del tutto, come viene ora ventilato dal progetto governativo, ancora una volta faremmo eccezione rispetto alle altre democrazie europee. Questo furore iconoclasta contro i contributi pubblici si può ben capire perché l’Italia, fino allo scorso anno faceva — di nuovo – eccezione per l’ammontare gigantesco di denaro pubblico dirottato verso i partiti. Dal 1994 al 2013 sono stati elargiti quasi due miliardi e mezzo di rimborsi elettorali per ogni tipo di competizione, dalle regionali alle europee passando per le legislative (e in questo calcolo sono esclusi i contributi per i comitati organizzatori dei referendum).
Anche al di là delle malversazioni e ruberie l’opinione pubblica non sopporta più di vedere i politici – di ogni livello – godere di retribuzioni e benefit inarrivabili per la maggioranza dei cittadini onesti. Questo sentimento di discredito, tracimato fino all’ostilità, ha beneficato il M5S. Ma la rincorsa al giacobinismo antipartitico non taglia l’erba sotto i piedi al movimento di Beppe Grillo perché la disistima nei confronti dei partiti è ben radicata; e non cambia da un momento all’altro solo perché si tolgono loro i soldi. La ri-legittimazione dei partiti passa per una ripresa di attività volontaria, magari intermittente ma incarnata da persone “disinteressate”, o quanto meno senza i privilegi derivanti dalla loro attività politica o carica pubblica.
I partiti a livello locale, “ambasciatori” della società civile presso i decision-makers,
vivono una condizione di marginalità e sudditanza rispetto ai vertici nazionali. Mentre a Roma le strutture centrali sono opulente perché lì arriva il finanziamento pubblico, in periferia stentano, perché lì arrivano solo le briciole. Addirittura in alcuni casi, come nel Pdl, anche i proventi derivanti dalle iscrizioni vengono risucchiati dal centro. La concentrazione delle risorse nei quartieri generali dei partiti ha isterilito la loro vita alla base. Ne consegue che, da molti anni, la quota di finanziamento pubblico supera nettamente quella autoprodotta: Pdl e Pd dipendono dal 70% al 90% dai contributi dello Stato.
Comunque, passare dall’abbondanza senza limiti e totale irresponsabilità all’abbattimento di ogni forma di sovvenzione pubblica è rispondere ad un eccesso con un altro. Invece di cancellare del tutto il finanziamento, peraltro già dimagrito e modificato con una nuova legge, approvata nel luglio dell’anno scorso ma passata del tutto inosservata, travolta dallo tsunami antipartitico, meglio sarebbe prendere spunto
dalle buone pratiche adottate all’estero. E, in particolare, concentrarsi sulla triade virtuosa della limitazione degli importi di entrata e di spesa, dell’efficacia dei controlli, del rigore nelle sanzioni.
I versamenti dello Stato sono già stati ridotti dalla legge del 2012 a 91 milioni l’anno, di cui un terzo co-finanziato sulla base di quanto i partiti autonomamente raccolgono. 91 milioni sono ancora molti, forse troppi. Ma certo troppo bassa è la quota di autofinanziamento: il rapporto 30/70 va invertito. Per avere soldi dallo Stato i partiti devono dimostrare di essere in grado di attivare una massa importante di contributi (ovviamente certificati, pubblici e di piccoli importi). A fianco della riduzione degli importi e della loro modulazione in rapporto ai contributi pubblici va poi introdotto un tetto alle spese. Fin qui i partiti hanno guadagnato grazie alla generosità dei rimborsi, e i bilanci sono in molti casi attivi; ma riducendo le entrate vanno tenute a freno le spese, con plafond ben definiti.
I controlli, anche nell’ultima norma, sono soprattutto formali e nelle mani dei controllori-controllati, con un intervento non ben definito – e quindi inefficace – della Corte dei Conti. Società esterne di auditing e indicazioni precise sull’intervento dei giudici, nonché una ampia pubblicità dei bilanci, rappresentano alcuni passaggi minimi per una maggiore efficacia nei controlli.
Infine, le sanzioni. Fin qui, al di là dei casi clamorosi alla Belsito, l’opacità dei bilanci ha nascosto di tutto e non ha consentito che venissero individuati responsabili di abusi e
malpractice.
La decadenza dall’incarico per quel candidato che sforasse il tetto di spesa, ad esempio, costituirebbe un deterrente importante.
I soldi in politica sono ad alto rischio e inducono in molte tentazioni. Ma non vanno demonizzati. Vanno limitati e controllati. Con un intervento dello Stato, severo e calmierante allo stesso tempo.

Corriere 25.5.13
Epifani, sì al modello francese
È l'ultimo muro a sinistra e sta per cedere
Doppio turno e semipresidenzialismo
L'offerta sulle riforme del leader pd
Epifani apre al modello francese. Ma deve convincere l'intero partito
di Francesco Verderami


Manca ancora un atto formale nel Partito democratico, ma Epifani è pronto a sferrare il colpo di piccone per aprire la strada al semipresidenzialismo.
È vero che negli ultimi tempi, da Bersani a Renzi, da Veltroni a Finocchiaro, chi timidamente chi più convintamente si è manifestato a favore del modello francese. Ma se finora il Pd non ha espresso una posizione ufficiale, è perché non è facile sgretolare antiche diffidenze. Il segretario dei Democratici è pronto a farlo, appena il Parlamento decreterà l'inizio della stagione costituente: «Perché noi non abbiamo paura di volare». Per uno come lui che viene dalla tradizione socialista non è difficile definire il semipresidenzialismo una «buona soluzione», e sottolineare che «per me questo sistema non è un tabù». Il problema è traghettare l'intero partito sull'altra sponda, perciò Epifani attende per ufficializzare la posizione: «È anche una questione di tempi».
E il tempo è un fattore in politica, insieme alle «condizioni» in cui si deve operare. «Che il cambiamento serva, ne siamo consapevoli. L'unico vero dubbio è che un'operazione così complessa — e che richiede almeno un anno e mezzo di impegno parlamentare — necessita di una fase di stabilità. Questa stabilità sarà garantita? Altrimenti c'è il rischio di fallire, di aggiungere un altro tentativo andato a vuoto a quelli precedenti. Sono esperienze che abbiamo già vissuto e che non ci possiamo più permettere». Le preoccupazioni del segretario del Pd sono legate insomma all'atteggiamento del Pdl, non al modello costituzionale che comporterebbe la riscrittura della Carta, «una legge elettorale a doppio turno» e la definizione dei «necessari contrappesi»: «Penso per esempio a una normativa sul conflitto d'interessi, che non dev'essere legata solo alla posizione di Berlusconi, ma va proiettata verso il futuro, perché sia una garanzia di qui ai prossimi decenni».
Le riserve sono scontate in questa fase, ma Epifani sa che la svolta è ineludibile per una forza politica dove le resistenze conservatrici finora hanno sempre avuto la meglio rispetto alle spinte innovatrici. Finora, per non spaccarsi, il gruppo dirigente ha trovato il compromesso rifugiandosi nel limbo dell'indecisionismo: «Finora — ammette il senatore Latorre — ci siamo limitati a ripetere "o sistema tedesco o sistema francese". Ma, immersi come siamo in una crisi di sistema, è giunto il momento di dire con chiarezza qual è la nostra idea di modello democratico. Adesso bisogna scegliere». Latorre si volge «decisamente» verso Parigi, come già avevano fatto altri esponenti del Pd nella passata legislatura, quelli che — da Gentiloni a Martella — avevano prima depositato un progetto di legge sul semipresidenzialismo e poi avevano invitato il partito ad accettare la sfida lanciata da Berlusconi nel 2012.
È vero che il tabù a sinistra era stato sfatato già sedici anni fa, nella stagione della Bicamerale presieduta da D'Alema, ma allora era stato più per necessità che per convinzione, a causa del voto leghista che in commissione aveva ribaltato i rapporti di forza a favore del modello francese. Infatti, quando nel 2008 l'allora vicesegretario Franceschini sposò pubblicamente la causa dell'elezione diretta del capo dello Stato, nel Pd scoppiò l'iradiddio. Ora che fa il ministro per i rapporti con il Parlamento, non ha cambiato idea. Tuttavia, per centrare l'obiettivo, alla vigilia del voto in Parlamento sulle mozioni che darebbero vita alla «Commissione dei quaranta», predica prudenza: «Un passo alla volta», dice Franceschini. Proprio il motto di Epifani: «Un passo alla volta», per evitare che le trattative su «una buona soluzione» si chiudano con un «pessimo esito».
Perché nel Palazzo domina lo scetticismo rispetto al tentativo di arrivare a un accordo sulle revisione della Costituzione, anche se il titolare delle Riforme, Quagliariello, coltiva la speranza, considera «sensato» il ragionamento di Epifani e invita il Pd a non dubitare sulla sincera disponibilità del Pdl: «Prove di responsabilità ce ne sono già state tante. Il punto è che nel sistema ci sono variabili incontrollabili». È un'allusione al nodo della giustizia, al rischio «che va scongiurato» di un cortocircuito fuori dalle dinamiche politiche. Ciononostante, il ministro ritiene che il sentiero delle riforme vada percorso fino in fondo, «e credo che difficilmente in futuro si tornerà a votare per il capo dello Stato come questa volta».
Parole impegnative, come l'intento del governo di coinvolgere nella stesura delle mozioni parlamentari sulle riforme «almeno una parte delle opposizioni», come l'impegno di chiudere «entro un anno», come l'obiettivo di procedere «con tutte le garanzie costituzionali», compreso il referendum confermativo anche se la nuova Costituzione venisse approvata con i due terzi dei voti parlamentari. Resta la «clausola di salvaguardia» per cancellare subito il Porcellum, e non è questione di poco conto perché in tanti sono pronti a usare questo tema per far saltare tutto. Perciò Epifani esorta il Pdl «a trovare un compromesso», in attesa di dare l'ultimo colpo di piccone nel partito e aprire così la strada al semipresidenzialismo, «che ovviamente si porterebbe appresso una legge elettorale a doppio turno». Un sistema di voto che salverebbe il bipolarismo, garantirebbe il ruolo dei partiti tradizionali e ridarebbe slancio al progetto del Pd.

