sabato 25 ottobre 2008

Repubblica 25.10.08
La Gelmini dice no agli studenti, il decreto resta Ancora cortei
Berlusconi: "In piazza anche i facinorosi"
Il premier conferma: "Niente dialogo con la sinistra inattendibile che mi definisce un dittatore"
di Gianluca Luzi

PECHINO - «Nessuna possibilità di dialogo con la sinistra inattendibile che mi definisce un dittatore e appoggia i facinorosi che manifestano contro la riforma della scuola». Nel secondo giorno a Pechino per il vertice dell´Asem, Berlusconi torna ad attaccare la sinistra, gli studenti e i mezzi di informazione, Rai in testa, per le contestazioni alla Gelmini. Nel giorno in cui la ministra dell´Istruzione riceve gli studenti, ma solo per confermare che la riforma resta.
«Non ritiro il decreto, bisogna cambiare» ha detto la Gelmini, chiudendo così il dialogo con tutte quelle sigle che avevano posto come condizione per sedersi al tavolo il ritiro dei provvedimenti. La ministra ha negato poi una carenza di finanziamenti: «Non è vero che in Italia si spende poco per l´istruzione, anzi siamo tra i primi d´Europa. Ma si spende male». E per lanciare una controcampagna di informazione a favore della riforma Berlusconi chiede ora ai parlamentari del Pdl di andare nelle scuole, nelle classi a spiegare la bontà delle nuove misure varate dal governo. Mercoledì scorso Forza Italia ha mandato una mail a tutti i parlamentari del Pdl. Contenuto, due allegati: un pieghevole dal titolo "La scuola, o si cambia o si muore", in cui si elencano i punti salienti della riforma e un volantino contro l´atteggiamento disfattista dell´opposizione. Nel pieghevole anche una lettera di Berlusconi che difende i provvedimenti. Tutto materiale che i parlamentari potranno scaricare e distribuire, andando nelle scuole. Intanto ci pensa Berlusconi a controbattere alle accuse dell´opposizione.
Veltroni dice che è inutile replicare alle sue affermazioni sui facinorosi «tanto poi si smentisce»? «Non rispondo neppure - replica il premier - sono abituato a ricevere insulti e calunnie, ormai ho la pelle dura». Le critiche dell´opposizione, taglia corto il capo del governo, «non mi interessano. Io ho una maggioranza in Parlamento e vado avanti. Non c´è nessuna possibilità di dialogo», conferma il premier. Del resto, «affermano che sono un dittatore, perché dovrei dialogare? Se sono un dittatore do ordini e mi impongo. Se invece non è vero che sono un dittatore - argomenta il presidente del consiglio - e non c´è un regime, se la realtà è che siamo un paese democratico in cui c´è una maggioranza assolutamente democratica, che credibilità posso dare a chi afferma che siamo in un regime?». Poi il premier torna ad attaccare un´informazione che «ha divorziato» dalla realtà, ma «le persone di buon senso - aggiunge - sanno dare un giudizio su quello che leggono». Quanto alla polizia nelle università, Berlusconi nega di essersi autosmentito: «Io non ho cambiato giudizio»: lo Stato «deve difendere i diritti dei cittadini tra cui quello di frequentare le scuole e le università». Quindi "i facinorosi" non impediscano l´accesso di altri nelle strutture pubbliche». Ma chi scende in piazza per manifestare il proprio dissenso è automaticamente un facinoroso? «Chi manifesta può essere uno che si oppone perché non è d´accordo. - risponde il premier - ma tantissime manifestazioni sono organizzate dall´estrema sinistra e dai centri sociali, come mi ha confermato il ministro dell´Interno Maroni. Si può ben dire in questi casi - conferma il premier - che in queste manifestazioni ci sono dei facinorosi. Non tutti, piccoli gruppi. E hanno il supporto dei giornali».

I leader dei giovani divisi la sinistra rompe, la destra no "Ma la protesta continuerà"

Repubblica 25.10.08
Dottorandi e ricercatori: "L´Università non si cambia con i tagli"
di Mario Reggio

ROMA - «Io conto sulla mobilitazione della maggioranza silenziosa». Mariastella Gelmini risponde così ai rappresentanti degli studenti che le chiedono di bloccare il decreto prima di iniziare a discutere.
La giornata è iniziata sotto un tiepido sole in quel del Circo Massimo dove si sono dati appuntamento alcune migliaia di studenti delle scuole superiori. Il presidio si scioglie a mezzogiorno e molti si mettono in cammino verso il ministero della Pubblica Istruzione, in viale Trastevere. Si mischiano giovani dei licei, Albertelli e Russel, studenti universitari. Tutti sono curiosi di sapere come andrà a finire l´incontro tra le associazioni che partecipano alla mobilitazione ed il ministro. Alla spicciolata raggiungono il ministero, si sistemano sotto la scalinata, srotolano gli striscioni, quelli che da giorni portano in giro per la città. Arriva la prima delegazione. È l´una e mezza. Il calendario prevede incontri separati, ma i giovani delegati dell´Unione degli Studenti, della Rete degli studenti e dell´Unione degli universitari, salgono assieme al secondo piano dello storico palazzo umbertino. Entrano in una delle austere sale dal soffitto altissimo, li attendono il ministro Mariastella Gelmini, il presidente della Commissione Cultura della Camera Valentina Aprea accompagnati da tre silenziosi collaboratori. Gli universitari chiedono il ritiro dei decreti che tagliano un miliardo agli atenei, il blocco del turn over che prevede due assunzioni ogni dieci docenti che vanno in pensione, la trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato. Nella stanza cala il gelo. Il ministro risponde: «mi stupisco che difendiate una cosa che non funziona come l´università». Stessa risposta ai rappresentanti degli studenti delle superiori: «Siete rimasti indietro, volete preservare lo status quo».
La Gelmini è irremovibile. Il dialogo non è mai iniziato. Gli studenti si alzano e se vanno. Scendono le rampe dell´ampio scalone che porta all´ingresso. Fuori, ad attenderli, centinaia di giovani. «Il dialogo è impossibile, di cosa dobbiamo discutere? La mobilitazione continua». Le parole dei delegati vengono salutate da un boato di approvazione.
Sono passate da poco le due e agli occhi dei cronisti in attesa si presenta una scena imprevedibile. Dalla rampa che curva e porta al cancello d´ingresso appare un manipolo di giovani. Giacca e cravatta, vestito scuro, scarpe lucide nere, come sono lucide le borse di pelle che portano con loro. Marciano con lo stesso passo. Chi sono? I rappresentanti di Azione studenti universitari, quelli di An. Il manipolo scompare dietro il cancello. Arriva anche la delegazione di Azione studentesca delle scuole superiori. La guida Michele Pigliucci, alla fine degli anni ´90 leader della destra nel liceo Giulio Cesare.
Scompare anche lui. Passa una mezz´ora mentre il sit-in degli studenti si sfilaccia. Riappaiono i leader della destra. «Un confronto sincero e costruttivo con il ministro, un buon inizio».
Sfilano i delegati dell´Azione Cattolica, della Federazione universitari cattolici. I primi non chiedono il blocco del decreto «ma che sia migliorato nella fase attuativa. La Fuci critica «lo scarso clima di dialogo e il taglio dei fondi e del turn over». Donato Montibello della Rete universitaria nazionale torna dall´incontro e non nasconde la sua preoccupazione: «Non è stata un´apertura al dialogo, la mobilitazione continua». Sconfortato Giovanni Ricco, segretario dell´Associazione dottorandi e dottori di ricerca: «L´università deve cambiare, ma non lo si fa solo con i tagli, tra i ricercatori precari è ormai diffusa la certezza di un futuro nero, cambiare i concorsi, colpire i baroni che sfruttano le loro posizioni di potere, va tutto bene. Ma pensare di sopravvivere tutta la vita con mille euro al mese è insopportabile e disumano».

Repubblica 25.10.08
Roma, tensione e manganelli è scontro tra studenti e polizia
Il corteo alla Festa del cinema, manifestazioni in tutta Italia
di Marina Cavallieri

I tafferugli quando i ragazzi hanno cercato di bloccare il "red carpet" dei vip
In mattinata avevano sfilato i liceali: in 10 mila a Piazza Navona

ROMA - Cortei, lezioni in piazza e manganellate. Si alza la tensione in quella che doveva essere un´altra giornata di ordinaria protesta. È all´Auditorium di Roma, dove si celebra il Festival del cinema, che irrompe l´Onda anomala. Ma davanti al red carpet delle celebrità, la mobilitazione che fino ad allora era stata quasi festosa, rischia di precipitare nella trappola che tutti temono.
Gli studenti partiti dalla Sapienza, dopo aver preso la metropolitana in massa, arrivano e avanzano, i poliziotti non indietreggiano, partono colpi di manganello, ci sono spintoni e grida, qualcuno urla «non picchiateli». «Poi siamo andati avanti con le mani alzate e ci siamo seduti per un sit-in», racconta uno studente. «Arrivare all´Auditorium fa parte delle iniziative di disturbo che stiamo mettendo in atto per creare disagio all´interno della città». La tensione per un po´ si allenta, ma non del tutto. Così quando quattro studentesse raggiungono il tappeto rosso e aprono uno striscione con scritto "Pay attention, movimento irrappresentabile" e cominciano a spiegare la protesta al pubblico, vengono bloccate e identificate dalla polizia. Gli studenti si allontanano solo in tarda serata, soddisfatti del palcoscenico scelto e consapevoli dell´effetto mediatico.
Se all´Auditorium si sfiora la carica, nelle altre piazze d´Italia la mobilitazione è tranquilla anche se determinata. Trasversale. Perfino dotta. Con gli anziani e illustrissimi professori che fanno lezione nelle piazze. Mentre molti licei occupano e altri invece no, permettono le lezioni. Con le ragazzine quattordicenni in corteo che dicono che andranno allo sciopero dei sindacati del 30 ottobre. E manifestazioni che attraversano all´improvviso le città senza una meta precisa «tanto per far vedere che ci siamo».
La questione scolastica è esplosa, ed è difficile ormai ricondurla dentro una tradizionale trattativa, contenerla in uno teorema, tipo studenti contro professori, genitori contro insegnanti. L´Onda anomala rompe gli argini e anche se non sarà in grado di modificare la legge Gelmini, sicuramente ha già cambiato degli schemi.
A Roma gli studenti medi in mattinata hanno dato vita ad un corteo. I ragazzi erano circa diecimila, provenivano da una decina di licei in mobilitazione, si sono mossi dal circo Massimo fino a piazza Navona, con le studentesse in tenuta estiva, in una strana contaminazione tra slogan impegnati, stornelli e canzonette anni 60. Poco distante, a Montecitorio, ecco di nuovo i fisici in piazza a fare lezione, questa volta con loro c´erano anche i filosofi e più di duecento studenti, tutti bersagliati dai fotografi dei turisti colpiti da una scuola così pittoresca. Alla lavagna questa volta due docenti d´eccezione, Giorgio Parisi e Gianni Jona, che hanno espresso la loro protesta senza slogan, limitandosi a spiegare complicate equazioni. «Condivido gli scopi degli studenti, sono anche i nostri», ha detto Jona. «Sono ragazzi bravissimi, molto impegnati nello studio, non c´entra niente il ‘68. Siamo contrari ai provvedimenti del governo che relega la ricerca a Cenerentola, già tanti ricercatori sono andati all´estero». Lezioni in piazza anche a Milano, Venezia, Napoli dove gli studenti erano imbavagliati. Atti vandalici invece a Lecce mentre due scuole elementari a Lanciano, in Abruzzo, sono in assemblea permanente.

Repubblica 25.10.08
Lezioni in piazza Duomo blitz mediatici e feste l´Onda reinventa la protesta
di Curzio Maltese

"Non ci faremo etichettare, non siamo né comunisti né fannulloni"
Il ´68 appare lontano, i giovani leader sono cresciuti tra marketing e tv
Le nuove forme di mobilitazione: "Slogan e cortei ormai puzzano di vecchio"

Nel mezzo degli anni Settanta, nella bufera delle lotte operaie e studentesche, qui lo slogan vincente era «ma andate a lavorare, barboni!». Figurarsi oggi, in fondo a un trentennio asfaltato da Craxi, Bossi e Berlusconi. Ieri mattina, mentre i capannelli di anziani discutevano se aveva più ragione il Feltri a scrivere che la polizia doveva «manganellare gli studenti nelle parti molli», oppure il Cossiga a volerli «mandare tutti all´ospedale, senza pietà», si sono presentati i ragazzi dell´Onda milanese con i banchetti per tenere le lezioni in piazza. La prima, bellissima, del professor Roberto Escobar, filosofo della politica e raffinato recensore della pagina culturale del Sole 24 Ore, sul tema attualissimo: "Paure e controllo sociale". I capannelli si sono ritratti schifati. «Occhio, sono quelli là, i balordi del Leoncavallo». Il Leoncavallo era un famoso centro sociale degli anni Settanta, rimasto da allora un mito più per la destra che per la sinistra. Nessuno ha trovato ancora il coraggio di comunicare ai pensionati di piazza del Duomo, ai consiglieri di An in giunta, a Berlusconi stesso e alle redazioni di Libero e Giornale che purtroppo il Leoncavallo, sentina di tutti i mali, covo di comunisti drogati, non esiste più da anni. L´hanno deportato a Greco ed è ridotto a un locale di reduci. I ventenni di oggi semmai si trovano al centro sociale Il Cantiere, in via Monterosa, o in quelli della Bicocca. Comunque Roberto Escobar non ha proprio l´aria dell´agitatore rosso, in più non parla in professorese e ha un bel senso dell´umorismo, quindi alla fine qualche benpensante si è staccato dal gruppo, con passo timido, verso l´adunata di sovversivi.
C´è un´astuzia da guerriglieri mediatici degli studenti milanesi, pochi e accerchiati nella roccaforte del Cavaliere, che meriterebbe di essere studiata dall´opposizione, dalla sinistra. Se a Milano la sinistra non si fosse estinta da tempo. «Saremo imprevedibili», avevano promesso e hanno mantenuto. Il rapporto di studenti mobilitati, rispetto a Roma, è di uno a dieci. Per non parlare dei professori "fiancheggiatori", quatto gatti. Eppure riescono a far parlare di sé ogni giorno. Si dividono pezzi di città sulle cartine, come l´altro giorno per il blocco del traffico, e danno l´impressione così di essere moltissimi. Nell´aula della Statale che fu il tempio dei liderini sessantottini, da Capanna a Cafiero, specialisti nel discettare sulle prospettive planetarie del capitalismo, assisto a un collettivo sul tema della comunicazione. Discorsi ruvidi ma affascinanti. Del tipo: «Occupazioni, slogan, cortei, tutta roba che puzza di vecchio. Dobbiamo inventarci ogni giorno una cazzata buona per i notiziari, fare come lui. Il Berlusca quando deve distrarre l´attenzione dal taglio del tempo pieno che fa? Scatena il dibattito sul grembiulino». E quindi vai con le trovate. Un giorno la lezione in piazza sfidando i capannelli, un altro il sit-in coi libri sulle linee del tram, un altro ancora i messaggi in bottiglia da distribuire ai passanti, poi la festa aperta a tutti («un momento ludico ci vuole»). «Qualcuno ha un´altra idea?». Sembra una riunione creativa di pubblicitari.
Marco prende la parola: «Bisogna trovare il modo di non farsi criminalizzare. Di non farsi fottere come i lavoratori dell´Alitalia o i fannulloni dell´impiego pubblico o gli immigrati delinquenti. Se ci trovano un´etichetta, tipo che siamo comunisti o non vogliamo studiare, ce l´abbiamo nel c…». Per ora, in qualche modo, ce l´hanno fatta a sfuggire all´iscrizione nelle liste nere del nuovo maccartismo. A svicolare dalla caccia alle streghe che concentra ogni volta la rabbia di tanti contro una micro categoria in genere di poveri cristi.
Hanno vent´anni, non sanno nulla del ´68, poca roba del ´77, non s´interessano di politica e neanche all´antipolitica. Non è un trucco per non passare "da comunisti". Soltanto negli ultimi dodici anni, dal ´96 al 2008, l´astensionismo al voto dei ventenni è raddoppiato, dal 9 al 18 per cento. Ma sono nati e cresciuti in pieno berlusconismo, nel cuore dell´impero, e hanno sviluppato gli anticorpi giusti. Oltre a una vera ossessione per la comunicazione. «È anche esperienza di vita», chiarisce Luca, 21 anni, Scienze Politiche «Per arrangiarci in fondo che facciamo? Lavoriamo al call center, facciamo i baristi, le consegne, qualcuno lavoricchia in pubblicità. Insomma tutto il giorno a contatto con il pubblico, la gente normale». «E la prima regola per comunicare i contenuti di una lotta è non farsi etichettare dalla politica. Non saremo mai l´esercito di nessun partito», aggiunge una bella ragazza alta e mora, dal piglio lideristico. Età? 22 anni. Nome? Carlotta Cossutta. Parente? «Nipote». Una rivendicazione di autonomia politica dalla nipote dell´Armando Cossutta, il boss del Pci milanese, l´uomo di Mosca, il rifondatore del comunismo, fa un certo effetto. «Intendiamoci, ciascuno ha le sue idee. Ma qui si tratta di comunicare la sostanza. Oggi per esempio siamo qui a discutere del perché sui media ha avuto tanto spazio il piccolo scontro con la polizia dell´altro giorno e non gli argomenti contro la legge». Carlotta guida un gruppo di guerriglieri mediatici che ogni mattina fa monitoraggio su stampa, radio e tv, analizza, studia come «fare notizia».
Alcuni dimostrano un vero talento. La protesta a Scienze Politiche nasce per esempio da una rivista, Acido Politico, la migliore rivista universitaria di questi anni, creata, diretta e scritta quasi per intero fino all´anno scorso da uno studente, Leo. Per esteso il nome è Leonard Berberi, albanese, nato a Durazzo, arrivato in Italia a dieci anni, senza parlare una parola d´italiano. Nessuno l´ha messo in una classe differenziata, si è diplomato e laureato col massimo dei voti ed è arrivato primo al test di ammissione del master di giornalismo della Statale. Nel movimento milanese sono molti i figli di immigrati e moltissimi gli studenti del Sud. Alla ministra Gelmini, che lamenta l´eccesso d´insegnanti meridionali al Nord, bisognerà un giorno comunicare la percentuale di studenti meridionali nella più prestigiosa università milanese, la Bocconi: 45 per cento.
Il marketing del movimento milanese in ogni caso funziona e l´Onda comincia a ingrossarsi. Dal mondo dei docenti arriva solidarietà. Il preside di Scienze Politiche, Daniele Checchi, per primo ha proclamato un giorno di blocco didattico in appoggio alla protesta. La preside di Psicologia alla Bicocca, Laura D´Odorico, ha aderito con entusiasmo: «Era ora che gli atenei si svegliassero dalla rassegnazione decennale a tagli brutali fatti passare come riforme». Lo stesso rettore della Statale, Enrico Decleva, finora assai tiepido, se n´è uscito a sorpresa con un´intervista a Radio Popolare in cui ha ammesso: «Con questi ultimi tagli la Statale non potrà chiudere il bilancio del 2010». Non è neppure vero che l´Onda milanese non faccia politica, almeno nelle alleanze. A cominciare dalla più classica, cioè sfruttare le divisioni nel campo nemico. A Milano, in Lombardia, nelle università il vero potere e il vero consenso non è neppure berlusconiano: si chiama Comunione e Liberazione. Ovvero Formigoni. Ovvero uno che da mesi è impegnato, da destra, nel fare opposizione a qualsiasi iniziativa del governo. Non sarà un caso se uno dei Formigoni boys, Francesco Cacchioli detto "Bencio", responsabile della lista ciellina a Scienze Politiche, che incontro per i corridoi della Statale, dice: «Questa roba qui non è una riforma, è una completa idiozia, una serie di colpi di mannaia senza dietro alcun disegno politico. Noi cattolici finora abbiamo contestato certi modi, i picchetti, i cortei, roba di sinistra. Ma diciamo la verità, nella sostanza non è che abbiano proprio torto».

