sabato 26 aprile 2008

l'Unità 26.4.08
Fascisti su Roma
di Antonio Padellaro


Il «né rinnegare» (il fascismo) e «né aderire»
(all’antifascismo) non è solo un problema
di chi si candida alla guida di Roma. È
molto di più. È un’ambiguità che genera
un vuoto. Dentro il quale può addensarsi
il pulviscolo nero che aggredisce e insulta

Nell’ultimo anno, e nella sola città di Roma non si contano gli episodi violenti di matrice fascista denunciati alla magistratura. Aggressioni davanti alle scuole. Incursioni nelle sedi dei partiti di sinistra e contro chiunque venga giudicato «diverso» (l’assalto al circolo omosessuale Mario Mieli). Spedizioni punitive in manifestazioni ritenute «rosse», con relative bastonature (il concerto di Villa Ada). Sui muri la svastica è un simbolo così frequente che non ci si fa più caso. Ma i suoi seguaci non si limitano a lavorare di vernice e pennello. Non è passato molto tempo, infatti, dalla notte dell’11 novembre 2007 quando, in seguito alla tragica morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, centinaia di estremisti neri in assetto da guerriglia devastarono il Foro Italico e diedero fuoco a una caserma di polizia. Con tecnica e spiegamento di forze tale da fare ipotizzare alla procura il reato di terrorismo. È uno stillicidio di notizie pubblicate nelle pagine di cronaca con un andamento abitudinario e dunque per niente allarmante. Cronaca un po’ troppo speciale e un po’ troppo frequente anche se a nessuno salterebbe in mente di paventare un ritorno del fascismo in una democrazia solida e collaudata come la nostra. Chissà se la pensa così l’attrice Daniela Poggi, minacciata al grido di «comunista schifosa» mentre distribuiva volantini pro-Rutelli nel quartiere bene di Vigna Clara?
Certo che non siamo alla vigilia di una nuova marcia su Roma ma diventa difficile negare che tutto ciò non abbia nulla a che fare con la candidatura di Gianni Alemanno e con la sua possibile elezioni a sindaco della capitale.
Non staremo qui a rinvangare la biografia politica dell’uomo, germogliata nel Fronte della gioventù di missina memoria, tra busti del duce e saluti romani, perché pensiamo che a ciascuno (soprattutto ai politici) vada chiesto non da dove viene ma chi è. E oggi Alemanno, come ha scritto Il Foglio, è tutto quello che fu e molto altro ancora. Sul passato i suoi silenzi sono tali da far pensare che valga per lui la vecchia massima del né rinnegare né aderire. Il che non vuol dire assenza di idee guida e di paletti ben piantati. Per esempio, ministro dell’Agricoltura nel secondo governo Berlusconi, Alemanno si era fatto apprezzare anche dall’opposizione per la competenza nel settore e per uno stile misurato e non cortigiano nei confronti del premier padrone. Fino a quando, durante una visita all’università di RomaTre alcuni studenti che lo contestavano furono mandati all’ospedale, e non si appurò mai se i picchiatori facessero parte, come alcuni sostenevano, del seguito ministeriale.
Ieri, il candidato della destra era presente alle celebrazioni del Vittoriano per il 25 aprile. Ma quando è stato il momento di dire qualcosa ha parlato di «Liberazione della nazione da ogni forma di totalitarismo sia di destra sia di sinistra». Un classico zero a zero: ovvero proprio quell’equiparazione che è svalutazione e denigrazione dell’antifascismo di cui ha parlato a Genova il presidente Napolitano. Il né rinnegare (il fascismo) e né aderire (all’antifascismo) non è solo un problema (grave) di chi si candida alla guida di una delle città più importanti del mondo. È molto di più. È un’ambiguità che genera un vuoto. Dentro il quale può facilmente addensarsi quel pulviscolo nero che aggredisce e insulta.
I fascistelli che danno fuoco alle caserme o bastonano i gay non sanno nulla del fascismo che nella loro feroce ignoranza rappresenta solo una parola d’ordine, un lasciapassare ribellistico. Se fino a ieri strisciavano nell’ombra perché oggi non dovrebbero sentirsi al sicuro in un paese nel quale il premier in pectore festeggia il 25 aprile con il fascista non pentito Ciarrapico? E dove il sindaco della capitale morale si rifiuta di scendere in piazza con i concittadini non avendo più bisogno di raccattare voti e di un padre partigiano da esibire sulla carrozzella degli invalidi. È l’antidemocrazia assecondata dalla tranquilla indifferenza di milioni di italiani per il mostruoso, l’ignobile, il delinquenziale di cui scrive Giorgio Bocca. E quella dilapidazione del valore della solidarietà e del rispetto degli individui, di cui parla Walter Veltroni nell’intervista di oggi a l’Unità. È il trionfo dell’Italietta che spaccia per bisogno di sicurezza le sue ossessioni contro gli zingari «che se ne devono anna’». Che come ricetta infallibile per lo sviluppo propone per bocca di Pino Rauti, fascistissimo suocero guarda caso di Alemanno, di affidare i terreni comunali «a tante cooperative per l’orto e il giardinaggio». Cosa ha a che fare tutto ciò con un grande paese e con una grande città?

l'Unità 26.4.08
La Resistenza salvò l’Italia
di Giorgio Napolitano


Pubblichiamo ampi brani dell’intervento del Presidente della Repubblica, in occasione della celebrazione della Festa della Liberazione a Genova

Rinnovo innanzitutto l’omaggio appena reso alla memoria dei vostri 1863 caduti, il cui sacrificio rispecchia l’ampiezza e l’eroismo delle schiere dei combattenti per la libertà. Desidero nello stesso tempo rivolgere un saluto e un apprezzamento particolare all’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e al suo presidente sen. Raimondo Ricci
Un istituto che ha sempre costituito un luogo di incontro e di unità, impegnandosi ad approfondire e trasmettere ricostruzioni obbiettive e non di parte dell’esperienza della Guerra di Liberazione. Esso ha continuato - con iniziative anche recenti cui avrò modo di riferirmi - ad alimentare una coscienza storica comune, affidata non a stereotipi ma a conoscenze e valutazioni inoppugnabili. (...)
Sappiamo quel che significa per l’Italia la data del 25 aprile: essa segna la liberazione piena del paese dalla dittatura e dall’occupazione straniera, la riconquista su tutto il territorio nazionale di una condizione di libertà e d’indipendenza. Ma dobbiamo ogni volta sentirci impegnati a (...) ripercorrere nella sua complessità, l’esperienza vissuta nel drammatico periodo in cui "l’Italia era tagliata in due": esperienza tradottasi in una straordinaria prova di riscatto civile e patriottico. Questo fu la Resistenza, dai primi giorni seguiti alla firma dell’armistizio e al crollo dell’8 settembre 1943 fino ai gloriosi momenti conclusivi della liberazione delle nostre città e della nostra terra. Ed essa non può perciò appartenere solo a una parte della nazione, ma deve porsi al centro di uno sforzo volto a «ricomporre, in spirito di verità» - come dissi nel mio primo messaggio al Parlamento - «la storia della nostra Repubblica». Dobbiamo giungere sempre più decisamente a questa condivisione, a questo comune sentire storico. E credo che in tal senso si siano compiuti nel corso degli anni - da una celebrazione all’altra del 25 aprile - importanti passi avanti (...).
Ho un anno fa celebrato il 25 aprile a Cefalonia, per rendere commosso omaggio all’eroismo e al martirio delle migliaia di militari italiani, che in quell’isola greca trasformata in roccaforte, scelsero di battersi in spirito di fedeltà alla patria italiana, caddero in combattimento, furono barbaramente trucidati dopo la sconfitta e la resa - soldati, ufficiali, generale Comandante - o portati alla morte in mare, o deportati in Germania. E ho attribuito un significato speciale al ricordo di quella tragedia, successiva all’8 settembre 1943, che resta la più terribile espressione della rabbia e della ferocia nazista dinanzi alla volontà di riscatto nazionale degli italiani costretti a una innaturale e servile alleanza. Un significato speciale, dicevo, nel senso dell’impegno a cogliere e porre in primo piano una componente della Resistenza che fino a tempi recenti non è stata abbastanza valorizzata. Parlo del contributo dei militari.
Sappiamo tutti quale apporto essenziale venne dalle formazioni partigiane, nelle montagne e nelle città, e da molteplici forme di solidarietà popolare, che si espresse tra l’altro nell’appoggio spontaneo ai giovani che si rifiutavano di subire la chiamata alle armi con la repubblica di Salò, agli ebrei che cercavano di sfuggire a un destino di morte, e anche a molti militari alleati fuggiti dai campi di prigionia che spesso si univano alle unità dei combattenti della libertà.
Ma molto importante fu il concorso dei militari, chiamati a repentine, durissime prove all’indomani dell’armistizio, degli ufficiali e dei soldati che si unirono ai partigiani rafforzandone la capacità di combattimento e infine delle nuove forze armate che si raccolsero nel Corpo Italiano di Liberazione. E grande significato ebbe anche la resistenza di centinaia di migliaia di militari italiani internati in Germania nei campi di concentramento, che respinsero, in schiacciante maggioranza, l’invito a tornare in Italia aderendo al regime repubblichino. (...)
Le ragioni, le molle della ribellione e della lotta di tanti nostri militari vanno ricercate senza retorica, se non in una coscienza politica già pienamente maturata, piuttosto nel senso dell’onore e della dignità nazionale e personale, e in un impulso di solidarietà umana e di corpo tra gli appartenenti a reparti militari sottoposti a dure prove comuni.
Più in generale, ci fu solo nel tempo una saldatura tra i giovani e i giovanissimi che ingrossarono le fila della Resistenza e il patrimonio ideale e politico degli uomini dell’antifascismo.
Fu decisiva, e abbracciò tutti, la riscoperta, la riconquista di un senso sicuro della patria. La descrisse così una scrittrice sensibile come Natalia Ginzburg: «Le parole patria e Italia ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. Eravamo lì per difendere la patria, le strade e le piazze delle nostre città, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava».
In quella guerra patriottica, e nella difesa dell’Italia anche nelle sue strutture materiali e nelle sue possibilità di futuro, si univano naturalmente partigiani e militari fedeli ai loro doveri nazionali. (...)
Non c’è bisogno di ricordare come la sera del 25 aprile 1945, a conclusione dell’incontro svoltosi sotto gli auspici del Cardinale Arcivescovo e nella sua ospitale abitazione, il generale Meinhold avesse firmato la resa tedesca nelle mani dei rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto da Remo Scappini. Fu quello un fatto senza eguali, che rimane un grande segno di distinzione e di onore per la Resistenza genovese. «Per la prima volta nella storia di questa guerra» - si lesse nell’appello del CNL per la Liguria - «un corpo d’esercito si è arreso dinanzi a un popolo». Parole restate sempre care, come ci hanno infine detto anche le sue Memorie, a un protagonista dell’insurrezione di Genova, Paolo Emilio Taviani (...).
Tuttavia, anche dopo la firma della resa da parte del generale Meinhold, permaneva il rischio del piano di distruzione dei porti di Genova, Trieste e Fiume, il cosiddetto "piano Z" da tempo predisposto dai Comandi tedeschi. Poi, anche l’ufficiale nazista più determinato a far saltare il porto di Genova fu costretto ad arrendersi ai partigiani. Quel che mi preme mettere in luce è l’impegno (...) dei rappresentanti della Marina militare italiana presso l’organizzazione partigiana, il più importante dei quali, il capitano di fregata Kulczycki già comandante in seconda a bordo della corazzata Cavour, aveva dato vita a un organismo, il Vai, che riuniva tutte le forze patriottiche a carattere militare e apolitico, cadendo poi, a Genova, nella mani delle SS e venendo fucilato nel campo di Fossoli. Il nome di questi nostri eroici militari è segnato nell’Albo d’oro della Resistenza. (...).
Questi sono fatti, non retorica, non mito. Vedete, c’è stato in tempi recenti un gran parlare dell’esigenza di "smitizzare" la Resistenza. Ora, è giusto - proprio per rendere più credibile la valorizzazione della Resistenza - non tacere i suoi limiti, sia o no accettabile che la si presenti come realtà ed esperienza "minoritaria"; ma bisogna ben distinguere quel che è cresciuto come "mito" sulla base di un’analisi oggettiva, al di là della grande onda emotiva della liberazione, e quello che è stato tutt’altro. E a questo proposito vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta "Resistenza tradita", che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza. All’inizio dello scorso decennio, è apparso un saggio storico di non comune impegno e profondità, dovuto a Claudio Pavone, nel quale si sono messi in evidenza i diversi volti della Resistenza, e in particolare, accanto a quello di una guerra patriottica, quello di una "guerra civile". Tale profilo è stato a lungo negato, o considerato con ostilità e reticenza, da parte delle correnti antifasciste. Ma se ne può dare - Pavone lo ha dimostrato - un’analisi ponderata, che non significhi in alcun modo "confondere le due parti in lotta, appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione". E questo vale anche per i fenomeni di violenza che caratterizzarono in tutto il suo corso la guerra anti-partigiana e da cui non fu indenne la Resistenza, specie alla vigilia e all’indomani della Liberazione. Le ombre della Resistenza non vanno occultate, ma guai a indulgere a false equiparazioni e banali generalizzazioni; anche se a nessun caduto, e ai famigliari che ne hanno sofferto la perdita, si può negare sul piano umano un rispetto maturato col tempo. Insomma, è possibile e necessario raccontare la Resistenza, coltivarne la storia, senza sottacere nulla, "smitizzare" quel che c’è da "smitizzare" ma tenendo fermo un limite invalicabile rispetto a qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione di quel moto di riscossa e riscatto nazionale cui dobbiamo la riconquista anche per forza nostra dell’indipendenza, dignità e libertà della Nazione italiana.
E a cui dobbiamo anche il contesto di rispetto della nostra sovranità entro il quale fu elaborata la Costituzione repubblicana. Si guardi alla sorte che toccò ai due paesi che rimasero fino alla sconfitta totale coinvolti nella guerra voluta da Hitler, nell’alleanza guidata dalla Germania nazista. Il percorso di definizione di nuovi assetti istituzionali e costituzionali in Germania fu pesantemente condizionato dalla divisione del paese in due zone di occupazione e di influenza. Quel percorso fu affidato, nella zona occidentale, dai governatori militari delle potenze occupanti ai governi dei Länder, e la nuova "Legge fondamentale" fu approvata da un ristretto e provvisorio Consiglio Parlamentare solo nel maggio del 1949. In Giappone, la revisione costituzionale ebbe per base un progetto ispirato dal generale americano MacArthur (...).
In Italia, il progetto di nuova Costituzione democratica venne invece elaborato dall’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale, fu discusso in piena libertà e autonomia di pensiero e approvato a stragrande maggioranza il 22 dicembre 1947. È difficile immaginare quale sarebbe stato il percorso, se l’Italia non avesse trovato in sé la forza per affrancarsi dall’alleanza con la Germania nazista e per prendere il suo posto, grazie al contributo delle sue nuove Forze Armate e della Resistenza, come co-belligerante nell’alleanza antifascista accanto alle formazioni occidentali che combatterono duramente per liberare il nostro paese.
Le idealità e le aspirazioni dei nostri combattenti per la libertà poterono così tradursi in un essenziale quadro di riferimento per l’elaborazione della Carta costituzionale nell’Italia divenuta Repubblica per volontà di popolo.
Quelle aspirazioni appaiono pienamente recepite nella limpida sintesi dei "Principi fondamentali" della Costituzione repubblicana e nell’insieme dei suoi indirizzi e precetti. Ricordiamo i primi dodici articoli della Carta. Diritti inviolabili dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà; uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ; diritto al lavoro; unità e indivisibilità della Repubblica; ripudio della guerra e impegno a promuovere e favorire le organizzazioni internazionali che mirano ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni - ebbene, non è precisamente questa l’Italia libera, più giusta, aperta al mondo, che i combattenti per la Resistenza sognavano? Sì, possiamo con buoni motivi dire che il messaggio, l’eredità spirituale e morale della Resistenza, vive nella Costituzione : in quella Costituzione in cui possono ben riconoscersi anche quanti vissero diversamente gli anni 1943-45, quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi acquisiti. La Carta costituzionale - di cui stiamo celebrando il sessantesimo anniversario - costituisce infatti la base del nostro vivere comune e della nostra rinnovata identità nazionale. «Nessuna delle forze politiche oggi in campo - desidero ribadire quel che ho detto dinanzi al Parlamento - può rivendicarne in esclusiva l’eredità». È un patrimonio che appartiene a tutti e vincola tutti.
Naturalmente, la Costituzione poteva solo offrire la trama della nuova Italia sperata e invocata a mano a mano che progrediva la guerra di Liberazione, e all’indomani della sua conclusione. Non ne nascevano già definiti nella loro concretezza la società e lo Stato corrispondenti al dettato costituzionale. Dare attuazione a quei principi ha richiesto e richiede un impegno civile, culturale e politico, che non si dà una volta per tutte, che va sempre rinnovato e fatto rivivere, con l’apporto essenziale delle nuove generazioni. Impegno ed apporto, che possono essere sollecitati dal sempre più significativo collocarsi della nostra Carta e del nostro patrimonio costituzionale nel grande quadro del processo di costruzione dell’Europa unita. Contano nella nostra Carta - a sessant’anni dalla sua entrata in vigore - non solo i principi, i diritti e i doveri, ma le istituzioni. Queste sono certamente perfettibili e riformabili rispetto al disegno che ne fu definito nel 1946-47, ma esse costituiscono, nell’essenziale, pilastri insostituibili dello Stato di diritto e della democrazia repubblicana: il Parlamento, in cui si esprime la sovranità popolare; le Regioni e gli enti locali; la magistratura come ordine autonomo e indipendente; gli istituti di garanzia costituzionale. Alla vitalità di queste istituzioni è ugualmente affidato il retaggio della Resistenza (...). In questo spirito celebriamo oggi congiuntamente l’anniversario del 25 aprile e quello della Costituzione e delle istituzioni repubblicane, cui va il rispetto non formale ma effettivo e coerente degli italiani di ogni parte politica per garantire un degno avvenire democratico al nostro Paese.