La Stampa 25.5.13
Riforma elettorale, mezzo Pd dice no
Circola il timore di una pre-intesa già siglata tra il governo e il Pdl

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Repubblica 25.5.13
Sinistra Pd e dissidenti M5S
Una cena segreta riunisce i dissidenti “Basta bavagli, bisogna dialogare”
Contatti col Pd Civati, che svela: “L’idea è fare un gruppo”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — La cena si è tenuta martedì sera a casa di un parlamentare a 5 stelle. Sette deputati e due senatori, tra cui una donna, si sono visti per parlare di tutto quello che non va. Delle pressioni dell’ufficio comunicazione alla Camera, dei troppi “talebani” al Senato, dell’assurdità della vicenda diaria, dell’elezione del prossimo capogruppo di Palazzo Madama, che vorrebbero fosse un dialogante. Si sono dati appuntamento su WhatsApp. Le e mail no, «le e mail non sono sicure». Non sono andati tutti, i malpancisti. «Alcuni non potevano, ma erano qui con il cuore», racconta chi c’era. La voce è arrivata fino a Pippo Civati, il pontiere pd, che conferma: «Oltre alla famosa cena, so di altre cose. Il progetto di Sonia Alfano, che è in contatto con alcuni di loro da un mese, sta andando avanti. L’idea è quella di fare un gruppo e staccarsi, a partire dai temi della legalità, ma non solo». «Io ho un canale perennemente aperto con loro - dice la parlamentare ex Idv - molte delle persone che erano alla cena le ho sentite, sto andando avanti e a breve accadrà qualcosa. Concretizzeremo quest’impegno che non vuole essere concorrenziale, ma mettersi a disposizione del Paese».
Al Senato a non farcela più sono in 12 su 54. Alla Camera una ventina. Alcuni di quelli che hanno protestato sulla diaria in eccesso da restituire sono tornati alla base intimoriti. Altri, quelli per cui il problema non sono solo i soldi, ma l’impossibilità di fare liberamente il proprio lavoro, riflettono sul futuro. Davanti a pizze a portar via, birra e coca cola si sono finalmente potuti sfogare guardandosi negli occhi. Deputati e senatori, ognuno a raccontare i propri guai. «Ma vi pare che bisogna chiedere il permesso a qualcuno prima di parlare?», «Ma possibile che ci trattino come ragazzini da mettere in riga?», si lamentano i “giovani” di Montecitorio. I senatori li ascoltano complici, anche se dicono che da loro no - da loro lo staff comunicazione non si azzarda più di tanto - e però, «ci sono i “talebani” che non consentono di fare passi avanti». «Perché mai non possiamo firmare una proposta di legge del Pd se è buona? Potremmo giocarcela mediaticamente, andare da loro con i nostri ddl e dire: adesso tocca a voi».
Per fare le loro mosse i grillini dissidenti aspettano l’occasione buona. Non vogliono fare il gioco di chi li accuserà di voler solo tenersi la diaria. Serve un progetto, una strategia. Per questo si vedranno ancora. Per questo il canale WhatsApp è sempre acceso. È quello che svela che anche per il palco di piazza del Popolo a Roma, i talebani hanno fatto un filtro: «Zaccagnini voleva parlare e non gliel’hanno permesso. Gli hanno detto: ci sono già la Ruocco e Di Battista». È quello che alle parole di Vito Crimi a Radio 24
«Chi non restituirà la diaria sarà invitato ad andarsene» - intercetta reazioni come: «Questi sono da ricovero». Del resto il clima si è fatto pesante. «Hanno detto che potremo rendicontare per macroaree, alloggio, vitto, trasporti, ma ci hanno fatto capire che controlleranno fino all’ultimo scontrino. Cercano scuse per far fuori chi pensa».
Sul palco di Siena giovedì Beppe Grillo li ha lodati, i suoi ragazzi: «Giuseppe, Francesco...». Sente borbottii dietro di sé: «Non c’è nessun Francesco? Dai, almeno fate finta». Ne conosce pochissimi, li conosce pochissimo. A chi stretto in un capannello di attivisti - gli chiede delle difficoltà di questi giorni, risponde piano: «Questa cosa non l’aggiusti, è nella natura umana. Ci sarà chi vuole tenersi i soldi e io non posso farci niente. Posso solo mandarli fuori. Perché quello che bisogna capire è che non ci sono deputati, senatori, ci sono solo portavoce. Devono fare quel che chiede il Movimento. Se non capiscono questo è finita». Con il volto istrionico che vira verso la comprensione risponde a chi lo ferma. Tiene la testa di una attivista tra le mani avvicinandola a sé, perché senta meglio. Poi si guarda intorno, chiama uno dei suoi. La voce cambia, la faccia è scura: «Basta. Chi ha parlato giù dal palco».

