sabato 17 giugno 2006

Liberazione 17.6.06
Alcune risposte sulla lettera di Simone di ieri


Sandro Penna
Ieri abbiamo pubblicato una lettera, firmata Simone, nella quale si esprimevano forti perplessità su un articolo di Saverio Aversa (pubblicato il giorno prima) che conteneva una frase del poeta Sandro Penna sulla sua passione per gli adolescenti del suo stesso sesso.

Cos’è che vi crea problemi?
Caro Simone, poiché, in quanto scrivi nella tua lettera del 16 giugno, è evidente un bisogno di chiarezza e di comprensione, io, che mi definisco lesbica (ma sono anche molto altro: una compagna, ad esempio) vorrei innanzitutto chiederti di distinguere la pedofilia: un rapporto dispari per età ed esperienza, dall’omosessualità: un rapporto amoroso, e anche sessuale, con persone dello stesso sesso. E’ quest’ultimo tipo di relazione che ti/vi crea problema? e per quali motivi? Se sì, sono disposta ad interloquire con te e con i tuoi compagni partendo dalla mia vita. Oppure è il desiderio per un altro “impari” per età, esperienza, ceto sociale che non approvi? Ricordo solo che la disparità fa parte della tradizione nel rapporto uomo/donna e proprio per questo è considerato normalissimo che un uomo possa essere superiore per età, esperienza, censo della donna di cui si innamora. Se pensi alla tua esperienza e alle tue emozioni credi davvero che ci siano delle regole per far scattare il desiderio amoroso, le fantasie, per sentire battere il cuore? L’imposizione dei propri desideri sull’altro con la violenza o il denaro (che tanto ci fanno orrore) fanno parte storicamente del rapporto uomo/donna più che dei rapporti omosessuali. Infatti la prostituzione è vecchia come il mondo e la violenza – in famiglia - è la prima causa di morte tra le donne dai 20 ai 40 anni di ogni continente e in ogni classe sociale (dati Onu). Vogliamo provare a fare delle distinzioni e a nominare che cos’è che turba dell’amore omosessuale? Ti ringrazio per la sincerità e la passione con cui hai scritto i tuoi pensieri e spero che “Liberazione” possa, partendo dalla tua lettera, aprire un dibattito e uno scambio di pensieri e sentimenti tra noi lettori perché se non riusciamo a capirci tra di noi come potremo cambiare la nostra società e addirittura il mondo? Un abbraccio a te e ai compagni della Magliana.
Anita Sonego via e-mail

Orgoglio e pregiudizi
Cara “Liberazione”, il 15 giugno abbiamo festeggiato ad Albano il centenario della nascita di Penna presentando la biografia dedicatagli da Pecora, felici che il giornale onorasse “l’altissimo poeta” con l’agile ritratto di Aversa. Ragazzi e persone anziane, uomini e donne di ceto e orientamenti diversi hanno seguito attentissimi gli interventi dove è emersa potente l’impossibilità di castrare (men che mai per motivazioni moralistiche e sessuofobiche) l’avventura umana di un artista e l’importanza che l’eros e le relazioni affettive rivestono nella sua vita, come in quella di ciascun terrestre. L’idea che la poesia debba astrarre dalle condizioni materiali e dalle coordinate spazio-temporali di uno scrittore pare francamente bislacca: perché se un tema come la passione per gli adolescenti finisce per vivificare un’intera opera, non solo non se ne dovrà prescindere, ma nulla potrà autorizzare alcun tipo di sprezzante censura o condanna. Frutto di un delirio clericale e reazionario perdurante da secoli, la confusione che mira ad assimilare gay e “corruttori di bambini” è da sempre un cavallo di battaglia del discorso omofobico: come tutti i pregiudizi si basa sul nulla, se si tien conto che la stragrande maggioranza delle violenze sessuali ai danni di minori di 14 anni viene consumata all’interno delle mura domestiche e delle reti parentali, potendo contare sulla densa cortina fumogena della paura e dell’omertà. Ciò nulla toglie alla legittimità di battersi perché i ragazzi “in età di consenso” (a questi Penna rivolgeva la sua tenerezza, considerandosi loro compagno di viaggio: giovani operai, soldati di leva...) possano affermare i propri naturali orientamenti sessuali, contraccambiando l’amore di chi li ama e rispetta: senza limiti di anagrafe, di classe e cultura.
Daniele Cenci via e-mail

Pedofilia e delinquenza
Posso complimentarmi con lei, caro Sansonetti? La risposta alla lettera di Simone, che protesta per un articolo di Saverio Aversa su Liberazione, è bella e giustissima. Sul termine “pedofilia” si è creata, specialmente negli ultimi tempi, un bella confusione. Pedofilo è diventato sinonimo di pervertito, maniaco, delinquente insomma, ma le cose non stanno così. La definizione sull’enciclopedia Garzanti è questa: «Attrazione erotica per bambini o adolescenti del proprio o dell’altro sesso, che non si traduce necessariamente in atti sessuali». C’è una sola piccola imprecisione nella sua risposta, quando definisce l’attrazione per un corpo di adolescente “peccato”, anche se tra virgolette. Almeno per quanto riguarda l’attrazione eterosessuale, il peccato proprio non c’è. Sa a che età si sposavano le ragazze ebree al tempo di Gesù? Appena considerate nubili, vale a dire legalmente a dodici anni e mezzo! «Quando mise al mondo Gesù la Vergine Maria non doveva avere più di quattordici anni» (Henri Daniel - “Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù”).
Veronica Tussi via e-mail


Corriere della Sera 17.6.06
Tensione sul Partito democratico. E Mussi pensa a una fondazione
(...)La sinistra medita lo strappo...


ROMA - «Sono allibito, perché io so cosa significa chiudere una bottega...». Da ultimo segretario del Ppi ha traghettato nella Margherita buona parte di quel che restava della Dc e ora Pierluigi Castagnetti guarda sgomento alla brusca accelerazione impressa al Partito democratico. E non è il solo. Nella Margherita come nei Ds, ma anche dall'entourage di Romano Prodi e dagli altri partiti dell'alleanza si levano voci preoccupate, c'è chi teme il bis del compromesso storico e chi giudica come un de profundis dell'Ulivo il voto a Strasburgo sulle staminali embrionali, c'è chi chiede di entrare e chi medita di uscire: la sinistra Ds è in fermento, la parola scissione torna a correre nell'area Salvi ma anche nelle file del «correntone», una fibrillazione a cui il Prc guarda con crescente attenzione. E anche nella Margherita l'adesione obbligata al processo costituente provoca sommovimenti. «La prossima settimana - anticipa Castagnetti - riunirò i dirigenti dell'ex Ppi, tutti impressionati dalla insostenibile leggerezza dei comportamenti. Siamo ancora nella fase della finzione. Se la riserva mentale è affiancare due nomenclature per fare una federazione, il partito democratico sarà un boomerang elettorale». La convocazione da parte di Prodi di un «comitato direttivo» ha fatto affiorare i cattivi umori. Nei Ds Piero Fassino, che sperava in un organismo senza ministri, ha dovuto trovare un posto al tavolo per Massimo D'Alema, con il quale i rapporti sono in fase critica: bastava essere all'audizione del ministro degli Esteri al Senato, quando Fassino si è lanciato in una controrelazione dal piglio occidentalista... Parte dello stato maggiore della Quercia, da Angius a Violante, guarda con freddezza all'accelerazione in corso e la sinistra interna riprende a sfogare il suo malumore. Che ci faceva, il giorno del voto sullo «spacchettamento», Cesare Salvi tra i banchi di Rifondazione? Forse lo spiegherà il convegno di luglio a Orvieto, promosso dagli "Uniti a sinistra" di Pietro Folena e intitolato "Per un nuovo soggetto politico". E Salvi conferma: «Se si fa un partito moderato si opererà per un partito di sinistra di ispirazione socialista».
L'area di Fabio Mussi avrebbe già pronto un piano di fuga, una fondazione destinata a trasformarsi, nel caso il partito democratico nascesse davvero, in una formazione del riformismo radicale. Scissione alle viste? «Non sono io che devo scoprire le carte - risponde Gloria Buffo - tocca a Fassino dirci cosa intende fare della Quercia. Il mandato congressuale non era dar vita al partito democratico. E poi, dove sono i contenuti? Mistero».
Chiusa, per ora, la querelle sulla tempistica, si riapre lo scontro sull'approdo in Europa. Per Fassino l'ideale sarebbe confluire nel Pse e la prospettiva fa infuriare la Margherita. «Impossibile, questo è il punto che fa saltare il progetto» avverte Castagnetti. «Il Pse? Non ci pensiamo neanche - invita alla prudenza Renzo Lusetti - Con le improvvisazioni si comincia male». Non che Francesco Rutelli abbia cambiato idea, è che per lui il problema più urgente è la situazione economica e poi il vicepremier ha in mente un'altra via, non solo organizzativa. Per alzare l'asticella sul piano dei contenuti i vertici della Margherita stanno lavorando a un grande convegno sulle parole del partito democratico che si terrà a ottobre a Frascati.
«Merito, talento, patria, nazione, sussidiarietà - elenca il senatore Antonio Polito - Se vogliamo sfondare nell'elettorato della Cdl dobbiamo introdurre questi termini nel vocabolario dell'Ulivo».
Come vanno predicando Polito e Tiziano Treu non basta il cantiere, ci vuole il software. «Manca la mission - ragiona il ds Peppino Caldarola - Una accelerazione che nasce dalla paura di un Rutelli con le mani libere è sbagliata. Il partito democratico rischia di essere la somma di leadership e partiti personali». Più o meno le stesse motivazioni «movimentiste» con cui Gad Lerner e Gregorio Gitti hanno indetto il convegno del 4 luglio al Radisson di Roma: il nuovo partito dovrà nascere dal popolo delle primarie.
Antonio Di Pietro è tornato a bussare, ma nessuno gli ha aperto. Con una lettera a Prodi, Fassino e Rutelli il ministro ha offerto la «disponibilità» dell'Idv e anche la Rosa nel pugno attende risposte: «Se il partito democratico nasce con un procedimento oligarchico sommando Ds e Margherita - chiede di entrare Daniele Capezzone - Sarà un compromesso storico bonsai".

venerdì 16 giugno 2006

Le Scienze, 14.06.2006
Un circuito riservato per l'erotismo
Questa corsia privilegiata è stata identificata in uno studio su sole donne


Ricercatori della Washington University School of Medicine a St. Louis hanno sottoposto un folto gruppo di volontarie alla visione di diapositive di contenuto vario mentre controllavano la risposta cerebrale con la tecnica dei potenziali evocati.
Quando i soggetti esaminati osservavano immagini di contenuto erotico, la risposta cerebrale era decisamente più forte di quella generata dalla visione di altro materiale, quale che fosse il livello di gradevolezza o di disturbo che quest'ultimo fosse in grado di suscitare. Inoltre la velocità di risposta era molto più rapida; ciò suggerisce l’esistenza di circuiti neuronali dedicati a elaborare questo tipo di immagini. Il cervello è in grado di classificare molto rapidamente le immagini, molto prima che a livello conscio l’immagine venga interpretata come piacevole o disturbante. Nel caso delle immagini a contenuto erotico, ciò avviene in un tempo ancora inferiore, circa 160 millisecondi, il 20 per cento in meno di ogni altro tipo di immagine. Subito dopo, l’elaborazione delle immagini viene smistata a differenti aree del cervello. Un altro aspetto interessante della ricerca è costituito dal fatto che tutti i soggetti esaminati erano donne, che da studi precedenti erano state indicate come meno sensibili allo stimolo erotico visivo. Quali siano i circuiti cerebrali preferenziali sfruttati per l’identificazione rapida e l’elaborazione di questo tipo di immagine richiederà ulteriori studi, dato che la tecnica dei potenziali evocati non permettte una risoluzione spaziale sufficiente a questo scopo, simile a quella fornita da risonanza magnetica funzionale e PET; queste ultime tuttavia non dispongono di una risoluzione temporale adeguata: utilizzando fin dall’inizio questi ultimi strumenti, il fenomeno sarebbe sfuggito all’osservazione.
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La Stampa, 13.05.06
COME CORPO E PSICHE SI INFLUENZANO L’UN L’ALTRA NELL’ESPERIENZA DI UN DENTISTA CHE HA LASCIATO LA PROFESSIONE PER INSEGNARE JUNG
CASI CLINICI CHE RICORDANO LE STORIE DI SACKS: AD ESEMPIO UN MOLARE CHE SI AMMALAVA SOLO DI DOMENICA E NASCONDEVA UN MATRIMONIO IN CRISI


