sabato 13 marzo 2010

l’Unità 13.3.10
L’intervista
Bersani: «Sento aria di riscossa civile Fermeremo Berlusconi»
A Piazza del Popolo sarà una manifestazione festosa: per la prima volta politica e società civile scendono insieme. Avvilente la vicenda premier-tg
di Pietro Spataro

La nostra sarà una manifestazione gioiosa, il popolo ci chiede unità...». Oggi il centrosinistra sarà a Piazza del Popolo a Roma e Pierluigi Bersani si mostra tranquillo e determinato. Sente che si stanno aprendo spiragli che possono far girare il vento. «Berlusconi non è onnipotente», dice. Le telefonate del premier al direttore del Tg1 e al presidente dell’Agcom? «Sconcertanti e avvilenti». Come fermare questa destra arrogante e pericolosa? «Dobbiamo essere combattivi, non si può stare in pantofole davanti a chi indossa gli anfibi». Allora, Bersani partiamo dall’ultimo caso: da alcune intercettazioni pubblicate su «Il fatto» emerge l’asservimento del direttore del Tg1 e del commissario dell’Agcom ai voleri di Berlusconi. Il premier sarebbe indagato. Un altro fatto grave, no? «Vedremo se ci saranno sviluppi sul piano giudiziario. Sicuramente se le indiscrezioni saranno confermate si tratta di fatti sconcertanti e avvilenti. Ma diciamo la verità, lo si poteva capire anche senza intercettazioni che eravamo in una situazione grave. C’è un problema nei rapporti tra politica e informazione che tocca la dignità professionale e mina una delle libertà fondamentali. O i politici e giornalisti fanno ognuno il loro mestiere o altrimenti non ne usciremo».
C’è chi nel centrosinistra chiede le dimissioni di Minzolini. Lei che ne pensa? «Davanti a documenti certi il giudizio sul comportamento del direttore del Tg1 spetta alla commissione di vigilanza. Senza dimenticare tuttavia lo spettacolo indecoroso di un presidente del consiglio che con tutti i problemi che ci sono si occupa dei servizi dei tg».
Ormai il clima è infuocato. Berlusconi parla di complotti , Bondi paventa attentati, Cicchitto la accusa di far parte del network dell’odio. Siamo allo scontro di civiltà?
«Siamo al solito schema. Ho parlato di disco rotto, diciamo meglio, un cd rotto così ci capiscono anche i giovani. Berlusconi individua il nemico, che siamo sempre noi della sinistra, e poi chiede un giudizio di dio su se stesso: sì o no. Ecco, per esser chiari: noi combatteremo Berlusconi e questo schema colpo su colpo. La nostra agenda non è Berlusconi-sì Berlusconi no, ma sono i problemi veri del Paese. Smettiamola con il governo del fare che fa solo gli affari propri. Insomma quelle dei complotti e degli attentati sono teorie balorde, scarti di propaganda che lasciamo a lui. Noi invece dobbiamo lavorare sodo perché ci sono spazi per incontrare il disagio dell’elettorato berlusconiano che non vive di propaganda».
Il problema è: come fermare un premier che logora il sistema istituzionale e quello della legalità? «Si stanno aprendo varchi su cui lavorare. Basti ricordare come si è bloccata la legge sulla Protezione civile Spa o come si stanno inguaiando sulla vicenda delle liste. Non dobbiamo credere che Berlusconi sia onnipotente. Anzi, ormai lui non riesce più a tirare la palla avanti, è solo capace di usare il consenso per aggiustarsi le regole. Per questo bisogna essere combattivi e mostrare il legame stretto tra questione democratica e questione sociale. Guardate che l’aria sta cambiando». Eppure la destra riesce ancora a ridurre tutto a leggi ad personam o ad listam mentre i problemi dell’Italia restano. Ieri c’è stato lo sciopero della Cgil...
«Sì, c’è un evidente tentativo di ridurre tutto alle questioni personali del premier. Però i temi che stanno a cuore agli italiani sono altri: il lavoro, la sanità, la scuola, i redditi. Assistiamo a una continua compressione che prima o poi arriverà a un punto di rottura che non credo si esprimerà in una rivolta sociale. Ma non pensino che non ci sarà una riscossa civile, un forte movimento di opinione che entrerà anche nel loro elettorato respingendo l’idea di una separazione tra governo e società». Insomma, anche lei crede che Berlusconi sia al declino e che questi siano colpi di coda?
«Nessuno riesce a dire se il tramonto sarà lungo o breve. Però è evidente che Berlusconi non parla più al futuro del paese. In questo tramonto ci sono elementi di pericolo: non solo delegittimazione delle istituzioni e della politica ma un duro colpo allo spirito civico. E anche il rischio di ipotesi regressive...». E quali sarebbero?
«Beh, se passiamo dal berlusconismo al leghismo non è che facciamo un passo avanti, si può arrivare a toccare la stessa unità nazionale. Per questo insisto che bisogna lavorare per un’alternativa che abbia un saldo fondamento costituzionale. Faccio appello a tutte le forze di opposizione: contrastiamo con forza questo disegno e cominciamo a costruire un’altra idea dell’Italia».
Che manifestazione sarà quella di Roma oggi a Piazza del Popolo? Solo protesta contro il decreto salva-liste? «Per la prima volta facciamo un’operazione insieme, la politica e la società civile. Dobbiamo saper trasformare la protesta in proposta, occuparci dei problemi sociali degli italiani. La nostra manifestazione sarà tutto questo. Guardo a Piazza del Popolo con spirito molto positivo. Vedrete che sarà una manifestazione festosa».
Di Pietro sembra aver ammorbidito i toni e non attacca più Napolitano. Lei si sente tranquillo? Non c’è sempre il rischio che si spacchi la piazza?
«Mi sento tranquillo. Ogni forza di opposizione deve capire che questo è il momento di accorciare le distanze con la destra. Chi dovesse venire meno a questo dovere pagherebbe un prezzo enorme, non glielo perdonerebbero. Non possiamo separarci da un popolo democratico che ci chiede unità».
Senta, ma come vi siete incontrati voi, il popolo viola e la società civile? Non c’era qualche diffidenza? «C’è stata una maturazione reciproca. I movimenti oggi ci chiedono di portarli da qualche parte, di riuscire a superare insieme questa difficile situazione. È un fatto positivo perché è chiaro che noi non faremo mai un riformismo senza popolo. Anzi, dico di più: se perdiamo su questo punto ci teniamo Berlusconi chissà per quanti anni ancora. Invece credo ci siano le condizioni per voltare pagina e tornare a vincere». Eppure nel Pd qualche mugugno c’è. Gli ex popolari fanno sapere che non saranno alla manifestazione... «Rispetto tutte le sensibilità. Le nostre scelte non le abbiamo fatte in solitudine ma nella discussione. Credo che quelle preoccupazioni non siano fondate. Le cose cambiano e noi dobbiamo muoverci come fa un partito serio. Non possiamo mica stare in pantofole mentre davanti a noi c’è qualcuno che ha messo su gli anfibi».
Previsioni: come finiranno le elezioni regionali? Qualche ottimista dice che potrebbe anche finire 9 a 4 per il centrosinistra. Lei che ne dice?
«Dico che per noi sarà un successo avere la maggioranza delle Regioni. Dal voto può venire un segnale forte di inversione di tendenza, dobbiamo riuscire a far capire che è ripreso il cammino.
Poi però dal giorno dopo bisogna costruire l’alternativa. E dobbiamo lavorarci con serietà perché l’edificio sta bene in piedi con fondamenta solide. Su questo non possiamo scherzare».

Repubblica 13.3.10
Il popolo viola col centrosinistra "Va in piazza la riscossa civile"
"Sarà la piazza della riscossa civile" La Bonino apre la kermesse di Roma
di Giovanna Casadio

ROMA - Il centrosinistra è certo che oggi in Piazza del Popolo andrà tutto bene. «Le previsioni meteo dicono che sarà bel tempo... e quelle politiche che sarà una piazza civile, matura, la piazza del popolo della sinistra, non c´è neppure bisogno di servizio d´ordine», commentano al Pd, smussando fino all´ultimo le tensioni con Di Pietro e le possibili contestazioni a Napolitano. Il leader di Idv ed ex pm non smentisce se stesso (le parole dette nei giorni passati «sul capo dello Stato sono agli atti e restano come pietra»), ma garantisce: «Dal palco non parlerò di lui perché mi sembra doveroso non cadere nel trabocchetto di spostare l´attenzione dal responsabile principale, che resta Silvio Berlusconi». Lo chiama «Adolf-Silvio». E Bersani, il segretario dei Democratici lancerà le parole d´ordine: «Serve una riscossa civile. Siamo a un punto di svolta nel paese, non dobbiamo credere che Berlusconi sia onnipotente. Accorciamo le distanze tra politica e società, creiamo un movimento forte che entri anche nel loro elettorato».
Apre Emma Bonino, la candidata governatore del Lazio, che parlerà per prima. L´appuntamento è per le 14 ed è stato organizzato come una kermesse "contro il decreto salva-liste, in difesa della democrazia, delle regole e contro i trucchi. Per vincere": un mix di leader dei partiti, musica, operai, intellettuali e giornalisti evitando "l´effetto-Unione", la coalizione litigiosa del centrosinistra. Il Popolo Viola (che ha aderito come molte associazioni) avrebbe voluto Michele Santoro sul palco. Sulla manifestazione di oggi piomba infatti la vicenda delle pressioni di Berlusconi sulla Agcom per fermare "Annozero", la trasmissione di Santoro. Di Pietro insiste: «Santoro è il benvenuto, vorremmo ascoltare tutte le voci libere e non asservite». Ma ci sarà il giornalista Riccardo Iacona. Si parlerà di difesa della Costituzione. Frankie Hi Nrg pensa di tradurre in rap un articolo della Carta.
Il caos liste per le regionali oggi dovrebbe incassare la decisione del Consiglio di Stato, dopo l´esclusione della lista Pdl nel Lazio. Canzoni, testimonianze e i segretari dei partiti, da Nencini (Psi), Bonelli (Verdi), Nichi Vendola (Sel ma anche candidato "governatore" della Puglia), Ferrero (Prc e Pdci), Di Pietro e Bersani conclude. Rosy Bindi, la presidente dei Democratici sarà collegata dalla piazza di Mestre: «Dobbiamo concentrarci su democrazia e lavoro. Ha ragione Veltroni quando dice che Berlusconi sta rimettendo l´abito del Caimano. A Di Pietro conviene fare l´alleato responsabile perché il nostro avversario è il premier e tanto più bisogna difendere le istituzioni e quindi il capo dello Stato».
La macchina organizzativa va da giorni a pieno regime: 500 pullman in arrivo; tam-tam on line; a condurre la vj Paola Maugeri; attese 200 mila persone; altre manifestazioni a Milano, Potenza. Beppe Grillo ironizza sulle piazze: «C´è di tutto ormai: carabinieri travestiti da popolo viola, popolo viola travestito da Pd. Io nelle piazze ci vivo; con la roulotte sono nel week end a Venezia per il "Movimento Cinque Stelle"». Insomma in queste piazze di partiti e società non ci sarà. Non ci sarà l´Udc di Casini («Esibizioni muscolari in piazza»), né l´Api di Rutelli («Se Di Pietro continua così sarà la polizza d´assicurazione di Berlusconi») e neppure alcuni democratici ex Ppi come Beppe Fioroni e Franco Marini. Attacca Marco Follini: «La compagnia di Di Pietro non aiuta affatto il Pd». Contrattacca il dipietrista Donadi: «Era in vice premier di Berlusconi, ora è nel Pd, ha cambiato partito ma non idee».