Repubblica 25.5.13
Il sondaggio
Swg: Cavaliere ineleggibile per il 59% nel centrosinistra dicono sì 9 su 10


ROMA — Per oltre la metà degli italiani (59%) Silvio Berlusconi è ineleggibile. Ad esserne convinto è quasi la totalità dell’elettorato del Movimento 5Stelle (92%) e un’ampia fascia di centrosinistra (87%). Opposto il punto di vista degli elettori di centrodestra: solo il 10% pensa che Berlusconi sia ineleggibile. È quanto emerge da un sondaggio realizzato dall’Istituto Swg in esclusiva per la trasmissione Agorà su Raitre.

il Fatto 25.5.13
Mal d’essere. Angeli senza frontiere
Non chiamatelo femminicidio, è una strage di donne
Leon Paul Fargue: “...uno sguardo d’amore, questa cosa immensa e che sembra riempire il mondo, non è più visibile”
di Guido Ceronetti


Femminicidio, la parola è orrenda quanto la cosa. Dovrebbe essere facile una correzione filologica, dal momento che il flagello è difficile da rimediare; soltanto i politici italiani, nella loro fiduciosa stoltezza, elaborano ricette su ricette. In generale, tutti vogliono mostrarsi molto zelanti nel difendere le donne da chi le martorizza e le assassina, tra l'adolescenza e la menopausa. La regola, quando si scrive o si parla in pubblico, o si legifera o si governa, è di mai mostrare indifferenza, si tratti di donne, tumori, opere d’arte o altro. Eppure l’indifferenza verso tutto quel che non è appiccicato all’Ego è un incendio che si allarga. A me sono sovranamente indifferenti le Quote Rosa, ma darei una diligente tratto di corda a chi spruzza dell’acido su un volto femminile. Analogamente mi sono Quote Rosa i Paolo Veronese, i De Chirico, tutti i Bacon e Guernica di Picasso; ma spedirei a Guantanamo o a Lefortovo chi attentasse a un Van Gogh o alla Pietà Rondanini.
L’espressione italiana legittima per il femminicidio mi pare non possa essere che strage di donne. La lingua non tollera l’identificazione fra donna e femmina, termine che riporta le donne all’animalità pura. Nel latino di Giovenale femina simplex indica l’elementarietà sessuale, l’ottenebramento orgasmico (io ho tradotto in modo più crudo). Tuttavia il Morandini (Dizionario dei film, Zanichelli) riporta una quindicina di titoli dove compare la parola femmina. In compenso, donne occupa tredici pagine del prezioso dizionario, i film sono più di cento ma non credo di aver-ne visto che Donne in attesa di Bergman.
Il film di Polanski, che aveva lo scopo di divertire, Per favore non mordermi sul collo (titolo italiano) contiene un presagio dell’uccisione rituale di Sharon Tate, che avverrà a Los Angeles due anni dopo, nel 1969, lavoro della setta satanica di Charlie Manson. Come mezzo travolgente di persuasione travolgente al crimine sadico il cinema non ha mancato di fare la sua parte, prima che la televisione s’insediasse nell’immaginario di una quantità di potenziali criminali paranoici. La strage di donne, con cifre da raccapriccio in Italia, con e senza stupro, negli ultimi anni, è un tragico fenomeno culturale. Nel mondo tradizionale, la strage è sacralizzata, dalle foreste preistoriche alle persecuzioni di streghe (cessate nel XVIII secolo, ma perseguite sporadicamente, io raccontai di una streghina diciassettenne, Bernadette Hasler, assassinata in Svizzera il 15 maggio 1966 come indemoniata da una banda di ripugnanti moralizzatori). Berna-dette subì persecuzioni e sequestri per anni, consenzienti i genitori, e finì il suo martirio quella notte sotto le battiture. Oggi, nel mondo desacralizzato, apparentemente secolarizzato, la strage è massificata, e ininterrottamente resuscitata dall’informazione e dallo spettacolo. Del Male, la banalizzazione non cancella l’essenza. Ma è inutile cercare di farlo capire a chi, negandolo ciecamente, ritenga che il rimedio consista in provvedimenti sociali, in detenzioni più o meno lunghe di tipo rieducativo, in pareggiamenti di Opportunità o, rifugio di tutto il bene, nei miracoli della Scuola.
La venerata storia di Roma comincia col così detto “ratto delle Sabine” da parte della delinquenza raccolta nella sua cerchia dal fratricida Romolo. E non crediate sia stato un corteggiamento! Fu un gettarsi di predoni sulla preda, di bestie della foresta sulla femmina, un selvaggio stupro collettivo di riluttanti portate via urlanti tra padri e mariti massacrati. Che da simile canaglia sia poi venuta fuori la legislazione delle Dodici Tavole e dopo qualche secolo l’impressionante bellezza della lingua di Lucrezio è degno di essere meditato con stupore anche oggi. Ma non sapremo mai quante furono, di quelle povere rapite, le vittime di ulteriori violenze, le assoggettate a un diritto maritale e paterfamiliare che legittimava l’ammazzamento domestico.
UN SETTIMANALE satirico tedesco, che trovavo in via Veneto intorno al Settanta, riportava un graffito tutt’altro che superficiale; diceva: LIEBE IST TOT, SCHWEIN LEBT (Amore è morto, viva il porco). Memorabile intuito profetico. Silenziosa, la Morte è entrata nella stanza dove dorme la coppia umana e ha reciso il filo che legava i due sulle vie invisibili. Se non resta che la colla sessuale, la provvisoria desiderabilità del corpo, la violenza è dietro la porta, l’arma omicida c’è qualcuno che la impugna e che la porge come il pugnale nella visione di Macbeth. L’anagramma di porco è corpo. Se non vive che il corpo, e l’amore è morto, il porco soltanto vive.
La prima repressione del crimine si fa sorvegliando e reprimendo parole. Se Franco Battiato dice in pubblico che abbiamo più troie in Parlamento, riducendone l’umanità, anzi annullandola, è come se gli sparasse, non è un volgare insulto; in privato, invece, è libero di dirne ciò che vuole. Chiunque uccida, per prima cosa pensa con disprezzo alla persona da uccidere, la uccide in quanto è una troia, un animale sudicio, di cui intende purificare l’ambiente. Prima il fango poi il sangue. In un clima attossicatissimo da pulsioni di morte, favorito da inaudite, forsennate rimozioni dal linguaggio di tutto ciò che possa evocarla, sui bersagli più deboli, più fragili, bambini, le donne, brutalità e sadismo sanguinari si avventano senza barriere. Al di là della troia, è il profilo esterno della donna-strega a essere odiato e temuto. L’ordine psicologico a uccidere proviene da lontano. Il più logico dei rimedi a queste strazianti stragi è il più ovvio e il più povero: non renderle imitabili pubblicizzandole. Il silenzio mediatico dissipa l’idea fissa, non stuzzica il manico nella sua tana. Non credo molto, in verità, nella prevenzione, in specie di un crimine così attorcigliato a destini individuali: ma non ne vedo altri. Aggiungi l’impossibilità di un reale silenzio, che dovrebbe essere totale, e a cui sfuggirebbe in ogni caso l’onnipotente Rete. Allora, come fermare la stomachevole statistica?

La Stampa 25.5.13
Troppe differenze tra le mense d’Italia
«A troppi bambini viene a mancare la possibilità di mangiare a scuola, insieme ai propri compagni:
criteri di accesso al servizio di refezione umilianti nei confronti delle fasce più deboli»
di Flavia Amabile

qui

l’Unità 25.5.13
La ministra Kyenge celebra Makeba
Stasera a Sarzana il premio riservato alla grande «Mama» d’Africa, voce potente contro il razzismo
di Ri.Val.