UN avvocato quarantaseienne, sposato, padre di un figlio e con una moglie affetta da sclerosi multipla. Con mia grande irritazione, questo signore mi telefonò a casa per ben tre domeniche di fila, per via di un violento mal di denti che interessava un premolare superiore sinistro, il cosiddetto «quarto». Pure nel suo caso le cose andarono nel modo che ho già descritto. Non riuscii a scoprire alcuna possibile spiegazione delle cause del disturbo e neppure la possibilità di curarlo secondo le mie competenze professionali. L’avvocato se ne ritornava a casa ogni volta senza che io potessi intervenire. Un po’ perplesso gli suggerii di andare da un otorino per farsi fare una radiografia dei seni mascellari. Quando però la domenica seguente ritornò per un’emergenza senza neppure aver fatto la radiografia, mi spazientii un po’, e ancor di più quando si ripresentò una terza volta, sempre di domenica. Anche al paziente la situazione appariva imbarazzante, tanto più che affermava con sicurezza che i dolori non si presentavano mai durante la settimana. Si trattava quindi di un «mal di denti domenicale». C’era qualche elemento essenziale che doveva rendere le sue domeniche diverse dai giorni della settimana, qualcosa di particolarmente opprimente, irritante o quant’altro mai. Mi alzai e incominciai anzitutto a domandargli se, per caso, la domenica gli capitava di bere o di mangiare qualcosa di diverso che negli altri giorni della settimana. Mi rispose che in realtà non succedeva niente del genere. Durante la settimana mangiava alla mensa aziendale. Nel fine settimana cucinava lui. Mangiava buoni manicaretti? Certo. Era un cibo un po’ particolare a causa della malattia della moglie, ma davvero molto buono. Quest’ultima precisazione mi diede lo spunto per chiedere notizie sullo stato di salute della moglie. Non era una situazione facile: era continuamente depressa, talvolta molto lunatica e irritabile, lo criticava continuamente in particolare per il fatto che lui la sera rientrasse così spesso tardi dal lavoro. Ma di questo lui in fin dei conti non aveva colpa. Era responsabile di un grosso reparto e perciò faceva spesso tardi. Una volta a casa trovava poi una situazione non facile, dissi io. «Lei se ne sta sempre lì sdraiata tutto il santo giorno e non fa altro che brontolare», aggiunse lui. E, il sabato sera e la domenica, a lui toccava pure cucinare, perché la domestica aveva il giorno libero. Non si poteva far diversamente, le si doveva lasciare il suo tempo libero perché rimanesse con loro, perché avevano bisogno di lei. Anche per via del figlio, cui qualcuno doveva pur badare. Sua moglie era talmente passiva e piagnucolosa! Il figlio ne aveva già abbastanza di cose da sopportare con una madre del genere. Quando quell’uomo mi parlò in tal modo, non ebbi più l’impressione che venisse per un mal di denti. Stava vivendo una situazione coniugale difficile, e la resistenza contro la moglie malata non andava trascurata. In tali circostanze, non rimaneva più granché, pensai, di quella che si è soliti definire vita «coniugale» nel vero senso del termine. Quindi giocai d’azzardo e buttai là: «Una situazione del genere è proprio difficile da sopportare, se non si ha almeno un’amante...». A quel punto l’uomo scoppiò in singhiozzi. Aveva appunto un’amante e questo era il vero motivo per cui durante la settimana arrivava a casa così tardi. Adesso però la donna pretendeva che lui rimanesse da lei anche la domenica e gli chiedeva con insistenza di separarsi dalla moglie. Era quella - come si poteva ben capire - la vera causa del suo mal di denti. Dopo che si fu espresso in maniera così chiara, trovando le parole giuste, lui si liberò del suo disturbo e io ritrovai nuovamente la mia pace domenicale.
I casi descritti hanno un elemento in comune: il mal di denti si presentava in concomitanza con situazioni limite, con giochi di equilibrismo in cui l’Io si sentiva costretto a scegliere tra morale e natura. Che poi l’anima si servisse proprio dei denti per esprimere la difficoltà di simili atti di equilibrismo fu per me allora non solo una scoperta del tutto nuova, ma al tempo stesso racchiudeva in sé qualcosa di sensazionale, che finalmente mi permise di sensibilizzarmi sulle relazioni tra corpo e anima. Non avevo ancora idea della frequenza con cui denti e dentisti compaiono nei sogni e ignoravo quanto importante possa essere il loro ruolo nella vita umana. E in secondo luogo capii quanto può rivelarsi decisivo dedicarsi con tutti noi stessi, anche come dentisti, al problema di fondo della persona che cerca il nostro aiuto, e non limitarsi a trattare il suo sintomo. Nella maggior parte dei casi il dentista dovrà occuparsi certamente dei problemi nati su base fisiologica, ma anche questi ultimi sono da interpretare, più spesso di quanto non ci si aspetti, in senso non solo «meramente fisiologico».
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Per provare l’esistenza di collegamenti tra i denti e gli stati psichici o determinate modalità di comportamento potrà forse esserci di aiuto rifarci ad alcuni modi di dire. Queste espressioni sono probabilmente già così connaturate nelle nostre consuetudini linguistiche che non ne consideriamo più la dimensione reale. A volte dobbiamo «pigliarla coi denti», nel senso di affrontare risolutamente un’impresa difficile, nella speranza di farci «strada coi denti». E’ necessario «stringere i denti», per sopportare una sofferenza, per superare la paura e così via. E a uno che se l’è presa «sui denti», si «mostrano i denti», talvolta «armati fino ai denti», per agire alla fine «dente per dente». Talvolta ci si accontenta anche di dire a qualcuno le cose «fuori dai denti» e di «togliergli il dente», che gli faceva venire idee impossibili. Può darsi che lui dica poi: «Questo dente non mi duole più», per indicare che per lui tale questione è chiusa. Quanto poi si prova conforto, se si ha la fortuna di incontrare una ragazza focosa (steile Zahn, ovvero «dente robusto»), che solo a guardarla par che faccia scorrere nuova linfa vitale nelle vene, nella misura in cui non abbia però il «dente avvelenato». Ma anche nella migliore delle relazioni, il «dente del tempo» (Zahn der Zeit) lavora talvolta a guastare le cose, e bisogna poi «restare a denti asciutti» oppure cercare «pane per i nostri denti», per uscire da una situazione che ci è divenuta sgradevole. Quando ci serviamo di simili o analoghe immagini spesso non sappiamo che esse esprimono le autentiche esperienze psichiche che ne sono all’origine. Nelle situazioni in cui ne facciamo uso, esse esprimono i sentimenti che ci muovono a livello più profondo.
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Nei tre casi di psicologia legata ai denti che ho descritto prima, era successo proprio quello di cui parla Filone: le anime di coloro che erano colpiti dai più atroci dolori ai denti erano rimaste imprigionate nella «materia senza vita», che corrisponde sul piano simbolico all’obbedienza alle norme, quando venga applicata con troppa rigidità a sé stessi. Com’è noto, lo spirito della vita soffia dove vuole e non si lascia comprimere impunemente in rigidi schemi. Esso si sottrae a chiunque tenti di agire in un modo del genere, porta rigidità, cosa che spesso equivale a una morte psichica come se venisse «esalata» la vita. Ancor oggi, per esempio, quando un bimbo si fa male, è il pneuma che ci induce a soffiare sulla sua ferita e a recitare qualche filastrocca, per consolarlo. Una credenza popolare sostiene che, se a qualcuno viene mal di denti senza un motivo reale, questo significa che Dio è in collera con lui, perché forse costui sta trattando in modo troppo superficiale un problema centrale della sua vita, disobbedendo agli intenti divini. Le credenze superstiziose non sono trovate intellettuali, ma nascono dalle esperienze umane che si ammantano di sentimenti oscuri nel rapporto con ciò che è incomprensibile per la ragione. Ogni persona mostra la propria riverenza verso le potenze oscure quando dice, a scopo cautelativo: «Se Dio vuole, andrà tutto bene».












La Stampa, 13.05.06
Ripensare il Golem in tempi di biotecnologie


NIENTE di nuovo sotto il sole, direbbe l'Ecclesiaste , il più disincantato e umano fra i libri del codice biblico. La sua condanna (o forse era un privilegio?) a non conoscere mai lo stupore non avrebbe il benché minimo cedimento davanti agli ultimi orizzonti dell'ingegneria genetica, alle vertiginose prospettive della più avveniristica biotecnologia.
Se l'Ecclesiaste non è più fra noi per esternare la sua invidiabile lucidità, in fondo basta guardare il passato con un occhio un po' particolare, per non stupire. O soltanto per incontrare puntualmente un precedente anche per la storia che pare più inedita. E così, prima di entrare in un qualsiasi girone della chirurgia estetica o strabiliare di fronte alle provette di Dna, prima di preoccuparsi per le terrifiche sorti che attendono un mondo divenuto vulnerabile preda delle manipolazioni genetiche, vale la pena ripensare al Golem. Magari con il sussidio del professor Moshe Idel e del suo studio ora pubblicato in italiano e dedicato a «L'antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell'ebraismo».
Golem è una parola dalla polivalenza assai interessante, in ebraico: significa originariamente "bozzolo". Ma anche "embrione", essere non ancora giunto allo stadio definitivo. Comunemente si usa per apostrofare una persona non proprio geniale, un "tontolone" insomma. Ma il golem per antonomasia è naturalmente, per così dire, quel gigante ingenuo costruito a tavolino per vie magiche, che ha una lunga vita nella tradizione ebraica ed è l'antenato di Frankestein ma anche dell'incredibile Hulk (colore a parte). A mezza strada fra l'imitatio Dei e la blasfemia più arrogante, l'idea di un umanoide riproducibile attraverso la tecnica e l'umano ingegno è in fondo già suggerita nella narrazione della Genesi: qui infatti tutto è prodotto da Dio "soltanto" con la parola, in nome di un simultaneo "detto fatto". Tutto tranne Adamo il quale, invece, è ricavato da una terragna materia prima con cui il Signore lo modella, prima di insufflargli la vita. Protagonista di una ricca letteratura speculativa, magica e mistica che si dispiega lungo circa millecinquecento anni, anche il golem è un insieme di sostanza umile e concreta (polvere e fango) e di afflato superiore. Quello di Praga che, con la sua mole e la sua forza, salva la comunità ebraica, aveva incisa in fronte una parola in lingua sacra: Emet. Che significa "verità" ed è una mirabile raffigurazione dell'essere, perché inizia con la prima lettera dell'alfabeto ebraico, termina con l'ultima e porta in centro la consonante mediana. Questa parola miracolosa era l'afflato che dava vita al golem: per placarlo non restava che espungere la lettera alef ed emet diventava met, cioè "morto". Creatura mitica ma anche prefigurazione delle potenzialità umane al confronto con la sapienza divina (o, per dirla laicamente, con le frontiere ancora inesplorate della scienza), il golem ha una ricca letteratura che procede dalle istruzioni per l'uso alla speculazione più astratta. Questo homunculus corpacciuto fa la sua comparsa, a partire dall'epoca tardoantica, nei momenti di sogno e in quelli di disperazione. E' un essere insulso che non sa ragionare ma ubbidisce ciecamente agli ordini del suo demiurgo, sempre che qualcosa non vada per storto. Per secoli ha rappresentato un traguardo metafisico ma anche il modesto apparato muscolare di un popolo inerme cui era rimasta, se non altro, la licenza di vagheggiare il proprio goffo superman fatto in casa, all'occorrenza.
Elena.loewenthal













AprileOnLine, 20.05.06
Un legionario di Cristo poco ortodosso
Vaticano. La Congregazione per la Dottrina della Fede ha deciso per l'allontanamento di padre Degollado, fondatore delle ''legioni'' cristiane accusato di abusi sessuali
Marzia Bonacci


Non ha delegato a nessuno dei suoi collaboratori la scelta di punirlo, lo ha fatto direttamente. E data la gravità del caso, non sorprende. Papa Benedetto XVI è così intervenuto in prima persona, ieri, nell'atto di sospensione verso padre Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, accusato di aver abusato sessualmente trent'anni fa di alcuni ex seminaristi della sua famiglia religiosa.

La lunga ed accurata inchiesta che è stata portata avanti dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nei riguardi dell'anziano sacerdote (come voluto dal precedente Pontefice Giovanni Paolo II che delegò a questa la competenza in materia), e che oggi presenta l'inquietante - ma non eccezionale - verità, fece le prime mosse nel 1998, quando cominciarono ad arrivare all'organo vaticano le prime denunce relative al comportamento di padre Naciel: "A partire dal 1998 - si legge nella nota della sala stampa vaticana, che conferma le indiscrezioni del National Catholic Report sulla condotta del sacerdote - la Congregazione per la Dottrina della Fede ricevette accuse, già in parte rese pubbliche, contro il reverendo Marcial Maciel Degollado, fondatore della Congregazione dei Legionari di Cristo, per delitti riservati all'esclusiva competenza del Dicastero".

Di fronte al coinvolgimento del fondatore dei Legionari di Cristo in atti di abuso sessuale, la Chiesa cattolica romana, attraverso il Dicastero preposto e guidato dal cardinale William Levada, ha ieri deciso per l'allontanamento del sacerdote e per un suo "confino", tanto che padre Maciel è stato invitato "ad una vita riservata di preghiera e di penitenza, rinunciando ad ogni ministero pubblico".

Data la gravità del caso, poi, la stessa Chiesa si è espressa affinchè la sua persona "venga distinta dalle benemerenze che la Congregazione ha finora acquisito". In sostanza il Vaticano, se pur non ha percorso i tradizionali e frequenti binari dell'occultamento e del silenzio, ha scelto però una politica di punizione, come dire, "inter nos", evitando il processo canonico e magari anche una sua conseguente pubblicizzazione. Una scelta che la stessa Congregazione ha motivato appellandosi all'avanzata età e alla precaria condizione di salute del sacerdote.

Papa Ratzinger "ha approvato questa decisione" con un comunicato reso pubblico dalla sala stampa della Santa Sede, nel quale però il Pontefice ha anche voluto ribadire l'importanza di una distinzione fra il comportamento individuale di padre Maciel e l'attività della sua formazione religiosa: "Indipendentemente dalla persona del Fondatore - sottolinea infatti il testo - si riconosce con gratitudine il benemerito apostolato dei Legionari di Cristo e dell'Associazione Regnum Christi". Il suo ruolo nella vicenda, del resto, non è stato mai secondario: fu proprio lui, allora cardinal Joseph Ratzinger ma anche e soprattutto Prefetto della Congregazione, ad autorizzare nel 2001 una investigazione ufficiale delle accuse.