l'Unità 26.4.08
Le piazze d’Italia: non si riscrive la storia
A Milano e in tante altre città grandi cortei: «La Liberazione? Noi diciamo: “non si tocca”»
di Oreste Pivetta


ERANO MIGLIAIA E MIGLIAIA A Milano, a Torino, a Roma e in tante altre strade d’Italia. Anche ad Alghero, dove il divieto del sindaco alla banda di suonare “Bella ciao”, perché sarebbe una canzone «di parte», ha prodotto il miracolo di un coro generale.
Bella giornata, anche se ci tocca l’ironia di un vecchio militante del Pci: «Quando si perde, si corre a manifestare più numerosi». Erano capitato nel 1994, prima vittoria di Berlusconi: sotto un diluvio sfilò un fiume di gente, sfilarono anche quelli della Lega. Ieri la Lega non c’era. Non si può dire quanto lo stato d’animo del suo popolo sia stato riassunto da un’uscita di Maroni. Citiamo una nota d’agenzia: «”È una giornata molto impegnativa che sto passando a tagliare il prato”. Così Roberto Maroni, futuro ministro nel governo di Silvio Berlusconi, parla della giornata che celebra la Liberazione». Rivolgiamo un quesito a Feltri, direttore di Libero: chi è più “bamba” tra uno dei centomila in piazza a Milano o a Roma e il futuro ministro?
Il corteo di Milano è sfilato per ore. Migliaia di persone, migliaia di bandiere: Pd in bianco, Pd in rosso, sindacati, Italia dei valori, verdi, Sinistra Arcobaleno, Rifondazione, l’Europa, la pace, collettivi, comitati. Una sinistra esiste, «senza rancore», al contrario di quanto annuncia il giornale della famiglia Berlusconi. Gli slogan contro Berlusconi sono stati rarissimi. Senza aggressività. Tipo: «Fischia Bossi, infuria Berlusconi, scarpe rotte eppur bisogna andar». Il manifesto più violento lo esponeva l’edicola di San Babila: la riproduzione gigante della copertina dell’Economist, quella che commentava la facciona ilare del “nostro”, con la scritta: «Mamma mia. Here we go again».
C’erano lo striscione dei “palestinesi d’Italia” e quello della Brigata ebraica, con il grande simbolo d’Israele, che ricordava i combattenti ebrei nella guerra di Liberazione. Non citava i morti ebrei nelle camere a gas dei nazisti e quelli, di passaggio, nei campi di prigionia italiani, da Fossoli alla Risiera di San Sabba, grazie alle nostre leggi razziali. Li ha ricordati Gianfranco Maris, presidente dell’Aned, l’associazione degli ex deportati. Ricordava dal palco che mentre Milano veniva liberata, in Germania si moriva: nelle camere a gas, sotto i colpi di fucili, di fame, di malattie, nelle marce forzate da un campo di sterminio all’altro. Questa era la realtà d’allora. I partigiani comunisti, socialisti, di Giustizia e libertà, cattolici, fecero il miracolo. Quello che in una lettera commossa raccontava il comandante Giorgio Bocca. Ancora dobbiamo ringraziarlo per il coraggio d’allora e per la memoria d’oggi.
Saranno stati cinquantamila a Milano, probabilmente di più. Un corteo disordinato, che assediava il centro, in fondo i rumorosi camion dei centri sociali, ma si facevano sentire anche quelli del Pd, con il loro camion. In testa c’erano le bandiere dell’Anpi con le medaglie d’oro e lo striscione dei partigiani tenuto da Nichi Vendola, da Paolo Ferrero, da Filippo Penati, da Barbara Pollastrini, da Armando Cossutta. Quelle vecchie (d’anni) bandiere sono state tanto applaudite. Di più ancora è stato applaudito il gonfalone dell’Anpi di Reggio Emilia: tra le medaglie il tricolore, ricamato si vedeva il bel volto di Alcide Cervi, il contadino che ebbe i sette figli trucidati dai nazifascisti. Un giorno Berlusconi disse che avrebbe voluto conoscerlo: ma si capiva che non sapeva neanche chi fosse e Alcide era morto quando Silvio era un palazzinaro alle prime armi, nel 1970. Sul palco parlava invece il nipote di Alcide Cervi, Adelmo: i fascisti gli portarono via il padre quando aveva due anni. Chissà se il solito Giornale pensava anche a lui oltre che ai giovani e ai vecchi della Brigata Ebraica, affidando alla raffinata penna di Giovanna Maglie, ex comunista, ex socialista, ora berlusconista, unica giornalista Rai ad avere qualche problema con le note spese, l’invocazione di una «celebrazione bipartisan», nel segno appunto «cancelliamo la storia e riscriviamola noi». Ma che cosa sia stato il fascismo lo sanno anche i sassi, la lotta di Liberazione ci restituì la libertà e la dignità. Come alla fine, dal palco, insisteva Tino Casali, presidente dell’Anpi.
Le note brutte di questa giornata milanese sono state i diciassette cartelloni issati dal centro sociale Gramigna con i ritratti degli imputati al processo sulle nuove Br e le scritte sui muri dell’Arcivescovado: «Operai morti. Porci padroni con voi regoleremo i conti», «Il capitalismo non si riforma, si abbatte». Giusto per ridar fiato ai vecchi fascisti e pure un’offesa al cardinal Tettamanzi, che i problemi dei lavoratori non ha mai trascurato.
A Milano non c’era la Moratti, presente due anni fa quando c’era da guadagnare foto e voti (anche in virtù dei fischi). Nessuno l’ha rimpianta. Lei è riuscita a dare un’altra pennellata al suo ritratto di mediocre e arrogante sindaco dei suoi amici e dei suoi e dei loro affari.

l'Unità 26.4.08

L’orgoglio di esserci: «Questo è un giorno di libertà»
Ragazzi in massa nella manifestazione milanese: «Se siamo in democrazia, lo dobbiamo a chi ha combattuto»
di Laura Matteucci


GRAZIE«Memoria e ringraziamento, questo è il 25 aprile. Perché se oggi viviamo in un paese libero e democratico è grazie a delle persone coraggiose che hanno
combattuto per noi tutti». Lia ha 25 anni e, mentre parla, la sua amica Anna annuisce. Concorda e sottoscrive ogni parola. Innanzitutto, in testa al corteo e sul palco, ci sono i partigiani di allora con i gonfaloni dell’Anpi, i reduci dai campi di sterminio nazista che quando passano è uno scroscio di applausi e qualcuno è visibilmente commosso. E poi, dietro, il serpentone di persone tra le vie del centro fino a piazza Duomo, migliaia sotto il sole estivo e l’ombra delle bandiere, a cantare «Bella ciao» in ogni versione disponibile. C’è chi è qui per «un senso di gratitudine» verso i padri della Repubblica, chi «in particolare per i miei figli», altri perchè «la democrazia non è un bene acquisito per sempre, e tutti devono fare la loro parte per difenderla», altri ancora «perchè io voglio stare in quell’alveo della Repubblica, dell’antifascismo, della Costituzione contrario agli autoritarismi», come Silvia. Che ci tiene a chiarirlo: «Questa è la festa di tutti perchè della democrazia beneficiano tutti».
Ci sono pezzi del popolo di sinistra, certo, che «vuole esserci - dice Nadia - come risposta all’esito del voto». Ma non è il ‘94, primo governo Berlusconi, un milione per le strade di Milano sotto il diluvio universale, non c’è la rabbia di allora, la voglia di rivalsa e nemmeno tanto di contarsi, Berlusconi è (quasi) sparito negli slogan e negli striscioni, così come il sindaco Moratti, che ha deciso di non partecipare, «e ha fatto malissimo, ma alla fine chissenefrega», come dice Simone, dall’età indecifrabile degli adolescenti. «Questa non è una manifestazione contro, è “per”. Soprattutto per i miei figli», dice Ugo.
E non c’è nemmeno più la paura che qualcuno dall’alto del governo ci porti via questo pezzo di storia, in un impeto revisionista peraltro esclusivo terreno di storici e storiografi. Il «riscriveremo i libri di storia» di dell’Utri, insomma, come minaccia ha un mordente fiacco fiacco. Anna, 26 anni, è la più serena: «Le classiche sparate senza senso, la storia non si può stravolgere». Che poi, in altri termini, è quanto dice anche Marco, che di anni ne ha qualcuno in più: «L’interpretazione storiografica è ormai consolidata. Nessun revisionismo potrà davvero stravolgere il senso della trasmissione della storia». Una ragazza che passa in piedi su un camion sembra fargli eco, mentre urla al megafono: «Tutti devono sapere che la Repubblica italiana si fonda sull’antifascismo».
Nando Dalla Chiesa, già parlamentare del Pd, fa un altro ragionamento: «Il rischio è di scivolare da memoria a storia, il problema è capire come si interiorizzano questi valori. La voglia di revisionismo l’abbiamo già sperimentata negli anni passati. Vorrà dire che anche da parte nostra aumentano i doveri». Pierfrancesco Maran, ventottenne consigliere comunale del Pd a Milano, la butta sul concreto: «È già tanto se a scuola si arriva a studiare la seconda guerra mondiale, in genere si fa a fine anno in fretta e a spanne. Di Resistenza, manco se parla. Questo sì, è allarmante. In generale, c’è un crollo dell’insegnamento dell’etica a scuola».
Silvia, due figlie appena uscite dalle medie, è realista: «Bisogna vedere se i testi revisionisti verrebbero poi adottati dagli insegnanti. Finchè ci sarà un insegnante critico, il problema non sarà mai troppo grave». Antonio aggiunge l’ingrediente famiglia: «Il testo costituisce un riferimento, l’insegnante un altro e la famiglia un altro ancora. La famiglia deve partecipare attivamente alla costruzione della memoria dei giovani».
Beppe la dice in un altro modo: «Oggi il pericolo è di perdere le nostre radici, i nostri cardini fondanti, democrazia e antifascismo. Bisogna anche sapere che nella storia c’è chi ha vinto e chi ha perso, e questo non si può cambiare».
Adesso, per esempio, Berlusconi ha vinto. Non è storia, certo, è solo cronaca. Ma chissà, forse verrà un giorno in cui si tenterà del revisionismo anche su di lui.

l'Unità 26.4.08
«Nessuno deve denigrare la Resistenza»
Napolitano a Genova: a quell’esperienza dobbiamo la libertà di tutti, non deve appartenere solo a una parte
di Vincenzo Vasile