Repubblica 13.3.10
Inedito intervento scritto di Ricci, presidente dell´Anpi
"Italia verso un sistema autoritario" e i partigiani si mobilitano per il voto
di Donatella Alfonso

GENOVA - I partigiani chiamano a raccolta «donne, uomini e giovani» perché, «coscienti della deriva anticostituzionale in atto» verso un sistema «autoritario e personale», usino tutti l´arma del voto. Un resistente di 89 anni come Raimondo Ricci, presidente nazionale dell´Anpi, lancia un appello pubblico inedito a una vera e propria mobilitazione, attraverso il voto alle regionali «al fine di contribuire al successo delle forze di opposizione all´attuale governo». «Finora questi appelli li abbiamo sempre indirizzati all´interno dell´associazione», spiega Ricci a Repubblica, «ma adesso è giusto uscire fuori, ri-volgersi a chiunque condivida i nostri valori».
Alle elezioni bisogna andare a votare, scrive il presidente dell´Anpi, «perché si risveglino le coscienze e si abbandoni l´indifferenza verso la politica»; ma soprattutto, che quel voto sia «efficace e coerente con gli ideali e i principi che ispirano l´impegno politico della nostra associazione, al fine di contribuire al successo delle forze di opposizione all´attuale governo», un esecutivo «indifferente ai problemi reali della crisi», ma anche demagogo e populista, che «sta operando un pericoloso mutamento del nostro sistema democratico parlamentare verso un sistema autoritario e personale; un vero e proprio mutamento di regime che può avere, e in parte ha già avuto, gravissime conseguenze per l´intera comunità nazionale, tali da rievocare un pericoloso e persino drammatico passato».
Il fantasma del fascismo è reale, avverte Ricci, internato nei lager, avvocato e già senatore Pci; per questo l´appello si rivolge «a tutti i nostri concittadini, indipendentemente dalle loro idee e dalla loro collocazione politica» perché si comprenda «la natura vera della situazione in atto, e si realizzi una generale ripresa di condivisione, dignità e progresso del nostro paese» in base a forme e limiti previsti nella Costituzione. E siccome «tutela del lavoro, rispetto e promozione dei diritti inalienabili, rispetto delle istituzioni», dal Quirinale alla magistratura, sono «beni preziosi che devono essere condivisi e salvaguardati», bisogna andare a votare, senza esitazioni; «riservando il proprio voto alle liste e ai candidati che ai principi e alle regole della Costituzione ispirano i loro comportamenti e i loro programmi».

l’Unità 13.3.10
Cronache da un Paese virile
di Claudio Fava

La prima sezione civile della Cassazione ha dipinto con rara efficacia il ritratto di una nazione maschia, ariana e incazzata. Se qualche vu’ compra senza i bolli in regola sul suo certificato di soggiorno spera di farla franca iscrivendo i suoi figli in una scuola italiana, sappia che lo rimpatrieremo lo stesso, Africa, Americhe... rauss! Dice la sentenza, senza nemmeno girarci attorno, che il diritto di quei bambini a non sentirsi discriminati e a poter frequentare le scuole d’Italia come chiunque altro deve cedere il passo di fronte alla furbata dei genitori, che hanno strumentalizzato i figli per farla franca. Quale sarà il prossimo passo: una stella gialla sul bavero della giacca? Un quartiere murato, con fili spinato sui merli, dove rinchiudere gli africani e gli impuri? Ronde nelle scuole elementari per risalire dai figli ai padri nella catena umana dell’infamia?
Un Paese virile, forte con i deboli, plebeo con i potenti, umile con i forti. Si esalta il gesto maschio di un ministro che solleva di peso il cronista rompicoglioni per condurlo fuori dalla sala stampa e intanto si mette per iscritto su una sentenza della più alta corte che non c’è spazio per sentimenti o debolezze (che so: il rispetto, l’umana solidarietà, la tolleranza...), e dunque peggio per quei bambini che hanno scelto di venire al mondo in Marocco invece che a Gela, peggio per loro che si sono scelti per genitori una coppia di clandestini, sans papier e senza diritti, invece di una solida famiglia camorrista dell’agro campano, peggio per loro che volevano studiare come gli altri, nelle scuole di tutti gli altri, e adesso invece se ne torneranno a casa loro.
Il nostro Paese si sta affezionando alle proprie pulsioni oscure. Siamo gli unici d’Europa a non aver recepito la direttiva che impone sanzioni penali agli imprenditori che sfruttano in nero gli extracomunitari. In quella legge europea c’è scritto che a un irregolare che denuncia il “caporale” che lo sfrutta e che rischia la pelle per rivendicare i propri diritti va concesso un permesso di soggiorno temporaneo. Noi invece, che quella norma non abbiamo gradito, continueremo a buttarli fuori e a punirli due volte: da sfruttati, alla catena del camorrista di turno, e da reietti, imbarcati sul primo aereo per tornare nel loro mondo senza nemmeno il diritto a ottenere il salario che è stato loro rapinato. Adesso questa sentenza compie un’opera di verità: non li vogliamo, non ci piacciano nemmeno quando ci aiutano a sbarazzarci dei mafiosi, non ci interessano i loro diritti né quelli dei loro figli!
Ora, di fronte all’enormità del principio giuridico affermato in quella sentenza, ci sarebbe e ci sarà molto da scrivere. Ma prima di queste scritture alte e dotte, ci siamo noi, lo sguardo d’abitudine con cui ci lasciamo scivolare addosso con uno sbadiglio ogni infamia, ogni bestemmia, ogni miseria. Contenti di cacciare da Rosarno gli immigrati presi a fucilati dai camorristi, felici di tenerci invece gli amici di quei camorristi in Parlamento, disposti a credere che per ogni extracomunitario cacciato via ci sia un posto di lavoro in più per i nostri disoccupati. Su certe questioni ragioniamo e sorridiamo ormai come un popolo di tronisti. Bisognerebbe fare invece come fece il re di Danimarca, quando i nazisti occuparono il suo staterello, lo lasciarono graziosamente sul trono ma gli spiegarono che adesso la musica l’avrebbero suonata loro. E gli dissero, al re e ai suoi ministri, che i giudei del loro Paese avrebbero dovuto cucirsi al petto, come accadeva in tutte le altre nazioni occupate dall’esercito del Reich, una bella stella di Davide affinché fossero riconoscibili sempre, comunque, da chiunque. Il re della Danimarca, che la sua guerra l’aveva persa e regnava su un paese vinto e occupato, non potè rifiutarsi di ricevere l’ordine. Ma nessuno riuscì a impedirgli, dal giorno dopo, di cucirsela anche lui al petto quella stella. E quando i nazisti lo videro attraversare le strade di Copenaghen, segnato anche lui negli abiti come i suoi sudditi ebrei, capirono che non sarebbero riusciti a piegare quello staterello. E infatti non ci riuscirono.
Lo racconta Hannah Arendt ne La banalità del male. Ed è a questa banalità che ci stiamo lentamente abituando, come se le piccole e miserabili cose che produce questo governo (e che impregnano ormai anche la cultura giuridica e il senso comune del paese) fossero solo storie alla deriva, brevi di cronaca, affari degli altri. Sono affari nostri, memorie nostre, passioni e dolori nostri. Speriamo che oggi a Piazza del Popolo qualcuno si ricordi di parlare agli italiani, non solo a Berlusconi.

l’Unità 13.3.10
Quando una sentenza sacrifica il bene e la tutela dei minori

La sentenza della Cassazione n. 5856, ha già suscitato molti commenti. Alle tante giuste considerazioni fatte da più parti sul significato regressivo di quella pronuncia, vale la pena aggiungerne altre due. La prima è suggerita dalle parole di Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato per i rifugiati: «L’interesse del minore dovrebbe prevalere, e un irregolare non è necessariamente una minaccia alla sicurezza». Ovvero, rispetto a un pericolo certo e attuale (il danno inflitto al minore), quello incerto e potenziale (i possibili effetti negativi della irregolarità) passa indubitabilmente in secondo piano. Ma c’è un’altra considerazione da fare: i giudici della Cassazione sembrano volersi liberare di un fardello troppo oneroso. Una loro affermazione è, in tal senso, assai significativa (il principio della tutela dei minori non può prevalere su quello della sicurezza) perché dichiara anticipatamente, e irreparabilmente, la sconfitta del diritto alla prova dei fatti. In altre parole, tutta la scena pubblica contemporanea è attraversata da conflitti tra diritti ugualmente degni di tutela e di protezione giuridica: e compito dell’operatore della giustizia è quello di lavorare, con tutta l’inevitabile fatica, per trovare una mediazione tra due esigenze che appaiono inconciliabili (ad esempio tra diritto alla vita e possibilità di ricorrere all’aborto). Rifiutare di farlo, in questo caso, significa assumere come dominante quel presunto interesse collettivo alla sicurezza che il senso comune, spesso manipolato, indica come bene supremo. È una manifestazione prima di tutto di incultura. Tanto più quando a venire sacrificato è un bene pubblico come quello della tutela dei minori.

il Fatto 13.3.10
Tutti i modi per perseguitare i bambini stranieri
Dalle ordinanze dei comuni alla sentenza della Cassazione
di Elisabetta Reguitti