In verità la storia del legionario di Cristo, soprattutto nei suoi aspetti più foschi, va ben oltre il 1998, per trovare il suo esordio nell'immediato dopoguerra. Padre Dellogado, 86 anni, messicano, fondatore e capo di quello che è considerato un corpo scelto e assai preparato di sacerdoti e laici presente in tutto il mondo e in forte espansione, è stato infatti più volte posto sotto la lente di controllo vaticana, la prima volta nel 1948, quando un gruppo di allievi ne denunciò la condotta poco ortodossa. L'ultima tornata ispettiva nei suoi confronti risale al 1997, anno in cui ben otto importanti ex legionari denunciarono gli abusi che padre Maciel avrebbe commesso durante gli anni Cinquanta e Sessanta.

Tutte accuse che il diretto interessato ha negato nel 2002 tramite una pubblica dichiarazione, in cui esprimeva "il suo dispiacere per l'offesa recatagli da alcuni ex Legionari di Cristo". Tre anni dopo, data l'età avanzata, si ritirò dall'ufficio di Superiore Generale della Congregazione.

Sempre nella giornata di venerdì è arrivata la risposta dei Legionari, i quali in un comunicato hanno rinnovato la propria fedeltà al padre fondatore, pur piegandosi al dettame vaticano e accettando la decisione pontificia: "Noi legionari e membri del Movimento Regnum Christi - si legge nella nota - seguendo l'esempio del padre Maciel e uniti a lui, accogliamo e accoglieremo sempre tutte le disposizioni della Santa Sede con profondo spirito di obbedienza e fede, e rinnoviamo il nostro impegno di lavorare con grande intensità per realizzare il nostro carisma della carità ed estendere il Regno di Cristo a servizio della Chiesa".





































La Stampa, 27.05.06
Buñuel sogna con Lacan


IMPREZIOSITA da splendide foto a colori ed in bianco e nero, com’è tradizione per i libri editi da Taschen, la biografia di Luis Buñuel firmata da Bill Krohn è tra le più interessanti e suggestive dedicate al maestro spagnolo. «Il percorso artistico del cineasta, che si snoda attraverso la Spagna, Hollywood e il Messico per poi piegare nuovamente verso la Francia, ha i tratti della creatura surrealista per eccellenza: la chimera, dotata di testa, corpo e arti inferiori appartenenti a tre animali diversi, tutti feroci», scrive l’autore. E’ l’inizio d’un viaggio appassionante nella filmografia buñueliana, condotto analizzando il repertorio d’immagini di cui il grande surrealista si serviva per dar voce all’inconscio (insetti, asini, galline, acerbe adolescenti, icone religiose, ciechi, cadaveri, frutta, carne e sangue), tramite la scrittura automatica, il collage e l’uso di objets trouvés. Ciascuna delle immagini ossessive di Buñuel appartiene alla categoria delle autocitazioni (si pensi alla figura del Cristo brandente un rasoio ne La via lattea, che rinvia all’analogo gesto apparso vent’anni prima in Un chien andalou): al fine d’infondere una carica sovversiva ex post facto ad un film ritenuto forse troppo «normale», Estasi di un delitto, egli giunge a «riciclare» spunti dal suo adattamento de Le avventure di Robinson Crusoe.
Educato dai gesuiti, militante nel partito comunista, aduso a frequentar la casa dello psicanalista Jacques Lacan, Buñuel ha costantemente posto al centro del proprio cinema i tre argomenti dalla borghesia ritenuti per principio «sconvenienti»: il sesso, la religione e la politica. Il perno attorno a cui ruota l’arte sua è l’irrazionale, tuttavia la riformulazione dell’intuizione di Freud nell’elaborazione lacaniana («l’inconscio è strutturato come linguaggio») dovrebbe renderci guardinghi sull’assimilare l’inconscio, nella misura in cui esso fa capolino nei suoi film, alla natura od alla bestialità. Il risultato è, in ogni caso, un corpus di opere tra le più straordinarie, cui il volume di Krohn presta un omaggio reso vieppiù significativo dal fatto che la lezione del regista di Viridiana è, in massima parte, rimasta inascoltata.

LEGGERE IL CINEMA
Francesco Troiano Bill Krohn
Luis Buñuel
Taschen pp.192, e19,99






















Le Scienze, 22.05.06
Le anomalie cerebrali della sindrome di Williams
E' stato realizzato un atlante computerizzato del cervello ottenuto dalle scansioni di 16 volontari


La sindrome di Williams colpisce un nato ogni 20.000 e influisce sulle capacità visive e spaziali pur preservando quelle musicali e sociali. Ora, grazie a una collaborazione tra la Washington University a St. Louis, la Stanford University e il Cedars-Sinai Medical Center è stato realizzato un atlante computerizzato che ha permesso di rivelare la presenza di 33 anomalie sulla superficie del cervello dei soggetti affetti da questa patologia. Grazie all’elaborazione dei dati ricavati dalla scansione di risonanza magnetica di 16 volontari, l’atlante riproduce accuratamente il complesso di circonvoluzioni della corteccia cerebrale, l’area del cervello che si ritiene essere legata alle funzioni cognitive superiori. Secondo i ricercatori che hanno condotto la ricerca, l’atlante potrebbe fornire nuove conoscenze anche sull’origine di altri disturbi, tra cui l’autismo.



































Liberazione, 19.05.06
Donne attente all’orco in pantofole
Maria Vittoria Vittori


«La debolezza degli uomini uccide le donne» era scritto a caratteri cubitali nella pubblicità pubblicata sull’ultima pagina di Liberazione, domenica 14 maggio. Vero. Come dimostrano tanti, troppi casi di cronaca nera: l’ultimo quello di Jennifer. Donne violentate, picchiate, uccise. Ma una donna si può uccidere anche senza armi e senza spargimento di sangue: con le parole, con gli atteggiamenti, al riparo delle mura domestiche. Ordinarie storie di straordinaria violenza psicologica che mietono vittime, eppure passano inosservate. Come quella vissuta e raccontata da Rosalind B. Penfold nel lancinante diario a fumetti Le pantofole dell’orco (Sperling&Kupfer, pp. 266, euro 17,00). Rosalind B. Penfold non esiste: è solo lo pseudonimo scelto da questa affabile signora canadese che mi sta davanti, ma la sua storia è vera. Inizia, come tante storie d’amore, nel modo più luminoso e romantico, con gli sguardi, le rose, le telefonate. Tutto sembra lusinghiero, all’inizio; ed è per questo che è facile finire dentro una storia distruttiva, racconta Rosalind. «Perché tutti quelli che poi ho imparato a interpretare come segnali d’allarme allora mi sembravano positivi: le dieci telefonate al giorno erano per me un segno d’amore. Ora so che erano il segno di una personalità estremamente fragile che aveva bisogno di sapere dove mi trovavo in ogni momento della giornata». Ed è così che, sedotte dal corteggiamento e dall’attaccamento, ci si può ritrovare a vivere con una persona che gradualmente invade i tuoi spazi, ti invade, ti cannibalizza. Questo raccontano, anzi “gridano” i disegni di Rosalind: la trasformazione di un uomo fragile e collerico che sembra sinceramente innamorato in una sorta di cannibale e di una donna forte che si crede sinceramente innamorata in una vittima a tutti gli effetti. «Ci illudiamo spesso di essere forti perché riusciamo ad affrontare situazioni difficili nel lavoro e nella vita - spiega Rosalind - e invece ci dimentichiamo del fatto che se si fa cadere una goccia d’acqua sulla roccia ogni giorno, per anni, anche la roccia finisce per sgretolarsi. Gli abusi verbali e psicologici non si avvertono subito ma producono effetti cumulativi che possono mandare in frantumi l’identità». Il partner ti urla che sei incapace, ribadisce che sei inaffidabile, sostiene che sei psichicamente instabile - l’inchiostro di queste vignette dilaga, fino a ricoprire la pagina di una densa nube nera -; il partner ti insulta, ti ferisce, ti tradisce e, se lo scopri, ti fa passare per visionaria. «Questo tipo di abuso è anche peggiore di quello fisico. Non ne esci con un occhio nero, ma distrutta dentro. Viene meno qualsiasi forma di autostima e se lui continua a negare i fatti, si arriva a dubitare perfino della propria percezione della realtà. E si vive una condizione di dualismo perché si osserva un comportamento doppio del partner: fuori casa è tranquillo, perfino premuroso; a casa è infido, violento. Si cammina sui cristalli per decifrare quello che vuole, per cercare di rabbonirlo. Ma ci si fa sempre e comunque male.» Quante donne si sono riconosciute, si riconosceranno nella storia di Rosalind? «Sono convinta che questo libro darà alle tante Roz del mondo il potere di cambiare le loro esperienze. E’ un libro che conferma che quello che stanno vivendo è vero. Può sembrare strano, ma quando ho vissuto quella situazione provavo una sensazione di irrealtà, pensavo che nessuno mi avrebbe creduto. Così, quando mi capitava qualcosa che mi sconvolgeva, correvo in bagno e buttavo giù un disegno di quello che mi era successo. Avevo bisogno che ci fossero delle prove documentarie». Che di Roz ce ne siano tante, e abbiano bisogno di alimentare o resuscitare la propria autostima per uscire dalla trappola dell’orco in pantofole è confermato dal grandissimo numero di contatti registrati dal sito www. friends-of-rosalind. com. Un sito di indubbia utilità, che collega con diversi centri di aiuto e fornisce indicazioni per riconoscere e definire chiaramente i principali segni di abuso, quelli che passano quasi inosservati, rubricati sotto la voce “lo dice perché è arrabbiato”, “lo fa perché è geloso e a me ci tiene”. Perché le trappole dell’orco sono ben dissimulate. Ecco, riflettendo su queste situazioni, devo ammettere che c’è una domanda che mi perseguita da sempre. E che si è rafforzata prepotentemente negli ultimi anni, dopo aver messo al mondo due creature di sesso maschile. Ma questi uomini deboli e aggressivi, insicuri e violenti non sono pur sempre “nati di donna”? Non li abbiamo cresciuti noi? E dunque, come educare al rispetto - di sé, dell’altro - i bambini e gli adolescenti? Rosalind ha le idee chiare. «Io penso che l’abuso consista soprattutto nell’attraversare, nel superare i confini dell’altro. Invadere il partner in tutti i sensi. Perciò dovremmo per prima cosa rispettare il bambino affinché lui possa imparare davvero che cos’è il rispetto, e cercare di fare in modo che si senta affettivamente protetto, sicuro. Le persone sicure non hanno alcun bisogno di controllare e di invadere la vita degli altri».













































Il Manifesto, 23.05.06
Animali umani dentro la rete globale dei segni
A cura di Paolo Fabbri è uscito per Meltemi «Morfologia del semiotico» di René Thom, una raccolta di saggi in cui il teorico delle catastrofi analizza l'origine dei linguaggi
Cosimo Caputo


Secondo la teoria delle catastrofi elaborata dal matematico francese René Thom ogni esistenza è l'espressione di un conflitto tra l'effetto erosivo della durata e un principio astratto di permanenza che ne garantisce la stabilità. Fluenza e conservazione caratterizzano dunque i processi della vita: ogni forma è un terzo fra due poli opposti e in quanto tale è un segno. Ecco allora che nel continuo del divenire emergono elementi di discontinuità, piegature. E appunto alla Morfologia del semiotico si richiama il titolo di una raccolta di saggi di Thom uscita di recente a cura di Paolo Fabbri, perMeltemi (pp. 168, euro 16), che rappresenta una occasione preziosa per indagare l'evolversi della teoria delmatematico francese sull'origine biologica dei linguaggi e dei comportamenti significativi degli uomini e degli animali che proprio da questa nozione dinamica di forma prende origine. Autore fra l'altro di un saggio pubblicato nel 1973 (e presente nella raccolta diMeltemi), Dall'icona al simbolo, che è considerato come un classico del pensiero semiotico, Thom definisce come «salienze» quelle discontinuità che si delineano su uno sfondo indifferenziato in seguito a stimoli sensoriali inattesi e improvvisi (come il tintinnio di una campanella o un raggio di luce) ma che hanno scarsi effetti a lungo termine sul comportamento neurofisiologico del soggetto. Al contrario, altri stimoli (per esempio le forme delle prede, dei predatori, dei partner sessuali) generano reazioni immediate che si traducono in trasformazioni profonde dell'organismo e in un comportamento specifico (attrazione o repulsione). Si tratta in questo caso - per usare il termine utilizzato dal matematico francese - di discontinuità «pregnanti», o «pregnanze». Ora, se nell'animale non umano vi sono poche pregnanze, provviste però di una notevole capacità di propagazione e diffusione, nell'animale umano viceversa assistiamo a una proliferazione quasi illimitata delle pregnanze, ma con una capacità di propagazione estremamente limitata. «Naturalmente - afferma Thom - le grandi pregnanze regolatrici della biologia (alimentazione, sessualità) non scompaiono dallo psichismo umanoma vi simanifestano soltanto in un ambiente ormonale favorevole e attraverso l'attrezzatura simbolica del linguaggio». È insomma il linguaggio - in quanto capacità astrattiva che distacca dal contatto diretto e usurante con ilmondo - a fare la differenza tra il mondo della vita umana e il mondo della vita non umana. Il progetto scientifico di Thom disegna così una semiofisica, vale a dire una teoria chemette in evidenza l'esistenza di una semiosi naturale in cui ha le sue radici la semiosi umana. Nella rete globale dei segni si intrecciano allora la natura e la cultura, il vivente umano e il vivente non umano, l'organico e l'inorganico. In questo modo la posizione di Thom rompe con un certo strutturalismo incline al formalismo per proporre invece un pensiero strutturale che alla logica dell'esclusione contrappone la logica della partecipazione, dell'ibridazione e dell'intreccio.
















