sabato 22 settembre 2007

Repubblica 22.9.07
"Carceri stracolme, finito l’effetto indulto"
Il Dap: 3000 detenuti in più del limite. Mastella: "Ma i recidivi sono in calo"
Il provvedimento aveva mandato a casa 26 mila detenuti. Il 22% è già rientrato
di Lucio Luca


ROMA - L´indulto ha mandato a casa 26.752 detenuti ma le carceri italiane continuano a "scoppiare". Anzi, rispetto a una capienza massima degli istituti penitenziari di 43.140 posti si è arrivati nel giro di un anno a quota 46.118. Sono i numeri aggiornati al 18 settembre resi noti dal Dap in occasione della festa della polizia penitenziaria a Napoli. Secondo il Dipartimento dell´amministrazione penitenziaria, dei detenuti usciti per indulto, il 22% (per l´esattezza 6.194, di cui 4.318 italiani) sono finiti di nuovo in cella. Ciò non significa però - fa notare il Dap - che il tasso di recidiva sia aumentato: era infatti al 44% prima dell´approvazione dell´atto di clemenza il 31 luglio del 2006, mentre ora è sceso al 42%.
Resta il fatto che in questo momento nelle carceri italiane ci sono tremila detenuti in più del previsto: i definitivi sono 17.369, quelli in attesa di primo giudizio 15.718, mentre il resto si suddivide tra appellanti (8.952), ricorrenti (2.632) e internati (1.447). Certo, niente in confronto ai 60 mila del luglio 2006 (furono praticamente dimezzati il mese successivo dopo il varo dell´indulto, ndr) ma pur sempre troppi rispetto alle aspettative del Dipartimento.
Dei 6.194 detenuti che, una volta aver beneficiato dell´indulto, hanno fatto rientro in carcere la maggior parte (4.939), sono persone nuovamente arrestate in flagranza di reato, mentre 1.190 per provvedimenti dell´autorità giudiziaria. Negli ultimi dieci anni, poi, c´è stata una impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane: negli anni Novanta non superavano la percentuale media del 15%, oggi invece sono ben 16.734, provenienti da 135 nazioni, e rappresentano il 36,55% del totale dei carcerati.
Il capo del Dap Ettore Ferrara, davanti al presidente della Repubblica Napolitano, non ha nascosto i seri problemi in cui versano molti istituti penitenziari: «Il carcere dei nostri giorni, diventato luogo di raccolta delle espressioni del disagio sociale, si caratterizza sempre più per la transitorietà delle permanenze e per la presenza di patologie, anche infettive, conseguenza di stili di vita inadeguati - ha detto Ferrara - Ma anche per la presenza, sempre più massiccia di soggetti stranieri, che oltre alle comprensibili difficoltà di comunicazione, segna differenze sul piano dei bisogni personali delle abitudini alimentari, delle pratiche religiose».
Ritornare a parlare dell´indulto, «provvedimento eccezionale adottato per far fronte a una situazione altrettanto eccezionale», per il ministro della Giustizia Clemente Mastella è anche il modo per puntare l´indice contro quanti hanno votato il provvedimento in Parlamento ma poi si sono «mimetizzati». E per ringraziare pubblicamente il presidente del Consiglio e il leader dell´opposizione. «Prodi sull´indulto ha speso parole di verità - ha detto Mastella - ma anche il leader dell´opposizione Silvio Berlusconi ha ribadito apertamente che lo avrebbe rivotato».
Polemico il senatore Alfredo Mantovano di An: «Chiedo al ministro se è violenza mediatica ricordare che aveva assicurato in Parlamento che sarebbero usciti dal carcere 12 mila detenuti. Abbiamo superato quota 26 mila e il conteggio non è ancora chiuso. È lecito chiedersi se tutti quelli che hanno votato per l´indulto lo avrebbero fatto egualmente con una corretta informazione?». E la dipietrista Mura affonda: «Nessuna campagna odiosa da parte di nessuno, parlano i fatti che danno ragione ai pochi che, come noi dell´Italia dei Valori, dicevano che l´indulto sarebbe stato solo un provvedimento tampone. E che non avrebbe risolto i problemi del sovraffollamento carcerario».

Corriere della Sera 22.9.07
Manconi: «Effetto positivo ora cambiamo alcune leggi, dall'immigrazione alla droga»
Se non avessimo adottato il provvedimento ora i detenuti avrebbero superato quota settantamila e il sistema penitenziario sarebbe al collasso
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Ha avuto un'efficacia straordinaria». Straordinaria? «Sì, senza quel provvedimento — sia chiaro, una misura d'eccezione per una situazione d'eccezione — oggi il sistema penitenziario sarebbe al collasso». Il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi è stato fra i più appassionati sostenitori dell'indulto. E non ha cambiato idea. Anzi.
Cosa intende per collasso del sistema?
«Le nostre proiezioni ci dicono che senza l'indulto oggi avremmo oltre 70 mila reclusi».
Contro una capacità ottimale di 43 mila.
«Appunto. Avremmo non solo una situazione di intollerabile illegalità, ma anche condizioni non sostenibili sia per i detenuti che per il personale carcerario».
Eppure dopo solo un anno quella soglia di 43 mila posti è già stata superata. Perché?
«Fin dal primo momento si era parlato dell'indulto come premessa ineludibile ma non sufficiente per quelle riforme di struttura che sono le uniche a poter bloccare il meccanismo dell'affollamento ».
Sta parlando della costruzione di nuove carceri?
«La ristrutturazione dei penitenziari esistenti e l'utilizzo più razionale degli spazi possono essere d'aiuto. Ma non credo si imponga la necessità di costruire nuove carceri».
«La riforma delle normative che più di altre determinano una carcerazione non necessaria. Quella sull'immigrazione per cui migliaia di stranieri finiscono in galera per violazione delle norme sull'ingresso e la permanenza che diventano reato solo in caso di reiterazione. Quella sulla droga, che consente una valutazione opinabile della quantità di stupefacenti detenuta. Le norme più severe sui recidivi previste dalla legge Cirielli, sottolineando che, dopo l'indulto, il tasso di recidiva non è salito ma sceso. E poi il nuovo codice penale predisposto dalla commissione Pisapia».
È passato un anno e su tutti e quattro i punti il traguardo è ancora lontano.
«È vero, ma non si può attribuirne la colpa ad un provvedimento sacrosanto ed efficace».
«Ad una situazione parlamentare che è sotto gli occhi di tutti».
Quanto tempo c'è prima che si torni al sovraffollamento di un anno fa, con più di 60 mila detenuti?
«Non 2 o 3 anni come dicono alcuni, qualcosa in più».
E se a quel punto queste riforme fossero ancora ferme che succederà, si farà un altro indulto?
«Sarebbe una dichiarazione di fallimento ma ricordo che l'indulto è previsto dalla Costituzione».

Repubblica 22.9.07
Piero e Luca. L’enigma della prospettiva
di Piergiorgio Odifreddi


Di entrambi si pubblicano ora due manoscritti inediti che vengono presentati in questi giorni alla rassegna bolognese di ArteLibro
Il giovane scienziato aveva frequentato la bottega del grande artista a Sansepolcro prima di trasferirsi a Venezia

«Una città circondata da mura antiche, situata in un´ampia valle tra le colline; bei palazzi rinascimentali con graziosi balconi in ferro battuto; una chiesa molto interessante e, infine, il miglior dipinto del mondo». Cosí Aldous Huxley descrisse Borgo Sansepolcro nel 1925, in Lungo la strada. Il Borgo, che si trova nella zona di confluenza fra Toscana, Umbria e Marche, prende il nome dalla leggenda che a fondarlo siano stati due pellegrini di ritorno dalla Terra Santa con alcune reliquie del Santo Sepolcro, ma è passato alla storia per altri motivi: cioè, per aver dato i natali nel 1412 al grande pittore Piero della Francesca, la cui Resurrezione sarebbe appunto il «miglior dipinto del mondo», e nel 1445 all´altrettanto grande matematico Luca Pacioli.
Piero, che si firmava non «della Francesca» ma (appunto) «del Borgo», viene oggi ricordato soprattutto come pittore, ma fu anche un valente matematico. Il Vasari, nelle Vite de´ più eccellenti architetti pittori et scultori italiani, racconta infatti che egli aveva mostrato un´abilità matematica fin da giovane e che aveva scritto «molti» trattati matematici, anche se solo di tre abbiamo notizia: il Trattato d´abaco, il Libretto sui cinque solidi regolari e La prospettiva nella pittura.
Il primo era una specie di compendio di aritmetica, algebra e geometria, ma conteneva almeno un contributo importante: la riscoperta di due dei solidi semiregolari (il tetraedro troncato e il cuboottaedro) già scoperti da Archimede, ma in seguito dimenticati. Ma l´opera matematica più interessante di Piero è sicuramente il terzo trattato, che storicamente costituisce il primo studio sistematico delle tecniche della prospettiva: della soluzione, cioè, del problema di disegnare o dipingere su un foglio o una tela bidimensionali, in maniera realistica e corretta, figure tridimensionali che vanno da quelle astratte della geometria a quelle concrete della natura.
Naturalmente Piero non aveva inventato questa tecnica, né era stato il primo a descriverla. A parte le correzioni prospettiche usate dagli artisti classici, da Fidia a Vitruvio, e i molti esempi orientali, che vanno dalle grotte indiane di Ajanta nel secolo VI ai dipinti cinesi tra i secoli X e XIII, la storia moderna della prospettiva occidentale era già iniziata verso il 1410, con due famose immagini del Battistero e di Palazzo Vecchio del Brunelleschi, oggi perdute. E già nel 1435 si era avuto un primo manuale della tecnica che avrebbe rivoluzionato l´arte rinascimentale, con il trattato Della pittura di Leon Battista Alberti.
Piero fu però il primo ad andare oltre i «consigli per gli artisti» e a tentare di giustificare teoricamente le regole pratiche ormai in voga, iniziando uno sviluppo che i matematici francesi, da Desargues a Pascal a Poncelet, porteranno a maturità tra il 1639 e il 1822 nella cosiddetta Geometria Proiettiva. Oltre all´interesse teorico, poi, La prospettiva nella pittura ne ha anche uno artistico, evidente nella sontuosa edizione proposta dall´Aboca Museum di Sansepolcro, che riproduce il finora inedito manoscritto illustrato della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, uno dei sette esistenti e il più antico dei due quattrocenteschi in volgare, revisionato dall´autore stesso.
Diversamente dalla sua opera pittorica, l´opera matematica di Piero della Francesca rimase a lungo nota soltanto in maniera indiretta: il trattato sulla prospettiva fu sistematicamente inglobato nelle successive opere sull´argomento, e i due trattati sull´abaco e sui solidi regolari vennero inseriti (anzi, a detta del Vasari, «plagiati») da Luca Pacioli in due sue opere: la Summa di aritmetica, geometria, proporzioni e proporzionalità del 1494, e La divina proporzione del 1509.
Probabilmente il giovane Luca aveva frequentato la bottega di Pietro a Sansepolcro, prima di trasferirsi a Venezia e pubblicarvi la sua Summa: un´opera con le stesse caratteristiche del Trattato d´abaco, e in cui appaiono molti degli stessi problemi, ma anche molte cose nuove: non ultime, il metodo di registrazione contabile a «partita doppia» e il primo calcolo approssimato di un logaritmo naturale (di 2). Fedelmente al suo titolo, la Summa era una vera enciclopedia del sapere dell´epoca, e rimase il testo di riferimento della matematica per tutto il Cinquecento.
Il libro appare nel noto Ritratto del matematico fra´ Luca Pacioli del 1495 di Jacopo de´ Barbari, poggiato sul tavolo con un dodecaedro posto sulla copertina a mo´ di fermacarte. E appeso a un filo c´è un complicato rombicubottaedro, meravigliosamente disegnato in un capolavoro di riflessione, rifrazione e prospettiva che lo mostra come sospeso in aria, trasparente e mezzo pieno d´acqua.
A far entrare nella storia il nome di Pacioli furono però i solidi di La divina proporzione, un testo al quale collaborarono involontariamente Piero della Francesca, e volontariamente Leonardo da Vinci. Il primo perché il suo Libretto sui cinque solidi regolari divenne il terzo volume dell´opera, e il secondo perché fornì le illustrazioni non soltanto dei solidi regolari, ma anche di quelli semiregolari, tutti in due versioni: vacua, cioè col solo scheletro, e piena, con le facce.
La collaborazione di Leonardo al libro di Luca non fu casuale: il secondo aveva conosciuto il primo nel 1496, quando si era trasferito a Milano alla corte degli Sforza, e i due erano subito diventati ottimi amici. E come la «divina proporzione» aveva un ovvio fascino per un artista-scienziato quale Leonardo, così ne aveva per Piero della Francesca: ad esempio, nella famosa Flagellazione egli non solo mise in pratica le regole della prospettiva del suo famoso trattato, ma illustrò anche concretamente la divina proporzione nelle misure della tela e nella suddivisione delle due scene.
Tornando a Luca Pacioli, l´enigmaticità dell´espressione del suo ritratto e la seriosità dell´argomento dei suoi libri a stampa non ci avevano preparati alla recentissima pubblicazione di due manoscritti inediti nel quale egli si rivela un teorico dei giochi, quando non semplicemente un giocherellone. Il primo è Sulla potenza dei numeri, un testo di enigmi e trucchi ritrovato nell´Ottocento nella Biblioteca dell´Università di Bologna, ma pubblicato soltanto quest´anno (in traduzione inglese!), cinque secoli esatti dopo la sua stesura: vi si trovano molti giochi di Leonardo e altre curiosità, da come scrivere sui petali di rosa a come far camminare un uovo sul tavolo, che fanno di Luca Pacioli un predecessore di Lewis Carroll e Martin Gardner.
Il secondo è invece lo scomparso Del gioco degli scacchi, il cui manoscritto (autografo) è tornato alla luce soltanto lo scorso novembre nella Biblioteca Coronini a Gorizia, e viene oggi pubblicato in un´altra sontuosa edizione dal già citato Aboca Museum. Questa volta si tratta di 114 studi scacchistici, di cui una trentina da giocare «alla rabbiosa», cioè con le nuove regole che allora stavano soppiantando le vecchie, e che si sono poi continuate ad usare fino ad oggi.
Dopo aver girato il mondo (o, almeno, l´Italia) in lungo e in largo, Luca Pacioli tornò a Borgo Sansepolcro e vi morì nel 1517, così come prima di lui vi era tornato Piero della Francesca, per morirvi anch´egli nel 1492. Entrambi legarono definitivamente in tal modo il loro nome alla cittadina che affascinò Huxley e nella quale essi attendono invano la resurrezione, che non è altro che un titolo: quello del supposto «miglior dipinto del mondo».