Il Comune di Milano ci aveva già provato nel 2008 vietando l'accesso all'asilo ai bambini di genitori irregolari. In
quella occasione il tribunale aveva però dato ragione a Rachida la mamma di origine marocchina che aveva presentato e vinto il ricorso. Oggi ci vorrebbero cento, mille Rachida per ribaltare la sentenza della Cassazione che di fatto antepone lo status di non regolare del genitore al diritto del minore all'unità familiare. La sentenza infatti non travolge gli altri diritti del minore ma mette in secondo piano un’esigenza molto importante: quella di vivere con entrambi i genitori. All'indomani della sentenza però il vicesindaco di Milano (con delega alla Sicurezza) Riccardo De Corato non ha perso tempo nel dichiarare “che non si può fare carta straccia della legalità con la scusa dell'istruzione ai minori, un principio che quando due anni fa venne applicato dal Comune di Milano fu bollato di razzismo”. Le cose però non stanno esattamente così secondo l'avvocato Alberto Guariso (dell' Onlus Avvocati per Niente) e legale di Rachida. “La Cassazione si è limitata a ribadire un principio che aveva già affermato e cioè che in assenza dei gravi motivi, come previsto dall’art. 31 del Testo Unico sull' immigrazione, il genitore irregolare non abbia diritto di ottenere quella speciale autorizzazione a restare sul territorio, che è appunto prevista da tale articolo – spiega Guariso – Recenti sentenze della Cassazione avevano però capovolto questo orientamento”. Insomma, la Corte sembra tornata all’orientamento precedente ma il discorso rimane del tutto aperto. L’impressione è che più si riesce a complicare la vita agli stranieri e più possibilità si avranno di rimandarli nei propri paesi d’origine. Chiamiamolo pure “mobbing istituzionale”, avviato inizialmente e in modo sperimentale dalle amministrazioni locali ma destinato ad essere esteso a livello nazionale e non solo agli irregolari. Un esempio sono le innumerevoli ordinanze “creative” dei sindaci: un autentico carosello dei provvedimenti che vanno dalla più recente proposta della regione Friuli Venezia Giulia di rifiutare le cure mediche non urgenti agli immigrati clandestini e ai lavoratori transfrontalieri (di cui la regione è piena) non regolarizzati ai “buoni vacanza” del ministro Brambilla. Da un minimo di 250 euro a un massimo di 500, a seconda del reddito e dei figli a carico, ma “ovviamente” solo per i nuclei familiari italiani. Tornando invece ai minori, i giudici hanno invece cassato le ordinanze emesse da due comuni nel bresciano. Il primo aveva bandito un concorso per studenti specificando che il premio di “eccellenza scolastica” sarebbe toccato solo a coloro che possedevano la cittadinanza italiana, escludendo, in tal modo, tutti i giovani stranieri. Il secondo era una gara per delle borse di studio, ma solo per alunni italiani. In provincia di Bergamo, l’amministrazione ha ritenuto opportuno deliberare un sostegno economico per spese dentistiche e oculistiche per ragazzi tra gli zero e i 19 anni anni: un contributo del 50% della spesa sostenuta, con un limite di mille euro per tutti i richiedenti purchè cittadini italiani.
Sul fronte “quote Gelmini”, secondo cui in una classe ci dovrebbero essere al massimo il 30% di alunni stranieri, sono partiti i ricorsi di due mamme, una rumena e una egiziana. Saranno i giudici (il prossimo 9 aprile) a stabilire se le circolari ministeriali ledono il principio di parità del trattamento tra italiani e stranieri al diritto all'istruzione. Il Testo Unico sull'immigrazione, infatti, vieta al legislatore l'introduzione di regimi differenziati in ragione della cittadinanza quando si tratta di diritti fondamentali. Il nocciolo della questione è che non si possono attuare delle esclusioni attraverso il criterio della cittadinanza (articolo 3 della Costituzione). Al contrario, sarebbe utile anche secondo gli stessi ricorrenti, trovare un sistema migliore per agevolare l’integrazione evitando le cosiddette classi-ghetto.


l’Unità 13.3.10

Lo scandalo ora lambisce persino il Papa
di Roberto Monteforte

Era vescovo a Monaco quando un suo prete già condannato per pedofilia ebbe una recidiva
Ratzinger sconvolto per l’affaire tedesco: nuove norme, linea dura, massima chiarezza

Pieno appoggio del Papa alla linea dura della Chiesa tedesca contro i preti pedofili. Scandalo anche a Monaco quando Ratzinger era a capo della diocesi.«Nessuna sua responsabilità» chiarisce padre Lombardi.

Pieno appoggio di Benedetto XVI ai vescovi tedeschi. Sulla pedofilia che ha sconvolto la Chiesa in Germania sarà linea dura e trasparenza. Costi quel che costi. Senza guardare in faccia a nessuno e collaborando con le autorità giudiziarie. La linea è decisa e ha il convinto avvallo di papa Ratzinger che ieri, «con grande sgomento, attento interesse e profonda commozione» ha ascoltato la relazione sui casi di «soprusi pedagogici e abusi sessuali» avvenuti in Germania tenutagli dal presidente della conferenza episcopale tedesca, monsignor Robert Zollitsch. Uno scandalo cha nel 1980 ha colpito anche la diocesi di Monaco di Baviera, quando Joseph Ratzinger ne era arcivescovo. Lo scrive il giornale Sueddeutsche Zeitung. Un sacerdote con precedenti di pedofilia racconta sarebbe stato autorizzato a trasferirsi nella diocesi bavarese per essere curato. Avrebbe dovuto essere ospitato in una comunità religiosa. Venne, invece, autorizzato a svolgere attività pastorale, e continuò a commettere abusi. La responsabilità però, puntualizza il portavoce vaticano, padre Lombardi, è stata dell’ex «vicario generale» della diocesi, monsignor Gerhard Gruber che avrebbe trasgredito le indicazioni dell’allora arcivescovo Ratzinger.
LO SCANDALO DI MONACO
La notizia è stata diffusa dopo l’incontro in Vaticano, ma l’episodio deve essere stato ben presente al pontefice durante il faccia a faccia durato quarantacinque minuti con monsignor Zollitsch. La sua adesione al «pacchetto di misure» messe a punto dalla Conferenza episcopale tedesca, deve essere stata ancora più convinta. Che non ci siano state incertezze sulla linea della fermezza lo ha sottolineato monsignor Zollitsch che alla stampa ha spiegato la strategia messa a punto dalla Chiesa tedesca. Lo fa partendo dalle scuse alle vittime degli abusi. È una premessa significativa. L’intero «catalogo» delle misure ora rafforzate, ma individuate già nel 2002, parte dalla convinta attenzione verso le vittime. «Vogliamo portare alla luce la verità ha assicurato il vescovo senza falso rispetto per nessuno o chicchessia, anche di cose accadute molto tempo fa, perché le vittime ne hanno il diritto».
L’impegno della Chiesa nella lotta alla pedofilia è esplicito: collaborare con la giustizia e accertare la verità. Si invitano sacerdoti, laici e volontari «ad autodenunciarsi quando vi possano essere fatti significativi». Il vescovo ha pure chiarito che le procedure sono due, distinte, non sovrapponibili e indipendenti: quella della giustizia ordinaria e quella del diritto canonico. In Germania la procedura assunta è molto rigorosa. «Nessun altro Paese, ad eccezione dell’Austria ha precisato Zollitsch ha mai adottato norme simili». Che aggiunge: «Il Papa ci incoraggia ad applicare le nostre norme procedurali in maniera continuativa e a migliorarle se necessario. È favorevole alle nostre misure e sul cammino che abbiamo intrapreso». Il pacchetto è articolato. La Chiesa tedesca ha predisposto un’indagine interna e ha indicato nel vescovo di Treviri, monsignor Stephan Hackermann, l’« incaricato straordinario per tutte le questioni inerenti agli abusi sessuali». Sulle misure a sostegno delle vittime e delle loro famiglie la Chiesa tedesca ha assicurato alle vittime accertate e ai loro familiari «assistenza umana, psicologica e pastorale adeguata alle loro esigenze». Vi è piena disponibilità ad incontrare le vittime. Non si è ancora deciso sull’eventuale risarcimento economico per le vittime. L’indagine è estesa a tutte le diocesi tedesche. «Abbiamo raccomandato di investigare su ogni episodio già emerso o che dovesse emergere, anche riferito a tempi lontani». Sono previste anche misure di controllo sulla corretta applicazione delle norme procedurali. Non si ha ancora un quadro preciso dei casi di abuso. Si attendono le risposte dalle diocesi. Durante il colloquio con il pontefice non si sarebbe toccato il caso del coro di Ratisbona diretto dal fratello del Papa, George Ratzinger.
LA COLLABORAZIONE CON IL GOVERNO
Quello che i vescovi tedeschi respingono è che la pedofilia sia un problema esclusivamente della Chiesa cattolica. Quello che si sottolinea è che «non vi è in Germania un altro gruppo che abbia norme così severe». Molto si attende dalla «tavola rotonda» promossa dal governo con tutte le realtà coinvolte dal fenomeno, prevista per il prossimo 23 aprile.
Vi sarebbe «piena fiducia» dei vescovi con la cancelliera Angela Merkel e con i ministri della famiglia e dell’istruzione. Invece resterebbero gli attriti con il Guardasigilli, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger con la quale sarebbe in programma un incontro chiarificatore.

il Fatto 13.3.10
Lo scandalo pedofilia arriva fino a Ratzinger
Spunta un caso a Monaco, quando il Papa era vescovo
di Marco Politi

“Il Papa è sconvolto!”
Dal Vaticano il presidente dei vescovi tedeschi Zollitsch riferisce in diretta l’umore di Benedetto XVI. Poche ore dopo esplode il caso di un prete pedofilo a Monaco, quando Ratzinger era arcivescovo. Riferisce la Sueddeutsche Zeitung che, mentre Ratzinger guidava la diocesi, venne trasferito in città un prete con precedenti di abusi sessuali. Interpellato, l’arcivescovado di Monaco rivela adesso: “Nel 1980 fu deciso di sistemare in una casa parrocchiale il sacerdote H. perchè seguisse una terapia. L'arcivescovo (Joseph Ratzinger) contribuì alla decisione”. Tuttavia, la Suddeutsc he Zeitung r ifer isce che nella sua nuova sistemazione il prete tornò ad abusare di minori. In affanno, gli odierni responsabili ecclesiastici di Monaco specificano che l’arcivescovo Ratzinger aveva deciso di dare ospitalità al prete ai fini della cura. Successe invece – si spiega in una nota – che, “discostandosi da questa decisione”, l’allora vicario generale della diocesi Gerhard Gruber (e diretto collaboratore di Ratzinger) “fece assegnare H. alla pastorale di una par rocchia senza limitazioni”.
Un caso tipico, già visto migliaia di volte: il prete-predatore spostato da un posto all’altro. Allarmato interviene ora il Vaticano. Il portavoce padre Lombardi dichiara che la diocesi di Monaco ha riconosciuto “errori nella gestione del personale negli anni Ottanta" e che Gruber si è assunto “piena responsabilità dell’accaduto”. Evidente-
mente, per Lombardi, Gruber non ha seguito le indicazioni di Ratzinger. Così, alla fine, si è verificato ciò che da giorni nel palazzo apostolico chiamavano “l’incubo”: il rischio che il ciclone pedofilia colpisse anche Monaco negli anni in cui Ratzinger era arcivescovo. Dunque si fa sempre più urgente la necessità di una pulizia radicale.
A colloquio a tu per tu per quarantacinque minuti, Zollitsch ha fatto al Papa il quadro della situazione tedesca, dove la stampa segnala circa 350 casi di abusi di minori e di metodi correttivi violenti. La conferenza episcopale tedesca ha delegato un vescovo a seguire a livello nazionale ogni caso di abuso sessuale. É stato istituito un numero verde. La linea ufficiale, ribadita dal portavoce dell’episcopato, consiste nell’allontanare i preti coinvolti e “nell’appoggiare incondizionatamente” l’autor ità giudiziaria statale nel perseguire gli abusi sessuali commessi da sacerdoti e religiosi. Zollitsch ha rinnovato le sue pubbliche scuse alle vittime e confermato l’apertura di un’inchiesta nazionale, in cui ogni vescovo esaminerà nella sua diocesi vicende e denunce, anche lontane nel tempo, per rendere giustizia alle vittime “senza falsi riguardi verso chicchessia”. In caso di inerzia il vescovo locale renderà conto alla conferenza episcopale. La Chiesa tedesca parteciperà inoltre ad una tavola rotonda, promossa dal governo di Berlino per studiare misure efficaci di contrasto. Benedetto XVI, riferisce Zollitsch, approva le iniziative prese e “incoraggia a procedere coerentemente”. Dai suoi incontri in Vaticano il presule riporta la notizia che la Congregazione per la Dottrina della Fede sta raccogliendo materiale da tutto il mondo al fine di rielaborare le direttive emanate nel 2001. Probabilmente verrà redatta un’apposita Istruzione dell’ex sant’Uffizio. Di fatto l’episcopato di Germania si è attrezzato ad affrontare gli scandali di pedofilia con un documento di “Orientamenti”, redatto già nel 2002. É l’unico episcopato, insieme all’Austria, ad avere elaborato linee guida specifiche. A parte i punti stabiliti a suo tempo dall’episcopato nord-americano quando – dopo l’esplodere di migliaia di casi, tra i quarantamila e i sessantamila secondo cifre realistiche – fu varata la “tolleranza zero”. Gli Orientamenti dell’episcopato tedesco prevedono un referente per i casi di pedofilia in ogni diocesi (suggerimento ripreso pochi giorni fa dal vescovo di Bolzano mons. Golser con un apposito indirizzo e-mail), immediato esame dei casi sospetti, apertura di un procedimento ecclesiastico, esortazione al colpevole di costituirsi e, in casi provati, informazione diretta da parte della diocesi alla procura federale tedesca. Contemporaneamente è prevista “assistenza umana, terapeutica e pastorale” alle vittime. Attualmente, ha spiegato Zollitsch, si sta studiando anche la possibilità di un aiuto economico.
In Italia l’episcopato sembra comportarsi come se il fenomeno non richiedesse iniziative collettive. Eppure don Fortunato Noto, responsabile dell’associazione anti-pedofilia “Meter”, ha dichiarato alla Radio Vaticana che nell’ultimo decennio si sono registrati pubblicamente ottanta casi di abusi sessuali commessi da religiosi. Cifra – alla luce dell’esperienza – probabilmente per difetto. Ad esempio nel caso di don Gelmini, ora ridotto allo stato laicale perché accusato di abusi, né il Vaticano né la Cei hanno dato l’input per un’immediata indagine ecclesiastica. Ma senza indagini a tappeto da parte dei vertici ecclesiastici non si volterà realmente pagina.


