sabato 4 giugno 2016

La Stampa TuttoLibri 4.6.16
Il cinema di Ozu?
La cosa più simile al paradiso
Dalle corrispondenze sugli orrori della guerra alla passione per Hollywood, Lubitsch e Ford in testa
di Stefano Della Casa

Quando Wim Wenders presentò Tokyo Ga, il suo film giapponese dedicato a Yasujiro Ozu, gli venne chiesto il perché di quella scelta. Wenders non ebbe dubbi e rispose con una frase divenuta memorabile: «La cosa più simile al Paradiso che io abbia mai incontrato è il cinema di Ozu». Insieme all’altro aforisma «Il rock mi ha salvato la vita», è una frase che definisce perfettamente l’estetica di Wenders; al tempo stesso, è la prova di quanto il cinema di Ozu abbia fortemente influenzato il nuovo cinema che negli anni Sessanta caratterizzò tutte le cinematografie del mondo.
Oggi possiamo scoprire quanto Ozu sia stato, oltre a un regista straordinario, anche un grande teorico del cinema. Siamo in grado di farlo grazie a un volume, Scritti sul cinema, curato da Franco Picollo e Hiromi Yagi appena uscito presso l’editore Donzelli. Sono pagine che attraversano una trentina di anni, dal 1931 al 1962. Sono appunti scritti con linguaggio piano, appassionato che ci fanno capire perché Ozu sia stato al tempo stresso un grande conoscitore del cinema occidentale, particolarmente di quello hollywoodiano (Ernst Lubitsch e John Ford sono tra i registi più citati, ma l’elenco è molto lungo e variegato), pur essendo al tempo stesso un grande cultore delle tradizioni del suo paese. Nel periodo in cui Ozu scrive le sue note sul cinema c’è anche la guerra sino-giapponese prima e la seconda guerra mondiale poi, e il regista è coinvolto in prima persona in questi tragici eventi. Le sue corrispondenze non nascondono gli orrori («molti miei compagni sono morti»), propongono una precisione quasi maniacale nel descrivere i suoi spostamenti, esprimono sentimenti contradditori sul cinema: all’inizio afferma di voler fare un film sul conflitto (un film realista, diverso dagli altri), nel 1940 spiega perché non ha fatto un film sulla guerra.
Il cinema è una presenza costante nei suoi scritti. Si capisce che vede molti film hollywoodiani, si lancia in analisi sul modo di scrivere le sceneggiature da parte di Frank Capra o sulla recitazione di Shirley Temple. Però già nel 1940 afferma che «Mi pare che ormai dal cinema americano non ci sia più granché da imparare. Se proprio si vuole parlare di qualcosa che dobbiamo ancora apprendere, si potrebbero forse citare gli aspetti tecnologici, in particolare la tecnologia delle macchine da presa». Ma al tempo stesso Ozu osserva che in America, così come in Giappone, si fanno tre tipi di film: i film tratti da opere letterarie, i film dello star system (costruiti cioè su misura per gli attori famosi che li interpretano) e i film a colori. A questa tripartizione, Ozu contrappone i film che vuole fare e che saranno ispirati al realismo. Apparentemente - gli anni sono gli stessi - sembrano le stesse considerazioni che spinsero Rossellini a dare il via alla grande stagione del neorealismo. Solo apparentemente, però. In Giappone i conti con gli orrori della guerra e dell’atomica saranno fatti in un secondo momento. E lo stesso Ozu, parlando di uno dei suoi film più famosi, Viaggio a Tokyo (girato nel 1953), scriverà «Ho provato a dipingere la disgregazione del sistema famigliare in Giappone attraverso l’evoluzione dei rapporti tra genitori e figli nel corso del tempo: Tra tutti i miei film, questo è quello che ha una più marcata tendenza al melodramma». Tutto qui, niente di più. Una scrittura semplice ma densa di contenuti, proprio come è caratteristica del suo cinema.
Invano nei suoi testi si possono cercare citazioni di Akira Kurosawa (cita solo uno dei suoi film considerati minori, Cane randagio) o del suo amico Inoshiro Honda (l’inventore di Godzilla), forse i registi giapponesi più conosciuti dal grande pubblico. Sulla fama di Toshiro Mifune, a sua volta l’emblema dello star system nipponico, solo una citazione per dire che si tratta di un caso di «idolatria di massa». E quando nel 1959 lavora per Erbe fluttuanti con il direttore della fotografia Miyagawa (quello cui si devono le splendide carrellate di Rashomon, si limita ad annotare che «mi è stato molto d’aiuto». Però non ha dubbi, quando afferma che il cinema non ha una sua grammatica, una formula fissa. Quando uno inventa qualcosa di nuovo e il pubblico lo segue, quella diventerà la grammatica e andrà avanti fino a essere a sua volta sostituita. Per cui i giovani devono farsi valere, devono percorrere strade nuove. Ozu scrive queste note nel 1958. poco più di un anno dopo, Godard eTruffaut a trent’anni non ancora compiuti presenteranno Fino all’ultimo respiro, il film che più di qualunque altro ha cambiato la grammatica del cinema.
Repubblica 4.6.16
Novecento
“Volevo mostrare a Pasolini che l’utopia era possibile”
Incontro con il regista premio Oscar nell’anniversario del film, diviso in due atti, con Robert De Niro Gérard Depardieu, Stefania Sandrelli e Dominique Sanda
intervista di Arianna Finos

ROMA «Novecento è nato qui». Bernardo Bertolucci allunga le braccia verso il grande salotto, come potesse toccare i ricordi e le pareti fossero impregnate delle conversazioni con il fratello Giuseppe e l’amico Kim Arcalli. Dalla casa studio del regista a Trastevere prese vita un progetto epico. Tre anni di lavorazione, cinque ore di film per raccontare mezzo secolo di storia d’Italia tra lotta di classe e sentimenti. Novecento monopolizzò il Festival di Cannes, nel maggio di 40 anni fa. «Partimmo da un’idea semplice. Nel 1900 nascono due bambini: il figlio dei padroni e quello dei contadini. Si chiamano Alfredo, in omaggio a
Traviata, e Olmo, in omaggio agli alberi sterminati in quell’epoca da una grave malattia».
Il film si apre con la morte di Verdi ed è concepito in due atti, come un’opera.
«Abbiamo pensato di contenere tutto il periodo che va dal 1900 al 1945 nel giorno della Liberazione, il 25 aprile. Il tempo dei contadini è scandito dalle stagioni. Così pensammo a una grande estate per l’infanzia. Poi i protagonisti crescono ed è autunno. Arriva il fascismo, l’inverno, il film si fa dark con i personaggi di Attila, Donald Sutherland e Regina, Laura Betti, che sono due veri mostri».
Per i due patriarchi, il nonno contadino e il nonno padrone, ha scelto Sterling Hayden e Burt Lancaster.
«Sterling, lo ricordavo in Giungla d’Asfalto e nel Dottor Stranamore, arrivò da Roma a Parma su una vecchissima moto Triumph. Prima di ogni ciak lo trovavamo sdraiato sotto qualche albero a farsi una canna. La sera in cui doveva incontrare Lancaster, Sterling era nervosissimo. Beveva vodka e rimetteva in continuazione lo stesso brano di Barry White & Love Unlimited. “Tremo all’idea di incontrare Lancaster, è un uomo tutto d’un pezzo, troppo per bene, per me” insisteva lui. Burt Lancaster mi regalò la sua interpretazione, recitò gratis: “Dopo questo film voglio andare in Tibet in una grotta a imparare il buddismo” mi confessò».
Poi è il momento di DeNiro e Depardieu.
«Quando ho concepito il film pensavo sarebbe stato un ponte tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Dopo il successo di Ultimo Tango avevo un po’ sbarellato, con qualche scivolata nella megalomania. Pensavo di poter fare ciò che volevo io, pensavo che il cinema potesse cambiare il mondo. Volevo un attore sovietico per Olmo, ma rifiutai di sottoporre la sceneggiatura ai russi e ripiegai sul giovanissimo Depardieu. Per il ruolo di Alfredo andai a Los Angeles, incontrai Robert DeNiro e Harvey Keitel, scelsi Bob per il suo aspetto più borghese. DeNiro a New York mi portò a un concerto di Bob Dylan e in taxi litigò con l’autista sull’itinerario: “Gira di là, non fare il furbo, guarda che ho fatto il tassista per tre mesi”, diceva. Era reduce da Taxi Driver ».
“Novecento” fu anche una risposta al pessimismo antropologico di Pasolini.
«Pier Paolo con i suoi saggi raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora. Che i contadini emiliani erano riusciti a preservare, grazie al socialismo, la loro identità culturale. E poi volevo raccontare la grande utopia, la rivoluzione contadina. Novecento, distribuito da tre major americane, avrebbe portato negli Usa questo messaggio socialista. Invece la Paramount lo boicottò. Il presidente dichiarò: “Ci sono troppe bandiere rosse”».
In Italia quali scene vollero censurare?
«L’unica che mi chiesero di accorciare fu quella in cui la prostituta epilettica, Stefania Casini, è a letto tra DeNiro e Depardieu e prende in mano i loro membri. Ma io li ho imbrogliati, accorciando i fotogrammi ma prima che la cosa avvenisse. Così quel momento è rimasto nel film».
Il film è anche un omaggio alla sua infanzia tra i contadini, al mondo raccontato nelle poesie di suo padre Attilio.
«Fino a 12 anni ho abitato in campagna a casa di mio nonno. Accanto c’era la casa dei contadini, il civile e il rustico. Trascorrevo le giornate in questa grande famiglia. Era come se mi sentissi in debito con loro».
Fu con loro che lei scoprì la parola comunista.
«Durante la raccolta dei pomodori passa un camioncino con l’altoparlante: “Domani sciopero generale per la morte di Attila Alberti, ucciso barbaramente dalla celere di Scelba”. “Chi è?”, chiedo. La Nella si gira e mi dice: “Un comunista”. Poi mi racconta che ci sarebbe stata la rivoluzione, avrebbero appeso tutti i padroni ai rami degli alberi. “Anch’io?”, “No tu ti salvi perché sei un comunista” ».
Il Pci fu critico sulla scena del processo “cinese”.
«Fu penoso, per me. Volevo dedicare il film a Berlinguer. Invito il Pci alla proiezione. A metà film Pajetta è entusiasta, ma alla fine mi dice: “La seconda parte è un falso storico. Non c’è mai stato un processo ai padroni”. Mi è crollato tutto addosso. Rispondo: “Certo, il processo non c’è mai stato, ma questo è un film, è finzione, e racconta una grande utopia”. Ci voleva uno sguardo sofisticato per capire quel che volevo fare, i politici dell’epoca non lo possedevano. Mi sostennero i giovani della Figc, Veltroni, Borgna, Bettini….».
Progettò un Terzo atto...
«Dal 1945 al 2000, ma non l’ho mai girato perché non ho mai più ritrovato quel trasporto.
Novecento fu un successo ma il mio idealismo ne uscì frustrato. Oggi li chiameremmo format: la cultura contadina, la piccola borghesia, la lotta di classe…. Ma già mentre finivo il film, con l’assassinio di Pier Paolo e la morte di Aldo Moro, per me era svanita la possibilità di sognare in quella maniera».
Qual è il suo sguardo sull’Italia di oggi?
«Forse questo rinchiudermi in una magica caverna high tech è anche dovuto al rifiuto di quel che è diventata l’Italia negli ultimi anni. Forse preferisco starmene qui, con una realtà audiovisiva che mi arriva da tutto il mondo, e stranamente mi nutre, piuttosto che muovermi per Roma, città degradata e probabilmente impossibile da salvare».
C’è un film che vuole girare?
«Ci deve essere, lo sto cercando. Incontro produttori, mi propongono grandi progetti che rifiuto in trenta secondi. Voglio girare in “due camere e cucina”, come per Io e Te. Vivo un po’ isolato, ma sono affascinato dal presente, per esempio dalla possibilità di girare un film con il telefonino. Da giovani sognavamo la caméra- stylo, oggi è realtà».
La Stampa 4.6.16
Marco Bellocchio
“Ho condiviso le battaglie di Pannella. Ora i 5 Stelle sono i suoi successori”
Il regista: “Mi commuovo per le aperture del Papa sul tema della carità e dell’abbattimento dei muri”
intervista di Fulvia Caprara

Da oggi al 12 giugno ad Asti il festival diretto da Alberto Sinigaglia mette a confronto l’anno in corso con uno della storia: questa volta «1936-2016: il consenso, la menzogna e la guerra». Tra gli ospiti Maurizio Molinari, Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano e domani il regista Marco Bellocchio.