STRAPPARE le pagine della Resistenza dai libri di storia, o sbianchettarli con «qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione» non è consentito, dice con voce ferma e chiara
Giorgio Napolitano a Genova, prima città italiana a portare sul suo gonfalone l’onore della firma della resa dei tedeschi non a un altro comando militare, ma ai partigiani. Perché - il presidente argomenta - esiste «un limite invalicabile» a qualsiasi opera di «smitizzazione»: il riconoscimento pieno del valore di «quel moto di riscossa e riscatto nazionale cui dobbiamo la riconquista anche per forza nostra dell’indipendenza, dignità e libertà della Nazione italiana».
Si è trattato - l’intento è stato preannunciato dallo stesso Napolitano - di una «celebrazione non rituale e non ripetitiva». All’uscita dal palazzo Ducale, nella piazza gremita e imbandierata con tricolori, insegne rosse e vessilli pacifisti arcobaleno, a chi gli chiederà se tale intervento sia da intendere rivolto a «qualcuno» (nel giorno in cui Berlusconi fa retromarcia rispetto alla campagna anti 25 aprile dei suoi giornali e alle affermazione di Dell’Utri, ma diserta le cerimonie ufficiali e riceve Ciarrapico), il capo dello Stato risponderà con una frase secca e perentoria: «Non ho motivo di rivolgermi a nessuno: la Resistenza vive nella Costituzione, che è di tutti gli italiani». Con una densa e analitica lezione di storia e con un conseguente appello al patriottismo costituzionale in difesa di quella Carta fondamentale che deriva dalla Resistenza ma che «appartiene a tutti e vincola tutti» e «delle istituzioni repubblicane, cui va il rispetto di ogni parte politica», il capo dello Stato ha replicato, dunque, senza evocarli direttamente, ai numerosi assalti alla memoria lanciati dalla destra italiana all’indirizzo simbolico della "straordinaria prova di riscatto civile e patriottico" che fu la Resistenza. Essi hanno, infatti, segnato e preceduto questo sessantatreesimo anniversario. E portano Napolitano a ribadire un suo puntiglioso ragionamento. Intanto, sui miti e sulle smitizzazioni: «Le ombre della Resistenza non vanno occultate, ma guai a indulgere a false equiparazioni e banali generalizzazioni; anche se a nessun caduto, e ai famigliari che ne hanno sofferto la perdita, si può negare sul piano umano un rispetto maturato col tempo». Insomma, è possibile e necessario raccontare la Resistenza, coltivarne la storia, senza sottacere nulla, «smitizzare» quel che c’è da «smitizzare» ma tenendo fermo un limite invalicabile rispetto a qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione.
E così è da ricordare che, per esempio, quanto grande sia stato il concorso dei militari, (come a Cefalonia, scelta l’anno scorso come sede della cerimonia presieduta da Napolitano), militari «chiamati a repentine, durissime prove all’indomani dell’armistizio, degli ufficiali e dei soldati che si unirono ai partigiani rafforzandone la capacità di combattimento e infine delle nuove forze armate che si raccolsero nel Corpo Italiano di Liberazione».
E in generale c’è da recuperare tutta la «complessità» dell’esperienza vissuta nel drammatico periodo in cui «l’Italia era tagliata in due», il concorso di diverse forze. La Resistenza e la Liberazione non possono perciò «appartenere solo a una parte della nazione». Ma occorre rinnovare lo sforzo volto a «ricomporre, in spirito di verità la storia della nostra Repubblica», come lo stesso presidente aveva detto davanti al Parlamento nel suo discorso di insediamento. «Dobbiamo giungere sempre più decisamente a questa condivisione, a questo comune sentire storico», oggi ripete Napolitano, distinguendo quel che è cresciuto come «mito sulla base di un’analisi oggettiva», e quello che è stato «tutt’altro». Più precisamente: per Napolitano «c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare «posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale». Parole che a Genova hanno una risonanza particolare, come sarà ricordato poco più tardi nell’incontro in forma privata del presidente con i familiari di Guido Rossa. E la Costituzione è l’approdo di questo ragionamento: Napolitano ne rilegge la «limpida sintesi» dei «principi fondamentali» e i primi dodici articoli. E conclude: «Possiamo con buoni motivi dire che il messaggio, l’eredità spirituale e morale della Resistenza, vive nella Costituzione: in quella Costituzione in cui possono ben riconoscersi anche quanti vissero diversamente gli anni 1943-45, quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi acquisiti. La Carta costituisce infatti la base del nostro vivere comune e della nostra rinnovata identità nazionale. “Nessuna delle forze politiche oggi in campo” - desidero ribadire quel che ho detto dinanzi al Parlamento - può rivendicarne in esclusiva l’eredità». È un patrimonio che appartiene a tutti e vincola tutti, ammonisce il presidente.

l'Unità 26.4.08
Spranghe, celtiche, assalti a gay e immigrati:
a Roma l’emergenza sicurezza sono i raid neofascisti
di Eduardo Di Blasi


La spedizione a Villa Ada
gli sfregi alla Resistenza
le «missioni» nelle
scuole e le molotov
contro i centri sociali

I dati sull’andamento della criminalità nella città di Roma ci dicono che dopo il Patto per la sicurezza siglato il 18 maggio del 2007 tra ministero degli Interni e Campidoglio sono diminuiti furti, estorsioni, incendi dolosi, omicidi volontari. E sono, di contro, aumentate le rapine in banca.
Quella che non è scemata, in questi ultimi mesi, è la violenza fascista, che, dall’assalto a Villa Ada della scorsa estate, al raid al circolo Mario Mieli della settimana appena chiusa, passando per la selvaggia notte della morte di Gabriele Sandri con le caserme del Flaminio date alle fiamme e il Coni assaltato, e l’assurda falange scagliata contro la bolla del Grande Fratello a Ponte Milvio, danno il polso di una situazione che non appare per nulla «sicura». A Roma c’è una destra che ha covato una mentalità squadrista. Che è entrata nelle scuole. E che è bene che la destra «democratica» tenga a giusta distanza, anche dal punto di vista che più parrebbe esserle a cuore: la sicurezza. Lo squadrismo è una violenza che nasce dall’ignoranza, certo. Giusto ieri la Lista Civica Rutelli citava un episodio accaduto al Liceo Scientifico Statale Nomentano di Montesacro. Una studentessa che interloquisce: «Gli esperimenti nazisti sugli ebrei non furono proprio orribili, perché portarono grandi progressi alla medicina mondiale». Quando poi dalle parole si passa ai fatti, può accadere quello che giusto ieri raccontava Vincenzo Vita: «A Vigna Clara è stata aggredita Daniela Poggi che stava facendo volantinaggio per il candidato del centrosinistra». Ma è a tenerle insieme, tutte queste cose, che si comprende come questa cappa di intolleranza sia un problema di sicurezza per tutti.
Mettendo in fila gli episodi, a volerne trovare un capo più prossimo a noi, si potrebbe iniziare dall’omicidio di Renato Biagetti. Fu ucciso il 27 agosto del 2006, a 26 anni, mentre usciva da un concerto organizzato da Rifondazione sulla spiaggia di Focene, poco fuori Roma. I due aggressori avevano tatuata sul corpo la propria adesione al fascismo. Oppure si potrebbe partire dalla «bravata» dell’ultimo dell’anno 2006. Quando, nell’aprirsi al 2007, viale Libia e viale Eritrea si ritrovarono coperte di scritte antisemite. Su sette saracinesche le scritte erano vergate con vernice gialla, il colore della stella di David appuntata agli ebrei nei campi di sterminio. Il 26 gennaio 2007 al liceo Newton è un sedicenne, colpevole di aver protestato di fronte ad un volantinaggio fascista ad essere aggredito da alcuni neofascisti che non frequentavano la scuola. È il segnale di una violenza che ha iniziato a trovare nelle scuole un addentellato nella società. Nell’aprile 2007 quattro molotov vengono lanciate contro il Cantiere Sociale Tiburtino. A maggio 2007 all’uscita di una discoteca gay, quattro ragazzi tra i 18 e i 22 anni riempiono di botte un giovane. Il 28 giugno 2007 è il giorno dell’assalto a Villa Ada. Una squadraccia armata di bastoni e coltelli attende la fine del concerto della Banda Bassotti per aggredire coloro che tornano a casa. Ci sono le telecamere dei carabinieri. L’inchiesta parte subito, e quando, quasi un anno dopo, è portata a termine, i pm Saviotti e Ionta tirano i fili: in 91 pagine che motivano 16 ordinanze di custodia cautelare, c’è un mondo che tiene insieme ultras (laziali e romanisti) e militanti di Forza Nuova. Personaggi che si sono tra loro collegati in altri episodi oscuri: dall’assalto alle caserme e al Coni nella notte della morte di Sandri (11 novembre, quando un pezzo di città fu messo a ferro e fuoco), alla trasferta a Bergamo per Lazio-Atalanta, (22 settembre), con spranghe, coltelli e machete, all’incendio di una baracca di rom, il 9 ottobre seguente. L’11 luglio 2007 a Casalbertone, poco dopo l’assalto a Villa Ada, si fronteggiano con mazze, catene e coltelli, esponenti di destra e ragazzi di un’occupazione abitativa. Il video della guerriglia urbana finisce su YouTube: ci sono 6 feriti, uno accoltellato all’inguine. Due giorni dopo, il 13 luglio viene data alle fiamme la corona d’alloro sulla lapide di Porta San Paolo, ricordo della Resistenza. Il 20 settembre una quarantina di individui assalta un campo nomadi in via Tiburtina con molotov, bastoni e coltelli. Il 2 novembre tre ragazzi gay sono aggrediti alla stazione Termini. Nello stesso giorno, siamo a cavallo dell’omicidio della signora Giovanna Reggiani, una decina di italiani aggredisce con bastoni e coltelli tre romeni a Torre Angela, ferendoli gravemente.
E siamo al 2008. Il 17 febbraio a Vigne Nuove due esponenti del Blocco studentesco, aggrediscono all’uscita di casa un compagno di 19 anni. Con un tirapugni gli procurano una ferita che occorre di diversi punti di sutura. Il 23 febbraio al Mamiani compaiono scritte con offese a Franca Rame, assieme a svastiche e simboli di Fiamma Tricolore (altre ne compariranno ad aprile). Il 25 febbraio una ventina di neofascisti con spranghe e coltelli entra in un pub in via degli Etruschi devastandolo. Il 7 aprile i neofascisti distruggono un gazebo della Sinistra Arcobaleno. Il 17, infine, al grido di Duce Duce, un manipolo di idioti si accanisce con divani, estintori e tavoli del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli. Ce ne sarebbe abbastanza per gridare all’allarme sicurezza. Certo poi sarebbe difficile chiedere a costoro il sostegno politico.

l'Unità 26.4.08
Sicurezza, a Firenze cittadini-sentinella e camerieri anti-sbronza
Fanno discutere le ultime due trovate «sponsorizzate» dall’assessore Cioni, quello dell’ordinanza anti lavavetri
di Tommaso Galgani


UNA RETE di seicento cittadini-sentinella che segnalano alla polizia municipale episodi di degrado e insicurezza. Un cameriere anti sbronza, meglio detto «assi-
stente alla clientela», nei locali del centro per vigilare contro gli abusi di alcol e allertare se necessario un medico o la polizia. Tutto questo a Firenze, mentre a Bologna, altra giunta rossa, il Pd propone al consiglio comunale di dotare i vigili di spray urticante (come già a Modena) e manganello.
In riva all’Arno niente ronde padane, e nemmeno presidi territoriali di studenti e pensionati come nella città degli Asinelli, ma hanno fatto discutere le ultime due trovate in materia di sicurezza. Anche perché in entrambe c’è lo zampino dell’assessore Graziano Cioni, quello dell’ordinanza anti lavavetri e dell’idea di modificare il regolamento della polizia municipale per far sparire i mendicanti sdraiati per strada.
In realtà a Firenze fino a quattro giorni fa nessuno sapeva che 600 cittadini sentinella dal 2003 osservano e segnalano ai vigili urbani questioni di insicurezza e degrado. Si tratta di parroci, commercianti, responsabili di mense, case del popolo o comitati reclutati all’epoca attraverso un progetto, “Marketing urbano”, gestito da un sociologo in collaborazione con i distaccamenti territoriali dei vigili urbani. Con questi le sentinelle hanno rapporti costanti, e sono migliaia le segnalazioni pervenute in cinque anni: si va dalle panchine rotte e i tombini rumorosi fino ai tappeti di profilattici usati davanti alle scuole, dai problemi dell’abusivismo a quelli del borseggio. «Questi cittadini non sono né spioni né fanno parte di una sorta di Gladio, ma rappresentano un gruppo di persone con alto senso civico che collaborano coi vigili urbani. Sono i nostri orecchi sul territorio, non vengono pagati e non rivelerò i loro nomi. Se un cittadino vuol diventare sentinella? Non ci sono liste, basta avere rapporti con la polizia municipale di quartiere», spiega Cioni. Che si premura di precisare: «Questo è un sistema democratico per contrastare il degrado e l’insicurezza urbana, non come le ronde che io considero un attacco allo stato di diritto». A Palazzo Vecchio, perplessità bipartisan una volta saputa l’esistenza della squadra di cittadini sentinella: Sinistra Democratica, Prc, Pdl e Udc hanno chiesto a Cioni di riferirne al più presto in consiglio comunale. Ma in tanto discutere di sicurezza, scioperano quelli che secondo il comune se ne dovrebbero occupare, ovvero proprio i vigili urbani. Che il 5, 7 e 9 maggio incroceranno le braccia (a turni alterni per un totale di sei ore) per protestare contro l’amministrazione e il comando. Motivo? Paradossalmente, questioni di sicurezza sul lavoro. La rsu ricorda che vari vigili in servizio recentemente sono stati picchiati da venditori abusivi e investiti da auto che sforavano la Ztl notturna in centro, e lamenta che Palazzo Vecchio continua ad ignorare le richieste sindacali di un alleggerimento delle competenze e di un rafforzamento dei mezzi.
Intanto, tre giorni fa, comune e prefettura, all’interno del piano di intervento contro l’abuso di alcol in città, hanno varato la figura del cameriere anti sbronza, del quale i locali affiliati a Confesercenti e Confcommercio si sono impegnati a dotarsi, a proprie spese. Non avrà lo status giuridico di uno steward da stadio: sarà solo un cameriere, provvisto di pettorina di riconoscimento, che dovrà vigilare sull’abuso di alcol tra i clienti. Ovviamente, con nessun potere d’intervento. Il suo compito starà nel supportare gente in evidente stato di ebbrezza, chiamando la forza pubblica, un taxi o un medico, oltre a fare da sponda per la polizia nel caso si stiano per verificare risse tra chi ha alzato troppo il gomito.
Dal prefetto di Firenze Andrea De Martino, disco verde su sentinelle e camerieri anti sbronza: «Ne condivido l’impostazione logica e aggiungo che, come prescrive anche la Costituzione, ogni cittadino dovrebbe collaborare con le forze dell’ordine qualora notasse episodi in cui sono minacciati i diritti individuali di una persona», ha spiegato.