Il Manifesto, 27.05.06
I sogni di Slavoj Zizek su Sigmund Freud
Maria Teresa Carbone


Freud Lives! - con un punto esclamativo, quasi a dire che Freud non solo è vivo ma lotta insieme a noi - si intitola un articolo di Slavoj Zizek uscito sulla «London Review of Books». «La psicoanalisi è sorpassata?» - si chiede il filosofo sloveno di fede lacaniana. E si risponde che certamente lo appare: «in quanto il modello cognitivista-neurobiologico della mente umana ha scalzato il modello freudiano» nella clinica psichiatrica, e «visto che il trattamento psicoanalitico perde terreno rispetto alle cure farmacologiche e alle terapie comportamentali»; infine, il modello freudiano appare ancora più sorpassato nella società, «dove la nozione di norme sociali che reprimono gli impulsi sessuali dell'individuo non tiene di fronte all'edonismo contemporaneo». Naturalmente un «ma» si nasconde dietro questo apparente cedimento di Zizek alla vulgata della peggior specie. Riprendendo in mano la più nota tra le opere freudiane, L'interpretazione dei sogni, l'autore di Tredici volte Lenin afferma che «nella nostra 'società dello spettacolo', in cui quello che viviamo come realtà quotidiana sempre più assume la forma di una bugia resa reale, le intuizioni di Freud mostrano il loro vero valore». A proposito dei videogame, che «consentono a uno sfigato di assumere la figura virtuale di un macho aggressore», sarebbe facile dedurre che il cyberspazio è il rifugio da una realtà monotona e impotente. Ma «non è forse la consapevolezza che questo 'è solo un gioco' a permettermi di fare quello che non mi sarebbe possibile nel mondo reale?». Conclude Zizek: «Ciò che appare sotto forma di sogno, notturno o a occhi aperti, è a volte la verità sulla cui repressione la realtà sociale stessa si basa. Qui sta l'ultima massima dell'Interpretazione dei sogni: la realtà è per coloro che non riescono a sostenere il sogno».



























Il Manifesto, 26.05.06
Dentro la segreta avventura dell'interpretazione
In «Frammenti per una teoria dell'inconscio» Gabriella Ripa di Meana indaga questioni che investono anche l'estetica
Lucilla Albano


Frammenti per una teoria dell'inconscio di Gabriella Ripa di Meana, uscito da Biblink editore da qualche mese (e quindi pure online, secondo le caratteristiche di questa casa editrice), offre anche a chi non si occupi di psicoanalisi moltissimi punti di interesse, di cui ne prelevo sinteticamente tre: l'inconoscibilità e l'imprevedibilità dell'inconscio; l'esercizio dell'ascolto del suo linguaggio e dei suoi significanti; l'avventura dell'interpretazione. Sono temi che attraversano anche i campi dell'estetica, dell'ermeneutica e dell'epistemologia, con l'ambizione, all'altezza dei risultati, di tessere un discorso divulgativo ma insieme problematico e dirompente, filtrato da una scrittura raffinata e limpida, esente dai trabocchetti e dalle civetterie di un parlare criptico e per iniziati. Quello dell'inconscio, ci spiega l'autrice, è un concetto non semplificabile che rischia, nelle illusioni, nei malintesi e nelle banalizzazioni della società odierna, di perdere la valenza scandalosa, eversiva e peculiare della concezione freudiana, dove si vede il soggetto diviso tra l'indistruttibile forza del desiderio e la piena responsabilità dei propri atti. Quello dell'inconscio è un sapere che agisce in noi a nostra insaputa sorprendendoci, è «l'altro che è in noi e decide per noi senza perciò esonerarci da alcuna responsabilità». Ripa di Meana chiama etica dell'inconscio quella secondo cui il soggetto raggiunge la libertà e la responsabilità del proprio agire «tramite le conseguenze inattese dei suoi atti e non in virtù delle loro premesse sorvegliate e avvertite». È una sorta di abbaglio collettivo, ci avverte l'autrice, credere che le avventure degli affanni e delle angosce si possano censurare, adattare o prevenire, come si cerca di fare per le malattie del corpo e con le cure farmacologiche. La segreta rete di segni, che delinea insieme ai nostri desideri anche la nostra unicità, non si aggira con furbizie e scorciatoie per modellare comportamenti, riempire lacune o raggiungere funzionalità, produttività e successo; né si avvale, in alternativa, di una ascesa anarchica verso un «godimento a ogni costo». E neppure esibisce, sostituendolo illusoriamente all'oggetto perduto - ontologicamente mancante, come spiega Ripa di Meana - «l'oggetto trovato, garantito».
Avere messo al centro dell'interesse e del soggetto fenomeni futili e irrilevanti (gli atti mancati), mondi oscuri, notturni e divinatori (i sogni) o complessi sintomatici, dando a tutto questo un senso -- «il senso vitale della nostra esistenza» -- è proprio l'atto più eversivo della scoperta freudiana dell'inconscio. Un inconscio che non esiste in sé ma solo «nel dire mentre viene detto», in sprazzi che emergono come un lampo per poi sparire; un inconscio che non si fa cogliere se non sotto forme travestite e mascherate. E quanto tale mascheramento sia sottile e impervio da smascherare, l'autrice ce lo racconta nella parte successiva del suo lavoro, avendoci avvertito che la conoscenza dell'inconscio non può chiudersi in un sapere scolastico e definito, ma può essere raggiunto solo per frammenti, approssimazioni e ipotesi.
Sul piano teorico e negli esempi clinici della sua pratica analitica, emerge nel lavoro di Gabriella Ripa di Meana anche tutto il peso e l'importanza della lezione di Lacan, nonché la sua attenzione esclusiva e perspicace alla lettura e alla interpretazione del significante, al suo aspetto sonoro e formale, a un ascolto - quello dello psicoanalista nei confronti del paziente - leggero, «insensato», arriva a dire l'autrice. Un ascolto in grado di «produrre la verità dell'altro», dell'altro che abita in noi e il cui effetto è inatteso e imprevedibile. Emerge così, da parte della psicoanalista, un talento quasi di decifratrice di enigmi, di rebus o di acronimi, espresso anche nella rilettura e rivisitazione di due exempla di Freud: una amnesia, il nome del pittore Signorelli, e un sogno, l'iniezione a Irma, diventati emblematici del metodo interpretativo freudiano. Al contrario di quanto avviene nell'enigmistica, però, questa capacità di lettura non si riduce alla risoluzione di un indovinello o all' accesso a una rivelazione, ma approda alla sorprendente acquisizione di una singolarità soggettiva. La distinzione tra quello che si potrebbe definire il desiderio apparente e il desiderio inconscio che, essendo per l'appunto inconscio, è difficilmente afferrabile al di fuori dell'iscrizione nel transfert e nel set analitico, è una delle lezioni più proficue che, per un non analista, possono essere colte in questo libro. Passando attraverso i concetti di desiderio, di rimozione, di negazione, di fantasma, di fuorclusione e di transfert, Ripa di Meana mette in gioco questioni che investono anche l'oggetto estetico e l'opera poetica: lo fa, per esempio, nel capitolo titolato Inconscio e interpretazione, proponendo un parallelo tra il discorso poetico e quello analitico, in cui interpretare significa anche far conoscere i limiti della comprensione, procedendo per lampi e per schegge che illuminano frammenti di verità. Mettendo in scacco il proprio sapere fino a significare il proprio fallimento, facendosi carico di ogni lacuna e di ogni oscurità e sostenendone la funzione e la creatività.









































Il Manifesto, 25.05.06
Soldati da sogno hi tech
Marina ed esercito Usa sperimentano la «brain porta»: un terminale sulla lingua che trasmette al cervello i segnali di un sonar o di un visore notturno. Ma intanto finisce nei videogiochi
Francesco Piccioni


Guerra e gioco si somigliano troppo. Anzi, l'unica vera differenza risiede nell'esito di un'azione: definitivo e irreversibile nel primo caso, provvisorio e replicabile nel secondo. Ma logica e strumenti sono molto simili, anzi - spesso - addirittura identici.
Una rapida verifica è possibile guardando a risultati e sviluppi della recente ricerca sul modo di dare ordini «mentali» a una serie di dispositivi hardware oppure - seguendo il percorso inverso - di comunicare al cervello i dati provenienti da una serie di rilevatori. Lo scopo è quello di saltare la fase del linguaggio verbale, inevitabilmente lenta, ma anche quella dell'elaborazione razionale, che si realizza pur sempre attraverso strumenti linguistici. In tal modo il cervello viene posto in condizione di «sentire» gli input e reagire in tempo reale, in modo quasi istintivo. Il vantaggio operativo è evidente, la perdita di controllo razionale anche.
Non è perciò una sorpresa che questa nuova frontiera della ricerca sia competenza quasi esclusiva dell'industria militare, con ricadute che vengono utilizzate - a più basso livello - da società che sviluppano videogiochi. Al Florida Institute for Human and Machine Cognition hanno messo a punto una «brain port», una «porta per il cervello», costituita da una sottile striscia di plastica con 144 microelettrodi, che va posizionata sulla lingua. La vera scoperta - della fisiologia, però - è infatti che sia proprio la lingua il nostro sensore migliore per inviare segnali al cervello.
Ma l'istituto della Florida lavora direttamente per l'esercito americano e ha sviluppato il suo sistema in due campi di applicazione: l'attività dei sommozzatori-incursori e quello del combattimento notturno. La brain port viene collegata a dispositivi sonar, visori a raggi infrarossi e quant'altro utile al combattente per operare in condizioni dove «i nemici» sono costretti a stare fermi. Nella promozione aziendale l'obiettivo della ricerca è descritto così: «dare ai soldati d'elite sensi superumani simili a quelli di gufi, serpenti e pesci».
E' il sogno più antico di ogni leadership che fonda gran parte del proprio potere sulla superiorità bellica. Le «scoperte» conferiscono in genere un vantaggio di breve durata: il tempo necessario al nemico di mettere a punto le contromisure. In questo caso, però, dobbiamo notare anche un'inversione di tendenza: la tecnologia del secondo dopoguerra, incentrata sulla superiorità atomica, aveva sostanzialmente dismesso ogni ricerca intorno al combattente in carne ossa. Il crollo dell'Unione sovietica e un lungo periodo in cui la guerra è solo «asimmetrica» - «noi» abbiamo le tecnologie, «loro» no; «noi» abbiamo gli aerei e i carri armati, «loro» no, ecc - hanno riportato al centro della battaglia la fanteria. Un paese disastrato come l'Iraq o l'Afghanistan lo si può battere in un paio di settimane, ma occuparlo - ossia viverci e girarlo - resta un problema.
Difficile dire se tanto sforzo tecnologico produrrà il risultato voluto (viste le tecniche di combattimento in uso in quei paesi si è autorizzati a dubitarne), ma intanto il business si è fatto avanti. NeuroSky e CyberLearning sono due delle prime software house di videogiochi che hanno inziato a progettare un casco collegato con la brain port, il che garantirebbe una «presenza» all'interno del gioco assolutamente inedita: «quello che stai pensando influisce sullo svolgimento del gioco stesso».
Ma c'è anche un'altra direzione di ricerca, decisamente più scientifica. Yukiyasu Kamitani, dell'ATR Computational Neuroscience Laboratories di Kyoto, e Frank Tong della Princeton University hanno raggiunto risultati definiti «incoraggianti» nel tentativo di «leggere la mente» attraverso una scannerizzazione incentrata sulla stessa brain port, ma con input rovesciato. In pratica, tentano di capire cosa la mente sta pensando a partire dalle vibrazioni trasmesse dalla superficie della lingua.
Per ora, dal punto di vista del profano, questi risultati sono allo stato pioneristico: si riesce appena a capire dove l'occhio è diretto mentre guarda una serie di doppie linee poste in otto direzioni diverse. Aprire una strada non significa avere già ora la possibilità di percorrerla; ma è da segnalare che è stata iniziata.
Qui l'obiettivo non è quello di «estendere» le potenzialità individuali di un combattente vero o virtuale (una realizzazione hard del vechio tentativo psicotropo di «allargare le porte della percezione»), ma l'esatto opposto: entrare nella mente di un altro. Cosa fare dopo dipende solo dalla volontà e dagli scopi dell'entrante. Le «porte», anche quelle della mente, permettono sempre di muoversi in due direzioni.










































La Repubblica, 15.05.06
La ricercatrice Margot Sunderland ribalta le vecchie teorie
in culla da soli i piccoli accumulano ansia e stress
Nel lettone da bimbi più sani da adulti
Studio inglese: "Lasciateli dormire con voi fino a cinque anni"
ENRICO FRANCESCHINI


E' il dilemma che segue il fatidico "bacio della buona notte": cosa fare quando un figlio di pochi mesi o pochi anni stringe disperatamente la mano del genitore, perché nonostante ninne-nanne, carillon e carezze rifiuta di dormire da solo? La scuola di pensiero dominante, fino ad ora, è stata che mamma e papà devono farsi forza, chiudere la porta della camera da letto del bambino, resistere alla tentazione di correre in suo soccorso non appena scoppia a piangere, e continuare così fino al momento in cui, dopo giorni, settimane o mesi a seconda dei casi, il figlio si abitua a giacere abbandonato nell'oscurità, smette di strillare e impara a dormire per conto proprio.

Ma esistono anche pareri diversi e adesso, a rafforzarli con l'autorevolezza della scienza, giunge dalla Gran Bretagna l'indicazione di una delle massime autorità in materia di psicologia infantile. Margot Sunderland, direttrice del Center for Child Mental Health di Londra, consiglia ai genitori di respingere l'opinione dominante e permettere ai bambini di dormire nel "lettone", con papà e mamma, sino all'età di cinque anni. Questa abitudine, chiamata in inglese "co-sleeping" (dormire insieme), afferma la dottoressa, rende più probabile che i bambini diventino degli adulti calmi, sani ed emotivamente equilibrati.