Repubblica 22.9.07
La politica espansionistica divideva il mondo latino da quello greco
Le pulizie etniche di Roma antica
Ad Atene lo stoicismo promulgava invece un´ideale Cosmopoli, in vista dell'unificazione del genere umano
di Luciano Canfora


Pubblichiamo l´intervento di al convegno promosso dalla Fondazione Niccolò Canussio sull´unità politica e le identità etniche nell´Italia antica (in corso fino a domani a Cividale del Friuli)

l principio del De cive Thomas Hobbes colloca un eroe italico antiromano, Ponzio Telesino. Dopo aver ricordato che Catone il Censore (secondo Plutarco) definiva «belve feroci» tutti i re, chiunque essi fossero, commenta: «Una ben maggiore belva era lo stesso popolo romano, che aveva depredato tutto il mondo per mezzo dei suoi generali, denominati Africani, Asiatici, Macedonici, Acaici, e di tutti gli altri che avevano ricevuto un soprannome dalle genti che avevano spogliato!». Ed è a questo punto che ricorda il duro atto d´accusa di Ponzio Telesino, alla vigilia della battaglia di Porta Collina combattuta senza successo contro Silla, quando Ponzio, passando in rassegna le sue truppe «gridava che doveva essere diroccata e distrutta Roma stessa», e «che non sarebbero mai scomparsi i lupi che privavano gli italici della loro libertà, se non fosse stata abbattuta la selva in cui trovavano rifugio». Gli italici erano stati cacciati da Roma con una guerra di conquista durata secoli, cui solo la meteorica apparizione di Annibale sul suolo italiano, verso la fine del III secolo a. C., aveva imposto un temporaneo arresto.
Nel 1925 il maggiore studioso allora vivente di antichità classica, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, fu a Firenze nel quadro della «settimana tedesca»: un segno di riconciliazione culturale dopo la tremenda guerra che aveva contrapposto Italia e Germania. E pronunciò un saggio, intitolato Storia italica, che nulla concedeva alla retorica del nostro nazionalismo, di cui è emblematico quel verso orrendo dell´Inno di Mameli sull´Italia «schiava di Roma». Pur conoscendo le fisime del suo uditorio, Wilamowitz disse serenamente: «La storia d´Italia ha un contenuto più ricco. Un tempo tutte le sue stirpi ebbero la loro propria vita e una civiltà propria, che Roma ha distrutto, compresa la grecità della Sicilia». E soggiungeva che «l´ultima lotta per la loro vita etnica» gli italici l´avevano tentata con la guerra sociale, di cui la vittoria feroce di Silla era stata in certo senso l´ultimo atto.
Quindici anni più tardi, nel 1940, Simone Weil - allora giovanissima - pubblicava un saggio memorabile, La politica estera di Roma e la politica di Hitler, in cui al di là del parallelo che istituisce sin dal titolo fa una considerazione per molti versi simile a quella del grande filologo tedesco, ma riferita al mondo gallico. Segnala infatti, e con molta efficacia, che la cosiddetta romanizzazione della Gallia fu in realtà - oltre che un genocidio in termini di vite umane - l´estirpazione di una civiltà: di una civiltà che non parla più a noi per la semplice ragione che è stata cancellata.
Nel considerare l´unificazione romana del mondo mediterraneo e celtico-danubiano, gli storici sono di fronte a un bivio: o compiacersi di quel sanguinoso processo storico guardando agli effetti (tale fu già l´atteggiamento di una parte delle élites greche le quali conseguirono un ruolo di «condominio diseguale» del mondo romanizzato) oppure porre in luce i costi non solo umani ma di civiltà che quel processo di unificazione ha determinato.
Non fu però univoco l´atteggiamento delle élites greche. Da questo punto di vista, merita di essere osservato l´esito divaricato cui approdarono esponenti della corrente di pensiero forse più influente nel periodo di massima fioritura del mondo greco-romano: lo stoicismo. Tale corrente di pensiero recava dentro di sé un potente presupposto ideale che andava in direzione dell´unificazione del genere umano entro una cornice organicistica e «provvidenziale», e cioè l´idea della Cosmopoli. E tuttavia tale visione poteva approdare a due esiti opposti: quello di Panezio e di Posidonio, "cantori" (il termine è irriverente, ma il concetto non è erroneo) del predominio universale romano, e quello di Blossio di Cuma (non a caso un italico) che, dopo aver ispirato le riforme di Tiberio Gracco, andò a morire, al fianco degli schiavi del regno di Pergamo, ribelli al passaggio del loro paese sotto il dominio di Roma, stabilito in virtù del «testamento» del loro ultimo sovrano.

l’Unità 22.9.07
Quel socialista di Charles Baudelaire
di Andrea Di Consoli


NÉ SOLO SAGGIO né solo biografia, ma un vero e proprio romanzo è quello che Giuseppe Montesano ha scritto sul «poeta maledetto», scoprendo le sue molte facce: un uomo che si diverte a dare il cattivo esempio e un vero rivoluzionario

Adesso diranno semplicemente che è uno studioso - «un critico», per giunta - ma Il ribelle in guanti rosa (Mondadori, 441 pagine, 19,00 euro) di Giuseppe Montesano (Napoli, 1959), autore di fortunati romanzi come Nel corpo di Napoli (1999) e Di questa vita menzognera (2003), è davvero un libro sorprendente e unico, forse uno dei pochissimi grandi romanzi critici degli ultimi anni - un libro che conosce e racchiude tutte le forme e tutti i metodi di camminamento e di discendimento «nel corpo» di un autore e del suo tempo.
Come tutti i grandi scrittori novecenteschi, Montesano ha usato, nella sua intensa vita letteraria, più generi espressivi: il racconto, il romanzo, il teatro, la critica letteraria, il romanzo a puntate, la critica musicale e la traduzione (ha tradotto Baudelaire, Villiers de L’Isle-Adam, Flaubert, Gautier), e ha così riconfermato (felicemente) l’assunto che il romanzo è solo la punta di un iceberg in un oceano di cultura e di curiosità.
Saggio, certamente; sicuramente critica stilistica, storica, morale e filosofica; biografia, senza dubbio; ma, infine, e sia detto senza nessun ordine di valore, il grande romanzo di un uomo inafferrabile, di un poeta chiuso nella morsa delle sue contraddizioni: Charles Baudelaire (1821-1867), cantore e nemico di Parigi, demone celestiale e infernale, poeta classico e assolutamente moderno, unione di opposti d’inesauribile complessità.
Il romanzo critico di Montesano è un viaggio teso e inquirente in una selva di segni (poesie, lettere e testimonianze) in cui è impigliata e invischiata la tumultuosa vita di Baudelaire, il re dei «maledetti»; anzi, è una specie di «basso» napoletano colmo di vicoli e sotterranei segreti, in cui Montesano ha camminato in tanti anni di oscura «ossessione», come un pensoso flâneur, un «amante» assetato con la lente d’ingrandimento, un filosofo che sa svelare i segreti sublimi della lirica, senza perdere mai di vista il duro reale, le strade lerce, i vizi, («l’erotìa e l’interesse», direbbe Gadda), l’oro del tempo storico che, sotto un luccichio sfavillante, nasconde il «duro metallo della violenza».
E, a proposito di «erotìa», Montesano cerca anche di sfondare il muro misterioso che ci nasconde la bella Jeanne Duval: «(...) Era bellissima. Non abbiamo fotografie, e l’unico ritratto che la raffigura è un quadro di Manet che la dipinse forse a memoria, atrocemente devastata dalla malattia: ma Jeanne era bellissima».
Il Baudelaire di Montesano è un uomo che si diverte a «dare il cattivo esempio». È un poeta malinconico e irascibile, tormentato dai debiti, dalle cambiali, dalle scadenze e dalla gestione controllata del suo patrimonio (tutti sanno l’odio che provava nei confronti del patrigno Aupick). Scrive Baudelaire alla madre: «Quando si ha un figlio come me non ci si risposa».
È, Baudelaire, un poeta che vive la sua breve esistenza sotto l’ombra dello spleen. Scrive Montesano: «Lo spleen era l’esperienza della distruzione non definitiva, quel calarsi nella ferita della ragione resistendo in essa (...)». La sua umanità era fatta di prostitute, illuminati, idealisti, ermetici, ubriaconi, artisti e rivoluzionari («Baudelaire era attratto dai mistici di ogni genere che affollavano mansarde e abbaini delle vie più povere di Parigi»; e ancora: «La Parigi per la quale si aggirava il giovane Baudelaire con la curiosità di chi cerca l’eccesso pullulava di mistici da baraccone, di insofferenti al pensiero logico e di rivoluzionari pronti ad appiccare il fuoco all’intera società (...)»).
E Montesano si cala totalmente con Baudelaire in quest’inferno paradisiaco, e ingrandisce dettagli, svela segreti (l’Ennui non è altro che Napoleone III), sporca le sue mani con il materiale vischioso dell’esistenza del suo poeta e, abitando interamente l’universo baudeleriano, non può fare a meno di diventare anch’egli (in absentia) un personaggio di quella Parigi lì, restituendoci l’immagine di un detective neoplatonico e barocco, irrazionale e sapienzale, rivoluzionario e apocalittico.
Il Baudelaire di Montesano è un barricadiero, un rivoluzionario, (non un «democratico da caffè»), uno che ha sposato la causa della rivolta operaia del 1848, solo in apparenza per ragioni «private» (colpire il suo patrigno-generale).
In realtà Montesano ci svela che Baudelaire aveva una salda conoscenza «tecnica» del socialismo: «Negli anni in cui non aveva disdegnato la lettura dei mistici del socialismo, Baudelaire aveva letto attentamente un filosofo che non era un mistico ma si vantava di essere un tecnico dell’amara scienza, che per lui come per Marx aveva in Ricardo il suo vero fondatore: quella scienza era l’economia politica, e quel filosofo si chiamava Pierre-Joseph Proudhon». Scrive Montesano: «Solo chi scende al livello della strada e abbandona l’egoismo può sposare le folle di Febbraio e di Giugno (...)».
È strano scoprire questa «faccia» di Baudelaire, un poeta che «traffica» con Blanqui, Proudhon e il socialismo cristiano, e che non è soltanto (o non è più) un parnassiano, il cantore della modernità della città di Parigi, o il restauratore del classicismo e, al contempo, colui che ha minato dall’interno, con la dissonanza, e con l’asimmetria, la perfezione della poesia. Il poeta sublime attacca l’art pour l’art, e si dichiara commosso dalla poesia «vera» di Dupont.
Ma, probabilmente, il «socialismo cristiano» di Baudelaire, come scrisse Walter Benjamin a proposito di Blanqui, non presupponeva affatto la fede nel progresso, ma solo la decisione di farla finita con l’ingiustizia del presente. Delacroix, nel 1849, a un anno dai moti del ’48, annota sarcastico nel suo diario: «Venuto il signor Baudelaire (...) Le sue idee mi sembrano modernissime e davvero sulla via del progresso. Uscito lui (...) Stato d’animo molto triste». Era troppo difficile capire il sogno di Baudelaire: unire «i pezzi rotti dell’umanità» non nella purezza astratta dello spirito, «ma nella carne e nel sangue, e contro gli idealisti che escludevano l’eros dall’amore».
Tutto sembra perduto: la malattia, i debiti, le sconfitte del ’48 (e del ’52). E la pulsione sovversiva non è altro che il ghigno smorfioso dello spleen. «La catastrofe è che tutto continui come prima», scrive Baudelaire. Ma la vera catastrofe è l’uomo che aspira all’assoluto, al segreto inafferrabile del tempo e dei simboli del mondo; pure, il senso di estraneità che il poeta prova nella sua Parigi.
Scrive Benjamin: «Nessuno si è mai sentito così poco a casa propria a Parigi quanto Baudelaire». Il povero dandy cambiava continuamente domicilio, dormiva su letti «di fortuna» («Dentro Parigi, il suo deserto vivente, senza fuoco né luogo», scrive). È quasi una premonizione di quei «non-luoghi» teorizzati, molti anni dopo, dall’antropologo Marc Augé.
Le Fleurs du mal Montesano le scandaglia con l’ultravista della dimestichezza: «Le grandi liriche delle Fleurs du mal sono scritte in una lingua doppia, una lingua che nasconde sotto la corazza abbagliante delle immagini le verità che non si possono pronunciare». Non piacevano, le poesie di Baudelaire; anzi, offendevano, indignavano, inducevano alla censura (la storia dell’immediata (non)ricezione delle poesie baudeleriane viene affrontato in apertura di libro, nel capitolo dal feroce titolo Dategli una lezione, a questo poeta infame).
Il clima in cui sorsero le Fleurs fu impossibile. Ancora nel 1868, a un anno dalla morte, sua madre scriveva a Charles Asselinau: «Vi chiedo di sopprimere la poesia intitolata Le Reniement de saint Pierre. Come cristiana io non posso, io non devo lasciar ristampare questa cosa. Se mio figlio vivesse, sicuramente oggi non la scriverebbe, avendo avuto, negli ultimi anni, simpatie religiose».
L’attraversamento che Montesano fa dei versi di Baudelaire è impressionante; procede per intuizioni, per collegamenti, per rimandi alla più importante Weltliteratur. Scopriamo, per esempio, il legame con Sade, in specie nella pulsione all’oltraggio della natura (nei versi di A’ celle qui est trop gaie).
Ovviamente è impossibile dare minimamente conto di ciò che accade in questo romanzo-mondo, in questa fitta selva di dettagli, di atmosfere, di «fatti». È sicuramente interessante - prima del capitolo finale: il capitolo della paralisi e della morte - accennare al periodo belga di Baudelaire. Già qualche anno fa Montesano aveva curato e tradotto per Mondadori Il paese delle scimmie, «diario» impietoso e risentito contro il Belgio piccolo-borghese, bigotto, senza grazia.
Ma perché Baudelaire, nel 1864, andò in Belgio? Scrive Montesano: «(A Parigi) i debiti crescevano, avere soldi in prestito era sempre più difficile, i giornali non lo pubblicavano, Parigi era un carcere, Jeanne paralizzata: bisognava fare qualcosa, spostarsi, agire. E disperatamente, come un animale notturno intimidito dal frastuono, infastidito dai fuochi d’artificio delle feste di regime, sbattendo le palpebre nella luce che cancellava allegra le vittime, Baudelaire partì per il Belgio».
Come molti grandi poeti, Baudelaire è stato un esiliato, in conflitto con il proprio tempo, dilaniato dalle contraddizioni, continuamente richiamato dalla «strada» (dalla vita) e continuamente respinto. È stato l’anima di un paese e di una città e, allo stesso tempo, «cittadino» estraneo, espulso, deriso, rifiutato. In Baudelaire vita e letteratura, sovversione politica ed estasi mistica, «alto» e «basso», verità e menzogna, erotismo e amore, sensualità e razionalità, inferno e paradiso, ordine e disordine convivono come segni tangibili della massima apertura che un’anima terrena possa raggiungere. Perché solo nella contraddizione lacerante è possibile la grandezza (sfiorare il grande segreto del mondo), solo così è possibile durare in eterno, nonostante la paralisi, nonostante la morte che tutto polverizza. Baudelaire era ossessionato che tutto venisse dimenticato. Anche grazie a libri come Il ribelle in guanti rosa la sua stella lucente indica ancora una rotta precisa nel firmamento della letteratura mondiale.