Repubblica 25.10.08
Nel liceo occupato con mio figlio
Lo scrittore Sandro Veronesi tra i ragazzi dell´istituto di Prato che lui stesso aveva frequentato
"Nel liceo dove studia mio figlio ho scoperto l´occupazione-modello"
di Sandro Veronesi

"I ragazzi hanno chiaro il rischio di infiltrazioni, ma il servizio d´ordine che hanno messo in piedi funziona benissimo"
"Nelle assemblee nessuna violenza: domande serie, contestazioni puntuali. Molto meglio che nei talk show tv"

DUNQUE. L´altra mattina ho deciso di andare a dare un´occhiata al liceo dove si è appena iscritto uno dei miei figli, lo Scientifico Niccolò Copernico di Prato, che è occupato da lunedì scorso.
Mica per nulla: ha più di millequattrocento studenti, e sentire mio figlio quattordicenne dire «occupiamo» o «facciamo autogestione» mi ha un po´ stranito - così sono andato a vedere cosa stavano combinando. Tra l´altro, è lo stesso liceo che ho fatto io, e questo un po´ mi emozionava, ma è pur vero che la sede è cambiata, perciò non correvo il rischio proustiano di sprofondare nella memoria involontaria.
Fin dall´ingresso ho cominciato a constatare qualcosa di sorprendente, di cui vorrei dar conto: si tratta davvero di un´occupazione-modello. Tanto per cominciare, il servizio d´ordine c´è e funziona. Non è nulla di intimidatorio, ma si capisce che gli studenti hanno ben chiaro il pericolo di infiltrazioni che minaccia ogni occupazione, e stanno parecchio attenti. Gliel´ho chiesto: «Chi ve l´ha insegnato a fare un servizio d´ordine come questo?». E la risposta è stata: «L´esperienza». Già, perché i più grandi tre anni fa hanno partecipato a un´altra occupazione e qualcosa l´hanno imparata lì, ma soprattutto ogni anno in questa scuola viene attuato un progetto che si chiama «Agorà», d´accordo con preside e professori, che prevede tre giorni di autogestione totale, per far funzionare il quale gli studenti hanno imparato le tecniche per difendersi dal virus del disordine. D´altra parte, l´occupazione di questo liceo ha luogo anche grazie alla responsabilità che si sono presi preside e docenti, non è conflittuale, ed è basata su un patto di fiducia reciproca: per esempio, le lezioni sono comunque garantite, per tutti quelli che vogliono farle.
Sono sceso nell´aula magna, dov´era in corso un forum alla presenza di centinaia di ragazzi, e mi sono messo ad ascoltare. Stava parlando un esponente locale di Forza Italia, che difendeva i decreti 133 e 137 con gli stessi bizzarri argomenti con cui li difende Berlusconi - negando, cioè, che genereranno i gli effetti per i quali sono stati concepiti. Be´, con mia sorpresa non veniva subissato di fischi - anzi, c´era anche un manipolo di studenti che lo applaudiva. Poi però i ragazzi hanno cominciato a fargli le domande, e nel farle hanno mostrato una competenza sull´argomento dinanzi alla quale la sua retorica semplificatrice è parsa abbastanza miserella. Ero ammirato: quel forum era migliore di ogni talk show che si vede in Tv, ma di gran lunga. Purtroppo però avevo un impegno e sono dovuto andar via, e così sono tornato l´indomani, con tutta la mattina a disposizione per partecipare al forum - anzi, arrivato lì ho scoperto che il forum ero io. Mi hanno dato un microfono e mi hanno fatto parlare, e io mi sono detto attenzione a quello che dici, Sandro: questi ti ascoltano davvero. Perciò ho parlato secondo coscienza, evitando furore, demagogia e linguaggio scurrile. Li ho rincuorati riguardo al timore di un´irruzione della polizia perché, a quanto pare, il ministro dell´Interno su questa faccenda la pensa in maniera un po´ più sfumata del presidente del Consiglio. Li ho incoraggiati ad abbracciare una volta per tutte l´idea di complessità contenuta in tutto quello che studiano, per contrastare la pochezza che ispira questa sventurata stagione civile; gli ho detto che dopotutto la scuola è fatta da esseri umani, e nessuna legge, per quanto sbagliata o dannosa, può impedire agli esseri umani di agire con intelligenza; gli ho detto che il vero problema è la fine del nostro modello socio-economico, che si trova a vivere gli spasmi terminali di un´agonia madornale e gli ho spiegato perché l´Islanda, fino a ieri il paese più ricco d´Europa, è fallita e come sistema-paese non esiste più. Ma soprattutto li ho scongiurati di fermarsi in tempo dinanzi a qualsiasi tentazione di abbassarsi un passamontagna sulla faccia, perché nella rabbia il valore della loro esperienza si disperderebbe completamente, e il bel gesto d´immaginazione che stanno facendo adesso finirebbe giù per il cesso. Insomma mi sono impegnato al massimo, e mentre ero lì che mi impegnavo al massimo pensavo che impegnarsi al massimo è il minimo che si possa fare, in questo momento, dinanzi a quest´esempio di cosa difficile fatta così bene. Alla fine, però, ho avuto l´impressione di avere sbrodolato cose che la maggior parte dei ragazzi sapeva già - anche perché nell´aula c´erano molti professori, e di molte cose devono averne già parlato con loro. Anche la raccomandazione da buon padre di famiglia, di cominciare a pensare a come e quando interrompere l´occupazione, riprendere lo studio e trasferire la protesta in altre iniziative permanenti fuori dall´orario scolastico, potevo risparmiarmela: i ragazzi ci hanno già pensato, contano solo di arrivare alla fine della settimana.
Nella calca, uno di loro mi ha avvicinato e mi ha chiesto se avrei letto una cosa; gli ho detto di sì, lui mi ha allungato un foglio ma quando ha visto che mi apprestavo a leggerlo lì mi ha suggerito di farlo a casa, con calma, perché era un po´ lungo. Stava per cominciare un altro forum, del resto, sulla legalità, tenuto da un avvocato, e bisognava lasciare l´aula magna.
Me ne sono andato con uno strano orgoglio retroattivo: l´orgoglio di esser stato anch´io uno di loro - di aver fatto il liceo in un istituto che trent´anni dopo si sarebbe distinto come esempio nazionale in una situazione confusa, complessa e tecnicamente illegale come un´occupazione. Quando c´ero non l´avrei detto, ecco. Poi, camminando verso casa, ho letto il foglio che mi aveva dato il ragazzo: vista la ritrosia con cui mi aveva pregato di non leggerlo lì pensavo fosse un racconto, o una poesia. Invece era la trascrizione, scaricata da Internet, di un brano del discorso che Piero Calamandrei pronunciò al III Congresso dell´Associazione a Difesa della Scuola Nazionale, a Roma, l´11 febbraio 1950. Un brano illuminante, nella sua attualità. Tornato a casa, sono andato a cercarmelo e l´ho letto per intero - cosa che consiglio a tutti di fare. Poi ho acceso la TV e, a proposito del vero problema, ho saputo che nel frattempo era fallita anche l´Ungheria.

Repubblica 25.10.08
"Il malato cosciente può dire no alle cure”
Il Comitato di bioetica dà ragione a Welby. Silenzio sul caso Eluana
Documento votato con l´astensione di 3 membri che temono via libera all´eutanasia
di Caterina Pasolini

ROMA - Welby è morto a dicembre, dopo aver lottato tra ricorsi e sentenze per vedere riconosciuto il suo diritto a smettere di curarsi, a staccare il respiratore che lo teneva in vita. Ora anche il Comitato nazionale di bioetica gli dà ragione.
In un documento appena approvato scrive infatti che il malato cosciente e informato può dire no alle cure e rinunciare a tutte le terapie, anche quelle salvavita. E che se il medico può rifiutarsi per motivi etici o professionali di eseguire il suo volere, il paziente ha in ogni caso diritto a vedere realizzato il suo desiderio altrove e deve essere sempre seguito e assistito sino alla fine con cure palliative. «Ha insomma diritto a dire no alla sovranità delle macchine sul proprio corpo».
Il testo della relazione dei professori Canestrari, d´Avack e Palazzani, frutto di 30 mesi di lavoro e 15 elaborate stesure, è stato votato quasi all´unanimità, tre le astensioni di chi teme rappresenti un passo verso l´eutanasia. Non fa riferimento al caso di Eluana Englaro, dal momento che il diritto a �dire no´ riguarda solo soggetti «consapevoli e coscienti», ma è sicuramente un passo avanti per il rispetto dei diritti del malato, visto che unisce «laici e cattolici anche nella condanna dell´accanimento terapeutico e impegna i medici ad assistere sino alla fine i pazienti raccomandandosi di evitare l´abbandono dei malati terminali», sottolinea il professor d´Avack.
Uniti sul diritto a dire no alle cure, i membri del Cnb sono divisi sulle valutazioni etiche della scelta. Se infatti i laici sono per la totale autodeterminazione giustificata moralmente e giuridicamente, quelli di formazione cattolica pensano che il malato, pur avendo diritto a rinunciare alle cure, ha l´obbligo morale di vivere avendo una responsabilità verso sé e la società. E considerano inammissibile la richiesta di un malato dipendente che ha bisogno del medico per rinunciare alle cure. Un chiaro riferimento al caso di Piergiorgio Welby che, completamente paralizzato, da solo non avrebbe potuto staccare il respiratore che gli avevano messo contro la sua volontà. Il rifiuto delle terapie, dice il professor Stefano Canestrari, deve essere comunque «l´ipotesi estrema» e il medico «deve tentare di convincere il paziente a curarsi, ma se questi, consapevole, rifiuta, ha diritto a dire no alla sovranità delle macchine sul proprio corpo».
Ecco i punti fondamentali del documento. Il malato può chiedere di non iniziare o di sospendere trattamenti sanitari salva-vita, ma condizione che sia «cosciente e capace di intendere e volere, informato sulle terapie, in grado di manifestare in modo attuale la propria volontà». Se la rinuncia alle cure richiede «un comportamento attivo da parte del medico è riconosciuto il diritto a quest´ultimo di astensione da comportamenti ritenuti contrari alle proprie concezioni etiche e professionali». Si accetta dunque il principio dell´obiezione di coscienza da parte del medico, anche se «il paziente ha in ogni caso il diritto ad ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta all´interruzione delle cure».
Anche i tre astenuti concordano con i principi di base del documento ma ne denunciano anche alcune «lacune». Secondo il bioeticista Francesco D´Agostino, ad esempio, il documento è «elusivo» su un possibile nesso tra eutanasia e stop alle cure che alcuni potrebbero ipotizzare: «Alcuni potrebbero leggervi un passo verso la legalizzazione dell´eutanasia passiva».

Repubblica 25.10.08
Nel Belpaese dell’intolleranza
Violenze e aggressioni, come nei casi delle ultime settimane. Ma anche gesti in apparenza minori. Le denunce si impennano: si va dalla tunisina insultata dall´autista del bus al bar che vieta l´ingresso a "Negri, irregolari e pregiudicati". Radiografia di un´emergenza
Le capitali sono Roma, la provincia lombarda e le principali città del Veneto
di Carlo Bonini

L´Italia Razzista è la geografia di un odio di prossimità, che nei primi dieci mesi di quest´anno ha conosciuto picchi che non ricordava almeno dal 2005. Un odio «naturale», dunque apparentemente invisibile, anche statisticamente, fino a quando non diventa fatto di sangue. Il pestaggio di un ragazzo ghanese in una caserma dei vigili urbani di Parma; il linciaggio di un cinese nella periferia orientale di Roma; il rogo di un capo nomadi nel napoletano; la morte per spranga, a Milano, di un cittadino italiano, ma con la pelle nera del Burkina Faso; l´aggressione di uno studente angolano all´uscita di una discoteca nel genovese.
Dunque, cosa si muove davvero nella pancia del Paese?
Al quinto piano di Largo Chigi, 17, Roma, uffici della presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per le pari opportunità, lavora da quattro anni un ufficio voluto dall´Europa la cui esistenza, significativamente, l´Italia ignora. Si chiama «Unar» (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale). Ha un numero verde (800901010) che raccoglie una media di 10 mila segnalazioni l´anno, proteggendo l´identità di vittime e testimoni. È il database nazionale che misura la qualità e il grado della nostra febbre xenofoba. Arriva dove carabinieri e polizia non arrivano. Perché arriva dove il disprezzo per il diverso non si fa reato e resta "solo" intollerabile violenza psicologica, aggressione verbale, esclusione ingiustificata dai diritti civili.
Nei primi nove mesi di quest´anno l´Ufficio ha accertato 247 casi di discriminazione razziale, con una progressione che, verosimilmente, pareggerà nel 2008 il picco statistico raggiunto nel 2005. Roma, gli hinterland lombardi e le principali città del Veneto si confermano le capitali dell´intolleranza. I luoghi di lavoro, gli sportelli della pubblica amministrazione, i mezzi di trasporto fotografano il perimetro privilegiato della xenofobia. Dove i cittadini dell´Est europeo contendono lo scettro di nuovi Paria ai maghrebini.
In una relazione di 48 cartelle ("La discriminazione razziale in Italia nel 2007") che nelle prossime settimane sarà consegnata alla Presidenza del Consiglio (e di cui trovate parte del dettaglio statistico in queste pagine) si legge: «Il razzismo è diffuso, vago e, spesso, non tematizzato (�) La cifra degli abusi è l´assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati. Gli autori sembra che si sentano pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati a seconda della nazionalità, dell´etnia o del colore della pelle». Privo di ogni sovrastruttura propriamente ideologica, il razzismo italiano si fa «senso comune». Appare impermeabile al contesto degli eventi e all´agenda politica (la curva della discriminazione, almeno sotto l´aspetto statistico, non sembra mai aver risentito in questi 4 anni di elementi che pure avrebbero potuto influenzarla, come, ad esempio, atti terroristici di matrice islamica). Procede al contrario per contagio in comunità urbane che si sentono improvvisamente deprivate di ricchezza, sicurezza, futuro, attraverso «marcatori etnici» che si alimentano di luoghi comuni o, come li definiscono gli addetti, "luoghi di specie". Dice Antonio Giuliani, che dell´Unar è vicedirettore: «I romeni sono subentrati agli albanesi ereditandone nella percezione collettiva gli stessi e identici tratti di "genere". Che sono poi quelli con cui viene regolarmente marchiata ogni nuova comunità percepita come ostile: "Ci rubano il lavoro", "Ci rubano in casa", "Stuprano le nostre donne". Dico di più: i nomadi, che nel nostro Paese non arrivano a 400 mila e per il 50% sono cittadini italiani, sono spesso confusi con i romeni e vengono vissuti come una comunità di milioni di individui. E dico questo perché questo è esattamente quello che raccolgono i nostri operatori nel colloquio quotidiano con il Paese».
L´ordinarietà del pensiero razzista, la sua natura socialmente trasversale, e dunque la sua percepita "inoffensività" e irrilevanza ha il suo corollario nella modesta consapevolezza che, a dispetto anche dei recenti richiami del Capo dello Stato e del Pontefice, ne ha il Paese (prima ancora che la sua classe dirigente). Accade così che le statistiche del ministero dell´Interno ignorino la voce "crimini di matrice razziale", perché quella "razzista" è un´aggravante che spetta alla magistratura contestare e di cui si perde traccia nelle more dei processi penali. Accade che nei commissariati e nelle caserme dei carabinieri di periferia nelle grandi città, il termometro della pressione xenofoba si misuri non tanto nelle denunce presentate, ma in quelle che non possono essere accolte, perché «fatti non costituenti reato». Come quella di un cittadino romeno, dirigente di azienda, che, arrivato in un aeroporto del Veneto, si vede rifiutare il noleggio dell´auto che ha regolarmente prenotato perché - spiega il gentile impiegato al bancone - il Paese da cui proviene «è in una black list» che farebbe della Romania la patria dei furti d´auto e dei rumeni un popolo di ladri. O come quella di un cittadino di un piccolo Comune del centro-Italia che si sveglia un mattino con nuovi cartelli stradali che il sindaco ha voluto per impedire «la sosta anche temporanea dei nomadi».
La xenofobia lavora tanto più in profondità quanto più si fa odio di prossimità (è il caso del maggio scorso al Pigneto). Disprezzo verso donne e uomini etnicamente diversi ma soprattutto socialmente «troppo contigui» e numericamente non più esigui. Anche qui, le statistiche più aggiornate sembrano confermare un´equazione empirica dell´intolleranza che vuole un Paese entrare in sofferenza quando la percentuale di immigrazione supera la soglia del 3 per cento della popolazione autoctona. In Italia, il Paese più vecchio (insieme al Giappone), dalla speranza di vita tra le più alte al mondo e la fecondità tra le più basse, l´indice ha già raggiunto il 6 per cento. E se hanno ragione le previsioni delle Nazioni Unite, tra vent´anni la percentuale raggiungerà il 16, con 11 milioni di cittadini stranieri residenti.
Franco Pittau, filosofo, tra i maggiori studiosi europei dei fenomeni migratori e oggi componente del comitato scientifico della Caritas che cura ogni anno il dossier sull´Immigrazione nel nostro Paese (il prossimo sarà presentato il 30 ottobre a Roma), dice: « È un cruccio che come cristiano non mi lascia più in pace. Se la storia ci impone di vivere insieme perché farci del male anziché provare a convivere? Bisogna abituare la gente a ragionare e non a gridare e a contrapporsi. Non dico che la colpa è dei giornalisti o dei politici o degli uomini di cultura o di qualche altra categoria. La colpa è di noi tutti. Rischiamo di diventare un paese incosciente che, anziché preparare la storia, cerca di frenarla. Si può discutere di tutto, ma senza un´opposizione pregiudiziale allo straniero, a ciò che è differente e fa comodo trasformare in un capro espiatorio. Alcuni atti rasentano la cattiveria gratuita. Mi pare di essere agli albori del movimento dei lavoratori, quando la tutela contro gli infortuni, il pagamento degli assegni familiari, l´assenza dal lavoro per parto venivano ritenute pretese insensate contrarie all´ordine e al buon senso. Poi sappiamo come è andata».
Se Pittau ha ragione, se cioè sarà la Storia ad avere ragione del «pensiero ordinario», l´aria che si respira oggi dice che la strada non sarà né breve, né dritta, né indolore. I centri di ascolto dell´Unar documentano che nel nord-Est del paese sono cominciati ad apparire, con sempre maggiore frequenza, cartelli nei bar in cui si avverte che «gli immigrati non vengono serviti» (se ne è avuto conferma ancora quattro giorni fa a Padova, alle «3 botti» di via Buonarroti, che annunciava il divieto l´ingresso a «Negri, irregolari e pregiudicati»). E che nelle grandi città anche prendere un autobus può diventare occasione di pubblica umiliazione, normalmente nel silenzio dei presenti. Come ha avuto modo di raccontare T., madre tunisina di due bambini, di 1 e 3 anni. «Dovevo prendere il pullman e, prima di salire, avevo chiesto all´autista se potevo entrare con il passeggino. Mi aveva risposto infastidito che dovevo chiuderlo. Con i due bambini in braccio non potevo e così ho promesso che lo avrei chiuso una volta salita. L´autista mi ha insultata. Mi ha gridato di tornarmene da dove venivo. E non è ripartito finché non sono scesa». T., appoggiata dall´Unar, ha fatto causa all´azienda dei trasporti. L´ha persa, perché non ha trovato uno solo dei passeggeri disposto a testimoniare. In compenso ha incontrato di nuovo il conducente che l´aveva umiliata. Dice T. che si è messo a ridere in modo minaccioso. «Prova ora a mandare un´altra lettera», le ha detto.