QUESTA SERA CECILE KYENGE, IL MINISTRO DELL’INTEGRAZIONE, sarà ospite dell’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana, quest’anno assegnato alla memoria di Miriam Zenzile Makeba.Il ministro ha accolto con favore l’invito a partecipare all’evento, per l’importanza del Premio, che celebra la figura di Miriam Makeba, artista sudafricana universalmente riconosciuta per il suo fondamentale impegno nella lotta contro l’apartheid, e per unirsi alla presenza dell’ambasciatore del Sudafrica, Nomatemba Tambo, figlia del compianto leader dell’African National Congress, Oliver Tambo.
Il premio dell’’Acoustic Guitar Meeting di Sarzanainforma una nota è inteso a celebrare la canzone popolare come rilevante strumento di impegno sociale e i suoi interpreti per eccellenza: la voce e la chitarra acustica. La premiazione di questa sera è un riconoscimento alla cantante sudafricana per il suo spessore artistico e umano, universalmente riconosciuto in ambito musicale e sociale, e per il suo straordinario impegno civile.
«Ambasciatrice nel mondo delle idee di Nelson Mandela e delle ragioni della lotta contro l'apartheid recita la motivazione Miriam Makeba si è sempre schierata e ha lottato al fianco degli oppressi del suo paese e di qualsiasi altra nazionalità, pagando di persona con l'esilio e lunghe persecuzioni, ma ricevendo importanti riconoscimenti dalle più grandi organizzazioni umanitarie mondiali e dai più grandi protagonisti della scena politica internazionale. Scegliendo canzoni e melodie come modo di comunicare e utilizzando la sua bellissima voce, ha vissuto un'intensa carriera artistica, mai disgiunta dall'impegno e operato per una società migliore e tesa al progresso civile».
IL RAPPORTO CON L’ITALIA
Ritirerà il Premio alla memoria Roberto Meglioli, manager dell'artista sudafricana e al suo fianco in un sodalizio di stima e amicizia duraturi nel tempo. Questo speciale rapporto, che ha fatto sì che Miriam Makeba visitasse più volte l'Italia e lasciasse molte testimonianze della sua grandezza e umanità anche nel nostro paese, è proseguito per più di venti anni, fino al 9 novembre 2008, quando a Castelvolturno, Miriam ha lasciato per sempre la sua voce tra le braccia di Roberto.
Il Premio consiste in una targa scolpita in bronzo dal maestro Luigi Mainolfi, che sarà consegnato dal Sindaco di Sarzana e dall'Assessore alla Cultura della Regione Liguria. Una copia del Premio verrà successivamente consegnata alla famiglia della grande artista.

Repubblica 25.5.13
La sfida del Viagra rosa “Così una pillola riaccende il desiderio delle donne”
Agisce sul cervello. In vendita negli Usa già nel 2016
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — La prima rivoluzione fu la pillola anticoncenzionale che cambiò la società oltre che la vita delle donne, ora, cinquant’anni dopo, arriva la seconda spallata con una medicina che promette di aver trovato l’interruttore del piacere femminile. A lavorarci è un ricercatore olandese Adriaan Tuiten che è sicuro di mettere la sua creazione sul mercato dal 2016. Viene automatico chiamarlo il “Viagra rosa” ma questo è diverso, qualcosa di completamente nuovo che agisce sul cervello prima ancora che sul corpo.
La molla che spinge le industrie farmaceutiche a studiare il nuovo prodotto è invece la stessa: la montagna di soldi che la caramella blu ha portato nelle loro tasche. Ma sino adesso tutti gli esperimenti sono falliti: gel, spray nasali e altre medicine si sono rivelate dei placebo o peggio ancora dannose. Ora la svolta. O almeno ne è convinto Tuiten, che cerca il suo Graal da oltre vent’anni, da quando una fidanzata “crudele” gli ha spezzato il cuore all’università lasciandolo per un altro. La sperimentazione è in stadio avanzato: oltre quattrocento donne hanno risposto ai suoi test e presto saranno mille: «La Food and Drug Administration esaminerà il nostro lavoro que-st’estate, sono sicuro che ci daranno il via libera: la cura funziona».
Lui è ovviamente entusiasta, anche perché mettere a punto Lybrido, così si chiama, non è stato facile. Il desiderio della donna, come racconta nella sua inchiesta di copertina il Magazine del New York Times, è un mistero contro cui la scienza sbatte il muso da sempre, con tanto di dibattito infinito sul misterioso punto G. Non è questione fisica, come lo è al 90% negli uomini, tanto che il Viagra agisce in maniera idraulica e meccanica sui vasi sanguigni: per le donne molti studi pubblicati, poche certezze. La passione può calare per gli effetti della menopausa, oppure per l’uso di antidepressivi. O perché ci sono uomini distratti, frettolosi, incapaci. E poi arrivano i figli, il lavoro è sempre più impegnativo, la vita è così maledettamente complicata che tenere tutto assieme diventa quasi impossibile. «A fine giornata, quando salivo in camera da letto speravo solo che mio marito dormisse», racconta una delle donne che sta provando il farmaco.
Ai test partecipano solo donne con una vita sessuale monogama, perché tra i mille punti interrogativi, gli studi sembrano convergere su un punto: la lunga convivenza non fa bene al sesso, che può sembrare una banalità ma ora ha il sostegno della scienza. Le donne sono quelle che soffrono di più la monotonia. Jori Brotto, psicologa alla University of British Columbia spiega: «Il fattore che ritorna sempre nelle mie pazienti è la noia. Nelle lunghe convivenze nelle nostre teste, lo dico anche per esperienza personale, qualcosa si spegne. Molto più velocemente di quanto non avvenga nei maschi». Da qui la necessità di una medicina che agisca non solo sul corpo ma anche e soprattutto sul cervello: la vera torre di comando del piacere rosa. Ed è così che Lybrido funziona andando ad alterare gli equilibri della dopamina e della serotonina, alzando il livello della prima che funziona da eccitante e abbassando le dosi dell’altra che controlla i freni inibitori.
Effetti combinati poi con altri agenti chimici che vanno ad agire sui flussi sanguigni potenziandoli. Tra i componenti infine anche testosterone e buspirone (usato di solito contro l’ansia).
Ma l’aver trovato, ammesso che sia così, gli ingredienti giusti non regala la ricetta per una vita monogama perfetta e felice.
Molti uomini potrebbero sentirsi delusi da non bastare alle loro compagne, altri decidere invece di regalare dosi industriali per Natale. E magari le stesse mogli o fidanzate potrebbero reagire male se scoprissero che il sesso ritrovato non significa la fine dei problemi di coppia.
E uno dei ginecologi che sta lavorando al progetto rivela che la stessa Fda starebbe pensando di negare il via libera per la paura delle conseguenze che questa avrebbe sulla società: «Molti vorrebbero che funzionasse, ma che non funzionasse troppo. Le mie fonti mi dicono che c’è molta discussione nella commissione». E una giornalista del New York Magazine scherza, ma non troppo, sul suo blog: «Se non diventeremo tutte ninfomani, salveremo i nostri rapporti». Sul sito del New York Times poi molte lettrici sono infuriate: «È raccapricciante tutto questo. Mi dovete spiegare perché sono solo uomini a studiare il nostro piacere». Altre invece sono più possibiliste: «Se funziona perché no? Magari finalmente si guarderà un po’ meno basket in televisione». La migliore è Jewels, che chiude le polemiche con una battuta: «Ora devo correre a nascondere questo articolo a mio marito. Voglio passare un week end tranquillo».