Corriere della Sera 22.9.07
Insulti ai cristiani: il candidato Odifreddi divide i veltroniani
di Giuliano Gallo


ROMA — La parola «cretino» deriva etimologicamente dalla parola «cristiano», aveva sentenziato non molto tempo fa, sollevando un'ondata di sdegno nelle file dei cattolici. Il fatto è che Piergiorgio Odifreddi, piemontese di Cuneo, insegna matematica a Torino, ma soprattutto adora polemizzare con chi professa una fede. «Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) », si intitola la sua ultima fatica letteraria. Come se non bastasse, siede nel comitato di presidenza dell'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Capita dunque che il professor Odifreddi si candidi a Torino per le primarie del Pd, in una lista dal nome non equivoco: «A sinistra per Veltroni». E subito gli attenti ragazzacci del
Foglio gli dedicano una mezza pagina con un titolo altrettanto non equivoco: «Una domanda a W: che ci fa il matematico impertinente capolista per lei in Piemonte?».
Paola Binetti, senatrice cattolica della Margherita, membro del Comitato di Bioetica, come si fa a convivere nello stesso partito con uno che le da della cretina? Sospiro.
«Mah... Certo, far convivere tutte le anime è la sfida più difficile del Partito Democratico. E non è detto che si riesca a vincerla. Proprio oggi è stato reso pubblico il manifesto di bioetica del Pd, elaborato da studiosi sia laici che cattolici. E lì si parla di "rispetto" per le radici religiose, che nulla hanno di incompatibile con una sana laicità. Invece posizioni come quelle di Odifreddi rischiano di vanificare lo sforzo che tutti stiamo facendo.
Lui ci insulta. È imbarazzante. Forse la sua posizione sarebbe più logica all'interno del Partito Radicale. Del resto Carlo Flamigni ha detto esplicitamente che lui non entra nel Partito Democratico perché ci sono io...».
Più tristemente pragmatica la risposta di Luigi Bobba, ex presidente delle Acli, l'associazione dei lavoratori cattolici, anche lui senatore della Margherita, che di una lista per Veltroni è capolista a Vercelli: «Il problema esiste: un sondaggio recente ha rivelato che fra i cattolici l'intenzione di votare a sinistra in meno di un anno è scesa dal 44 al 26 per cento». Lui per la verità nemmeno lo sapeva, che il mangiacristiani fosse candidato. «Sapevo che ce n'erano altre due, di liste. Ma questa mi era sfuggita. Comunque, vedremo quello che diranno i cittadini elettori. Saranno i risultati a dire quale dovrà essere l'imprinting del nuovo partito. In ogni caso credo che oggi parlare di laicità rifacendosi alla logica di Porta Pia sia un po' datato». Ma forse dovevate parlare prima,evitando incongruenze così robuste. «È una fase preliminare. Poi ci saranno un'assemblea costituente, uno statuto, una carta dei valori...».

Corriere della Sera 22.9.07
Un anestesista su due: sì all'eutanasia
di Margherita De Bac


ROMA — Un anestesista su due si dichiara favorevole all'eutanasia e sarebbe disposto ad applicarla se la legge non prevedesse conseguenze.
Tutti invece sono d'accordo sul testamento biologico, che permette al paziente di esprimere quali cure vorrebbe ricevere o rifiutare il giorno in cui si ritrovasse malato, in stato di incoscienza, in una situazione di incurabilità. I partecipanti al congresso nazionale dell'Aaroi-Siared, l'associazione e la società degli anestesisti-rianimatori, hanno messo nero su bianco le loro opinioni sui temi di fine vita.
Un'inchiesta lampo, effettuata attraverso la distribuzione di un questionario in forma anonima con quattro domande e relativo spazio per tracciare le crocette. Hanno imbucato la busta nell'urna 350 specialisti di frontiera, come li definisce il presidente Aaroi, Vincenzo Carpino. Fa discutere il risultato.
Contrari all'eutanasia i ministri Giuliano Amato e Livia Turco. «Dico no perché mi rendo conto che l'accanimento terapeutico è un'altra cosa e che il testamento biologico corrisponde a un diritto della persona», ha commentato il primo. La Turco si dichiara «accanitamente sfavorevole» all'interruzione volontaria della vita, ma ritiene urgente la legge che consentirà ad ogni individuo di dare le disposizioni sui trattamenti da ricevere se incapace di intendere e di volere. No deciso alla pratica sostenuta dalla metà degli anestesisti anche dal capogruppo dell'Ulivo in Senato, Anna Finocchiaro: «Però sul testamento si faccia presto, in osservanza della Costituzione». La legge è in discussione al Senato, se ne parlerà dopo la Finanziaria. L'indagine però non convince. Scettici i bioeticisti sull'attendibilità. A giugno uno studio più approfondito della federazione dei medici, la Fnomceo, aveva dato una risposta diversa.

il manifesto 22.9.07
Firenze, la sinistra non è il «quartetto»
di Daniela Preziosi


I quattro segretari non bastano. Prove di unità a sinistra senza eludere i fallimenti del passato. Dura analisi di Asor Rosa contro i partiti. Ma per Maria Luisa Boccia e Marco Revelli non si può rinunciare alla politica. Occhi puntati sul 20 ottobre e sugli stati generali di dicembre

Definizione fascinosissima, quella di «una sinistra unita e plurale». Solo che per utilizzarla senza farla diventare uno slogan rassicurante ma falso, non ci sono scorciatoie. Bisogna coraggiosamente percorrere nuove strade, ma ancor più coraggiosamente analizzare quelle già percorse, anche di recente. Affrontare quella che un padre nobile della sinistra come Aldo Tortorella riassume con «la questione del dove abbiamo sbagliato».
Quali valori e quali forme per una sinistra unita e plurale è il tema di una tre giorni di dibattiti organizzati qui a Firenze dall'omonima vitalissima associazione. Coordinatore del primo appuntamento, il professor Paul Ginsborg, che ha messo intorno a un tavolo intellettuali di estrazione diversa ma non distante. Marco Revelli, Aldo Tortorella, Tana De Zulueta, Maria Luisa Boccia, Giovanni Berlinguer e Alberto Asor Rosa.
La richiesta dell'ospite fiorentino era di parlarsi in modo franco e fuori dai denti. E i relatori lo hanno fatto, senza troppi riguardi, tenendo inchiodate sulle poltroncine del Teatro Rifredi più di trecento persone per due abbondanti ore di dibattito. L'unità della sinistra oggi è una necessità storica, perché, ha spiegato Ginsborg c'è da riempire «un grande vuoto, sempre più evidente con lo spostamento al centro del Partito democratico». «E' come se fossimo saliti su una barca - dice De Zulueta - e tutti quelli che stavano seduti da una parte improvvisamente si siano spostati da un'altra: si rischia di cappottare».
La propria sopravvivenza, quella delle idee comuni, a sinistra, è di per sé una ragione per provare a stare uniti. Ma non basta. Bisogna parlare uno stesso linguaggio valoriale, confrontare le tante e diverse pratiche politiche.
Non farlo espone al rischio che la federazione della sinistra sia, come dice Berlinguer, «un ottimo coordinamento di gruppi parlamentari». Ma alla fine «il quartetto» - così qui chiamano, con affetto ma non troppo, i segretari di Prc, Pdci, Sd e verdi che oggi pomeriggio discuteranno con questa stessa platea - resta solo un quartetto, mentre l'ambizione è quella di fare un'orchestra, polifonica ma orchestra. «La manifestazione del 20 ottobre a Roma - dice Tortorella - nasce proprio dal desiderio di interpellare il nostro popolo», di farlo ascoltare dal governo Prodi ma anche dal «quartetto» che sta per convocare gli Stati generali della sinistra. Che non si esauriscono certo in tre partiti e un movimento.
C'è persino un'aggravante. E' che non si parte da zero, ma da alcuni smaglianti fallimenti. Qui Alberto Asor Rosa ricorda l'esperienza che poco più di due anni fa venne chiamata «camera di consultazione della sinistra». Asor Rosa è implacabile nell'accusare Rifondazione di averla fatta fallire «perché desiderava che nessuno influenzasse la sua condotta elettorale». Diciamocela tutta, insiste, «unita e plurale significa, in politichese, unita e divisa». Colpa del ceto politico che nella sinistra radicale non è poi tanto radicalmente diverso che altrove, prosegue. Ed è «impermeabile ai contributi della società civile. Un conto sono le parole, un conto è la condivisione del potere». Il nodo dei politici e dei partiti non si elude, qui la platea non è grillina, ma non per questo è meno severa.
Per la femminista Maria Luisa Boccia (senatrice per Prc-Sinistra europea) non è così: uniti e plurali non è un ossimoro, non c'è altra strada che non sia la politica, ovvero il luogo della mediazione che a sua volta è il frutto di un conflitto. La mediazione che «consente la convivenza di pluralità e differenze non ridotte né riducibili a una sola identità». Va avviato quindi un percorso costituente, una rifondazione, un'altra.
«Stiamo assistendo alla fine della sinistra politica. Viene da lontano, da un lungo processo di disgregazione sociale. Ma alla fine si fa più veloce», dice il sociologo Marco Revelli. Una sinistra stritolata dalla scelta fra i rapporti istituzionali e la sua fedeltà sociale. L'ordinanza contro i lavavetri, qui a Firenze, è un sintomo-simbolo di quello che sta accadendo. Usare i lavavetri per dire che gli ultimi sono un fastidio è un atto simbolico, la liquidazione dello zoccolo duro dell'identità della sinistra. La ricostruzione è un processo lunghissimo, e chissà per quante federazioni passa. Ma è già molto che il «quartetto» si accordi per rallentare il processo «mettendo un piede nella porta che si sta per chiudere». Il corteo del 20 ottobre, per Revelli, ha questo senso. «Vorrei che un pezzo d'Italia si facesse vedere e dicesse che non è d'accordo. E che è ancora in grado di parlare».

il manifesto 22.9.07
Natura umana
Il miracolo di un essere esposto al fallimento
di Bruno Accarino


Un saggio dove lo studioso affronta l'evoluzione, il ruolo della tecnica e dell'uso di protesi nelle risposte all'assenza di specializzazione che caratterizza la nostra specie Continuano ad emergere preziosi materiali dal laboratorio del filosofo tedesco Hans Blumenberg. Questa volta si tratta di un testo dal taglio decisamente antropologico

Era ampiamente prevedibile che dopo la morte (1996) sarebbero emersi dal laboratorio di Hans Blumenberg materiali preziosi. Ciò che forse non era possibile pronosticare è che fossero di un'ampiezza paragonabile ad alcune delle opere maggiori e che avessero, in qualche caso, un taglio decisamente antropologico, anche se il lettore delle sue ultime opere aveva già potuto toccare con mano la propensione ad andare sempre più indietro, verso situazioni di partenza o verso condizioni antropogenetiche. Nel frattempo è imminente anche la pubblicazione di un testo su Ernst Jünger e di un carteggio con Carl Schmitt, che arricchirà i materiali della disputa a suo tempo avviata da Blumenberg sulla teologia politica di Schmitt.
Oggi ci troviamo di fronte ad una Descrizione dell'uomo (Beschreibung des Menschen, Suhrkamp) che è in larga misura un omaggio a Edmund Husserl, forse l'unico vero maestro, se si concede che un personaggio della stazza di Blumenberg tolleri le strettoie del discipulato: in altri casi (Ernst Cassirer) le cose sono troppo complesse per essere definite in termini di magistero, in altri casi ancora (Erich Rothacker) affiora l'ingombro di un maestro coinvolto nell'esperienza nazista e imbarazzante per un semi-ebreo come Blumenberg, arrestato nel 1944 e poi costretto alla clandestinità fino alla fine della guerra.

Primitivismo organico
Dalla mole, come di consueto, impadroneggiabile di analisi e di suggestioni estraggo la lunga trattazione sulla genesi dell'uomo, che occupa quasi tutta la seconda parte dell'opera. Le teorie sull'ipotetico stato di partenza della filogenesi umana sono in sostanza due o al massimo tre: quella dell'uomo come animale da fuga, quella legata al nome di Louis Bolk e quella della cosiddetta proterogenesi (nascita anticipata).
La domanda iniziale è una sola e non vede ancora differenziazioni di scuola: come sia stato possibile che, in mezzo a primati specializzati e adattati a vari ambienti, si sia arrivati al tipo non specializzato, e in larga misura sprovvisto di adattamenti, che è indispensabile presupporre come forma primordiale dell'evoluzione che porta all'uomo. Anche la prima risposta è comune e non oggetto di disputa: il primitivismo organico (la mancanza di specializzazioni) dell'uomo è il risultato di una regressione. Sensibilità differenti intervengono sul punto successivo, se cioè una siffatta regressione debba spiegarsi con il graduale venir meno di specificazioni (e dunque con il ritorno alla a-specificità), o se si debba pensare ad una ontogenesi che si fermi allo stato primitivo. La de-specializzazione della dotazione organica umana è, come propone la teoria della «fetalizzazione» (perduranza di caratteri fetali), l'inizio di tutte le vicende umane o ne è la fine, cioè un programma biologico mai pienamente realizzato di esclusione delle funzioni del corpo nel padroneggiamento della realtà?
Le simpatie interpretative di Blumenberg vanno abbastanza evidentemente alla teoria di Paul Alsberg, a proposito del quale si può ben dire che il fiuto per i grandi problemi è in grado di sopravanzare un'allenata identità professionale: medico di mestiere, scrisse da non-specialista un testo anche abbastanza agile (L'enigma dell'umanità, 1922) che troneggia ancora oggi, imprescindibile, in tutti gli apparati bibliografici. Quel che infatti non torna nella teoria della fetalizzazione è l'origine di quel fenomeno straordinario che è l'andatura eretta o la bipedia.
Il vantaggio della teoria dell'animale da fuga è nell'immaginare, in una situazione acuta o in un pre-politico stato di emergenza, la capacità della actio per distans di farsi radice specifica del complesso delle prestazioni umane. Lo scenario originario che lo sguardo paleoantropologico ricostruisce è quello di un animale, rappresentato come predecessore dell'uomo, che cade in un vicolo cieco o in una situazione senza via d'uscita nei confronti dei suoi inseguitori. Poiché ha progressivamente perduto la capacità della lotta ravvicinata o del corpo a corpo, questo animale ricorre, a fronte della minaccia, ad una riserva operativa di cui dispone proprio perché è un essere primitivo e non specializzato: può allora provvisoriamente cambiare la stazione del corpo e liberare le estremità inferiori per difendersi con il lancio di una pietra. La distanza, questa incalcolabile conquista bio-antropologica, viene guadagnata non con il movimento, ma con un'azione preventiva attraverso lo spazio, che consente di non arrivare al contatto dei corpi. Ciò che viene inventato è per un verso la fuga stazionaria come costruzione di una distanza rispetto agli inseguitori, per l'altro la capacità di guadagnare tempo: non è che l'uomo sappia esitare e temporeggiare perché è titolare della ragione, ma ha la ragione perché ha imparato ad esitare e a temporeggiare. Sono le emozioni che creano l'intelligenza.

L'invenzione della distanza
Protagonista è la mano, e non solo né soprattutto per via del pollice opponibile. È la mano che rende possibile ciò che si configura come «esclusione del corpo», cioè come spostamento delle prestazioni fondamentali dell'autoconservazione sulla distanza. La fallacia finalistica è nel credere che il predecessore dell'uomo abbia assunto la posizione eretta per liberare le mani. Il percorso più verosimile è inverso: poiché la prova del lancio difensivo della pietra viene effettuata da un essere ancora quadrupede, è più corretto dire che la stazione eretta nacque perché le mani non erano più libere e perciò imponevano il passaggio alla bipedia.
Certo, è difficile immaginare che la scoperta (ma meglio si direbbe: l'invenzione) della distanza, pur reiterata singolarmente migliaia di volte, fosse passibile di apprendimento o di trasmissione e di insegnamento, perché può apprendere solo chi è già in grado di apprendere. Ma il principio della fuga rimane di portata molto ampia: se il predecessore dell'uomo opta per la fuga difensiva restando fermo, è anche perché ha deciso di passare al principio della lotta e dell'accettazione dello scontro. Rispetto a Darwin, viene acquisita l'elasticità del passaggio dalla specializzazione alla non-specializzazione e viceversa, a seconda della situazione: l'ominide si arma di uno strumento, la pietra, e si dà un'attrezzatura che non appartiene al suo corpo. Non solo Blumenberg non recepisce il postulato dell'originaria aggressività dell'uomo, ma vede nella lotta per l'esistenza la superiorità di chi ha scelto di fuggire, se è vero che la fuga si articola in uno spazio di possibilità assolutamente sconosciute: l'ampiezza e l'apertura ottica della steppa, qualcosa di assai diverso dalla foresta vergine.