Repubblica 25.10.08
Hanno tolto la sordina al razzismo
di Tahar Ben Jelloun

Il giorno in cui H., cittadino tunisino con regolare permesso di soggiorno, chiese di partecipare al bando comunale da sessanta licenze per taxi, scoprì che tassisti, qui da noi, si diventa solo se cittadini italiani. Il giorno in cui F. ed L., coppia nigeriana residente in Veneto, risposero a un annuncio per cuochi, scoprirono che l´albergo che li cercava, di neri non ne voleva. E «non per una questione di razzismo», gli venne detto dalla costernata direttrice della pensione, «perché in giardino, ad esempio», lavoravano «da sempre solo i pachistani». Il giorno in cui S., deliziosa adolescente napoletana, finì nella sala d´attesa di un pediatra di base di Roma accompagnata dal padre, alto dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza, realizzò che insieme a lei attendevano soltanto bambini dal colore della pelle diverso dal suo. E ne chiese conto: «Papà, perché da quando ci siamo trasferiti a Roma siamo diventati così sfigati?».
Il Razzismo italiano è un «pensiero ordinario». Abita il pianerottolo dei condomini, le fermate dell´autobus, i tavolini dei bar, i vagoni ferroviari. "Negro", una di quelle parole ormai pronunciate con senso liberatorio nel lessico pubblico, non nelle barzellette.
Preferiscono la televisione, della quale hanno fatto il principale strumento della società dello spettacolo, come aveva previsto il filosofo Guy Debord.
Sono interpellato oggi da cittadini italiani preoccupati per l´attuale deriva della politica del loro governo. L´Italia non è un Paese razzista, benché esistano anche qui, come ovunque, forme di razzismo tra la gente. Oggi però questo razzismo si esprime con una violenza inedita. A Milano è stato ucciso un giovane italiano che per sua sfortuna aveva la pelle nera. E anche altrove sono state commesse aggressioni dello stesso tipo. Non starò ad elencarle tutte; ma episodi del genere suscitano un legittimo allarme nella popolazione che assiste a un cambiamento rilevante del paesaggio umano in cui vive, e alle conseguenze sanguinose cui può portare il razzismo.
In Francia è stato il Fronte nazionale - il partito di estrema destra - a sdoganare i fautori delle discriminazioni: li ha liberati e incoraggiati a dare libero sfogo ai più bassi istinti razzisti. Molti ormai manifestano senza più remore la loro avversione per la gente di colore, gli zingari, gli arabi, i musulmani ecc. E anche in Italia assistiamo allo stesso fenomeno, soprattutto da quando le dichiarazioni di alcuni politici berlusconiani hanno «autorizzato» la gente comune a dire a voce alta ciò prima si mormorava in sordina.
Ed ecco arrivare le nuove norme sulla scuola. Norme non solo gravi e pericolose, ma anche demagogiche e inefficaci, che col pretesto di volere solo il bene dei bambini immigrati li inquadrano in una categoria discriminatoria. La creazione di classi speciali non servirà certo a risolvere i problemi dell´integrazione, che non si favorisce separando i figli degli immigrati, e ancor meno segnandoli a dito. Ho letto il testo di quella mozione: sembra scritta da un cittadino del Sudafrica dei tempi dell´apartheid, con la preoccupazione di scegliere le parole e le frasi evitando con ogni cura di far trasparire il razzismo che di fatto è sotteso a quelle norme.
L´Italia è un grande Paese, una bella, immensa civiltà. E non merita di finire oggi in una deriva come quella di un velato razzismo.
Se i figli degli immigrati non padroneggiano la lingua italiana non è colpa loro. La Svezia ha creato un programma di insegnamento della lingua che viene proposto, al momento dell´arrivo, agli immigrati e ai loro figli; ma non fa alcuna discriminazione tra gli alunni delle scuole. Di fatto, è attraverso i contatti e gli scambi nella vita quotidiana che i bambini apprendono la lingua di un Paese, e non certo all´interno di classi riservate ad alunni di livello inferiore. Non è così che ci si può attendere un sano sviluppo, e neppure l´integrazione di questi bambini nel tessuto sociale del Paese.
E´ venuto il momento di dire alcune verità all´Europa: non solo gli immigrati non se ne andranno, ma altri stranieri saranno chiamati a lavorare nei Paesi europei;
I loro figli sono o saranno comunque cittadini europei; perciò non ha senso trattarli da immigrati, visto che sono nati sul suolo europeo e vi trascorreranno la loro vita. È urgente che l´Europa adotti una politica comune per l´immigrazione. A tal fine sarebbe utile e necessario avviare un lavoro pedagogico nei due sensi: dar modo ai nuovi venuti di apprendere le leggi e i valori del Paese d´accoglienza, informandoli dei loro diritti e doveri; e al tempo stesso rivolgersi ai popoli europei, spiegando loro perché l´Europa ha bisogno di immigrati, da dove vengono, come vivono, in quale misura pagano le tasse ecc.
Infine - anche solo per finzione o per gioco - si dovrebbe cercare di immaginare cosa accadrebbe se da un giorno all´altro tutti gli immigrati decidessero di rimpatriare; e chiedersi in quali condizioni si ritroverebbe allora l´economia del Paese.
In Francia, nonostante qualche insuccesso, la scuola ha costituito un magnifico strumento di integrazione: è qui che si impara veramente a vivere insieme. Se ad alcuni alunni capita di trovarsi in difficoltà, non è perché sono immigrati, e ancor meno per via del colore della loro pelle. Non è mai esistita una scuola formata solo da primi della classe; c´è sempre chi riesce meglio degli altri, ed è sempre stato così. Infine, un´ultima constatazione: è razzismo ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze.
(traduzione di Elisabetta Horvat)

Corriere della Sera 25.10.08
Nuovi studi (e un libro) aprono il dibattito sui fondamenti naturali delle credenze religiose
La moralità? Nasce insieme a noi
Un meccanismo del cervello ci fa scegliere i comportamenti
di Massimo Piattelli Palmarini

Viene a tutti spontaneo descrivere le nostre interazioni con un calcolatore portatile, e pensarle nel nostro intimo, con espressioni del tipo: «Si rifiuta di», «Non capisce che», «Insiste a». Attribuire intenzioni e volontà proprie a oggetti inanimati si chiama animismo o antropocentrismo. Forse un moderno calcolatore è talmente complesso che questa tendenza si giustifica, almeno un po'. Ma che dire delle nuvole, gli uragani, i campanelli, le automobili, i giocattoli e il vento? Questi sono solo alcuni degli oggetti ai quali vengono normalmente attribuite volontà e intenzioni, come mostrato dall'antropologo americano Stewart Elliott Guthrie. La tendenza animistica è già presente nei bimbi anche molto piccoli ed è presumibilmente innata.
A Harvard, la psicologa Susan Carey ha dimostrato che già a 10 mesi i bambini attribuiscono ad «agenti nascosti» il verificarsi di alcuni eventi. Lascio descrivere questo esperimento a Vittorio Girotto, psicologo cognitivo, professore all'Università di Venezia e co-autore con lo storico della biologia Telmo Pievani (Università di Milano Bicocca) e il neuropsicologo Giorgio Vallortigara (Università di Trieste), del saggio appena pubblicato «Nati per credere » (Codice Edizioni), in scena domenica 2 novembre al Festival della Scienza a Genova. «Ai bambini — mi spiega Girotto — viene mostrato un filmato in cui si vede un sacchetto che vola sopra un muro e che atterra dall'altra parte. Sebbene il momento del lancio vero e proprio sia nascosto, l'impressione che ne riceve un adulto è che qualcuno abbia lanciato il sacchetto al di là del muro. I bambini vedono la sequenza ripetutamente, fino a che il loro interesse scema. A questo punto viene mostrato loro una mano, ovvero un potenziale agente causale, collocato dalla parte giusta (sul lato da dove il sacchetto è stato lanciato) oppure dalla parte sbagliata (là dove il sacchetto è atterrato). I bambini guardano molto più a lungo, incuriositi, la mano che sta sul lato sbagliato ». Chiedo a Girotto quale lezione generale si trae da vari esperimenti di questo tipo. «Sembra che i membri della nostra specie siano biologicamente preparati a concepire differenti tipi di entità, oggetti inerti e oggetti animati, e a utilizzare una tale fondamentale distinzione di fondo per trarne conseguenze sulla cause e gli effetti di quanto avviene nel mondo».
In sostanza, come già avev a intuito Kant e aveva poi rivelato sperimentalmente negli anni Cinquanta del secolo scorso il grande psicologo belga André Michotte, noi percepiamo direttamente la causalità. Vediamo letteralmente che una sferetta rossa in movimento colpisce una sferetta blu immobile e «la fa partire», «la spinge». (Lo si può vedere sul sito http://cogweb. ucla.edu/Discourse/Narrative/ michotte-demo.swf). Siamo, quindi, dotati da madre natura di un rivelatore di agentività, cioè una macchinetta cerebrale e mentale che registra irresistibilmente chi (o cosa) fa che cosa a qualcos'altro. Girotto aggiunge: «Alcuni aspetti di questo rilevatore di "agency" sono presenti anche in altre specie, ma è nella specie umana che il meccanismo ha raggiunto un livello di sviluppo persino ipertrofico, cioè enorme e abnorme. Ed è proprio da questo rilevatore di "agency" che probabilmente hanno preso origine le concezioni sovrannaturalistiche ». Questi tre insigni autori, ciascuno internazionalmente noto nel rispettivo settore, illustrano anche alcuni risultati della psicologia dello sviluppo e dell'etologia che dimostrano la precocità dei comportamenti morali nella nostra specie e la presenza di comportamenti proto- morali in animali non umani. Il loro triplice sguardo sui fondamenti naturali delle credenze religiose (sguardo psicologico, storico-scientifico e neurobiologico) è senz'altro destinato a suscitare un animato dibattito.

Corriere della Sera 25.10.08
L'inedito Uno scritto dell'intellettuale perseguitato da Hitler e Stalin. Che nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro, si interrogò sulla libertà
di Gustav Herling

Come uscire dal comunismo? Negli ultimi tempi si sente continuamente questa domanda, se la contendono in gara giornali e riviste, con una insistenza crescente e ai limiti della tensione nervosa. Come se la pur tanto desiderata uscita dal comunismo avesse al contempo il carattere di un salto inquietante nell'oscurità.
Claude Roy in un interessante reportage dall'Urss («Viaggio fra coloro che non hanno più paura ») ricorda la frase di Tocqueville: soltanto un grande genio potrebbe salvare un principe che si proponga di alleviare le pene dei suoi sudditi dopo una lunga oppressione. Salvare il principe significa qui, è chiara l'allusione, salvare Gorbaciov.
Garton Ash cita il commento «di uno dei più intelligenti capi comunisti polacchi» in un intervallo della «Tavola rotonda» fra governo comunista e opposizione: «Tutti i manuali spiegano come è difficile conquistare il potere; ma nessuno dice come è difficile disfarsi di esso».
Mille parole sul tema Sortir du communisme
sono stati accordati dal terzetto Garton Ash, János Kis e Adam Michnik. Dai loro scritti si intuisce che il biglietto per una uscita sicura (con gli ammortizzatori) dal comunismo ce lo deve finanziare in dollari l'Occidente capitalistico. Revel illustra Napoli rende omaggio oggi alle figure di Geremek e

Tre modi «di uscire da un sistema in agonia ». Il primo lo hanno messo in pratica i cinesi sulla piazza Tienanmen. È il più semplice, e consiste nel fatto che in assoluto non si abbandona, ma al contrario si ritorna al vecchio principio di Mao, secondo cui «il potere riposa sulla canna del fucile»; e alla celebre frase di Brecht che nel 1953 affermò che «appena una nazione ha perso per sua colpa la fiducia del potere, allora il governo deve scegliersi un'altra nazione». Un tale proposito non è irrealizzabile: bisogna sparare così a lungo, intensamente e all'impazzata, finché il potere balza dalla canna del fucile, e su una montagna di cadaveri si disseppellisce e si alza con forza sulle gambe «un'altra nazione».
Il secondo riguarda i Paesi in cui il sistema totalitario non è riuscito a distruggere le forze che il comunismo ha trovato nel momento della conquista del potere, e non è stato capace poi di impedire i movimenti sociali e le aspirazioni all'indipendenza e all'autonomia. Il modello democratico e pluralistico è rimasto in essi vivo fino al punto che un'uscita pacifica ed evolutiva dal comunismo si è rivelata in teoria possibile. Per ora un processo di questo tipo si è avuto nel caso della Polonia e dell'Ungheria. Entrambi questi Paesi sono maturati, più o meno rapidamente, verso una forma piena di democrazia e di pluralismo politico.
Il terzo modo, secondo Revel, è l'operazione intrapresa da Gorbaciov in Urss. La glasnost doveva qui essere il motore della perestrojka. Il motore ha marciato a giri accelerati, talvolta ha dato persino l'impressione di essere pericolosamente surriscaldato, mentre la concreta ricostruzione sociale, politica ed economica è rimasta al suo posto; e viceversa il treno pesante, bloccato e arrugginito della perestrojka minaccia il percorso della locomotiva fumante della glasnost dal di dietro. Non si può neppure totalmente escludere che venga applicato in extremis il metodo cinese. Il secondo modo, quello polacco e ungherese, è reale? Si può gradatamente, seguendo un percorso evolutivo, incamminarsi sulla via verso la democrazia e il pluralismo? È possibile, come lo hanno dimostrato in Polonia i risultati delle elezioni alla Camera e al Senato; risultati che sono stati inaspettatamente buoni (e sembra con un certo imbarazzo per i capi dell'opposizione). Ma ad alcune condizioni. L'opposizione deve procedere autonomamente, difendendo la sua identità, senza acconsentire allo slogan che sta a cuore ai polacchi «per i bisogni della nazione», «dell'ammucchiata con loro signori», e ponendosi come scopo di conquistare la piena indipendenza e di sottrarre prima o poi tutto il potere agli usurpatori, soprattutto se «loro signori» (o «compagni ») da parte governativa sembrano così fortemente volersene sbarazzare (e non pare molto che sappiano come farlo). Sulla via per la democrazia e il pluralismo i capi dell'opposizione devono anche abbandonare definitivamente lo stile da conventicole di gabinetto «dell'intesa fra le élite », e la riserva su tutte le prerogative essenziali per il Capo e la Squadra che lo fiancheggia. Last but not least: al Capo e alla sua Squadra farebbe bene alla salute la cautela nel servirsi dei concetti piuttosto ridicoli del Grande Gioco e dei Grandi Giocatori, e un maggiore ritegno nell'esprimere «un giudizio mutato in positivo sul generale Jaruzelski » (anche in nome del rispetto per l'opinione immutata della «base di Solidarnosc» e probabilmente della stragrande maggioranza degli elettori di giugno).

Corriere della Sera 25.10.08
Fuori concorso «La banda Baader-Meinhof»
Scuote anche Roma il film sui terroristi che divide i tedeschi
Il regista Edel: non ne ho fatto io delle icone lo erano già, ma erano anche degli assassini
di Giuseppina Manin

ROMA — Quel che ti resta addosso alla fine di La banda Baader Meinhof
è un cupo senso di sgomento. Davvero è successo tutto quello che si è appena visto nel film di Uli Edel, ieri al Festival di Roma? Anche chi per età può dire «io c'ero» si sorprende a verificare quanti buchi di memoria, forse di rimozione, davanti a quella martellante sequenza di eventi, così fitti, così enormi, così tragici. Dieci anni, dal '67 al '77, che sconvolsero il mondo. Dal sogno della rivoluzione all'incubo del terrorismo, dalla rossa primavera dell'utopia alla rossa scia di sangue degli anni di piombo. Culminati nella Germania d'autunno del '77 con l'omicidio del presidente della Dresdner Bank Jürgen Ponto, con il rapimento del capo degli industriali Martin Schleyer, con il dirottamento di un aereo Lufthansa per costringere il governo al rilascio dei capi della Raf (Rote Armee Fraktion); fino alla morte violenta nel carcere di Stammheim di Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e all'omicidio — due giorni dopo — di Schleyer.
Così, anche se sono passati 30 anni, l'uscita in patria del film, tratto dal libro di Stefan Aust, ex direttore dello
Spiegel — protagonisti Martina Gedeck (Meinhof), Moritz Bleibtreu (Baader), Johanna Wokalek (Ensslin) — ha scatenato in pari dosi interesse e polemiche. Un milione di spettatori solo nei primi dieci giorni di programmazione, candidatura all'Oscar, dibattiti senza fine in una Germania che, comunque la si pensi, ha il merito di continuare a fare i conti con il proprio passato. Anche a costo di riaprire ferite. Ad Amburgo la casa di Aust è stata imbrattata di vernice, mentre Bettina Röhl, giornalista e figlia di Ulrike, abbandonata dalla madre e salvata per un soffio proprio da Aust quando stava per finire in un campo per orfani palestinesi come voleva Meinhof, ha accusato il film di Edel di erigere un «monumento» ai terroristi.
«Non credo che una pacificazione sia ancora possibile ma penso che ogni occasione di confronto possa aiutare a far chiarezza», si augura Edel, già regista di film che indagano sulla violenza, da Christiana F. a Ultima fermata Brooklyn. «Anch'io all'inizio ero tra quelli affascinati da Baader e dagli altri. Mi sono iscritto all'Università nel '68, ero vicino agli Spartachisti, ho partecipato a quella febbre. Come tutti gridavo ideali temerari: pace, fratellanza, giustizia sociale. Come tutti mi sono commosso al discorso di Rudi Dutschke sul Vietnam. Prima che tutto andasse a rotoli c'è stata una scintilla, un'euforia generosa che vorrei trasmettere ai miei figli, ai giovani di oggi».
Ma tra i giovani di ieri c'erano anche i futuri terroristi. E l'hanno accusata di averli mitizzati. «Personaggi come Baader avevano un fascino indubbio, non a caso hanno avuto tanto seguito. Come dice Horst Herold, il capo della polizia interpretato da Bruno Ganz, un tedesco su quattro sotto i 30 anni dichiarava simpatia per loro. Non abbiamo trasformato i terroristi in icone, lo erano di fatto. Al contrario, abbiamo voluto mostrare l'altra faccia del carisma: gente spietata, che uccideva, rubava, rapiva. Un'energia criminale autodistruttiva. Alla fine nessuno può identificarsi con loro».
Il ritmo forsennato del film, l'iperviolenza di certe scene, sottolineano quel clima sovreccitato, in bilico tra i tupamaros e gli scoppiati. Baader spara, e spara tanto. Con gusto, anche per gioco, correndo di notte sulle Porsche rubate. Con Ulrike e Gudrun va ad addestrarsi nei campi della Giordania, ribelle anche alle regole dei terroristi di professione che lo mandano al diavolo e intimano alle signore, nude a prendere il sole, di coprirsi. «Sparare e scopare è la stessa cosa», rispondono le due lasciando di sasso l'arabo.
«Se viene recepito in modo tanto controverso, è perché la gente vive questa storia come fosse successa ieri — interviene Aust —. Per una parte del Movimento studentesco la Baader Meinhof fu una leggenda».
Alimentata anche dopo dalle voci che fossero stati «suicidati»... «Sono un giornalista e se fosse andata così so bene che avrebbe fatto più gioco al mio libro — ride —. Ma tutte le prove che ho raccolto indicano che si sono suicidati davvero».
La discussione resta aperta. Dal 31 ottobre nei nostri cinema La banda Baader Meinhof non lascerà nessuno indifferente. Forse neanche quel migliaio di giovani arrivati ieri sera a occupare il tappeto rosso del film. Contestatori senza bandiere, non in polemica con la Baader ma con la Gelmini.

venerdì 24 ottobre 2008

l’Unità 24.10.08
Corteo al Senato, gli studenti non si fermano
Quarantamila a Roma, imponente spiegamento di polizia. Il governo non li riceve
di Maristella Iervasi


OCCHI NEGLI OCCHI Mani alzate che gridano: «Fateci passare», «Vergogna! È questa la democrazia?». E il contatto strettissino con il cordone di poliziotti diventa pericoloso. Gli agenti indossano il casco, hanno i manganelli e gli scudi e bloccano l’accesso al Senato da Corso Rinascimento. Un «muro» di uomini in divisa e di blindati. Ma gli oltre 40mila studenti universitari e dei licei urlano forte: «Noi non abbiamo paura». Cercano il dialogo, ci prova anche il papà di un bambino della scuola «Iqbal Masih», poi un varco. Ma niente da fare. L’«ordine» della Digos è rigido: non si passa per andare sotto Palazzo Madama. Non accade da 15 anni. E alla fine l’immenso movimento anti-Gelmini/Tremonti riprende gli striscioni: «Polizia, li difendiamo noi i diritti dei vostri figli», «Noi la crisi non la paghiamo», e si mettono a correre verso Piazza Navona, «inciampando» in altre divise.
Città militarizzata: dalla Sapienza al centro storico, per la risposta degli studenti a Berlusconi. Linea dura del governo contro le occupazioni: polizie in scuole e Atenei. Così ecco ieri l’appuntamento al Rettorato, con gli studenti che lasciano le 5 facoltà occupate per la manifestazione. Mentre arrivano i ragazzi di Roma Tre, di Tor Vergata e anche genitori delle scuole elementari. E al grido di «Roma libera», la «Nuova Onda» - come ama definirsi il movimento - lascia l’Ateneo per «prendersi» il Senato.
Gabriella, studessa a Chimica tiene in mano un cartello: «Non è questione di libero pensiero ma di ordine pubblico». Giovanni di Scienze politiche mostra la scritta: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione. Art.21 della Costituzione». Gran parte dei manifestanti si è attaccato sulla felba un foglio: «Studente non strumentalizzato», mentre l’eco delle notizie - quelle da Pechino, le «istruzioni» repressive di Cossiga, ex ministro dell’Interno nel ‘77, e lo spiraglio della Gelmini: «Convocherò le associazioni di studenti, docenti e genitori» -, fanno infuriare ancora di più gli studenti. Il megafono passa di mano in mano: Stefano informa tutti: «Siamo in migliaia». Applausi. «Dalla Cina Berlusconi ha detto che è stato travisato. Che non ha mai detto “la polizia deve entrare nelle scuole”». E parte in coro un «vaff...». «Ma questo vuol dire - sottolinea il coordinatore del movimento -, che il premier sta facendo retromarcia e che noi stiamo vincendo. Quindi, tutti sotto al Senato. Questo è solo il primo passo, non è che l’inizio. Berlusconi, prova ora a picchiarci tutti».
Nessuno scontro, a parte i momenti di tensione vicino Palazzo Madama. La marea di studenti in protesta ha cantato «Bella ciao», urlato «Augh» per liberare la rabbia: «Bloccheremo tutto».
I passanti osservano incuriositi, c’è chi si affaccia dagli autobus bloccati dal corteo. Chi si accoda a protestare. Solidarizzano gli immigrati che manifestano in piazza dei Cinquecento, i giovani del centro sociale sgomberato Horus. Ma la festa è grande quando dalle vie laterali di via Voltuno, via Cavour, largo Argentina, agli universitari si uniscono gli studenti medi. Poi tutti insieme sotto al Senato a gridare: «Buffoni, sospendete i lavori e venite qua fuori». Scende una delegazione del Pd, si fa vedere Paolo Ferrero. E parte la contestazione: «Non ci rappresenta nessuno. Ci state strumentalizzando». E con le braccia alzate, l’ennesimo grido: «Buffoni, siete tutti mafiosi». Si torna nelle facoltà, con un monito: «Siamo l’onda che vi travolgerà».