l'Unità 26.4.08
Nero disarmato ucciso con 50 colpi, assolti agenti di New York
Proteste per la sentenza shock al processo per l’omicidio di Sean Bell. Il giovane di 23 anni freddato nel 2006, il giorno prima delle nozze
di Virginia Lori


Sentenza shock a New York: tre poliziotti sono stati assolti dall’accusa di avere ucciso un giovane nero disarmato, premendo 50 volte il dito sul grilletto. Dopo due mesi di processo, la Corte Suprema dello Stato di New York ha trovato i tre agenti, Michael Oliver, Gescard Isnora e Marc Cooper, non colpevoli di tutti i capi di accusa. Isnora e Cooper sono neri, Oliver è bianco. Sean Bell, che aveva 23 anni, era rimasto ucciso il 25 novembre 2006 mentre usciva con due amici dal Kalua Club, un locale di spogliarello di Queens, dove aveva trascorso la notte di addio al celibato. La sparatoria in stile Far West lo aveva investito in pieno: 31 proiettili lo avevano centrato al petto e alla gola. In aula c’erano i genitori e la fidanzata, accompagnati dall’attivista per i diritti civili Al Sharpton: «È stato un aborto di giustizia», ha detto Sharpton. Il padre del ragazzo ha chiesto un nuovo processo, stavolta a livello federale. «Non ci sono vincitori in un caso come questo. Il giudice doveva decidere in base alle prove presentate al processo», ha detto il sindaco Michael Bloomberg, convinto che non ci saranno disordini «perché rispetto a dieci anni fa la situazione è cambiata». Il caso Bell ha evocato a New York memorie di altri episodi di violenza eccessiva da parte della polizia: nel 1999 Amadou Diallo, un immigrante africano disarmato, venne crivellato da 41 colpi nell’androne di un palazzo del Bronx da agenti che avevano scambiato il suo portafogli per una pistola. Anche in quel caso i poliziotti furono assolti: il verdetto provocò proteste e centinaia di arresti. Tra i neri d’America l’assoluzione ha causato indignazione. Il reverendo Jesse Jackson, primo candidato afro-americano alla Casa Bianca, l’ha definita «una farsa». Fuori dall’aula qualche tafferuglio ha accolto il verdetto. Il sindacato dei poliziotti ha applaudito l’opinione del giudice Arthur Cooperson: «È la prova che la giustizia riesce a essere equanime», ha detto un portavoce. Il giudice aveva deliberato che le accuse contro i tre agenti non potevano essere provate oltre ogni ragionevole dubbio.
Al centro del processo era stata la questione se i detective avevano ragioni di credere che si trovavano in pericolo, quando hanno aperto il fuoco contro l’auto in cui Bell e i due amici, che avevano festeggiato con lui fino alle ore piccole, si era messa in moto sgommando fuori dallo strip club. Il Kalua Club era sotto sorveglianza della polizia per sospetto sfruttamento della prostituzione. L’agente Isnora, in borghese, si era infiltrato nel locale. Quando il futuro sposo e gli amici erano usciti ubriachi alle quattro del mattino, uno di loro avrebbe detto a un altro di tornare dentro a prendere un’arma. L’agente aveva seguito il gruppetto, ordinando loro di alzare le mani. I tre avevano fatto finta di niente e una volta in auto avevano tentato di scappare, urtando il poliziotto e poi, pochi secondi più tardi, un pulmino della polizia senza identificazione. A quel punto erano partiti i 50 colpi.

l'Unità 26.4.08
Il regista Kluge farà un’opera lunga
Confermato: Il Capitale diventerà un film
Bertolt Brecht aveva cercato di metterlo in versi, il regista Sergej Eisenstein aveva in progetto di portarlo sullo schermo, ma a realizzare l’impresa sarà adesso il regista tedesco Alexander Kluge.


Il vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 1969 con il film Artisti sotto la tenda del circo: perplessi ha annunciato dalle colonne del quotidiano della sinistra alternativa Tageszeitung (Taz) di voler tradurre in immagini la Bibbia del comunismo, i tre grossi volumi del Capitale di Karl Marx. Il regista, titolare della casa di produzione di film televisivi «Dctp», ha annunciato che a partecipare insieme a lui alla realizzazione del film della durata di 420 minuti saranno tre tra le personalità più in vista della cultura tedesca: il regista Tom Tykwer, autore di Lola corre; il poeta Durs Gruenbein e il filosofo Peter Sloterdijk. Kluge, che ha già scelto come titolo provvisorio della pellicola «Notizie dall’antichità ideologica», ha spiegato che il termine «antichità» è riferito al fatto che Marx appartiene ormai «ad un tempo lontano», anche se rimane immutabile come un corpo celeste, dunque punto di orientamento per la navigazione nel mondo moderno.
Questa sera Kluge riceverà dall’Accademia del cinema il Premio alla carriera «per meriti particolari a favore del cinema tedesco». Commentando la frase di Marx, secondo cui «la teoria diventa violenza materiale quando raggiunge le masse», il regista ha spiegato che l’affermazione ha oggi perso di valore, poiché, se c’è qualcosa che tocca le masse, «questo è il divertimento».

l'Unità 26.4.08
Una libertà negata
di Maurizio Mori


Più nessuno, oggi, contesta il diritto di esercizio dell’autonomia e dell’autodeterminazione in campo politico o sociale: le persone hanno il diritto di scegliersi il lavoro, di muoversi, ecc.). L’estensione di questo diritto al piano biologico è tuttavia ancora controverso. Alcuni obiettano che sia un passo eccessivo consentire alle persone di decidere anche per quanto concerne la vita fisica. Sarebbe un modo di favorire l’auto-degradazione, che anche quando è volontaria resta pur sempre una sorta di abbrutimento. Altri sottolineano che le persone sono incapaci di sopportare un fardello così grave come l’autodeterminazione sulla propria vita: la fragilità umana è tanto forte da far ritenere più opportuno che siano altri a decidere, ed in particolare i medici, che sono “esperti sulla natura della vita”.
Di qui i ritardi e gli intoppi al testamento biologico, che è invece uno strumento necessario per ampliare il consenso informato anche alle situazioni in cui l'interessato non è più in grado di darlo da sé esplicitamente. Ecco perché è uno strumento che amplia la libertà umana e si pone a garanzia della dignità della persona stessa, la quale può vedere rispettate le proprie volontà anche dopo aver perso la capacità di esprimersi. Le perplessità di chi ritiene che le persone non siano ancora “mature” per questo tipo di autonomia assomigliano a quelle di chi ritiene che il voto politico debba essere ristretto solo ai cittadini particolarmente competenti e non dato a tutti. Non avere il testamento biologico è come limitare gravemente l’esercizio della libertà personale: ogni ritardo in questo senso è colpevole.

l'Unità 26.4.08
Italia 2008: pazienti ancora senza voce
TESTAMENTO biologico. In Parlamento non è stato raggiunto neanche stavolta l’obiettivo della regolazione del diritto di ogni individuo a decidere sulle cure del futuro che lo riguardano


Il cammino legislativo sulla volontà del paziente deve ripartire al più presto

Nella legislatura che si è appena conclusa, come nella precedente, non è stato raggiunto l’obiettivo della regolazione, per via legislativa, degli strumenti per dare attuazione al diritto di ogni individuo a decidere autonomamente sulle cure, anche future, che lo riguardano. Eppure sembravano essercene tutti i presupposti. Innanzitutto, l’attenzione per il tema, trasversale alle diverse forze politiche. In secondo luogo, il condiviso richiamo al principio di volontarietà dei trattamenti sanitari affermato dall’art. 32 della Costituzione. In terzo luogo, l’avvertita necessità di contrastare l’accanimento terapeutico, dotando i medici di criteri per assumere decisioni cliniche rispettose dei malati non più capaci.
Se, nonostante le positive premesse, il percorso verso la legge si è affollato di ostacoli, è perché nel dibattito, fuori e dentro le sedi politico-istituzionali, si sono insinuati alcuni argomenti, fatti propri soprattutto dagli esponenti teo-dem e teo-con di maggioranza e opposizione, di cui va denunciato il carattere fuorviante e mistificatorio.
Con il testamento biologico passerebbe l’idea che la vita vissuta in una condizione di malattia, con perdita della capacità, sia meno degna di rispetto e, di conseguenza, l’idea che, nei confronti dei soggetti per i quali non si prospetta nessuna possibilità di recupero, sarebbe giustificato il disimpegno assistenziale. Ancora, si svuoterebbe la relazione medico-paziente della sua valenza fiduciaria, riducendo il medico a puro esecutore di prestazioni. Infine, si spianerebbe la strada all’eutanasia.
Ma, battersi per il testamento biologico e per una legge che tolga di mezzo i dubbi sul suo valore giuridico non significa affatto avvallare l’abbandono terapeutico, né umiliare la professionalità del medico, e nemmeno aggirare con un sotterfugio le resistenze che impediscono un chiaro confronto sull’eutanasia. Significa, piuttosto, prendere atto che, grazie alle tecniche di sostegno vitale, la medicina moderna crea, talora, situazioni (non volute e non sempre prevedibili) di sospensione tra la vita e la morte (lo stato vegetativo permanente ne è il caso più emblematico), nelle quali non vi è nulla di naturale, e, in presenza di questa realtà, significa profondere il massimo impegno perché i soggetti esposti al rischio dell’incapacità non siano privati del diritto alle cure, ma nemmeno del diritto di rifiutare i trattamenti, anche salvavita, quando la sopravvivenza legata alla loro prosecuzione risulti in contrasto - come si legge nella sentenza della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007 sul caso Englaro - con «l’idea stessa della dignità della persona» da loro espressa prima di cadere in stato d’incoscienza. Diversamente, sotto la mistificante copertura della difesa ad oltranza della vita, si legittimerà che siano altri a decidere, non importa se in contrasto con le convinzioni e i valori del soggetto della cui vita si tratta.
Riconoscere nella libertà individuale un valore che si deve avere il coraggio e la coerenza di tutelare sino alla fine della vita è la prima e fondamentale ragione per prendere, a favore del testamento biologico, una chiara posizione, che attendiamo dalle formazioni politiche che della valorizzazione della libertà hanno fatto la parola d’ordine dei loro programmi durante la campagna elettorale. V’è da auspicare che, nella nuova legislatura, maggioranza e opposizione possano condividere l’impegno politico per la disciplina di strumenti funzionali ad un’assistenza rispettosa delle scelte e dei valori delle persone sino alla fine della loro vita, così come l’impegno politico per la creazione di strutture sanitarie in grado di farsi adeguatamente carico delle esigenze di tutti i malati nella fase terminale delle loro malattie.
Facoltà di giurisprudenza Università di Milano - Bicocca
Vice Presidente della Consulta di Bioetica, Milano

l'Unità 26.4.08
Caricare di responsabilità il medico che ha di fronte un malato non più in grado di decidere è ingiusto oltre che sbagliato
Perché i medici hanno bisogno del testamento biologico
di Luciano Orsi


Se il paziente è ormai incosciente come si fa a rispettarne la volontà?
Ogni medico decide «in scienza e coscienza» ma questo non può bastare

Non passa giorno che da qualche parte non si sbandierino le grandi potenzialità terapeutiche della medicina. Tutti ormai sanno che l’attuale medicina dispone di molte “armi terapeutiche” che è tecnicamente possibile impiegare nelle fasi avanzate e terminali delle malattie inguaribili. Per converso quasi nessuno chiarisce che molto spesso la loro applicazione è controversa sia dal punto di vista clinico che etico. Infatti, soprattutto nel caso dei trattamenti di sostegno vitale (respirazione, idratazione e nutrizione artificiali, dialisi, ecc.) la correttezza clinica e la giustezza etica diminuiscono con l’aggravarsi della malattia e l’aumento degli oneri fisici e psichici imposti da tali trattamenti. Può il medico, di fronte ad un malato capace di intendere, volere e decidere, decidere da solo se tali trattamenti sono appropriati? La normativa giuridica, la deontologia e qualunque teoria etica rispondono senza esitazione con un secco “no”, poiché senza il consenso informato nessun trattamento, anche se clinicamente appropriato, è eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) lecito. Ma cosa succede se il malato perde la capacità di decidere per una demenza avanzata o un ictus grave? Senza un testamento biologico tutto il potere decisionale si concentra nelle mani del medico. Anche se il malato ha espresso in precedenza la volontà di non subire un trattamento, nessuno, neanche un parente stretto, può opporsi alla decisione de medico. La scelta finale dipende solo dall’orientamento del singolo medico che può ispirare la propria decisione ai pregressi desideri del malato o, all’opposto, ai suoi valori personali. Ma come si rapportano questi valori con le precedenti volontà di un malato che quasi sempre non ha mai visto prima o con cui non ha mai parlato di quali terapie praticare alla fine della vita?
Si dice, in modo rituale, che il medico decide in “scienza e coscienza”, ma tale supposta virtù che rapporti ha con i valori del malato, con le sue convinzioni morali, le sue ispirazioni spirituali? Come fa il medico a decidere “per il bene del malato” se non conosce qual è il giudizio del malato su ciò che è “bene per se stesso”? Cosa c’entra la “retta tradizione ippocratica della medicina” con le più intime convinzioni del malato, con la sua concezione di dignità, con la sua visione del mondo, con la sua concezione di qualità di vita, con il peso dei trattamenti che lui avrebbe giudicato sopportabile?
Non illudiamoci, non esiste, né mai esiterà, alcuna formula magica che permetta di calcolare se un determinato trattamento è proporzionato o se, invece, è un trattamento in eccesso. L’eccesso di un trattamento, impropriamente denominato “accanimento terapeutico”, non può essere fissato per decreto o normato in alcun modo da nessuna Autorità Morale, poiché dipende dal giudizio che i singoli soggetti assegnano ad alcuni elementi come le probabilità di successo di una terapia, il rapporto fra un presunto aumento della qualità e quantità di vita biologica ed i rischi connessi. Pertanto, una stessa terapia può essere eticamente appropriata per un individuo e sporporzionata per un altro individuo in base ad una diversa concezione della medicina, della qualità della vita, della malattia e della morte.
Se il medico italiano vuole davvero rispettare le volontà pregresse di un malato ormai mentalmente incapace non può che ispirarsi alle consolidate esperienze dei colleghi di tante nazioni in cui il testamento biologico è operante ed attivarsi per aiutare ogni suo assistito che lo desidera e/o che volge verso la fase finale delle malattie a pianificare in via anticipata i trattamenti. Questa è la sola strada per formulare delle direttive anticipate che orientino in modo eticamente legittimo le inevitabili decisioni terapeutiche che i medici dovranno prendere quando il malato non potrà più farlo in prima persona.Corriere della Sera 26.4.08