Emozioni all'orizzonte
Qui il filosofo si fa restituire le redini dal paleoantropologo, al quale le aveva provvisoriamente cedute. Fuori della foresta arriva la visibilità, una delle ossessioni di Blumenberg. Detto per inciso, non ricordo di aver mai letto in lui un dialogo così accanito e motivato con la sociologia dei sensi di Georg Simmel, impegnata a leggere l'intersoggettività sul fronte della differenza tra la vista e l'udito. Altrove Blumenberg ha ripreso il problema, di tradizione filosofica classica, della percezione sensoriale dei ciechi dalla nascita, in questo caso il cerchio si stringe attorno alle trasformazioni primordiali: il mondo dei nascondigli e dei rifugi, delle tane e delle caverne, il mondo che coincide con il biòtopo della foresta, è un ambiente privo di orizzonte. Ciò che accade non è che venga allargato un orizzonte originariamente angusto, ma che ne venga costituito uno in quanto tale. Blumenberg sembra emozionato, ed è comunque emozionante, nel restituire i lineamenti di questa rivoluzione: l'orizzonte è l'insieme delle possibilità non ancora esperite che per suo tramite entrano nella sfera della percezione. Pur essendo una soglia puramente apparente, esso è decisivo per l'acquisizione della coscienza da parte di un essere la cui ottica è, nell'ampiezza dell'angolo visuale, delimitata dalla convergenza frontale degli occhi e dal vantaggio della vista prospettica.

Un rischio in vista
Possiamo infatti vedere solo verso un lato, ma essere visti da tutti i lati, con un effetto di accrescimento della superficie della vulnerabilità umana che fa pensare a telecamere di sorveglianza e a mostruosità panottiche. E che può intervenire anche sul mito dell'espulsione dal paradiso: perché Adamo si nasconde a Dio? Non per la sua nudità, che è solo una circostanza accessoria sessuofobicamente sovrappostasi alla narrazione biblica, ma perché è sorpreso da ciò che, nei contesti della natura e dei sensi, è improbabile: che cioè un essere assente sia trattato come se fosse presente e che qualcuno, foss'anche Dio, possa dargli del «tu» senza che egli lo veda.
Se si riprende l'intenzionalità di fondo del discorso, balza agli occhi che alcune figure decisive - su tutte: il rischio - non hanno tratti filosoficamente invasivi. L'uomo è un essere vivente a rischio ed esposto al fallimento; è l'incarnazione stessa dell'improbabilità, stante il fatto che la stragrande maggioranza delle vie evolutive non porta all'uomo e che numerosissime sono le specie animali che non compaiono nella serie degli antenati dell'uomo; è l'animale che vive «nonostante» o «tuttavia», quasi un dispettoso miracolo strappato alla natura, se il miracolo non rinviasse già ad una situazione satura di cultura, di credenze e di religioni. L'uomo è una soluzione collaterale sorprendente e inconseguente del problema complessivo dell'autoaffermazione della vita sulla terra. Nulla a che vedere, però, con le odierne infatuazioni per il rischio, che magari proiettano all'indietro, verso condizioni antropogenetiche, il fascino esercitato da una globalizzazione sentita come eccitante ed elettrizzante, quasi che l'uomo potesse finalmente scuotersi da un torpore arcaico e plurimillenario e volgersi all'avventura planetaria.
Qui l'elogio estetizzante del rischio, che siano in gioco fremiti bellicistici o strizzatine d'occhio ad un mercato inselvatichito e spietato, non c'entra proprio nulla. Si tratta, più sobriamente, di intendere se la costituzione naturale dell'uomo consenta di gestire in chiave di controllo razionale ciò di cui un essere arrischiato non può fare a meno: le protesi strumentali. Le quali non rispondono - insiste Blumenberg - ad un drammatico disagio iniziale da compensare, ma ad una debolezza biologica definitiva e morfologicamente strutturale. Se la cultura ha assunto su di sé il compito di proteggere dai rischi dell'esistenza, è anche perché l'organismo in questione non ha più partecipato all'abbattimento biologico dei rischi dell'esistenza attraverso l'evoluzione: lo ha delegato alla tecnica e alla cultura. Se la pressione selettiva si allenta e faticosamente si annuncia un mondo non darwiniano, la conseguenza potrebbe essere l'inarrestabilità di quella evoluzione strumentale che ha reso possibile controllare i rischi estremi dell'esistenza, della vita o della morte, e che oggi è sospettata di portare in grembo un potenziale distruttivo e catastrofico. La domanda è: abbiamo il coraggio e il potere di frenare il moltiplicarsi delle protesi?

Il politico da estrarre
Quando un mago della storia della cultura e dei concetti come Blumenberg,, che aveva sulla punta delle dita secoli di pensiero occidentale e una disumana quantità di testi, retrocede a scenari lontanissimi nel tempo, bisogna allarmarsi: vuol dire che appaiono poveri e balbettanti tutti i linguaggi filosofici che si sono succeduti. Vero è che Blumenberg non ha mai accantonato la natura, basti pensare al capitolo sul genoma che chiude La leggibilità del mondo o alle indagini sulla svolta copernicana. Con quest'opera, poi, si registra un'ulteriore adesione allo sforzo (oggi mediaticamente quasi disperato) di opporre resistenza alla sbornia americana dell'alternativa tra darwinismo e creazionismo, che scarnifica un panorama assai più frastagliato e perciò recalcitrante a stendardi propagandistici e fondamentalistici.
Ma oggi le cose hanno una radicalità diversa dall'interesse suscitato dall'ultima tappa biografica di un grande pensatore. Sull'antropologia filosofica (e su quello che ne è l'esponente più versatile: Helmuth Plessner, di cui la manifestolibri ha pubblicato Potere e natura umana) sembrano convergere, come a chiedere una ricetta risolutiva, le innumerevoli delusioni profuse dalla storia e dalla politica, all'interno di un dialogo ancora balbettante con le scienze della vita e con le ultime indagini sul cervello umano. Prospettive da timore e tremore, come suol dirsi. Ma intanto la ricerca filosofico-antropologica ha cessato di essere rimasticatura dell'«arte di vivere», ricognizione delle strategie della prudentia o fenomenologia della marcia trionfale del logos: va riappropriandosi di tutto lo spettro della natura, che a sua volta ha perduto l'ovvietà immobile di un territorio da saccheggiare. La porta stretta per la quale passare potrebbe essere quella di estrarre ambiziosamente, da questo ricominciamento, un'immagine plausibile del politico, in grado di rimpiazzare sia la politica sia quel suo sottoprodotto, rancoroso e non autenticamente antagonistico, che è l'anti-politica.

Hans Blumenberg
Dalla «Leggibilità del mondo» al recente e inedito carteggio con Carl Schmitt
Quasi tutte le grandi opere di Hans Blumenberg (1920-1996) sono edite dal Mulino (Bologna), da «Naufragio con spettatore» a «La leggibilità del mondo», da «Elaborazione del mito» a «Tempo della vita e tempo del mondo». Da Marietti è edita «La legittimità dell'età moderna». Quanto alla tradizione italiana, piace ricordare che Blumenberg ha reso omaggio per tutta la sua vita a Giordano Bruno, dei cui testi è stato anche curatore. Il lavoro postumo su Ernst Jünger, a giorni in libreria, ha per titolo «Der Mann vom Mond» (L'uomo della luna), mentre è apparsa da poco, sempre presso Suhrkamp, una «Theorie der Unbegrifflichkeit» (Teoria dell'inconcettualità). Forse attualmente sopravanzato dall'aggressiva brillantezza di Peter Sloterdijk, Blumenberg si rifarà vivo nel dibattito europeo quando il ripensamento bioetico e biopolitico del corpo avrà trovato assetti più equilibrati di quelli oggi raggiunti: allora riaffioreranno cose che ci erano sfuggite. E che non potevano non sfuggirci, perché non esistono letture innocenti, gratuite o «immotivate», né di Blumenberg né di nessun altro.

Liberazione 22.9.07
Indulto, sempre meno recidivi. Carceri di nuovo affollate
A un anno di distanza dal provvedimento l'amministrazione penitenziaria presenta il primo report ufficiale:
Recidiva diminuita in generale e l'80% degli indultati non ha commesso reati. Ma gli italiani non lo sanno
di Davide Varì


Dopo un anno di illazioni, denunce e insulti di ogni tipo - da Travaglio a Grillo, passando per la Lega fino ad An - sono arrivati i numeri a mettere la parola fine alle interpretazioni arbitrarie sugli effetti dell'indulto. «La presenza di recidivi in carcere un anno dopo di indulto - ha dichiarato ieri il guardasigilli Clemente Mastella - è pari al 42% del totale». Considerando che prima dell'approvazione dell'atto di clemenza il tasso di recidiva dell'intera popolazione carceraria era del 44%, è chiaro che la cosiddetta recidiva post indulto è inferiore a quella, per così dire, fisiologica e abituale. «Basta dunque alle polemiche strumentali - ha sbottato sempre il ministro Mastella - l'indulto è stato un provvedimento eccezionale preso per fronteggiare una situazione altrettanto eccezionale».
In effetti, i critici dell'indulto, dimenticano sempre i dati sul sovraffollamento delle carceri del belPaese prima dell'estate scorsa. Prima dell'indulto del luglio 2006, infatti, la popolazione carceraria italiana era pari a 60mila persone. Grazie al provvedimento di grazia ne sono state liberate circa 26mila. Poi, nel giugno 2007, ci si era assestati intorno ai 43mila detenuti. Vale la pena inoltre ricordare che quei 60mila detenuti ed il personale carcerario vivevano in condizioni psicologiche e fisiche insostenibili. Insomma, una bomba ad orologeria che andava disinnescata.
Ma tutto questo non ha frenato la furia dei giustizialisti che fino ad oggi non hanno fatto altro che denunciare un boom di crimini. Un boom che oggi scopriamo ufficialmente inesistente. E' evidente che quando si decide un indulto si mette in conto la possibilità che i reati, soprattutto nel primo periodo, possano subire un'impennata. Ma dai dati presentati ieri dal ministro Mastella si evince un sostanziale successo in termini di recidiva.
Eppure, anche i dati precendenti ad oggi parlavano di un sostanziale successo: nei primi 5 mesi il tasso di recidiva era infatti dell'11,9%, contro una media superiore al 30% nei precedenti provvedimenti di indulto. Inoltre il tasso di recidiva era più alto tra i cittadini italiani che tra gli immigrati, e tra questi ultimi l'89% dei recidivi hanno avuto la revoca del beneficio per reati legati esclusivamente all'immigrazione clandestina.
Per tornare ai dati presentati ieri da Mastella, c'è da dire che ad oggi sono 26.752 i detenuti usciti dal carcere grazie al provvediemnto di clemenza. Di questi, circa il 22% (per l'esattezza 6.194, di cui 4.318 italiani) sono finiti di nuovo in cella per essere tornati a delinquere. Ciò non significa però - fa notare il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che in occasione della festa della polizia penitenziaria a Napoli ha reso noto i dati aggiornati al 18 settembre - che il tasso di recidiva sia aumentato dopo l'indulto: il tasso era infatti al 44% prima dell'approvazione dell'atto di clemenza il 31 luglio del 2006, mentre ora è al 42%. Un successo ancora più importante se consideriamo che nei cinque anni dopo la scarcerazione ben il 68% dei detenuti torna in carcere.
«A fronte di una campagna mediatica di rara virulenza e spregiudicatezza fatta per guadagnarsi l'applausi delle curve - ha dichiarato ancora Mastella - anche gli autori eterogenei del provvedimento, impauriti dalla impopolarità, si sono mimetizzati». Il ministro della giustizia poi ringrazia Prodi «che sull'indulto ha speso parole di verità» e Berlusconi, che si è detto «apertamente pronto a rivotarlo».
Vale forse la pena ricordare che l'indulto approvato dalle camere riguardava i reati commessi fino al 2 maggio dello stesso anno e che erano esclusi i reati di terrorismo (compresa l'associazione eversiva), strage, banda armata, schiavitù, prostituzione minorile, pedo-pornografia, tratta di persone, violenza sessuale, sequestro di persona, riciclaggio, produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, usura e quelli concernenti la mafia. La legge ha stabilito anche che l'indulto non potesse essere applicato alle pene accessorie temporanee, come l'interdizione dai pubblici uffici.
Unico neo, unico limite vero di questo indulto, almeno secondo il parere della gran parte dei giudici, è dato dato dal fatto che il provvedimento, azzerando la pena senza estinguere il reato, ha reso comunque necessario il completamento dell'iter processuale, distogliendo le risorse degli uffici giudiziari da altri processi sui quali non di rado gravano concreti rischi di prescrizione. Insomma, gli addetti ai lavori sostengono che un indulto senza amnistia, amnistia che avrebbe estinto la pena, ha poco senso. Altro neo è dato dal fatto che le carceri, non certo a causa dell'indulto, hanno ripreso a riempirsi di nuovo. Patrizio Gonnella di Antigona parla di ottimo risultato «visto che per la gran parte si tratta di persone che hanno scarse reti sociali. Un risultato che dovrebbe far capire l'utilità dell'indulto».
I dati non sono invece bastati all'ex sottosegretario alla giustizia Alfredo Mantovano che parla di numeri falsati: «È davvero preoccupante la protervia del ministro della Giustizia nel contraddire la realtà. Sull'indulto, che, certo, è stato approvato dai 3/4 del Parlamento gli chiedo se è violenza mediatica ricordare che Mastella aveva assicurato in Parlamento che sarebbero usciti dal carcere 12.000 detenuti. Si è oltre quota 26.000, e il conteggio non è ancora chiuso; è lecito chiedersi se tutti quelli che hanno votato per l'indulto lo avrebbero fatto egualmente con una corretta informazione».