l’Unità 13.3.10
Molestie sessuali e frustate anche a Bolzano e Innsbruck

Arriva sino a Bolzano lo scandalo pedofilia. Ieri un bolzanino ha ricordato le violenze sessuali subite quand’era ragazzino negli anni 60 da cinque frati in un convento in città, giorni fa un ex allievo di un collegio di Novacella aveva denunciato vessazioni fisiche e frustate. La curia di Bolzano Bressanone ha reagito spostando in apertura del suo sito web l’indicazione di un indirizzo e-mail, molestie@bz-bx. net, dove le vittime possono fare segnalazioni, perché si legge sul sito «ogni abuso è uno di troppo». Quello della pedofilia è un tema che causa da tempo imbarazzi nella curia altoatesina, fino dall’epoca del processo a carico di don Giorgio Carli, accusato di avere abusato per anni da una minorenne. Assolto in primo grado, condannato in appello, fu prosciolto per prescrizione. Durante il processo vi erano state serie frizioni tra procura e curia, per una convocazione a testimoniare al vescovo Wilhelm Egger (oggi defunto). Alla fine Egger rispose alle domande della corte. Oggi il procuratore capo Guido Rispoli dice: bene hanno fatto le autorità religiose a rendersi disponibili raccogliendo segnalazioni su abusi, ma si segnali ogni fatto rilevante anche al potere secolare. Al di là del Brennero, nella diocesi austriaca di Innsbruck, i casi segnalati dal 1995 ad oggi sono 33, 15 venuti alla luce negli ultimi due giorni.

Repubblica 13.3.10
Caso di pedofilia a Monaco con Ratzinger vescovo
Pedofilia, lo scandalo sfiora il Papa "Nella sua diocesi un prete condannato"
di Andrea Tarquini

BERLINO - Lo scandalo degli abusi sessuali ai danni di minori sfiora Papa Ratzinger. A scriverlo è il quotidiano Sueddeutsche Zeitung che rivela la storia di un prete tedesco con tendenze pedofile già note, trasferito per questo stesso motivo da Essen a Monaco di Baviera. Benedetto XVI, prosegue il giornale, presiedeva allora come arcivescovo di Monaco di Baviera e Freising, il consiglio della diocesi. Nella sua inchiesta, il Sueddeutsche Zeitung scrive che nel 1980 fu deciso di sistemare il prete in rettorato per curarlo. Nonostante la nuova sistemazione, il prete continuò ad abusare dei ragazzi. Dura la reazione del Vaticano che con una nota ha affermato la completa estraneità di Benedetto XVI. L´ex vicario generale, monsignor Gruber, si è assunto ogni responsabilità.

BERLINO - I pedofili travestiti da sacerdoti arrivavano ovunque, riuscivano a ingannare anche menti finissime come quella dell´allora cardinale Joseph Ratzinger, ad aggirare la loro attenta, rigorosa sorveglianza. La rivelazione viene dal sito della Sueddetusche Zeitung, è allarmante e clamorosa. Negli anni in cui l´attuale papa Benedetto XVI era arcivescovo di Monaco e Frisinga la sua arcidiocesi, la più importante nella cattolicissima Baviera, ammise al servizio pastorale un prete pregiudicato per violenze pedofile. E in Baviera il pregiudicato si abbandonò di nuovo, sempre secondo l´autorevole quotidiano di Monaco, ad abusi su minorenni. Svolgerebbe ancora il suo ministero, da qualche parte nell´Alta Baviera.
Immediata la reazione della Santa Sede. Come ha spiegato il portavoce, padre Federico Lombardi, i comunicati dell´arcidiocesi di Monaco chiariscono tutto. Il sacerdote pregiudicato, indicato dai media tedeschi come "Abate H" fu accolto dalla Chiesa bavarese e assegnato a una residenza in una parrocchia per permettergli di sottoporsi a terapie contro la sua tendenza pedofila. Ma all´insaputa dell´allora arcivescovo e cardinale Ratzinger, il vicario generale dell´arcidiocesi, Gerhard Gruber, decise di riammetterlo al pieno servizio pastorale e al contatto con i fedeli, anche giovani o minorenni. «Ho commesso un grave errore, me ne assumo la piena responsabilità», ha detto ieri l´ex vicario generale Gruber, oggi 81enne. «Mi rincresce profondamente che a causa della mia decisione di allora dei giovani subirono violenze, chiedo scusa a tutte le vittime».
Joseph Ratzinger dunque non sapeva, non fu informato a dovere dai suoi sottoposti. La decisione di riammettere l´ "Abate H" al servizio pastorale, e al contatto diretto quotidiano con i fedeli, anche con minorenni, fu presa per suggerimento del vicario Gruber. La stessa Sueddeutsche Zeitung scrive che Gruber decise da solo, poi dopo il fatto compiuto (afferma il portavoce dell´arcivescovato di Monaco, Bernhard Kellner) inviò al cardinale Ratzinger documenti generici su varie nomine. In cui non si faceva alcuna menzione del passato criminale dell´abate H. E non c´è assolutamente certezza che Joseph Ratzinger abbia vagliato quei dossier sull´ "Abate H".
Le colpe sono pesanti, e per questo il caso è scottante, sebbene tutto indichi una totale estraneità e innocenza del Santo Padre. Il misterioso "Abate H" era stato condannato a Essen, nel Nordreno-Westfalia, per aver costretto un undicenne a praticargli un atto sessuale orale. La Chiesa bavarese lo accolse per terapie nell´82, ma poi lo riammise al servizio pastorale. Senza l´approvazione di Ratzinger, dicono tutti. Nel 1986, il prete fu di nuovo condannato da un tribunale bavarese a 18 mesi con la condizionale e a una multa di 4000 marchi per abusi su un minorenne. Ma ciò malgrado, la Chiesa lo assegnò di nuovo a una comunità di fedeli.
La presunzione d´innocenza e ogni prova indicano una totale estraneità di Benedetto XVI alla scelta. Ma lo stesso fatto che sia stato possibile nascondere all´allora cardinale Joseph Ratzinger la decisione di perdonare un sacerdote pregiudicato e chiaramente pericoloso, getta nuove ombre pesantissime sulla credibilità e l´immagine della Chiesa cattolica nel paese del Papa. Proprio nello stesso giorno in cui Benedetto ha ricevuto il presidente della Conferenza episcopale tedesca, esprimendo sdegno e costernazione per quei crimini contro l´infanzia e promettendo indagini e provvedimenti senza tolleranza.

Repubblica 13.3.10
Preoccupazione per l´allargamento dello scandalo: la linea resta rigore e trasparenza
Il dolore del Vaticano "È la Via Crucis del Pontefice"
di Orazio La Rocca

Nelle risposte della Santa Sede si sottolinea la volontà di fare chiarezza
Attesa per la lettera ai vescovi irlandesi sugli abusi: verrà resa pubblica lunedì

CITTÀ DEL VATICANO - È la Via Crucis di papa Ratzinger. Una moderna Via Dolorosa lungo la quale Benedetto XVI sta vivendo, giorno dopo giorno, la sua personalissima Passione. E la notizia-choc preannunciata ieri sera dal quotidiano di Monaco di Baviera - secondo quanto si coglie Oltretevere tra i più stretti collaboratori del Pontefice - «non è altro che una delle più dolorose Stazioni di questa strana Quaresima che il Santo Padre sta vivendo, come sempre, nella più intensa preghiera e con comprensibile turbamento, dedicando al Signore ogni attimo e ogni peso del suo magistero, anche il più opprimente». Come può essere la notizia di un prete pedofilo "accolto" nella diocesi di Monaco nel 1980 dall´allora arcivescovo Joseph Ratzinger secondo quanto scrive il quotidiano Suddeutseche Zeitung.
«È stato tutto chiarito dalla Curia di Monaco», commenta il portavoce papale, padre Federico Lombardi, il quale puntualizza che «l´allora ex vicario generale, monsignor Gerhard Gruber, si è già assunto la totale responsabilità di non aver vigilato più attentamente sulle attività pastorali vicino ai giovani di un sacerdote che era stato accolto per essere curato e certamente non per svolgere altre attività». Una assunzione di «totale responsabilità» fatta con un tempestivo comunicato da monsignor Gruber col chiaro intento di "difendere" in qualche modo la figura di Benedetto XVI da una storia poco edificante vecchia di 30 anni. «Una vecchia vicenda rivelata, però, con la tempestività di una bomba ad orologeria - si commenta in Curia - stranamente proprio nel giorno in cui il presidente della Conferenza episcopale di Germania è stato autorizzato dallo stesso pontefice tedesco a far fronte con norme più severe e restrittive agli scandali di violenze fisiche e sessuali ai danni di minori emersi negli anni passati nella Chiesa tedesca».
«Non conosco questa storia, non posso commentarla, ma notizie del genere fanno indubbiamente male, per come vengono dette e per la tempistica scelta per diffonderle», ammette il cardinale tedesco Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell´unità dei cristiani. Papa Ratzinger turbato da quanto sta emergendo nella "sua" Germania?: «In questi ultimi giorni di Quaresima ho incontrato più volte il Santo Padre - risponde il cardinale Kasper - e l´ho sempre visto in piena attività e sempre vigile ed attento alla testa della Chiesa universale che guida con grande fede, incrollabile passione e soprattutto nella preghiera». Altre voci dentro le mura vaticane parlano invece di un papa Ratzinger «turbato ed addolorato» per quanto sta emergendo «non solo in Germania, ma anche in tutte quelle altre parti del mondo - come negli Usa, in Olanda e in Irlanda - dove i casi di minori violentati da preti pedofili sono ormai sull´ordine delle centinaia». Un «vero e proprio cancro» che il Pontefice vuole seriamente estirpare, assicura un cardinale di Curia, «come ha già fatto negli Usa dove con la tolleranza zero ha preteso l´immediato allontanamento dei sacerdoti colpevoli. E come pretenderà per la Chiesa di Germania e la Chiesa d´Irlanda» alla quale lunedì prossimo, 15 marzo, invierà l´attesa lettera - preannunciata il 16 febbraio scorso - per indicare ai cattolici irlandesi «la strada maestra per liberarsi dagli scandali con la verità, l´assunzione di responsabilità, la denunzia dei colpevoli e l´aiuto fraterno alle vittime».
Quasi un nuovo corso per liberare la Chiesa dal giogo degli scandali che Benedetto XVI sta varando in sintonia anche con un altro cardinale, Carlo Maria Martini, che in un´intervista al settimanale Gente, parlando degli «scandali nella Chiesa», ricorda che «ci sono stati anni più bui» e che «in fondo, oggi la Chiesa è presente in tutti i Paesi del mondo come mai nella storia passata».