Berlusconi: «è l'ora della pacificazione nazionale»
«Capire i ragazzi di Salò». Polemiche sull'incontro con Ciarrapico. Bagnasco fischiato a Genova
Corriere della Sera 26.4.08
Giorgio Bocca: «E' opportunismo, come Violante. Per questo contestai anche Pertini»
di Paolo Conti


ROMA — Ha letto le dichiarazioni di Berlusconi sul 25 aprile e i ragazzi di Salò, Giorgio Bocca?
«Non fingiamo di credere che si tratti di un genuino desiderio di ottenere una vera unità nazionale sulla Liberazione. La prova? Dell'Utri che vuole riscrivere i libri di storia»
Allora di che si tratta?
«Pura convenienza politica. Berlusconi ha sdoganato i fascisti portandoli al governo. Fini presiederà la Camera, così pare. E quindi deve giustificarli, questi fascisti, a pieno titolo»
Però il Cavaliere evoca Luciano Violante che, insediandosi alla presidenza della Camera il 10 maggio 1996, chiese di «riflettere sui vinti di ieri» e sulle ragioni di chi si schierò con la Repubblica di Salò.
«Un altro episodio di chiarissimo, evidente opportunismo. Era arrivato alla presidenza di Montecitorio e allora...Mi ricordò De Gasperi che per vincere il referendum istituzionale quasi usò i fascisti contro la monarchia. Siamo alla solita storia. Per opportunismo politico c'è chi viene meno alle ragioni di intransigenza che costituiscono i fondamenti morali di una democrazia. Se non sei più intransigente con chi fino all'ultimo si alleò con i nazisti che sterminarono milioni di ebrei nelle camere a gas... ecco, mi chiedo, con chi sarai in futuro intransigente? E chiedo ancora: quali ragioni di questa gente si devono ancora capire?»
Lei contestò Violante, in quel momento.
«Certo che lo contestai. Lo feci anche con Sandro Pertini quando a non so quale cerimonia si fece salutare da ex fascisti col pugnale alzato. Gli scrissi: "Caro Sandro, sarai anche il presidente di tutti gli italiani. Ma qui sbagli"».
Berlusconi comunque propone un 25 aprile di tutti.
«Scopre l'acqua calda. I primi a provarci furono a Milano Paolo Grassi e Giorgio Strehler il 25 aprile 1945. Organizzarono una festa simile al 14 luglio francese. Ma i fascisti non accettarono. Infatti poco dopo fondarono il Msi: una fiamma che usciva dalla tomba di Mussolini. E qui torniamo all'oggi. Pensiamo a Roma. Berlusconi ha scelto un candidato sindaco che si chiama Gianni Alemanno. Valentino Parlato ha una bella definizione: un fascista al cento per cento. Per di più genero di Pino Rauti, capo di veri terroristi fascisti ».
Allora, per citare le sue parole, possiamo dire che Giorgio Bocca è l'ultimo dei veri intransigenti...
«I miei nemici mi chiamano "l'uomo di Cuneo" per darmi del tetragono testardo conservatore dell'intransigenza partigiana. Mi sta benone. Era il fondamento di "Giustizia e libertà"».

Corriere della Sera 26.4.08
I dubbi sulla ricostruzione ufficiale partiti da un'email diffusa da un esponente del Pd
Sospetti e veleni sullo stupro di Roma
L'ex sindaco: troppe stranezze. La replica: ipotesi assurde
di Fiorenza Sarzanini


La Storta I carabinieri sul luogo dello stupro della studentessa originaria del Lesotho. In evidenza l'identikit del romeno Joan Rus

ROMA — Se ne è parlato riservatamente per giorni tra salotti, comitati elettorali e redazioni dei giornali. E ieri i presunti retroscena dello stupro della giovane studentessa africana avvenuto la scorsa settimana a La Storta — periferia nord di Roma — sono diventati materia di scontro tra i candidati a sindaco della capitale. Ha iniziato Rutelli: «Alcune di queste vicende degli ultimi giorni sono state anche un po' sospette. Ma non tocca a me parlarne, indagheranno le forze dell'ordine, indagherà la magistratura ». Immediata la replica di Alemanno: «Si è toccato il fondo. Sono preoccupato di come Rutelli sta affrontando quest'ultimo scorcio di campagna elettorale». Poi ha rivelato: «Si lascia intendere chissà che cosa intorno allo stupro della studentessa del Lesotho nei pressi della stazione La Storta. È una cosa talmente fantascientifica che non so se fa più ridere o piangere. Come si fa a strumentalizzare il dolore? Sottacqua dicono che è stata la destra a organizzare lo stupro della studentessa del Lesotho. Sono dei cialtroni e vanno rimandati a casa».
A mettere in pubblico alcune «stranezze» dello stupro alla Storta era stato, mercoledì scorso, il sito internet Dagospia, pubblicando una lettera siglata MD che ricalca una e-mail fatta circolare dall'ex assessore della giunta Veltroni, oggi consigliere regionale del Pd, Mario Di Carlo. «Ricevo e giro», avvertiva il politico per dire che non è lui la fonte primaria dell'informazione. Nel messaggio ci si chiedeva come fosse possibile che un rumeno senza fissa dimora nominasse un avvocato del calibro di Marcello Pettinari, «famoso penalista difensore del magistrato Metta indagato nell'ambito del processo Lodo Mondadori che vedeva indagati Berlusconi, Pacifico, Previti e Squillante». E faceva notare che Pettinari ebbe in gioventù un passato missino, mentre uno dei soccorritori della ragazza di colore violentata, «guarda caso, firma con Alemanno con tanto di foto sul Messaggero del 22 aprile 2008 il patto per la legalità e la sicurezza». Conclusione della lettera: «Agatha Christie faceva dire a Poirot che quando ci sono tre coincidenze diventano un indizio».
In questo caso l'indizio sarebbe quello di un concentrato un po' sospetto di uomini di destra intorno alla vicenda. Al quale il Secolo d'Italia ha replicato ieri mattina con un articolo intitolato «Rutelliani disperati: il rumeno? Assoldato dal Pdl». E la nomina di Pettinari, che non ricorda di essere stato missino e oggi si autodefinisce «liberale convinto», era stata spiegata dall'interessato al Riformista (che aveva ripreso Dagospia) in questi termini: il rumeno aveva in tasca un biglietto da visita di un avvocato suo amico, Cesare Sansoni, risalente a un trasloco di un paio di anni fa; chiamò lui, che però è un civilista e quindi ha passato il caso al figlio Antonio e a suo zio, Marcello Pettinari.
Sempre ieri l'agenzia Ansa ha diffuso un'altra notizia che alimenterebbe l'indizio nato dalle coincidenze riassunto nella e-mail: una donna rumena «che lavora in un negozio di generi alimentari sulla via Cassia », dunque vicino alla Storta, avrebbe testimoniato in un interrogatorio svoltosi nei giorni scorsi in Procura, che «nella comunità rumena della capitale sarebbero circolate voci secondo le quali Joan Rus, l'uomo accusato di aver violentato la studentessa del Lesotho, potrebbe essere stato coinvolto in un gesto tendente a screditare la comunità stessa». La testimone avrebbe detto di aver «sentito queste voci tra i suoi connazionali », senza poter affermare se rispondessero alla realtà.
In Procura la notizia di questa testimonianza sul rumeno mandato a violentare una ragazza di colore non trova riscontro. Anzi, viene smentita. Confermata solo la deposizione del «salvatore» della vittima, Bruno Musci, ufficialmente secretata dagli inquirenti per evitare possibili «inquinamenti » derivanti da interviste sui giornali o in tv. Ma è una deposizione durata ben quattro ore, e di solito su un verbale si mette il segreto quando emergono novità che vanno verificate. Per esempio tempi e modalità con cui lo stesso Musci e il suo amico Massimo Crepas hanno dato l'allarme ai carabinieri. La donna avrebbe anche detto che pochi giorni prima dell'aggressione la moglie del violentatore era tornata in Romania. Per il marito, che i connazionali conoscerebbero come un tipo «violento e aggressivo », i difensori hanno chiesto la perizia psichiatrica.

«Dipenderà dal risultato di Roma se al Loft verrà siglata una tregua o se si andrà a uno scontro che rischia di lacerare il Pd»
Corriere della Sera 26.4.08
E Bersani non si ritira per salvare la ditta
Il risultato di Roma decisivo per le scelte del Loft
di Francesco Verderami


La sfida per la carica di capogruppo potrebbe trasformarsi nel primo, vero atto fondativo del partito

E' pronto a candidarsi a capogruppo del Pd, ma a sentir parlare di cordate in suo sostegno, Pierluigi Bersani si ribella: «Le cordate lasciamole ad Alitalia».
Dipenderà dal risultato di Roma se al Loft verrà siglata una tregua o se si andrà a uno scontro che rischia di lacerare il Pd. Ma per quanto possa apparire paradossale la sfida per la carica di capogruppo potrebbe trasformarsi nel primo, vero atto fondativo del partito. Perché la frattura che emerge nell'area postdiessina consentirebbe finalmente al gruppo dirigente democratico di mescolarsi davvero, e in modo definitivo. All'atto di scegliere il leader del Pd, infatti, solo gli ex popolari si divisero, mentre nessun esponente del Botteghino si candidò in contrapposizione a Walter Veltroni. Proprio Bersani si ritirò dalla corsa, spiegando che lo faceva «nell'interesse della ditta».
Ora il ministro uscente, in attesa di decidere, adotta un linguaggio nuovo nei suoi conversari riservati, dice che «bisogna pur discutere sulle scelte» e che «non avrebbe senso farne una questione di persone o di cordate. Cerchiamo piuttosto di affrontare i problemi politici e di risolverli ». La battaglia per il Campidoglio sarà lo spartiacque, ma la fine dell'unità del blocco postcomunista è evidente: per un Bersani che medita di scendere in campo alla Camera, c'è un Piero Fassino anche lui pronto a entrare in competizione e una Anna Finocchiaro che non intende far passi indietro per il Senato, sapendo che la sua elezione impedirebbe quella di un «compagno» nell'altro ramo del Parlamento. È vero che per il ruolo di capogruppo ci fu una sfida nella Quercia tra Luciano Violante e Fabio Mussi. Ma stavolta la corsa avverrebbe nel Pd, dove ogni potenziale candidato ha intessuto relazioni con i pezzi di partito provenienti dai Dl: c'è l'area di Dario Franceschini, quella di Beppe Fioroni, quella di Enrico Letta... Ecco la miscellanea.
Un dato comunque è certo: il cemento che l'anno scorso tenne uniti i Ds nel passaggio delle primarie, non regge più. E nei Democratici c'è chi considera l'evento un fatto positivo, perché — come spiega Marco Follini, in corsa per la presidenza del gruppo al Senato — «al Pd servono due cose: la prima è che ognuno di noi dimentichi la propria vita politica precedente, la seconda è che emerga da questo passaggio una nuova classe dirigente». Il rischio da evitare dunque è che «questo passaggio » si riveli come l'ennesimo capitolo dello scontro tra Veltroni e Massimo D'Alema, che punta su Bersani, e che nei colloqui con gli altri maggiorenti ha detto espressamente come la pensa sulla conta per i capigruppo: «In tutti i partiti dell'Occidente si vota. Possibile che solo nel nostro non si debba farlo?». Nel fronte veltroniano queste mosse sono interpretate come un tentativo di mettere sotto tutela il segretario, che vorrebbe congelare gli assetti fino al congresso, compresi i vertici parlamentari con la Finocchiaro e Antonello Soro.
Veltroni potrebbe riuscirci se Rutelli vincesse a Roma. Le grandi manovre però sono già in corso. È vero che prudentemente Nicola Latorre ritiene «errato affrontare le questioni in fretta», però l'area dalemiana considera «giunta l'ora di attrezzarsi» per governare la fase di opposizione e che serva «un gruppo dirigente all'altezza del compito, non la proiezione astratta del nuovo». In questo quadro viene collocato il nodo dei capigruppo. Nel frattempo sorgono e tramontano nel giro di poche ore altre soluzioni, come il tandem Morando- Fioroni. Mentre a giorni alterni si accredita e si smentisce che Franco Marini sia candidato alla presidenza del Pd. «Non chiedo niente. Mica ho bisogno di un ruolo, io...» ha commentato spazientito al telefono l'ex presidente del Senato, di cui si racconta però un grande attivismo.
La partita dei capigruppo potrebbe essere cruenta ma potrebbe anche dare inizio alla vera mescolanza, che già s'intravvede nelle parole con cui Linda Lanzillotta parla del problema: «Penso che servano personalità in grado di fronteggiare in Parlamento il governo e ho molta stima di Bersani. Però non mi piace il modo in cui viene rappresentata l'immagine della Finocchiaro, una donna che è stata punto di riferimento importante al Senato nella scorsa legislatura e che con un atto di generosità ha affrontato la sfida siciliana, pagando a caro prezzo colpe non sue. Sarebbe ingiusto che la sua disponibilità venisse sanzionata con un giudizio negativo».
Se è vero che «in tutti i partiti dell'Occidente si vota», nel Pd sono però in molti — come Riccardo Villari — a chiedere che si discuta «con trasparenza ed equilibrio, senza timori. Serve anche per dare un segnale ai nuovi parlamentari. Basta quindi con dinamiche oscure e riti vecchi: vogliamo capire chi si candida e perché ». La riunione dei gruppi democratici è stata convocata per lunedì alle 13. Prima che si conosca il risultato della sfida per Roma.