Repubblica 24.10.08
"Io non ho paura" ecco i ragazzi dell´Onda
Nella notte all´ateneo l´ira dei ragazzi miti "Berlusconi ci teme"
di Curzio Maltese


Roma, l´Onda occupa senza nostalgie
"Ho 22 anni, e vivo ogni giorno sotto ricatto. Ora sono stufo. E finalmente posso respirare"
Non ci sono le assemblee oceaniche del ´68 né le tensioni violente del ‘77

«Sai cosa c´è? Alla fine uno si rompe le balle di avere paura. Ho 22 anni e vivo ogni giorno a sotto ricatto. Paura di non farcela a riscattare tutti i crediti, del contratto da precario in scadenza, di non poter più pagare l´affitto e dover tornare dai miei, di non trovare un vero lavoro dopo la laurea, della crisi mondiale e dell´aumento delle bollette. Campo a testa china e tiro avanti sperando che domani sia migliore. Ma se mi dicono che domani non c´è più, l´hanno tagliato nella finanziaria, allora basta. Non mi spaventa più Berlusconi che dice di voler mandare la polizia. Non mi spaventa nulla, sono stufo. E finalmente, respiro». Marco è uno degli studenti della Sapienza che occupano la facoltà di Lettere. È lui ad aver proposto in assemblea alla Sapienza lo striscione che oggi è su tutte le facoltà occupate d´Italia: "Io non ho paura", in risposta alle minacce di Berlusconi, al solito smentite. «Non scrivere leader, che mi sfottono. Promesso?».
Sono le nove e sulla Roma autunnale è calata un´improbabile notte di primavera. Improbabile come questo movimento, nato nel momento peggiore, cresciuto oltre ogni previsione, senza neppure il tempo di darsi un nome. Per trovarlo hanno indetto un referendum sul sito della rivolta universitaria, www.UniRiot.org, e l´ha spuntata «Onda anomala». In breve, «l´onda», «noi dell´onda» dicono, come fossero contradaioli.
Avete presente il ´68, il ´77? Altra storia. L´arrivo alla facoltà occupata è confortante o deludente per chi ha in mente e negli occhi la Sapienza delle assemblee oceaniche sessantottine o il teatro di guerra della cacciata di Lama. C´è un gran silenzio. Si sentono echi di radiocronache di pallone, autoambulanze lontane, perfino un coro classico che prova nella facoltà di Fisica. Pochi ragazzi nella piazza, sui viali qualche sperduto capannello. Vuoi vedere che è la solita montatura nostalgica di un ´68 che non può tornare? Ma dentro le aule, i dipartimenti brulicano di centinaia di ragazzi che discutono, studiano, lavorano al computer, organizzano le manifestazioni del gran giorno, oggi, davanti al Senato. Tessono reti in tutta Italia ed è un bollettino di guerra: «Ore 11: Occupata Roma Tre! Ore 15: occupata Ingegneria! Ore 19: occupata l´Orientale di Napoli!». E poi Firenze, Cagliari, Napoli, Bologna: «Stiamo vincendo!». Giancarlo Ruoco, capo dipartimento di Fisica, 49 anni, un passato giovanile nei movimenti, osserva: «Il paragone di numeri col ´77 è improponibile, ma di sicuro questo è il movimento studentesco più partecipato degli ultimi trent´anni. Non c´è Pantera o protesta contro la riforma Moratti che tenga. Allora eravamo quasi più docenti che studenti in piazza. Ora sono il doppio, il triplo, e sembrano decisi ad andare fino in fondo»
Quando i telegiornali della sera hanno diffuso il diktat poliziesco di Berlusconi, i ragazzi più grandi hanno brindato con birre e applausi, fra gli sguardi perplessi e intimoriti delle matricole. Che c´è da festeggiare se il premier minaccia manganellate? «Il fatto è che gli stiamo mettendo paura, noi a loro. È la reazione scomposta di uno che si sente debole, che non si aspettava tutto questo, non ha una strategia e pensa di risolvere al solito modo, con la polizia, come si trattasse di rifiuti, camorra o periferie insicure». Chi parla è Luca, 23 anni, un´ottima laurea in lettere a Milano, venuto a Roma per specializzarsi in filologia romanza. È di Monza: «Perfino lì hanno cacciato la Gelmini da un comizio, e non se l´aspettava. A Monza, dov´è nata la Lega, cinquant´anni di Dc. Non hanno proprio capito che la politica non c´entra, la sinistra qui non comanda niente. Quando è venuta la ragazza mandata da Veltroni (Giulia Innocenzi, ndr), chiaramente in vista della manifestazione di sabato, le abbiamo strappato i volantini. La Cgil ha cercato di mettere il cappello sul movimento e li abbiamo costretti ad arrotolare le bandiere rosse. Per me il Pd significa poco, l´opposizione è inesistente, Berlusconi non è chissacché, non mi suscita nessun sentimento. È soltanto un vecchio che fa discorsi vecchi. Insomma, qui non c´entra la politica, c´entra la vita. Il mio futuro, quello di Francesco, Vanessa, Ilaria...». «La mia vita attuale è questa. Studio come un pazzo per finire in fretta e bene, lavoro in un call center, dormo in una camera a 500 euro al mese. E sopporto pure che un Padoa- Schioppa o un Brunetta o una Gelmini mi diano del bamboccione o del fannullone. Ma non che taglino i fondi all´università per fare affari con l´Alitalia, aiutare la Fiat o le banche dei loro amici. La crisi io non la pago. Questa settimana di proteste è stata la più bella esperienza di questi anni. Si respira, si parla, si discute dei sogni, del futuro. Penso sia un mio diritto. Ai vostri tempi era magari diverso. I corsi universitari duravano mesi, avevi sempre gli stessi compagni, gli stessi professori. In ufficio o in fabbrica eri solidale con l´altro operaio o impiegato. Ora io seguo decine di corsi dove non incontro mai le stesse persone e poi lavoro in un call center dove il mio vicino di scrivania cambia sempre, a ogni turno, senza contare che abbiamo tutti le cuffie e non c´è neppure la pausa caffè. In questi giorni ho alzato la testa, mi sono guardato intorno, ho conosciuto studenti da tutta Italia, mi sento vivo».
E´ un rivolta di bravi ragazzi, della nostra meglio gioventù. Non è una rivolta contro i padri, come furono le altre, ma di giovani che prendono sul serio le parole dei padri. Vogliono studiare, uscire di casa, fare carriera per meriti e non per conoscenze, crescere insomma e scoprono che in Italia non è possibile. Non è possibile per un giovane essere «normale». Da qui la rabbia di questi ragazzi miti. Anche un po´ secchioni. Luca e altri, con Francesco e Vanessa, ieri ospiti di Santoro, hanno tirato l´alba a studiare la legge Gelmini nei minimi particolari, scovando un´infinita serie di contraddizioni. Un bel lavoro e anche una lezione per l´opposizione parlamentare che deve aspettare la Gabanelli per accorgersi della norma salvamanager infilata nel decreto Alitalia. «La legge è piena di cazzate» mi spiegano «Taglia i fondi per la ricerca, che in Italia è l´uno per cento del Pil contro il tre della media europea e del trattato di Lisbona. Riduce il numero dei ricercatori che da noi sono tre ogni mille abitanti, contro l´obiettivo di otto. Non taglia le sedi universitarie, che in Italia sono 115, più di una per provincia, con decine di corsi frequentati da un solo studente. Soltanto Roma ha sedi decentrate a Civitavecchia, Rieti, Pomezia: Ma quelle rispondono a interessi clientelari». Ilaria, che incontro a Fisica, «ci vediamo sotto la lapide di Fermi», snocciola dati statistici come formule, sospira e conclude: «Non che m´interessi più di tanto, perché fra un anno vado in Inghilterra. Però mi sembra giusto dirlo, protestare finché si può». Il Dipartimento di Fisica, quello di Fermi e Amaldi, è il fiore all´occhiello della gloriosa e ormai sfasciata Sapienza. E´ quarta nelle classifiche europee, fra le prime dieci del mondo, dentro un´università che non compare neppure fra le prime cento. La fuga dei cervelli all´estero è la norma e cresce di anno in anno.
Nell´«Onda» Fisica è stato il laboratorio creativo. Il corpo docente, fra i migliori d´Italia, ha appoggiato senza riserve la protesta. «Tanto con l´appello contro la lectio magistralis del Papa ci aveva già criminalizzato. Peggio non può succedere». Fernando Ferroni, professore di fisica delle particelle elementari, presidente dell´istituto nazionale di fisica nucleare, uno degli scienziati che ha collaborato all´accensione dell´Lhc al Cern di Ginevra, è solidale ma pessimista sulle sorti dell´Onda: «Hanno ragione da vendere ma il clima culturale è il peggiore possibile. Non c´è sensibilità per questioni complesse come la formazione, la ricerca. Il governo fa discorsi primitivi, insensati ma efficaci. L´opposizione ne sa poco o nulla. Non ha capito la portata del disegno. Qui stanno dismettendo l´istruzione pubblica, un pezzo per volta. E´ una cosa mai successa in nessuna parte del mondo civile. Negli Stati Uniti, il paese più malato di iper capitalismo, l´università pubblica rimane ancora fortissima. Uno studente di Fisica può scegliere di pagare quattromila dollari a Berkeley o quarantamila a Stanford, ma la qualità è la stessa, alla fine si spartiscono lo stesso numero di premi Nobel. Per non parlare dell´Europa. Qui invece fra pochi anni l´istruzione pubblica, di questo passo, sarà relegata alla marginalità, alla serie B, a quelli che non possono permettersi di meglio. Il tema è enorme, tocca l´essenza dei diritti di cittadinanza, ma temo che non passerà. Criminalizzeranno la protesta, faranno scoppiare qualche incidente, e i media andranno dietro l´onda, l´altra, quella del potere. Bisognerebbe bucare questo muro di conformismo, ma come?»
Gli studenti si sono posti il problema d´«inventarsi qualcosa di nuovo», ne discutono in assemblea, su Internet, chiedono idee, consigli. «L´importante è evitare paragoni col passato, gli slogan in rima, le bandiere della politica, le stesse forme di lotta di fronte alle quali la gente dice "l´ho già visto"e passa oltre» spiega Laura, 23 anni, delegata alla comunicazione di Fisica. «Ci siamo inventati le lezioni in pubblico, con la lavagna a Piazza Farnese, un successo con i passanti che si fermavano a chiedere. Venerdì (oggi, ndr) saremo a Montecitorio».
Sono rimasti a discutere le nuove forme di lotta fino alle tre, poi è entrato Stefano con le birre. «Che ha fatto la Roma?» «Lasciamo perdere... Aò, ma la volete smettere col dibattito? E fateve �na birra, �na canna, che so». Bisogna fare la colletta per i cornetti. Che cosa? «Al picchettaggio offriamo cornetti agli studenti che vogliono entrare. Li hai mai visti i picchetti con i cornetti? Lo voglio vedere Berlusconi che manda l´esercito. A noi non ci fregano con le provocazioni, non ci vedrai mai fare questo». E mostra il gesto della P38». Chissà se non li fregano. Quarant´anni fa era cominciato con le colazioni ai bambini poveri, i sit-in pacifici, il clima da «Fragole e sangue», ingenuo e fiducioso. Fino alla prima carica della polizia. Stefano prende la chitarra, sono ormai le tre, per tenere sveglia la truppa. Nella musica sono conservatori, l´eterno rock, i vecchi cantautori, da De Andrè a Ligabue, che ormai viaggia per i cinquanta. Alle quattro crolla pure il cantante, qualcuno si rinchiude nei sacchi a pelo, altri s´infrattano, qualcuno riprende a discutere fino all´alba, a parlare dei propri sogni, come tutti a vent´anni, mentre il sole sorge sempre da un´altra parte.

Repubblica 24.10.08
Mariastella sotto assedio al Senato
Fuori gli studenti, bagarre in aula: e sbaglia a pronunciare egida
Gelmini: "Campagna terroristica" I senatori Pd e Idv parlano ai ragazzi
di Carmelo Lopapa


ROMA - Il compitino lo stava leggendo con una certa convinzione, emozionata appena, comunque mettendocela tutta, tra quegli schiamazzi dai banchi alla sua sinistra e l´eco degli slogan che gli studenti urlavano nei megafoni lì fuori Palazzo Madama. La maestrina si era presentata in classe inappuntabile, tailleur grigio, consueti occhialini very intellectual. A rovinare tutto quello sbadato dello staff ministeriale, che le ha tirato il brutto scherzo di dimenticare di segnare pure gli accenti del discorso con cui la ministra Mariastella Gelmini avrebbe dovuto difendere la sua contestatissima riforma nell´aula del Senato, mentre per le strade stava divampando la protesta.
Lei che accusa l´opposizione di aver dimenticato il libro bianco «scritto sotto l´egìda... del governo Prodi». Proprio così, il ministro dell´Istruzione, l´egìda, con accento sulla "i". «Non sai neppure dove si mettono gli accenti», «torna a studiare» esplode mezzo emiciclo in un concerto di «boooh» e sonore risate. Le donne le più inviperite. Le democratiche Fiorenza Bassoli, Maria Fortuna Incostante, Mariapia Garavaglia. «Colleghi per cortesia» interviene il presidente del Senato Renato Schifani per consentire al ministro di riprendere. E riprendersi. «Scritto sotto l´ègida...», ecco, così va meglio. Ma è solo l´inizio della corrida, in un´aula di Palazzo Madama tornata «viva» per un giorno dopo i due anni al cardiopalma della passata legislatura.
Senato, ora di pranzo, il ministro più contestato del governo, quello che i ragazzi dei cortei vorrebbero di nuovo a scuola, nella migliore delle ipotesi, si alza, schiarisce la voce e replica con intervento scritto alle contestazioni di questi giorni. Le tocca chiudere la discussione generale sul suo decreto ormai pronto per l´approvazione della prossima settimana, proprio all´indomani dell´uscita berlusconiana sulle forze dell´ordine. In un clima già surriscaldato di suo. Lei, va da sé, ci ha messo del suo per accendere ancor più gli animi, mentre i colleghi Elio Vito e Sandro Bondi restano immobili al suo fianco. Legge cose del tipo: «Avrò la tenacia della goccia che scava la pietra della demagogia», oppure, «il voto in condotta serve a riscattare gli insegnanti umiliati, spero mi siano grati», fino all´accusa più impegnativa all´opposizione, «fuori dal Senato si è scatenata una campagna terroristica che ha diffuso false informazioni». Certo, poi cita Luigi Berlinguer e si dice disponibile a incontrare gli studenti. Ma ormai la frittata è fatta. Aula in subbuglio e lei: «Ben più delle vostre proteste - replica stizzita lei - mi preoccupano le falsificazioni che sono state messe alla base di queste proteste». Caos. «Ma di che falsificazioni parli?» le urla contro Luciana Sbarbati. E Luigi Lusi: «Abbia rispetto, ministro, abbia rispetto». Il più infervorato è Costantino Garraffa, vero capo ultrà degli scranni Pd: «Gelmini santa subito», «ma faccia il ministro, se ne è capace», «bugiarda, lei è una bugiarda». Perfino la glaciale capogruppo Pd Anna Finocchiaro a un certo punto sbotta. «Guardi che la politica non è un pranzo di gala e non si può ribattere alle critiche dicendo che sono tutte bugie. Di unti del signore ne basta e avanza uno». Dalla maggioranza ci provano pure a difendere la trentenne finita nella fossa dei leoni, con sonori applausi a ogni passaggio. Ma niente. Schifani ormai interviene e richiama all´ordine di continuo. In fin dei conti, è la conclusione della Gelmini, tutti gli altri ministri dell´Istruzione «prima di me sono stati contestati». E amen. Per i senatori Pdl e Lega vale un´ovazione, tra i fischi dell´opposizione. Giù il sipario. Nel frattempo, ora dopo ora Palazzo Madama finisce sotto l´assedio degli studenti, tappa finale di cortei più o meno organizzati. I senatori del Pd si danno il cambio in staffetta per incontrarli e calmarli. Finocchiaro, Garavaglia, Franco, Bastico, il dipietrista Pardi, il dalemiano La Torre che a un certo punto impugna un megafono per calmare i più focosi. Perché dai più agguerriti piovono fischi contro chiunque esca dal Palazzo, ce n´è anche per loro del Pd che spiegano come sta andando dentro.
Tutti gli altri senatori, la gran parte, preferiscono guardare da lontano, dietro le finestre, nelle pause dei lavori. «Siete voi, siete voi, la vergogna dell´Italia siete voi!» è il coro delle centinaia laggiù. «Vergogna è permettere a questi di arrivare fin qui» commenta un capannello di senatori della maggioranza dietro una tenda. Prima che passi la richiesta del Pd Zanda di sospendere l´esame del decreto e rinviarlo a martedì, c´è anche il tempo per il primo sequestro della tessera di un pianista in aula. Soliti senatori che votano per gli assenti. Dall´opposizione urlano e additano stavolta il colpevole. Il presidente Schifani spedisce i senatori questori a sequestrare. La tessera non viene fuori. «Se la non consegnate sospendo i lavori», alza insolitamente la voce il presidente. A quel punto Carlo Sarro, Pdl, viso piantato per terra, allunga il braccio e consegna ai commessi la tesserina del vicino di banco assente, Sergio Vetrella. I lavori riprendono. Ma che figura.

l’Unità 24.10.08
Pisa e Firenze: «Qui per il nostro futuro»
«Vogliamo studiare, non siamo barricati e non sentiamo la necessità di difenderci»
di Osvaldo Sabato


«SE VIENE la polizia? Gli chiederemo le tabelline» ironizza uno studente. «Ma non credo che si faranno vedere, altrimenti qui succede un ’48» commento un altro.
Numeri alla mano, la protesta a Matematica è a più cifre per la valanga di studenti mobilitati. Praticamente, tutti. E non solo loro. Anche i docenti e i ricercatori stanno facendo la loro parte. Dentro il plesso “Ulisse Dini” non ci fanno caso alle parole del premier Berlusconi (poi rimangiate) «basta occupazioni, mando la polizia», non ci fanno caso, perché le lezioni sono rinviate con tanto di delibera di facoltà. A qualche decina di metri di distanza, sul marciapiede opposto, si trova invece la facoltà di Ingegneria. Nell’androne fa bella mostra di sé un grande striscione «facoltà occupata». I controlli all’ingresso sono serrati: «Con l’aria che tira, non si sa mai» sussurra una studentessa. Pacchi di giornali buttati su un tavolo lungo, le pagine che raccontano la protesta vengono letteralmente mangiate e gli occhi si fermano su quella frase di Berlusconi. «Ma ti rendi conto che dobbiamo pure tranquillizzare i nostri genitori» commenta una ragazza. Di televisioni accese in giro non se ne vedono «ma a casa la guardano» chiosa Catia del collettivo di Scienze. Tanto per non perdere tempo, però, a Ingegneria hanno pensato di organizzare «dei controlli intorno al plesso, chiudiamo tutto e se qualcuno vuole entrare suona» racconta Giovanni. «Non siamo barricati e non sentiamo la necessità di difenderci» insiste Franco.
Anche il sindacato di polizia Silp per la Cgil, con il segretario Marco Noero, critica quella frase di Berlusconi.
La protesta non si ferma, dunque, va avanti il giorno dopo la lezione show dell’astrofisica Margherita Hack in piazza Signoria, oggi tocca al professore Barletti tenere la sua lezione in piazza: parlerà di relatività e di Einstein e Minkowski. In serata, sempre a Ingegneria, è già fissata un’assemblea aperta a «tutta la cittadinanza» e la protesta del mondo universitario contro la legge 133 arriva in Europa: anche l'Istituto universitario europeo di Fiesole è in agitazione. Mentre su alcuni ponti sull'Arno sono apparsi striscioni come «l'università non è in vendita» e gruppi di studenti distribuivano volantini sulla «24 ore non stop di lezione» organizzata» martedì prossimo a Matematica. Anche ieri a Pisa, dopo i sessantamila di Firenze, oltre diecimila studenti in corteo insieme al sindacato.
Generazioni in movimento, potrebbe essere lo slogan. «È una novità assolutamente positiva» per il segretario regionale della Cgil Alessio Gramolati, appena rientrato da Pisa, «chiunque ha responsabilità di governo dovrebbe valorizzare e non esorcizzare come un pericolo» dice. Era già successo altre volte che studenti e operai protestassero insieme, ma raramente studenti e professori «è la dimostrazione che la scuola pubblica viene vissuta come un valore» chiude Gramolati. Gli universitari non ce l’hanno con il ministro Gelmini «lei non ha neanche scritto la legge che contestiamo», se la prendono con Tremonti, con i tagli della legge 133. «Berlusconi dice che dobbiamo piuttosto pensare a studiare? È quello che vorremmo fare, noi siamo qui perché vogliamo studiare e laurearci, paghiamo tasse salate per raggiungere questo obiettivo» commenta Marco. «E soprattutto vorremmo che qualcuno ci garantisca il nostro futuro» precisa Alessandra. Ma la faccia dura di Berlusconi? «Voleva solo impaurire i ragazzi delle superiori» conclude Francesco con tono rassicurante.