Repubblica 13.3.10
Fecondazione, nuova bocciatura Consulta "Sì alla crioconservazione degli embrioni"

ROMA - Nuova bocciatura per la legge 40 da parte della Corte costituzionale. La Consulta ha di fatto confermato l´illegittimità dell´obbligo di creazione di massimo tre embrioni, dell´impianto unico di più embrioni e la legittimità invece della crioconservazione legata a motivi di salute della donna, ossia del congelamento degli embrioni per un successivo impianto, già sanciti dalla sentenza del 2009.
La sentenza arriva sulla base del ricorso presentato da Hera onlus e Sos infertilità per conto di due coppie affette da due gravi malattie genetiche.
«La sentenza conferma che i cittadini hanno diritto alla diagnosi preimpianto e alla crionservazione, e i centri devono adeguarsi», ha commentato Maria Paola Costantini, vicesegretario di Cittadinanzattiva Toscana e avvocato.

il Fatto 13.3.10
Le ragioni della scuola
di Caterina Perniconi

Il ministero della Funzione pubblica parla di un’adesione dell’otto per cento, il sindacato tra il 30 e il 50. Fatto sta che stamattina, girando per Roma, la maggioranza dei presidi e degli insegnanti stava scioperando. La Cgil infatti ha portato in piazza anche il comparto scuola, che non ne può più dei tagli orizzontali fatti dal governo Berlusconi, che non perde tempo a guardare la faccia di coloro a cui taglia la testa in modo indiscriminato.
La riduzione di 7,6 miliardi di euro in tre anni, previsti dalla Finanziaria 2009, e di relativi 130.000 posti di lavoro, è la conseguenza diretta della diminuzione delle ore di insegnamento.
In molti licei i docenti sono costretti ad alzare la cifra del contributo volontario che le famiglie versano alle scuole (per integrare il compenso statale sempre più basso) e con quei soldi istituiscono i corsi delle materie in sofferenza, dal francese alla geografia. Questo significa gravare sulle famiglie, privatizzare le ore di studio e creare un esercito di precari delle ore precarie per coprire i buchi.
Il punto è che il dicastero di viale Trastevere effettuerà inoltre i tagli imposti dalla legge 133 del 2008 (quella che sottrae otto miliardi anche all’Università) perciò in molte scuole superiori, già da settembre, le classi seconde, terze e quarte avranno il taglio di quattro ore settimanali. Meno ore, meno materie, meno cattedre, meno professori.
Ma la soluzione per abbattere il numero dei lavoratori della scuola non è quella di rivalersi sui ragazzi e la loro istruzione. Una razionalizzazione delle risorse è possibile e ormai necessaria, ma servono regole certe e non tagli “a casaccio”. “Più investimenti e più risorse per la scuola” ha chiesto stamattina a Padova il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani a nome di tutti i lavoratori della scuola che si trovano davanti l’ennesima riforma che per il governo dovrebbe formare i ragazzi, pronti per essere immessi nel mercato del lavoro.

Repubblica 13.3.10
"Niente sbarre per i detenuti matti" l´esperimento segreto dell´Emilia
Castrocaro, da manicomio criminale a comunità aperta. L´annuncio dopo 2 anni di "prova"
"Non ne abbiamo parlato per paura. Pensavamo che chi abita qui non avrebbe capito"
"I risultati? Abbiamo avuto 27 ospiti, sedici sono qui oggi. Mai nessuna fuga"
di Jenner Meletti

SADURANO (Castrocaro) - Mario dice che verso sera, nel prato di fronte alla casa gialla, si vedono i caprioli. «All´alba arrivano anche i cinghiali». Stefano racconta che gli faceva impressione, le prime volte, aprire la porta della camera da letto, andare nella sala per la colazione, uscire in cortile. «Non c´ero più abituato». Una volta la vita era tutta dentro una cella di un carcere che era anche manicomio e di un manicomio che era pure carcere. «Manicomio criminale», c´era scritto sul portone. Poi fu corretto in «Ospedale psichiatrico giudiziario». Mario e Stefano sono due dei sedici ospiti di una casa gialla sulle colline di Castrocaro che fino ad oggi è stata tenuta segreta. «Non ne abbiamo mai parlato - dice Gianluca Borghi, che quindici anni fa era assessore ed ebbe l´idea di costruire questa casa - perché avevamo paura. Abbiamo fatto una cosa importante: per la prima volta in Italia siamo riusciti ad aprire una breccia nel manicomio giudiziario. Abbiamo liberato persone con addosso un marchio pesantissimo: matto, galeotto, assassino… Pensavamo che chi abita qui attorno si spaventasse e che la sua paura ci costringesse a riportare i malati in una cella. Per fortuna ci siamo sbagliati».
Casa Zacchera, si chiama la casa gialla, dal nome di un antico podere. La neve ha gelato le mimose già fiorite. Oggi, nella sala delle colazioni, c´è una riunione importante. Dirigenti delle Asl e della coop Sadurano (gestisce l´assistenza a questi «internati in licenza di esperimento»), assieme all´assessore regionale Giovanni Bissoni annunciano a chi vive su queste colline che quelle persone viste in paese o nei sentieri dei boschi sono uomini la cui vita era stata cancellata e che ora hanno avuto un´altra occasione. «Parliamo oggi - dice l´assessore - perché possiamo annunciare i primi risultati. La comunità è stata aperta il 16 ottobre 2007 ed ha già contato 27 ospiti. Sedici sono qui oggi. Degli altri, due sono tornati all´Opg perché, forse stroncati da troppi anni di cella, non sono riusciti ad affrontare questa nuova realtà. Gli altri sono tornati nelle loro famiglie, o in piccoli appartamenti protetti, nei loro paesi».
Si pronunciano parole che sembravano dimenticate: sogno, solidarietà, utopia… «La legge Basaglia - dice Gianluca Borghi - ha dimenticato gli ospedali psichiatrici giudiziari. Lì si continua a vivere senza diritti, come nei manicomi di un tempo. Avevamo un debito, con queste persone. Abbiamo cominciato a pagarlo». Casa Zacchera non è stata scelta a caso. Qui, in località Sadurano, sorge da più di vent´anni la comunità di un sacerdote, don Dario Ciani, che ha sempre accolto i deboli e i disperati: tossicodipendenti, alcolisti, ex ospiti dei manicomi… Dalla prima comunità sono nate le cooperative, vere e proprie imprese sociali. «Noi gestiamo casa Zacchera - raccontano il presidente Stefano Rambelli e l´organizzatore Matteo Montanari - ma non vogliamo vivere sulle disgrazie delle persone. Il nostro obiettivo è quello di fare tornare questi ospiti a casa loro. Con un costo che è la metà di quello di un ospedale giudiziario, per 16 persone mettiamo a disposizione venti operatori. Ogni settimana garantiamo 50 ore di aiuto psicologico, 84 ore di infermeria, 25 di psichiatria… Non ci sono reti, cancelli e sbarre, qui da noi, e ospitiamo anche chi ha commesso omicidi. La nostra custodia è capacità relazionale, è assistenza sanitaria. In questi due anni e mezzo non c´è stata nessuna fuga, non c´è stato nessun incidente».
Qualcuno sapeva, di questa casa gialla. «Abbiamo avvertito - dicono Gianluca Borghi e Giovanni Bissoni - il sindaco di Castrocaro, la giunta comunale e il comandante dei carabinieri. Ma nemmeno il consiglio comunale era informato. Proprio quando la casa stava per aprire, ci sono state le elezioni comunali e la maggioranza è passata dal centro sinistra al centro destra. E qui c´è stata la sorpresa: anche la nuova amministrazione si è comportata in modo splendido». Davvero strana, la terra di Romagna. Parli con l´assessore al welfare e cultura, Francesco Billi della Lega Nord, e anche a nome del sindaco Francesca Metri, vicina a Bossi, lui dichiara subito che «alla casa Zacchera hanno fatto la cosa giusta». «Sapevamo bene che lì c´erano gli ex ospiti Opg e abbiamo capito che almeno per un certo tempo c´era bisogno di riservatezza. Il nostro parere? Noi siamo orgogliosi di avere qui una comunità come quella. Sadurano la conosciamo da sempre. Don Dario Ciani, il fondatore, è una grande persona che è riuscita a circondarsi di persone brave e capaci». In altri luoghi, sulla paura e sulla voglia di sicurezza sono state montate campagne e fortune elettorali. «Noi stiamo con Sadurano - dice l´assessore - perché non è un´enclave ma un luogo aperto a tutti. I ragazzi, gli uomini e le donne che sono lì sono persone che cercano di uscire da un passato pesante. Certo, oggi tutti sapranno che ci sono anche gli ex internati in manicomio giudiziario, ma non credo che ci saranno problemi. Tutti noi, attorno a Sadurano, abbiamo steso non un assurdo cordone sanitario ma un cordone di solidarietà. Quando arrivano turisti, noi li mandiamo a Sadurano. Hanno un ristorante biologico con i prodotti del territorio, organizzano concerti e spettacoli di comici… È giusto che tanti vengano a contatto con questa comunità di gente liberata».
Dopo la colazione, tanti vanno al lavoro. Ci sono il caseificio, il ristorante, i campi da calcetto… C´è chi va a lavorare fuori, in officina e dall´elettrauto. C´è chi, appena arrivato, come un bimbo deve imparare a camminare in spazi liberi, non una cella tre per tre con letti a castello. Un chilometro e mezzo per andare al ristorante, assieme agli ospiti delle altre comunità e ai turisti. Mario e Stefano sono contenti. «Guardi là nella valle. Si vede il mare».


l’Unità 13.3.10
È crisi tra Israele e gli Stati Uniti «Sigillata» la Cisgiordania
di Umberto De Giovannangeli

L’appello del patriarca di Gerusalemme: l’occupazione alimenta la violenza
HillaryClinton quell’azionecontrolamissionediBiden.Tensionetraipalestinesi
Da Gaza alla Cisgiordania. Ovvero: una vita da sigillati. Israele ha chiuso per 48 ore la frontiera con la Cisgiordania «per motivi di sicurezza». L’ordine è del ministro della Difesa. Resterà fino alla mezzanotte di oggi.