Corriere della Sera 26.4.08
Autocritica in Cina. Per la prima volta, il vice-rettore della scuola centrale comunista ha rotto un tabù: «Nel nostro Paese commessi molti torti»
La svolta del partito: la rivoluzione culturale violò i diritti
di F. Cav.


PECHINO — E se crollasse il tabù della rivoluzione culturale? La Cina ha condannato la Banda dei Quattro guidata dall'ultima moglie di Mao, Jiang Qing, però non ha mai avviato una profonda rivisitazione di quel decennio maledetto durante il quale le Guardie rosse, all'inizio ispirate e appoggiate dallo stesso Grande Timoniere, lanciarono una lunghissima campagna di terrore. Anzi. Parlare di quella che lo stesso Deng Xiaoping definì una guerra civile è quasi un reato. Dopo di lui nessuno ha tentato di riguardare il passato e di affrontare una delle pagine più tragiche nella storia della Repubblica popolare. Una ferita che deve restare nascosta. O, forse, che doveva. Nei giorni scorsi, in una riunione dei quadri comunisti ha preso la parola il vice- rettore della scuola centrale del Partito, l'istituzione che forma i dirigenti dello Stato e della quale è stato a lungo responsabile Hu Jintao, prima di essere eletto segretario. Li Junru ha fatto alcune affermazioni che aprono una prospettiva nuova: «Lungo la strada dei diritti umani in Cina ci sono state molte complicazioni e torti. In particolare c'è stato un errore come la Rivoluzione culturale che ha violato su vasta scala, proprio, i diritti umani». Quello che appare un accenno veloce è in verità un'ammissione molto importante. Sia per la fonte. Sia per il contenuto. Negli ultimi anni il tema era rimasto sepolto e dimenticato. La ragione è politica: il regime non ha mai avuto il coraggio e la volontà di ridiscutere gli avvenimenti che precedettero la riforma. Non lo ha fatto per non travolgere in un processo di revisionismo critico il padre fondatore. Attaccare pubblicamente la Rivoluzione culturale, spiegare i drammi che l'hanno accompagnata fra il 1966 e il 1976, fino alla scomparsa di Mao, raccontare le violenze esercitate su chi era considerato un borghese o un intellettuale, ricordare le migliaia di delitti, di aggressioni, di spedizioni punitive contro chi era solo sospettato di essere un controrivoluzionario, rischiava di incrinare i pilastri del comunismo cinese e di innescare una «rilettura» pericolosa del maoismo.
Hanno provato scrittori. Hanno provato registi. Sempre la censura ha calato la sua mannaia. Romanzi e film con la Rivoluzione culturale come tema centrale non hanno mai avuto il via libera in Cina. Subivano tagli, gli autori erano costretti a ritoccare le sceneggiature. Adesso può cambiare qualcosa. Che a pronunciare quelle parole sugli errori della Rivoluzione culturale sia stato un dirigente del partito potrebbe essere l'inizio di un percorso importante. Il vice-rettore della scuola centrale comunista ha toccato «il tabù» prendendo spunto dalla necessità di formare una coscienza di governo impermeabile «alle deviazioni burocratiche, ai formalismi, alle corruzioni e alle violazioni dei diritti umani». Il potere pubblico, ha sostenuto, deve tutelare i diritti umani e non deve essere utilizzato per ferirli o cancellarli. Inevitabile il riferimento al decennio delle Guardie rosse. «Nessun Paese al mondo è immune da errori in tema di diritti umani, noi abbiamo commesso il nostro». Un messaggio chiaro. Riportato da un quotidiano di Pechino, Beijing News. Chissà che ora Zhang Yimou, il grande regista, non riesca a realizzare il suo sogno. L'ha sempre detto con un sorriso amaro: «Vorrei girare una pellicola sulla Rivoluzione culturale ». Aveva smesso di crederci. Ora può provarci.

Corriere della Sera 26.4.08
Le riflessioni di Piero Melograni sul «mussolinismo» Le tesi degli studiosi, da Arrigo Petacco a Paolo Simoncelli
Nella mente del dittatore
Vanesio e indeciso o freddo giocatore: storici a confronto
di Dario Fertilio


«Giocatore d'azzardo, se mai, fu Hitler con la sua idea di guerra lampo contro l'Urss», conclude Zaslavsky. «Ma se avesse seguito i consigli di von Clausewitz non avrebbe spedito i soldati nelle steppe sovietiche... ».

Che c'è, insomma, nella mente di un dittatore? Meglio: che cosa c'era in quella dell'uomo cui l'Italia, per amore o per forza, fu costretta ad affidarsi durante un ventennio? Incertezza, tendenza ad assecondare l'ultimo che gli parlava, indecisionismo a oltranza, bisogno quasi patologico di consenso: così descrive le caratteristiche psicologiche di Mussolini lo storico Piero Melograni, interprete e commentatore del materiale ora raccolto in dvd col titolo La storia del fascismo.
Un ritratto che sembra fatto per infiammare le discussioni. Tanto più che Piero Melograni, sabato scorso, ha lanciato la proposta di sostituire il termine «fascismo » con quello di «mussolinismo», a sottolineare la scarsa consistenza dell'ideologia e l'identificazione del regime con la personalità del capo.
Indeciso a tutto, succube della personalità luciferina del Führer, innamorato più del boato degli applausi che dello scopo da perseguire? È vero il contrario, secondo Arrigo Petacco. Il quale, se proprio lo si costringe ad avventurarsi sul terreno della psicologia, preferisce ricorrere all'immagine del giocatore d'azzardo. «La vita di Mussolini — afferma Petacco — è costellata di bluff. Con un'armata Brancaleone che un plotone di carabinieri sarebbe stato sufficiente a disperdere, riuscì a realizzare la marcia su Roma». Che però venne presa tremendamente sul serio. «... Ma non troppo — ricorda sempre Petacco — tanto è vero che lo squadrista Mino Maccari, fermato con la sua armata a Orte dove passò la notte nel timore che arrivassero i carabinieri, pronunciò la famosa frase "o Roma o Orte", dove Orte stava a indicare la stazione buona per tornare a casa».
A Orte, tuttavia, gli squadristi non ci tornarono e la mano di poker, quella volta, Mussolini la vinse alla grande... «E non fu l'unica. Nel '34 spedì due divisioni fantasma al Brennero e riuscì a spaventare Hitler, salvando l'indipendenza austriaca per altri quattro anni — anche se poi fatalmente Vienna avrebbe dovuto arrendersi all'Anschluss». E ancora dimostrò sangue freddo a Monaco, dove «riuscì a intimidire Chamberlain e Daladier, facendo il gioco di Hitler». Insomma, il Mussolini di Petacco, coerente con il profilo psicologico del giocatore, raddoppiava ogni volta la posta convincendosi d'essere invincibile, finché... «arrivò la guerra. Fu allora che, pensando come tutti che la Germania avrebbe vinto in fretta, e bastasse qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo dei vincitori, puntò sulla carta sbagliata ».
Un errore talmente catastrofico da generare poi l'immagine di una personalità indecisa e succube di Hitler. «E invece— afferma Petacco — giocatore d'azzardo era, e tale rimase. Coerentemente con il personaggio che incarnava, la faccia del Duce era minacciosa, ma lui in mano aveva il due di picche, e i piedi erano d'argilla ». Però nessuno se ne accorse e la sua personalità crebbe ancora: come si spiega? «Con la simpatia istintiva degli italiani per il "dritto" che alla fine la spunta. E anche perché, se lo confrontiamo con gli altri due dittatori, Mussolini risulta più simpatico. Non dimentichiamolo, lui è l'uomo che nel '35, quando il ministro degli Esteri dell'impero britannico Anthony Eden andò a trovarlo, lasciò aspettare l'azzimato ospite per mezz'ora, quindi lo ricevette per congedarlo con la frase celebre "mai visto un cretino vestito così bene". Che poi avesse visto giusto riguardo a Eden, lo si potè constatare molti anni più tardi, al momento della crisi di Suez».
Ma allora, fu indecisionista e narciso, questo Mussolini, oppure un duro e determinato
finisseur da poker col morto? Una via di mezzo fra i due personaggi, verrebbe da osservare ascoltando Paolo Simoncelli. Perché se le annotazioni psicologiche sul Duce lasciano sempre spazio a un po' di colore italico, come giudicare — ricorda Simoncelli — l'ambiente che lo circondava? «Il suo partito era filo- tedesco, il ministro degli esteri filo-inglese mentre il re, il più paradossale di tutti, anti-tedesco e contemporaneamente incapace di sopportare i francesi». Due scene, secondo Simoncelli, servono a evocare quell'atmosfera surreale; sono tratte dall'album dell'entrata in guerra, entrambe datate 10 giugno 1940, più o meno intorno «all'ora segnata dal destino » che batteva «nel cielo della patria». La prima: il giurista Piero Calamandrei, intellettuale di prima grandezza attento alle vicende politiche, annota nel suo diario perplesso: «L'entrata in guerra: perché? Contro chi?». La seconda si sintetizza invece in uno scambio di battute a Roma, in via Nazionale, fra il liceale fascista Carlo Mazzantini e suo zio Arnaldo Volpicelli, uno dei teorici, con Ugo Spirito, del corporativismo italiano. Chiede lo zio: che succede, che cos'è questa confusione? Hanno proclamato la guerra, risponde il nipote. E contro chi?, domanda interdetto Volpicelli... C'era insomma, non poca confusione intorno a Mussolini. «Giustificata del resto — ricorda Simoncelli — da certe decisioni precedenti, come la costruzione del Vallo alpino del Littorio che avrebbe dovuto proteggere l'Italia... dalla Germania».
Piero Melograni avvicina «mussolinismo » e «hitlerismo», giudicando quest'ultimo una forma diversa di leadership indecisionista, benché sostenuta da un'ideologia più robusta di quella italica. A questo proposito lo storico tedesco del nazismo, Lutz Klinkhammer, riconosce che in Germania «una certa vaghezza del Führer si abbinava alla cosiddetta "policrazia". Che consisteva — ricorda — in una gestione del potere come contenitore, utile a indicare gli obiettivi generali, ma di fatto permeabile alle iniziative dal basso, da parte di quelli che volevano realizzare quanto pensavano il Führer volesse ». E quali erano gli obiettivi generali cui tutto si doveva indirizzare? «Antisemitismo e ricerca del Lebensraum, lospazio vitale all'Est», chiarisce Klinkhammer. Fu una forma di policrazia, allora, anche quella di Mussolini? «No, perché temendo di perdere il controllo, il Duce bloccò tutte le iniziative e cominciò a spostare i gerarchi da un incarico all'altro. Sicché, a giudizio di Klinkhammer , lo stile di Mussolini fu più decisionista di quello hitleriano, e finì con l'impedire la "radicalizzazione competitiva" che in Germania faceva prevalere i peggiori. Ma ci fu il rovescio della medaglia: l'accumulo di poteri accelerò la fine di Mussolini.
E il terzo grande incomodo, cioè Stalin, tratteggiato anch'egli in maniera poco "decisionista" da Melograni? «Nonostante tutto, un perfetto esempio di dittatore totalitario — secondo lo storico russo Victor Zaslavsky — e una personalità inseparabile dalle tre idee base di partito unico, statalizzazione completa dell'economia e politica estera aggressiva. Principi che lo avvicinavano molto a Hitler, se si mette la teoria dello spazio vitale al posto di quella della rivoluzione socialista mondiale. Un po' meno a Mussolini, nonostante il suo culto per gli eroi, dal momento che in Italia la statalizzazione dell'economia non avvenne e il totalitarismo, secondo la definizione di studiosi come Juan Linz e Renzo De Felice, fu imperfetto ». E il ritratto psicologico? «Super-razionalista — dice Zaslavsky — e tuttavia sempre disposto a giocare su due tavoli: non per caso diventa il capo dello Stato più grande del mondo. A Secchia che gli proponeva «azioni attive» per affrettare la rivoluzione in Italia, rispose di preferire Togliatti alla guida del Pci, salvo poi tenersi lo stesso Secchia come soluzione di riserva». Le sue decisioni apparentemente contraddittorie, dunque, come «il mancato siluramento del capo dei servizi segreti militari Golikov, all'indomani dell'attacco a sorpresa di Hitler», a giudizio di Zaslavsky erano sempre passibili di una doppia interpretazione.

Repubblica 26.4.08
Germania. Sì dagli ebrei torna "Mein Kampf"


BERLINO - Il Consiglio centrale degli ebrei di Germania si è espresso ieri in favore di una ristampa del libro di Adolf Hitler "Mein Kampf", il manifesto dell´ideologia nazista. «Sono favorevole ad una riedizione, magari con l´aggiunta di commenti, e sulla diffusione via Internet», ha detto il presidente del Consiglio degli ebrei, Stephan Kramer. Il Consiglio si è detto disponibile a collaborare nella redazione dei commenti al libro e ad intercedere presso il governo della Baviera, titolare dei diritti d´autore del libro fino al 2015, per far autorizzare la pubblicazione. "Mein Kampf´", scritto da Hitler tra il ‘23 e il ‘24, è vietato in Germania dalla fine della II guerra mondiale.