Marco Bellocchio è un regista in perenne movimento, per descriverlo si dovrebbero usare parole come ricerca, curiosità, attenzione agli altri, apertura verso il cambiamento. Per questo, negli anni, è riuscito a evitare le etichette scontate che, dai tempi dei «Pugni in tasca», in tanti hanno cercato di attribuirgli. Per questo, a differenza di molti altri autori, è una persona che, oltre a dare risposte, fa tante domande. Per questo i soggetti dei suoi film, soprattutto nell’ultimo periodo, sono diversi e imprevedibili.
A ottobre arriverà nelle sale «Fai bei sogni», basato sul best-seller di Massimo Gramellini, intanto l’autore sta preparando il film dedicato al super-pentito Tommaso Buscetta, senza dimenticare le esperienze del passato, come quella di «Vincere» (di cui parlerà domani a Asti nell’ambito del Festival Passepartout) e lasciando aperta la finestra sull’attualità, su quel mutare che lo coinvolge sempre, in prima persona.
Presentando il film su Buscetta ha parlato di tradimento, argomento che aveva affrontato anche ai tempi di «Vincere», dove Mussolini era insieme traditore di una donna e traditore della patria. Perché è importante raccontare il tradimento?
«La storia è piena di traditori, lo sono stati tutti i grandi protagonisti della Rivoluzione Francese che hanno tradito il giuramento al Re, lo sono stati quelli del Sessantotto che hanno tradito la loro educazione e i loro principi e poi, nel dopoguerra, ce ne sono stati tanti altri... Su Giuda sospendo il giudizio. Buscetta ha detto di aver tradito perché i primi a farlo erano stati i boss di Cosa nostra, venendo meno alle loro stesse regole di appartenenza».
Tradire significa contraddirsi, cambiare posizione, cose che avvengono spesso, sia fra i politici che fra gli intellettuali.
«Oggi sono tutti giocolieri della parola, ci possono essere posizioni singole più estremiste, ma nei partiti che governano l’Italia prevalgono liberalismo diffuso e un certo vagante radicalismo di sinistra. Quello che colpisce è che gli estremisti di destra, come quelli di CasaPound, come Matteo Salvini, dichiarano cose bestiali per poi correggersi immediatamente dopo».
Effetti della propaganda, favorita dallo sviluppo della comunicazione, proprio a iniziare da Mussolini e dal fascismo.
«Sì, quella fu una vera rivoluzione. Nell’Europa occidentale il Duce fu il primo a intuire la potenza della propria immagine. Prima di lui, a parte Garibaldi, i politici come Crispi, Nicotera, Giolitti, erano uomini di grande potere, ma con volti assolutamente anonimi. Mussolini, invece, impose la propria immagine, proprio attraverso il cinematografo, la radio, la fotografia, e questa fu un’assoluta novità storica. Fecero così Hitler e, in forma più precaria, anche Lenin e, soprattutto, Stalin».
Oggi la propaganda ha a disposizione strumenti potentissimi, web in testa.
«Certo, e il suo potenziale è mille volte più aggressivo, diffuso, istantaneo. Prima c’erano le edizioni straordinarie dei giornali, ma non sono paragonabili all’enorme diffusione di smartphone e simili, adesso l’informazione dilaga, facendo venir fuori cose che prima restavano chiuse in luoghi interni, è una specie di bomba atomica, un magma in cui i giovani di oggi sono immersi. Personalmente mi sono autoescluso da tutto questo, ma mi colpisce molto l’istantaneità, per esempio delle notizie di morti. Mentre prendi un caffè al bar puoi venire a sapere che è mancato Albertazzi, oppure Scola, e le reazioni sono lì, immediate».
Quali sono, secondo lei, gli effetti del sapere tutto e subito?
«La democrazia è più manipolabile, penso anche alla tv e ai talk show, ai tanti volti che appaiono spesso e poi scompaiono come meteore. Con quali criteri si invitano le persone? E perché accettano? Non so, Cacciari, perché va in tv? La mia impressione è che, se ci si va ogni tre sere, è inevitabile ripetersi, e lo spettatore lo capisce. Poi ci sono altri, come Pannella, che riusciva a essere sempre protagonista».
In che modo?
«La sua forza derivava dalla coerenza morale, da non deflettere mai dai propri principi. Accettava le alleanze tattiche, ma le sue idee restavano le stesse, la sua anima non veniva scalfita. Da laico, ho condiviso le sue battaglie, mi trovavo sulla sua lunghezza d’onda e mi sembra chiaro che, in modo diverso, più pragmatico, il Movimento 5 Stelle ne sia il successore».
E di Renzi cosa pensa?
«Vive molto nel presente, è un politico moderno, mi fa ridere Crozza quando ne fa l’imitazione, ma non sono tra quelli che lo demonizzano. Per esempio, a proposito del referendum costituzionale, penso che si sia partiti da un’istanza che tutti sentivano e, anche se è una riforma azzoppata, voterei per il sì. Non credo che in Italia ci sia il pericolo della dittatura».
Ha detto «da laico», ma ultimamente, in vari punti delle sue opere, c’è chi ha intravisto segnali di un atteggiamento nuovo nei confronti della religione.
«Con l’età il mio animo può essere cambiato, posso commuovermi davanti a certe aperture del Papa sul tema della carità e dell’abbattimento dei muri... Il sentimento vero dell’accoglienza è soprattutto nelle sue parole, e questo è apprezzabile. I partiti, invece, sono tutti più prudenti, sulla difensiva. Io comunque resto laico, nell’aldilà non credo, anche se alcuni sacerdoti, come Virginio Fantuzzi, intravedono nei miei film messaggi di un cammino verso un’altra direzione».
Oggi la posizione sui migranti fa la differenza.
«Si, ed è ipocrita chi dice: “Rimandiamoli a casa loro”. Le migrazioni invaderanno la storia per i prossimi cinquant’anni. E mi dispiace che certe forze politiche cerchino consensi battendo sul lato peggiore delle persone, consensi usando cinismo e falsità».
Guardare sempre avanti significa non avere nostalgie. Per lei è così, anche nei riguardi dell’attuale politica italiana?
«Viviamo nel 2016, bisogna partire da quello che c’è, non mi viene da piangere pensando ai vecchi giganti della politica come Togliatti, Nenni, Saragat e, anche se può essere affascinante raccontarla, non ho rimpianti per l’Italia scomparsa».
Però la Storia e le storie le piacciono.
«Sì, mi piace ascoltare, da vero provinciale, mi piaceva, a suo tempo, sentir parlare Moravia, e poi Scola, Monicelli, Scarpelli, Sonego... Avevano una straordinaria capacità di racconto, anche ironizzando, anche esagerando».

Repubblica 4.6.16
Zoro: non invento nulla è la politica a far ridere
intervista di Raffaella De Santis

Diego Bianchi è alla scrivania. Felpa nera, t-shirt con un Beethoven pop stampato, jeans. Se ne sta seduto davanti al computer a preparare i reportage che andranno in onda nello speciale “Gazebo” post elettorale lunedì su Rai Tre in prima serata, ospite d’eccezione Roberto Saviano. Quasi quattro ore di riprese solo a Napoli. «Ne ricaverò sette minuti», dice. È indaffarato, perché è lui che taglia, monta, sceglie le musiche. Giovedì porterà “Zoro Live” all’Auditorium Parco della Musica per la Repubblica delle Idee (Cavea, ore 22). Gli studi romani di Gazebo, hanno l’atmosfera del posto di frontiera, anche se sono a Prati, quartiere di avvocati. Quattro stanze spoglie, tavoli da lavoro, porte che sbattono, gente che va e viene: sembra una casa di universitari, solo che alle pareti al posto dei poster ci sono i murales di Makkox. Zoro – ma lui, a 47 anni, preferisce essere chiamato Diego, che poi è il nome vero nascosto dietro la maschera – è disegnato su una parete: guarda il Colosseo. L’intervista inizia fissando il computer dove scorrono comizi e gente per strada.
Si può raccontare la politica con umorismo?
«Mi limito ad osservare. L’ironia è nei fatti, da parte mia non faccio che registrarli. Il pericolo è che i politici davanti alla telecamera assumano un atteggiamento performativo, cerco di evitarlo».
Quanto conta il montaggio per ottenere l’effetto satirico?
«Taglio molto ma non abuso del montaggio. Una volta ho mostrato Bertolaso durante un comizio. Era solo sul palco che fissava il nulla. Ho lasciato che l’immagine parlasse da sé, aggiungendo come colonna sonora Segnali di vita di Battiato
(la canticchia: Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire…, ndr)».
In realtà basta la faccia di Zoro sparata nella telecamera a creare uno straniamento comico.
«La verità è che ho un occhio da Prima Repubblica, classico. Mi sono formato in altri anni, quando la politica non era questa. È il corto circuito tra il mio sguardo e il linguaggio politico di adesso che fa ridere. La mia formazione è stata in famiglia, nel quartiere. Alle elementari frequentavo la sezione del Pci di San Giovanni a Porta Metronia, dove erano iscritti i miei genitori. Lì ho poi ambientato il film
Arance e martello ».
Liceo classico, una laurea in scienze politiche.
Come è nato Zoro?
«Sono figlio unico, da piccolo a casa giocavo a subbuteo da solo. Mi sdoppiavo, mi triplicavo… Zoro, il mio alter ego, ha origine lì, in quei giochi infantili.
Ma non ero triste( ride, ndr). Poi un giorno ho acceso la telecamera e ho iniziato a parlare del mio essere di sinistra, di questa cosa chiamata Pci, poi Pds, infine Pd. Così ho messo in scena il racconto della mia militanza nel primo video su YouTube di Tolleranza Zoro. Prima curavo i contenuti del portale Excite».
Con chi si è laureato?
«Alla Sapienza con Domenico Fisichella, diventato poi ministro dei Beni culturali del governo Berlusconi. Con una tesi sulla Rete di Orlando e la Lega».
Il pensiero critico è un modo per fare politica?
«Mia nonna diceva che la politica si fa pure al bagno. Per quanto mi riguarda sono stato un militante. Certo però non credo nella causa di un partito quanto nella causa del racconto della realtà».
Un racconto che ha tanti registri. I reportage dai campi profughi di Idomeni, Lesbo, Calais sono tutt’altro che ironici.
«Cerco di trattare con leggerezza una materia pesantissima. Ho sempre avuto interesse per il sociale. Ora il grande tema è l’immigrazione, in studio lunedì ci sarà Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa. Siamo entrati nella jungle di Calais, comprato le calosce, camminato nel fango, ci siamo ritrovati nel mezzo di una guerriglia tra poliziotti e comunità curda, dormito in una tenda. Lavoriamo così, al pubblico mostriamo tutto ciò che ci capita».
Non è che si era stancato delle storie del Palazzo?
«Un po’, ero stanco delle beghe dei partiti, sentivo il bisogno di andare in giro per il mondo».
Un ricordo incancellabile.
«Al confine serbo-ungherese, dove arrivavano pullman pieni di serbi. Non riesco a dimenticare una madre strappata alla figlia. A che serve aggiungere commenti? Fare politica è anche questo: far vedere che cosa accade davvero ».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Nella foto, Zoro (Diego Bianchi)
La Stampa 4.6.16
Marco Bellocchio
“Ho condiviso le battaglie di Pannella. Ora i 5 Stelle sono i suoi successori”
Il regista: “Mi commuovo per le aperture del Papa sul tema della carità e dell’abbattimento dei muri”
intervista di Fulvia Caprara

Da oggi al 12 giugno ad Asti il festival diretto da Alberto Sinigaglia mette a confronto l’anno in corso con uno della storia: questa volta «1936-2016: il consenso, la menzogna e la guerra». Tra gli ospiti Maurizio Molinari, Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano e domani il regista Marco Bellocchio.