Autrice di una ventina di libri sulla psicologia dell'infanzia, Margot Sunderland presenta la sua teoria in un nuovo volume, "The Science of Parenting" ("La scienza di fare i genitori"), di cui il Sunday Times ha anticipato ieri le conclusioni. La nuova opera, basata secondo l'autrice su 800 studi scientifici, afferma che l'uso comune in Gran Bretagna e in altri paesi occidentali di abituare i bambini a dormire da soli da quando hanno soltanto poche settimane di vita è "dannoso, perché la separazione dai genitori aumenta il flusso di ormoni dello stress come l'idrocortisone".

La sua scoperta, come lei stessa la definisce, si fonda su progressi compiuti negli ultimi vent'anni sulla comprensione di come si sviluppa il cervello dei bambini, in particolare su studi che usano lo scanner per analizzare come reagisce il cervello in determinate circostanze. Per esempio, uno studio neurologico di tre anni fa, citato dal suo libro, rivela che un bambino separato dai genitori ha un'attività cerebrale simile a quella provocata dal dolore fisico.

"Quello che ho fatto con questo libro è presentare il problema dal punto di vista scientifico", dice la dottoressa Sunderland per difendere la sua teoria. "C'è un tabù in questo paese sul dormire con i figli. Eppure studi fatti in ogni parte del mondo dimostrano che dormire insieme ai figli fino all'età di cinque anni è un investimento nel futuro del bambino, mentre non esiste alcuno studio che dimostra che lasciare piangere i bambini fa loro del bene". Come minimo, osserva il Times, il suo intervento riapre il dibattito sull'argomento.















La Repubblica, 28.05.06
E' la "matematica del cuore", una nuova via al rilassamento che sta prendendo piede in Inghilterra e inizia ad essere introdotta negli istituti scolastici
Londra, le scuole aprono le porte alle tecniche contro lo stress
ENRICO FRANCESCHINI


In Inghilterra, quando i genitori visitano una buona scuola privata prima di decidere se iscrivervi il proprio figlio, di solito fanno domande come "avete una buona plaestra", "com'è il programma di scienze" o "fate gite con scopi culturali". Ma tra un po' di tempo la prima domanda potrebbe essere un'altra: "Insegnate HeartMath"? Traducibile pressappoco come "Matematica del Cuore", HeartMath è una tecnica di rilassamento anti-stress basata sulla respirazione, sul pensiero positivo e sui battiti cardiaci, il tutto monitorato da un computer.
Inventata un decennio fa in California, è recentemente arrivata nel Regno Unito, dove scuole, aziende, associazioni sportive la stanno sperimentando con crescente soddisfazione ed interesse. Il suo obiettivo è quello di migliorare il rendimento di un individuo prima di un test, un esame, una discussione di cruciale importanza, una competizione di qualunque genere: e coloro che l'hanno provato affermano di avere avuto risultati immediatamente positivi.
"E' un nuovo mezzo per combattere lo stress nel lavoro, nello sport e nella scuola", scrive il Sunday Independent, che ha dedicato oggi un lungo servizio all'iniziativa.

A introdurla per prima nelle scuole del Regno Unito è stata Susanne Richards, preside della Holt School, una scuola femminile a Wokingham. Una o più volte alla settimana, a gruppi di svariate decine, le alunne di un certo anno si ritrovano in palestra, applicano al proprio braccio un sensore collegato a un computer, quindi siedono silenziosamente a terra respirando a un ritmo apparentemente insolito e innaturale: cinque secondi di ispirazione, cinque secondi di espirazione. Dopo un po' un istruttore incoraggia le ragazze a pensare a un momento o ad una situazione in cui sono state particolarmente bene e felici, e poi chiede loro di concentrarsi su tale ricordo continuando la ritmica respirazione.
"Mi sono imbattuta in questa tecnica durante le vacanze dello scorso anno mentre giocavo a golf", racconta la preside Richards all'Independent. "Ero una pessima giocatrice di golf, ma dopo poche lezioni di HeartMath il mio handicap è rapidamente migliorato. Ho raccolto informazioni e alla riapertura dell'anno scolastico ho offerto un corso di HeartMath alle insegnanti e allo staff della scuola: la reazione è stata entusiastica, molti hanno riportato progressi concreti nell'affrontare lo stress e alcuni hanno detto che era passata loro perfino l'insonna. Così il trimestre successivo abbiamo avviato cortsi di HearthMath anche per le nostre alunne. Hanno così tanti esami e prove stressanti che qualsiasi cosa che le possa aiutare a superare gli ostacoli senza farsi prendere dal panico o dal nervosismo sembrava utile. E così è stato, anche dalle allieve abbiamo avuto un responso assolutamente positivo".

Osservando sul monitor del computer il modo in cui i battiti cardiaci reagiscono a una particolare respirazione e ad esercizi di relax mentale, affermano gli esperti di questa tecnica, chi la pratica impara a controllare meglio le proprie emozioni e ad essere mentalmente meglio preparato ad affrontare test e tensioni. In sostanza è un cocktail che lega un'antica tecnica di rilassamento a forme di monitoraggio ad alta tecnologia. Alcuni psicologi sono convinti che, oltre a vincere lo stress, HeartMath aiuta a curare l'ansia e la depressione, e che non solo migliora le qualità di leadership ma rallenta perfino l'invecchiamento. Come che sia, dicono le alunne della Holt School, se permette di prendere un voto migliore a un esame è già un motivo valido per praticarla.












ANSA, 02.06.06
FORSE SONO SOLO UN MITO LE ORGE DEI GRECI E DEI ROMANI


Un ricercatore australiano è deciso di sfatare un mito consolidato per secoli dai libertini del mondo occidentale, quello delle orge a base di sesso, oltre che di cibo e vino, degli antichi romani. Secondo il prof. Alastair Blanshard, della Scuola di ricerche filosofiche e storiche dell'università di Sydney, nonostante la diffusa esposizione di genitali e 'l'ubiquità del fallo' nel materiale archeologico, gli incontri sessuali nella Grecia e nella Roma dell'antichità restavano affari privati, non gli eventi orgiastici che la cultura contemporanea accetta come storicamente veri. "Mi spiace per gli swinger dei sobborghi, ma le loro attività di intrattenimento a coppie multiple il sabato sera non può vantare radici classiche", scrive Blanshard nella rivista dell'università. Il campo di ricerca a cui egli si dedica riguarda la maniera in cui la cultura moderna immagina l'antichità, e come tende a perpetuare storie fantasiose di vita sessuale nelle antiche civiltà.

Lo studioso ha raccolto ogni prova possibile su relazioni illecite, incontri erotici e sesso di gruppo nella Grecia classica e nella Roma imperiale. La ricerca è stata interessante ma anche deludente, ha detto: di orge sessuali non si trova traccia. Secondo Blanshard le origini del mito delle orge greche e romane si basano in buona parte nella maniera in cui il cristianesimo si è imposto in opposizione alle scorrettezze sessuali degli antichi dei. Altre ragioni includono la diffusa esposizione dei genitali e le frequenti rappresentazioni del fallo nei reperti antichi. "A quei tempi non avevano valenza erotica, ma nei contesti moderni sono percepiti come intensamente sessuali", scrive.

Una buona parte di colpa va anche ai libertini moderni, che hanno usato il mito delle orge greche e romane per convalidare le loro pratiche. Oscar Wilde, ad esempio, dava una "vernice classica" ai suoi incontri con ragazzi. "Pensava di fare come faceva Socrate, dava una veste classica al suo gruppo di praticanti del libero amore".
























La Stampa, 31.05.06
Il paziente da oggetto a persona


L’ UMANIZZAZIONE è un termine entrato nel linguaggio di chi si occupa di salute e Sanità, frequentemente citato da operatori, conferenzieri e amministratori. Richiama l'idea che di fronte a un paziente il medico si deve occupare della persona in tutte le sue implicazioni ed esercitare, oltre all'arte e alla scienza, anche la magia, intesa come pressione psicologica sul paziente, cogliendone gli aspetti emozionali. Tutto giusto, ma tutt’altro che banale. Le figure professionali che operano nella Sanità devono giornalmente passare dalla persona al corpo e viceversa. E’ vero che nel corpo c’è la perfetta identità tra essere ed apparire, ma è anche vero che per poter continuare a operare e curare ci si deve spesso focalizzare sull'aspetto meramente tecnico, eseguendo quella che viene definita «oggettivazione» del paziente. In poche parole, quando il chirurgo entra in sala operatoria, deve pensare che sta lavorando su un fegato, un polmone o un cervello, tutte parti distinte di un corpo, estrapolate dalla persona. E’ una necessaria forma di difesa, utile per superare il «burn-out», che coinvolge coloro che combattono contro la morte e devono prolungare la vita. Già, prolungare la vita, sempre? Anche a chi vegeta in fase terminale? Ha fatto scalpore un’inchiesta condotta sugli infermieri di un ospedale torinese, da cui risultava che la maggioranza era favorevole all'eutanasia passiva e in buona parte anche a quella attiva. Percentuali che superavano quelle dei medici. In realtà, queste dichiarazioni sono la conseguenza di un ulteriore passaggio dal corpo alla persona, oltre la terapia. Sono il frutto di una lucida consapevolezza, che sfiora il cinismo, ma supportata dall'esperienza di chi si confronta con l'essenza stessa della vita. Non è facile questo passaggio continuo tra corpo e persona. Anzi, è debilitante e comporta un adattamento mentale ed emozionale. Produce una sofferenza routinaria e induce angoscia e incertezze, spesso mascherate da durezza e determinazione. Ecco perché non è giusto bollare come arroganti e cinici questi «operatori», il cui equilibrio è il risultato di una complessa procedura di risposta a chi - il paziente - vuole o non vuole sapere, vuole o non vuole essere coinvolto nella decisione terapeutica, vuole o non vuole morire, vuole o non vuole comunicare. Emergono così due fattori. Il primo è che a esprimersi e a discutere sia chiamato chi è coinvolto nella prassi quotidiana della cura. Il secondo è che nelle facoltà mediche e infermieristiche deve svilupparsi l'insegnamento di un’etica «globale», che comprenda tutte le componenti, biologiche, sociali e tecnologiche. La scienza e la tecnologia sono l'ultima mutazione metafisica che, imperturbabile, travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici e gerarchie sociali, per citare Michel Houellebecq dal suo libro «Le particelle elementari». Quando Alfred Blalock si accingeva a compiere il primo intervento a cuore aperto su una bambina affetta da tetralogia di Fallot, l'assistente spirituale dei genitori lo accusò di arroganza e di voler sfidare le leggi di Dio e della Natura. La risposta fu: «Se non fossi arrogante, non farei questo mestiere».















La Stampa, 31.05.06
Robot da adottare
CREATI IN ITALIA, SONO COME BAMBINI: IMITANO GLI UOMINI E IMPARANO


ASSOMIGLIA a un bambino di tre anni e deve aiutare a sbrogliare uno dei più intrigati segreti delle neuroscienze, le basi della coscienza, e a segnare il confine tra cervello e mente: è «BabyBot», un robot di papà italiano, progettato per studiare i processi che portano alla percezione della presenza di noi stessi e degli altri oggetti che popolano l'ambiente. E mentre «BabyBot» ha mosso i suoi primi passi - spiega il coordinatore del progetto Giorgio Metta, professore del laboratorio integrato di robotica avanzata (LIRA-Lab) dell'Università di Genova - si sta già lavorando a una versione ancora più sofisticata del robot per andare più a fondo nei meandri della coscienza umana: «Essere presenti in un certo luogo equivale a essere coscienti del luogo stesso e delle relazioni tra gli oggetti». E’ questo che dà il senso della «presenza» (e quindi della coscienza), intrinsecamente multi-sensoriale, vale a dire un’esperienza che richiede l’insieme di udito, vista, tatto. E’ così che è nato il progetto ADAPT (Artificial Development Approach to Presence Technologies) e «BabyBot».
Per dargli vita gli studiosi hanno analizzato la percezione nei neonati da zero a 12 mesi e, quindi, la loro mente. Poi hanno lasciato che «BabyBot» agisse da solo, in modo da capire come si formano alcune delle capacità di percezione proprie del cervello umano e come hanno origine centri nervosi chiave che permettono di imitare le azioni altrui. Sono i centri costituiti dai «neuroni specchio», scoperti dal gruppo italiano di Giacomo Rizzolati dell'Università di Parma. I test suggeriscono che «BabyBot», attraverso una procedura di esplorazione, impara una rappresentazione degli oggetti e, utilizzando questa conoscenza, è in grado di imitare un essere umano che compie determinate azioni su questi stessi oggetti. In pratica, come «BabyBot», inserito in un ambiente con una programmazione di base, si specializza grazie alle pratiche di apprendimento, così potrebbero formarsi i «neuroni specchio». «Lo scopo ultimo - rileva Metta - è verificare se sia possibile costruire un sistema artificiale che si sviluppi in maniera autonoma, fino a darsi motivazioni proprie, diverse da quelle del costruttore e basate solo sulla sua esperienza». In altre parole gli scienziati vogliono vedere se è possibile creare un robot a cui dare solo una programmazione generica e che sia poi capace di apprendere e specializzarsi in particolari compiti in modo autonomo. «Se riuscissimo a ottenere questo risultato, potremmo dire di aver cominciato a raccogliere importanti indizi sulla coscienza di sé». Ma è chiaro che da solo «BabyBot» non può bastare e per questo è iniziato il progetto per un nuovo robot, «iCub», che avrà le dimensioni e le forme di di un bambino di due anni e mezzo, con gambe, braccia, mani e sensori di vario tipo: permetterà di studiare come si possa sviluppare un sistema di gesti e una forma primitiva di comunicazione tra il robot e gli esseri umani, per esempio tramite l'imitazione. La sua realizzazione avverrà grazie al progetto quinquennale «RobotCub», finanziato dalla Ue per 8,5 milioni. Coordinato da Giulio Sandini del LIRA-Lab, è portato avanti da un gruppo di 11 università europee, insieme con alcune industrie e un gruppo di partner americani e giapponesi, che include sia neuroscienziati sia psicologi. «RobotCub» prevede prima di tutto la stesura di un saggio che raccolga le principali informazioni sullo sviluppo cognitivo umano: sarà la base di partenza per lo sviluppo della «mente» di «iCub», una creatura in grado di gattonare, sedersi, manipolare oggetti e soprattutto di apprendere dai propri errori e dall'interazione con l'ambiente e gli esseri umani. «Le applicazioni saranno di due tipi», sottolinea Metta. Prima di tutto permetteranno di fare passi avanti decisivi nel settore dell’intelligenza artificiale: «Se riusciremo a realizzare la mente del robot, poi potremo ideare sistemi intelligenti negli ambiti più disparati, dall’automazione industriale alla sicurezza, dalla guida automatica ai computer user-friendly». la seconda applicazione, non meno ambiziosa, è una migliore comprensione del cervello umano, che avrebbe un impatto enorme sia per le terapie sia per le interfacce neurali uomo-macchina.