Repubblica 26.4.08
Pianti e sorrisi come si mente fin da neonati
di Paola Coppola


In Gran Bretagna una psicologa dello sviluppo svela che i bimbi iniziano a ingannare molto prima dei 4 anni Lo fanno per attirare l´attenzione dei genitori, evitare i pericoli, essere premiati e accrescere l´intimità

Bugiardi non si nasce, ma si diventa poco dopo i primi vagiti. La dissimulazione prima di trasformarsi in un´arte, da adulti, è un istinto, un adattamento all´ambiente che i bambini sperimentano dai primi mesi di vita, quando sono ancora nella culla.
«Una forma di comunicazione» per Vasudevi Reddy, che all´argomento ha dedicato un libro "How infants know minds" appena pubblicato dalla Harvard University Press in cui descrive come e perché si finge in fasce.
A 8-9 mesi il bambino usa il pianto per attrarre l´attenzione della mamma o sorride perché intuisce che così avrà in cambio altri sorrisi. Cerca il consenso, vuole sedurre, attirare l´affetto e le simpatie di chi lo circonda. Anche se non ha compiuto un anno, sa essere sordo ai richiami dei genitori mentre gioca o, prima di imparare a parlare, simulare la più innocente delle espressioni per evitare un rimprovero.
La teoria della Reddy, che insegna Psicologia dello sviluppo all´Università di Porthsmouth (Gran Bretagna), riporta indietro il momento in cui si inizia a mentire. Modifica l´immagine del bimbo faccia d´angelo con il viso sporco di cioccolata che nega spudoratamente di aver mangiato i biscotti.
Dopo aver osservato decine di bambini tra le sette settimane e l´età prescolare, Reddy sostiene che «fin dalla nascita i bambini sviluppano relazioni emozionali con i genitori e che queste sono una sorta di carburante nel processo di crescita, che motiva l´azione, l´interazione e la comprensione».
La comunicazione ingannevole non verbale può servire diversi scopi: «Evitare pericoli, ricevere attenzione, essere premiati, salvare la faccia, evitare problemi, accrescere l´intimità emotiva con i genitori», chiarisce. Ha un ruolo anche nel processo di apprendimento perché «accresce nel bambino l´esperienza delle conseguenze delle proprie azioni».
Ad esempio, imparando a misurarsi con la reazione di sorpresa di mamma e papà davanti a una sua azione. Conclude Reddy: «L´idea che l´inganno sia un fenomeno che affonda le sue radici nell´infanzia sfida la convinzione che non può essere sviluppato fino a quattro anni e la tradizionale teoria della mente».
Recentemente diversi studi hanno rivalutato l´intelligenza dei bambini dai primi mesi di vita. «Sono empatici con gli altri: capiscono e si adeguano all´ambiente», dice Tilde Giani Gallino, docente di Psicologia dello sviluppo all´Università di Torino. «Già a un anno, comprendono le emozioni mostrate dagli adulti e rispondono con comportamenti adeguati». Ma, precisa, che ancora non si può parlare di vere e proprie bugie: «Si tratta di comportamenti che servono a raggiungere uno scopo e mostrano la capacità del bambino di sapersela cavare a seconda delle situazioni».
Le prime bugie compaiono più tardi, verso i due anni, quando si esprimono soprattutto attraverso gli atti. Nascondere un gioco sottratto a un compagno, un biscotto che la mamma ha vietato di mangiare. «In questa fase la bugia si esprime soprattutto attraverso la negazione», continua Giani Gallino. Poi crescendo, dopo i quattro anni, si articola con il linguaggio: ci sono quelle "per discolpa" che servono a evitare le punizioni e che dovrebbero sparire man mano che il bambino acquista quella fiducia nelle sue capacità che gli permette di ammettere l´errore. E ci sono le bugie "consolatorie": storie inventate che modulano la realtà secondo i propri desideri. Sono tipiche di quei bambini che si sentono infelici, trascurati, poco apprezzati o, al contrario, troppo perfetti.
Storie false come una prestazione eccellente durante una partita di calcio che invece non c´è mai stata, un viaggio mai fatto ma tanto desiderato con un genitore. «Le bugie consolatorie sono frequenti anche nei bambini troppo sicuri di sé che non sono disposti a dichiararsi perdenti», aggiunge Giani Gallino. «Talvolta la loro funzione è rivolta verso qualcun altro: il bambino mente per consolare un compagno oppure lo stesso genitore».

Repubblica 26.4.08
La rete dell'ambiguità
intervista / Esce un pamphlet dell'analista Simona Argentieri
I piccoli crimini della coscienza
di Luciana Sica


È un libro molto polemico su un tratto dominante della nostra epoca: l´inclinazione alla malafede come scorciatoia per eludere la verità
"Il funzionamento ambiguo è basato sull´autoinganno piuttosto che sulla menzogna"
"Il vantaggio è quello di evitare il conflitto, il senso di colpa, l´azzardo della scelta"

ROMA. Si può cominciare con la folgorante rapidità di Altan: «Cosa dice la tua coscienza? - Ne ho diverse: sono indeciso su quale mi conviene usare». O anche con la citazione di un analista serissimo ma non sprovvisto d´ironia come Roger Money-Kyrle: «Nasciamo con un amore innato per la verità, ma siamo pronti a liberarcene non appena ci sia di impaccio».
Sono queste le due frasette aforistiche riportate in esergo da Simona Argentieri per il suo pamphlet su L´ambiguità che esce in questi giorni nelle "Vele" di Einaudi (pagg. 124, euro 9): un librino polemico su un tratto dominante della nostra epoca che sembrerebbe rimandare sbrigativamente a quel celebre proverbio sul "predicare bene e razzolare male", se l´inclinazione alla malafede non procurasse invece danni piuttosto seri non solo al funzionamento mentale dei singoli individui ma alla stessa organizzazione dei gruppi, delle società. Con uno sguardo ampio e decisamente critico su certe derive "moderniste" dove il giudizio è rigorosamente sospeso su qualsiasi azione privata o pubblica, l´Argentieri esce dai recinti del suo sapere - la psicoanalisi - per assumere posizioni culturali molto nette, anche severe, tutt´altro che ambigue.
La questione fondamentale che sembra percorrere queste pagine - spesso indignate - è quella della responsabilità: verso se stessi e verso gli altri. È la capacità di valutare le conseguenze delle parole e delle azioni, senza cedere alle convenienze egoistiche o anche a certe dimensioni illusorie decisamente false, ingannevoli, per quanto così rassicuranti, consolatorie. È la fatica di coltivare la coerenza e il senso dell´equità, di pensare e di vivere con qualche rigore, senza diventare con colpevole superficialità dei puri modelli negativi: per i più giovani nelle famiglie, per gli allievi nelle scuole, per i dipendenti negli ambienti di lavoro - o anche per gli elettori, quando le responsabilità sono pubbliche.
Dottoressa Argentieri, alla lettura del suo pamphlet la malafede appare soprattutto come una scorciatoia per eludere la verità. Più che raccontare bugie, ci si imbroglia. Da psicoanalista, lei la definisce "una subdola modalità difensiva": può dire da cosa si ha bisogno di difendersi?
«L´aspirazione alla verità è inesorabilmente legata al conflitto: forze potenti, soprattutto inconsce, vi si oppongono per il motivo non banale che quasi sempre la verità è dolorosa. Se le grandi patologie "classiche" attaccano la verità - e dunque la realtà - con operazioni clamorose come il delirio, il diniego, la rimozione, oggi si delineano modalità nuove di venire a patti con la verità, com´è appunto la malafede basata sull´autoinganno piuttosto che sulla menzogna, ma non per questo meno malefica. Il vantaggio è ancora una volta quello di evitare il conflitto, il senso di colpa, il dubbio, l´azzardo della scelta».
Che genere di danno produce il meccanismo della malafede quando s´insinua nell´organizzazione psichica? Nel suo libro, lei elenca casi minimali, al confine tra la patologia e l´etica.
«Anche al confine della normalità. Ad esempio, scrivo di un paziente che si scaglia contro il malcostume del privilegio e dell´arbitrio nella sanità pubblica per poi dire con tutta tranquillità di come brigasse efficacemente per far scavalcare alla moglie lunghissime liste d´attesa... Sembra un peccato veniale, no? Eppure il funzionamento dell´ambiguità, per quanto applicato a uno specifico problema, poco alla volta tende a condizionare l´intera personalità. È un attacco all´identità, all´immagine di sé, all´autostima: quando il meccanismo della malafede si è insinuato nell´organizzazione psichica, il danno non rimane mai circoscritto, e neppure si possono prevedere quali altre aree della mente, quali circuiti affettivi o intellettivi ne risulteranno inibiti o alterati».
È facile invece prevedere la reiterazione di questi episodi che lei definisce "piccoli crimini della coscienza"?
«Una volta che si è instaurato, il funzionamento ambiguo tende a difendere se stesso, a riproporsi e perpetuarsi. Resiste con aggressività a ogni tentativo di smascherarlo perché diversamente dovrebbe fare i conti con l´ansia, lo smarrimento, la confusione. La regressione all´ambiguità implica una carenza di tutti i processi discriminatori. Nella persona con forti tratti ambigui possono alternarsi sulla scena della coscienza aspetti di sé incompatibili, eppure vissuti con sorprendente serenità, senza un particolare sentimento di disagio. Argomentazioni opposte e incongruenti coesistono nella mente con indifferenza: è un dissimulare lieve che elude tutto ciò che può rivelare la contraddizione e generare il senso di colpa».
L´ambiguità e la malafede si declinano naturalmente anche nella vita pubblica, e su più fronti: nel suo pamphlet lei accusa in modo particolare i finti paladini della morale - ad esempio, a proposito delle coppie di fatto. Cos´è che la indigna di più?
«La loro ipocrisia, mossa dal cinismo e dall´arroganza del potere. Trovo odiosi i casi di certi personaggi ai vertici dello Stato che nell´arena politica si atteggiano a campioni della Chiesa in difesa dei sacri valori, alzando muraglie contro qualsiasi ipotesi di cambiamento che si discosti dal più stucchevole e fasullo modello di famiglia, mentre nel loro privato si permettono ogni genere di trasgressioni. È evidente che si sentono al di sopra delle persone qualunque che sono chiamate a governare e per le quali propugnano limitazioni severissime e divieti assurdi».
Nella sua dimensione pubblica, l´ambiguità - lei scrive - viene alimentata anche dall´abuso del politically correct, dalla difesa a oltranza delle libertà, al punto che anche la pedofilia diventa paradossalmente una "preferenza" sessuale. L´assenza di ogni giudizio può costituire dunque un pericolo serio?
«Molto serio... Nel clima di violenza distratta e anaffettiva della nostra epoca, sembrano imporsi i due "opposti estremismi" del sessuofobico e del sessuofilico con il risultato di un´equivalenza allarmante: di volta in volta rischiamo di risultare tutti mostri o tutti normali. Il giudizio non può essere sostituito da una certa sufficienza annoiata: se la "neutralità" è prescritta nella cura psicoanalitica, è invece imperdonabile nella vita civile - in nome della tolleranza, spesso si stabiliscono assurde complicità con le peggiori ingiustizie. E invece, per dirla con Freud, "la verità non può essere tollerante, non ammette compromessi né limitazioni": senz´altro non è sempre consigliabile di venire a patti con il limite tra tollerabile e intollerabile, sia dentro che fuori di noi».
Non è possibile concludere quest´intervista senza accennare alla parte conclusiva del libro che contiene un attacco durissimo ai colleghi analisti e in particolare alle loro scuole di appartenenza. Vuole dire lei?
«Purtroppo neanche gli psicoanalisti sono al riparo dal rischio della malafede, sia come singoli terapeuti, sia come membri di istituzioni. La mia impressione è che si stia verificando una deriva strisciante, senza scandalo e senza passioni, sotto il velo compiacente dell´ambiguità. La proliferazione dei modelli ha aperto la strada a forme di confusione, di pseudotolleranza e di eclettismo scientifico: in scritti anche prestigiosi sono citati "a pari merito" gli autori più disparati, senza troppe preoccupazioni per la coerenza dei linguaggi. Si vuole sfuggire così al sospetto di ortodossia e di chiusura scolastica, ma rischiando di produrre un´invisibile babele a livello sia teorico che clinico...».
Anche clinico?
«A me preoccupa l´idea che il numero delle sedute, il ritmo, il contratto, che le regole del setting non siano importanti perché le varie questioni connesse alla tecnica terapeutica lo sono invece moltissimo: al centro c´è il problema della responsabilità verso l´altro».
Dottoressa Argentieri, a lei proprio non interessa sfuggire al sospetto di ortodossia?
«Non mi piace essere considerata ortodossa, ma sono un´analista "classica", questo sì... E penso che tutti corriamo il rischio di cadere nella rete dell´ambiguità».

Repubblica 26.4.08
Così fu rivoluzionata la genetica
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Ritratto di Joshua Lederberg, premio Nobel recentemente scomparso, autore di fondamentali ricerche
Era un ciclone intellettuale. Passò dall´immunologia all´intelligenza artificiale
Ebbe a 21 anni le prime intuizioni sugli scambi sessuali fra microrganismi