l’Unità 24.10.08
La lezione degli studenti
di Beppe Sebaste


Chi si trovasse in questi giorni nelle scuole e nelle università, occupate e variamente animate dalle proteste di studenti e docenti, incontrerebbe persone che incarnano la vocazione dello studio e del sapere. Studenti e docenti difendono la dignità e l’autonomia della conoscenza dalla semplificazione di una politica finanziaria cieca al futuro. Lezioni all’aperto, apertura delle cittadelle accademiche alla città di tutti: chi protesta non ha nulla da nascondere, anzi. Sono privi di ideologia, ma molto consapevoli: «È la politica che si allontanata da noi. Noi facciamo la vera politica», mi hanno detto. Ma alla notizia che il primo ministro ha minacciato di sgomberare con la polizia, cioè introducendo violenza, le scuole e le università teatro di questa civile protesta e sperimentazione, una studentessa della Sapienza di Roma è allibita: «Vogliono trattarci coma la spazzatura di Napoli». Pare di sì: cioè non solo non dialogare, non riconoscere i contenuti di una protesta che è difesa dell’istruzione e del diritto allo studio, ma rimuovere il problema, eventualmente nasconderlo, come la famosa spazzatura di Napoli. E non importa che fermenti chissà cosa e chissà quando. Il disprezzo verso la conoscenza e l'istruzione, verso scuole e università, è del tutto congruente a quello verso il clima, l’ambiente, il protocollo di Kyoto, l’ecologia e la salute pubblica. Il nostro primo ministro è un vero punk: a lui del futuro - dei giovani come del pianeta - non importa nulla.
Molti studenti di oggi dichiarano che il loro modello di lotta è la protesta che dilagò in Francia del 2006 contro un disegno di legge che autorizzava per i primi due anni il licenziamento senza motivo dei giovani neo-assunti. Gli studenti vinsero (la legge fu ritirata) grazie all’appoggio del mondo del lavoro e della maggioranza dell’opinione pubblica. A parte che i contenuti della legge 133 (la finanziaria) e della “riforma Gelmini” (che non è altro che un taglio massiccio di fondi) sono molto più gravi (oltre ad aumentare a dismisura disoccupazione e precarizzazione, fanno tabula rasa degli orizzonti e del senso stesso dello studio), chiamo la protesta degli studenti una risposta alla “guerra contro l’intelligenza”, ricordando un appello nato anch'esso in Francia, ma nel 2004. All’epoca, un progetto legislativo del governo Raffarin, dal sapore vagamente berlusconiano, umiliava quelle professioni non valutabili secondo i criteri e gli utili (peraltro errati e miopi) di un’azienda - dalle scuole e università ai laboratori scientifici, dai centri di ricerca alle biblioteche, ma anche gli ospedali psichiatrici, i teatri ecc. Tutti i settori del sapere, della scienza, del legame sociale, produttivi di conoscenza, di coscienza e di dibattito pubblico, insorgevano contro l’anti-intellettualismo di Stato, una politica di impoverimento e precarizzazione di tutti gli spazi considerati come improduttivi a breve termine, inutili o dissidenti. L’appello “contro la guerra all’intelligenza” in pochi giorni fu firmato da migliaia e migliaia di cittadini, compresi i più alti rappresentanti della cultura e dell’arte francesi.
Nelle parole del filosofo Jacques Derrida, tra i primi ad aderire, per «guerra contro l’intelligenza» si intende «una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, perfino dal risentimento, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope; quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, a società civile, lo Stato e anche l’economia». C’è bisogno di dire che l’Italia di oggi è ben più minacciata della Francia di quattro anni fa?
Contro il presunto neutrale “buon senso” economico, la protesta degli studenti è una lotta per la salvaguardia di tutti quei luoghi in cui la società si pensa, si elabora, si sogna, si inventa, si cura, si giudica, si protegge, e tra i quali non c’è (solo) il Bagaglino, o le discoteche in cui il settantenne primo ministro italiano si mostra in camicia nera e parla di sesso e insonnia con giovani bramosi di successo e intossicati di ricchezza. Osservo di nuovo che l’imbarbarimento di una nazione (di questo si tratta) nasce e si presenta spesso come una politica di semplificazione - che non è proprio una bella parola, e designa una riduzione innaturale della complessità, ossia dell’intelligenza. Si crea e si consolida nella riduzione del linguaggio, del pensiero, della politica, nella neo-lingua pubblicitaria più volte denunciata, nello scavalcare il Parlamento e l’etica della discussione. Ma è soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalla cultura e dall’educazione che l’autoritarismo “semplice” si insedia e riproduce, svuotando di senso il concetto e la realtà di una Repubblica. Il costo umano, sociale culturale è esorbitante. Le sue conseguenze rischiano di essere irreversibili.

l’Unità 24.10.08
Non si smonta così la scuola
di Cristina Di Geronimo


Con i recenti provvedimenti legislativi sul riordino del sistema scolastico si sono ormai delineate, senza ombra di dubbio, le strategie politiche del Governo. Il primo documento legislativo è il Piano programmatico del ministro dell’Istruzione in applicazione dell’art 64 del D.L. 25 giugno 2008, n 112 convertito dalla Legge 6 agosto 208 n 133. Il Piano si articola sulle seguenti linee:
- aumento del numero degli alunni per classe (+ 0,20 il primo anno, più un ulteriore 0,10per il secondo anno, più un ulteriore 0,10 per il terzo anno, sui limiti attuali che sono 30 alunni per le scuole materne, medie e superiori e 25 per la scuola elementare). Stima riduzioni in tre anni scolastici 12.800 posti docenti;
- riduzione orario scolastico scuola elementare. Stima riduzioni posti docenti nei primi due anni 14.000 posti docenti;
- riduzione insegnanti di lingua inglese nella scuola elementare. Stima riduzioni posti docenti nei tre anni 11.200 posti docenti;
- riduzione curricoli scuole secondarie, riduzione cosi serali e cosi per adulti, riconduzione tutte le cattedre a 18 ore. Stima riduzioni nei tre anni 49.400.
Totale generale: 87.400 posti docenti in meno in tre anni. Contestualmente, a effetto domino saranno soppressi, sempre nei tre anni, 44.500 posti fra personale amministrativo, assistenti di laboratorio, collaboratori scolastici.
Perderanno il lavoro, quindi, 131.900 lavoratori della scuola. I lavoratori della scuola sono coloro che si occupano della vigilanza, dell’educazione, dell’istruzione dei nostri figli. Quando una società decide di migliorare, di crescere anche economicamente, investe in cultura, investe in formazione. A cosa mira, al contrario, una società che riduce il tempo e lo spazio formativo? Riporta indietro nel tempo la mobilità sociale. La scuola non sarà più l’occasione per il progresso sociale. L’emarginazione delle classi più deboli sarà prima di tutto un’emarginazione culturale. Si potrebbe dire che, con internet e la televisione, l’accesso alla conoscenza sarà più diffuso. Ma se non saranno forniti ai giovani le chiavi interpretative, i quadri concettuali per accedere alle conoscenze, sempre di più esse diventeranno appannaggio di pochi. Scriveva Neil Postman, molti anni fa, che le società possono morire per troppa stasi o per troppo movimento e che nel mondo contemporaneo occidentale, dove le conoscenze si moltiplicano con una rapidità impressionante, solo attraverso una cultura solida, una scuola forte, si potrà contrastare la disgregazione sociale. Egli parlava di una funzione termostatica della scuola. In Italia si parte dal dato di una crisi delle scuole superiori e si abbatte la scure principalmente sulle scuole materne ed elementari. Qualcuno dice che i nostri giovani non conoscono la grammatica, ma nessuno dice che tutti gli apprendimenti di base, che sono forniti nella scuola elementare, se non sono rinforzati, nell’arco di tutto il percorso scolastico, si possono smarrire. È come se in un’azienda dove si rileva che un settore non è produttivo, si decida di modificare quello che invece funziona più che bene. Quegli amministratori sarebbero considerati degli incompetenti senza ombra di dubbio. E poi, un altro paradosso è il seguente, in tutti i settori (l’Alitalia è il più recente) quando si prevede di mandare a casa dieci o ventimila lavoratori, ci si pone il problema di quelle famiglie che non avranno più di che vivere, ma i lavoratori della scuola non hanno famiglia? non hanno contratto un mutuo? non devono far fronte alla pesante crisi finanziaria, economica che il Paese attraversa? Qui si parla di 131.900 posti di lavoro in tre anni.
Una piccola nota a parte, merita la mozione della Lega Nord approvata dal Parlamento italiano qualche giorno fà. Anche qui si parte con i buoni propositi di integrazione, e si dice poi, testualmente che la scuola italiana deve essere in grado di supportare una politica di “discriminazione transitoria positiva” a favore dei minori immigrati, avente come obiettivo la riduzione dei rischi di esclusione. In sostanza si dice, io ti discrimino temporaneamente, per poi integrarti. Come si procede per raggiungere questo contorto obiettivo? Con un test e specifiche prove di valutazione per l’ingresso nelle classi normali. Coloro che non avranno superato i test saranno inseriti in classi temporanee, e comunque, non oltre il 31 dicembre di ciascun anno. In queste classi d’inserimento sarà attivato il seguente curricolo formativo essenziale: comprensione dei diritti e doveri (rispetto per gli altri, tolleranza, lealtà, rispetto della legge del Paese accogliente); sostegno alla vita democratica; interdipendenza mondiale; rispetto di tradizioni territoriali e regionali del Paese accogliente, senza etnocentrismi; rispetto per la diversità morale e cultura religiosa del Paese accogliente. Anche qui per affrontare e risolvere un problema,che pur esiste, di integrazione di alunni immigrati nelle scuole, si ricorre ad una norma che considerare discriminatoria è poco. È una norma che offende la dignità della persona ed ancor più grave è che si tratta di bambini.
Dirigente scolastica Istituto comprensivoCasalvelino (Salerno)

l’Unità 24.10.08
Lettera aperta a poliziotti e carabinieri
«Lasciate parlare i nostri ragazzi. Sono con voi, non contro di voi»
È il testo della «lettera aperta» distribuita a Pisa come un volantino a poliziotti e carabinieri


Cari lavoratori e lavoratrici,
scusateci se ci rivolgiamo a voi in questo momento così particolare per la vita democratica del nostro paese, ma in fondo voi avete più o meno la stessa età di noi o quella dei nostri figli, quei figli che oggi si troveranno per strada con voi.
Sì, abbiano scritto «con voi» e non «contro di voi» perché riteniamo che nulla, assolutamente nulla vi divida e ci divida.
Non vi divide e non ci divide il rispetto per la divisa che voi portate con orgoglio e che tutti rispettiamo riconoscendo negli uomini e nelle donne che la indossano cittadini che hanno scelto di svolgere un lavoro, duro ma indispensabile, per garantire a loro e a tutti noi protezione e sicurezza.
Non vi divide e ci divide il rispetto per le regole della convivenza civile e democratica nella quale voi e loro siete stati cresciuti ed educati, nella famiglia e nella scuola.
Non vi divide e ci divide la passione con la quale si rispettano e si difendono i dettami della Costituzione sulla quale voi avete anche giurato.
In fondo non vi divide e non ci divide neppure troppo l'età, molti di voi potrebbero essere, e forse in qualche caso lo sono, loro padri e madri o nostri figli.
Allora perché vi scriviamo queste righe? Perchè non vogliamo avere paura!
Non vorremmo che un ordine assurdo ispirato dalle preoccupanti dichiarazioni del Presidente del Consiglio vi induca a vedere in questi nostri ragazzi, un nemico.
Non vorremmo mai vedere qualcuno costretto a colpire uno di loro, un vostro figlio, un vostro fratello che semplicemente difende una cosa di tutti, un valore pubblico: la scuola.
Vi è forse del male nel protestare correttamente e legittimamente contro un provvedimento di legge ritenuto ingiusto?
Vi è forse del male nell'esporre correttamente e legittimamente le proprie opinioni?
Ma non è forse questo quello che con la riconquistata libertà la Costituzione ci ha insegnato? E non vi sembra assurdo con tutti i problemi che i lavoratori della polizia debbono fronteggiare che la loro professionalità, le loro capacità, i pochi mezzi messi a loro disposizione debbano essere sprecati contro questi ragazzi? Non c'è in questo una umiliazione del ruolo e del valore del lavoro di chi tutela la sicurezza dei cittadini?
Cari lavoratori e lavoratrici, per tutto questo vi diciamo che oggi i nostri figli sono in piazza insieme a voi e non contro di voi.
Oggi i nostri figli saranno in piazza per manifestare in piena coerenza con le regole della libertà, del rispetto reciproco e della democrazia.
Lasciate che parlino, che espongano le loro idee, che le urlino magari, sono giovani; e da giovani difendono la legalità. Lo hanno fatto quando hanno alzato la loro voce contro la Mafia e il Terrorismo, quando hanno preso le loro vacanze per lavorare nei campi sequestrati alla criminalità organizzata. Non sono loro il problema del Paese, sono il suo futuro. Chi li addita come nemici mette all'indice il futuro.
La democrazia è uno splendido fiore ma è coltivato in un vaso di cristallo: non rompetelo.

l’Unità 24.10.08
Il bignami di Cossiga
Toni Jop


«Gli universitari? Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città»: chi l’ha detto? L’ha detto uno che conosce bene questa banale ma agghiacciante teoria agganciata al più generale teorema dei dispositivi di sicurezza. Francesco Cossiga la sa lunga e parla, in questa limpida intervista rilasciata alla Nazione, con cognizione di causa: era ministro dell’ Interno quando sembrava che le Br facessero ballare, nel caso Moro, questo Stato come piaceva a loro. Uno show al quale, ci perdoni l’illustre Presidente, in molti in questo paese non credettero, dubitando di ciò che appariva e della lealtà con cui alcuni organi dello Stato stavano operando per salvare la vita allo statista. Cossiga era ministro degli Interni quando il 12 maggio del 1977 Giorgiana Masi fu uccisa a Roma, durante una manifestazione zeppa di agenti fotografati mentre sparano vestiti come manifestanti qualunque. Infiltrati pronti a tutto o che altro? Ciònonostante, il presidente ribadì nel 2005 che probabilmente quella povera ragazza era stata uccisa dal «fuoco amico», dai suoi stessi compagni. Ma è interessante e in fondo tragico che Cossiga oggi si premuri di far «vedere» al Berlusconi della linea dura contro le occupazioni scolastiche, come in realtà si dovrebbe affrontare la questione, affidandosi proprio a quel «bignami» ritenuto evidentemente vincente che ha offeso l’Italia. E dopo, chiede Andrea Cangini che ha raccolto l’intervista, cosa si dovrebbe fare? «Forti del consenso popolare...le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano». La passione del presidente per i giochi sotto il tappeto non è ignota. Semmai dispiace essere costretti ad annotare come quella passione lo trascini in tempi e luoghi in cui la democrazia è stata fatta a pezzi a colpi di furbizie di Stato. Impressiona la freddezza con cui a tanti anni di distanza sembra rivendicare l’efficienza strategica di un dispositivo di sicurezza misurata sul sangue.

l’Unità Firenze 24.10.08
Gli operai: «Ragazzi, vi difendiamo noi»
Polizia nelle scuole, si ribellano le fabbriche. Come nel ´68
di Simona Poli


Operai e studenti insieme in piazza. Quarant´anni dopo il '68 succede di nuovo. I ragazzi dei licei e delle università ieri mattina ad Empoli marciavano al fianco dei dipendenti della Sammontana (che lunedì avevano scioperato un´ora perché secondo loro la piega presa dalla trattativa nazionale sul rinnovo del modello contrattuale è tale da far diminuire ancora i salari) che hanno portato lo striscione della fabbrica dentro al corteo per dare sostegno alla protesta anti decreto. E non si tratta di un caso isolato. E a Sesto i lavoratori della Ginori scrivono in una lettera mandato al sindaco Gianassi: «Siamo pronti a difendere i ragazzi in lotta se ce ne sarà bisogno». Dopo le parole di Berlusconi che ha minacciato di fermare la contestazione con le forze dell´ordine, le dimostrazioni di solidarietà da parte del mondo del lavoro si sono moltiplicate in Toscana, a cominciare dalla manifestazione di ieri pomeriggio a Pisa dove accanto agli studenti c´erano impiegati usciti dagli uffici, operai, persino qualche pensionato. Da molte rappresentanze sindacali unitarie di gruppi bancari ieri sono stati inviati comunicati di adesione alle proteste, ad Empoli, Firenze, Pisa e Pistoia. Una barriera simbolica, un modo per dire "ci siamo noi qua, pronti a difendervi", gli adulti dei mestieri e delle professioni vicini ai giovani che studiano per avere un futuro. «Anche se il presidente del Consiglio ora sostiene di non aver detto quella frase, la gente lo ha sentito benissimo in tv con le proprie orecchie», dice il segretario regionale della Cgil Alessio Gramolati. «E la reazione si è fatta sentire subito, perché la rappresentazione delle occupazioni di questi giorni come atti di violenza strideva troppo con l´immagine che tutti gli italiani hanno sotto gli occhi. Quelle cioè di una protesta civile, caratterizzata da un comportamento responsabile nelle scuole e nelle università. Gli studenti che oggi chiedono il ritiro del decreto Gelmini sono gli stessi che negli anni scorsi si sono battuti per la difesa della legalità e contro la mafia, difficile farli passare per "criminali". I lavoratori hanno sentito il bisogno di stare accanto ai giovani in questa battaglia». Alla Richard Ginori di Sesto, ad esempio. Le Rsu hanno scritto al sindaco Gianni Gianassi per esprimere «indignazione e sconcerto di fronte alle dichiarazioni di Berlusconi circa la volontà di inviare le forze dell´ordine per impedire le occupazioni e le proteste degli studenti contro la riforma Gelmini sulla scuola. Le sue parole», scrivono i lavoratori della Ginori, «oltre a rappresentare una grave provocazione, rivelano, semmai ce ne fosse bisogno, la vera natura di questo governo, che ha in dispregio le regole della democrazia e delle leggi che ne sono a fondamento. Protestare ed esprimere le proprie idee sono diritti di un paese democratico, laddove questi non esistono esiste la dittatura. Vogliamo offrire solidarietà e sostegno a chi in questo momento cerca di impedire la distruzione della scuola pubblica e ci dichiariamo pronti, insieme ai lavoratori, a difendere i ragazzi che stanno lottando, scendendo al loro fianco, laddove si verificassero interventi delle forze dell´ordine». Ipotesi poco probabile. E non solo per la "smentita" con cui Berlusconi ha corretto se stesso. Sembra che i poliziotti saranno i primi ad opporsi a forme di intervento pesanti sugli occupanti. Il sindacato Silp per la Cgil per bocca del segretario toscano Marco Noero dice chiaramente come la pensa: «Pur non entrando nel merito del contenzioso che anche, nel mondo della scuola sta contrapponendo il governo con i lavoratori e gli addetti al settore, non possiamo non sottolineare la gravità di chi legiferando a colpi di decreto legge e di conseguente fiducia parlamentare, intenda anche intervenire autoritariamente contro chi dissente, caricando sulle spalle delle forze dell´ordine il peso di una svolta autoritaria dell´ordine pubblico in questo paese. Nel ricordare che ormai dal 1981, la riforma della polizia di Stato ha espresso il "poliziotto tra la gente" e non "contro la gente", siamo certi che il ministro dell´Interno darà prova di indipendenza decisionale, nei confronti della pericolosa gaffe del presidente del Consiglio». Ancora più duro il segretario fiorentino del Silp Pierluciano Mennonna: «Il presidente crede di avere alle sue dipendenze una polizia senza inquietudini, senza figli e senza cultura. In un paese in cui la criminalità fa fatturati miliardari adesso i delinquenti sono studenti e professori». Operai, studenti, docenti, impiegati. Ecco, secondo Gramolati, la vera novità di questa protesta: «Nei cortei si vedono generazioni diverse che marciano insieme, una cosa che non esisteva nel �68 e neppure ai tempi della Pantera. Il mondo del lavoro organizzato si sta riappropriando della cosa pubblica».
A Firenze intanto Forza Italia e Alleanza Nazionale annunciano che non parteciperanno al consiglio comunale di lunedì prossimo in cui si parlerà proprio di scuola e università perché Eros Cruccolini non ha ancora chiesto scusa a Bianca Maria Giocoli per una presunta bestemmia pronunciata dal presidente dell´assemblea al telefono con la capogruppo di Forza Italia.