Le autorità israeliane hanno anche proibito agli uomini di età inferiore ai 50 anni di assistere alla preghiera del venerdì nella moschea al Aqsa di Gerusalemme. Il deflusso dalla moschea è avvenuto pacificamente, ma ci sono stati tafferugli nella zona araba della Città santa, dove la polizia ha lanciato granate stordenti e ha fermato quattro giovani che lanciavano pietre. Incidenti anche a Ramallah e in varie località della Cisgiordania.
La tensione tra i palestinesi è molto alta dopo la decisione del governo israeliano di autorizzare la costruzione di 1.600 case per i coloni a Gerusalemme est che ha portato al congelamento da parte dell’Anp dei colloqui indiretti che avrebbe dovuto avviare in questi giorni con Israele. Il blocco è una misura eccezionale, e da molti anni non si imponeva se non in periodi festivi. Dopo le 48 ore di blocco, si terrà un’ulteriore riunione al ministero della Difesa israeliano per valutare la situazione. Per 48 ore, la gente di Cisgiordania vivrà l’incubo che da tanto più tempo attanaglia i palestinesi di Gaza: l’incubo, reale, di vivere in una immensa prigione a cielo aperto. «L’occupazione militare dei territori palestinesi è dura, arrogante, ha paura degli altri e di se stessa, priva della libertà e dei diritti. Alimenta la violenza e persegue l’umiliazione. Nessun popolo potrebbe accettare un’occupazione simile»: lo denuncia al settimanale Vita il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal. «La comunità internazionale deve intervenire chiede il patriarca di Gerusalemme soprattutto l’Europa deve fare qualcosa, deve avere il coraggio di dire la verità». Un coraggio che fatica a mostrarsi.
LA LETTERA NON RICUCE
Terminata la visita di tre giorni a Gerusalemme del vicepresidente Joe Biden, una profonda crisi di fiducia si è aperta nelle relazioni fra Stati Uniti ed Israele. Il segretario di stato americano Hillary Clinton ha ammonito il premier israeliano Benjamin Netanyahu che l’annuncio della costruzione di nuove abitazioni a Gerusalemme Est costituisce «un segnale profondamente negativo» nei rapporti bilaterali tra Washington e il governo israeliano. Quello portato dalla Segretaria di stato Usa è un affondo tanto più significativo perché Hillary Clinton è ritenuta la più «filoisraeliana» dell’amministrazione Obama. Altro che «strappo ricucito»: «Questa azione contraria allo spirito della visita di Biden tuona Clinton ha minato la fiducia nel processo di pace e nell’interesse dell’America». Per il quotidiano Maariv il presidente Obama ha reagito «con collera» nell’apprendere dell’annuncio del nuovo rione ebraico a Gerusalemme est durante la visita di Biden. Secondo il giornale, «Se finora Obama prendeva con un grano di sale le dichiarazioni del premier Benyamin Netanyahu, adesso semplicemente non crede più ad alcuna sua parola».
Per il quotidiano Yediot Ahronot Netanyahu è stato «davvero colto di sorpresa» dall’annuncio; eppure è egualmente responsabile dell’incidente diplomatico con Biden «perché sostiene associazioni di coloni estremisti» che cercano di alterare i delicati equilibri demografici a Gerusalemme est. Altri analisti rilevano che le incomprensioni fra Usa ed Israele riguardano anche l’atteggiamento da assumere di fronte alla «minaccia iraniana». Le sanzioni prefigurate da Biden per Teheran appaiono a Gerusalemme non soddisfacenti, fanno trapelare fonti governative.

Notizie Radicali 3.2.10
Riccardo Lombardi, per rendergli giustizia e verità
di Marco Pannella


“Lombardi e il fenicottero”: così si intitola il volume che Carlo Patrignani dedica alla figura di un leader storico del Partito Socialista, Riccardo Lombardi (Edizioni “L’asino d’oro”, pagg. 203, 18 euro). Il libro è arricchito da interviste a Marco Pannella, Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo, Tullia Carrettoni. Oggi pubblichiamo la prefazione, di Pannella. Nell’edizione di domani l’intervista.

Tornare a onorare in questo nostro tempo, in questa nostra società, la vita, le opere, le speranze e le delusioni, le idee e gli ideali di Riccardo Lombardi, molti altri, ben più di me, possono farlo, l’hanno fatto e lo faranno. Ma grazie a Carlo Patrignani e a questa sua bella iniziativa, accade, incombe anche a me, la possibilità di provare ad assolvere al dovere della riconoscenza verso (e di) un grande compagno, membro di diritto di quella “capitiniana” nostra comunione/comunità di viventi e di morti, nella quale scopro sempre più di credere e di vivere anch’io. E’ un impegno che assumo: che cercherò in ogni modo di onorare entro breve tempo; purtroppo non immediatamente, se non attraverso questa improvvisata conversazione avuta con Carlo; a suo intero carico dunque trarne il poco che ritenga contributo adeguato. Succede. Per me oggi (forse) minora premunt…

Per quanto io ricordi, con Riccardo ho avuto due soli effettivi, veri, colloqui diretti e personali. Del dialogo politico mi occorrerebbe concentrazione, che non ho, per scriverne: credo che sia stato tutt’altro che marginale, tanto quanto oggettivamente implicito; ma, attraverso due o tre decenni, denso di profonde e comuni radici e anche di obiettivi comuni (fatte le debite differenze, di valore e di statura). Uno dei due incontri avvenne a casa sua a Milano, nel1961, qualche giorno dopo il Congresso del PSI. Passammo a un giro di orizzonte, un tentativo di bilancio sulla situazione politica generale: dapprima quella europea, quella francese, la situazione sul fronte “algerino”, sul dominio gollista e la situazione di quella Sinistra sempre più spaccata fra i comunisti di Marchais, i socialisti di Mollet, il PSUG, i radicali di Servan Schreiber. Tornati all’Italia, a un certo punto interruppe e disse: “Guarda, devo dirti che spesso penso che, alla fine, se non mi dimetto dal Parlamento non trovo motivo più valido di accampare di quello di arrivare al massimo della pensione…”. Trasecolai. Compresi subito che in quel modo voleva trasmettermi ben altro e aveva trovato questo modo per farlo. Sapevamo benissimo tutti e due, ne sono certo, che quella proclamazione, fatta con il tono di una confidenza, prenderla alla lettera era di per sé improbabile, perché non era, non poteva essere vera. Continuammo, mi sembra, per un’altra mezz’ora prima di accomiatarci. Ma, in quel lasso di tempo, era come se l’atmosfera, lo stesso rapporto fra di noi si fosse d’un tratto trasformato; i ruoli si erano cancellati fra quel grande compagno, “corpo” di una storia drammatica e gloriosa da una parte, e dall’altra, solo un poco più che trentenne, singolare, forse ancora promettente, e quindi ambiguo. In quel momento, per destinazione e valore, quei ruoli s‘erano superati, trasformati. Come se in quell’occasione non si fosse più solo conoscenti, ma ci fossimo anche, l’un l’altro, “ri-conosciuti”. E divenne in quel periodo inme, sempre più viva, più drammatica, la coscienza del valore assolutamente straordinario di una forma del conoscerci, della necessaria durata detta “ri-conoscenza”.

In quel periodo della mia vita (personale-politica: non privata, quindi del pubblico) in quella sera milanese, grazie a quel monito di Riccardo, sgorgato così improvviso, cominciò forse ad illuminarsi di una maggior luce, diffusa e insistente, una verità che mi veniva trasmessa anche da altri compagni di quella generazione che la fortuna aveva voluto darmi l’opportunità di conoscere: Italo Pietra (che vidi qualche ora più tardi), Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Loris Fortuna, Ugo La Malfa, Mario Paggi, Mario Ferrara, Mario Boneschi, Altiero Spinelli, Indro Montanelli, Carlo Antoni, Guido Calogero. Oggi mi sembra chiaro che, per tutta quella generazione, cui debbo tanto del mio amore per la vita dei viventi, ben presto scoprivo che nella storia repubblicana, cioè fin dagli anni Settanta, per qualcuno fra loro subito dopo, dagli anni Settanta, la presenza in essi, non di rado pressante come un “pre- sentimento”, o già la constatazione, il timore inradicato che la banalità del male antidemocratico tornasse a prevalere. Che questo male, in uno stato creduto vinto e cancellato, tornasse in vita assumendo tramite una metamorfosi le sembianze, perfino i simboli e il linguaggio dei suoi vincitori.

L’altro incontro avvenne, per sua iniziativa, in una stanza della direzione del PSI, in via del Corso, nella primavera del 1976. Grazie alla serietà e lealtà di Francesco De Martino era stata infatti convocata una Direzione del PSI per discutere la possibile alleanza politico-elettorle tra socialisti e radicali, anche se De Martino stesso non la riteneva opportuna. Poche ore prima Riccardo Lombardi volle vedermi. Ne aveva infatti già parlato con Bettino Craxi, Pietro Nenni Loris Fortuna e temeva che la decisione fosse immatura e il voto comunque non opportuno, forse controproducente.

Oggi mi rendo conto che rendere giustizia e verità a Riccardo, consente e impone probabilmente l’emersione di ricordi e di interpretazioni del tutto diversi da quelli che i suoi più stretti amici e compagni socialisti certamente gli hanno già reso, gli renderanno, gli riconfermeranno e arricchiranno. In realtà la storia privata e politica di Riccardo, se compiutamente approfondita, dà effettivo conto delle sue interpretazioni, permette un migliore e più importante “ri-conoscimento” di quanto gli dobbiamo. E non solo a lui. Mi riferisco ai diversi compagni di quella generazione appartenente a quella storia azionista. Per ciascuno di loro fu una drammatica, lunga constatazione, che il venir meno del proprio passato politico azionista non si manifestò tanto con la fine di quel partito, quanto soprattutto con la presa d’atto che le sue scelte, le sue proposte politiche per la nuova Italia e la nuova Europa, finirono sempre, tragicamente, col mancare l’obiettivo di assicurare al nostro paese un minimo di certezza, di durata, di forza, di quella scelta democratica, socialista, di rivoluzione liberale e federalista. Ed è su questo che resterò debitore dell’impegno preso, spero, per non più di qualche mese: l’attualità della nostra società e di questo nostro tempo, mi aiuteranno a farlo, e farlo in modo di quanto più possibile adeguato.