Liberazione 22.9.07
De Martino, studioso postcoloniale ante litteram
di Giovanni Leghissa


In un passo in cui espone il senso complessivo del suo confronto con l'alterità, confronto compiuto a partire dal proprio campo disciplinare, ovvero l'antropologia culturale, De Martino scrive:
«...il viaggio etnografico si colloca nel quadro dell'umanesimo moderno come rovesciamento totale del viaggio mitico nell'al di là che maghi, sciamani, iniziandi e mistici di tutte le civiltà religiose compiono per ricuperare in quest'oltre elettivo lo smarrirsi della presenza nei momenti critici del divenire storico: nel viaggio etnografico ... semplicemente si tratta di una presa di coscienza di certi limiti umanistici della propria civiltà, e di uno stimolo di andare "al di là" non dell'umano in generale, ma della propria circostanziata umanità "messa in causa" da una certa congiuntura storica: presa di coscienza e stimolo che comportano un viaggiare non in senso mitico, ma in quello di raggiungere sistemi di scelte culturali che sono semplicemente "diversi" dal nostro, nel quale siamo "nati e cresciuti". Eppure della nostra civiltà, della civiltà moderna, non possiamo essere disposti, durante i viaggi etnografici, a mettere in causa tutto allo stesso modo, perché proprio questo relativismo estremo ci renderebbe - sotto la parvenza di una disponibilità illimitata - stupidi e incomprensivi molto peggio delle bestie e tramuterebbe l'al di là del viaggiare nella caricatura o nella contraffazione del mitico viaggio verso il regno degli dei. Non possiamo mettere in causa il risultato fondamentale dell'umanesimo di cui siamo, volenti o nolenti, gli eredi: cioè la coscienza dell'origine e della destinazione umana di tutti i beni culturali, anche di quelli - anzi "soprattutto" di quelli - che includono in un modo o nell'altro il pensiero di una origine o di una destinazione metastorica, extramondana, divina della cultura. ... La coscienza dell'origine e della destinazione umana di tutti i beni culturali non è una fra le tante coscienze possibili che se ne può avere, ma è la nostra coscienza di etnografi che ci segue come un'ombra, è lo strumento di analisi più indispensabile che portiamo con noi. Quale che sia il sistema di scelte culturali nel quale ci imbattiamo, esso cade integralmente nella sfera di questa scelta, che definisce in modo univoco il nostro "ruolo". Possiamo valutare tutte le proposte che l'uomo ha avanzato per vivere in società: ma a patto di non mettere mai fra parentesi la proposta umanistica nella quale "siamo dentro", e che è nostro compito avanzare incessantemente» (E. De Martino, La terra del rimorso , 1961, ora edito da Il Saggiatore, Milano 1996).
Se ci sono buone ragioni per vedere in Said quell'autore che, nell'ambito dei dibattiti postcoloniali, meglio di chiunque altro ha saputo articolare la necessità tanto di mantenere vivo il senso dell'universalismo quanto di leggere tale universalismo a partire da un'ottica postcoloniale, altrettanto buone ragioni ci sono per ricordare come con questo stesso snodo problematico si sia confrontato l'antropologo Ernesto De Martino. È difficile negare che l'immissione, nel contesto culturale odierno, di temi e istanze provenienti dal dibattito postcoloniale costringa a una presa di distanza dal luogo che abitualmente si abita quando si prende la parola per definire i confini che separano il medesimo e l'altro. Questi confini, non essendo qualcosa che si misura in termini geografici o geopolitici, attraversano i soggetti stessi e permeano quell'insieme di narrazioni che circolano in vario modo e attraverso mille canali nelle fibre dell'immaginario collettivo. Ciò pone un problema non piccolo per chi voglia prendere la parola in quanto autore di discorsi teorici. Una teoria che ponga quale proprio oggetto di riflessione la questione delle differenze culturali deve infatti saper dar conto di se stessa e della propria provenienza. Ed è abbastanza facile immaginare che, se l'autore del discorso teorico appartiene alla tradizione europea occidentale, questi dovrà confrontarsi con la spiacevole sensazione di essere l'erede di una tradizione in cui la proclamazione di una serie di principi universali (per esempio l'eguaglianza del genere umano in quanto fatto della ragione e non in quanto postulato teologico) è sempre andata di pari passo con la proclamazione della propria superiorità morale e culturale. Tale sensazione è spiacevole perché porta con sé, in modo quasi inevitabile, la domanda seguente: poiché ormai abbiamo riconosciuto non solo il carattere locale, storicamente determinato, di quei principi che poniamo come universali, ma anche la complicità tra il gesto che ne proclama l'universalità e l'impresa della colonizzazione, dobbiamo forse rinunciare a tali principi? La risposta è ovviamente no, dal momento che la questione delle differenze culturali non è scindibile da quelle poste dalle differenze di classe e di genere - e per produrre un discorso capace di affrontare queste ultime devo disporre di una teoria della giustizia, la quale, va da sé, non potrà far a meno di qualche principio universale, o perlomeno universalizzabile con un minimo di plausibilità. Tuttavia il disagio resta, e con esso la necessità di abitare il paradosso in maniera produttiva. Ora, precisamente il modo in cui De Martino, ben prima che nascessero ambiti disciplinari come gli studi culturali o gli studi postcoloniali, ha dato voce a tale paradosso articolato può senz'altro fornire un utile punto di partenza per riformulare oggi la questione dell'universalità dell'umanesimo - e questo non a partire dall'ottica provinciale di chi afferma «certe già si dicevano qui da noi, ben prima che saltassero fuori Said, Hall o Spivak», ma a partire dalla consapevolezza che un autentico dibattito postcoloniale sull'eredità dell'umanesimo laico non può che aver luogo in un costante intreccio tra passato e presente, tra il nostro limitato "qui" e gli innumerevoli "altrove" del pianeta.

Liberazione 22.9.07
A colloquio con lo psichiatra e intellettuale ospite della rassegna Torino Spiritualità. Le malattie della psiche hanno a che fare solo con la mente? La scissione tra corporeo e interiorità è un vecchio stereotipo che la filosofia ha rifiutato nel Novecento
Eugenio Borgna: «Il corpo è la mappa della nostra anima»
di Vittorio Bonanni


Primario emerito di psichiatria dell'Ospedale Maggiore di Novara, libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali, nonché autore di numerosi libri Eugenio Borgna è un intellettuale capace di passare con disinvoltura dai temi più classici del suo impegno professionale ad altri quali la filosofia e la scienza. Insomma un approccio umanistico, il suo, a 360 gradi che non è sfuggito agli organizzatori di Torino Spiritualità 2007, iniziativa quest'anno incentrata sulla tematica dei differenti linguaggi del corpo. Ieri l'altro Borgna ha tenuto una lezione al Teatro Gobetti appunto su "Il corpo dei linguaggi", e più esattamente su "La malattia psichiatrica: metafora e anello di congiunzione fra corpo e spirito". «In genere - dice lo psichiatra - si ritiene che ogni malattia in psichiatria sia costituita esclusivamente da quelli che chiamiamo i disturbi psichici, cioè da quelli che sono i modi di sofferenza della vita psichica, dell'interiorità e della soggettività. Mentre non pensiamo che in quella malattia possa avere un ruolo anche la sofferenza del corpo».

Come interagisce il corpo con la sofferenza psichica?
Il corpo può essere interessato in ogni forma di sofferenza psichica, ma è un aspetto del tutto limitato del problema quando l'inquietudine, l'angoscia o la disperazione si accompagnano all'insorgenza di alcuni disturbi del corpo.

Quella che noi chiamiamo somatizzazione...
E che si traduce in una disciplina la quale, sempre nell'ambito della psichiatria, si occupa delle relazioni che corrono tra vita psichica, anima e corpo. Ci sono due possibili modi di vivere il nostro corpo. Secondo la tradizione cartesiana, io posso vivere il mio corpo come un oggetto, come una cosa, appunto come faceva Cartesio, quando considerava il corpo come un oggetto che fa parte del mondo, res extensa e non del suo "io", del mio "io", insomma dell'anima, res cogitans . Questa tradizione è ancora oggi dominante, almeno in alcune aree della psichiatria, che non tengono conto di quello che accade nel corpo quando io sono triste, depresso o angosciato. Ma è possibile cogliere invece due diverse dimensioni del corpo e queste dimensioni sono state scoperte, valutate e messe in evidenza da quella corrente filosofica che chiamiamo fenomenologica. La fenomenologia di Husserl, Heidegger e Scheler che ha influenzato fortemente la psichiatria, ha fatto nascere all'interno della dimensione del corpo un'altra dimensione che è quella del corpo vivente, vissuto, soggetto, del corpo portatore di significati. I tedeschi hanno due vocaboli diversi: Körper quando si intende il corpo come oggetto, come cosa, e Leib quando invece vogliamo fare riferimento al corpo vivente.

"Corpo vivente"? Sembra quasi una tautologia...
Per esempio, la mia mano può essere un semplice oggetto per un chirurgo che la opera, ma si trasforma invece in soggetto quando è una mano che significa qualcosa, che accompagna le mie parole.

Quando si può datare un cambiamento di prospettiva, una rottura insomma della tradizione cartesiana e l'introduzione di una filosofia che ha condizionato recentemente anche la medicina moderna?
Questa psichiatria è nata nel 1922, quando un grande psichiatra svizzero, Ludwig Binswanger, scrisse che noi non abbiamo solo il linguaggio delle parole, ma abbiamo anche il linguaggio del corpo vivente, perché appunto il nostro corpo parla. Parla con gli sguardi che noi abbiamo, con il sorriso o con il pianto e con la voce, o ancora con la nostra mano che stringe un'altra mano. Questi sono gesti che compie il nostro corpo.

Un contesto culturale non certo estraneo alla scuola basagliana...
E infatti Basaglia si trovò inserito nel solco di questo discorso. Sia perchè i lavori che lui ha scritto nei primi dieci anni sono impregnati di questa idea fenomenologica, di questa filosofia, che ridando anima alla libertà, all'individualità, alla coscienza dei pazienti, ha contemporaneamente dato significato anche al loro corpo e anche ai modi con cui noi, con i nostri corpi, ci avviciniamo ai pazienti ma anche ad ogni altra persona. Ad ogni persona noi ci rivolgiamo con le parole ma anche con il nostro corpo. In genere di questo aspetto noi non ci occupiamo, e riteniamo che queste cose siano delle fantasticherie. In realtà nel modo con cui io guardo una persona, con cui io stringo la mano, con cui i miei occhi entrano in contatto con gli altri, nascono messaggi, significati semantici che a volta hanno un'importanza ancora più intensa delle nostre stesse parole. E Franco Basaglia ha portato all'esplosione questi che erano o sono stati soltanto dei noccioli virtuali, sconvolgendo la struttura degli ospedali psichiatrici, che purtroppo vive ancora in molte aree, per la quale chiunque soffrisse di una malattia psichica non aveva dignità, non aveva libertà, non aveva esigenze umane a cui guardare.

Con quale linguaggio il corpo esprime la sofferenza psichica?
Ci sono alcune forme di sofferenza psichica in cui questo linguaggio disperato del corpo riemerge in forma particolarmente disagiata. Per esempio alcune forme di depressione, non certo le depressioni di cui possiamo soffrire tutti e che a volta allargano i nostri orizzonti di conoscenza, ma la depressione che a volta arriva proprio dagli abissi del nostro cuore. In questi casi questo corpo vivente non riesce più ad esprimersi. I pazienti reagiscono come se il loro corpo non fosse né vivo né morto. Questo avvalora le connessioni che ci sono, e che non sono metaforiche ma reali, tra sofferenza psichica e sofferenza del corpo. Questo tema richiama un celebre racconto di Kafka, Il cacciatore gracco , nel quale appunto attraverso queste riflessioni struggenti che faceva Kafka, viene descritto questo "cacciatore gracco", che muore e che non muore. Questo per dire che sono esperienze umane e psicologiche che possiamo avere e che anche alcuni grandi scrittori hanno intuito.

La necessità di concepire il corpo come qualche cosa di sensibile, di pensante e non soltanto come un insieme di cellule, come si coniuga con un'epoca di precarietà dell'individuo, minacciato dal terrorismo o dalla mancanza di garanzie sociali?
I problemi dei quali stiamo parlando fanno parte radicale di ogni condizione umana e di ogni epoca, benchè oggi senza dubbio da una parte la depressione, dall'altra l'angoscia crescono in ciascuno di noi non solo per la presenza di sofferenze fisiche che abbiamo sempre avuto ma anche come conseguenza di un clima sociale solcato in questi anni in particolare dal terrorismo, per cui l'angoscia della distruzione del proprio corpo, e non solo dei propri sentimenti e delle proprie emozioni, si fa in certi luoghi e in certi momenti ancora più intensa e sconvolgente di quanto non accadesse prima. Anche il fenomeno, oggi attualissimo, dell'anoressia, di ragazze che vivono con un corpo sempre più inconsistente, sempre più astratto, è strettamente legato al clima sociale che caratterizza i nostri tempi.

Liberazione 22.9.07
Primo dibattito della tre giorni del laboratorio fiorentino tra preoccupazione e voglia di andare avanti
La Sinistra unita a Firenze: «Si osi più della federazione»
di Angela Mauro


Quelli che arrivano in ritardo alle riunioni, quelli che vengono solo per ascoltare i loro leader, quelli che se ne infischiano e leggono il giornale o non spengono i cellulari. «Tutto questo è paralizzante per il nostro lavoro». Paul Ginsborg stende il canovaccio della discussione al primo dibattito della tre giorni della sinistra unita e plurale a Firenze. Partecipazione che supera la capienza di circa 350 posti del Teatro Rifredi, ma l'aria in sala non è di entusiasmo, nonostante i risultati raggiunti dal lavoro comune intrapreso nel capoluogo toscano da Prc, Sd, Pdci e Verdi e le associazioni della sinistra sul territorio. «Angoscia, rabbia, impotenza», riassume l'intellettuale anglosassone al termine di un dibattito che non nasconde i problemi della fase politica e del percorso unitario a sinistra e che serve alla maggior parte dei relatori per chiedere che le forze della sinistra osino di più dell'annunciata federazione per aprire un vero e proprio «processo costituente» che mescoli le identità e apra alla partecipazione. Applausi dalla sala.
Si parte dall'individuo, inteso come soggetto sociale, i cui bisogni non vengono più ascoltati dalla politica, e soprattutto come colui che fa politica, che è ceto politico. E la critica è per certi versi spietata. «I tempi! - richiama l'attenzione Ginsborg - Basta con le riunioni fiume, così si esclude la gente normale e la politica la fanno solo gli anormali». Aldo Tortorella dell'Ars ammette di essere stato «anormale» per tanti anni, si concentra sugli sbagli nelle idee fondative della sinistra («Il pensare all'uguaglianza senza un'idea di libertà») per individuare, anche nell'odierna sinistra, un eccesso di «difesa della propria individualità di partito». La federazione «è meglio che niente», continua Tortorella, ma bisogna rinnovare la cultura di sinistra, convincersi che «la capacità individuale deve avere un premio nella società che sogniamo e non una nuova repressione». Alberto Asor Rosa siede discosto rispetto agli altri relatori, volto teso e il dente ancora avvelenato per il fallimento della "sua" Camera di consultazione permanente, esperienza di percorso unitario a sinistra provata quasi tre anni fa. E se lo toglie il dente: «Non si può dimenticare quel fallimento, voluto dal Prc e da Bertinotti che decisero di presentarsi da soli alle politiche. Ora, l'unità a sinistra, comunque perseguita, è auspicabile, ma nelle condizioni attuali io non partecipo». Perché? «Mi occupo di parole da una vita - spiega il professore - e so che la definizione "sinistra unita e plurale" vuol dire sinistra unita e divisa. E' politichese, per nascondere le difficoltà». Gli ostacoli per Asor Rosa stanno tutti nel ceto politico, che «è spinto solo da un istinto di sopravvivenza», «impermeabile ai contributi della società civile», incapace di sforzi per una «reale convergenza». L'invito, che ha un'espressione alquanto corrucciata, è a chiedere ai segretari dei partiti della sinistra (che oggi saranno a Firenze per la seconda giornata di lavori) di «aprire un processo costituente in cui tutti gli organismi si mettano in discussione fino in fondo. Se così fosse, cambio idea».
Maria Luisa Boccia non nasconde le sue preferenze, già espresse in passato, per la costituente, ma non si concede nemmeno una goccia di pessimismo, pur con le dovute preoccupazioni per il passaggio verso il dopo Unione (già in corso, come si è visto giovedì scorso al Senato). «Non credo che questo ceto sia votato alla sopravvivenza, semmai vedo una pulsione suicida», è la risposta ad Asor Rosa. E non è l'unica. «Unita e plurale non è un ossimoro, come l'esperto di lingua italiana Asor Rosa mi vuol far credere. L'universalismo non è riducibile ad una sola identità, maschile e patriarcale». Unita e plurale è l'unica via per la sinistra di oggi. «Ma ci ricordiamo cosa significò la chiusura del Pci ai movimenti degli anni '60-70?», incalza la senatrice del Prc. Ciò che manca invece è una «rifondazione del pensiero e della lettura del presente: non abbiamo fatto i conti con la crisi della nostra idea del mondo». In Parlamento, poi, sostiene la deputata dei Verdi Tana De Zulueta, lo scenario è raccapricciante: «Non si parla di politica, per farlo vengo qui».
A questo punto del dibattito il «senso di angoscia» è insopprimibile. E' Marco Revelli a dargli un nome. «Stiamo assistendo alla fine della sinistra politica nelle forme, cultura e sottofondo antropologico». Lo dimostra l'ordinanza del comune di Firenze contro i lavavetri con il suo messaggio che «i deboli danno fastidio». Ma l'angoscia deriva soprattutto dal fatto che la sinistra «non è in grado di costruire l'alternativa ed è in crisi». E non basta individuare nella «equità sociale» il valore fondante della nuova sinistra, come suggerisce Ginsborg. Per Revelli bisogna partire dai «metavalori» e mettersi d'accordo su cosa scegliamo tra: «violenza o nonviolenza, decisione o partecipazione, riconoscimento reciproco o autoreferenzialità, dogma dello sviluppo o cultura del limite nel rispetto dell'ambiente». Che fare? Revelli non si fa illusioni: «Vorrei solo che la sinistra unita rallentasse il processo e riducesse il male, che mi dia qualcuno da votare con la convinzione che non lo salvo così il mondo, ma lavorando nel sociale, vorrei mettessero da parte gli egoismi di gruppo». E il ragionamento si applica anche alla manifestazione del 20 ottobre: «Non salveremo nessuna patria, non faremo cadere nessun governo, ma vorrei che un pezzo polifonico d'Italia si facesse vedere per dire che non gli piace quello che sta accadendo».
Pure Giovanni Berlinguer avverte «angoscia», dice che le critiche di Grillo sono «giustificate», che la politica «non si occupa dei problemi della gente» e che «i partiti sono apparati di potere». La chiave sta nel «processo costituente a sinistra» e, aggiunge l'europarlamentare di Sd, «se non c'è un cambiamento sostanziale dei personaggi che lo guidano, sarà difficile arrivare a elementi costruttivi».