Corriere della Sera 24.10.08
Il Cavaliere in difesa Dialogo impossibile fino al corteo di domani
di Massimo Franco


Probabilmente, anche per la scuola occorrerà aspettare che sia archiviata la manifestazione di domani contro il governo. L'uscita maldestra di Silvio Berlusconi sull'uso delle forze dell'ordine per proteggere chi non vuole «occupare» e intende far lezione, per il centrosinistra si è rivelata un balsamo. Dalla Cina, ieri il presidente del Consiglio ha cercato di correggere il tiro; di sminuire le sue parole e darne l'interpretazione autentica. Ma l'operazione si è rivelata quasi acrobatica: sia per la larvata presa di distanza di alleati come An e Lega; sia, soprattutto, per i toni ancora più alti e sdegnati dell'opposizione, decisa a sfruttare l'occasione anche per ricompattarsi.
Il Berlusconi che attacca gli studenti che contestano, e poi si difende prendendosela sbrigativamente coi giornali, per Pd, dipietristi, estrema sinistra, è una manna: può contribuire generosamente a garantire il successo della protesta organizzata dal partito di Walter Veltroni. Qualcuno fa notare che cavalcare il movimento del 2008 è rischioso: rappresenta un'incognita e non può essere etichettato politicamente. E nella sua trasversalità nasconde il braccio di ferro tra fautori e nemici delle riforme. Ma sono obiezioni che nello scontro vengono liquidate come ubbìe.
I fischi ai senatori del Pd usciti ieri pomeriggio da Palazzo Madama per dare solidarietà agli studenti dovrebbero far riflettere. Evocano un magma di recriminazioni, che brucia chiunque voglia metterci il cappello; e che proietta il proprio scontento sul governo senza accettare mediazioni. Su questo sfondo, la contrapposizione fra «piazza» e «Palazzo» sembra più forte di quella fra schieramenti. Scavalca logiche elettorali e di appartenenza. Per questo, l'esortazione del capo dello Stato a confrontarsi in Parlamento e a non dire solo dei no ai «tagli» di bilancio sull'istruzione, assume il rilievo di un monito.
Anche se a futura memoria. L'epilogo delle polemiche sulla riforma di scuola e università firmata dal ministro Mariastella Gelmini alla fine dovrebbe essere un dialogo inevitabile. Lo addita lo stesso ministero dell'Interno, pur annunciando che userà «fermezza e determinazione nel prevenire qualsiasi tipo di degenerazione violenta» delle proteste. Cresce la sensazione che il decreto voluto da Palazzo Chigi abbia sottovalutato le reazioni insieme di studenti e professori. Forse è vero che l'opposizione tenta di distorcere i contenuti della riforma. Ma è favorita dalla carenza di spiegazioni offerte dal governo.
Le stesse frasi incriminate del premier sull'uso della polizia finiscono per apparire la conseguenza di un eccesso di sicurezza. In fondo, era giusto affermare il principio del diritto non solo a manifestare, ma a studiare. E ieri Berlusconi lo ha ribadito, negando l'accenno al ruolo delle forze dell'ordine. La platealità con cui si era espresso prima, però, ha messo in ombra il resto; e provocato la polemica su un problema da affidare al Viminale con scuole ed atenei, discretamente: proprio come traspare dal comunicato di ieri del ministero dell'Interno. Il premier accusa i giornali di allarmismo. Eppure rimane il sospetto che sia stato fra i primi ad alimentarlo.

il Riformista 24.10.08
A Roma corteo quasi bipartisan
I ragazzi: «Aridatece Bertinotti»
di Paolo Rodari


Eccola qui la nuova generazione universitaria. Ieri, a Roma, si è ritrovata alla Sapienza e, di lì, è partita a piedi alla volta del Senato: per protestare compatta contro il decreto Gelmini in discussione in aula. Giovani in marcia contro il governo: non avevano bandiere, bastoni e nemmeno elmetti. Anzi, arrivati all'incrocio tra corso Vittorio e piazza Sant'Andrea della Valle hanno convinto un gruppo di giovani del centro sociale Horus a toglierseli i caschi che volevano indossare per non farsi riconoscere. Tempi nuovi. Facce pulite e nessuna voglia di caricare nessuno.
«Semo na generazione bipartisan», spiega Mirco, 20 anni. In che senso? «Ner senso che nun ce ne fotte niente de li politici». Cioè: «Cioè so tutti uguali: fanno schifo». Addirittura? «Da Berlusconi a Veltroni, daje e daje, so tutti uguali. Noi semo er popolo e ce devono ascoltà».
E, in effetti, se è vero che la maggior parte degli slogan sono contro il governo e la Gelmini, è anche vero che le critiche sono indirizzate verso tutti. Perché «noi la crisi non la paghiamo», urlano. E ai poliziotti che con savoir-fare ricordano loro che per corso Rinascimento non si può passare perché «sono quindici anni che c'è il divieto di manifestare lungo il corso che porta al Senato», intonano questo coretto: «Difendiamo anche i vostri figli». E, quindi, proseguono oltre, per fermarsi a pochi metri da palazzo Madama grazie al pertugio di piazza Navona.
Matteo, 21 anni, studia medicina. E se gli si chiede perché si trova per strada, risponde snocciolando gli articoli che non gli garbano del decreto Gelmini. L'hai studiato a memoria? «Non siamo degli sprovveduti - risponde - Sappiamo quello che vogliamo». Siete di sinistra? «No. Siamo incazzati e basta». Ma Veltroni ha preso le vostre difese… «Chissenefrega - urla Francesca - Lui è come gli altri. Tutti, da sinistra a destra, ci devono ascoltare perché tutti non hanno fatto nulla per noi».
Enrico, 22ennne studente di filosofia, si avvicina con l'aria di chi la sa lunga. «Sai che c'è?», chiede. «C'è - si risponde - che semo n'onda d'urto inarrestabile e che sta volta ce debbono ascoltà. Finché er ministro nun ce parla nun ce ne annamo».
A un certo punto un gruppetto si ricorda di Francesco Cossiga. Proprio così. E gli urla degli epiteti. Perché ce l'avete con Cossiga? «Perché pure lui certe cose non doveva dirle». Cosa? «Sulla Nazione di ieri: "Le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale", ha dichiarato il presidente. E noi gliele diciamo».
Vabbè. Ma ci sarà qualche politico che si salva? Dice la sua un capogruppo: Simone, che cammina nel corteo con tanto di megafono: «Si salva solo Bertinotti. Ma non c'è più». Hai votato per lui in passato? «No. Non voto mai. Ma se fossi stato costretto avrei votato per lui». Andrea approfondisce il tema Bertinotti: «Oggi l'opposizione non c'è più. C'è bisogno di un nuovo Bertinotti. Noi siamo qui a dire che oggi, adesso, l'opposizione siamo noi. Non è Veltroni. Tanto è vero che la Gelmini domani parlerà con noi. Mentre sabato Veltroni non parlerà con nessuno del governo. Parlerà da solo».

Corriere della Sera 24.10.08
La Primavera. «Longo aveva incontrato il leader cecoslovacco. Fu un colpo di fulmine, l'Urss ci aveva rassicurato»
Ingrao: caro Fausto, il Pci non lasciò Praga sola
Replica a Bertinotti: «Scrissi io la condanna dell'invasione. E la sconfitta di Dubcek fu la nostra»
di Andrea Garibaldi


ROMA — Caro Fausto, caro amico mio, questa non è la verità. Le cose fra il Pci e i protagonisti della «primavera di Praga» non andarono come risulta dalle tue parole. Noi non lasciammo Praga da sola. Firmato: Pietro Ingrao.
Ingrao ha letto della rievocazione fatta mercoledì alla Camera del '68 cecoslovacco e si è inquietato. Bertinotti aveva detto che «Praga non fu aiutata da chi doveva e poteva», che il Pci si era fatto bloccare dall'esigenza di salvare le relazioni con l'Urss. Come andò invece, secondo Ingrao, che all'epoca era nel gruppo dirigente del partito, con il segretario Longo, e Amendola, Pajetta, Napolitano, Berlinguer? «Fin dall'avvento di Dubcek alla guida del Paese, ci fu l'appoggio immediato del Pci. E quando cominciò la "primavera", le prime aperture del sistema, Longo andò a Praga ad incontrare Dubcek, a esprimere consenso e solidarietà. Solo Tito era andato prima di lui. E anche nei nostri contatti con i sovietici premevamo affinché riconoscessero e valorizzassero Dubcek».
Ingrao, 93 anni, nella sua casa romana, ricorda che l'avvento di Dubcek avviene in un momento in cui il Pci comincia a sentire forte l'esigenza della de-stalinizzazione: «Con l'Urss i rapporti già erano difficili, noi spingevamo verso una democrazia di popolo. E sicuramente ci sentimmo più vicini a Dubcek che a Mao». Ma questo valeva più per i dirigenti che per la base? «Diciamo che la base sentiva con forza il legame nei confronti dell'Urss, Paese simbolo del riscatto sociale».
Dopo il viaggio di Longo a Praga, che succede? «A luglio arrivano da Praga e da Mosca segnali d'allarme, movimenti di truppe sovietiche. Una delegazione andò a Mosca e i sovietici ci rassicurarono. Non mostrarono volontà di intervenire militarmente». Quel-l'estate del '68, ricorda Ingrao, «andammo tutti in vacanza più tardi». Ma, quando nella notte fra il 20 e il 21 agosto, i carri armati sovietici invadono «fu per noi un colpo di fulmine ». Il segretario Longo è a Mosca. Ingrao è nel suo paese di nascita, Lenola, due ore dalla capitale: «Ero andato a fare un bagno nel mare di Sperlonga, poi mi chiamarono dalla redazione dell'Unità. Misi un paio di scarpe rotte e partii per Roma. A mezzanotte arrivò la conferma dell'invasione. Cercammo Longo più volte, senza successo, così scrissi io il comunicato che condannava l'intervento e dava sostegno a Dubcek. Longo, la mattina dopo, fu d'accordo senza riserve ». Quindi, Ingrao, non si poteva fare di più, non poteva esserci un netto strappo con l'Urss? «Non dico questo. Praga però non fu lasciata sola». Dubcek fu sconfitto. «E noi con lui».

Corriere della Sera 24.10.08
Parlato. L'ex direttore del «manifesto»
oi «radiati» proprio perché fummo vicini a quel popolo


Caro Direttore, scusami, ma è con una certa sorpresa e un po' di disappunto che ho letto sul tuo giornale un articolo che riferisce dell'iniziativa della Fondazione della Camera dei Deputati su "Eredità e attualità della primavera cecoslovacca". Il resoconto e quindi anche la relazione (suppongo) stravolgono non poco la realtà. Il titolo del Corriere sottolinea il fatto che Praga fu lasciata sola dal Pci e dagli studenti. Sicuramente il Pci criticò un po' quell'intervento, ma evitando ogni rottura con l'Urss.
Vale ricordare che solidale con l'Urss fu il Psiup ("ti ricordi dei carristi"?).
Rispetto alla cruciale tragedia cecoslovacca sarebbe stato opportuno ricordare che la rivista mensile de il manifesto (n. 4 del settembre 1969) si apriva con un editoriale (non firmato e scritto da Lucio Magri) dal titolo "Praga è sola". Con il seguente sommario: "Dopo un anno di occupazione militare la situazione cecoslovacca non lascia più margine a compromessi e impone nuove scelte al movimento operaio occidentale". E sarebbe stato piuttosto doveroso ricordare che quella nostra posizione su Praga fu usata dal gruppo dirigente del Pci per procedere alla radiazione dal partito del gruppo de il manifesto.
Da allora sono passati quarant'anni, ma dimenticare non è utile. Il Pci aspettò molto tempo per accorgersi che la famosa "spinta propulsiva" non c'era più.
P.S. Ma quante altre "Praghe" ci sono state nel cosiddetto mondo occidentale che sono state lasciate sole?

il Riformista 24.10.08
M'è apparso in sogno il signor Pci
di Peppino Caldarola


È tornato a trovarmi in sogno, mancava da più di un anno, il signor Pci. Alto, robusto, di buon umore. «Tutto a posto per domani?». Gli ho risposto che dopo la "sparata" di Berlusconi la piazza sicuramente si riempirà. «Non vedo l'ora di cantare: Avanti, avanti il Gran Partito/ Noi siamo dei Lavorator». No, signor Pci, questa canzone non è più di moda. «E quell'altra? Avanti popolo alla riscossa/ Bandiera rossa, Bandiera rossa». Neppure quella, signor Pci, Fioroni non vuole le bandiere rosse. «E chi cacchio è 'sto Fioroni?», mi ha risposto lui, seccato. Abbiamo fatto un partito assieme ai cattolici, gli spiego. «Me l'aveva detto la signora Dc che i nostri ragazzi si frequentavano. Hanno addirittura una storia?». Ho confermato. «E i socialisti?». Viene pure Nencini, gli ho annunciato. Era stupito: «Nencini, il ciclista? Ma se è qui con me assieme a Bartali e Coppi». «E i nostri ragazzi? D'Alema, Fassino e Veltroni?». Gli ho ricordato che Fassino e Veltroni non sono mai stati comunisti. «Ma dai!», ha bofonchiato. Ho taciuto. «Dimmi di Massimo», ha incalzato. D'Alema se la fa con Tremonti, ho dovuto dire. Il vecchio signor Pci si è chiuso in un silenzio imbarazzante. Poi mi ha fatto un cenno con la mano e se ne è andato cantando una vecchia canzone di Adamo: «Perduto amor, perduto amor/ Io so che più non ti vedrò/ Perduto amor, perduto amor/ Ma sempre a te io penserò/ Se ieri ti tenevo sul mio cuore/ Domani non so dover sarai tu…». Appunto, pensavo.

il Riformista 24.10.08
Nuovo formato
Il lato B dell'Unità di Concita
di Fabrizio d'Esposito


Irresistibile Concita. Il quindicesimo aggettivo che manca alla campagna della nuova Unità formato free press, dopo «nuova libera mini bella forte rivoluzionaria indipendente impegnata intelligente coraggiosa sorprendente generosa essenziale indomabile», Concita De Gregorio se lo tiene tutto per sé nella conferenza stampa di presentazione a Villa Medici, sede dell'Accademia di Francia a Roma. Irresistibile, Concita, perché inizia come meno te l'aspetti. Giacca bianca e jeans, stanghette degli occhiali tra le dita della mano destra con le lenti rovesciate sul polso, il direttore dell'Unità veltroniana fa il suo esordio in versione minimal, da traduttrice. Accade quando il direttore dell'Académie Frédéric Mitterrand conclude in francese il suo saluto d'apertura. Traduce Concita: «Le mie parole sono molto sentite perché so qual è stato il ruolo dell'Unità nella storia della democrazia italiana».
Un'Unità che adesso diventa femmina, seppur nel formato ridotto sublimato dalla magnifica trovata di Oliviero Toscani: un sedere di ragazza fasciato da una minigonna di jeans e la testata gramsciana che spunta da una tasca con sopra ricamata una "C" al contrario. Irresistibile, Concita, perché rivendica: «Quel sedere è mio, quella ragazza è il mio alter ego». Rivela Toscani: «Quando io e Concita ci siamo incontrati per la prima volta, lei venne a casa mia con la minigonna. Sul manifesto c'è lei». Ma non si tratta di un lato B inteso come oggetto, spiega il celebre fotografo. Anzi. «La postura della foto non è una posizione di seduzione, ma di comando». Toscani dixit. E Concita: «Sono un direttore donna chiamata a cambiare questo giornale attraverso il corpo e la testa di una donna. Una donna normale che ha una casa, dei figli e la mattina va a fare la spesa. Quel sedere non mi dà fastidio perché non è usato per pubblicizzare un detersivo o un'auto ma per un giornale diretto da una donna». Quindi ancora Toscani: «L'Unità pur avendo un nome da femmina è sempre stato un giornale per maschi. E poi in giro c'è tutta quest'aria di ministri-donne». Anche Carfagna in mini? Irresistibile Concita perché dice che è solo una «coincidenza» se il nuovo giornale uscirà proprio il 25 ottobre, giorno della manifestazione del Pd al Circo Massimo: «È una coincidenza felice, avrei preferito avere più tempo. Sarà qualcosa di imperfetto ma autentico con qualche sbavatura o foto fuori registro». Dal pubblico arriva una doppia domanda: «Dove andrà l'Unità, come sarà il suo rapporto con il Pd?». In sala non ci sono né Padellaro né Colombo né Travaglio, e la risposta arriva leggera, avvolta nel lucore dei lumi accesi e senza il cupo tintinnio delle manette giustizialiste: «È un giornale che va nel futuro, che è l'unico posto dove possiamo andare, ma la metà campo dove siamo è chiara».
Irresistibile Concita perché scherzando dice di voler vendere «due milioni di copie» e che «oggi anche Gramsci farebbe sicuramente» il cambio di formato. E poi, irresistibile, perché se è vero che «ci sono famiglie che non arrivano alla fine del mese» e Berlusconi mette in discussione «i fondamentali della democrazia mandando la polizia nelle scuole, dove la gestione del dissenso fa parte del percorso formativo di ognuno di noi», basta «allungarsi per un weekend in Francia o in Spagna per capire che i giornali sono già tutti così, che per i giovani la dimensione della lettura è questa». Mini Concita. Mini Unità. Irresistibile.

Repubblica 24.10.08
Conventi sempre più vuoti: sono diminuite di un terzo in 13 anni
La scomparsa delle suore
di Jenner Meletti


In 13 anni le religiose sono calate di un terzo Molte congregazioni abbandonano scuole e ospedali
Monastero addio poche novizie e solo straniere

BOLOGNA. Come le api, come le rondini. Anche le suore stanno scomparendo. «La più giovane, fra noi sorelle, è suor Carla e ha più di settant´anni. Io sono suora dal 1949, l´ultima novizia è arrivata più di 15 anni fa». Suor Domenica Cremonini, superiora generale delle Visitandine dell´Immacolata, allarga le braccia. «Non ci sono più ragazze che vogliano donarsi al Signore. Hanno altri valori, pensano ad altro. Qualcuna, ogni tanto, bussa ancora al convento e dice di avere la vocazione. Resta con noi qualche giorno o qualche mese». Poi capisce che diventare suora vuol dire lavorare e pregare una vita intera, e se ne va».
Il palazzo è bellissimo, nel cuore di Bologna. Mura del �700, affreschi e giardino. «I numeri - dice suor Domenica - non ci danno molta speranza. Eravamo 149, noi Visitandine, quando io ho preso i voti. Avevano 40 case diverse - istituti, asili, case di riposo� - e ora che siamo rimaste in 14 riusciamo a gestire solo un istituto professionale (gli insegnanti sono però tutti laici) e un convitto per studentesse universitarie qui nella casa generalizia. Non abbiamo più nemmeno un prete che venga a celebrare la Santa Messa nella nostra cappella».
I portoni di via Santo Stefano nascondono storie centenarie. Di fronte alla Visitandine ci sono le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù. Erano almeno trenta, vent´anni fa, ed ora sono 6. Passano ore nella cappella per l´adorazione eucaristica, mentre le dipendenti curano una «residenza universitaria». A poche decine di metri ci sono, per l´ultimo anno, le Figlie del Sacro Cuore di Gesù. Sono rimaste solo in due, mentre fino a qualche anno fa decine di consorelle riuscivano a gestire asilo e materna, la scuola elementare e anche la media. Una parte dell´istituto, fondato nel 1865, sarà venduto. Bologna non è il solo buco nero nel quale le suore scompaiono. In tutto il Paese la Wall Street delle religiose segna da anni un tracollo continuo. «Stiamo preparando - dice suor Pieremilia Bertolin, segretaria generale dell´Usmi, Unione superiore maggiori d´Italia, organismo di diritto pontificio che riunisce le congregazioni - un nuovo censimento. Sarà pronto, speriamo, a metà dell´anno prossimo. Gli ultimi dati sono del 2001: in Italia c´erano 81.723 religiose, riunite in 627 congregazioni. Nel 1988 le religiose erano ben più numerose: 121.183, con 645 congregazioni».
Un terzo delle suore è scomparso in 13 anni. Ma basta osservare i dati bolognesi per comprendere che il nuovo censimento confermerà il crollo. Nel 1988 le suore che vivevano sotto le Due Torri e in provincia erano 1.600. «Nel 2006 - dice suor Enrica Martignoni, segretaria dell´Usmi regionale - siamo scese a 856. Quest´anno ci siamo contate ancora e siamo 808».
Suor Enrica, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, conosce bene conventi e monasteri anche perché dirige la «scuola intercongregazionale delle novizie». «Tante comunità non possono più organizzare il noviziato da sole, perché le ragazze che entrano sono pochissime. La scuola comune è però positiva: ogni novizia, pregando e studiando assieme alle altre, scopre che nella vita religiosa diverse sono le chiamate e diverse sono le risposte. Impara a vivere in una comunità più ampia, quando per secoli i conventi sono stati chiusi alle altre esperienze religiose».
Decine di celle vuote anche nei monasteri di clausura. Sono rimaste in 8, le Clarisse del Corpus Domini di via Tagliapietre. Un tempo il monastero occupava un intero isolato. Negli otto monasteri della città ci sono in tutto 77 monache. C´è la «Casa per suore anziane» a San Giovanni in Persiceto, ma anche tanti conventi, con l´avanzare dell´età, sono diventati ormai case di riposo. Secondo un´indagine nazionale, solo il 7% delle suore ha meno di trent´anni. Il 17% è compreso fra i 40 e i 60 anni, il 53% ne ha più di sessanta e il 21% è compreso fra i 70 e i 79 anni. In questo mondo dove le giovani sono mosche bianche, nascono equivoci e malintesi. M., monaca benedettina del Ghana, assieme a una sorella è arrivata in Toscana credendo di essere chiamata a una vita di clausura. Si è trovata invece a fare la «badante» in una piccola comunità di monache anzianissime. Se n´è andata e ha trovato rifugio in un´altra congregazione. «Oggi le famiglie sono meno numerose - dice suor Enrica Martignoni - e certo non sollecitano la vocazione di una figlia unica. In una società così superficiale, è poi difficile trovare una spinta verso il sacrificio. Oggi tante nuove vocazioni arrivano dall´India, dall´Africa e dal Sud America. Nell´ultimo incontro con le novizie, qui a Bologna, su venti partecipanti solo una era di origine italiana».
Non c´è fuga dai conventi. Si spengono da soli. Le suore sono scomparse anche dalle corsie di cliniche e ospedali. «Le Serve di Maria Addolorata di Chioggia - dice padre Alessandro Piscaglia, cappuccino, vicario episcopale per la vita consacrata nella diocesi bolognese - pochi giorni fa hanno lasciato anche Villa Erbosa. All´ospedale Sant´Orsola c´erano le suore dell´Immacolata: erano 40 e sono rimaste in quattro, non più infermiere ma assistenti spirituali. Al Maggiore erano 20 e sono in 3. Al Bellaria le Piccole Suore della Sacra Famiglia erano 70 e non ce n´è più nessuna. A Castenaso la casa di riposo adesso è gestita dalle suore Missionarie della Carità, che arrivano da Palai, nel sud dell´India».
Il vicario episcopale dice che «la crisi è pesante ma ci sono anche speranze». «Le giovani suore sono poche ma molto impegnate. Alla vita conventuale preferiscono la presenza apostolica in una parrocchia, assieme ad altri giovani. Ci sono poi esperienze del tutto nuove: le Missionarie del lavoro, ad esempio, all´alba di ogni giorno raccolgono frutta e verdura al mercato generale per distribuirle poi alle mense dei poveri».
Una delle poche congregazioni che ancora resiste - quasi 300 sorelle impegnate in Italia, in Tanzania e in India - è quella delle suore Minime dell´Addolorata. Ma chi entra nella casa madre delle Budrie, dove nacque la fondatrice Santa Clelia Barbieri, incontra pochi volti bianchi di suore anziane e tanti volti sorridenti e giovani di sorelle africane e indiane. Sono loro a gestire gli asili, le scuole, le case di riposo degli italiani piccoli e grandi. «So che tanti conventi sono in crisi - dice suor I., indiana, mentre mostra orgogliosa la casa dove Santa Clelia fondò la prima comunità - ma non bisogna dimenticare che Gesù, con appena dodici apostoli, conquistò il mondo». C´è però chi non accetta le suore di altri continenti. «Abbiamo partecipato a una riunione a Roma - racconta suor Domenica, la superiora generale delle Visitandine - e ci hanno spiegato che le straniere creano tanti problemi. E allora abbiamo fatto una bella offerta alle missioni, così quelle ragazze possono fare le suore nel loro Paese». Tutto come sempre, nella casa madre di via Santo Stefano. Sperando che una postulante italiana bussi alla porta: così suor Carla, settant´anni compiuti, non sarà più l´ultima novizia.