venerdì 12 marzo 2010

il Fatto 12.3.10
Bonino avanti nel Lazio

Vantaggio già prima del “pasticcio”. Vendola vincente in Puglia
S ino a due mesi fa pareva una sfida proibitiva, ma ora per Emma Bonino e il centrosinistra la vittoria è a portata di mano. Un obiettivo possibile anche per Nichi Vendola, mentre in Calabria e soprattutto in Campania il Pdl è lontanissimo. Sono i responsi del sondaggio della Lorien Consulting sulle intenzioni di voto nel Lazio e nelle quattro regioni del Sud. Una ricerca condotta su 6000 elettori in tre lassi di tempo tra febbraio e marzo. Nel Lazio però, dopo l’esclusio-
Il sondaggio Lorien è stato realizzato in tre diversi periodi (5-9 febbraio, 23-26 febbraio, 4-5 marzo) su 6000 elettori
ne della lista del Pdl, la Lorien ha cancellato la terza fascia di telefonate prevista tra il 4 e il 5 marzo. I numeri danno in vantaggio la Bonino, forte del 50,2% a fronte del 47,1% di Renata Polverini. Quasi alla pari le due coalizioni: centrosinistra al 48%, centrodestra al 47,4%. Dalla Lorien non si sbilanciano sugli effetti del caos sulle liste, ma sottolineano: “Nelle ultime settimane, la Polverini e il Pdl erano in crescita. L’esclusione della lista potrebbe spostare l’inerzia dei consensi
verso il centrosinistra”. Ora la Polverini dovrà puntare sulla lista civica, che a fine febbraio valeva il 3,5%. In Puglia, Vendola ha quattro punti di vantaggio su Rocco Palese (in crescita) mentre Adriana Poli Bortone dell’Udc è al 12%. Tra le liste invece è davanti quella del Pdl. Un dato importante: la maggior parte degli intervistati, indipendentemente dall’orientamento politico, ritiene che vincerà il centrosinistra. Un buon segnale, nel codice dei sondaggi. Per il centrosinistra si profila invece durissima in Campania e in Calabria. Nella regione di Napoli, il centrodestra ha dieci punti di vantaggio. Una distanza quasi incolmabile, anche se Vincenzo De Luca è a due punti da Stefano Caldoro del Pdl. Notevole anche il vantaggio del Pdl in Calabria. A fare la differenza potrebbe essere Filippo Callipo, sostenuto dall’Idv: il suo 14% corrisponde al divario tra Scopelliti e Loiero. Le buone notizie per il centrosinistra arrivano dalla Basilicata, dove il governatore uscente Vito De Filippo ha 17 punti in più di Nicola Pagliuca del Pdl. Un consenso figlio della sua buona amministrazione.
l.d.c

Repubblica 12.3.10
L’intervista
"In piazza con il popolo viola, caduti gli steccati"
Il leader pd: vinciamo nella maggioranza delle Regioni
di Goffredo De Marchis

Di Pietro non attaccherà il Colle
Puntiamo a vincere 7 a 6
"È finita l´epoca degli steccati ora in piazza politica e società e difenderemo Napolitano"
Bersani: Berlusconi non è più in grado di offrire un futuro

Non considero l´ipotesi che domani Di Pietro possa attaccare il capo dello Stato, tutti si devono attenere alla piattaforma comune Preoccupa invece la manifestazione del Pdl
Puntiamo a vincere nella maggioranza delle regioni, quindi 7 a 6. Loro si ritengono soddisfatti se ne conquistano 4? Veramente sarebbe una sonora bocciatura del governo

ROMA - «Sono tranquillo». Pierluigi Bersani non teme che la manifestazione di domani possa virare in un attacco a Napolitano per la firma del decreto salva-liste. «A Piazza del Popolo renderemo esplicito il fatto che il presidente della Repubblica non ha alcuna responsabilità in quella scelta». Non solo non è preoccupato, ma considera il raduno l´occasione per siglare la pace tra il Pd e i movimenti. I dubbi sulla partecipazione al primo corteo del popolo viola sono ormai un ricordo del passato. «Fischi a me o al partito? Non avremo questo problema. Per un motivo molto semplice: le cose cambiano. Chi prima ci chiedeva di aiutarli a protestare adesso ci chiede di portarli da qualche parte. Loro stanno maturando, ma stiamo maturando anche noi. Non vogliamo più escludere. Anzi. A me piace l´idea di mescolare la voce della politica e la voce della società civile». Questa piazza guarderà anche allo sprint delle regionali: «Per noi vincere nella maggioranza delle regioni, 7 a 6, sarebbe un bel risultato».
Malgrado il decreto, i ricorsi del Pdl sulle liste sono stati tutti respinti. Ha ancora senso fare una manifestazione su una battaglia già vinta?
«Ha più senso questa manifestazione di tante altre che avevano il crisma dell´impotenza».
A quali si riferisce? Girotondi, popolo viola?
«Parlo in generale e parlo anche del Pd. Spesso abbiamo visto cortei convocati per protestare contro provvedimenti o leggi ormai irrecuperabili. Adesso invece vedo lo spiraglio per avviare il motore della legalità. Voglio dire che questa manifestazione è preceduta da alcuni risultati positivi: abbiamo bloccato la protezione civile Spa per esempio. E sulla vicenda delle liste si è dimostrato che anche in Italia esiste la strada maestra della giurisdizione. Non è retorica dire che vogliamo mettere insieme, a Piazza del Popolo, democrazia e lavoro. Sono temi concreti e immediati».
Lei pensa che le leggi ad personam e gli attacchi alle istituzioni servano a nascondere gli insuccessi dell´azione di governo. Significa che il berlusconismo è al tramonto?
«Io vedo un galoppare di iniziative che puntano alla deformazione delle regole. Mi chiedo il perché di questa escalation».
Perché?
«Perché Berlusconi non è in grado di trasmettere un´idea di futuro. È troppo forte per essere finito e un po´ troppo finito per sentirsi davvero forte. Usa il consenso che ha, e ne ha ancora molto, per accelerare i processi di condizionamento della democrazia. I 20 mesi di picconamento delle istituzioni sono direttamente funzionali alla volontà di zittire i problemi sociali. Bene, ora le voci politiche delle opposizioni e delle associazioni vogliono ribaltare la sua agenda, scriverne una nuova».
Tremonti però sbandiera come una vittoria del governo la sostanziale pace sociale in una fase di gravissima crisi.
«Tremonti è come un dottore che non capendo nulla di medicina pensa che se non c´è la febbre non c´è nemmeno la malattia. Ma qui la malattia è più profonda. C´è un problema di rassegnazione, di perdita di voce. L´Italia è vitalissima e sono sicuro che ce la farà, ma non con un governo che sta con le mani in mano. I numeri sono chiarissimi. Il calo della ricchezza è superiore a tutti gli altri paesi europei. Adesso, con la mediazione di Berlusconi, hanno trovato 350 milioni per incentivi all´attività economica: è un decimo di quello che ci è costata Alitalia. I 94 miliardi recuperati con il condono stiamo vedendo che fine fanno. Metà restano dov´erano, ripuliti con una tassa del 5 per cento anziché del 40. Giuridicamente rientrati, dice Tremonti con involontaria ironia. L´altra metà comincia già ad andare verso l´acquisto di beni immobili. Altro che soldi reinvestiti nel ciclo produttivo».
Ma la manifestazione si muove su un altro terreno: il decreto salva-liste.
«Noi abbiamo percepito quell´atto indecoroso come la cartina di tornasole di un lungo percorso. Protezione civile, legittimo impedimento, legge sulle intercettazioni, infine violazione, per decreto, delle regole elettorali. Nonostante tutto abbiamo provato a fare una proposta. Esistono gli strumenti di legalità: basta ricorsi, fermiamoci noi in Lombardia voi nel Lazio. Niente da fare. Ma noi insistiamo: anche così vogliamo girare la piazza di domani dalla protesta alla proposta».
Molti elettori del Pd non hanno condiviso la firma di Napolitano sul decreto. A loro cosa si può dire?
«Non pretendo che larga parte dell´opinione pubblica sia ferrata nei meccanismi costituzionali. Tocca ai partiti tenere la barra e indicare la corretta lettura dei fatti. Alla manifestazione verrà sottolineata la piena e assoluta responsabilità del governo e di Berlusconi per quel provvedimento».
Di Pietro ha detto in tutte le salse che Napolitano ha sbagliato a firmare il decreto. Non vi state assumendo un rischio troppo alto facendolo parlare dal palco?
«Non considero l´ipotesi che Di Pietro possa attaccare il capo dello Stato. Tutti si atterranno alla logica della piattaforma che abbiamo condiviso e che tiene fuori il capo dello Stato e il suo lavoro».
Di Pietro è imprevedibile.
«Io sono sicuro delle mie idee. E sono sicuro del senso di responsabilità di tutti quelli che sostengono la piattaforma. Non c´è solo Di Pietro. Ci sono tanti partiti e tantissime associazioni».
Se arrivasse un attacco al Colle, rompereste l´alleanza con l´ex pm?
«Ripeto: non faccio ipotesi di questo genere. E insisto: la manifestazione non parlerà solo del decreto, ma di lavoro, crisi, libera informazione. Comunque sono strabiliato per il mega-interesse suscitato dal tema "cosa dirà Di Pietro"».
Capirà che una plastica divisione in piazza mette a rischio l´alleanza e anche le regionali.
«Non nego mai i problemi nostri. Ma se io fossi un commentatore sarei molto più preoccupato di quello che si dirà nella piazza di Berlusconi. Berlusconi ha convocato la sua manifestazione insultando tutti gli organi istituzionali: magistrati, tribunali, Tar, Quirinale, Consulta. Posso dire con certezza che la nostra piazza si trasformerà in un solido presidio della Costituzione. Siamo sicuri di poter dire altrettanto della manifestazione organizzata da Berlusconi, ossia dal capo del governo, una carica istituzionale? Io credo proprio di no. È questo il vero problema».
Sulle regionali La Russa sostiene che vincendo quattro sfide il Pdl sarà soddisfatto. Qual è la vostra soglia minima?
«La maggioranza delle regioni, quindi 7 a 6. Ma se loro ne conquistano solo 4 sarà una sonora bocciatura del governo. E per noi sarebbe un incoraggiamento a costruire un´altra scelta per gli italiani».

Repubblica 12.3.10
Ginsborg: folle l'impeachment del Colle
di Maria Cristina Carratù

L´ex leader dei girotondi critica l´uscita di Di Pietro sul Quirinale, ma attacca Renzi sulla piazza: "È necessaria"

FIRENZE - «Matteo Renzi non sottovaluti il contenuto eversivo del governo Berlusconi, la democrazia in Italia corre un serio pericolo». Paul Ginsborg, storico, leader della prima ora di movimenti e girotondi, ne è convinto: le recenti bordate del sindaco di Firenze contro la manifestazione di domani (temere un golpe, ha detto, «fa ridere i polli», «io sono stanco di abbaiare, vorrei cominciare a vincere»), «sono un errore».
Con Di Pietro che chiede l´impeachment di Napolitano il centro sinistra, avverte Renzi, rischia l´effetto boomerang.
«Bisogna ripeterlo: o il centro sinistra sta unito, e Bersani e Di Pietro stringono un´alleanza di ferro contro il grave pericolo che corre il paese, o Berlusconi non sarà mai sconfitto. La richiesta di impeachment è follia, ma spesso la chiarezza di Di Pietro è stata utilissima su questioni su cui il Pd è stato latitante».
Per il sindaco i pasticci del Pdl dovrebbero offrire l´occasione per far valere una proposta politica, non per scendere in piazza.
«Perché si dia un golpe non servono per forza violenze e manganelli. Oggi la vera emergenza democratica si gioca su due fronti: quello istituzionale, certo, rispetto a cui la piazza, luogo storico della società civile, riveste un ruolo cruciale. È già accaduto che l´indignazione della gente abbia imposto la correzione di indirizzi pericolosi. E però, il fronte più decisivo è quello culturale».
In che senso?
«Dopo tanti anni di controllo berlusconiano delle tv commerciali e nazionali, e della più grande casa editrice italiana, si è formata una cultura fortemente caratterizzata dal self-interest e dalla passività, ovvero da una sostanziale indifferenza per la politica. Il vero golpe sta in questo».
E una protesta di piazza rimedierà ad un´analisi mancata?
«In politica, diceva John Stuart Mill, è un problema quando i cittadini sono "un gregge di pecore che brucano quiete fianco a fianco". Appunto: fra un branco di pecore e dei cani che abbaiano ai ladri della democrazia, scelgo senz´altro i cani».
Sembra tornare l´antica questione del rapporto fra cultura di piazza e di governo, che segna tutta la storia della sinistra.
«Sì, ma come battere il berlusconismo se non si capisce cos´è? Suggerirei a Renzi di leggersi Berlusconi passato alla storia. L´Italia nell´era della democrazia autoritaria, di Antonio Gibelli. E poi di dirmi se ha ancora il coraggio di definire i berlusconiani solo dei cialtroni».