venerdì 21 settembre 2007

l'Unità 21.9.07
Il regista americano a Roma presenta il cast di «Miracolo a Sant’Anna», il nuovo film sulla strage nazista dell’agosto 1944
Spike Lee: «L’ultima guerra giusta degli americani finì nel ’45»


«Voglio raccontare un episodio dell’ultima guerra giusta fatta dagli americani. In seguito abbiamo combattuto tante guerre sbagliate, dal Vietnam alla Corea fino alla Guerra del Golfo e l’immagine del nostro Paese è cambiata e oggi nessuno associa più i nostri soldati agli eroici salvatori della Seconda Guerra Mondiale». Così Spike Lee a Roma per presentare il cast del suo nuovo film tutto italiano: Miracolo a Sant’Anna, ispirato alla sanguinosa strage compiuta dai nazisti a Sant’anna di Stazzema nell’agosto ‘44. «Mi chiedevano sempre di girare un film in Italia - prosegue -, ma solo per Miracolo a Sant’Anna si sono verificate certe condizioni. Intanto c’è il fascismo, c’è il tema del razzismo, ci sono poi i soldati afro americani, considerati allora di seconda classe, e poi ci sono gli italiani e il modo di relazionarsi con tutte queste realtà. Il tutto rende questa storia epica».
Con il regista all’incontro stampa romano anche il cast italiano appena selezionato composto da Pierfrancesco Favino, Omero Antonutti, Valentina Cervi, Lydia Biondi e Sergio Albelli. «Mi sono meravigliato perché si sono presentati al provino conoscendo tutti le loro parti alla perfezione. Una cosa che in America non accade mai», ha commentato Spike Lee. Il regista di Fa’ la cosa giusta, dal canto suo confessa di essersi preparato per la pellicola con «una overdose di film di guerra. Tra i riferimenti italiani ho visto film neorealisti come Paisà, Miracolo a Milano, la Ciociara, ma anche film come
Salvate il soldato Ryan. Quando si gira bisogna fare ricerche - spiega Lee -, tornare ad essere studenti».
Il film, le cui riprese inizieranno il 15 ottobre e sarà girato tra Roma e la Toscana, è prodotto da Roberto Cicutto e Luigi Musini (On My Own Produzioni Cinematografiche) insieme a 40 Acres and a Mule Filmworks, dello stesso Lee, in associazione con Raicinema. Budget previsto circa 45 milioni di dollari per questo lavoro tratto dall’omonimo romanzo di James McBride (pubblicato in Italia da Rizzoli). Miracolo a Sant’Anna, che avrà nel cast anche attori americani e tedeschi ancora non rivelati, racconta di alcuni soldati di colore impegnati sulla Linea Gotica le cui vicende si intrecciano con la storia della popolazione che ha vissuto la strage. Tutti entusiasti gli attori italiani (a cui si dovrebbe aggiungere anche Agnese Nano). Dice Favino ai giornalisti: «per favore scrivetelo. I miei amici quando gli dico che sono andato a cena con Spike Lee non ci credono più di tanto. Anche perché sono gli stessi amici con i quali, in quelle serate in cui ognuno fa a chi la spara più grossa, dicevo che avrei proprio voluto lavorare con registi come Lee».

Repubblica 21.9.07
«L’Espresso» pubblica la memoria dello scrittore rilasciata, a un mese dall’arresto del gerarca, a Yad Vashem, l’Istituto per la Shoah di Gerusalemme
1960, il testimone Primo Levi e il processo Eichmann


«Roma 14 giugno 1960. Deposizione del dottor Primo Levi abitante in Torino - C. Vittorio 67». È l’intestazione sotto cui appare il documento inedito che riaffiora dagli archivi di Yad Vashem a Gerusalemme, l’istituto per la memoria della Shoah: un documento che l’Espresso in edicola oggi pubblica con un commento di Marco Belpoliti, lo studioso che con il regista Davide Ferrario ha ripercorso il viaggio di ritorno, da Auschwitz all’Italia, narrato da Levi nella Tregua, e che ne ha riportato gli esiti nel libro La prova uscito nei mesi scorsi per Einaudi.
In un paio di cartelle dattiloscritte - «per il tono, lo stile e anche l’uso delle maiuscole», a parere di Belpoliti, probabilmente battute dallo stesso Levi - il chimico-scrittore dà conto delle vicende vissute tra il 9 settembre 1943 quando, all’indomani dell’armistizio, si rifugiò in Val d’Aosta, e l’ottobre 1945 quando, dopo la detenzione nel lager, la liberazione per opera dei russi e l’interminabile viaggio di ritorno per l’Europa, finalmente riapprodò in Italia.
Vediamo quella data: giugno 1960. È a maggio che Adolf Eichmann - l’ideatore della «soluzione finale» - è stato catturato in Argentina dagli agenti del Mossad e a giugno è in corso l’istruttoria per un processo che costituirà un terremoto, in primis per Israele stesso. La testimonianza di Primo Levi giunge insieme con un’altra cinquantina di memorie di scampati italiani. Giugno 1960, però, significa anche un’altra cosa: due anni dalla ripubblicazione di Se questo è un uomo, avvenuta nel 1958, per i tipi di Einaudi. Primo Levi, insomma, nel ‘60 non è solo uno scampato alla Shoah, ma ne è un testimone celebre. Eppure in Israele non è tale: Meron Rapoport illustrando per il settimanale come il documento sia venuto alla luce (a ritrovarlo una studiosa isreaeliana, Margalit Shlain) ripercorre i decenni in cui, per paradosso, proprio lì, l’opera di Levi non trovò sbocco editoriale. Tant’è che infine al processo Eichmann, dove il pubblico ministero Gideon Hausner volle convocare, per ottenere il maggior impatto, nomi noti al pubblico, c’era Yehiel Dinur-Feiner, il reduce di Auschwitz, che firmava con lo pseudonimo Ka-Tzetnik libri d’effetto. Ma non c’era il testimone-scrittore per eccellenza, Primo Levi.
Il documento che pubblica l’Espresso cosa aggiunge alle memorie consegnate dal chimico-scrittore ai suoi libri? «Di ciascuno dei suoi compagni Levi dice cognome e professione, e il destino» nota Belpoliti.
«Il 9 settembre 1943 insieme ad alcuni amici mi rifugiai in Val d’Aosta e precisamente a Brusson, sopra St.Vincent, a 54 km. dal capoluogo della regione. Avevamo costituito un gruppo partigiano nel quale figuravano parecchi ebrei fra i quali ricordo Guido Bachi, attualmente a Parigi in qualità di rappresentante della soc. Olivetti, Cesare Vita, Luciana Nissim sposatasi poi con Momigliano e attualemnte domiciliata a Milano e autrice del libro Donne contro il mostro, Wanda Maestro, deportata e deceduta in un campo di sterminio». Così esordisce Levi. Subito dopo, il nome dell’uomo che li tradisce tutti: con loro c’era anche «un tale che si faceva chiamare Meoli». Quattro giorni dopo, individuati e arrestati dalla Milizia, lo ritroveranno nella caserma di Aosta. Levi racconta del trasferimento a Fossoli e d’una detenzione tutto sommato quasi gentile, fino al 18 febbraio '44, quando arrivano in paese le Ss. «Nessuno tentò di fuggire. Ci caricarono su vagoni bestiame sui quali era scritto: “Auschwitz” nome che in quel momento non ci diceva proprio nulla...».
Ecco il tocco lieve e secco come una fucilata del narratore Levi. «Eravamo 650 ebrei...» aggiunge.
Poi, arrivati ad Auschwitz, per i 96 che si dichiarano capaci di lavorare, il trasferimento a Buna Monowitz, per 26 donne a Birkenau. Per gli altri le camere a gas. Ed ecco gli altri nomi: i medici ebrei nel campo, Coenka di Atene, Weiss di Strasburgo, Orensztejn, polacco, «parecchi francesi» di nome Levy. Un nome spicca. «Il dottor Samuelidis di Salonicco che non ascoltava i pazienti che a lui si rivolgevano per cure e denunciava gli ammalati alle Ss tedesche!!». Nel dattiloscritto hanno spazio - come qui - molti punti esclamativi, un uso che il Primo Levi narratore, invece, non si concedeva.
Un altro nome da consegnare alla memoria: «l’ebreo olandese Josef Lessing, di professione orchestrale», che da caporeparto «si dimostrò non soltanto duro, ma malvagio». Poi, i nomi dei compagni di fabbrica e di Shoah, da Roma, da Ferrara, da Trieste. Coi quali, annota, avrebbe intentato causa nel dopoguerra per ottenere «la mercede dovuta»: lire 800.000.
Le ultime righe raccontano la liberazione e «la tregua», il viaggio. Katowice, Minsk, Sluck, finché - conclude il testimone Primo Levi con la sua segretissima ironia - «quando Dio volle, rientrammo in Italia».
m.s.p.


Corriere della Sera 21.9.07
Lectio magistralis a Pordenonelegge
L'Europa globale erede di Kant
di Zygmunt Bauman


Pubblichiamo un estratto della lezione che il sociologo Zygmunt Bauman terrà domenica a Pordenone nell'ambito della Festa del libro Pordenonelegge, che inizia oggi e vedrà la presenza di ben 185 autori di saggistica e narrativa.

L'egemonia solitaria degli Usa aggrava le tensioni

Formulare i compiti e la missione dell'Europa sulla base dell'assioma del monopolio americano sul potere mondiale è fondamentalmente errato. La vera sfida all'Europa deriva dall'evidenza, sempre più palese, che l'unica superpotenza non è in grado di condurre il pianeta a una coesistenza pacifica, lontano dall'imminente disastro. Anzi, ci sono ampi motivi per credere che questa superpotenza possa diventare la causa prima di un disastro. A tutti i livelli di convivenza umana, i potenti tendono a dispiegare i propri mezzi per rendere l'habitat più congeniale e favorevole al tipo di potere che detengono. La superpotenza americana non fa eccezione. Dato che il suo bene più forte è la forza militare, essa tende naturalmente a ridefinire tutti i problemi planetari — siano essi di natura economica, politica o sociale — come problemi di pericolo e confronto mi-litari, risolvibili esclusivamente con soluzioni militari. Invertendo la formula di von Clausewitz, gli Stati Uniti considerano e trattano la politica come continuazione della guerra con altri mezzi. Per assicurare il proprio dominio, contando e basandosi sul suo unico e incontestato vantaggio— la superiorità militare — l'America ha bisogno di ricreare il resto del mondo a sua immagine rendendolo, per così dire, «ospitale » alle sue politiche preferite. Deve trasformare il pianeta in un luogo dove i problemi economici, sociali e politici vengono affrontati con mezzi e azioni militari, e dove invece ogni altro mezzo e tipo di azione viene privato di valore e dichiarato inutilizzabile. Ecco da dove nasce la vera sfida all'Europa.
L'Europa non può considerare seriamente di uguagliare la forza militare dell'America e di resistere all'avanzamento della militarizzazione del pianeta giocando al gioco americano. Non può neppure sperare di recuperare il suo passato dominio industriale, perso irrimediabilmente nel nostro mondo sempre più policentrico e ora soggetto, nella sua complessità, ai processi di modernizzazione economica. Tuttavia, può e deve tentare di rendere il pianeta ospitale per altri valori e ad altri modi di esistenza, diversi da quelli rappresentati e promossi dalla superpotenza militare americana; può rendere il pianeta ospitale ai valori e ai modi che l'Europa, più di ogni altra parte del mondo, è predisposta a offrire al mondo.
George Steiner insiste sul fatto che il compito dell'Europa «è tanto spirituale quanto intellettuale». Il genio dell'Europa è per lui «il genio della diversità linguistica, culturale e sociale, di un mosaico ricchissimo che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, nella frontiera tra due mondi». Riflessioni analoghe si possono trovare nel retaggio letterario di Hans-Georg Gadamer. A suo parere il «compito dell'Europa» è quello di acquisire e di condividere l'arte di apprendere gli uni dagli altri. E io aggiungerei: la missione dell'Europa, o meglio, il fato dell'Europa che attende di essere riformulato come destino. Vista sullo sfondo di un pianeta schiacciato dai conflitti, l'Europa sembra una fucina dove vengono continuamente forgiati gli strumenti necessari per raggiungere la kantiana unificazione del genere umano.
Per il momento, tuttavia, l'Europa sembra cercare una risposta ai nuovi problemi in politiche che guardano all'interno, piuttosto che all'esterno, in politiche centripete piuttosto che centrifughe. In breve, sigilliamo le nostre porte e facciamo molto poco, se non addirittura nulla, per porre riparo alla situazione che ci ha indotto a chiuderle.
È chiaro che l'Europa ha le sue buone ragioni per guardare sempre di più al suo interno. Il mondo non appare più invitante. Sembra ostile, infido, è un mondo che spira vendetta e che, tuttavia, ha bisogno di essere reso sicuro per noi. Questo è il mondo dell'imminente «guerra delle civiltà», un mondo in cui ogni passo che si fa, qualsiasi esso sia, presenta molteplici rischi. La sicurezza è lo scopo principale del gioco e la sua posta più alta. È un valore che in pratica, se non in teoria, oscura e caccia a gomitate ogni altro valore. In un mondo insicuro come il nostro, la libertà personale di parola e di azione, il diritto alla privacy, l'accesso alla verità — tutte quelle cose che associavamo alla democrazia — devono essere ridimensionate o sospese. O, se non altro, questo è ciò che sostiene la versione ufficiale, confermata dalla pratica ufficiale.
Ma la verità è che noi non possiamo difendere le nostre libertà a casa nostra, se ci isoliamo dal resto del mondo e ci occupiamo solo dei nostri affari interni. In un pianeta globalizzato, in cui la difficoltà di ognuno, dovunque, determina la difficoltà di tutti gli altri e viene al contempo determinata dagli altri, libertà e democrazia non possono più essere assicurate «separatamente» — cioè, soltanto in un Paese o in una selezione di Paesi. Il fato della libertà e della democrazia in ogni Paese viene deciso e stabilito su scala globale; e soltanto su quella scala può essere difeso con concrete probabilità di un successo duraturo.