ANSA, 05.06.06
In sogni d'Italiani rancore e sesso
Secondo uno studio di Riza Psicosomatica


Altro che Italiani brava gente:nei sogni segreti di 8 su 10 albergano rancore, invidia, violenza, sesso, secondo uno studio di Riza Psicosomatica. L'81% del campione ha detto di avere 'brutti' pensieri. Per il 27% e' in genere qualcosa che non si avrebbe coraggio di mettere in pratica, per sfogare i desideri piu' segreti (25%), trasgredire le regole sociali (18%). Le fantasie sono legate soprattutto a trasgressione (31%), sesso (26%), violenza (18%), voglia di rivalsa per invidia (13%) e paura (8%).

















ANSA, 06.06.06
Clonazione embrioni contro malattie
Padre Dolly: si dovrebbe consentire contro mali ereditari


Si dovrebbero consentire clonazione embrionale e alterazione genetica per avere bimbi senza mali ereditari, dice il padre della pecora Dolly. In un suo libro, lo scienziato Wilmut afferma che in questo tipo di clonazione 'selettiva', le cellule staminali verrebbero prelevate da un embrione affetto da malattie ereditarie, il difetto genetico verrebbe corretto e le cellule 'sane' verrebbero clonate ed usate per creare un embrione privo di difetti ereditari.
























La Stampa, 12.06.06
UNA FORMA DI RIDUZIONISMO CHE VEDE ALLEATE LA SCIENZA E LA CHIESA
Quel corpo senza amore ridotto a utero
di Chiara Saraceno


Un corpo di donna clinicamente morta tenuto artificialmente in vita per dare una chance di svilupparsi e nascere alla bambina di cui era incinta. Una bambina a forte rischio di sopravvivenza e di integrità psicofisica, data l'immaturità dello sviluppo in cui si trovava al momento del parto. Una bambina che è divenuta tale, perché fortemente voluta dal padre e dai nonni e per intermediazione di una tecnica medica sofisticata. Ma che si è sviluppata da feto in bambina nella solitudine di un corpo senza più intenzionalità e sentimenti, tenuto in vita da macchine, ma non capace di mediare e trasmettere voci e emozioni.

Questo evento, che tanto sembra celebrare la straordinarietà dell'essere umano come capace di contrastare la natura, mettendo insieme volontà e competenza tecnico-scientifica, allo stesso tempo sembra negarne la specificità di essere relazionale, affettivo, intersoggettivo. Proprio mentre rappresenta il trionfo sulla natura, nelle giustificazioni tecniche come in quelle etico-religiose, appare piuttosto un caso esemplare di riduzionismo biologico, in cui si conferma una strana alleanza tra Chiesa cattolica e tecnica. Quando monsignor Sgreccia dichiara che l'organismo materno e il feto sono un'unica entità, e perciò è giusto tener artificialmente in vita il primo per dare una chance al secondo, sottolinea solo una ovvietà biologica, trascurando la dimensione di relazionalità e intenzionalità che sottende quella «unità» e identifica l'essere umano. Inizia a formarsi proprio nella gravidanza, nella relazione che la donna incinta intrattiene con l'essere che porta con sé, nei desideri o rifiuti - propri o altrui - di cui lo fa oggetto e che gli comunica. In altri termini, la donna incinta non è solo un utero. Non tenere conto di questo getta nella pura biologia madri e figli. E le madri, tutte, sono ridotte a corpi gravidi, puro supporto fisiologico del feto.

E' questo riduzionismo che ha consentito il doppio salto mortale, concettuale prima che pratico, per cui la madre - ridotta ad utero - ha potuto essere tenuta in uno stato di vita vegetale, salvo poi dichiararla morta una volta effettuato il parto, rendendone disponibili gli organi per l'espianto, senza che il suo stato fosse mutato. Ogni utilizzo degli embrioni soprannumerari è un omicidio secondo la Chiesa ed anche secondo alcuni laici. Ma l'accanimento tecnico su un corpo di un essere umano viceversa è legittimo, se questo contiene un utero, che a sua volta contiene un feto. Quel corpo di donna ridotto a contenitore, prima di un feto e poi di organi da espiantare, è il rovescio doloroso e negato della fragile vita cui ha dato la luce. Così come è negata la solitudine della bambina, divenuta tale in un corpo senza più vita umana, senza relazione. Forse quella madre avrebbe scelto di essere trattata così. E comunque così hanno deciso coloro che la amavano - gli unici, forse, titolati a farlo. Quella bambina, se sopravvivrà come le auguriamo, sarà molto amata. Ma tutto ciò è avvenuto e avverrà proprio perché la vita umana non è solo un dato biologico, bensì, nel bene e nel male, soprattutto un prodotto delle intenzionalità e delle relazioni.










Le Scienze, 10.06.2006
Il cervello dei bilingui
Il significato delle parole dipende da una stessa area cerebrale, indipendentemente dall'idioma utilizzato


Per quanto riguarda il cervello, tutte le lingue sono uguali, o quasi. Che la conversazione si svolga in inglese, tedesco o in giapponese – suggeriscono le ricerche più recenti – coloro che parlano fluentemente queste lingue utilizzano lo stesso insieme di regioni cerebrali per dare un senso a ciò che stanno dicendo. Ma se esiste un singolo circuito cerebrale che sovrintende all’espressione linguistica, in che modo le persone bilingui possono sapere di stare utilizzando una sola lingua alla volta?
A questa domanda ha cercato di rispondere sulla rivista “Science” un gruppo di ricercatori dello University College di Londra. Utilizzando tecniche di risonanza magnetica funzionale per monitorare l’attività cerebrale di alcuni volontari bilingui, Cathy Price, insieme con colleghi tedeschi e giapponesi, ha cercato l’“interruttore” che permette al cervello di passare da una lingua all’altra. Ai soggetti venivano mostrate coppie di parole di significato simile come “trota” e “salmone” in inglese. Come atteso, all’apparire della seconda parola le regioni della corteccia temporale interessate reagivano in modo meno evidente, poiché non si trattava di una parola nuova. Le stesse regioni cerebrali reagivano in modo simile quando al termine “salmone” scritto in inglese seguiva la stessa parola scritta in tedesco, come se fosse importante solo il significato di una parola, indifferentemente dalla lingua utilizzata. A reagire in modo intenso al cambio di lingua è invece un’altra area cerebrale: il nucleo caudato sinistro. Insieme con altre ricerche che mostrano come soggetti bilingui con un danno proprio al nucleo caudato sinistro passano da una lingua all’altra senza accorgersi, lo studio suggerisce che è proprio quella l’area in cui è localizzato l’interruttore cercato.

























Le Scienze, 12.06.2006
Il futuro? È dietro di noi
Questo risulta da un'analisi delle metafore usate nella lingua Aymara


Tutte le culture e i linguaggi del mondo finora analizzati – da quelli europi ai cinesi, dai polinesiani ai bantu – utilizzano metafore spaziali per rappresentare il corso del tempo. E tutte rappresentano il futuro come di fronte a noi e il passato dietro. Almeno così, si credeva. Un’approfondita analisi dell linguaggio parlato e mimico della lingua Aymara – e in particolare delle metafore che vi vengono utilizzate – condotto dal direttore del laboratorio di scienze congnitive dell’Università della California a San Diego e da un linguista dell’Università della California a Berkeley – ha svelato che per quella popolazione la rappresentazione del tempo è esattamente opposta: secondo le popolazioni sudamericane che parlano quell’idioma, noi avremmo il viso rivolto al passato e il futuro sarebbe alle nostre spalle. L’esistenza di questo esempio che si contrappone a una rappresentazione del tempo considerata universale indica – come è rimarcato nell’articolo sulla rivista "Cognitive Science" (organo della Cognitive Science Society) in cui viene descritta la ricerca – che tale rappresentazione è influenzata da fattori culturali, contrariamente a quanto finora dato per scontato nell’ambito delle scienze cognitive.
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ANSA, 16.06.06
DORMENDO IL CERVELLO CANCELLA INFORMAZIONI INUTILI


Dormire serve a rimettere ordine nel cervello. Lo dimostrano gli studi compiuti dal team di ricercatori guidato dal professor Giulio Tononi, docente di psichiatria all'universita' del Wisconsin, e uno dei relatori di maggior prestigio del convegno mondale sul cervello, Human brain mapping, che si e' concluso oggi a Firenze. Il suo gruppo di ricerca si occupa, in particolare, dei meccanismi e delle funzioni del sonno. Le ricerche hanno dimostrato che il cervello sfrutta il sonno per fare ordine e scremare quanto di inutile ha accumulato durante la giornata, preparandosi ad affrontare al meglio quella successiva. I ricercatori hanno scoperto inoltre che ogni area del cervello puo' cadere in un sonno piu' o meno profondo in proporzione a quanto ha lavorato durante il giorno. Piu' il sonno e' profondo piu' il giorno seguente quella regione cerebrale eseguira' meglio i suoi compiti.

Basandosi su dati comportamentali, farmacologici e criteri molecolari, il team di Tononi ha inoltre dimostrato che la Drosophila, il cosiddetto moscerino della frutta, ha dinamiche sonno-veglia simili a quelle dell'uomo. ''Il moscerino della frutta dorme come l'uomo e ci sta insegnando che cosa avviene nel nostro cervello quando dormiamo e quando soffriamo la privazione di sonno'', dice il professor Giulio Tononi. ''Per provare e capire la funzione del sonno e per chiarire le conseguenze funzionali della perdita di sonno, il nostro laboratorio ha impiegato una combinazione di metodi differenti, dalla genetica dei moscerini, al profilo espressivo dell'intero genoma negli invertebrati e nei mammiferi, all'analisi del comportamento in gatti e topi''.

Il primo metodo sfrutta il potenziale della genetica della Drosophila per identificare i geni addetti alla regolazione del sonno. Si e' cosi' dimostrato che i moscerini dormono e hanno bisogno di dormire piu' o meno allo stesso modo dei mammiferi. ''Con un secondo metodo di ricerca, invece, e' stato sperimentato per la prima volta l'uso del profilo dell'intero genoma per identificare tutti i geni la cui espressione cambia nel cervello addormentato rispetto ad uno stato di veglia. Negli ultimi dieci anni - spiega Tononi - abbiamo portato avanti questi test sul genoma utilizzando micro-schiere di DNA ad alta densita' nei moscerini, nei ratti, nei criceti e negli esseri umani. Nei ratti abbiamo scoperto che le centinaia di geni vengono espressi in modo differente nel cervello durante il sonno e la veglia''.

Al centro congressi di Firenze sono intervenuti circa 3000 ricercatori provenineti da 47 paesi che hanno illustrato i risultati delle ultime ricerche in materia di fisiologia cerebrale. Domani alcuni dei ricercatori presenti al congresso si sposteranno all'universita' di Pisa per partecipare ad un evento satellite, un convegno sul tema della paura, ''La paura dell'altro'', presieduto dal professor Mario Guazzelli, ordinario di psicologia clinica alla facolta' di medicina dell'ateneo pisano. Al convegno parteciperanno anche filosofi, teologi e intellettuali fra i quali Vincenzo Cerami.












Liberazione, 07.06.06
Quello che davvero accomuna le nostre lotte ad Est come ad Ovest è l’uso del corpo delle donne
Un patriarcato universalista. Ecco l’avversario
Imma Barbarossa


Quando parliamo di fondamentalismi ed integralismi, ci capita in genere di suscitare alcune reazioni di segno diverso: la musulmana credente afferma che nel Corano il rispetto per le donne è contemplato, le femministe che vivono nei paesi islamici e/o con noi in Occidente denunciano con toni indignati l’integralismo islamico e la sottomissione delle donne, le femministe “politiche” cercano le ragioni del fondamentalismo nella rivolta anti-occidentale; d’altra parte qui in Occidente si articola sostanzialmente su due posizioni che potremmo sbrigativamente definire come egualitarismo e differenzialismo o anche universalismo e relativismo, ovviamente con molte sfumature all’interno.

All’interno dell’egualitarismo ci sono venature omologanti e colonizzatrici: è l’esportazione dei modelli occidentali, non solo nel diritto e nelle regole di convivenza, ma anche nei comportamenti, nelle relazioni famigliari, nelle forme della sessualità, nel rapporto uomo/donna, nell’educazione, nella moda persino. Fino alle forme estreme e caritatevoli, la pietà per le povere donne che non hanno i nostri diritti, la nostra liberta, non sono come noi. La first lady americana, grondava femminile comprensione per quelle povere donne irachene con il burqa.