Marco Bellocchio è un regista in perenne movimento, per descriverlo si dovrebbero usare parole come ricerca, curiosità, attenzione agli altri, apertura verso il cambiamento. Per questo, negli anni, è riuscito a evitare le etichette scontate che, dai tempi dei «Pugni in tasca», in tanti hanno cercato di attribuirgli. Per questo, a differenza di molti altri autori, è una persona che, oltre a dare risposte, fa tante domande. Per questo i soggetti dei suoi film, soprattutto nell’ultimo periodo, sono diversi e imprevedibili.
A ottobre arriverà nelle sale «Fai bei sogni», basato sul best-seller di Massimo Gramellini, intanto l’autore sta preparando il film dedicato al super-pentito Tommaso Buscetta, senza dimenticare le esperienze del passato, come quella di «Vincere» (di cui parlerà domani a Asti nell’ambito del Festival Passepartout) e lasciando aperta la finestra sull’attualità, su quel mutare che lo coinvolge sempre, in prima persona.
Presentando il film su Buscetta ha parlato di tradimento, argomento che aveva affrontato anche ai tempi di «Vincere», dove Mussolini era insieme traditore di una donna e traditore della patria. Perché è importante raccontare il tradimento?
«La storia è piena di traditori, lo sono stati tutti i grandi protagonisti della Rivoluzione Francese che hanno tradito il giuramento al Re, lo sono stati quelli del Sessantotto che hanno tradito la loro educazione e i loro principi e poi, nel dopoguerra, ce ne sono stati tanti altri... Su Giuda sospendo il giudizio. Buscetta ha detto di aver tradito perché i primi a farlo erano stati i boss di Cosa nostra, venendo meno alle loro stesse regole di appartenenza».
Tradire significa contraddirsi, cambiare posizione, cose che avvengono spesso, sia fra i politici che fra gli intellettuali.
«Oggi sono tutti giocolieri della parola, ci possono essere posizioni singole più estremiste, ma nei partiti che governano l’Italia prevalgono liberalismo diffuso e un certo vagante radicalismo di sinistra. Quello che colpisce è che gli estremisti di destra, come quelli di CasaPound, come Matteo Salvini, dichiarano cose bestiali per poi correggersi immediatamente dopo».
Effetti della propaganda, favorita dallo sviluppo della comunicazione, proprio a iniziare da Mussolini e dal fascismo.
«Sì, quella fu una vera rivoluzione. Nell’Europa occidentale il Duce fu il primo a intuire la potenza della propria immagine. Prima di lui, a parte Garibaldi, i politici come Crispi, Nicotera, Giolitti, erano uomini di grande potere, ma con volti assolutamente anonimi. Mussolini, invece, impose la propria immagine, proprio attraverso il cinematografo, la radio, la fotografia, e questa fu un’assoluta novità storica. Fecero così Hitler e, in forma più precaria, anche Lenin e, soprattutto, Stalin».
Oggi la propaganda ha a disposizione strumenti potentissimi, web in testa.
«Certo, e il suo potenziale è mille volte più aggressivo, diffuso, istantaneo. Prima c’erano le edizioni straordinarie dei giornali, ma non sono paragonabili all’enorme diffusione di smartphone e simili, adesso l’informazione dilaga, facendo venir fuori cose che prima restavano chiuse in luoghi interni, è una specie di bomba atomica, un magma in cui i giovani di oggi sono immersi. Personalmente mi sono autoescluso da tutto questo, ma mi colpisce molto l’istantaneità, per esempio delle notizie di morti. Mentre prendi un caffè al bar puoi venire a sapere che è mancato Albertazzi, oppure Scola, e le reazioni sono lì, immediate».
Quali sono, secondo lei, gli effetti del sapere tutto e subito?
«La democrazia è più manipolabile, penso anche alla tv e ai talk show, ai tanti volti che appaiono spesso e poi scompaiono come meteore. Con quali criteri si invitano le persone? E perché accettano? Non so, Cacciari, perché va in tv? La mia impressione è che, se ci si va ogni tre sere, è inevitabile ripetersi, e lo spettatore lo capisce. Poi ci sono altri, come Pannella, che riusciva a essere sempre protagonista».
In che modo?
«La sua forza derivava dalla coerenza morale, da non deflettere mai dai propri principi. Accettava le alleanze tattiche, ma le sue idee restavano le stesse, la sua anima non veniva scalfita. Da laico, ho condiviso le sue battaglie, mi trovavo sulla sua lunghezza d’onda e mi sembra chiaro che, in modo diverso, più pragmatico, il Movimento 5 Stelle ne sia il successore».
E di Renzi cosa pensa?
«Vive molto nel presente, è un politico moderno, mi fa ridere Crozza quando ne fa l’imitazione, ma non sono tra quelli che lo demonizzano. Per esempio, a proposito del referendum costituzionale, penso che si sia partiti da un’istanza che tutti sentivano e, anche se è una riforma azzoppata, voterei per il sì. Non credo che in Italia ci sia il pericolo della dittatura».
Ha detto «da laico», ma ultimamente, in vari punti delle sue opere, c’è chi ha intravisto segnali di un atteggiamento nuovo nei confronti della religione.
«Con l’età il mio animo può essere cambiato, posso commuovermi davanti a certe aperture del Papa sul tema della carità e dell’abbattimento dei muri... Il sentimento vero dell’accoglienza è soprattutto nelle sue parole, e questo è apprezzabile. I partiti, invece, sono tutti più prudenti, sulla difensiva. Io comunque resto laico, nell’aldilà non credo, anche se alcuni sacerdoti, come Virginio Fantuzzi, intravedono nei miei film messaggi di un cammino verso un’altra direzione».
Oggi la posizione sui migranti fa la differenza.
«Si, ed è ipocrita chi dice: “Rimandiamoli a casa loro”. Le migrazioni invaderanno la storia per i prossimi cinquant’anni. E mi dispiace che certe forze politiche cerchino consensi battendo sul lato peggiore delle persone, consensi usando cinismo e falsità».
Guardare sempre avanti significa non avere nostalgie. Per lei è così, anche nei riguardi dell’attuale politica italiana?
«Viviamo nel 2016, bisogna partire da quello che c’è, non mi viene da piangere pensando ai vecchi giganti della politica come Togliatti, Nenni, Saragat e, anche se può essere affascinante raccontarla, non ho rimpianti per l’Italia scomparsa».
Però la Storia e le storie le piacciono.
«Sì, mi piace ascoltare, da vero provinciale, mi piaceva, a suo tempo, sentir parlare Moravia, e poi Scola, Monicelli, Scarpelli, Sonego... Avevano una straordinaria capacità di racconto, anche ironizzando, anche esagerando».

Repubblica 4.6.16
Novecento
“Volevo mostrare a Pasolini che l’utopia era possibile”
Incontro con il regista premio Oscar nell’anniversario del film, diviso in due atti, con Robert De Niro Gérard Depardieu, Stefania Sandrelli e Dominique Sanda
intervista di Arianna Finos

ROMA «Novecento è nato qui». Bernardo Bertolucci allunga le braccia verso il grande salotto, come potesse toccare i ricordi e le pareti fossero impregnate delle conversazioni con il fratello Giuseppe e l’amico Kim Arcalli. Dalla casa studio del regista a Trastevere prese vita un progetto epico. Tre anni di lavorazione, cinque ore di film per raccontare mezzo secolo di storia d’Italia tra lotta di classe e sentimenti. Novecento monopolizzò il Festival di Cannes, nel maggio di 40 anni fa. «Partimmo da un’idea semplice. Nel 1900 nascono due bambini: il figlio dei padroni e quello dei contadini. Si chiamano Alfredo, in omaggio a
Traviata, e Olmo, in omaggio agli alberi sterminati in quell’epoca da una grave malattia».
Il film si apre con la morte di Verdi ed è concepito in due atti, come un’opera.
«Abbiamo pensato di contenere tutto il periodo che va dal 1900 al 1945 nel giorno della Liberazione, il 25 aprile. Il tempo dei contadini è scandito dalle stagioni. Così pensammo a una grande estate per l’infanzia. Poi i protagonisti crescono ed è autunno. Arriva il fascismo, l’inverno, il film si fa dark con i personaggi di Attila, Donald Sutherland e Regina, Laura Betti, che sono due veri mostri».
Per i due patriarchi, il nonno contadino e il nonno padrone, ha scelto Sterling Hayden e Burt Lancaster.
«Sterling, lo ricordavo in Giungla d’Asfalto e nel Dottor Stranamore, arrivò da Roma a Parma su una vecchissima moto Triumph. Prima di ogni ciak lo trovavamo sdraiato sotto qualche albero a farsi una canna. La sera in cui doveva incontrare Lancaster, Sterling era nervosissimo. Beveva vodka e rimetteva in continuazione lo stesso brano di Barry White & Love Unlimited. “Tremo all’idea di incontrare Lancaster, è un uomo tutto d’un pezzo, troppo per bene, per me” insisteva lui. Burt Lancaster mi regalò la sua interpretazione, recitò gratis: “Dopo questo film voglio andare in Tibet in una grotta a imparare il buddismo” mi confessò».
Poi è il momento di DeNiro e Depardieu.
«Quando ho concepito il film pensavo sarebbe stato un ponte tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Dopo il successo di Ultimo Tango avevo un po’ sbarellato, con qualche scivolata nella megalomania. Pensavo di poter fare ciò che volevo io, pensavo che il cinema potesse cambiare il mondo. Volevo un attore sovietico per Olmo, ma rifiutai di sottoporre la sceneggiatura ai russi e ripiegai sul giovanissimo Depardieu. Per il ruolo di Alfredo andai a Los Angeles, incontrai Robert DeNiro e Harvey Keitel, scelsi Bob per il suo aspetto più borghese. DeNiro a New York mi portò a un concerto di Bob Dylan e in taxi litigò con l’autista sull’itinerario: “Gira di là, non fare il furbo, guarda che ho fatto il tassista per tre mesi”, diceva. Era reduce da Taxi Driver ».
“Novecento” fu anche una risposta al pessimismo antropologico di Pasolini.
«Pier Paolo con i suoi saggi raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora. Che i contadini emiliani erano riusciti a preservare, grazie al socialismo, la loro identità culturale. E poi volevo raccontare la grande utopia, la rivoluzione contadina. Novecento, distribuito da tre major americane, avrebbe portato negli Usa questo messaggio socialista. Invece la Paramount lo boicottò. Il presidente dichiarò: “Ci sono troppe bandiere rosse”».
In Italia quali scene vollero censurare?
«L’unica che mi chiesero di accorciare fu quella in cui la prostituta epilettica, Stefania Casini, è a letto tra DeNiro e Depardieu e prende in mano i loro membri. Ma io li ho imbrogliati, accorciando i fotogrammi ma prima che la cosa avvenisse. Così quel momento è rimasto nel film».
Il film è anche un omaggio alla sua infanzia tra i contadini, al mondo raccontato nelle poesie di suo padre Attilio.
«Fino a 12 anni ho abitato in campagna a casa di mio nonno. Accanto c’era la casa dei contadini, il civile e il rustico. Trascorrevo le giornate in questa grande famiglia. Era come se mi sentissi in debito con loro».
Fu con loro che lei scoprì la parola comunista.
«Durante la raccolta dei pomodori passa un camioncino con l’altoparlante: “Domani sciopero generale per la morte di Attila Alberti, ucciso barbaramente dalla celere di Scelba”. “Chi è?”, chiedo. La Nella si gira e mi dice: “Un comunista”. Poi mi racconta che ci sarebbe stata la rivoluzione, avrebbero appeso tutti i padroni ai rami degli alberi. “Anch’io?”, “No tu ti salvi perché sei un comunista” ».
Il Pci fu critico sulla scena del processo “cinese”.
«Fu penoso, per me. Volevo dedicare il film a Berlinguer. Invito il Pci alla proiezione. A metà film Pajetta è entusiasta, ma alla fine mi dice: “La seconda parte è un falso storico. Non c’è mai stato un processo ai padroni”. Mi è crollato tutto addosso. Rispondo: “Certo, il processo non c’è mai stato, ma questo è un film, è finzione, e racconta una grande utopia”. Ci voleva uno sguardo sofisticato per capire quel che volevo fare, i politici dell’epoca non lo possedevano. Mi sostennero i giovani della Figc, Veltroni, Borgna, Bettini….».
Progettò un Terzo atto...
«Dal 1945 al 2000, ma non l’ho mai girato perché non ho mai più ritrovato quel trasporto.
Novecento fu un successo ma il mio idealismo ne uscì frustrato. Oggi li chiameremmo format: la cultura contadina, la piccola borghesia, la lotta di classe…. Ma già mentre finivo il film, con l’assassinio di Pier Paolo e la morte di Aldo Moro, per me era svanita la possibilità di sognare in quella maniera».
Qual è il suo sguardo sull’Italia di oggi?
«Forse questo rinchiudermi in una magica caverna high tech è anche dovuto al rifiuto di quel che è diventata l’Italia negli ultimi anni. Forse preferisco starmene qui, con una realtà audiovisiva che mi arriva da tutto il mondo, e stranamente mi nutre, piuttosto che muovermi per Roma, città degradata e probabilmente impossibile da salvare».
C’è un film che vuole girare?
«Ci deve essere, lo sto cercando. Incontro produttori, mi propongono grandi progetti che rifiuto in trenta secondi. Voglio girare in “due camere e cucina”, come per Io e Te. Vivo un po’ isolato, ma sono affascinato dal presente, per esempio dalla possibilità di girare un film con il telefonino. Da giovani sognavamo la caméra- stylo, oggi è realtà».