Repubblica Firenze 24.10.08
Manicomi. Gianni Berengo Gardin
Quando fuggii dall’orrore di San Salvi
di Paolo Russo


Era il ´68, stavamo facendo un libro sulla violenza ai malati di mente: a Firenze trovammo un lager

MILANO. Sulla sedia della scrivania di Gianni Berengo Gardin un gilet in pelle marrone borchiato di badge. Roba da biker, di quelli rudi. Il maestro, 78 anni, conferma sorridendo, come al solito lieve: «Ho sempre cercato di testimoniare il costume che cambia, un paio di mesi fa ho voluto fotografare un raduno di Harley, a volte fanno paura alla gente ma sono persone normalissime: il gilet me l´hanno regalato loro. Stessa cosa con gli ultrà del Mantova, dai quali ho avuto una maglia col mio nome». Nel leggendario sottotetto del suo appartamento nel bel palazzo anni Venti in zona Magenta, il mondo di uno dei più grandi fotografi viventi trova la sua perfetta rappresentazione di appassionata misura, metodica abbondanza, ironia affettuosa. Una curiosità insaziabile, attenta e pacata: l´«entusiasmo senza frenesia» di cui ha scritto Sandro Fusina, che di Berengo è sapiente esegeta. I contenitori per i negativi (1.200.000) di oltre mezzo secolo di foto, una ordinato villaggio di libri («lavoriamo per compracene altri»), video, dvd, vecchie Olivetti sotto plastica, decine di gozzi, sandoli, vaporetti, velieri in legno che il maestro costruisce su un attrezzatissimo banco, tavoli, sedie, poltrone, una camera da letto con la teca delle sue Leica e Rolleiflex, scarponcelli, zainetti, borse e vestiti comodi per andare nelle strade del mondo - soprattutto l´Italia da fine ‘50 a oggi, lui che l´ha nel sangue: famiglia veneziana, ligure di nascita, cresciuto a Roma e da quattro decenni milanese - a raccontare con i suoi bianchi e neri ogni volta inattesi le storie, i luoghi, la gente, la vita. Sui muri poco spazio, basta per una dedica di Cartier-Bresson: «Cosa potevo chiedere di più?». Intorno la Nina corre e salta, vuole giocare, Berengo prende in collo la giovane bassotta a pelo lungo: «È il secondo cane di razza della mia vita, l´altro fu un labrador, da ragazzo: poi per trent´anni solo trovatelli o del canile. Parrà strano ma non ho mai fotografato né loro né altri animali, così come non ho foto dei miei cari, neanche dei miei genitori». È il giorno in cui i tg annunciano che Berengo ha vinto il Lucie Award, l´oscar della fotografia, primo italiano dopo Cartier-Bresson, Klein, Willy Ronis, che gli fu maestro nella gioventù parigina, e Elliot Erwitt, l´amico del cuore che l´ha ritirato per lui. «Suona come un premio alla carriera» sorride pacato ma contento, mentre il telefono impazza di complimenti e lui cura gli ultimi dettagli della mostra che si apre oggi in Palazzo Pichi Sforza a Sansepolcro, organizzata da Mercurio e Contrasto col sostegno di Mely´s, Banca Etruria, Kemon e Kme (fino 8/12, 10-12,30; 15,30-19, chiusa martedì, 5 e 3 euro, 0575/735384). Domina l´Italia, accanto Parigi, New York, India, Spagna, Germania, Jugoslavia: 45 bianchi e neri in cui l´artigianato sublime, lo sguardo acuto di Berengo vagano come quelli di un invisibile flaneur in una recherche della vita raccontata sul campo. Dove l´impegno, lui che ha fotografato la casa di Gramsci «per riconoscenza», non è crociata d´occasione ma necessità permanente e discreta. Come nel caso di un fotolibro famoso, Morire di classe, uscito nel ‘68 per Einaudi, del quale la mostra offre una scelta. Un libro sui manicomi. Nell´era della rivoluzione antipsichiatrica di Basaglia che fece scoprire, anche a una sinistra fin lì distratta, la tragedia senza voce del disagio mentale: «Fu un´idea di Carla Cerati: voleva fare delle foto dei manicomi ma non se la sentì di andare da sola, mi chiese di accompagnarla, andai a condizione di poter lavorare anche io. Non volevamo fotografare la malattia ma la condizione dei malati di mente, l´abbandono di cui erano vittime, la negazione della loro identità: anche prima della legge 180, la vittoria di Basaglia, che nel ´78 chiuse i manicomi, camice di forza e letti di contenzione erano vietati ma tutti li usavano. E nei manicomi c´era un sacco di gente fatta sparire dai servizi, dai familiari per un´eredità, o di cui oggi si direbbe solo che è esaurita. Tranne Gorizia, dove grazie a Basaglia il manicomio era già mezzo aperto, fu l´assemblea dei malati a darci il permesso, nel resto del paese vedemmo cose spaventose. San Salvi era un lager, il peggiore dell´alta Italia, mentre a Lucca Tobino disse solo "non si può". La direzione di San Salvi ci proibì di entrare, ci riuscimmo di domenica: i malati ci fecero passare per parenti, con la complicità degli infermieri. La violenza che vedemmo ci scioccò a tal punto che una volta usciti corremmo alla stazione e salimmo su un treno senza saperne la meta: solo ad Arezzo ci accorgemmo che non era Milano. A volte il fotografo è più forte del soggetto, quella fu una di quelle in cui, al contrario, il soggetto è più forte di chi scatta». Della Toscana Berengo ha tante volte fotografato l´eleganza asciutta del paesaggio, l´arcaica nobiltà del contado e della sua gente, il rigore severo dei monumenti, il volto non plateale delle città. Ma è anche tornato per un capitolo del suo lavoro sui campi rom d´Italia: «Nel ´93 mi cercò una signora con non conoscevo, Bianca La Penna, per invitarmi a fotografare gli zingari di Firenze, grazie a una legge europea che finanziava progetti sulle minoranze etniche. Passai un mese straordinario fra un campo e l´altro: se diventi amico dei rom ti danno tutto. Li avevo già incontrati nel ´75 per le foto del libro su Luzzara realizzato con Zavattini: tornai tempo dopo senza la Leica, mi chiamavano nonno Gianni. E anche a Firenze mi sono sentito accettato, ho passato serate magnifiche di musica, poesie e racconti intorno al fuoco con loro. Non è vero che tutti i rom rubano, e se lo fanno è anche perché ci sono costretti, è una forma di "vendetta": per fare un esempio, sono calderai da secoli ma una legge italiana gli vietava di lavorare il rame, e poi in mezzo a loro si nascondono tanti delinquenti comuni fuggiti dall´est europeo. Ma anche se rubassero quattro volte di più non si ripagherebbero mai dei conti in sospeso: basta ricordare che Hitler ne ha uccisi mezzo milione».

l’Unità 24.10.08
Nawal El Saadawi. La scrittrice egiziana a Roma per presentare il suo libro: «Temono la nostra intelligenza. La religione è basata sulla discriminazione, non ha futuro»
«Ecco perché le donne fanno paura ai fondamentalisti»
di Umberto De Giovannangeli


È l’autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. Medico, psichiatra. già docente alla Duke University, Nawal El Saadawi, 77 anni, è autrice di romanzi, racconti, commedie, memorie, saggi. Per le sue attività politiche e i suoi scritti a sostegno dei diritti delle donne, si scontra ripetutamente con il regime del Cairo e nel 1981, durante la presidenza di Sadat, viene incarcerata. Dalla metà degli anni Novanta vive in esilio: nel maggio 2008, vince la causa intentata contro di lei per apostasia. Le battaglie e i libri sulla condizione delle donne nella società egiziana e araba hanno esercitato una profonda influenza sulle generazioni degli ultimi trent’anni. Oggi, il suo nome compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni terroristiche. In Italia per presentare il suo ultimo libro: «Dissidenza e scrittura. Conversazione sul mio itinerario intellettuale» (Spirali), Newal El Saadawi argomenta con la consueta passione civile e lucidità intellettuale, una tesi che farà discutere: « Non c’è futuro per la religione - dice - perché la mente umana non può arretrare, la conoscenza è irreversibile. È come la luce. Se nel mio cervello c’è la luce, non può tornare il buio....». «L’Antico Testamento, il nuovo Testamento e il Corano - afferma decisa Newal El Sadaawi - non dovrebbero essere utilizzati in politica o in economia o nella morale o nella sessualità, se vogliamo una vera eguaglianza, in qualsiasi Paese. Se c’è vera eguaglianza non c’è spazio per la religione, che si basa invece sulla discriminazione. Quindi, non credo che si verificherà l’islamizzazione dell’Europa».
Cosa significa oggi lottare con l’«arma» della parola, delle idee per rivendicare diritti, eguaglianza, nel mondo arabo?
«Ritengo che il potere della scrittura sia molto importante. Anche se non abbiamo la libertà di parola, possiamo combattere per le idee in cui crediamo. Anche se siamo in prigione o in esilio, possiamo farlo. Ad esempio, quando io ero in carcere, riuscii a ottenere grazie ad una prostituta, della carta igienica e una matita per le sopracciglia. Con quella carta e quella matita sono riuscita a scrivere un libro: “Memorie in prigione”. Adesso sto insegnando negli Stati Uniti, e il corso riguarda in particolare la creatività e la dissidenza, e poi continuo a scrivere. Negli Stati Uniti ma anche in Egitto. La mia esperienza personale mi fa dire che anche sotto la dittatura più rigida, è possibile utilizzare il potere della scrittura».
Perché le donne fanno paura al potere come ai fondamentalisti?
«Fin dall’inizio della storia dell’umanità,i governanti, ma anche i fondamentalisti e gli stessi Dei maschili, erano contro le donne. Perché erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perché lei ha mangiato dall’albero della conoscenza, e quindi e diventata una peccatrice. Da lì sono cominciate due cose: è iniziata l’oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L’oppressione, la schiavitù sono iniziate con Evo e proseguite con Iside, la divinità femminile della conoscenza. Tutto questo accade perché gli uomini hanno paura delle donne, e hanno paura perché le donne sono più intelligenti degli uomini. Eva era più intelligente di Adamo...per questo si ha paura delle donne in una società che è, al tempo stesso, patriarcale e capitalista».
Nel 2005, Lei ha sfidato per la presidenza dell’Egitto, Hosni Mubarak, un leader sostenuto dagli Usa e dall’Europa. Ma possono essere personalità come Mubarak, da sempre al potere, un baluardo contro l’integralismo?
«Purtroppo l’Unione Europea si sta comportando come un’organizzazione imperialista come l’amministrazione di George W.Bush. Vi sono state molte speranze che questa nuova Europa unita potesse diventare una organizzazione diversa. E invece vediamo che si comporta esattamente come l’America, collaborando con essa. E lo fanno contro di noi. Ci trattano come quelli del Terzo mondo, un tutto indistinto che viene visto come una entità ostile, altroché inferiore. L’Europa e l’America collaborano con i nostri oppressori, con i dittatori. Pensiamo a Saddam Hussein: Saddam collaborava con gli americani ma quando ha detto “no” è stato ucciso. La stessa cosa può accadere con Mubarak. Nel momento in cui dirà di no, uccideranno anche lui, come è successo con Saddam. È questo il problema. Mi lasci dire che io sono venuta qui in Italia non per il governo italiano ma per il popolo italiano, per gli intellettuali, gli scrittori, per presentare il mio nuovo libro. Attualmente io insegno negli Stati Uniti, in una università progressista, però sono molto critica nei confronti di George W.Bush e la sua amministrazione mentre sono negli Usa. Per quanto riguarda Mubarak, il suo proposito dichiarato è di far ereditare il suo potere al figlio. E questo con il sostegno degli Stati Uniti. E stanno negoziando questo con gli Usa, perché Washington vede il potere di Mubarak prima, e di suo figlio dopo, come un’alternativa al fondamentalismo. Contemporaneamente, però, gli americani stanno negoziando con Mubarak da un lato e con i Fratelli Musulmani dall’altra. Davvero un bell’esempio di coerenza...».
Da donna, democratica, femminista, scrittrice araba che vive e insegna in America: come si schiera tra Barack Obama e John McCain?
«Spero vivamente che Obama vinca perché lui è molto meglio di McCain. Io vivo negli Stati Uniti da due anni e mezzo e ho seguito fin dall’inizio questa campagna presidenziale. Mc Cain è un imperialista, è un militare, lui potrebbe uccidere chiunque per i propri interessi o per denaro. Proprio come la Palin o George W. Bush, come tutti i repubblicani. Loro sono di destra, militari, imperialisti., e al 100% a favore di Israele. Barack Obama è sicuramente meglio anche se pure lui sostiene Israele. Nel sessantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele gli ho sentito dire che l’America è Israele, e che Israele è l’America. Questo assunto non mi piace affatto, e spero che Obama si ricreda. Detto questo, lo considero immensamente meglio di McCain e per questo voterò per lui».

l’Unità 24.10.08
Bioetica, le compassioni pericolose
di Maurizio Mori


Un tempo i cattolici condannavano senza mezzi termini i miscredenti. Ad esempio, Pio IX bollava come “delirio” la pretesa di considerare un diritto la libertà di coscienza e di culto ed esortava i fedeli affinché «avessero in sommo abominio l’infezione di una peste così crudele e la fuggissero». Quello stile si è rivelato controproducente. Hanno così cambiato strategia e oggi rinunciano alle condanne per passare invece alla “comprensione” della persona che sbaglia, dell’errante. Esemplare al riguardo è stato un editoriale uscito qualche tempo fa (Avvenire, 1 ottobre) di Francesco D’Agostino che spiegava come mai gli fosse difficile discutere con Beppino Englaro sul “caso Eluana”. Englaro, osservava D’Agostino, è un interlocutore valido, ed «è uomo garbato, di intense e radicate convinzioni, che ha dedicato con sincerità e con un ammirevole senso della misura una parte ormai davvero ampia della sua vita ad una sola causa», insomma una brava, un’ottima, persona. Perché, allora, se è un «testimone autentico», l’imbarazzo a discutere e ragionare con lui?
Perché D’Agostino ritiene che Englaro «sia un uomo da compiangere (nel senso etimologico del termine: vorrei piangere assieme a lui il tristissimo destino di Eluana), che sia un uomo da compatire (nel senso etimologico del termine: dovremmo tutti patire assieme a lui, come assieme ad un fratello, a causa della vicenda che ha sconvolto la vita di Eluana e la sua)». E non si può ragionare e discutere di un problema serio come quello di Eluana con un uomo che «merita in primo luogo di essere “compianto” e “compatito”». Questo modo di fare, mostra il livello raggiunto dai cattolici nostrani nel dibattito bioetico: dietro una patina di gentilezza mascherano il disprezzo degli altri. La comprensione che mostrano sul piano personale serve solo come arma per squalificare l’interlocutore: Englaro è da “comprendere” per la tragedia che lo ha colpito e che lo avrebbe sconvolto al punto da non essere più in grado di ragionare. Il dolore lo avrebbe distrutto, e per questo va “compianto” e “compatito”, non preso sul serio e condannato. Qui sta la totale mancanza di rispetto verso Englaro, che invece è uomo forte e lucido, dalle solide convinzioni: può essere criticato e condannato per le sue idee, ma non squalificato con una pacca sulla spalla. Secondo D’Agostino non si può ragionare e argomentare con Englaro perché Beppino ti sbatte in faccia con esuberante passione la situazione concreta e reale di Eluana, mentre la razionalità richiesta dal ragionamento porta a riconoscere che una legge non può essere emanata «per risolvere nell’immediato singoli casi umani, per quanto emotivamente conturbanti: essa deve mirare ad un orizzonte ben più ampio di quello dell’immediatezza». Così D’Agostino ci insegna che già Aristotele tanti secoli fa ci «ha spiegato in modo definitivo e insuperabile» che «una “buona” legge è “ragione senza passione”». Si potrebbe osservare che la tesi di Aristotele è controversa e molti ritengono che le leggi vadano fondate su “passioni buone”. Ma questo è un dettaglio marginale. È sicuramente vero che le leggi sono generali e ampie, non ad personam e limitate al caso specifico. Ma è altrettanto vero che devono poi risolvere il caso concreto, perché altrimenti sarebbero inutili astrazioni. Pertanto, è corretto partire dal caso concreto di Eluana e poi passare con “ragione senza passione” agli altri casi simili. Come risolverebbe D’Agostino lo specifico caso Eluana? Non lo dice. Si limita però a dire che «il cuore della questione (di Eluana, ndr) e di ogni possibile legge sulla “fine vita”, che si voglia “giusta”» sta nell’osservare che il “caso Eluana” non coinvolge solo lei, ma coinvolge «innumerevoli malati ... attuali e futuri, il cui diritto alla vita è messo in pericolo e che noi dobbiamo garantire contro ogni rischio di abbandono terapeutico». Sembra di capire che per D’Agostino la posizione passionale di Beppino per il suo caso singolo non è sbagliata in sé: se fosse sbagliata, andrebbe condannato, non “capito” e “compreso”. Sembra che D’Agostino accetti che, dopo quasi 17 anni è certo che Eluana non si risveglierà mai più. È per questo che non condanna Beppino. Il punto, quindi, è che la “ragione senza passione” ci deve far considerare gli altri «innumerevoli malati ... che dobbiamo garantire contro ogni rischio di abbandono terapeutico». Ma perché dice questo? È lapalissiano che nel caso di Eluana non c’è alcun “abbandono terapeutico”: è stata accudita in modo esemplare per più di 16 anni. Se già nel caso singolo di Eluana ci fossero violazioni, D’Agostino avrebbe dovuto dirlo subito, rendendo del tutto inutile e superfluo l’appello alla tesi aristotelica della “ragione senza passione”.
Se, quindi, nel caso singolo è lecita la sospensione della terapia, la “ragione senza passione” ci dice che in tutti i casi simili è giusto lo stesso trattamento. L’argomento di D’Agostino è in realtà invalido. L’errore sta nel fatto che l’intensa passione che lo anima gli impedisce di immaginare che i casi come quelli di Eluana abbiano soluzione analoga: il solo pensiero “fa accapponare la pelle”, “sconvolge”, “atterrisce” e via dicendo con espressioni analoghe che confermano come sia la passione ad impedire alla ragione di estrinsecarsi. Diversamente da quanto lui propone di fare con Beppino, non credo che per questa sua irruente passionalità D’Agostino sia da “compatire” e da “compiangere”. Lo si deve invece prendere sul serio per la posizione sostenuta, ma si deve anche far notare che, al di là delle citazioni dotte, il ragionamento di D’Agostino è fallace e trasmette solo stimoli “puramente emotivi”: i suoi.
Alla fine del suo editoriale D’Agostino auspica, «a bassissima voce», che il signor Englaro fuoriesca «dal sistema mediatico nel quale si trova immerso da anni» perché la sua è sì una «testimonianza autentica, che merita rispetto», ma è «testimonianza di “passione”, non di “ragione”». Anche qui, diversamente da quanto fa D’Agostino, non auspico niente perché non è mio compito e la mia voce è tanto bassa da risultare impercettibile. Resta però che anche quella di D’Agostino è «testimonianza di “passione” e non di “ragione”». Il fatto che D’Agostino occupi posizioni istituzionali importanti non cambia la situazione. Anzi, la aggrava. Perché da questa posizione di forza, le sue emozioni ammantate da ragionamenti fallaci influenzano la vita civile producendo disastri.
Presidente della Consulta di Bioetica, Università di Torino