Ma non si tratta solo di esportazione militare dei diritti umani: all’interno delle posizioni che sbrigativamente chiamiamo egualitaristiche ci sono opinioni degne di attenzione. Si tratta di una posizione femminista che dice “finché una sola donna è oppressa, io non sarò libera”; si tratta cioè, di una forma di sorellanza nei confronti delle donne vittime delle forme più violente e oppressive del patriarcato, quella dei fondamentalismi religiosi, in particolare islamisti, che privano le donne dei più elementari diritti di cittadinanza, regolandone per legge la subalternità sociale e politica. la sudditanza simbolica.

Il movimento femminile emancipazionista nacque nel cuore della società industriale, prese forma fin dall’Illuminismo, cominciò ad uscire dalla minorità, attraversò le rivendicazioni del movimento operaio, gli si affiancò, lo interpretò “al femminile”, si collocò più o meno conflittualmente chiedendo diritti sociali e politici e avendo come obiettivo ultimo l’uguaglianza, la parità uomo-donna. E’ partendo di qui che molte femministe occidentali si spendono per battaglie “universali”, cioè per l’estensione dei “nostri diritti” alle donne oppresse dalle società arcaiche, tribali, dominate dai fondamentalismi e integralismi dell’“altra” parte del mondo. «Ti ringrazio, mio dio, di non avermi fatto nascere donna», recita il devotissimo protagonista maschile del film Kadosh di Amos Gitai, citando un versetto della Torah.

In questa “altra” parte del mondo dai primi decenni del ’900 nasce un movimento di protesta femminista che assume anche forme simboliche: frequenza delle scuole occidentali e abbandono delle tradizioni. L’egiziana Huda al-Shaarawi il 16 marzo del 1923 fonda l’Unione Femminista Egiziana e al ritorno dal congresso dell’Alleanza Mondiale Femminile tenutosi a Roma proprio nel 1923, insieme all’amica Siza Nabaraawi, appena scende dal treno al Cairo si toglie il velo in un gesto simbolico di protesta. Il velo appare simbolo dell’oppressione, il velo segna un’appartenenza, il velo rende una donna socialmente degna di rispetto, visibilmente obbediente alle regole della tradizione.

Il movimento emancipazionista delle donne arabe in particolare maghrebine, ma non solo, sarà segnato dal rifiuto del velo, come pure dalle usanze occidentali.

Passeranno decenni da quel 1923 e le figlie di quelle “trasgressive” riprenderanno il velo, magari sui jeans, a segnare una sorta di orgogliosa rivendicazione di identità, di autonomia, di rifiuto di omologazione occidentale.

Donne colte, professioniste, giornaliste, studenti universitarie nei viali delle università arabe o sulle panchine della spianata della grande Moschea a Gerusalemme magari con un libro in mano a preparare esami, laiche ed autonome, autonomamente velate.

Un’antologia molto bella intitolata significativamente Parola di donna, corpo di donna (Mondadori, 2005), curata da Valentina Colombo, docente di lingua e letteratura araba presso l’Università della Tuscia, raccoglie racconti e brani di scrittrici molto recenti.

Ironiche, spregiudicate le scrittrici si “svelano”: sogni, fantasmi, relazioni con gli uomini, relazioni fra donne, sessualità anche “svergognata”; a dimostrare quali stereotipi ci facciano velo. La libanese Jumana Haddad parla della giornata parigina di una donna araba, che si inoltra in un dedalo di locali proibiti, scende in un inferno dove si consuma sesso orgiastico: «Maria Maddalena è recidiva, ma questa volta si guarderà bene dal pentirsi», (“I mocassini”).

Donne anche dolorosamente consapevoli di un destino sociale «Mio marito che era sempre orgoglioso di me, mi teneva a braccetto come una bella bambola, una rosa profumata. Sempre elegante. Una donna di società che sa quando sorridere e quando astenersi dal parlare, che soppesa le parole e centellina i sorrisi», (Alima al_kush Bsisu, “Il destino e la donna orientale”).

Nel nostro dibattito qui in Occidente fin dagli anni Settanta si è sviluppato un filone “differenzialista” che - rifiutando l’egualitarismo occidentale - considera l’estensione della emancipazione femminile una forma di colonizzazione, assume le tradizioni delle comunità, perfino delle tribù, come segni di autonomia ed indipendenza, rifiuta di scindere la libertà delle donne dai contesti sociali, politici, culturali e perfino dalle tradizioni delle comunità, che sono tradizioni di dominio patriarcale, anche se tramandate, custodite ed imposte dalle madri. Una vivace eco l’abbiamo sentita a Genova nel recente convegno promosso da Marea.

Un esempio di quanto sia lacerante questo dibattito è la discussione accesa - tra donne e tra femministe - sulla legge francese che proibisce l’uso pubblico di simboli religiosi, nota come legge sul velo. Personalmente, come già ho spiegato su questo giornale, ritengo sbagliato imporre per legge un modo di vestirsi; non mi nascondo che il velo spesso è una forma di obbedienza alla “comunità” maschile, ma può anche essere una scelta. Su un altro terreno ancora più complesso, è il dibattito sulle mutilazioni genitali, su cui pure si sono trovate giustificazioni del tipo «se i nostri ospedali rifiutano di praticarle, le bambine possono morire di setticemia per interventi artigianali» o anche «se una donna non è infibulata non potrà mai sposare un somalo».

Fa, tuttavia, da contropartita in Occidente l’uso del corpo delle donne, la sua reificazione. Non si tratta di facili moralismi, né di associarsi ai perbenisti “padri di famiglia” che innalzano parole di scandalo per le pubbliche donne poco vestite nei viali delle nostre città. Si tratta di altro: ogni più piccolo oggetto, dalle calze alle lavatrici, ai telefonini, tutto viene pubblicizzato su e con corpi di donne, il corpo esibito, ammiccante, offerto, oggettivato, sempre a misura di sguardo maschile, sempre in riferimento a desideri maschili reali, virtuali, indotti, dalla casalinga con gli strofinacci in mano alla donna fatale associata ad una lussuosa auto.

Quello che davvero ci accomuna ad Est ed ad Ovest è l’uso del corpo delle donne. Le agenzie occidentali organizzano viaggi per i turisti del sesso nel Sud est asiatico, tutto compreso, anche le bambine truccate e con le calze a rete, vendute dai genitori; le nostre reti informatiche offrono bambini e bambine ai pedofili di ogni tipo. Il corpo sessuato è a disposizione degli utenti anche virtuali, e quando il corpo si ribella facendosi ribelle coscienza, ecco che fa inciampo, suscita rabbiose reazioni: il vetriolo in faccia in Pakistan, la bocca piena di terra di Jennifer sepolta viva in casa nostra.

Su tutto, il fondamentalismo cattolico stende le sue ali protettrici, tentando di ridurre le donne a funzione familistica: madre, moglie, sposa, unita in matrimonio, contenitore del seme maschile, devota tutrice dell’unità famigliare. “Differenza collaborante” scrive Ratzinger, praticamente una badante a vita.

Ecco quello di cui dovremmo discutere: l’universalismo del patriarcato che chiede assoggettamento, ma anche complicità, introiezione di un punto di vista; a noi occidentali offre parità e uguaglianza, dalle quote rosa alle divise militari, alla sfilata nelle parate e giù giù nei gironi della complicità, del desiderio di compiacere agli uomini, fino all’inferno della ottusa Lindie, che tiene al guinzaglio un corpo nudo di un prigioniero iracheno, un essere “inferiore” rispetto ai suoi commilitoni che si divertono tanto. Davvero la guerra è la più terribile livella, il più grande strumento di uguaglianza, una grande spinta sul palcoscenico della parità.

































Liberazione, 16.06.06
Serve un’alleanza laica trasversale
Angela Azzaro


Il voto positivo dell’Europarlamento a favore della ricerca sulle cellule staminali embrionali è un passo avanti importante. Ma la questione, soprattutto in Italia, resta aperta. Non solo perché la legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita vieta questo tipo di ricerca, ma anche perché sulle questioni che attengono vita, morte e scelte individuali lo scontro diventa di ora in ora sempre più forte. Il fronte cattolico fondamentalista, nonostostante i dissidi a cui deve far fronte all’interno del neo nato Intergruppo parlamentare “Persona e Bene Comune”, va avanti nella difesa senza tentennamenti della normativa. Si sono impegnati perché la legge venisse approvata, si sono battuti contro il referendum che ne modificava i punti più caratterizzanti, oggi - giustamente dal loro punto di vista - fanno politica a partire da quella legge e dalla difesa della vita dell’embrione che è il suo nucleo giuridico e simbolico.

Chi sorprende non sono loro, ma l’incertezza delle forze laiche dei due schieramenti, a partire da quelle che fanno parte della coalizione che è andata al governo e che si è proposta agli italiani come alternativa alla Casa delle libertà. I segnali che vengono - su questo terreno - non sono molto incoraggianti. Probabilmente vanno interpetati come frutto del timore di Prodi - o di una parte dell’Unione - di calpestare i piedi al Vaticano.

Il ministro per l’Università e la Ricerca scientifica, Fabio Mussi - dopo aver fatto scoppiare lo scandalo ritirando l’appoggio al documento europeo contro la ricerca sulle staminali embrionali - ha dovuto frenare un po’ le polemiche. Davanti alle commissioni Sanità e Istruzione del Senato ha detto che il governo rispetterà la legge 40 e ha però lasciato aperta la porta rinviando la questione della modifica direttamente al Parlamento, che è giustamente il luogo deputato a discutere e a legiferare in materie così delicate. Il pressing di queste settimane, soprattutto attraverso la commissione interministeriale guidata da Giuliano Amato, qualche effetto lo ha avuto. Ingessare il dibattito, non creare allarmismo tra una parte dei cattolici. Non cascare in un voto che al Senato è fortemente a rischio.

Per fortuna Mussi ci offre una carta da non perdere. «Nel programma dell’Unione - ha detto esattamente - non è prevista una iniziativa di modifica di questo provvedimento, ma il Parlamento è sovrano a prescindere dalle mie idee». E’ importante che fin da subito vengano presentate proposte di modifica che vedano impegnati tutti i laici, donne e uomini dei due schieramenti convinti che la legge, così com’è, sia pessima. Al fronte cattolico, integralista, rispondiamo con un fronte laico che respinga il carattere fondamentalista della legge 40.

Finché l’Italia avrà una normativa che dichiara l’embrione soggetto di diritto (articolo 1) non potrà dirsi un paese civile. Quella norma impone a tutti e tutte una idea della vita - una idea che appartiene solo ad alcuni - che lede la libertà di scelta delle donne, limita la ricerca sulla cura di malattie gravi, cioè danneggia la vita concreta di tante persone. Non è una legge qualsiasi. E’ una legge simbolo. Simbolo di un governo e di una idea della società che critichiamo quando è proposta da religioni come quella islamica. Per questo è importante non cedere alle minacce vaticane. Il governo Prodi non deve dar conto del suo operato alle gerarchie cattoliche e ai loro rappresentanti parlamentari. Piuttosto deve dar conto alla metà della popolazione italiana, cioè alle donne, che di questa legge 40 sono le vittime.















Liberazione, 13.06.06
L’identità culturale altrui deve entrare a far parte del nostro tessuto di civiltà. Ma deve accadere anche il contrario
Culture e generi. Non “meticciato” ma reciproca inclusione
Giuseppe Prestipino


Sono state osservate alcune analogie tra le due tematiche del femminismo e del cosiddetto terzomondismo ed è forse ragionevole estendere l’analogia alle lotte di classe e a quelle ambientaliste. Sia pure con il “beneficio dell’inventario”, si direbbe in gergo notarile, per la mia poca conoscenza di alcuni tra gli autori chiamati in causa e interpretati da Giovanni Leghissa, credo si possa dare un giudizio positivo del suo libro su Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione, Associazione Culturale Mimesis, Milano 2005. La critica parallela, che vi si accoglie e sviluppa, dei Cultural Studies e dei Gender Studies mi induce a qualche riflessione che forse esula in parte da quel contesto e fa ricorso piuttosto ad alcune categorie della dialettica gramsciana: in specie, alla opposizione tra dominatori e “subalterni”, in esito alla quale possono darsi due sintesi (due risoluzioni ”egemoniche”) alternative l’una all’altra, e alla opposizione-distinzione tra elementi ciascuno dei quali può dar luogo a una sintesi equi-compatibile con la sintesi operata sull’altro versante.

Parto dalla questione “terzomondista” e dallo spartiacque storico tra l’imperialismo colonialista, dispiegatosi per circa due secoli (XIX-XX), e l’imperialismo della globalizzazione neocapitalistica, fattosi avanti particolarmente dagli ultimi decenni del XX secolo agli inizi di questo nostro XXI. Il colonialismo consentiva a una parte delle popolazioni europee di invadere e sfruttare direttamente territori altrui, esportandovi alcuni tratti della propria cultura (assumiamo, provvisoriamente, questo termine nel suo più esteso significato antropologico). L’odierna globalizzazione, invece, costringe una considerevole parte di popolazioni “periferiche” immiserite a trapiantarsi nella ricca Europa. Fenomeni consimili si registrano nel continente americano, in specie se si guardi a quel che accade nelle frontiere tra Messico e Stati Uniti. L’eurocentrismo colonialista si ammantava di una presunta missione civilizzatrice, ma di fatto costituiva la versione mitigata di quel razzismo protervo che, nato proprio negli Stati Uniti d’America (più che nella vecchia Europa, il cui antisemitismo poteva apparire un lascito delle ormai concluse guerre di religione), doveva raggiungere la sua forma più aberrante e pervertita nella Germania nazista e nella sua “laica” religione di una superiorità (quasi “super-umana”) del sangue ariano. Nell’odierna globalizzazione, l’eurocentrismo ha ancora due facce: una faccia meno aggressiva, dalla quale traspare il timore che gli immigrati siano portatori delle forme più rudimentali o arretrate della loro cultura nazionale e quindi possano inquinare o contaminare i nostri valori etico-culturali più elevati; un’altra faccia più spregevole, che guarda all’immigrato anche come a un potenziale fuori legge dal quale provengano, anche, minacce al nostro vivere civile (o al lavoro dei nostri connazionali) e sfìde al nostro codice penale.