La Stampa TuttoLibri 4.6.16
Il cinema di Ozu?
La cosa più simile al paradiso
Dalle corrispondenze sugli orrori della guerra alla passione per Hollywood, Lubitsch e Ford in testa
di Stefano Della Casa

Quando Wim Wenders presentò Tokyo Ga, il suo film giapponese dedicato a Yasujiro Ozu, gli venne chiesto il perché di quella scelta. Wenders non ebbe dubbi e rispose con una frase divenuta memorabile: «La cosa più simile al Paradiso che io abbia mai incontrato è il cinema di Ozu». Insieme all’altro aforisma «Il rock mi ha salvato la vita», è una frase che definisce perfettamente l’estetica di Wenders; al tempo stesso, è la prova di quanto il cinema di Ozu abbia fortemente influenzato il nuovo cinema che negli anni Sessanta caratterizzò tutte le cinematografie del mondo.
Oggi possiamo scoprire quanto Ozu sia stato, oltre a un regista straordinario, anche un grande teorico del cinema. Siamo in grado di farlo grazie a un volume, Scritti sul cinema, curato da Franco Picollo e Hiromi Yagi appena uscito presso l’editore Donzelli. Sono pagine che attraversano una trentina di anni, dal 1931 al 1962. Sono appunti scritti con linguaggio piano, appassionato che ci fanno capire perché Ozu sia stato al tempo stresso un grande conoscitore del cinema occidentale, particolarmente di quello hollywoodiano (Ernst Lubitsch e John Ford sono tra i registi più citati, ma l’elenco è molto lungo e variegato), pur essendo al tempo stesso un grande cultore delle tradizioni del suo paese. Nel periodo in cui Ozu scrive le sue note sul cinema c’è anche la guerra sino-giapponese prima e la seconda guerra mondiale poi, e il regista è coinvolto in prima persona in questi tragici eventi. Le sue corrispondenze non nascondono gli orrori («molti miei compagni sono morti»), propongono una precisione quasi maniacale nel descrivere i suoi spostamenti, esprimono sentimenti contradditori sul cinema: all’inizio afferma di voler fare un film sul conflitto (un film realista, diverso dagli altri), nel 1940 spiega perché non ha fatto un film sulla guerra.
Il cinema è una presenza costante nei suoi scritti. Si capisce che vede molti film hollywoodiani, si lancia in analisi sul modo di scrivere le sceneggiature da parte di Frank Capra o sulla recitazione di Shirley Temple. Però già nel 1940 afferma che «Mi pare che ormai dal cinema americano non ci sia più granché da imparare. Se proprio si vuole parlare di qualcosa che dobbiamo ancora apprendere, si potrebbero forse citare gli aspetti tecnologici, in particolare la tecnologia delle macchine da presa». Ma al tempo stesso Ozu osserva che in America, così come in Giappone, si fanno tre tipi di film: i film tratti da opere letterarie, i film dello star system (costruiti cioè su misura per gli attori famosi che li interpretano) e i film a colori. A questa tripartizione, Ozu contrappone i film che vuole fare e che saranno ispirati al realismo. Apparentemente - gli anni sono gli stessi - sembrano le stesse considerazioni che spinsero Rossellini a dare il via alla grande stagione del neorealismo. Solo apparentemente, però. In Giappone i conti con gli orrori della guerra e dell’atomica saranno fatti in un secondo momento. E lo stesso Ozu, parlando di uno dei suoi film più famosi, Viaggio a Tokyo (girato nel 1953), scriverà «Ho provato a dipingere la disgregazione del sistema famigliare in Giappone attraverso l’evoluzione dei rapporti tra genitori e figli nel corso del tempo: Tra tutti i miei film, questo è quello che ha una più marcata tendenza al melodramma». Tutto qui, niente di più. Una scrittura semplice ma densa di contenuti, proprio come è caratteristica del suo cinema.
Invano nei suoi testi si possono cercare citazioni di Akira Kurosawa (cita solo uno dei suoi film considerati minori, Cane randagio) o del suo amico Inoshiro Honda (l’inventore di Godzilla), forse i registi giapponesi più conosciuti dal grande pubblico. Sulla fama di Toshiro Mifune, a sua volta l’emblema dello star system nipponico, solo una citazione per dire che si tratta di un caso di «idolatria di massa». E quando nel 1959 lavora per Erbe fluttuanti con il direttore della fotografia Miyagawa (quello cui si devono le splendide carrellate di Rashomon, si limita ad annotare che «mi è stato molto d’aiuto». Però non ha dubbi, quando afferma che il cinema non ha una sua grammatica, una formula fissa. Quando uno inventa qualcosa di nuovo e il pubblico lo segue, quella diventerà la grammatica e andrà avanti fino a essere a sua volta sostituita. Per cui i giovani devono farsi valere, devono percorrere strade nuove. Ozu scrive queste note nel 1958. poco più di un anno dopo, Godard eTruffaut a trent’anni non ancora compiuti presenteranno Fino all’ultimo respiro, il film che più di qualunque altro ha cambiato la grammatica del cinema.
il manifesto 4.6.16
La resistenza spezzata di due fratelli
La Francia ricorda l'assassinio di Carlo e Nello Rosselli, a 79 anni dall'agguato della polizia Cagoule, che li portò alla morte
di Anna Maria Merlo

PARIGI Il 9 giugno del 1937, i fratelli Carlo e Nello Rosselli furono assassinati a Bagnoles de l’Orne, una stazione termale in Bassa Normandia, dalla Cagoule, su ordine del regime fascista italiano. Galeazzo Ciano aveva promesso in cambio un migliaio di fucili al gruppo di estrema destra francese.

Per ricordare questo episodio della storia europea di settantanove anni fa, oggi avrà luogo una cerimonia a Bagnoles d’Orne, con la presenza dell’ambasciatore e del console italiani, dove verrà presentato il restauro del monumento che ricorda i due fratelli antifascisti, realizzato dal laboratorio Nicoli di Carrara. E proprio ieri sera, alla Maison d’Italie (alla Cité universitaire di Parigi) è stato presentato il libro Carlo e Nello Rosselli, Testimoni di Giustizia e Libertà (edizioni Clichy, pp. 80, euro 7,90), a cura di Valdo Spini.
Carlo Rosselli, professore universitario, tra i fondatori di Giustizia e Libertà, nel 1926 aveva fondato, con Pietro Nenni, la rivista Quarto stato, che ospitava saggi di ispirazione socialista. Il fratello Nello, allievo di Gaetano Salvemini a Firenze, era uno storico del Risorgimento di idee liberali, che si era occupato in particolare di Carlo Pisacane, Mazzini e Bakunin.
Il fascismo perseguitò i due fratelli con grande tenacia, prima in Italia poi in Francia, fino a ordinare il loro assassinio. Carlo è stato al confino a Ustica, poi a Lipari: da qui, nel ’29 insieme a Fausto Nitti e Emilio Lussu, riuscì a fuggire per poi rifugiarsi in Francia. Sarà raggiunto poco dopo dal fratello Nello, il quale a sua volta era passato per il confino a Ponza.
A Bagnoles de l’Orne, i due fratelli caddero però in un agguato ordito dalla Cagoule, un’organizzazione militare fascista che, come hanno confermato anche gli studi dello storico Robert Paxton, aveva ricevuto finanziamenti dalla Germania nazista e dall’Italia di Mussolini. La Cagoule si venne a costituire in Francia durante tensione degli scontri del 1934. Fu una formazione militare segreta che cercò di far cadere il governo radicale; poi, con la vittoria del Fronte Popolare, si rese responsabile di numerosi atti di violenza e dell’assassinio di diversi oppositori e personalità.
La storia della Cagoule è ancora oggi venata di mistero, perché il generale De Gaulle aveva messo il sigillo del segreto sugli archivi riguardanti questo gruppo militare. Tra i suoi membri, figurava Eugène Schüller, fondatore de L’Oréal, padre di Liliane Bettencourt, la miliardaria oggi anziana al centro di una vicenda di soldi, finita in tribunale. Schüller era anche stato molto vicino a François Mitterrand, un’amicizia iniziata negli anni di frequentazione del pensionato dei padri mariani del 104, rue de Vaugirard.
Il Sole 4.6.16
La crescita Usa
Un’economia in debito di ossigeno
di Domenico Lombardi

Il dato rilasciato ieri dal Dipartimento del Lavoro americano racchiude in due soli numeri tutta la fragilità della ripresa americana. Nel mese di maggio, gli Stati Uniti hanno generato solo 38mila nuovi posti di lavoro, eppure il tasso di disoccupazione è ulteriormente sceso al 4,7 per cento, registrando un nuovo minimo.
Dopo il picco dell’ottobre scorso, la dinamica nella creazione di nuovi posti di lavoro ha cominciato a mostrare un declino, ma il dato di maggio si discosta significativamente dalle aspettative di mercato che si collocavano al di sopra di 160mila e dalla soglia di attenzione della Fed pari a 100mila nuovi posti di lavoro al mese necessari per tenere il passo con la dinamica demografica della società americana.
Apparentemente in contrasto con il dato di cui sopra, il tasso di disoccupazione è sceso più delle aspettative. In realtà, avvertendo crescenti difficoltà nella ricerca di un posto di lavoro soddisfacente, alcuni segmenti della popolazione stanno uscendo dalla forza di lavoro. Il tasso di partecipazione è, infatti, ulteriormente diminuito. Cumulando tale diminuzione con quella registrata in aprile, essa annulla il miglioramento osservato nel primo trimestre.
Eppure è prematuro stabilire se questi sviluppi introducono un nuovo elemento strutturale nella dinamica del quadro congiunturale americano: i consumi in aprile hanno segnato il più grosso incremento in sei anni, l’inflazione è in aumento anche se sotto la soglia del due per cento e le previsioni per la crescita del Pil nel secondo trimestre dell’anno sono pari al 2,9 per cento secondo la Fed di Atlanta.
Le famiglie si aspettano un miglioramento del proprio reddito nel prossimo futuro ma, al tempo stesso, alcuni indicatori di fiducia hanno subito una battuta di arresto lo scorso mese. Nel complesso, si intensifica una situazione di incertezza sulla robustezza della ripresa negli Stati Uniti che fra le economie avanzate hanno fornito un significativo contributo alla domanda mondiale negli anni successivi alla crisi finanziaria internazionale.
In ogni caso, tali sviluppi rischiano di produrre almeno due conseguenze a breve. In primo luogo, introducono un elemento di (ulteriore) dissonanza nella valutazione del quadro congiunturale da parte della Fed e della presidente Janet Yellen che solo l’altro giorno aveva confermato la possibilità di un imminente rialzo dei tassi di interesse. Ora, invece, appare assai improbabile che nella riunione del prossimo 14 giugno venga deciso tale rialzo.
Del resto, nel rapporto congiunturale rilasciato dalla Fed mercoledì, i suoi economisti non celano le difficoltà della ripresa in atto, definita nel medesimo rapporto modesta o moderata, mentre i nuovi dati danno apparentemente ragione alla Yellen nell’aver optato dall’inizio della sua presidenza per un approccio “data dependent”, le cui decisioni, cioè, si basano su un apprezzamento olistico e pragmatico degli sviluppi dell’economia, stante la difficoltà di stabilire relazioni strutturali tra le sue innumerevoli variabili nel contesto post-crisi.
Sul fronte esterno, tali sviluppi aumentano la pressione con cui le autorità americane seguono le dinamiche congiunturali e le politiche economiche delle altre economie sistemiche che potenzialmente compromettono l’accesso degli esportatori americani ai rispettivi mercati interni. Sotto la lente di ingrandimento, vi sono politiche del cambio, barriere non tariffarie ma anche politiche macroeconomiche che generano un eccesso di risparmio limitando il contributo alla domanda aggregata mondiale. Non è un caso che la visita asiatica del segretario al Tesoro, Jack Lew, appena cominciata, ha previsto una sosta in Corea del Sud, la cui economia è già sotto lo scrutinio dell’amministrazione per gli interventi che le autorità monetarie hanno effettuato sul mercato dei cambi.
Lunedì, a Pechino, il segretario Lew intende discutere con la sua controparte cinese la caduta di tensione nell’agenda riformista di Pechino e le implicazioni per l’economia mondiale di tale rallentamento. Imprese americane lamentano di una crescenta difficoltà per le imprese straniere a penetrare i mercati cinesi nonostante dichiarazioni pubbliche vadano esattamente in senso contrario. Per proteggere la fragile dinamica interna, le autorità di Pechino nicchiano sulla riforma delle aziende statali nonostante sia stata annunciata ormai da vari anni, perché timorose delle significative conseguenze occupazionali e sulla crescita dei consumi che la chiusura di molte di queste aziende improduttive genererebbe nel breve periodo. La conseguenza è che la sovraccapacità dell’industria cinese permane e, con essa, si accrescono gli incentivi a vendere sotto costo sui mercati internazionali e americani. Questo è proprio ciò che l’amministrazione vuole evitare.
Visto da Washington, l’accesso alla domanda estera si misura anche rispetto a quelle politiche che producono un eccessivo surplus di parte corrente, limitando, per tale via, il contributo alla domanda aggregata mondiale. È il caso dell’Eurozona e, in particular modo, della Germania, il cui surplus corrente rispetto al pil ha toccato il record dell’8,5 per cento del pil lo scorso anno. Se la ripresa americana dovesse stabilmente indebolirsi, le tensioni con l’Eurozona e con quelle economie che ne guidano il suo surplus sono destinate ad intensificarsi. Pertanto, la prospettiva per una ragionevole conclusione e in tempi relativamente brevi di un accordo transatlantico di libero scambio, il Tttip, rischierebbe di essere definitivamente compromessa.
Corriere 4.6.16
Negli Usa creati solo 38 mila posti, ma c’è piena occupazione
Le stime ne prevedevano 158 mila I senza lavoro scendono al livello minimo del 4,7%. L’impatto sulle decisioni della Federal Reserve
di Giu. Fer