Repubblica 25.5.13
La sessuologa Chiara Simonelli
“C’è attesa per il farmaco ma non risolverà tutti i problemi”
intervista di di Irene Maria Scalise


ROMA — Se la pillola del piacere arriverà sul mercato non potrà, comunque, risolvere i problemi di tutte le donne. Sarà un aiuto ma solo per alcune. Non ha dubbi Chiara Simonelli, presidente della Società italiana di sessuologia scientifica e della European federation of sexology.
In America c’è attesa per la pillola del piacere femminile. Cosa ne pensa?
«Sono noti i dati epidemiologici legati alla sessualità femminile. Il problema del desiderio è trasversale e per questo tutti sono molto interessati. Io stessa avevo partecipato ad un tavolo per una precedente pillola che poi non fu approvata dalla Food and drug administration».
Ma è possibile che una sola pillola agendo sul cervello possa aiutare le donne a raggiungere il piacere?
«Una pillola può essere la risposta a una serie di mancanze ma non potrà coprire tutte le situazioni all’origine del calo del desiderio. Ci sono donne che, pur non desiderando più il compagno, scelgono di restare con lui per i figli, per la sicurezza economica, per affetto: come si può agire su situazioni così diverse?».
La soluzione potrebbe essere adottare pillole diverse in base al tipo di problema?
«In questo caso il successo è più probabile. Per esempio nel calo del desiderio in menopausa si può lavorare perché è un meccanismo più conosciuto».
Sarà la volta buona perché la Fda dica sì?
«Me lo auguro perché anche se aiuterà solo un target di donne sarà comunque qualcosa. Non sono contraria a nulla che possa aiutare il piacere femminile, dopo che per gli uomini si è lavorato tanto».

La Stampa 25.5.13
Parigi, contro i matrimoni gay la destra tenta l’ultimo assalto
Tensioni alla vigilia della manifestazione. Fuori controllo le frange estremiste
di Alberto Mattioli


Sotto scorta Frigide Barjot, l’attivista del collettivo «Manif pour tous», che si oppone alla legge ma lo fa in modo pacifico, ha annunciato che non andrà in piazza per ragioni di sicurezza Ha spiegato di aver ricevuto minacce e ottenuto la scorta

Non si può nemmeno dire che si aspetta solo che ci scappi il morto perché, in questa interminabile battaglia sul matrimonio gay, il morto c’è già stato: Dominique Venner, l’intellettuale di estrema destra che si è suicidato martedì sull’altar maggiore di Notre-Dame. Ma l’atmosfera resta pessima e le previsioni pessimistiche sull’ennesima «manif pour tous», la manifestazione per tutti contro il matrimonio per tutti, in programma domani a Parigi in formato extralarge: gli organizzatori si aspettano «almeno» un milione di persone, la Prefettura ovviamente minimizza ma ne prevede dalle 2 alle 300 mila, che non sono comunque poche.
Due prese di posizione agitano la vigilia. L’egeria del movimento, Frigide Barjot, annuncia che non andrà in piazza per ragioni di sicurezza. Il ministro degli Interni, Manuel Valls, che vuole mettere fuori legge la «Printemps française», la Primavera francese, l’ala violenta dei manifestanti, a destra della destra, poche persone (da 300 a 500, sempre secondo la polizia) che lanciano proclami su Internet e sanpietrini nelle strade.
La legge ormai è passata, François Hollande l’ha promulgata il 18 e, trascorsi i dieci giorni per le pubblicazioni, mercoledì 29, a Montpellier, la sindachessa socialista dovrebbe dichiarare «marito e marito» Vincent e Bruno, primi coniugi dello stesso sesso della storia francese. Ma la valanga della «manif» non si ferma. Mercoledì, sul sito della Printemps è comparso un comunicato, anzi l’«Ordine del giorno numero uno». Lì si invoca «una nuova resistenza» e se ne elencano «i bersagli»: «Il governo attuale e tutte le sue appendici, i partiti politici collaborazionisti, le lobby dove si elaborano i programmi dell’ideologia e gli organi che li diffondono».
Valls ha replicato rivelando che negli ultimi giorni si sono moltiplicate le minacce di morte: «Non c’è posto per i gruppi che sfidano la République, la democrazia e se la prendono con le persone». L’articolo L212-1 del Codice di pubblica sicurezza prevede la dissoluzione dei «gruppi di combattimento e delle milizie private» e il ministro vuole applicarlo. Béatrice Bourges, portavoce della Printemps, ha controreplicato beffarda: «Vietare uno stato d’animo mi sembra complicato». Si va chiaramente allo scontro.
Non si può nemmeno dire che si aspetta solo che ci scappi il morto perché, in questa interminabile battaglia sul matrimonio gay, il morto c’è già stato: Dominique Venner, l’intellettuale di estrema destra che si è suicidato martedì sull’altar maggiore di Notre-Dame. Ma l’atmosfera resta pessima e le previsioni pessimistiche sull’ennesima «manif pour tous», la manifestazione per tutti contro il matrimonio per tutti, in programma domani a Parigi in formato extralarge: gli organizzatori si aspettano «almeno» un milione di persone, la Prefettura ovviamente minimizza ma ne prevede dalle 2 alle 300 mila, che non sono comunque poche.
Due prese di posizione agitano la vigilia. L’egeria del movimento, Frigide Barjot, annuncia che non andrà in piazza per ragioni di sicurezza. Il ministro degli Interni, Manuel Valls, che vuole mettere fuori legge la «Printemps française», la Primavera francese, l’ala violenta dei manifestanti, a destra della destra, poche persone (da 300 a 500, sempre secondo la polizia) che lanciano proclami su Internet e sanpietrini nelle strade.
La legge ormai è passata, François Hollande l’ha promulgata il 18 e, trascorsi i dieci giorni per le pubblicazioni, mercoledì 29, a Montpellier, la sindachessa socialista dovrebbe dichiarare «marito e marito» Vincent e Bruno, primi coniugi dello stesso sesso della storia francese. Ma la valanga della «manif» non si ferma. Mercoledì, sul sito della Printemps è comparso un comunicato, anzi l’«Ordine del giorno numero uno». Lì si invoca «una nuova resistenza» e se ne elencano «i bersagli»: «Il governo attuale e tutte le sue appendici, i partiti politici collaborazionisti, le lobby dove si elaborano i programmi dell’ideologia e gli organi che li diffondono».
Valls ha replicato rivelando che negli ultimi giorni si sono moltiplicate le minacce di morte: «Non c’è posto per i gruppi che sfidano la République, la democrazia e se la prendono con le persone». L’articolo L212-1 del Codice di pubblica sicurezza prevede la dissoluzione dei «gruppi di combattimento e delle milizie private» e il ministro vuole applicarlo. Béatrice Bourges, portavoce della Printemps, ha controreplicato beffarda: «Vietare uno stato d’animo mi sembra complicato». Si va chiaramente allo scontro.
Madame Barjot e i suoi fidi sembrano degli apprendisti stregoni che hanno scatenato forze che non riescono più a controllare. Lei ha sempre accuratamente evitato ogni forma di omofobia e pensa che il matrimonio gay possa essere sostituito da un «contratto di unione civile» che non preveda l’adozione. E’ contestatissima proprio per questo. Ha annunciato di aver ricevuto minacce e di aver chiesto e ottenuto la scorta. E ieri ha spiegato perché non andrà al corteo che ha organizzato lei: «Non voglio lasciare delle centinaia di migliaia di persone in un sentimento d’abbandono. Ma, se la nostra presenza e il nostro punto di vista suscitano delle violenze, se la nostra libertà di parola non è rispettata, non resteremo».
Sfilerà invece l’Ump, il partito di centrodestra a sua volta spaccato fra chi vuole la lotta a oltranza e chi sostiene che, una volta che una legge è approvata, non resta che rispettarla. La maggioranza silenziosa, in ogni caso, è stufa della minoranza rumorosa: secondo l’ultimo sondaggio, il 62% dei francesi vorrebbe farla finita con le manifestazioni. E voltare finalmente pagina.
Madame Barjot e i suoi fidi sembrano degli apprendisti stregoni che hanno scatenato forze che non riescono più a controllare. Lei ha sempre accuratamente evitato ogni forma di omofobia e pensa che il matrimonio gay possa essere sostituito da un «contratto di unione civile» che non preveda l’adozione. E’ contestatissima proprio per questo. Ha annunciato di aver ricevuto minacce e di aver chiesto e ottenuto la scorta. E ieri ha spiegato perché non andrà al corteo che ha organizzato lei: «Non voglio lasciare delle centinaia di migliaia di persone in un sentimento d’abbandono. Ma, se la nostra presenza e il nostro punto di vista suscitano delle violenze, se la nostra libertà di parola non è rispettata, non resteremo».
Sfilerà invece l’Ump, il partito di centrodestra a sua volta spaccato fra chi vuole la lotta a oltranza e chi sostiene che, una volta che una legge è approvata, non resta che rispettarla. La maggioranza silenziosa, in ogni caso, è stufa della minoranza rumorosa: secondo l’ultimo sondaggio, il 62% dei francesi vorrebbe farla finita con le manifestazioni. E voltare finalmente pagina.