La faccia meno aggressiva, quella timorosa della contaminazione e di un possibile appiattirsi verso il basso dei nostri livelli culturali europei, cerca una sua giustificazione (“il nostro non è razzismo”) nel distinguere tra il turista giapponese, che mostra di conoscere le opere di Botticelli meglio di un popolano fiorentino, e il lavavetri marocchino che probabilmente ignora chi fossero Averroè e gli altri sommi della sua cultura atavica. Quella giustificazione è per noi inaccettabile perché dissimula una ben diversa distinzione: la distinzione tra chi è ricco (il giapponese) e chi è povero (il marocchino). Ma è una giustificazione che ci può sollecitare a un discorso teorico e a una proposta pratica conseguente.

Sul piano teorico credo che non sia necessario “fare di necessità virtù”: ossia, dalla constatazione dell’inarrestabile e ormai irreversibile coesistenza di diverse nazionalità (di diverse lingue, religioni ecc.), all’interno di ciascuno Stato europeo, far discendere la difesa del cosiddetto “meticciato” come di un valore in sé, o di un valore più apprezzabile rispetto alla “purezza” delle singole culture nazionali. Del resto, ciascuna tradizione culturale ha sempre assorbito altre, precedenti o confinanti, culture e tuttavia le ha investite di una sua peculiare e inconfondibile “tonalità cromatica”. Il discorso vale per la Grecia antica come per la moderna formazione composita della realtà statunitense. Sul piano teorico è forse preferibile, dunque, una formula che si avvicini al concetto, proposto da Edward Said, di “storie che si incontrano, territori che si sovrappongono”. Come possiamo intendere il concetto di una sovrapposizione, nel caso specifico del rapporto tra popolazioni immigrate e nazioni europee ospitanti? Ritengo che ciascuna comunità immigrata debba conservare e anzi coltivare con maggior cura, nelle forme più convenienti, il proprio patrimonio culturale, anche a dimostrazione della possibilità che i più poveri, o i gruppi “subalterni”, siano i meno ignoranti; ma, nello stesso tempo, debba acquisire (nelle sedi idonee predisposte allo scopo) alcuni elementi tra i più rappresentativi della cultura propria del paese che la ospita, anche con questo secondo guadagno dimostrando nei fatti che è falsa l’equazione tra povertà e ignoranza.

D’altra parte, la spoliticizzazione che oggi affligge circa la metà dei cittadini italiani (che si espande nella mia Sicilia e alligna nella moderna Milano come in altre città settentrionali) potrà essere ridimensionata, ne sono convinto, soprattutto con una vasta e paziente e capillare opera di ri-culturazione nella quale la nostra storia civile, nazionale e sociale, si rifaccia tessuto connettivo di una nuova Bildung di più larghi orizzonti per i singoli e per le collettività. Una delle scommesse, almeno in parte, vinte dai comunisti italiani nel dopoguerra riguardava appunto la conquista, da parte di larghe masse subalterne, in specie meridionali, oltre che di un loro senso dello Stato, di una cultura e di una tradizione nazionali che contenessero, insieme, germi di una concezione alternativa. Che quella conquista sia andata abbondantemente perduta anche nei cosiddetti ceti medi dell’odierna Italia globalizzata e che mezza Italia sia presso che spoliticizzata non sono certo fenomeni imputabili all’immigrazione. Sono invece il prodotto, abilmente orchestrato, di un americanismo culturale di bassa lega che, per volere dei gruppi dirigenti politici e imprenditoriali fautori di un neoliberismo non alieno dal populismo, ha sradicato e fatto sparire (quindi tutt’altro che “innalzato”) la vecchia cultura popolare, sostituendola con una sub-cultura commercializzata di origine massmediatica, dispensatrice di cattivo gusto “iper-modernizzato”.

Torniamo al concetto di “sovrapposizione” per precisare che essa dovrebbe rifuggire da ogni dissimmetria. Non abbiamo in mente un “sotto” e un “sopra”, ossia una coltivata e riaffermata identità culturale della singola comunità immigrata che si collochi consensualmente “dentro” la cultura della nazione ospitante. Il rapporto di inclusione dev’essere invece reciproco. Tra due storie culturali, ciascuna può diventare “contrappunto” (Said) rispetto all’altra. Se, per certi aspetti, è bene che l’identità culturale altrui entri a far parte del nostro tessuto di cultura e di civiltà, per l’altro verso, deve accadere il contrario: la nostra concezione della vita e i nostri valori ideali possano trovare un loro spazio ospitale “dentro” la più ampia cornice del vissuto, dell’esperito e del tramandato dei quali la comunità immigrata è portatrice. E quando parlo di “storie culturali” intendo riferirmi, con una maggiore proprietà di linguaggio, a quel che può ancora farsi valere del, per certi versi ormai inattuale, concetto (o “concerto”) delle nazioni già intese come altrettante identità geopolitiche anelanti, in passato, alla “sovranità” su se medesime dapprima, su altre nazioni “inferiori” in seguito.

Come procedere oltre l’Illuminismo? Non solo oltre l’imperativo kantiano, universale benché, o perché, sovrastorico; ma anche oltre le concezioni neo-illuministiche di Rawls (limitarsi a prendere atto dell’intersezione, overlapping consensus, tra due o più dottrine comprensive) di Appel (presupporre una comunità di comunicazione) o di Habermas (confidare in una possibile intesa discorsiva)? Si può ancora una volta reinterpretare Gramsci e il suo concetto di una tensione storica, di una universalizzazione in fieri che, senza deflettere dalla necessaria lotta contro ogni forma di dominio e senza concessioni ai dominatori, muova alla ricerca di una parziale e problematica traducibilità reciproca tra le diverse lingue-culture.

Quali le pratiche conseguenti rispetto a tali presupposti teorici? A mio parere, vi è bisogno di un nuovo associazionismo finalizzato a quell’obiettivo. La singola comunità immigrata dovrebbe costituirsi in organismi territoriali, legalmente riconosciuti, che non siano né sotto il protettorato delle Parrocchie né sotto quello dei partiti e non abbiano soltanto finalità assistenziali ancorché ampliate fino alla necessaria tutela giuridica (e/o finalità di svago, sportive ecc.), ma si prefiggano di incrementare nei soci la conoscenza e, direi, l’amore della cultura nativa, aprendosi nello stesso tempo al confronto con gruppi o con singole competenze capaci di rappresentare, a un livello possibilmente elevato, il patrimonio civile e culturale del paese ospitante. Direi che la reciprocità cui accennavo prima potrebbe avvalersi di alcune pratiche più duttili riguardanti, per esempio, le famiglie dei ragazzi italiani che frequentano le scuole: quelle famiglie sarebbero invitate periodicamente ad ascoltare rappresentanti qualificati delle comunità ospitate e potrebbero in tal modo acquisire di prima mano elementi di conoscenza delle identità altrui al riparo da vieti pregiudizi o da ogni “velo di ignoranza”.

Ho accennato, nell’iniziare questi ragionamenti, alla critica parallela, che nel libro di Leghissa è presentata, dei Cultural Studies e dei Gender Studies.


Mi limito qui a osservare che, anche nel rapporto tra i sessi, vi è stato un passaggio storico significativo: il passaggio da una lunga epoca più accentuatamente patriarcale, nella quale gli uomini, la cui vita attiva si svolgeva principalmente fuori casa, entravano o rientravano in casa da padroni e come colonizzatori nei confronti delle donne, a una fase più recente nella quale si avverte un’apparente inversione, perché le donne, in numero crescente, “migrano” nei luoghi di lavoro che erano e sono appannaggio precipuo degli uomini, ma vi si introducono (appunto) come “migranti”, cioè conservando nella maggior parte dei casi uno statuto, e talvolta anche un complesso, di inferiorità. Aggiungo che vale anche per la questione sessuale il criterio della gramsciana doppia sintesi virtuosa: la “differenza” dovrà approdare, non a un nuovo dualismo metafisico o meta-psichico o meta-biologistico, ma alla reciproca accoglienza nella pari dignità del femminile e del maschile.

La doppia sintesi virtuosa è anche nei voti dell’ambientalismo intelligente. Il rapporto tra gli umani e la natura, “snaturato”, specialmente dal tardo capitalismo, in un distruttivo e auto-distruttivo rapporto di dominio, dovrebbe invece dar luogo alle due distinte sintesi alle quali pensava il giovane Marx: “umanizzazione della natura e naturalizzazione degli umani”. Il comunismo di fine XXI secolo darà attuazione alla formula giovane-marxiana, conferendo lo statuto di beni comuni su scala planetaria, pianificati e garantiti in forme di autogoverno civile, ai frutti della ricerca scientifica o culturale in genere, da un lato, e alle più vitali risorse naturali, sull’altro versante?

Per la lotta di classe, invece, non può esservi una reale riconciliazione. Essa è lotta tra opposti antagonistici. Vi può essere una tentata sintesi conservatrice (la gramsciana “rivoluzione passiva”) o una sintesi rivoluzionaria a pieno titolo. O l’una o l’altra. Le due sintesi non possono “stare insieme”.














Corriere della Sera, 16.06.06
La Cina ha annunciato la messa al bando degli aborti selettivi
Sesso del bebè, corsa per chi vuole sceglierlo
Solo in America è possibile la selezione degli embrioni. Il costo dell'intervento: 20 mila dollari. Ma non mancano le polemiche


Robert, un muratore di 30 anni, e la moglie Joanna, 27enne segretaria part-time, desideravano da sempre una bambina. Ma Madre Natura non li ha accontentati e dopo la nascita del secondo maschietto la coppia ha deciso di rivolgersi al Dottor Jeffrey Steinberg, direttore del Fertility Institute di Los Angeles. In cambio di 20 mila dollari — la metà dei loro introiti annui — i due australiani oggi sono fieri genitori di una bella femminuccia. Dozzine di coppie provenienti da Paesi quali Germania, Messico, Nuova Zelanda, Sud Africa e Italia hanno storie analoghe da raccontare. «Gli Stati Uniti sono la Mecca di chiunque voglia scegliere il sesso del suo nascituro - spiega Susanna Baruch, direttore del Reproductive Genetics and Public Policy Center della Johns Hopkins University - perché unico Paese al mondo dove la preselezione degli embrioni è, non solo liberalizzata, ma anche un business molto redditizio».
Nel resto del mondo la tecnica cosiddetta PGD — o "preimplantation genetic diagnosis" — è consentita esclusivamente per l'identificazione di malattie genetiche ereditarie. Una convenzione del Consiglio d'Europa sui diritti umani e la biomedicina ne vieta esplicitamente l'utilizzo per determinare il sesso del nascituro. L'unica eccezione riguarda Israele. «Una speciale commissione bioetica eletta dal ministero della Salute avrà il compito di determinare se una coppia ha diritto ad avvalersi di questa procedura per selezionare il sesso - scrisse il Jerusalem Post quando la legge fu approvata nel 2005 -. Ma il permesso viene dato in rare circostanze, solo a coppie israeliane con già 4 figli dello stesso sesso, che dimostrino un significativo rischio alla propria salute emotiva dal non utilizzo del PGD».
La Cina, dove nel 2005 il governo ha annunciato la messa al bando degli aborti selettivi (una pratica denunciata dall'Onu e utilizzata anche in India per sopprimere i feti di bambine) non esistono leggi in merito. «Non sappiamo neppure se la questione è stata dibattuta a livello governativo», spiega la Baruch — La Cina è un paese misterioso». L'unica cosa certa è che anche i ricchi cinesi oggi vengono in pellegrinaggio negli States, dove le cliniche della fertilità sono tante e in tale concorrenza tra loro, da autoreclamizzarsi sulle riviste di bordo e i siti Internet, nella speranza di attrarre una clientela internazionale, disposta a tutto pur di eludere le restrittive legislazioni di casa propria. Di solito i Paesi dove la controversa tecnica è vietata finiscono per esserne complici. «La fase illegale della procedura viene svolta ovviamente in Usa», puntualizza il Dr. Steinberg, che obbliga gli aspiranti genitori a risiedere negli Stati Uniti per un massimo di cinque giorni. Il suo istituto lavora in tandem con una clinica del Paese della coppia, cui spetta il compito di monitorare la «fase preparatoria », durante la quale la donna riceve iniezioni d'ormoni della fertilità che stimolano la sua produzione di ovuli.
Una volta raggiunto lo scopo, l'aspirante mamma si reca in Usa per l'estrazione degli ovuli, poi fertilizzati in vitro con lo sperma del marito (o di un donatore qualsiasi) e monitorati mentre crescono fino a raggiungere otto cellule ciascuno. A questo punto un tecnico di laboratorio estrae una cellula da ciascun embrione e, dopo averli analizzati, impianta quelli del sesso «giusto» nell'utero della donna. Il resto degli embrioni? «Possono essere congelati, donati alla ricerca o distrutti: la scelta spetta al cliente », replica Steinberg. La pratica non manca naturalmente di detrattori. «Si tratta di consumismo eugenetico - punta il dito Matthew Eppinette, direttore del Center for Bioethics and Human Dignity, un gruppo cristiano di bioetica -. In un futuro non lontano i genitori sceglieranno il colore d'occhi, l'altezza e l'intelligenza dei loro figli». Anche gli addetti ai lavori sono spaccati in due. «Noi non lo faremo mai - dice Yury Verlinsky, direttore del Reproductive Genetics Institute di Chicago - perché il sesso non è una malattia. E i fondi della ricerca vanno usati per obiettivi medici veri».
Alessandra Farkas