Gli ultimi dati sul mercato del lavoro Usa pubblicati ieri alimentano il rompicapo della disoccupazione americana e complicano la decisione della Federal Reserve su un nuovo rialzo dei tassi, che la presidente Janet Yellen e altri governatori della Banca centrale considerano «appropriato».
A maggio sono stati creati 38 mila posti di lavoro, meno dei 123 mila nuovi posti di aprile (il dato è stato rivisto) e ancora meno dei 158 mila attesi dagli economisti. A dispetto del drastico rallentamento - è il peggior risultato dal settembre 2010 - la disoccupazione Usa è scesa dal 5 al 4,7%, un tasso che molti considerano piena occupazione. Si tratta del livello più basso dal novembre 2007. Negli anni precedenti la crisi finanziaria la media dei senza lavoro era stata del 4,6%, una percentuale salita fino a un picco del 10%, nel 2009, in piena crisi.
Sembrano numeri in apparenza contradditori. La spiegazione è che molti americani, non trovando un’occupazione idonea alle loro capacità, hanno smesso di cercarla, e sono usciti dalla forza lavoro. La conferma è che la partecipazione alla forza di lavoro il mese scorso è scesa al 62,6%, il livello più basso dell’anno.
Un’altra spia che desta preoccupazione sulla reale salute del mercato del lavoro americano è data dal numero dei lavoratori con un impiego part-time perché non riescono a trovarne uno a tempo pieno: il mese scorso sono aumentati di 468 mila unità, con un tasso stabile al 9,7%, agli stessi valori del 2008.
Sui dati pubblicati dal Bureau of Labour Statistics pesa lo sciopero di circa 31.500 lavoratori di Verizon, tanto che l’occupazione nel settore delle tlc a maggio ha perso 34 mila posti. L’accordo siglato il mese scorso tra azienda e sindacati, se ratificato, potrebbe riflettersi sui dati di giugno. Un segnale positivo arriva però dalle retribuzioni orarie nel settore privato, salite in media del 2,5% rispetto a un anno fa, a 25,59 dollari. Con due implicazioni importanti: salari che crescono ben più dell’inflazione implicano più reddito per i consumi, e quindi una nuova spinta all’economia. Ma se le retribuzioni aumentano forse significa che la disoccupazione americana è strutturale e mantenere i tassi vicini a zero per un prolungato periodo di tempo non solo no aiuterà a creare nuovi posti, ma potrebbe aumentare i danni collaterali indesiderati.
Ecco perché il compito della Fed è così complicato e le decisioni su un possibile rialzo dei tassi per nulla scontate.
Corriere 4.6.16
L’attacco di Hillary «Errore storico affidare a Donald i codici nucleari»

Eleggere Donald Trump, «nominarlo nostro commander in chief , sarebbe un errore storico», ha dichiarato Hillary Clinton, sferrando l’attacco più duro finora contro il candidato repubblicano. La «front runner» democratica, che a differenza del rivale non ha ancora conquistato la nomination del suo partito, ha definito il miliardario newyorchese un pericolo per la sicurezza dell’America e del mondo intero. In un discorso in California, dove martedì si terranno le ultime primarie importanti, Hillary ha ribadito la sua esperienza nei palazzi del potere — ex first lady, ex senatrice, ex segretario di Stato — per poi attaccare Trump: «inadeguato» e decisamente «non la persona a cui affidare» i codici di lancio nucleari. Il tycoon ha risposto tagliente: «La Clinton deve andare in galera». Hillary deve guardarsi anche dal suo rivale interno, Bernie Sanders, che secondo il Los Angeles Times è in vantaggio (di un solo punto) in California.
Corriere 4.6.16
Usa
Il Cesare democratico che non c’è
di Ernesto Galli della Loggia

È molto probabile che Hillary Clinton ottenga la candidatura per il Partito democratico alle prossime elezioni presidenziali americane,ed è quindi molto probabile che batterà il candidato repubblicano Donald Trump, diventando così presidente degli Stati Uniti. Ma come ha scritto qualche giorno fa il New York Times , nella corsa alla Casa Bianca di quest’anno l’impensabile sta diventando possibile. E dunque le cose potrebbero forse andare altrimenti. Potrebbe accadere che per varie ragioni — non ultima l’uso forse illegale della Clinton della propria mail personale per molte comunicazioni ufficiali — la sua popolarità, già non molto forte, cominci a vacillare; che la sua candidatura si mostri una candidatura sempre più debole, e che, come alcuni indizi già fanno intravedere, l’eventuale duello tra lei e Trump mostri di potersi risolvere a favore di quest’ultimo. In tal caso non è assurdo pensare che il Partito democratico possa allora decidere di puntaresul senatore Sanders, non casualmente rimasto finora in lizza.
Il fatto è che nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse decisivo. E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro il candidato repubblicano. In altre parole, sarebbe il populismo progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario.
P er l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima. Da tempo i suoi sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e autoritari. Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi. Ma proprio perché le cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta rovinosa.
La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal senatore Sanders: il populismo democratico. A un populismo di destra opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente — come farebbe senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato democratico — a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e degli affari. È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore. È la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico».
Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un populismo democratico? Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore, il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la deflazione e l’austerità; stare dalla parte della politica contro l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»).
Populismo democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però — si badi — è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità rispetto a quello reazionario. Significa innanzi tutto un «discorso» diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità, sul suo destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le oligarchie nemiche). Significa la capacità di richiamarsi credibilmente agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del declassamento sociale. Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla parola e al gesto simbolico. Rivolgendosi al cuore anziché alla pancia, come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario. Il primo è un profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che evoca i demoni sancendo tutti i tabù.
L’Europa però non sembra capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico. È la riprova del venir meno nelle sue élite e nelle sue culture politiche egemoni di ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto vero con il sentire profondo delle proprie società. È la conferma altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da tempo si attua dappertutto pressoché esclusivamente sulla base di meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico. In realtà nessun luogo come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico» costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive» di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean–Claude Juncker.
La Stampa 4.6.16
Varsavia crea una milizia paramilitare anti-Mosca
di Alessandro Alviani

Alla luce delle tensioni con Mosca la Polonia recluterà da settembre dei volontari da inserire in una nuova milizia paramilitare di difesa nazionale composta da 35.000 persone. L’annuncio è arrivato dal ministro della Difesa Antoni Macierewicz durante un congresso di gruppi paramilitari nel Nord del Paese. L’unità sarà formata da civili che riceveranno un addestramento militare. Le decisioni sulla struttura di comando e sulle nomine ai vertici sono state prese ad aprile, ha notato Macierewicz.
Grzegorz Kwaniak, l’uomo incaricato di mettere in piedi la milizia, ha spiegato che si tratta di una risposta al rischio proveniente dalla Russia di una «guerra ibrida», cioè di una possibile infiltrazione di militari sul territorio polacco, sul modello di quanto avvenuto nell’Ucraina orientale.
Ognuno dei 16 voivodati polacchi (paragonabili alle regioni) dovrebbero avere a disposizione una brigata della milizia, il voivodato della Masovia (quello di Varsavia, il più grande e popolato del Paese) ne avrà due. Entro inizio 2017 dovrebbero essere pronte le prime tre brigate, operative nelle aree orientali; le restanti vedranno la luce entro il 2019.
Varsavia non sembra dunque voler attendere le mosse della Nato, che si appresta a inviare quattro battaglioni (circa 4.000 soldati) nei Paesi baltici e in Polonia. La decisione dovrebbe essere ratificata al vertice Nato dell’8 e 9 luglio a Varsavia. «Non siamo in una nuova Guerra fredda» e «non vogliamo nessun conflitto con la Russia», né «una nuova corsa agli armamenti», ma abbiamo bisogno di un “deterrente credibile”, ha spiegato due giorni fa a Berlino il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, al termine di un incontro con Angela Merkel. È una mossa «di natura difensiva», ha aggiunto: «contribuiamo alla nostra difesa comune, non per provocare un conflitto, ma per evitarlo».
Si stima che oggi in Polonia 12.000 persone facciano parte di ronde e gruppi paramilitari, che hanno conosciuto un aumento dopo lo scoppio della crisi ucraina. Dal 7 al 17 giugno dei gruppi paramilitari polacchi già esistenti parteciperanno per la prima volta all’esercitazione Nato «Anaconda» in Polonia.
il manifesto 4.6.16
Israele boccia il summit di Hollande
Medio Oriente. Per il governo Netanyahu il vertice internazionale che si è svolto ieri a Parigi «allontana la pace» e «radicalizza i palestinesi». Il presidente francese va avanti e punta ad organizzare una conferenza a fine anno per rilanciare il negoziato. Ieri è tornata in libertà la parlamentare palestinese e dirigente del Fronte popolare (Fplp) Khalida Jarrar detenuta in Israele per 14 mesi
di Michele Giorgio