Quando Joshua Lederberg, un ricercatore che aveva appena compiuto 21 anni, annunciò di avere osservato nei batteri comportamenti che si potevano spiegare solo come scambi sessuali, la maggior parte degli scienziati presenti accolse la novità come una stupidaggine, un abbaglio se non una provocazione.
Si era nel 1946, a un simposio di genetica dei microrganismi a Cold Spring Harbor, vicino a New York. Nei loro interventi, alcuni dei massimi microbiologi del secolo scorso, da Luria a Delbrueck a Lwoff a Pontecorvo, avevano appena lamentato quale limite fosse per la ricerca che i batteri non avessero scambi sessuali. Lederberg si intrufolò dopo il discorso del suo professore Tatum, d´accordo con lui ma in violazione delle regole del simposio, e annunciò come le sue recentissime scoperte indicassero l´esatto contrario. Seguì una baraonda. I grandi nomi della genetica dei microrganismi non erano disposti a lasciarsi sbugiardare così da un giovanotto sbucato da dietro l´angolo. A quasi un secolo dalla scoperta dei batteri, si sapeva soltanto che i batteri si riproducono dividendosi in due e formando copie esatte di se stessi. Migliaia di scienziati avevano passato gran parte della vita a osservare batteri al microscopio, e nessuno ne aveva mai visto due accoppiarsi.
Non tutti risero dell´annuncio di Lederberg, che già nel 1947 costruiva e pubblicava la prima mappa cromosomica di un batterio, sulla scorta dei suoi esperimenti. Alcuni genetisti si resero conto che questa ipotesi, se vera, avrebbe aperto strade importantissime. Sir Ronald Fisher, direttore del Dipartimento di Genetica dell´Università di Cambridge in Inghilterra, stava lavorando per tracciare le mappe cromosomiche di organismi superiori, cioè per descriverne il genoma, a partire da quello dei topi. Chiamò a lavorare con sé un giovane ricercatore italiano, Luigi Cavalli-Sforza, chiedendogli di procurarsi i ceppi di batteri utilizzati da Lederberg e da sua moglie Esther e di ripetere i loro esperimenti per capire cosa c´era di vero. Lederberg, che ai tempi lavorava a Madison, in Wisconsin, inviò per posta a Cambridge le sue colture batteriche. Cavalli ripetè gli stessi esperimenti, confermò pienamente le osservazioni di Lederberg, li estese, ne inventò di nuovi.
Fra i tre ricercatori ebbe inizio una collaborazione strettissima, tutta epistolare, che proseguì per parecchi anni sulle due sponde dell´Atlantico: si videro in faccia per la prima volta solo sei anni dopo. Ne sarebbe nata una grande amicizia, destinata a durare una vita. Nei primi anni ´50, ai due Lederberg e a Cavalli si unì un terzo ricercatore, l´irlandese Bill Hayes, che allestì nuovi esperimenti, giungendo alle stesse conclusioni. Ma nonostante la mole di conferme, la scienza di allora esitò a lungo a dare credito ai tre sperimentatori. Quando i risultati del loro lavoro apparvero sullo stesso numero di una rivista scientifica importante, uno studioso inglese di virus batterici (che in realtà era del tutto convinto dei loro risultati) li commentò con un articolo scherzoso, stampato come se fosse uscito su una rivista scientifica del Settecento, che concludeva: ma come si può credere a queste fantasie, quando si vede che a proporle è Lederberg, un ebreo, Cavalli, un italiano, e Hayes, un irlandese? Anche in Inghilterra il razzismo ha radici profonde.
Fu il primo lavoro importante di Joshua Lederberg, che per questo avrebbe ricevuto il Nobel nel 1958. Ma Joshua non era persona da rimanere in un solo campo. Era un ciclone intellettuale, che nell´arco di mezzo secolo avrebbe contribuito, oltre che alla microbiologia e alla biologia molecolare, all´immunologia, all´intelligenza artificiale, alla chimica organica, all´esobiologia, per poi dedicare gran parte della sua energia, nella seconda parte della vita, a mettere a punto linee di difesa in caso di guerra batteriologica, per il governo degli Stati Uniti. Lo considerava suo dovere di cittadino.
Raccontò una volta che da giovane la sua aspirazione era stata di acquisire una conoscenza universale, ma che da adulto si era reso conto che dal principio dell´Ottocento in poi non si era più data la possibilità di diventare come Aristotele, Maimonide o Leonardo: troppe conoscenze si erano accumulate, troppe informazioni, troppe discipline, per poterle padroneggiare tutte. Eppure, con la sua morte, avvenuta quest´inverno, è scomparso un genio universale, come ne nascono ben pochi nell´arco di un secolo.
Joshua era nato a Montclair, New Jersey, nel 1925, ed era cresciuto a Manhattan. Suo padre era un rabbino, appena immigrato da Israele. Si laureò in Zoologia, poi si iscrisse a Medicina, ma con gran dolore dei suoi genitori abbandonò la facoltà per diventare un genetista batterico, lavorando a Yale con Edward Tatum, con cui più tardi avrebbe condiviso il Nobel. Joshua aveva intuito che se fosse stato possibile dimostrare l´esistenza di scambi sessuali fra batteri si sarebbe potuta capire la biologia dei microrganismi, esattamente come gli incroci compiuti da Mendel sui piselli, ottant´anni prima, avevano permesso di comprendere la biologia degli organismi superiori.
Il metodo seguito da Lederberg per scoprire la ricombinazione nei batteri era semplice e geniale dal punto di vista concettuale, ma laborioso da applicare nella pratica. I colibatteri, ospiti abituali del nostro intestino, sono di solito in grado di crescere su un terreno di coltura detto "minimo", composto di elementi semplicissimi: acqua distillata, glucosio, sali minerali. A partire da questi, il batterio riesce a fabbricare tutte le sostanze che gli servono per vivere e riprodursi. Esponendo ceppi di colibatteri ai raggi X, Joshua riuscì ad ottenere popolazioni di mutanti che non erano più in grado di crescere su terreno minimo, perché avevano perso, per esempio, la capacità di sintetizzare un aminoacido o un altro o una vitamina, ma erano in grado di crescere su un terreno arricchito (come il brodo di carne), che conteneva l´aminoacido o la vitamina che il batterio non era più in grado di sintetizzare.
Mescolando insieme ceppi di batteri privi della capacità di sintetizzare chi l´uno, chi l´altro aminoacido, riuscì a trovare nella loro discendenza alcuni batteri, rarissimi, in grado di crescere nuovamente su terreno minimo come l´antenato. Sembrava, cioè, che i batteri mescolandosi fossero in grado di scambiarsi qualcosa di cui ciascuno dei ceppi mancava ma che l´altro poteva fornirgli. Si trattava però di eventi molto rari, per cui, per esserne sicuri, occorrevano precauzioni estreme.
Giustamente, all´inizio Joshua non parlò di sesso, ma di "ricombinazione", cioè di scambio di caratteri genetici. La prima conferma che di sesso si trattava venne dagli esperimenti compiuti da Cavalli-Sforza, che li proseguì e sviluppò collaborando con i due Lederberg. Il primo prodotto fu un ceppo di batteri mutanti capaci di ricombinare ad alta frequenza: questo eliminò una delle difficoltà iniziali, la rarità del fenomeno. Si scoprì anche che un frammento di Dna (detto F per fertilità) passava da un batterio all´altro: molto spesso era solo un pezzetto a rendere possibile la ricombinazione, altre volte erano frammenti più o meno lunghi del genoma batterico. Ulteriori osservazioni compiute da Bill Hayes mostrarono con esperimenti indiretti che vi erano senz´altro sia un "maschio", che trasmetteva il frammento di Dna in questione, sia una "femmina" che lo riceveva. Pochi anni dopo due ricercatori francesi, Francois Jacob e Elie Wolmann, mostravano che il cromosoma batterico è unico e che il suo trasferimento dal maschio alla femmina avviene gradualmente e richiede 100 minuti, mentre il raddoppiamento del batterio ne richiede solo 20.
Con un frullatore da cucina si può interrompere il trasferimento dal maschio alla femmina, perché non vi è una vera e propria fusione ma uno scambio graduale del cromosoma fra i due batteri, tenuti vicini da un filamento visibile solo al microscopio elettronico. È un esperimento di "coitus interruptus"! Interrompendolo dopo pochi minuti si trova che è passato solo un primo frammento del cromosoma, sempre lo stesso, interrompendolo più avanti passa un frammento via via più lungo. Si può così studiare anche la posizione dei singoli geni che formano il cromosoma, cioè creare la "mappa cromosomica" del batterio, determinando l´ordine dei geni sul cromosoma in base al loro tempo di passaggio.
La scoperta del sesso dei batteri fu una delle svolte fondamentali della biologia del secolo scorso. Venti anni più tardi, da queste osservazioni sarebbe nata l´ingegneria genetica, cioè quell´insieme di tecniche che permette di trasferire segmenti di Dna fra organismi viventi, modificandone il patrimonio ereditario.
Lederberg, che dal ´58 al ´78 aveva creato e diretto il Dipartimento di Genetica dell´Università di Stanford, e dal ´78 al ´90 divenne presidente dell´Università Rockefeller di New York, passò col tempo ad occuparsi di intelligenza artificiale, difesa batteriologica, ricerca della vita nello spazio, i piani di osservazione di Marte. In un articolo pubblicato nel 2000 sulla rivista dell´Associazione Americana di Informatica Medica, scrisse: «C´è un principio a cui mi piacerebbe che fosse legato il mio nome, il principio di Lederberg: le macchine diventeranno davvero intelligenti quando saranno in grado di (1) "leggere" (cioè capire) la documentazione scritta e (2) passare tempo nel mondo reale, dove è la sopravvivenza del più adatto a decidere chi ce la fa. Fino a quando dovremo imboccarle, introducendo i dati uno per uno con il cucchiaino, evolveranno in modi goffi e costosi».

Repubblica 26.4.08
La generazione del 68 "In quel momento l´Italia si svegliò"
Coll0quio con i fratelli Taviani
di Paolo D'Agostini


I due fratelli del nostro cinema ricordano quei tempi. A partire dal loro "I sovversivi" del 1967 che a Venezia "fu accolto dalle risate". Poi venne "Sotto il segno dello scorpione"...
La nostra generazione di cineasti aveva una idea comune: avremmo reinventato il cinema
Noi abbiamo vissuto con molto trasporto quella stagione libertaria

ROMA Paolo e Vittorio Taviani mostrano la laurea honoris causa appena ricevuta dall´Università di Pisa. Dove entrambi "non" si sono laureati con qualche dispiacere del papà avvocato.
Cominciamo da I sovversivi, dove la giornata dei tanti personaggi ruota intorno ai funerali di Togliatti. Precedette il Sessantotto.
«Uscito nel ´67. Al festival di Venezia fu accolto da parecchie risate. E ci piacque che venisse apprezzata l´ironia in un momento così ideologico. Presentandolo in giro percepimmo che stava per succedere qualcosa. Le reazioni, di partecipazione anche aggressiva, erano identiche nei giovani dalla Lombardia alla Sicilia. Non erano più le platee del "dibattito" un po´ smorto e supercinefilo. Sentimmo un bisogno di rompere gli schemi, e anche al cinema si chiedevano cose diverse. Corrispondeva alla nostra generazione di cineasti. Fatta di personalità diverse - noi, Bellocchio, Cavani, Bertolucci, Ferreri - ma unificata da un sentimento: avremmo reinventato il cinema. E ci credevamo davvero».
Ma rinnovamento della società e rinnovamento del cinema riuscirono a integrarsi?
«Probabilmente molti autori non hanno dato i loro migliori frutti con le opere immediatamente ispirate dal momento. Però è grazie a quel momento che poi le opere migliori sono venute: Bertolucci, Olmi, noi stessi. Ma torniamo al momento della rottura. E, per noi, a Sotto il segno dello scorpione (1969) che è il nostro film più rappresentativo del ´68. A Venezia c´era la contestazione: mandammo il film ma non andammo noi. A casa accendemmo il telegiornale e Lello Bersani disse "hanno fatto bene i fratelli Taviani a non venire, così non hanno sentito i fischi". Ma ci credevamo in quel film. Era rappresentativo della tensione che si respirava. Della nostra volontà di spezzare il sonno del pubblico. Infatti il pubblico spezzò… le sedie».
Insomma erano belli o no, quei film?
«Un momento. Non dimentichiamo la scossa data da Godard, che ha veramente segnato un´epoca. Certo non si può istituzionalizzare la rottura. Noi abbiamo vissuto con molto trasporto quella stagione libertaria, ricordiamo che qualche volta veniva a prender l´uno o l´altro di noi due il giovanissimo Nanni Moretti che sulla sua vespa ci portava all´università dove si respirava questa bellissima eccitazione antiautoritaria. Dopo, a poco a poco, tutto questo è degenerato anche nella perversione delle Br. Ma il Sessantotto fu una sveglia che portò su tutti i piani l´Italia, tanto in ritardo rispetto alla modernizzazione di altre società, in pari con gli altri. Noi vedevamo i nostri personaggi de I sovversivi come bloccati in una palude e sotto una lastra di vetro. A un certo punto la spaccano, anche ferendosi, però non sono rimasti a contemplare le ferite. Scelte personali, più che politiche. Rischiano senza sapere bene a che cosa vanno incontro abbandonando lo stato di quiete. La scelta di Lucio Dalla come attore fa capire il clima di allora. Serviva un ragazzo, magari bello, per la parte. Facendo la pubblicità, per sopravvivere, lo incontrammo. Era un clarinettista, del gruppo Flipper. Nel carosello di una marca di camicie. Il suo magnetismo ci travolse subito. Era grasso e peloso, ma perfetto per il personaggio: ribelle, insofferente, si dibatte anche ideologicamente "contro" tutto e tutti. Solo quel clima poteva permettere di fare una scoperta così. È lui che davanti alla bara di Togliatti mormora "era l´ora". Un vecchio comunista che lavorava sempre con noi rifiutò il film dopo aver letto questa battuta in sceneggiatura».
Ecco: i vostri rapporti con il partito, le sue reazioni.
«Il rapporto più diretto, e più difficile, c´era stato prima, con Un uomo da bruciare (1962: Volonté interpretava il sindacalista socialista siciliano Salvatore Carnevale eliminato dalla mafia, ndr) che per bocca di Mario Alicata fu accusato di "infangare la memoria di un eroe". Però è anche vero che Giorgio Amendola ci disse che gli era piaciuto. La battuta de I sovversivi non piacque ma già non era più il tempo di andare dai dirigenti del partito a farsi approvare... Il direttore della Mostra di Venezia Chiarini ricevette pressioni per non accettare il film. Che del resto venne stroncato anche dalla sinistra estrema, Goffredo Fofi sulla sua rivista Ombre Rosse ci consigliò di "leggere Mao". Per esser chiari: la nostra matrice era quella. Siamo stati comunisti, abbiamo sofferto il ´56 ungherese, e il nostro proclamare "era l´ora" significava aspettarsi un cambiamento pur restando figli di quell´utopia. Che possono aver rinunciato al nome ma non al Dna. Educati però all´antischematismo dal grande studioso di Leopardi e nostro maestro Sebastiano Timpanaro che scrisse in un saggio contro l´ubriacatura maoista su Quaderni Piacentini nel ´66: "nessuna rivoluzione riuscirà a togliere il dolore per la morte di una persona amata". Comunque ricordiamo con affetto la scheda compilata dai carabinieri di San Miniato, il nostro paese, che recitava: "Paolo e Vittorio Taviani, figli dell´avvocato Ermanno emerita persona, sono sovversivi pericolosi ed esistenzialisti"».
Dopo vengono San Michele aveva un gallo (1973) e Allonsanfan (1974).
«Il dolore, soprattutto, di una perdita. Che però non permette la rinuncia alla lotta per il cambiamento. Ricordiamo la proiezione genovese di Allonsanfan. Alla fine ragazze e ragazzi, tra urli e fischi, salirono sul palco e sputandoci sulle scarpe ci accusarono: voi siete i traditori. Alcuni anni dopo un compagno del Pci di Genova ci disse che la maggior parte di loro era diventata brigatista. Si erano identificati con i rivoluzionari astratti e velleitari del film. Quando più tardi il film uscì in America, e c´erano già le Br che quando avevamo fatto il film non esistevano ancora, i giornali scrissero che era un film "sulle Brigate rosse". Senza saperlo avevamo previsto la perversione del Sessantotto».