La Stampa TuttoLibri 25.5.13
Il poeta turco scomparso mezzo secolo fa
Hikmet, fare l’amore fino all’ultimo verso
Tra eros, carcere, comunismo romantico un volume ricco di inediti e nuove traduzioni
di Maurizio Cucchi


Nâzim Hikmet nato in Turchia nel 1902 è morto in esilio, nell’Unione Sovietica nel 1963

Sono felice di essere venuto a questo mondo
Sono felice di esser venuto a questo mondo, adoro la sua terra, la sua luce, adoro la sua lotta e il pane suo. Se conosco al centimetro la misura del suo diametro e non sono all’oscuro che accanto al sole è un ninnolo per me non ha limiti il mondo. Vorrei vagare per il mondo, vedere pesci, frutti, astri mai visti. E invece il mio viaggio in Europa l’ho fatto solamente tra gli scritti e i dipinti. Mai ricevuta una lettera soltanto col francobollo blu timbrato in Asia. Io e il droghiere del quartiere siamo decisamente sconosciuti in America. Ma che importa, tra la Cina e la Spagna, il Capo di Buona Speranza e l’Alaska ho amici e nemici per ogni chilometro, o miglio marino. Amici con i quali non ci siamo mai salutati, una volta che sia una, si può morire per lo stesso pane, la stessa libertà, la stessa nostalgia. Nemici assetati del mio sangue e io del loro. La mia forza: è non esser solo in questo vasto mondo. Il mondo con le genti sue non è un mistero nel mio cuore, un mio arcano del sapere. Io libera ho reso la mia testa da punti esclamativi e di domanda, in questa gran battaglia mi sono schierato chiaro e netto. Così a parte questa schiera tu e la terra non mi bastate. Eppure tu mi meravigli così bella la terra è calda e bella.
Nâzim Hikmet «Poesie d’amore e di lotta» a cura di Giampiero Bellingeri Mondadori pp. 375, €22


Nâzim Hikmet è uno dei poeti più letti e amati del Novecento, e le ragioni di questa diffusa passione per la sua opera vanno sicuramente oltre le sue drammatiche vicende personali. Quello che infatti da subito attrae un pubblico molto vasto e vario è la straordinaria vitalità che Hikmet sa esprimere anche dall’interno delle circostanze più dolorose in cui si trovò compresso. Si può infatti dire che la sua è una poesia d’amore totale, in cui il respiro epico e lirico si alternano o si fondono con naturalezza, partendo dall’esperienza reale, dalla realtà direttamente vissuta, per comporre una sorta di aperta autobiografia in versi capace di stacchi verticali e di ampi movimenti narrativi.
Lo possiamo ben vedere in questo nuovo volume, ricco di inediti in italiano, nel quale abbiamo la possibilità di ripercorrere un intero cammino poetico e biografico, arrivando a conoscere persino i versi scritti da un Hikmet ancora bambino o adolescente. Come spiega il curatore, Giampiero Bellingeri, al quale si deve anche il sostanzioso saggio introduttivo, in Poesie d’amore e di lotta viene presentata una scelta di testi tratti dalle maggiori raccolte pubblicate da Hikmet e da tre raccolte postume. Con una importante e vasta sezione di Poesie sparse, disposte in ordine cronologico. In appendice, appunto, sono collocate le Prime poesie. Ma il dato più rilevante è che tutti i versi di Hikmet sono stati direttamente tradotti dalla lingua originale, dallo stesso Bellingeri e da Fabrizio Beltrami e Francesco Boraldo, diversamente da quanto accaduto in versioni già note, fatte soprattutto dal francese, come quelle sicuramente meritorie di Joyce Lussu. Si avverte, nelle nuove traduzioni, la particolare cura dell’aspetto metrico e ritmico, che rende bene la natura vivace e incalzante dei versi del poeta turco.
La vita di Hikmet non fu lunga. Nato nel 1902 a Salonicco da una famiglia dell’aristocrazia turca, era vissuto da bambino in un ambiente in cui la poesia era di casa. Il nonno paterno, Nâzim Pascià, era stato governatore di varie province, ma anche scrittore e poeta in lingua ottomana, una lingua, come scrive lo stesso Hikmet, in cui la maggior parte delle parole erano arabe o persiane. Il nonno materno, figlio di un nobile polacco, militare di carriera, era anche filologo e storico. Il padre era un diplomatico, la madre aveva studiato a Parigi, amava la poesia francese, leggeva al figlio Lamartine e Baudelaire, ed era pittrice.
A diciott’anni, Hikmet passa in Anatolia e partecipa alla guerra di liberazione condotta da Mustafà Kemal (Atatürk). Nel ’21 aderisce al movimento rivoluzionario russo e va a Mosca dove conosce Lenin, Esenin e Majakovskji. Torna poi in Turchia e viene arrestato una prima volta. Nel ’38 viene condannato a 28 anni e 4 mesi di carcere: ne sconterà ben 12 in Anatolia, scrivendo moltissi­ mo. In seguito, una volta liberato, si trasfe­ rirà in Unione Sovietica, vivendo nei pressi di Mosca, in quella che sarà per lui la «ma­ dre Russia», mentre i suoi libri cominciava­ no a essere noti in tutto il mondo. Innume­ revoli i suoi viaggi, anche in Italia. Fino alla morte, sopraggiunta per infarto cinquan­ t’anni fa esatti: il 3 giugno del 1963. Aveva dunque 61 anni, 17 dei quali trascorsi in pri­ gione.
La lotta, il carcere, l’amore sono le mag­ giori etichette sotto le quali i suoi versi ven­ gono in genere catalogati. Ma si tratta, co­ munque, di elementi che molto spesso in­ trecciano e coesitono, pur nel passaggio da inizi sperimentali ­ presente anche l’esempio di Majakovskji ­ a un canto più disteso e linea­ re o all’efficace alternarsi narrativo di versi e prosa come in Perché Benerci si è ucciso?
Tornando a Hikmet con questo bel volu­ me, non possiamo ancora una volta non re­ stare sorpresi e catturati dalla impressionan­ te ricchezza di immagini e situazioni, di figu­ re e personaggi che il poeta riesce a produr­ re. Un’apertura all’esistere e alla speranza, in lui, davvero irrinunciabile: «Ho perso la mia libertà, ho perso il mio pane, oltre a te, /ma tra fame, tenebre e grida /mai ho perso la fiducia nei giorni che verranno /che alla nostra porta busseranno con le loro mani di sole… //sono felice di esser venuto a questo mondo, /adoro la sua terra, la sua luce […] //vorrei vagare per il mondo, /vedere pesci, frutti, astri mai visti». Ecco uno dei tantissi­ mi esempi dell’energia limpida di un poeta capace continuamente di rinnovare la sua adesione alla vita, passando attraverso i più vari luoghi del mondo, cantando Istanbul, Mosca, Parigi, Tallinn, Varsavia, Praga, Buca­ rest, Baku, L’Avana con una libertà interiore fortissima e incrollabile, da grande poeta e grande personaggio come Hikmet ha sapu­to essere sempre.