GERUSALEMME La Conferenza di Parigi «allontana la pace». È stata immediata e pesante la reazione del governo Netanyahu alla conclusione ieri del summit internazionale con i rappresentanti di una trentina di Paesi – ma senza israeliani e palestinesi -, organizzato dalla Francia per rilanciare la soluzione dei “Due Stati” e che dovrebbe portare, nei desideri dei francesi, a una conferenza internazionale entro la fine dell’anno. «Si tratta di una occasione perduta. – ha protestato con forza il ministero degli esteri israeliano – Invece che insistere con il presidente palestinese Abu Mazen affinchè riprenda le trattative dirette senza precondizioni la comunità internazionale gli ha permesso di continuare a sfuggire. Nella storia questa conferenza sarà ricordata per aver contribuito ad irrigidire le posizioni palestinesi». Per il premier israeliano Netanyahu c’è un’unica strada, quella degli ultimi venti anni: il negoziato bilaterale, ossia la trattativa dove Israele può imporre le sue condizioni al debole presidente Abu Mazen e ottenere un accordo svantaggioso per i palestinesi. Qualche ora prima dell’apertura del vertice parigino, il giornale filo-governativo Israel ha-Yom, aveva espresso apprezzamento per l’azione svolta dietro le quinte dall’Egitto, finalizzata a portare i laburisti nel governo Netanyahu, a conferma che l’esecutivo israeliano guarda con più fiducia alle iniziative degli alleati arabi che a quelle europee. A inizio settimana Netanyahu si era detto interessato a discutere il Piano Arabo di pace del 2002, elaborato dall’Arabia saudita con cui Tel Aviv ha segretamente stretto i rapporti negli ultimi 2-3 anni.
A Parigi non è stato deciso nulla che possa portare a uno spostamento effettivo del negoziato dal binario bilaterale a quello multilaterale, come teme Israele. Il presidente Hollande, aprendo il summit, ha detto che lo status attuale in Medio oriente, in Israele e Territori occupati, favorisce «gli estremisti di ogni parte». Quindi ha esortato israeliani e palestinesi a «fare la scelta coraggiosa della pace» altrimenti «questo vuoto verrà riempito da estremisti e terroristi». Il primo obiettivo della conferenza, ha aggiunto Hollande, «è confermare collettivamente che la pace passerà da due Stati, Israele e uno Stato palestinese, che vivono fianco a fianco nella sicurezza». Parigi non nasconde la speranza che la conferenza di fine anno, alla quale vuole anche israeliani e palestinesi, stabilisca i “parametri” che dovranno guidare la futura trattativa tra le due parti. Su tutto pesa non solo il rifiuto di Israele ma anche l’atteggiamento degli Stati Uniti. A Parigi c’era il Segretario di stato John Kerry ma Washington è tiepida verso l’iniziativa di Hollande e a fine anno potrebbe addirittura schierarsi contro la conferenza internazionale quando le chiavi della Casa Bianca verranno consegnate al repubblicano Donald Trump o alla democratica Hillary Clinton, entrambi, con motivazioni diverse, lontani dalla linea dell’Amministrazione Obama su questi temi.
Nelle strade di Israele e dei Territori occupati il summit di Parigi non ha suscitato reazioni, è stato ignorato dalla gente. A Ramallah migliaia di persone hanno festeggiato il ritorno a casa della parlamentare e dirigente del Fronte Popolare (Fplp, sinistra marxista) Khalida Jarrar dopo 14 mesi di detenzione in Israele. Jarrar, 53 anni, era stata arrestata ad aprile dello scorso anno e condannata a 15 mesi di carcere perché parte di una «organizzazione terroristica» e per «aver incitato al rapimento di soldati israeliani». Accuse gravi secondo la legge israeliana che tuttavia avevano prodotto una condanna relativamente lieve, a conferma, sottolineano i palestinesi, che contro Jarrar non esistevano prove e che contro di lei si è svolto un processo politico. La condanna secondo l’opinione di molti nei Territori sarebbe stata una ritorsione alla decisione di Khalida Jarrar di non restare confinata per sei mesi a Gerico su ordine dell’Esercito. Sei deputati palestinesi sono ancora detenuti in Israele, assieme a circa settemila prigionieri politici.
il manifesto 4.6.16
«Remain», Cameron in tv non convince
Londra. «Autolesionismo la vittoria del leave». Scontento tra i tories
di Leonardo Clausi

LONDRA Da consumato esperto di contraddittori qual è, David Cameron ha affrontato il primo grande dibattito televisivo della campagna referendaria: un’intervista con Faisal Islam, il caporedattore politico di Sky News24, con tanto di (nemmeno troppo velatamente ostile) pubblico in studio. La sua prima grande occasione per incendiare gli spiriti di vibrante estasi eurofila.
Volendo saggiamente evitare lo spettacolo gladiatorio di vari colleghi del suo partito che se le danno a colpi di leave o remain davanti alle telecamere, il primo ministro aveva imposto una serie d’interviste individuali a ciascun esponente (ieri è stato il turno dell’(ex) amico Michael Gove, leader del fronte del Leave) e la sua era, comprensibilmente, la più attesa.
Pur non essendo affatto la Bbc – per tacere di Sky News – quel baluardo di fulgida imparzialità giornalistica che il resto del mondo si ostina a venerare, la serata non ha avuto nulla a che fare con le telegenuflessioni praticate Per Necessità Familiari davanti al potente di turno cui siamo fin troppo abituati in una certa penisola mediterranea.
In 22 minuti di intervista, seguita da domande e risposte, «Dave» ha tenuto il suo terreno non senza una certa fatica. Ha cercato di giocare la parte del leader responsabile, che si occupa del benessere economico del paese. Ma il messaggio sembrava provenire da un ragioniere beige anziché da un leader politico, soprattutto quando ha ammonito che ogni nucleo familiare perderebbe £4.300 sterline in caso di uscita.
Ha operato una strenua difesa della propria rinegoziazione dei trattati a Bruxelles, insistito ad nauseam che il paese si trova in quello che ha accortamente ri-etichettato come «mercato unico» che impone una libera circolazione di uomini e merci e che uscirne significherebbe un immediato aumento dei prezzi e una contrazione dell’economia. Riferendosi a una vittoria del Leave, ha usato spesso l’espressione «ferita autoinflitta».
Islam (ex Channel 4), astro crescente della telepolitica nazionale, lo ha pungolato sulle ridicole promesse fatte sul controllo dell’immigrazione. Cameron ha insistito nell’obiettivo di voler mantenere il livello netto a 100.000 l’anno (al momento è 120.000). L’immigrazione è ora alta «per via dei tempi straordinari che stiamo vivendo. Ma scenderà, dal momento che l’economia europea è in ripresa». Già. In caso di vittoria del Leave «Cosa viene prima, la terza guerra mondiale o la recessione globale?», gli chiede a un certo punto il giornalista nell’ilarità generale, ironizzando sui toni da tregenda che si levano da quasi tutti i consigli di amministrazione della grande impresa nazionale e del settore finanziario rispetto all’uscita. Quanto al «mamma li turchi» innescato dal triste baratto fra Merkel e Erdogan per l’erezione della muraglia turca antimigranti Cameron lo ha così liquidato: «Ci metteranno 3000 anni a entrare nell’Ue». Si chiama visione di lungo periodo.
Non sarà stata una débâcle, quella di Cameron a Sky, e d’altro canto ha dalla sua parte voci non esattamente minoritarie come il Fmi, l’Ocse, i sindacati della Tuc e Mark Carney, il governatore della Bank of England. Ultima in ordine di tempo, un’istituzione che da sempre ha fatto della difesa dei diritti dei lavoratori la propria bandiera, la JPMorgan: a rischio 4000 posti di lavoro se Brexit, hanno ammonito. Ma è dentro al suo partito sfrangiato, dove abbonda lo scontento per come ha gestito la bollente patata referendaria che per lui si prepara il redde rationem.
il manifesto 4.6.16
Loi Travail: Valls non cede, la Cgt nemmeno
Francia . La polizia sotto accusa, per una repressione troppo violenta delle manifestazioni. Il primo ministro va allo scontro. Ovazione per Martinez (Cgt) al congresso del Pcf. Lo sciopero continua nelle ferrovie
di Anna Maria Merlo

PARIGI È lontano il tempo degli applausi alla polizia. Era solo qualche mese fa, dopo il dramma del Bataclan. Adesso, all’inizio del quarto mese di proteste contro la Loi Travail, le denunce contro il comportamento dei poliziotti si moltiplicano. Sono state sporte denunce a Saint-Malo, dove giovedì alcuni allievi di scuola media sono rimasti leggermente feriti e sono sotto choc in seguito all’intervento delle forze dell’ordine che intendevano riaprire l’accesso alla scuola: ragazzini, genitori e insegnanti stavano protestando contro l’annuncio della chiusura dell’istituto. Ha sporto denuncia anche il Club de la Presse di Rennes, in seguito a una carica della polizia, giovedì, in occasione di una nuova giornata di protesta contro la Loi Travail: degli agenti hanno usato i manganelli anche contro dei giornalisti, per impedire a un gruppo di manifestanti di bloccare una strada di accesso alla città della Bretagna. Ormai, i feriti alle manifestazioni che hanno luogo dallo scorso marzo non si contano più, un ragazzo ha perso un occhio, un fotografo è tenuto in coma artificiale in un ospedale parigino. La polizia ribatte di avere più di 350 feriti nelle proprie fila. Cresce la critica contro le tecniche repressive per il mantenimento dell’ordine, privilegiate dalla polizia francese, invece di quelle destinate a far diminuire la tensione.
Il nervosismo aumenta in Francia, dove varie zone in queste ore (soprattutto attorno alla capitale) devono anche far fronte alle inondazioni, che colpiscono l’attività economica, già rallentata dal clima sociale. Questo fine settimana Manuel Valls dovrebbe di nuovo avere un contatto telefonico con Philippe Martinez, segretario della Cgt. Ma il primo ministro non ha nessuna intenzione di cedere e ritirare la Loi Travail, malgrado un crollo degli indici di consenso (intorno al 14%). Valls fa una scommessa sul proprio avvenire politico: è convinto che se «tiene duro» potrà trasformarsi nel Blair francese e avere un glorioso futuro di fronte a sé. Dal canto suo anche Martinez tiene duro: ieri si è recato al congresso in corso del Pcf, a Aubervilliers, dove è stato accolto con una standing ovation. Il Pcf, in difficoltà per la crisi del Front de Gauche e la decisione di Jean-Luc Mélenchon di correre alle presidenziali del 2017 senza passare per eventuali primarie a sinistra (o a sinistra della sinistra), si aggrappa alla Cgt.
Per il momento regna confusione: continua lo sciopero dei treni (anche se la partecipazione è in calo), la Sncf (la Società nazionale delle ferrovie francesi) ha sospeso le vendite di biglietti per il sud della Francia, ma
Cgt e Sud Rail confermano il proseguimento «illimitato» della protesta, malgrado l’appello della direzione per sospendere il movimento a causa delle inondazioni; tre su quattro siti di trattamento dei rifiuti della regione parigina sono bloccati; nelle raffinerie, invece, c’è qualche segnale di ripresa del lavoro. Poi, ci sono le minacce di sciopero dei piloti Air France dall’11 al 14 giugno (che non c’entrano con la Loi Travail). Una minaccia pesa sull’Euro di calcio, che inizia il 10, con la manifestazione nazionale programmata per il 14 e proteste in varie categorie. Il Medef (la Confindustria francese) chiede un intervento d’urgenza al ministero delle Finanze per la piccola e media impresa «destabilizzata» da inondazioni, protesta sociale e crescita molle. Valls è convinto che la confusione alla fine farà cambiare idea all’opinione pubblica. Il primo ministro vuole arrivare a vari «chiarimenti», «riformando» la Francia a colpi di autoritarismo: «chiarimento» con i sindacati e alleanza con i «riformisti» (che potrebbe però non tenere se la tensione non cala); nel Parti Socialiste, dove Valls sogna l’affondo contro la «fronda» che ha aderito a una mozione di sfiducia con l’intenzione di far cadere il governo (senza riuscirci), contro il ricorso all’articolo 49.3 per far passare la Loi Travail senza voto all’Assemblée; infine, «chiarimento» nella rivalità con la destra, dimostrando che i social-liberisti sono i più riformisti.
Corriere 4.6.16
Il deputato Sariyildiz porta le foto all’Onu
«I video lo provano. Stanno schiacciando il mio popolo»
di Alessandra Muglia