l’Unità 24.10.08
Un monumento al clandestino
di Luigi Cancrini


La prostituta nigeriana che fugge di fronte ad un’auto della polizia e muore travolta da un’auto che va per la sua strada e che nulla poteva fare per evitare questo incidente dovrebbe diventare, in una nazione davvero civile, il simbolo del tempo che stiamo vivendo. Un tempo amaro e crudele.
Parigi 1793. I giacobini (la parola che tanto odio suscita in chi oggi da destra ci governa) ottengono dall’Assemblea nazionale la legge che riconosce pari diritti, nella Repubblica nata dalla rivoluzione, ai neri e ai bianchi, ai colonizzatori e ai colonizzati abolendo, di fatto e per la prima volta nella storia dell'uomo, la schiavitù. Una schiavitù che sembrava naturale negli Stati Uniti e nell’Inghilterra dove tanto pur si parlava di democrazia, che non creava problemi alla Chiesa Cattolica né alle altre religioni e che fu presto ristabilita in Francia da Napoleone: al tempo in cui Beethoven cancellò la dedica della Sinfonia n. 3, Eroica, fatta al nuovo imperatore dei francesi, strappando, per la rabbia, la prima pagina della sua partitura. Una schiavitù di cui noi cittadini europei pensavamo fosse scomparsa. Una schiavitù di cui la povera ragazza nigeriana ci dice che esiste ancora. Di cui lei può essere considerata un simbolo.
Schiavo era, finché la schiavitù era in vigore, un essere umano privo di diritti formali (il diritto di cittadinanza e dunque di voto e di partecipazione alla cosa pubblica) e sostanziali (alla salute e alla casa, al lavoro e all’istruzione). Riconosciuti dalla nostra Costituzione ai cittadini italiani ed europei, questi diritti sono riconosciuti solo in parte e solo per la parte che riguarda i diritti sostanziali agli emigrati regolari. Non sono riconosciuti affatto a quelli irregolari di cui si dimentica tranquillamente (cinicamente, irresponsabilmente) la vicenda (il dramma) che li ha spinti a cercare la solidarietà di uomini e di donne nati in luoghi più protetti (da Dio, dalla fortuna, dal capitale) e che sono da questi costretti a vivere in una condizione perfettamente analoga (e a volte perfino peggiore) a quella degli schiavi. Immersi in una spirale di odio e di diffidenza. Travolti perfino dal punto di vista di quello che un tempo era “il diritto”, dalla follia (apparentemente) lucida dei governanti di un Paese che è arrivato a considerare reato o almeno aggravante di reato la loro richiesta d’aiuto (o di asilo). Il loro investire quello che hanno in un viaggio della speranza destinato a distruggere, in una gran parte dei casi, tutti i loro sogni. Dando fondo a tutte le loro risorse.
È in questa luce che, ancora una volta, dobbiamo valutare il significato simbolico di questa morte. L’unica risorsa di cui disponeva la povera ragazza di cui nessuno sa neanche il nome erano i suoi ventanni e la capacità del suo corpo giovane di suscitare un interesse sessuale negli uomini del paese in cui sognava di arrivare. Vendere il proprio corpo per la strada con l’aiuto interessato dei delinquenti che sfruttavano la sua vergogna e la sua sconfitta era, per lei, l’unica possibilità di realizzare il suo sogno. Il suo progetto. Osservata da questo punto di vista la vicenda è il simbolo della condizione della donna e di tanti bambini del terzo mondo per cui prostituirsi, oggi, è un tentativo disperato di sopravvivere: per sé o per la propria famiglia di origine quando chi ti compra paga qualcosa ai tuoi genitori o i tuoi fratelli. Dicendoti chiaro, come in tanti casi è stato provato, che chi ha ricevuto dei soldi per il tuo sacrificio potrebbe subire gravi danni per la tua colpa se tu da chi ti ha pagato tenterai un giorno di liberarti. Di fuggire.
L’ultimo riferimento di ordine simbolico della vicenda sta nel contrasto forte fra la freddezza della notizia giornalistica o televisiva e il vero e proprio dramma vissuto dalle persone che hanno investito e ucciso la ragazza che fuggiva.
Come se solo la vicinanza alla sofferenza e al corpo della persona potesse dare il senso dell’immensità della tragedia in cui tutti siamo immersi: di cui riusciamo a non accorgerci e a non sapere finché il caso non ci mette di fronte al modo in cui la tragedia si fa ferita o morte, urlo di dolore o silenzio rassegnato. Interrompendo per un attimo, per poche persone, il sogno in cui tutti abbiamo bisogno di credere: l’idea di una società giusta, in cui queste cose non esistono, in cui la schiavitù non esiste più da tempo. L’idea e il sogno che sono gli alleati più potenti di tanti (troppi) che oggi ci governano spingendo la gente (che vota) a non vedere e non pensare.
L’idea folle che nasce da tutte queste riflessioni potrebbe essere quella che si basa sul bisogno opposto, il bisogno di vedere e di ricordare. Erigendo un monumento all’emigrato clandestino nel luogo di questa tragedia. Dando il nome della ragazza nigeriana morta in questo modo assurdo ad una strada della città più vicina al luogo della sua morte.

Corriere della Sera 24.10.08
Le cifre I bambini in età scolare che hanno problemi di dislessia sono il 4-5% del totale. L'importanza della diagnosi precoce
Le norme È in commissione Salute al Senato il primo testo normativo su questo disturbo. «Siamo gli ultimi in Europa»
Dislessici, esercito di fantasmi
Un milione e mezzo, ogni anno 25 mila nuovi casi Non c'è una legge che li tuteli. «La scuola li emargina»
di Mariolina Iossa


Non sa leggere, la tabellina non gli sta in testa, scrive male e sbaglia la sequenza delle sillabe. Inverte le lettere, confonde la b con la p, non si accorge delle doppie, la poesia o la filastrocca sono un rompicapo, impossibile ricordarle a memoria per quanti sforzi si facciano. Un tempo di fronte ad un bambino così il verdetto era inappellabile: «È svogliato». «È pigro». «La scuola non fa per lui, mandatelo a imparare un mestiere». Oggi si sa che quel bambino potrebbe essere dislessico.
Fino a poco tempo fa in Italia il problema della dislessia non era abbastanza studiato e conosciuto. L'Associazione italiana dislessia è nata soltanto nel 1997, appena 11 anni fa. Oggi finalmente se ne parla di più e si moltiplicano studi e ricerche. Eppure certi pregiudizi sono difficili da scardinare, la scuola non è sempre preparata, le famiglie a volte non sanno a chi rivolgersi e come muoversi. In genere, ci vogliono almeno tre anni perché si arrivi alla diagnosi e si possa cominciare la terapia.
Una cosa deve dunque essere subito detta: il bambino dislessico non è pigro. E non è meno intelligente degli altri. Per lui, più semplicemente, scrivere o fare i calcoli non è facile e automatico come lo è per i compagni «normolettori».
La dislessia evolutiva è un disturbo specifico dell'apprendimento, spesso di origine genetica che riguarda la difficoltà di lettura. In Italia ne soffre almeno un milione e mezzo di persone, circa il 3 per cento della popolazione, ma sono stime prudenti. Gran parte dei dislessici ha avuto una carriera scolastica costellata di insuccessi, con abbandoni precoci e con conseguenze sociali a volte molto pesanti.
In età scolastica la percentuale sale al 4-5 per cento, su 7 milioni e 760 mila studenti, sono dislessici tra i 350 e i 400 mila (ma c'è chi pensa che siano cifre in difetto e che i bambini dislessici arrivino almeno a mezzo milione). In pratica un bambino o ragazzo per ogni classe (di 25 alunni). Ogni anno ci sono 25 mila nuovi casi e 6 volte su 10 alla dislessia si associa la difficoltà di scrittura (disgrafia e disortografia) e di calcolo (discalculia), anche se questi ultimi disturbi possono presentarsi da soli.
«La dislessia è un disturbo neurobiologico determinato da un insieme di fattori, che si manifesta nel bambino in età scolare — spiega Stefano Vicari, primario di neuropsichiatria infantile del Bambin Gesù, che da anni se ne occupa —. Un fattore di rischio è il ritardo o il disturbo del linguaggio in età prescolare. Quello è un primo campanello d'allarme ».
In uno studio specifico Vicari, con la sua équipe, ha messo in evidenza come «nell'indagare le aree del cervello del bambino dislessico che funzionano in maniera diversa da quelle dei normolettori, abbiamo studiato il ruolo svolto dal cervelletto nel determinare la mancata automazione della lettura». In sostanza si tratta di una «abilità diversa», che va curata attraverso una terapia riabilitativa che insegna al cervello ad acquisire nuove abilità. «La diagnosi — continua il primario — la fa il neuropsichiatra assieme allo psicologo e al logopedista perché è necessario poter escludere altre patologie, la sordità, un problema alla vista, un ritardo mentale ». Solo dal 2006, tuttavia, dopo una Consensus Conference ci si è accordati su linee guida condivise per la diagnosi di dislessia.
«Siamo ultimi in Europa — spiega il vicepresidente dell'Aid, Enrico Ghidoni, neurologo dell'Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia, che ha un figlio dislessico —. Soprattutto la scuola ha accumulato un ritardo enorme, gli insegnanti spesso non ne sanno nulla oppure pensano di sapere che cos'è ma hanno convinzioni sbagliate. Naturalmente il problema sta a monte, il ministero della Pubblica istruzione soltanto nel 2005 ha avviato un primo programma di informazione presso gli insegnanti provando a formarne uno per istituto».
Altro aspetto importantissimo: non esiste ancora in Italia una legge sulla dislessia. «Proprio in questi giorni, dopo sei anni di battaglie — continua il neurologo —, è in via di approvazione in commissione Salute al Senato il testo della prima legge sulla dislessia. Naturalmente dovrà poi passare alla Camera ma è stata votata la procedura d'urgenza ». La legge è indispensabile se si vuole evitare che un figlio dislessico sia «cancellato » dal sistema scolastico e abbia invece l'opportunità come tutti di studiare e di apprendere.
«Sembra banale ma per un dislessico può essere impossibile prendere la patente o partecipare ad un concorso pubblico — continua Ghidoni —. Una normativa può aiutarlo, permettendo nello studio l'uso di strumenti tecnologici, intendo il computer con il correttore automatico, la calcolatrice, l'audiolibro, il libro digitale con il sintetizzatore vocale, ma anche l'esenzione dallo studio della lingua straniera in forma scritta, la possibilità di fare i compiti scritti con tempi più lunghi o di sostenere colloqui orali». Aiutare un bambino dislessico subito, fin dalle prime classi delle elementari e anche prima, è molto utile. Anche perché l'insuccesso scolastico provoca scarsa stima di sé, insicurezza, senso di colpa, timidezza o bullismo, comportamenti sociali alterati fino ad arrivare a forme di devianza.
«Dalla dislessia non si guarisce mai completamente ma se trattata in tempo il disturbo si può compensare», aggiunge la dottoressa Alessandra Luci, psicologa e logopedista, che da dieci anni segue i bambini dislessici. E infatti, tra tutti i diagno-sticati, che purtroppo sono solo l'1 per cento, due bambini su dieci riescono a superare il disturbo quasi completamente, cinque su dieci ci riescono in parte, e solo tre non ce la fanno nel corso della vita. «La dislessia non è causata da un deficit di intelligenza — chiarisce la Luci —. Al contrario, l'intelligenza di un bambino dislessico è nella media o, spesso, superiore alla media. E' fondamentale quindi che la scuola sappia riconoscere il disturbo e aiutare i genitori a capire se il proprio figlio è dislessico, pena un senso di frustrazione che non si cancella più».
La tecnologia
Serve l'uso in classe di strumenti tecnologici, ma anche l'esenzione dallo studio della lingua straniera in forma scritta, tempi più lunghi per i compiti, colloqui solo orali

Il Foglio 24.10.08
Fausto fa il punto sulla piazza
Bertinotti ci spiega perché questo movimento è post-novecentesco
intervista di Lanfranco Pace


Roma. La consegna era stata chiara: Praga e solo Praga, il presidente non parlerà d'altro. Significa non conoscere il Fausto Bertinotti liberato dal lavoro, dai corsetti della funzione sia essa presidente della Camera o leader di partito, e tornato compagno e libero pensato re, appena inquieto per la sua prima lezione all'Università di Perugia. Ma pacta sunt servanda e disciplinatamente comincio da Praga. "Avvenimenti tragici che quarant'anni fa furono la pietra tombale del ciclo di lotta di classe aperto dalla rivoluzione del 1917, il secondo, rimanendo alla definizione di Louis Althusser dopo quello aperto dalla presa della Bastiglia e finito nel bagno di sangue della Comune. Visti oggi, quei fatti prendono un rilievo eccezionale. Allora in Italia c'erano due attori che si muovevano in parallelo, il Pci e il movimento studentesco. Ed entrambi persero l'occasione per impadronirsi della riforma del comunismo reale e farne un progetto realistico e possibile. La piattaforma della Primavera era vasta, come accade ogni volta che si fa revisionismo, ma bisognava saper distinguere, leggere tra le righe: nel Manifesto dei duemila intellettuali c'era voglia di libertà, di cambiamento e l'embrione prezioso della democrazia consiliare. La schiacciante maggioranza del popolo, lo dicono vari sondaggi, preferiva ancora un socialismo dal volto umano al capitalismo. Invece Pci e movimento degli studenti non vollero guardare né capire. Il primo bruciò ogni possibilità di far crescere l'influenza dell'eurocomunismo. Quanto al movimento del '68, che pure aveva nel suo codice genetico la diffidenza e l'ostilità verso ogni sistema di potere, non riconobbe quei giovani come propri fratelli. Prese lucciole per lanterne, magari guardò a Cuba e alla Cina, ma non a Praga. Così un movimento che aveva avuto in Europa un'origine comune a un certo punto si biforca, fino all'incomunicabilità. Lo capì, sia pure in ritardo, Rudi Dustchke, che prima di morire disse che il suo grande rimpianto era non aver capito la rivoluzione della Primavera. Il 1968 non era il 1956 e Praga non era Budapest, che per il momento storico eper il contesto, rimase dentro la logica comunista. I fatti di Praga avvennero in un mondo aperto e in profonda, impetuosa trasformazione: appiattendosi sugli schemi della realpolitik e in alcuni casi dando vita a rlgurgiti stalinisti, il Pci andò incontro a una sconfitta strategica e il movimento del '68 perse la sua innocenza". Fu il Psi di Craxi a raccogliere lo spirito di Praga. "Accolse gli esuli questo sì, tutti gli esuli dell'est e visto come il Pci aveva chiuso le porte in faccia a Jiri Pelikan già questo fu un merito".
Presidente Bertinotti, ormai è andata come è andata, mettiamo un attimo da parte le ucronie. Qui e ora c'è chi dice che sta tornando il '68. "E' una sciocchezza, se proprio devo fare paragoni il movimento da cui quello attuale è meno lontano è probabilmente la Pantera. Con questa differenza non da poco: il movimento degli anni 80 manteneva un legame sia pure tenuo con la sinistra, con i suoi partiti, con i sindacati. Quando andavi a parlare nelle assemblee ti ascoltavano e a volte applaudivano. Questo movimento invece non ha alcun interesse per la politica, che da tempo ha perso ai loro occhi credibilità come portatrice di cambiamenti. E' un movimento di situazione, auto-centrato che vuole comunicare all'esterno l'immagine della scuola come comunità. E' come se manifestassero insieme magistrati e utenti della giustizia. Nel '68 questo non sarebbe stato possibile". Direi di no, i primi con cui ci scontrammo all'epoca furono proprio i professori."Appunto. Qui invece un insegnante può diventare protagonista o leader ascoltato per il semplice fatto di far parte dello stesso mondo e di soffrire dello stesso male, la progressiva perdita di riconoscimento, di gratificazioni. E' dunque un movimento totalmente nuovo, il primo post novecentesco, il primo senza più clivage fra destra e sinistra".
In effetti i giovani di destra ne fanno parte a pieno titolo sia pure con un certo disagio, ma questo accadde anche nel '68 anche se il fenomeno durò poche settimane, e già l'i affiorano sui muri scritte del genere "fuori i fasci dai licei". "Sarebbe terribile se si tornasse indietro, agli anni del settarismo e della violenza, due comportamenti estranei a questo movimento che per rappresentarsi come comunità solidale ha sospeso l'appartenenza politica. Per questo ho ascoltato con inquietudine le parole del presidente del Consiglio. E' convinto che dietro le occupazioni, le proteste ci sia la solita regia occulta della sinistra e ha fatto la faccia da duro per ridurre a più miti consigli l'opposizione. Senza vedere che l'opposizione a più miti consigli ci si è già ridotta da sola e che il movimento nasce sull'assenza di un'opposizione. E non è affatto detto che nel futuro porti consensi alla sinistra. Si pensi alla protesta contro il Cpe, il Contratto di prima occupazione, che partì dalla Sorbona e si propagò a licei e università di tutta la Francia. Mise in grave difficoltà l'allora presidente Chirac ma non si trasformò in consenso per Ségolène Royal tanto è vero che poi ha vinto Nicolas Sarkozy. Questo movimento non è contro il governo, meno che mai contro Silvio Berlusconi". Insomma un movimento senza simboli né inani invisibili. " Vuole scherzare, qui per contare bisogna svestirsi, lasciare vessilli e bandiere a casa, chi si veste è assimilato a ceto politico e quindi non credibile".
Forzando un po', questa storia delle lezioni all'aperto allude più all'agorà, all'università rinascimentale, al College de France dove si va per ascoltare voci sapienti, per pura sete di cultura e sembrerebbe dar ragione a chi vorrebbe sopprimere il valore legale del titolo di studio. "C'è anche questo aspetto, ma perché prevalga ci vorrebbe un altro contesto. Oggi la mobilità verticale è bloccata e l'orizzonte porta solo lavori precari. E' normale che restino aggrappati a un'idea di scuola pubblica, repubblicana". Eppure fatico a vedere in questo esile ma ferreo ministro un campione della restaurazione: alcune sue proposte sembrano di buon senso e condivise dalla maggioranza degli italiani, sondaggi alla mano. "Purtroppo è il segnale che conta e quello che ha dato Gelmini è percepito negativamente da una comunità che cerca anzitutto riconoscimento e non si piega a essere rimodellata dall'alto". Che farebbe? "Sospenderei ogni misura, ogni decreto diciamo per due, tre anni, tanto il governo resta in carica per cinque. Convocherei una sorta di stati generali della scuola, sul modello francese. E dopo questo dibattito nazionale, metterei il Parlamento e l'opinione pubblica di fronte alle scelte che si impongono. Nell'interesse generale. Fossi un intellettuale, proporrei una cosa così". Ma lei li conosce, avrà letto le dichiarazioni di Fuksas, persino di Arbasino: invece di cercare di capire, proiettano se stessi. "E' la degenerazione della sinistra che non ha più gli strumenti per capire né l'umiltà per ascoltare. Se potessi nel mio piccolo, mi travestirei, ano drei tra loro e starei ore e ore ad ascoltarli".