Repubblica 25.5.13
Il coraggio di Beethoven
Il genio che rovesciò il senso dell’armonia
di Daniel Barenboim


L’importanza del compositore nella storia della musica è nella sua natura rivoluzionaria
Era un libero pensatore che invita chi lo esegue a spingersi fin sull’orlo del precipizio

È sempre interessante, talvolta perfino importante, conoscere a fondo la vita di un compo-sitore, ma non è essenziale per comprenderne le opere. Nel caso di Beethoven, non bisogna dimenticarsi che nel 1802, l’anno in cui contemplava il suicidio – come scrisse in una lettera mai spedita ai suoi fratelli, che è diventata nota come il «Testamento di Heiligenstadt» – compose anche la Seconda sinfonia, una delle sue opere più ottimiste e positive: è la dimostrazione di quanto sia importante separare la sua musica dalla sua storia personale, senza confonderle in una cosa sola.
Non cercherò quindi di realizzare un accurato studio psicologico dell’uomo Beethoven attraverso un’analisi delle sue opere o viceversa. Questo articolo si concentrerà sulla musica, pur nella consapevolezza che è impossibile spiegare la natura del messaggio musicale attraverso le parole. La musica ha significati diversi per persone diverse, a volte significa addirittura cose diverse per la stessa persona in diversi momenti della sua vita. La musica può essere poetica, filosofica, sensuale o matematica, ma in qualsiasi caso, a mio parere, ha a che fare con l’anima dell’essere umano. È metafisica, dunque, ma il mezzo di espressione – il suono – è puramente ed esclusivamente fisico. proprio questa coesistenza permanente fra messaggio metafisico e mezzi fisici costituisce secondo me la forza della musica. Ed è anche il motivo per cui, quando cerchiamo di descrivere questa forma d’arte con le parole, tutto quello che riusciamo a fare è esprimere le nostre reazioni alla musica, e non afferrare la musica stessa.
L’importanza di Beethoven nella storia della musica è data principalmente dalla natura rivoluzionaria delle sue composizioni. Beethoven liberò la musica dalle convenzioni dell’armonia e della struttura, fino a quel momento predominanti. A tratti, nelle sue ultime opere, avverto la volontà di rompere ogni segno di continuità: la musica è brusca e apparentemente sconnessa, come nell’ultima sonata per pianoforte (Op. 111).
Nell’espressione musicale, Beethoven non si sentiva vincolato dal peso delle convenzioni. Secondo tutte le fonti era un libero pensatore, un uomo di coraggio, e a mio parere il coraggio è una qualità essenziale per comprendere, e ancora di più per eseguire, le sue opere.
Diventa anzi un requisito indispensabile per chi esegue Beethoven. Le sue composizioni impongono all’esecutore di dar prova di coraggio, per esempio nell’uso della dinamica. L’abitudine di Beethoven di incrementare il volume con un crescendo intenso, facendo seguire bruscamente un passaggio più morbido, un «subito piano», era molto rara nei compositori precedenti. In altre parole, Beethoven chiede ai musicisti di mostrare coraggio, di non avere paura di spingersi fin sull’orlo del precipizio, costringe l’esecutore a trovare la «linea di maggior resistenza», un’espressione coniata dal grande pianista Artur Schnabel.
Beethoven era un uomo profondamente politico, nel senso più ampio del termine. Non era interessato alla politica di tutti i giorni, ma era attento alle questioni legate al comportamento morale e alle problematiche più generali di giusto e sbagliato che interessavano l’intera società. Particolare rilevanza rivestiva la sua visione della libertà, che per lui era associata ai diritti e ai doveri dell’individuo: era un fautore della libertà di pensiero e di espressione personale.
Beethoven non avrebbe avuto alcuna simpatia per la visione, oggi così diffusa, della libertà come libertà essenzialmente economica, necessaria al funzionamento dell’economia di mercato. Un esempio relativamente recente della definizione economica di libertà lo possiamo trovare nella «Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America», il documento pubblicato dal presidente George W. Bush il 17 settembre 2002 per definire la relazione dell’America con il resto del mondo, e in cui si dichiarava che lo scopo degli Stati Uniti, nella loro qualità di nazione più potente del pianeta, era estendere i benefici della libertà a tutto il mondo… Se tu produci qualcosa che per gli altri ha valore, devi poterglielo vendere. Se gli altri producono qualcosa che per te ha valore, devi poterglielo comprare. Questa è la vera libertà, la libertà per una persona – o per una nazione – di guadagnarsi da vivere.
La musica di Beethoven troppo spesso viene vista esclusivamente nel suo aspetto drammatico, come espressione di una lotta titanica. A questo riguardo la Terza sinfonia (l’Eroica) e la Quinta sinfonia rappresentano solo un aspetto della sua opera: bisogna tener conto anche, per esempio, della Sesta sinfonia, la Pastorale.
La sua musica è introversa ed estroversa al tempo stesso e sovrappone ripetutamente queste due qualità. L’unico tratto umano che non è presente nella sua musica è la superficialità. E nemmeno la si può definire «timida» o «graziosa», al contrario: anche quando è intima, come nel Quarto concerto per pianoforte e nella Pastorale, ha un elemento di grandiosità. E quando è grandiosa, rimane al tempo stesso intensamente personale, come è evidente nel caso della Nona sinfonia.
Beethoven a mio parere riuscì a raggiungere un equilibrio perfetto fra pressione verticale – la pressione esercitata dalla padronanza della forma musicale da parte del compositore – e flusso orizzontale: combina costantemente fattori verticali come l’armonia, la tonalità, gli accenti o il tempo (tutti elementi legati a un senso di rigore), con una grande percezione di libertà e fluidità. Questa questione degli estremi e dell’equilibrio doveva essere, credo, una preoccupazione costante per lui. Se ne trova un’espressione nel Fidelio: la composizione contiene un movimento costante fra due poli opposti, tra la luce e l’oscurità, tra il negativo e il positivo, tra gli eventi che avvengono sopra, in superficie, e quelli che hanno luogo sottoterra. Così come era incapace di scrivere qualcosa di superficiale, o semplicemente di grazioso, non riusciva o non voleva scrivere nulla che raffigurasse qualcosa di fondamentalmente ed esclusivamente malvagio. Perfino un personaggio come Pizarro, il governatore della prigione di Fidelio, può essere visto come una personificazione della corruzione e dell’oppressione, ma non del male.
La musica di Beethoven tende a muoversi dal caos all’ordine (come nell’introduzione della Quarta sinfonia), come se l’ordine fosse un imperativo dell’esistenza umana. Per lui, l’ordine non significa dimenticare o ignorare i disordini che affliggono la nostra esistenza: l’ordine è uno sviluppo necessario, un miglioramento che può portare all’ideale greco della catarsi. Non a casa la Marcia Funebre non è l’ultimo movimento della sinfonia Eroica, ma il secondo, affinché la sofferenza non abbia l’ultima parola. Gran parte dell’opera di Beethoven si potrebbe parafrasare così: la sofferenza è inevitabile, ma è il coraggio di combatterla che rende la vita degna di essere vissuta.
© 2013 The New York Review of Books.
Distributed by The New York Times Syndicate. Traduzione di Fabio Galimberti


Repubblica 25.5.13
Michelangelo e le donne
Quelle Sibille così maschili a immagine di Dio
Nuovi studi analizzano l’iconografia della Sistina alla luce dell’influenza di Agostino e della riforma
di Carlo Alberto Bucci