«Sono vivo per miracolo, con questa intervista sarò ancora di più in pericolo». Faysal Sariyildiz, 40 anni, è dal 2015 deputato ad Ankara per il partito filo curdo Hdp. Ex giornalista, ex assessore, non lo hanno piegato cinque anni di carcere turco. Ora rischia, se gli va bene, di ritornare in cella. Ha voluto restare tra la sua gente a Cizre, durante oltre due mesi di assedio, e poi ha fatto il giro dell’Europa per raccontare l’orrore che ha visto. Parla da Ginevra, dove ieri ha incontrato il Consiglio Onu per i diritti umani: spera in un’indagine internazionale che accerti i crimini contro l’umanità compiuti contro i curdi. Ne ha raccolto le prove: video e fotografie per la prima volta diffuse oltre il Kurdistan.
«Quando ho saputo che sarebbe stato dichiarato il coprifuoco lo scorso 14 dicembre, ho preso un volo da Ankara e mi sono diretto a Cizre. Avevamo già visto in passato che quando viene dichiarato il coprifuoco, lo Stato applica una violenza senza limiti contro le abitazioni dei curdi. Per poter dare voce alla popolazione sotto assedio, ho deciso di essere presente».
Si è sentito in pericolo?
«Il 20 gennaio con il sindaco di Cizre e gli assessori siamo andati a recuperare i feriti e i cadaveri da giorni sulle strade. Al ritorno, nonostante la bandiera bianca, hanno sparato su di noi. Un assessore e altre 2 persone sono rimaste uccise, 12 feriti. C’è un video che documenta questo episodio, e proprio per queste immagini sono stato accusato di aver fatto entrare armi a Cizre, nascondendole in una bara».
Che cosa l’ha sconvolta di più ?
«Ho assistito a Cizre a un brutale massacro. In 79 giorni di assedio sono morte 259 persone: 177 di loro sono state bruciate vive dalle forze governative mentre erano nascoste nei rifugi sotterranei. Tra di loro universitari, giornalisti, politici, attivisti. Ogni giorno mi chiamavano, mandavano sms per chiedere aiuto».
Un aiuto che lei non poteva dare...
«Durante l’assedio ho perso molti miei amici. Molti di loro sono stati uccisi poco dopo aver parlato con me. Il 7 febbraio, Asya Yuksek, presidente dell’assemblea popolare di Sirnak, mi ha avvertito con un sms: “Le condizione dei feriti è molto grave: si contorcono dal dolore, non riesco a rimuovere i vestiti, mani e volti bruciati”. Asya con altre 50 persone aveva trovato rifugio in un edificio poi raso al suolo. Tra le macerie sono stati rinvenuti decine di corpi bruciati, a brandelli. Compreso quello di Asya: è stato possibile identificarla solo 2 mesi dopo grazie al Dna. Mehmet Tunç, presidente dell’assemblea popolare di Cizre, in collegamento telefonico a una conferenza tra curdi, Turchia e Ue al Parlamento europeo il 27 gennaio, aveva lanciato un appello: “Vi preghiamo di fermare questa atrocità. Avete la forza per fermare questo massacro. In caso contrario, vi considereremo complici”. Mehmet è stato assassinato in uno scantinato. Di lui è rimasta una manciata di ossa».
L’Europa ha la forza di contrastare le derive autoritarie di Erdogan?
«In Europa c’è consapevolezza sul fatto che Erdogan guidi un governo antidemocratico. Purtroppo però Ankara usa la carta dei migranti e le forze politiche europee stanno perseguendo un pragmatismo miope».
Il Sole 4.6.16
I massacri nel Kurdistan e le ambiguità dell’Occidente
Gli attacchi a Diyarbakir e Cizre sono (purtroppo) una vecchia storia
di Alberto Negri

Erdogan è il presidente di un Paese della Nato che ancora aspira, almeno a parole, all’ingresso nell’Unione europea e con la quale comunque fa accordi: eppure nessuna voce si è levata in questi anni per protestare contro quello che accade in Turchia. Soltanto qualche flebile e intermittente avvertimento di Washington e Bruxelles presto soffocato dagli interessi che legano Ankara all’Occidente. Non meravigliamoci se adesso si scoprono stragi e massacri, ne avevamo già dato notizia.
Il 30 ottobre scorso, alla vigilia delle ultime elezioni, gli elicotteri sorvolavano Diyarbakir, capitale del Kurdistan, Cizre e Silvan: all’ora più buia prima dell’alba si muovevano le ombre dei corpi speciali e nel terrore regolavano i conti sanguinosi di guerriglie, stragi e attentati. I giornalisti venivano tenuti lontani o arrestati. Carri armati e artiglieria erano in azione ovunque, al punto di colpire nel pieno centro storico di Diyarbakir, a Sur, una moschea del 1500. Fumo e macerie, scoppi e raffiche di mitra tra grida di bambini.
Questo è accaduto nei 79 giorni di assedio che hanno devastato Cizre: lontano dagli occhi del mondo si stava compiendo una strage di civili, 259 morti, 177 bruciati dalle forze di sicurezza mentre erano nascoste nei rifugi sotterranei. Gli altri sono stati colpiti dai cecchini o lasciati morire in mezzo alle strade, ostacolando i soccorsi e i ricoveri ospedalieri.
Tra i tanti errori compiuti da Erdogan in questi anni forse il più gravido di conseguenze è come ha affrontato la questione curda, un conflitto che dura da oltre trent’anni, divide la Turchia e rende problematica anche la sua politica mediorientale. Ha assistito all’assedio dell’Isis a Kobane, la città siriana di fronte a Suruc, prendendo a bastonate i volontari curdi al suo confine: eravamo lì il primo ottobre 2014. Il risultato è stato che non solo i curdi siriani si sono liberati dal Califfato ma adesso con l’aiuto di russi e americani avanzano e si sono ritagliati il Rojava, un’area autonoma alla frontiera.
Erdogan minaccia di entrare in territorio siriano per tenerli a bada perché si sta materializzando il peggiore incubo strategico di Ankara: un possibile stato curdo ai suoi confini. Vorrebbe portare il conflitto contro i curdi al di là della frontiera, travestendolo da una guerra contro il Califfato che non ha mai combattuto. Anzi è stato proprio lui con l’ex premier Davutoglu ad aprire l’”autostrada” della Jihad” per convogliare in Siria gli estremisti islamici che avrebbero dovuto abbattere il regime di Assad, altro calcolo sbagliato del leader turco che cinque anni dopo si trova a fronteggiare anche la Russia di Putin. Sia chiaro: questi errori non sono stati soltanto suoi ma anche dell’ex segretario di stato signora Hillary Clinton e della Francia che pensavano di usare la Turchia come testa di ponte.
L’escalation è stato il risultato di un’altra decisione fatale. La road map di Erdogan è stata semplice e brutale: rottura dei negoziati con Abdullah Ocalan, il carismatico capo del Pkk incarcerato a Imrali, dichiarazione dello stato di assedio nell’Anatolia del Sud Est, nuove azioni di guerra contro il Pkk e scioglimento del parlamento dove nel giugno 2015 erano entrati per la prima volta i deputati del partito-filo-curdo Hdp di Demirtas. In un clima di conflitto interno e segnato da attentati spaventosi ha convocato elezioni a novembre dove ha stravinto e ora si prepara a varare piani per una repubblica presidenziale espellendo i curdi dall’assemblea nazionale. Nessuno ferma Erdogan e ora l’indignazione occidentale appare tardiva anche un po’ ipocrita.
Corriere 4.6.16
Uno squarcio dalle zone off limits Così Erdogan bombarda i curdi
di Lorenzo Cremonesi

Carri armati schierati alle entrate dei villaggi e sulle alture dominanti. Ogni tanto uno sparo, o un rombo più cupo, con rumori di macerie smosse e raffiche isolate. Ma a fare più impressione sono le voci umane, ovattate, lontane, brusii, eppure ben distinguibili: il grido di un bambino, acuti di donne, urla nel cielo. Era quello che si poteva osservare e udire già a fine dicembre scorso dalle regioni siriane controllate dalle milizie curde confinanti con la Turchia sud-orientale. «È un massacro. L’esercito turco impone il coprifuoco e poi attacca, ricorre alla forza bruta in modo indiscriminato, spara sui civili, uccide e non permette l’arrivo delle ambulanze, ci sono cadaveri nelle cantine», gridavano i pochi profughi che riuscivano a fuggire da Cizre, Nusaybin, Mardin, Ceylanpinar, ma anche dalla città di Batman e persino da Diyarbakir, più all’interno, considerata la «capitale» dei curdi in Turchia. Ieri le autorità turche hanno annunciato la fine delle operazioni anti terrorismo a Sirnak e Nusaybin.
Ogni venerdì pomeriggio i responsabili delle Ypg e Ypj, rispettivamente le formazioni armate maschili e femminili dei curdi siriani si coordinavano con i «fratelli e sorelle» del Pkk (l’organizzazione paramilitare dei curdi in Turchia accusata di terrorismo da Ankara e parte della comunità internazionale) per inscenare manifestazioni di protesta lungo il confine, proprio di fronte ai fili spinati e i campi minati. Ma poteva essere pericoloso. Capitava che i cecchini turchi girassero i fucili ad alta precisione e sparassero diretti nella folla, causando vittime.
Allora l’attenzione internazionale era però soprattutto concentrata sulla guerra contro Isis. La repressione turca contro la minoranza curda passava come l’ennesima ondata di violenze locali, l’ultima di una lunga serie. Oggi la situazione è diversa. Sono proprio le testimonianze di pochi coraggiosi come Faysal Sariyildiz, oltre ad attivisti locali per i diritti umani e uno sparuto gruppo di fotografi e giornalisti ad enfatizzare un quadro estremamente grave.
Recep Tayyip Erdogan ha scelto la guerra aperta contro i curdi. In pochi mesi il presidente sempre più sultano è tornato allo scontro frontale in risposta al terrorismo degli estremisti curdi, i quali a loro volta reagiscono con nuovi attentati, provocando una catena di violenze infinite. È il collasso della parentesi del dialogo: quello che dalla metà del 2012 al giugno dell’anno scorso aveva visto negoziati diretti addirittura tra Erdogan e Abdullah Ocalan, il leader indiscusso del Pkk chiuso nelle carceri turche dal 1999. Ormai quel cessate il fuoco è morto e sepolto. In Turchia si è tornati ai periodi peggiori della lunga guerra tra Stato e Pkk, che dal colpo di Stato militare nel 1980 a cinque anni fa aveva provocato più di 40.000 morti, la distruzione di almeno 3.000 tra villaggi e cittadine, oltre alla metodica persecuzione culturale e linguistica dell’identità curda.
Una minoranza controversa, in dubbio soprattutto dopo lo smantellamento dell’Impero Ottomano, la nascita dello Stato moderno nel 1923 e l’esaltazione del nazionalismo kemalista assolutamente determinato ad enfatizzare l’omogeneità del Paese contro ogni forza centrifuga. Risulta tabù persino il loro numero. Quanti sono? Oltre il 30% della popolazione, come sostengono loro; o meno del 10%, come dice il governo?
Il problema maggiore nel conoscere, approfondire e diffondere la dimensione della guerra anti curda è ora costituito dalla censura contro giornalisti, blogger e chiunque provi a recarsi sui posti. Erdogan è impegnato in prima persona. «Qui è peggio di Kobane», grida la gente di Cizre. Quasi 135.000 persone sotto coprifuoco duro da metà dicembre, come del resto lo sono gli abitanti di Diyarbakir e un numero enorme di nuclei urbani minori sparsi sino sulle montagne al confine con il Nord Iraq.
Ankara denuncia che centinaia di suoi soldati sono stati uccisi e proclama l’eliminazione di 600 «terroristi». I curdi parlano di forse 2.000 morti tra la loro gente. Ma verificare questi numeri resta estremamente difficile. Le zone sotto coprifuoco sono bloccate. I giornalisti locali vengono arrestati se provano a parlarne. Quelli stranieri vengono espulsi. Visti negati, uffici perquisiti e chiusi: per non avere guai molti tra la stampa estera in Turchia evitano di recarsi nelle zone difficili.
Sembra l’Iraq ai tempi di Saddam. Tanti tra i quasi 2.000 docenti turchi che pochi mesi fa hanno firmato un appello pubblico per porre fine alla repressione sono stati licenziati o restano sotto inchiesta. Diversi fotografi che hanno provato a raggiungere quelle regioni sono stati minacciati, gli apparecchi requisiti. Agli aeroporti gli agenti possono controllare persino computer e cellulari per verificare che non vi siano video o immagini «vietate». Pochi giorni fa una docente europea che insegna ad Ankara raccontava che le autorità chiedono «discrezione» e «autocensura». Chiunque tra gli stranieri parli pubblicamente della questione curda rischia il posto e non poter più lavorare nel Paese.
La Stampa 4.6.16
Erdogan, sultano d’Africa
A Mogadiscio la porta per la conquista ottomana
In Somalia ha fatto scena sbarcando con le forze speciali
Nel Continente stringe accordi senza badare ai diritti umani
di Giordano Stabile