Corriere della Sera 21.9.07
Nel saggio di Ludovico Incisa di Camerana un profilo insolito dell'eroe rivoluzionario
Il Che come d'Annunzio, l'altra faccia del mito
«L'avventura guevarista modello per l'uomo di destra»
di Dino Messina


Il sacrificio in guerra è culto per la «bella morte»
La filosofia


«Un'ombra domina l'America Latina nella seconda metà del secolo XX e si prolunga nel Duemila: l'ombra di una rivoluzione mancata. Mancata come espansione, proseguimento e correzione della grande rivoluzione della prima metà del secolo scorso: la rivoluzione messicana. Mancata come espansione e proseguimento della piccola rivoluzione della seconda metà dello stesso secolo: la rivoluzione cubana».
Ludovico Incisa di Camerana, sottosegretario agli Esteri nel governo di Lamberto Dini, diplomatico di carriera con lunghi soggiorni fra gli anni Cinquanta e Sessanta in Venezuela e Argentina, autore di saggi come L'Italia della luogotenenza e I caudillos, comincia con una considerazione sul fallimento di un'illusione il suo nuovo saggio, I ragazzi del Che, appena uscito da Corbaccio nella collana storica diretta da Sergio Romano (pagine 406, e 20). Scritto in occasione dei quarant'anni dalla morte di Che Guevara, eliminato il 9 ottobre 1967 da un soldato ubriaco il giorno dopo la cattura sull'altopiano della Bolivia, il libro di Incisa di Camerana è soltanto per metà una biografia di Ernesto Guevara de la Serna. Per l'altra metà è la storia del suo mito e dell'influenza che le sue idee hanno avuto sia in America Latina sia in Europa.
Il medico argentino, nato il 14 giugno 1928 in una famiglia altoborghese decaduta, scopre la sua vocazione rivoluzionaria nell'incontro a Città del Messico con un esule cubano, Fidel Castro. È il 1956. Il 25 novembre il Che, così chiamato per sottolineare il suo intercalare argentino, si imbarcherà con altri 81 compagni su un vecchio battello diretto a Cuba. Guevara scriverà con Castro una pagina di storia. «Ma il mito — ci dice Incisa di Camerana — nascerà soltanto dopo la morte, anzi proprio per le modalità della morte. Intanto il Che era andato in Bolivia, in una zona pochissimo popolata, con la coscienza che si trattasse di un'operazione disperata. Più che uno spregiudicato materialista, un rivoluzionario romantico che ricorda i nostri eroi risorgimentali Carlo Pisacane e i fratelli Emilio e Attilio Bandiera. Dopo la cattura nessuno ebbe il coraggio di formare il plotone d'esecuzione per eliminare quell'uomo malandato. Per ucciderlo ci volle la raffica di mitra di un sottufficiale ubriaco». Un episodio, scrive Incisa di Camerana, «che a noi italiani ricorda l'assassinio di Francesco Ferrucci e l'infamia di Maramaldo. Un'esecuzione comunque illegale, non derivando da un regolare processo e non essendo prevista in Bolivia la condanna a morte».
Il personaggio Guevara, secondo l'interpretazione di Incisa di Camerana, sembra dunque scolpito più che sull'esempio degli eroi sudamericani, il cubano José Martí e il venezuelano Simón Bolívar, o i messicani Pancho Villa ed Emiliano Zapata, su quello dei nostri eroi risorgimentali. Ma c'è di più: l'ingenuità con cui si lancia in certe avventure, come la spedizione in Tanzania e Congo, lo stile frugale e il disinteresse per la propria incolumità, ricordano all'autore la ricerca della «bella morte» e l'estetica di certi scrittori europei. «Sul piano storico-politico — scrive lo storico — la sua figura è meglio conosciuta nel quadro di quel volontarismo europeo, di una giovane borghesia attivista, disposta a vincere o a perdere, pronta nella guerra o nell'insurrezione a giocare il tutto per tutto e specialmente se stessa, l'élite dei reparti d'assalto. Il mito dell'esperienza della guerra, il mito dei caduti, della legittimità della morte e del sacrificio in guerra, che affascina, come lo descrive George Mosse, i volontari delle guerre europee, diventa per una gioventù latinoamericana, che si candida al protagonismo, il mito dell'esperienza della rivoluzione ». E non c'è da stupirsi se, in questo quadro, l'autore affianchi il nome del Che a quelli di Gabriele d'Annunzio e Filippo Marinetti, ma anche di André Malraux e Curzio Malaparte. Un accostamento con protagonisti della destra europea che ad alcuni apparirà sacrilego, ad altri svelamento della vera natura di un mito.
Questa lettura etica ed estetica dell'avventura guevarista non può che avere un esito pessimistico: fatta salva l'eccezione di Cuba, la teoria dei «focos» rivoluzionari attorno ai quali doveva divampare la rivoluzione poteva affascinare, in America Latina come in Europa, soltanto una minoranza di studenti e intellettuali. Dagli ufficiali rivoluzionari venezuelani, che si ritrovarono senza seguito nella sierra, al nostro Giangiacomo Feltrinelli, editore e ammiratore del Che finito tragicamente su un traliccio di Segrate, gli imitatori di Guevara andarono tutti incontro all'isolamento e al fallimento. Così come alla luce della storia si dimostrano sterili i due capisaldi della teoria rivoluzionaria guevarista: la sconfitta dell'esercito e la conquista del consenso fra i contadini. «Ogni movimento di qualche consistenza in America Latina — ci dice Incisa di Camerana — non ha potuto fare a meno dell'appoggio dell'esercito. Quanto ai contadini, non sono mai stati conquistati dal mito rivoluzionario. Anzi, l'idea di rivoluzione è completamente tramontata nel subcontinente. Al punto che un leader come Rubén Zamora ha dichiarato: "La lotta armata non è più un'alternativa di potere in America Latina"».
Al di là della faccia sulle magliette, secondo l'autore de I ragazzi del Che, del mito Guevara resta poco anche in Europa. Il Sessantotto è lontanissimo, i suoi leader come Régis Débray hanno preso sentieri inaspettati. E gli studenti oggi sono certo più affascinati dalla tecnologia e dai consumi che dalle teorie pauperiste del rivoluzionario argentino.

Corriere della Sera 21.9.07
Cortigiane & potere
Donne libere e amanti illustri: una storia secolare
di Gian Antonio Stella


«L'Italia? Paese dei devoti, ma non della devozione» Montesquieu

«Isabella mia chara, chara, chara, chara, te baso con tucta l'anima mia sin de qua et prego che ti ricordi di me come merita il grandissimo amore che ti porto». Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena doveva proprio aver perso la testa, per quella damigella di corte di Isabella d'Este che portava lo stesso nome della duchessa e aveva conosciuto durante un viaggio a Mantova. E certo non si faceva problemi a esprimere quei sentimenti con una passione (teoricamente) proibitissima a un uomo di Chiesa. Tanta indifferenza ai giudizi altrui un buon motivo l'aveva. In quel 1515 in cui scriveva alla sua bella, la corte pontificia di Leone X, alla quale il prelato apparteneva, non si scandalizzava certo per così poco. Anzi.
Lo racconta un libro appena uscito per la Newton Compton. Si intitola Cardinali e cortigiane ed è stato scritto da Claudio Rendina, che alla storia di Roma, dei papi, dei soldati di ventura, degli ordini cavallereschi ha dedicato diversi volumi. Tutti caratterizzati da continui rimandi a una ricca bibliografia (i libri e i documenti citati in questa occasione sono 168), ma insieme da una scrittura volutamente leggera, apparentemente «facile» e da una esuberante raccolta di aneddoti e curiosità che forse faranno alzare con disappunto il sopracciglio a qualche barone dell'accademia, ma accompagnano attraverso certi percorsi nel nostro passato anche persone che altrimenti non ci si avventurerebbero mai. Dettagli irresistibili. Come la descrizione, presa dallo «Zoppino», pseudonimo di un sacerdote e scrittore spagnolo nonché «protettore di cortigiane », Francisco Delicado, delle tecniche usate per sedurre i suoi spasimanti da una certa Lucrezia Porzia. La quale non solo faceva pesare i suoi favori concedendosi solo dopo mille preghiere e regali e vestendo la parte della verginella sdegnosa (al punto che la chiamavano «Matrema non vole», soprannome ripreso anche dall'Aretino), ma si dava arie da intellettuale facendosi « beffe d'ogni uno che non favella a la usanza; e dice che si ha da dire balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso e non faccia, cuore e non core, miete e non mete, percuote e non picchia, ciancia e non burla ».
Ne esce un libro curioso. Che mette insieme, incrociandole continuamente, un sacco di storie di cardinali (e papi) e di donne di facili costumi. Le quali a volte erano così costose che talora, scrisse Montaigne, «volevano essere pagate anche per la semplice conversazione» e riuscivano a diventare immensamente ricche, come quella Giulia, detta La Lombarda, che riposa accanto all'altare maggiore della chiesa veneziana di San Francesco della Vigna e davanti alla cui tomba qualcuno prega invocando una grazia senza sapere che la «sontuosa meretize» morta nel 1542 aveva potuto comprare a Brentasecca, vicino a Padova, una bella villa con campagna con quello che aveva ricavato vendendo gli ori e i gioielli avuti in dono dalla danarosa clientela.
Questo accostamento tra le «squillo» e gli uomini di Chiesa dei tempi meno virtuosi, del resto, non deve stupire. Basta rileggere Montesquieu a proposito della città serenissima: «Mai in nessun luogo si sono visti tanti devoti e tanta poca devozione come in Italia. Bisogna tuttavia ammettere che i veneziani e le veneziane hanno una devozione che riesce a stupire: un uomo ha un bel mantenere una puttana, non mancherà certo la sua messa per nessuna cosa al mondo».
Proprio un proverbio veneziano del Settecento riassumeva così la dolce vita suggerita ai nobiluomini: «La matina una messetta, dopo pranzo una bassetta, dopo cena una donnetta». Messa, bisca, amante. E a leggere il libro di Claudio Rendina, che accosta cortigiane e cardinali come sintesi del rapporto che esiste da sempre tra sesso e potere, da Messalina al deputato dell'Udc Cosimo Mele, protagonista del recente festino a luci rosse all'Hotel Flora con due ragazze a pagamento e un po' di cocaina, furono proprio tanti, a seguire l'ipocrita raccomandazione. Al punto che nella chiesa capitolina di Sant'Agostino, come scriveva Georgina Masson nel suo Cortigiane italiane del Rinascimento, «tutto lo spazio compreso tra l'altare e i posti nei quali sedevano i cardinali era occupato da cortigiane » che in una città come Roma «erano assidue frequentatrici di chiese, dato che era anche questa un'eccellente forma di pubblicità, forse la migliore».
Ed ecco la storia di Pietro Riario, figlio adottivo di Papa Sisto IV, che dava nel suo palazzo a Santi Apostoli indimenticabili banchetti di sei ore con 42 portate e aveva come amante una ballerina di nome Tiresia, che appariva alle feste su un cocchio tirato da cigni e che il cardinale, nota il genovese Battista Fregoso, manteneva «con una prodigalità tale che si comprende dall'uso di scarpette ricoperte di perle». Ecco Madama Lucrezia, una bella figliola di Torre del Greco che, dopo esser stata l'amante del re di Napoli Alfonso d'Aragona, reso ben presto, come scrisse il futuro papa Enea Piccolomini, «servo di una femminetta», andò a cercar fortuna a Roma. E Vannozza Cattanei, che diede tre figli (Cesare, Juan e Lucrezia) all'amante Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, il quale le offriva copertura procurandole uno dietro l'altro tre mariti di comodo, via via defunti. E giù giù fino a Beatrice Ferrarese, immortalata da Raffaello, e alla celeberrima Veronica Franco, che a Venezia ospitò nel suo talamo Enrico III che andava a Parigi a farsi incoronare e gli regalò una poesia da lei composta e un ritratto che le aveva fatto il Tintoretto. Fino alla Divina Imperia, cortigiana di straordinario spessore intellettuale, a Clementina Verdesi che Giuseppe Gioachino Belli ribattezzò «puttana santissima», alle nipoti del cardinale Mazzarino che i maligni chiamavano les mazarinettes, al vescovo col «vizietto» di Frascati Enrico Stuart di York, alla contessa di Castiglione.
Indimenticabile, tra l'altro, la descrizione, ripresa dalle memorie di Giovanni Burcardo, cancelliere del Papa e noto come cardinale d'Argentina, del banchetto organizzato dal duca Valentino «al quale prendono parte cinquanta meretrici oneste, quelle dette cortigiane. Finito di cenare ecco le cortigiane danzare con i servitori e altre persone che si trovano lì; da principio vestite, poi nude. Sempre dopo cena vengono posati in terra i candelabri con le candele accese che illuminano la mensa; dove vengono sparse delle castagne che le meretrici, nude, raccolgono passando fra i candelabri sulle mani o sui piedi. Tutto alla presenza e sotto lo sguardo del Papa, del duca e di sua sorella Lucrezia… ».
È proprio vero: se la Chiesa è sopravvissuta, deve avere sul serio qualcosa di grande…

il manifesto 21.9.07
Un marcatore di grande versatilità
Pubblicati su «Nature» i risultati di una ricerca sulla riproduzione e differenziazione di cellule staminali che apre la strada a inedite possibilità di applicazione. In Italia, invece, si riducono i finanziamenti e prevalgono i pregiudizi ideologici
di Carlo Alberto Redi, Direttore scientifico Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia


Si deve al lavoro di ricercatori della McGilly University (Montreal), nel corso degli anni '50 dell'ultimo secolo, la prova dell'esistenza delle staminali: cellule, cioè, capaci di dividersi in modo da originare una cellula figlia identica alla cellula madre (staminale) e una cellula capace di differenziarsi in un tipo cellulare specifico di uno dei tanti tessuti che compongono il corpo animale. Negli anni '30 e '40 era stata invece sviluppata la tecnica della autoradiografia grazie alla quale è possibile introdurre nello studio delle cellule e dei tessuti, sino ad allora studiati nelle loro relazioni architetturali nelle tre direzioni spaziali, la dimensione tempo. È grazie a questa tecnica che Charles Leblond e i suoi collaboratori hanno dimostrato che le cellule alla base dei villi intestinali sono capaci di dividersi in maniera asimmetrica, come si era ipotizzato, e che sono staminali. Leblond ne dimostra l'esistenza anche nel testicolo, individuando un tipo particolare di spermatogonio capace di assicurare il rinnovo costante delle cellule dell'epitelio seminifero.
La strada della differenziazione
Ai lavori della scuola canadese è seguita una serie di contributi della comunità scientifica, che dimostrano l'esistenza di cellule staminali in tutti i diversi comparti anatomici. E a partire da questi anni c'è stato un lento susseguirsi di tanti piccoli avanzamenti della conoscenza che, come è tipico nelle imprese scientifiche, in breve tempo hanno permesso applicazioni terapeutiche già oggi ben consolidate grazie all'impiego di staminali non embrionali (trapianti di midollo osseo, pelle artificiale, cornea); altre, sia con staminali embrionali che somatiche, sono in via di definizione (Parkinson, infarto, diabete) o del tutto sperimentali (stroke spinali, Altzheimer, sclerosi amiotrofiche).
Le caratteristiche delle cellule staminali ne permettono un impiego nella medicina rigenerativa per terapie cellulari mirate a sostituire le cellule perse nel corso della senescenza o a causa di traumi o patologie. Basti pensare al trapianto di cellule staminali ematopoietiche che, negli ultimi venti anni, ha rappresentato una valida terapia per la cura di alcuni tumori del sangue e per gravi malattie ematologiche anche non neoplastiche.
Ma è nella possibilità di «trans-differenziazione» delle staminali (somatiche o embrionali) che si intravedono le maggiori potenzialità per patologie ancora incurabili. Questa premessa è necessaria per meglio cogliere la portata della scoperta, pubblicata su Nature, da parte di un gruppo di ricerca di cui fanno parte Pier Paolo Pandolfi e Ilaria Falciatori del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center e del dipartimento di Genetica Medica del Howard Hughes Medical Institute, entrambi di New York: l'identificazione di un marcatore molecolare di staminalità specifico di un particolare tipo di cellula staminale presente nell'epitelio seminifero del testicolo di topo. È questo un marcatore (Gpr125, una proteina recettore che regola le relazioni architetturali tra diverse cellule) presente sulla superficie cellulare di cellule germinali progenitrici, quelle che daranno origine agli spermatozooi. La scoperta è avvenuta nel corso di una ricerca i cui primi dati sono stati pubblicati, dallo stesso gruppo, nel 2003 su Nature Biotechnology, mentre conduceva una vasta analisi delle caratteristiche molecolari dei testicoli di topolini, cui venivano cancellate ad una ad una alcune caratteristiche geniche (topi knockouts). Ora, è stato possible isolare (grazie al marcatore scoperto) queste cellule e portarle in coltura, espanderle e dimostrare che mantengono la caratteristica di staminalità e verificare che è possible, in particolari condizioni di terreni di coltura, differenziarle in altri tipi di tessuti. Che siano vere staminali lo dimostra il fatto che in embrioni chimera queste cellule danno origine a tutti i tipi di tessuto e se iniettate in embrioni precoci formano un particolare tipo di tumore (teratomi). La scoperta di questo nuovo marcatore è di grande rilevanza teorica e pratica: indica che il testicolo di individui adulti contiene staminali in grado di trans-differenziarsi (in vitro) in altri tipi di tessuti (muscolo, vasi) rispetto a quello (epitelio seminifero, spermatozooi) a cui danno origine in vivo.
È inoltre quanto mai ragionevole ritenere conservato anche nell'uomo questo marcatore. E dunque, coltivando spermatogoni portatori del marcatore Gpr125 su un letto di particolari cellule (stromali cd341) è possible generare cellule staminali capaci di dare origine di nuovo all'epitelio seminifero, se iniettate in topolini resi sterili da un trattamento chimico o a vasi sanguigni del tutto funzionali (in vivo) o a generare tessuto cardiaco contrattile (in vitro).
La ricerca negata
Il nuovo e specifico marcatore potrà dunque essere impiegato per arricchire le popolazioni cellulari, ottenibili dalle biopsie testicolari, di cellule portatrici del marcatore stesso. Tutto ciò apre la strada alla loro ingegnerizzazione genetica per vasti impieghi di terapie cellulari in medicina rigenerativa quali, ad esempio, la generazione di vasi sanguigni autologhi (senza problemi di rigetto) per la rivascolarizzazione di organi ischemici. Naturalmente con grande cautela e vasti studi preclinici.
L'elenco dei tessuti e degli organi dai quali è possibile ottenere cellule staminali in grado di trans-differenziarsi (in vitro o in vivo) in cellule di altri tipi di tessuti si allunga di giorno in giorno. Di recente, ad esempio, sono state trovate anche nella polpa dei denti decidui. Le conoscenze relative alla biologia delle cellule staminali sono ancora molto limitate e l'opportunità di riconoscerle e svelarne le caratteristiche biologiche per giungere ad applicazioni terapeutiche su vasta scala dipende dai finanziamenti erogati a queste ricerche.
Nel nostro paese, dato il pregiudizio ideologico che impedisce la derivazione di nuove linee di staminali embrionali, non viene neppure perseguita con coerenza la linea di ricerca alternativa, quella sulle staminali somatiche. Un solo dato: mentre il governo Aznar dotava di 100 milioni di euro il solo istituto Carlos Tercero di Madrid per studi sulle staminali somatiche, il governo Berlusconi dotava l'Italia dell'equivalente del biglietto della lotteria di capodanno (5 milioni) per il piano nazionale di studi sulle cellule staminali somatiche.
La ricerca scientifica propone quasi quotidianamente risultati che i media divulgano in termini trionfalistici ed insieme forieri di gravissimi pericoli. Raramente si tenta di spiegare qual è la situazione reale, senza creare false aspettative o timori che spingono i politici a chiusure del quadro giuridico realtivo a ciò che è lecito ricercare. Il dibattito che si sta svolgendo a livello nazionale sulle cellule staminali è un dibattito «falsato»: chiara è la evidenza delle possibilità di terapie che però sono ritenute lecite o illecite in base a convinzioni ideologiche e religiose sulla natura dell'embrione. Ne deriva una giurisprudenza che limita la capacità degli studiosi impegnati in ricerche di avanguardia che possono portare ad abbreviare i tempi delle applicazioni. E così il dibattito si arena su un tema che non può avere soluzioni.
Assenza di responsabilità
Il metodo scientifico potrebbe aiutare là dove dice che è necessario decidere in base al «che fare» degli embrioni già esistenti. L'adozione di una etica della responsabilità nei confronti di questi embrioni porta alla inevitabile conclusione che il loro impiego è più rispettoso che non la loro distruzione. Come è stato recentemente deciso nel Regno Unito: i media hanno però presentato il via libera alla clonazione terapeutica in questo paese (tre licenze in diciotto anni) senza ricordare che le cellule uovo da cui sono stati derivati gli embrioni per preparare linee staminali erano ovociti destinati alla distruzione. Il legislatore britannico ha dunque ritenuto che il loro impiego fosse più rispettoso che non la loro distruzione.
È necessario che la società civile sia in grado di espandere la propria capacità di comprensione delle opportunità e dei limiti intrinseci alla biologia delle cellule staminali. Solo così si potrà raggiungere una più diffusa conoscenza del mondo della ricerca delle cellule staminali e una corretta percezione delle problematiche in campo, senza confondere i fatti scientifici con le fantasie, le paure, gli apriori ideologici e le irrazionalità.

Repubblica 21.9.07
"Basta distinzioni tra sostanze, una ricerca prova che la cannabis aumenta i casi di schizofrenia"
Garattini: "Lo spinello può rovinare la mente"
Se vogliamo tutelare la salute dei nostri ragazzi serve la prevenzione e non la riduzione del danno
di Laura Asnaghi


«Bisogna dire no a tutte le droghe, anche allo spinello. Perché fa male, anzi malissimo. Non è vero, come sostengono in molti, che la cannabis non crea problemi ai giovani. È falso». Il professor Silvio Garattini non ha dubbi. «Ci sono autorevoli e importanti ricerche scientifiche che documentano, con ricchezza di dati, i danni provocati dagli spinelli».
Quali in particolare?
«Di recente su Lancet, importante rivista scientifica, è apparso uno studio sull´incidenza della schizofrenia tra i fumatori di canne. Bene, tra i tossicodipendenti c´è un incremento del 40 per cento di casi rispetto a giovani che non fanno uso di droghe. Ma c´è di più. Tra i forti fumatori di spinelli il rischio raddoppia».
E questi sono campanelli d´allarme molto preoccupanti.
«Certo, perché abbiamo la conferma scientifica che lo spinello mina la salute dei giovani. La schizofrenia è una patologia seria, provoca interferenze con le funzioni cognitive e tanti altri problemi che vanno denunciati con forza. I giovani devono sapere che con le droghe si rovinano».
Ci sono altri rischi legati al fumo di spinelli?
«Sì. Le canne hanno una concentrazione di catrame 7 volte superiore a una normale sigaretta. E quindi bisogna mettere nel conto anche il rischio di un tumore al polmone».
Quindi, no alle droghe senza nessuna tolleranza verso gli spinelli?
«Per me che sono un uomo di scienza la risposta non può che essere un "no" su tutta la linea. Anche perché la distinzione tra droghe leggere e pesante è fuorviante. Se vogliamo tutelare la salute e la vita dei giovani dobbiamo lavorare sulla prevenzione non sulla riduzione del danno».
A Milano, c´è anche il problema della cocaina, i consumatori sono più di 35 mila.
«E questo dato è davvero allarmante. Anche perché spesso la coca è craccata o mescolata ad altre sostanze e la gente muore».
Con quali mezzi bisognerebbe intervenire sui giovani?
«Ci deve essere uno sforzo collettivo. La scuola, la famiglia, la chiesa, il comune. Insomma, deve essere un lavoro corale».

Repubblica Torino 21.9.07
Folla di appassionati agli incontri di "Torino Spiritualità": intellettuali come popstar, pubblico ipnotizzato in attesa dell'evento
In coda per teologi e psichiatri l’assalto del popolo dell´anima
di Clara Caroli


Sveglia antelucana per i fan dello yoga platee rapite alle letture del Kamasutra commuove la rabbina Barbara Aiello Ma c'è anche qualche insoddisfatto

La misura dell´evento, come sempre, è nei dettagli. Alle 6 e mezza di ieri mattina, nella giornata di apertura di "Torino Spiritualità" - al netto del prologo di mercoledì con Shirin Ebadi - davanti all´ingresso della Cavallerizza si è già radunato un gruppo di devoti dello yoga, senza dubbio molto motivati e di fermissima vocazione. Sono gli iscritti al workshop, a numero chiuso, condotto dalla psicopedagogista e danzatrice Alessandra Rito. Li attendono tre ore di "esercizi di armonizzazione" e il "benessere psicofisico" finale è il minimo che si meritano dopo la levataccia. Nel cortile della Cavallerizza, a metà pomeriggio è già pronto il banchetto con i ticket per l´ingresso al "Kamasutra" commentato dalla storica delle religioni Wendy Doniger, vitalissima ex danzatrice che è stata allieva niente meno che di Balanchine e Martha Graham, e dall´indologo Stefano Piano. Sono attese folle.
Folle per Rabbi Barbara Aiello, primo rabbino donna d´Italia, che ha concluso il suo intervento sulla parità tra i sessi nella celebrazione del culto in Sinagoga con una emozionante preghiera. Folle per la psichiatra Monique Selz che con l´aiuto della giornalista Vera Schiavazzi ha provato a difendere l´idea, oggi minacciatissima, di "pudore come garanzia di libertà". Folle per la lezione di Eugenio Borgna, uno dei magister più attesi al festival, che ha spiegato ad una platea quasi ipnotizzata come in questi tempi di malesseri cronici dell´anima e abusi di psicofarmaci «la malattia psichiatrica sia metafora e anello di congiunzione tra corpo e spirito». Folla persino per Suor Clelia Ruffinengo che con il suo "femminismo monastico" ha riempito la Manica Corta della Cavallerizza lasciando fuori una trentina di spettatori. L´evento, l´evento.
«Sono attenti, ascoltano con interesse, annuiscono», commenta soddisfatta la biondissima Manuela E. B. Giolfo, mentre trascina il trolley in via Bogino all´uscita dal suo dialogo con Lilia Zaouali sul "velo islamico". Un dialogo che fatto arrabbiare Nicoletta Birocchi, avvocato assai battagliera, che trascorre - racconta - la maggior parte della sua vita in un paese arabo musulmano, il Marocco, e si è sentita offesa dal «basso profilo dell´incontro». Troppo didascalico, troppe semplificazioni e luoghi comuni. «Ci hanno detto cose ovvie - protesta la signora - . Ci hanno spiegato dettagli estetici sul velo che si possono leggere anche sulle pagine di "Chi". E´ scandaloso che si spendano 600mila euro per un festival di questo livello. E dire che ero rientrata apposta per seguire l´evento. Che delusione!». L´evento, l´evento. La droga, il doping della vita culturale. Tecnico o divulgativo, dotto o popolare? «E´ sempre lo stesso dilemma» sospira Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del Libro, al Circolo dei Lettori «per ascoltare l´amica Lilia». E la virtù, come sempre sta nel mezzo. Un po´ dell´uno e dell´altro, per accontentare tutti. E chi sono i molti, i tutti che si sdoppiano tra il Gobetti e la Cavallerizza, il Circolo dei Lettori e Palazzo Carignano (spesso gli appuntamenti sono quasi contemporanei, con sciagurate sovrapposizioni di orario) per seguire corpo e spirito, religione e politica, etica ed estetica? In gran parte signore, in gran parte non giovani, in gran parte con i crismi della sinistra intellettuale - per quel che valgono queste generalizzazioni: scarpe basse, capelli corti, gioielli etnici e sciarpe di seta.
Impossibile perciò non notare due fanciulle in jeans e t-shirt. Stanno guadagnando zitte zitte l´uscita. Giovanissime, debuttanti a Torino Spiritualità. Cecilia Cortese studia comunicazione interculturale, con indirizzo mediorientale, cerca nel programma del festival tutto l´Islam possibile ed è tutto sommato abbastanza soddisfatta di quel che ha appena ascoltato. «Il problema è che non sembrava affatto un dialogo - dice - Le due relatrici si contendevano la scena e sembravano più interessate a vincere il confronto tra protagoniste che a sostenere le proprie tesi. Un atteggiamento che mi pare l´antitesi dello spirito della manifestazione». L´altra, Benedetta Saglietti, sa poco di cultura musulmana perché studia storia della musica ma ha le idee chiare: «Penso che questi incontri, i cosiddetti "dialoghi", dovrebbero coinvolgere di più il pubblico. Altrimenti non c´è differenza tra queste conferenze e un convegno. Allora tanto vale andare all´Università».