Le parti femminili nel teatro furono per molti secoli interpretate esclusivamente da attori maschi. Le donne non erano giudicate all’altezza di quel podio. Ma nella scena pittorica della Genesi, liberamente e magistralmente ribaltata sulla volta della Sistina cancellando nel 1508 il vecchio cielo stellato, che necessità aveva Michelangelo di dare alle Sibille e alle altre eroine dell’Antico Testamento il corpo muscoloso di un “palestrato”? Le ragioni della mascolinità del femminino michelangiolesco, addirittura esibita nella cappella dei conclavi in Vaticano, non sfuggono all’immagine caricaturale di un mondo tutto virile quasi fosse imposto a Buonarroti dalla propria omosessualità. Come se l’immenso artista toscano non fosse stato in grado di contemplare e rappresentare anche una bellezza altra da sé e dall’amato Tommaso Cavalieri. Di fronte all’evidente, conturbante machismo della sibilla Cumana, e che si riscontra anche già nelle straordinarie braccia virili (per la prima volta nude) della Madonna nel Tondo Doni, si è parlato di «marchio della cultura patriarcale del Rinascimento» (Yael Even) ; di «passione fisica (omoerotica) per il corpo maschile» (Howard Hibbard) ; di «misoginia» (Gill Sauders).
C’è però anche un motivo più profondo per cui la splendida sibilla Libica o la possente, anziana Persica, ma anche Caterina e le altre sante presenti nel Giudizio Universale affrescato dal 1536 sulla parete d’altare della Sistina, hanno il corpo muscoloso dei ragazzi spogliati e presi a modello da Michelangelo nella sua bottega. E si spiega col pensiero di sant’Agostino, attraverso uno dei suoi massimi esegeti del tempo, Egidio da Viterbo: teologo e predicatore caro alla corte di papa Giulio II ma anche interprete nel pensiero neoplatonico al quale si era abbeverato Michelangelo negli anni della formazione fiorentina. «La chiave di volta nell’interpretazione della Sistina è l’imago Dei nell’interpretazione del vescovo di Ippona», dice Costanza Barbieri, che lunedì, alla giornata di studi organizzata dall’Università Europea di Roma, per i 500 anni (1512-2012) della Sistina, terrà un intervento dal titolo Un uomo in una donna, anzi uno dio per la sua bocca parla: sant’Agostino e le donne mascoline di Michelangelo.
La prima parte del titolo è tratta da una poesia scritta dal Buonarroti per una donna, quella Vittoria Colonna che il maestro frequentò a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. «In questo sonetto — spiega Barbieri — l’artista rivolge all’amica poetessa un complimento inaspettato. La paragona a un uomo. Di più: a “uno dio” che “per sua bocca parla”, quasi una sibilla. E stare a sentirla è fonte per Michelangelo di una illuminazione così intensa che il maestro si dichiara conquistato: “ond’io per ascoltarla/ son fatto tal, che ma’ più sarò mio».
Questa visione “maschia” delle donne non è una prerogativa di Buonarroti. «No, è un topos letterario. Molti umanisti esaltano la donna colta e letterata trasfor-mandone l’identità sessuale. Ad esempio, Lauro Querini si rivolge con queste parole all’umanista veronese Isotta Nogarola: “Tu sei vittoriosa sulla tua stessa natura perché con singolare zelo e impegno hai ricercato la vera virtù, che è essenzialmente maschile”».
Come le Vergini affettuose di Raffaello, le Madonne materne di Leonardo, per non parlare delle carnosissime Veneri di Tiziano, anche Michelangelo aveva in gioventù — certo, a suo modo — reso femmine le donne. «Infatti, la mascolinizzazione non avviene sistematicamente — interviene Barbieri — e, prima della Sistina, abbiamo figure femminili assolutamente graziose quali la Vergine della Pietà di San Pietro, la Madonna con il Bambino di Bruges o la stessa Eva della Sistina. Ma nella Volta avviene una metamorfosi», precisa la studiosa di iconologia, autrice nel 2004 di un’importante mostra e di un saggio sulla Pietà di Viterbo dipinta, fra il 1512 e il 1516, da Sebastiano del Piombo con l’aiuto di Michelangelo, e su commissione dell’agostiniano Giovanni Botonti. La città dei Papi è anche il luogo dove dal 1541 Vittoria Colonna visse per tre anni dando vita, con il cardinale inglese Reginald Pole e il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, a quel cenacolo che fu protagonista di un progetto di rinnovamento interno alla Chiesa e che venne tuttavia accusato d’eresia per la contiguità con tesi della la riforma protestante. Ma torniamo agli anni della Sistina, al 1508 quando papa Giulio II Della Rovere distolse a forza Michelangelo dall’incarico di scolpirgli la tomba per impegnarlo per quattro anni ad affrescare la Volta, e quando Martin Lutero non aveva ancora affisso a Wittemberg le sue clamorose 95 tesi. «Anche Lutero era un agostiniano, e l’agostinianesimo informa le istanze rinnovatrici, e non eretiche, del circolo di Viterbo. Però certo — precisa Barbieri — sant’Agostino è presente nella Sistina, attraverso Michelangelo, in un’altra veste. Secondo Esther Gordon Dotson e Maurizio Calvesi, agostiniana è l’impalcatura teologica che sottende alla Sistina e, possiamo aggiungere, anche la ragione profonda dei mascolinizzati corpi femminili, in una visione che contempla anche la bellezza secondo il pensiero dei platonici».
Al centro di tutto c’è il Dio che ha creato Adamo “a sua immagine e somiglianza” e, attraverso suo Figlio, si è incarnato in un uomo.
«Per san Paolo esiste una sostanziale incompatibilità tra la divinità e la femminilità» spiega Barbieri. Tale da precludere alle donne la resurrezione poiché, secondo l’apostolo, i risorti “saranno conformi all’immagine del Figlio di Dio”, ossia a un maschio. «Sant’Agostino però è convinto che le donne nel giorno del Giudizio risorgeranno conservando la loro identità di genere. Questo elemento cruciale è stato affrontato da Kari Elisabeth Borresen, la prima teologa cattolica a coniugare i gender studies con l’esegesi. Il vescovo d’Ippona risolve il dilemma di san Paolo teorizzando che, mentre l’uomo riflette il suo creatore anima e corpo, la donna è duplice e, mentre rispecchia l’imago dei nell’anima razionale, se ne discosta nel corpo. Come è possibile che le donne — si interroga il dottore della Chiesa — perdano il loro sesso una volta risorte? No, non lo perderanno, ma si conformeranno a una nuova immagine. Per visualizzare questa nuova immagine di una donna più vicina all’immagine di Dio, Michelangelo escogita un corpo femminile mascolinizzato in quanto spiritualizzato, più conforme al Figlio, che aumenta in virilità con l’età e con la saggezza». Ed è la predicazione di Egidio da Viterbo «ad affrontare all’inizio del ’500 i temi della dignità dell’uomo, della bellezza e armonia del corpo maschile, specchio del suo creatore, in sermoni di fronte alla corte papale». Alla luce dell’agostinianesimo e del neoplatonismo di Marsilio Ficino sintetizzati dal predicatore agostiniano, Michelangelo trova la giustificazione teologica alla sua visione della centralità della perfetta immagine del maschile, rispecchiamento di quella divina. «E le sue figure femminili — chiosa la studiosa romana — sono infatti tanto più mascolinizzate quanto più si avvicinano spiritualmente a Dio».

Lunedì dalla mattina giornata di studi alla Università Europea di Roma Michelangelo e la Sistina, l’arte e l’esegesi biblica, a cura di Costanza Barbieri e Lucina Vattuone. Interventi di Antonio Paolucci, Silvia Danesi Squarzina, P. Heinrich Pfeiffer, Timothy Verdon, Maurizio Calvesi, Gianluigi Colalucci oltreché di Barbieri e Vattuone.

Corriere 25.5.13
Il presunto eroe
Palatucci, tutte le ombre sulla vita dello «Schindler italiano»
Si dice abbia salvato oltre 5.000 ebrei in una regione dove non ve n’erano neanche la metà. Mito o truffa clamorosa?
di Alessandra Farkas

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