Il sogno imperiale di Erdogan non è limitato al Medio Oriente. Il presidente turco ha visto, fin dalla sua prima elezione, una nuova frontiera nell’Africa. In quindici anni ha sviluppato una impressionante rete di relazioni. La visita di ieri di Erdogan a Mogadiscio per inaugurare la nuova ambasciata riassume tutta la politica neo-ottomana nel Continente. Dal 2009 a oggi Ankara ha inaugurato 23 ambasciate, ha ora rappresentanze al massimo livello in 39 Paesi e, come ha detto Erdogan, vuole arrivare in «tutti e 52» i Paesi africani.
La Turkish Airlines è stata la prima compagnia europea ad aprire un volo diretto con Mogadiscio, nel 2012. Nel 2015 è diventato il primo vettore per numero di collegamenti in Africa, 39 destinazioni. L’aeroporto internazionale della capitale somala è stato costruito con il finanziamento di Ankara. Erdogan è andato a inaugurarlo nel 2015 e quello di ieri è stato il terzo viaggio in Somalia in 5 anni. Una presenza costante, capillare, e incondizionata. La Turchia, come la Cina, investe e finanzia senza chiedere rispetto dei diritti umani. E questo l’avvantaggia rispetto a Ue e Usa.
I risultati si sono visti prima di tutto nell’economia. Nel 2015 il volume del commercio con l’Africa sub-sahariana ha superato gli 8 miliardi di dollari, dai 742 milioni del 2000. Ma con tecnici e imprenditori sono arrivati anche i militari. La Turchia partecipa a cinque missioni nel continente (in Congo, Darfur, Sud Sudan, Costa d’Avorio, Liberia) e gioca una partita politica sua.
La partita libica
Ankara vede due principali porte d’ingresso per i suoi interessi nell’Africa sub-sahariana: Libia e Somalia. In Libia si è schierata con Tripoli contro Tobruk, ma ora ha riconosciuto il governo di unità di Fayez al-Serraj. Soprattutto perché si appoggia alle milizie di Misurata, città vicina ai Fratelli, la più fedele fra quelle libiche all’Impero ottomano. Un volo diretto della Turkish Istanbul-Misurata suggella l’alleanza. L’appoggio a Misurata è anche in funzione anti-Egitto, sponsor di Tobruk e del generale Khalifa Haftar. I rapporti con il presidente al-Sisi, reo di aver rovesciato il predecessore fratello musulmano, Mohammed Morsi, sono pessimi, anche se l’Arabia Saudita media per ricomporre l’asse fra le tre potenze sunnite. Erdogan ha ottimi rapporti invece con il presidente sudanese Omar al-Bashir, ricercato dall’Aia per crimini contro l’umanità.
Il Corno d’Africa
Altro alleato nella regione, con un rispetto dei diritti umani forse peggiore di quello del Sudan, è l’Eritrea. A Gibuti, minuscolo Stato dalla posizione strategica all’imbocco del Mar Rosso, Ankara è stata superata dagli Emirati arabi uniti, rivali di Qatar, Turchia e Fratelli musulmani. Ma Erdogan ha risposto con la Somalia. È il centro della sua politica africana. I turchi stanno allestendo una base militare vicino a Mogadiscio per addestrare le forze anti-terrorismo. Ankara ha modernizzato il porto, realizzato ospedali e scuole. La Somalia è stata alleata dell’Impero ottomano fin dal 1500, quando il Sultanato di Adal intraprese una serie di guerre espansioniste verso l’Abissinia e l’Etiopia. La Turchia moderna ha riallacciato le relazioni nel 1979. Durante la carestia del 2011 le Ong turche sono state in prima linea con gli aiuti. Da allora i rapporti sono strettissimi. L’ambasciatore ha tentato una mediazione fra governo e i jihadisti di Al-Shabaab, senza esito. Ora Erdogan, che ha esibito i muscoli nella sua visita, scortato dalle forze speciali, vuole essere in prima linea nella distruzione del gruppo islamista. Anche per rinsaldare i rapporti con un nuovo alleato, il Kenya cristiano al 90%.
Repubblica 4.6.16
Il regista Atom Egoyan: “Ammettere la complicità svela le menzogne della Storia”
“Il coraggio di Berlino aiuta a cancellare l’oblìo del mio popolo”
intervista di Arianna Finos

«DOPO la condanna tedesca il governo turco non potrà continuare a negare il genocidio armeno. Perciò aspetto con ansia il prossimo passo». Il regista Atom Egoyan, canadese di origine armena, si batte da sempre per mantenere viva la memoria dell’eccidio, che ha anche raccontato nel pluripremiato Ararat.
Cosa pensa della decisione del Bundestag?
«La Germania ha dato prova di grande autorità morale, con un altro esempio straordinario di come ha saputo riconciliarsi con un capitolo oscuro del proprio passato. È stata alleata dell’Impero Ottomano e c’è una forte evidenza della sua consapevolezza, della complicità nel Genocidio Armeno. Che fu una sorta di prova generale di Olocausto: i tedeschi impararono dai turchi come sotto la copertura della guerra si potesse perpetrare un crimine come quello».
Perché la decisione è arrivata proprio ora?
«Non l’avrei immaginato, infatti. Ho letto libri, visto documentari tedeschi, so che nel paese si discuteva. Ma è stato molto coraggioso farlo in un momento tanto delicato, e senza trarne vantaggi, anzi. La Germania ha bisogno più che mai, con l’emergenza immigrazione, di avere un buon rapporto con la Turchia. Ma ha vinto il desiderio morale di riconoscere i propri errori».
Che significa per gli armeni, per lei?
«È un grande momento. Anche se non sentiamo più, come un tempo, che il nostro è stato un genocidio dimenticato, dopo il riconoscimento dello scorso anno e la dichiarazione di papa Francesco. Resta la tristezza per tutti gli armeni morti pensando che il loro dramma era stato negato e dimenticato. In troppi hanno creduto di morire sepolti nell’oblio».
La sua vita e il suo cinema sono influenzati dal trauma del genocidio.
«Aver subito uno sterminio di massa è qualcosa che ti accompagna per sempre. Un trauma che, ancor più se negato, si tramanda attraverso le generazioni. Ma se siamo arrivati al traguardo di oggi è anche grazie all’impegno di intellettuali e artisti armeni che hanno tenuto viva la memoria anche quando il mondo sembrava indifferente. Non c’è un altro evento di questa portata che sia ancora negato: l’Unione sovietica ha ammesso i crimini di Stalin, i giapponesi affrontano il massacro di Nanchino. La decisione tedesca consegna una lezione fondamentale».
Quale?
«Che anche se chi ha perpetrato un crimine continua a negarlo, esiste la possibilità di un riconoscimento internazionale. E che se si insiste nel rifiutare la menzogna, le cose possono cambiare. Oggi viviamo in una comunità globale in cui ciascuno è responsabile anche delle azioni, e trasgressioni, degli altri. I miei film hanno sempre affrontato il tema della verità: bisogna fare i conti con il passato, anche il più crudele. Nascondendolo, è la nostra umanità a venire distrutta».
Il governo turco ha reagito con durezza.
«Era prevedibile. Non si vuole credere di essere stati capaci di tali orrori. Ma è assurdo continuare a dipingersi come vittime delle menzogne dell’Occidente. Va anche detto con chiarezza che ogni popolo si può rivelare capace di azioni come queste, tutti dobbiamo restare in guardia. Per anni noi canadesi abbiamo creduto di essere stati più umani e giusti degli Usa verso i nativi. Poi abbiamo scoperto che non era così, e abbiamo affrontato le conseguenze di questa terribile verità».
In Turchia qualcosa sta cambiando...
«Ci sono associazioni, ma anche individui coraggiosi che non vogliono più chiudere gli occhi. La scorsa estate ero in Turchia e sono rimasto impressionato dal cambiamento: fino a dieci anni fa la questione non sarebbe stata nemmeno affrontabile».
Con chi avrebbe voluto condividere questo giorno?
«Con mia nonna. È stata un’orfana del genocidio. La canzone principale del film Ararat si chiama Yeraz, “sogno” ed era dedicata a lei. Volevo che lei, ovunque fosse, potesse vedere dove siamo arrivati oggi. Da ragazzina, dopo il “grande trauma”, non sapeva nemmeno dove fosse nata e chi fossero i suoi genitori. Ecco, mi piacerebbe che ora sapesse che la sua storia è ancora viva».
La Stampa 4.6.16
Bonino: “I turchi non romperanno con Berlino perché cercano altre concessioni”
“Il presidente non vuole guai con l’Europa. Gli serve per avere il via libera alle sue riforme”
intervista di Francesca Schianchi

«Erdogan può anche sputare fuoco e fiamme contro la Germania, ma la sua priorità in politica interna è la riforma presidenziale che gli darebbe pieni poteri. E per ottenerla senza avere reazioni dall’Europa, è pronto a continuare a tenere sotto controllo il flusso dei migranti nell’Egeo». 
Lei crede, Emma Bonino? Nessuna ripercussione dopo il riconoscimento tedesco del genocidio armeno?
«Da radicale conosco bene la questione del genocidio armeno. Ventinove Paesi l’hanno già riconosciuto – dall’Italia alla Russia alla Francia - e ogni volta i turchi hanno protestato, senza mai rompere i rapporti diplomatici. Anche stavolta non hanno ritirato l’ambasciatore, ma solo richiamato per consultazioni».
Eppure i toni sono stati duri: tutto fumo?
«La retorica di Erdogan la conosciamo, è sempre stato sopra le righe. Ma nella sostanza ha tutt’altro per la testa».
La riforma presidenziale?
«In politica estera, la questione curda. E in politica interna, la riforma presidenziale: è la sua priorità, a ogni costo. A costo di togliere l’immunità parlamentare all’opposizione interna – sperando così di arrestarne una parte, abbassare la soglia dei votanti e raggiungere i due terzi di voti richiesti per cambiare la Costituzione - e a costo di tenersi i migranti, pur di non avere reazioni dall’Unione europea. Penso abbia anche messo in conto di non riuscire a ottenere a breve la liberalizzazione dei visti».
Sta parlando dell’accordo Ue-Turchia sulla gestione dei migranti: lo sa che ieri Amnesty International l’ha definito «sconsiderato e illegale»?
«Ha ragione. Siamo così supplicanti che non vogliamo nemmeno sapere cosa ne fa la Turchia di questi migranti. E chiudiamo gli occhi sull’involuzione autoritaria in corso nel Paese. Una specie di patto tacito e diabolico per cui in cambio del blocco dei migranti si è silenti su quel che succede in Turchia». 
Tipo pressioni sui giudici e giornalisti incarcerati...
«È giustissimo riconoscere il genocidio armeno, ma non vorrei che fosse un modo per non guardare il presente».
Perché secondo lei la Turchia non riesce ad ammettere le sue colpe sul genocidio armeno?
«La Turchia aveva istituito una commissione mista di storici sull’argomento, poi la deriva di Erdogan ha preso tutta un’altra strada, riportando in auge un impulso nazionalista in realtà mai scomparso ma in qualche fase sopito». 
Eppure c’è stata una fase in cui la Turchia sembrava davvero poter entrare in Europa. Anche lei ci ha creduto, vero?
«Nel 2004-05, una grande apertura alla Turchia era veramente possibile. Fu l’Europa a sbagliare, quando, dopo l’apertura dei negoziati, i capi di Stato e governo, soprattutto Merkel e Sarkozy, dissero no e proposero una “special partnership”».
C’è chi pensa che il rifiuto europeo abbia spinto la Turchia verso un’involuzione: è d’accordo?
«Sono intervenuti molti altri fattori, dal boom economico all’arroganza e il senso di sé, ma certo non mantenere la parola ci ha reso partner poco credibili».
Con la sua visita in Somalia, unico leader non africano da decenni, Erdogan prova a ritagliarsi un ruolo da leader mediorientale?
«Il tentativo l’ha già fatto: pensi a quando andò in Egitto ai tempi delle primavere arabe a proporsi come modello. Ma ha fallito, passando in politica estera da “nessun problema coi vicini” a un sacco di problemi con vicini e lontani, come la Russia. Se ora cerca alleati in Somalia, gli si può solo fare gli auguri».
Come dovremmo rapportarci con la Turchia?
«Ammesso che l’accordo sciagurato e sbilanciato che abbiamo stretto funzioni, quando ci si pone come supplicanti in ginocchio si perde qualunque leva politica: Erdogan continuerà a usare i migranti come un rubinetto che apre e chiude. Dovremmo arrenderci al fatto che sono inutili i muri e pensare a una politica di integrazione».
Ha perso le speranze che la Turchia possa entrare un giorno in Europa?
«Niente è più fragile della politica: una dittatura un giorno può esserci e il giorno dopo no. Mentre la geografia è più stabile. Ma avere una posizione più rigorosa oggi, sarebbe un buon presupposto per una possibile svolta turca che nessuno può escludere».