l’Unità 12.3.10
Il permesso non può attendere
Perché un immigrato deve aspettare dieci mesi per un permesso di soggiorno? La legge è chiara e parla di venti giorni. Lettera al ministro Sacconi
di Luigi Manconi

G entile ministro Sacconi, il suo è il dicastero del lavoro e delle politiche sociali ed è dunque lei il massimo responsabile politico delle strategie di integrazione per gli stranieri presenti nel nostro Paese. Strategie che, per molte ragioni, faticano a venire elaborate e tanto più attuate: ci troviamo tutti, italiani e immigrati, in una condizione assai lontana da quella di una possibile ordinata e ordinaria convivenza, capace di contenere le inevitabili tensioni e di realizzare una progressiva inclusione sociale. Questa condizione definibile, in qualche modo, come “primitiva”, connotata da una notevolissima incertezza dei percorsi e delle procedure, delle opportunità e delle regole, viene efficacemente (e drammaticamente) rappresentata dal sistema dei permessi di soggiorno. Il comma 9 dell’art. 5 del Testo unico sull’immigrazione prevede che la procedura per il rilascio, il rinnovo e la conversione del titolo di soggiorno debba concludersi in 20
giorni. Certo, si può obiettare che la legge sul procedimento amministrativo (241/90), come modificata nel 2009, ha escluso i procedimenti per l’acquisto della cittadinanza italiana e quelli “riguardanti l’immigrazione” dalla categoria di quelli che (pur potendo durare più di 90 giorni) devono concludersi al più tardi entro 180 giorni. E tuttavia mi sembra davvero ardito immaginare che una norma così generica possa derogare al termine di 20 giorni, precisamente previsto dal Testo unico sull’immigrazione. E, infatti, mi sembra pacifica e condivisa – da lei in primo luogo – la convinzione che l’attuale lentezza delle pratiche costituisca un vero e proprio scandalo.
Secondo Shukri Said, presidente di «Migrare», il ritardo nelle pratiche costituisce pretesto per «abusi contro gli immigrati che si vedono ridotti, di fatto, i pur limitati diritti di cui godono in Italia». Quegli “abusi” sono legati a una condizione di insicurezza, precarietà, incertezza che pone lo straniero in uno stato come di sospensione tra legalità e illegalità. E in quello spazio indefinito, dove i diritti che si ritenevano acquisiti si fanno più fragili e meno esigibili, possono verificarsi situazioni di grande difficoltà rispetto ad attività essenziali come l’affitto di un appartamento, il ricorso all’assistenza sanitaria, il rilascio della patente di guida, l’istruzione scolastica e altro. Questa condizione di sospensione, che la legge prevede di appena 20 giorni, nei fatti dura assai di più. Nel 2009 la media è stata di 291 giorni. Oggi i tempi sembrano più rapidi e secondo il ministro dell’Interno si riducono a 101 giorni. Ma, come tutti sappiamo, dall’epoca dell’apologo trilussiano sui polli, questo vuol dire una sola cosa: in numerose località italiane, l’attesa dura 10 volte e oltre quella stabilita per legge. Il governo promette che si arriverà ai 20 giorni entro la fine della legislatura. Per una volta – e, per la verità, solo per questa volta – voglio credere alla promessa, ma nel frattempo Shukri Said suggerisce una soluzione semplice semplice: l’immigrato potrebbe “disporre” del permesso di soggiorno, anche durante il periodo del suo rinnovo, mediante l’apposizione di un timbro che ne attesti la validità fino alla sostituzione con il documento nuovo. Sembra una mera soluzione formale, ma nella concreta vita quotidiana – nella materialità faticosa dell’esistenza di uno straniero, tra discrezionalità e chiusure, indecifrabilità e rinvii – potrebbe costituire un fattore di sicurezza.
Lei, ministro Sacconi, dovrebbe apprezzare il significato di questo obiettivo: e dovrebbe apprezzare ancor di più come si è arrivati all’elaborazione di questa e di altre proposte. Il 12 dicembre Gaoussou Ouattarà, membro della giunta di segreteria dei radicali italiani, ha promosso uno sciopero della fame finalizzato proprio all’accelerazione dei tempi per il permesso di soggiorno. All’iniziativa non violenta hanno aderito nelle settimane successive centinaia e centinaia di immigrati (e di italiani): e lo sciopero della fame a staffetta è tutt’ora in corso. Quale segnale della volontà di integrazione migliore di quello offerto da stranieri che sottraendosi alla tentazione dell’illegalità e a quella dell’arte di arrangiarsi o della corruzione minuta scelgono la via della mobilitazione pacifica e gli strumenti offerti dal sistema democratico? Gaoussou Ouattarà, Shukri Said e i loro compagni dimostrano così di aver pienamente superato l’“esame di costituzione”, che qualcuno propone più come un pretestuoso ostacolo che come una fertile opportunità. Sono convinto che il ministro del welfare non potrà che convenirne. Attendo fiducioso una sua risposta.

l’Unità 12.3.10
L’Onu e Amnesty «Il Piano nomadi di Alemanno viola i diritti umani»
Amnesty International boccia il Piano nomadi capitolino. E teme che altri «enti locali possano copiare la giunta Alemanno». Che si arrabbia: «Dossier partigiano». Ma anche l’Onu è contro il sindaco di Roma.
di Umberto De Giovannangeli

Dossier dell’organizzazione che chiede al Campidoglio di «fermarsi con gli sgomberi»
E l’Alto commissario Pillay si guarda intorno: «Mi sembra d’essere in un Paese degradato»

Una bocciatura in piena regola. È quella comminata da Amnesty International al Piano nomadi capitolino. In un dossier presentato ieri alla stampa l’organizzazione internazionale afferma che il Piano rom avviato dal Comune di Roma e dalla Prefettura, «viola i diritti umani di migliaia di rom», nella misura in cui «viola il diritto di alloggio di molti nomadi a Roma che, non spostati in altro alloggio, sono rimasti senza sistemazione». «Viola il diritto all’istruzione dei bambini che vivono in campi segregati dalla città o molto distanti dalle scuole che frequentavano prima dello sgombero». «Viola il diritto al lavoro di molti rom discriminati per il fatto di vivere in un campo invece che in una casa».
CIFRE INQUIETANTI
Secondo l’associazione il «Piano avviato nel luglio 2009, che prevede la distruzione di oltre 100 insediamenti rom nella Capitale e il trasferimento di 6.000 persone in 13 campi in periferia, ampliati o di nuova costruzione, è destinato a lasciare fuori almeno 1.200 persone. Infatti secondo le cifre ufficiali, nella Capitale i rom sono 7.200». Ma i numeri potrebbero salire visto che «stime indipendenti contano a Roma tra i 12.000 e i 15.000 rom». Pur apprezzando lo sforzo di Comune e Prefetto, per Amnesty «questo Piano rappresenta la risposta sbagliata perché – rimarca l’esperto sui temi di discriminazione John Dahlausen – alcune condizioni sono migliorate con l’arrivo di servizi fondamentali, ma altri rom rimangono senza casa». «Per molti bimbi, spostati dalle proprie scuole in posti dove non ci sono mezzi pubblici adeguati, verrà interrotta la scolarizzazione», spiega la presidente di Amnesty Italia, Christine Weise. Per un altro esponente, Ignacio Jovtis, vanno «rivisti i criteri di assegnazione delle case popolari in cui vanno inclusi anche i nomadi». Inoltre «lo sgombero del Casilino 700 nel novembre 2009 non era previsto dal Piano e ha lasciato centinaia di rom senza alloggio».
Doppia bocciatura
«Si infrange il diritto allo studio dei bambini e al lavoro degli adulti»
Amnesty chiede di riconsiderare «urgentemente» queste misure. Le famiglie rom della capitale, spiega, «rischiano di perdere beni personali, contatti, accesso al lavoro e servizi pubblici». «Vi è inoltre il rischio – sottolinea ancora Jovtis, esperto di Amnesty sull’Italia – che questo piano possa essere preso a modello per eseguire sgomberi forzati in altre regioni italiane. Uno sgombero effettuato senza consultazione preventiva e senza l’offerta di un alloggio alternativo adeguato alle persone colpite è una violazione dei diritti umani». Invece di ricollocare i rom «le autorità li stanno allontanando trasferendoli in campi lontani e questo aumenta ulteriormente gli ostacoli e la discriminazione cui i rom vanno incontro nella ricerca di un lavoro regolare che consentirebbe loro di accedere al mercato immobiliare privato». La risposta, tutt’altro che collaborativa, del sindaco Gianni Alemanno non si fa attendere: quel rapporto, taglia corto, è «non corretto e parziale».
LA DENUNCIA
A sostegno della denuncia di Amnesty si schiera l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay. «È una situazione terribile» il fatto che ci siano persone «che vivono in queste condizioni da quasi quarant’anni», dice Pillay, che si guarda intorno visibilmente commossa e indignata, e che pensava di trovarsi «in uno dei più poveri e degradati Paesi in via di sviluppo e non un Paese con la storia più ricca di molti altri». Ieri mattina ha visitato due campi rom, uno abusivo, l’altro legale, alle porte di Roma. «Sono venuta qui per vedere di persona cosa accade, per sentire i racconti di queste persone: sono cresciuta durante l’apartheid, so cosa vuol dire essere discriminati», afferma l’Alto Commissario Onu, che è originaria del Sudafrica. Pillay, che ha a lungo parlato con gli abitanti dei due campi rom visitati, ha quindi evidenziato che, nonostante qualcosa sia stato già fatto per etnie come i rom e i sinti, «c’è ancora molto da fare» e lo testimoniano «i diversi campi disseminati per tutta l’Italia», dove «ci sono pregiudizi pericolosi: dipingere rom, sinti e maghrebini come criminali e nomadi può portare delle tensioni», denuncia Pillay. L’Alto commissario assicura che continuerà a monitorare la situazione italiana, «esortando il Governo a muoversi velocemente« verso lo sviluppo dell’integrazione.

il Fatto 12.3.10
La Cassazione “caccia” i genitori
“Via i clandestini anche se hanno i figli a scuola”
di Vittorio d'Almaviva

Contrordine. I genitori stranieri senza permesso di soggiorno, che hanno i figli a scuola in Italia, debbono lasciare il paese. La “tutela delle frontiere” deve prevalere sull'istruzione obbligatoria. Quest'ultima “non è circostanza eccezionale” ma una “esigenza ordinaria” e non può dare diritto a un permesso temporaneo. La Corte di Cassazione fa la voce grossa e capovolge quanto aveva sostenuto pochissimi mesi fa, con la sentenza 22080 del 2009, in base alla quale il Tribunale dei minori poteva concedere al genitore clandestino un permesso temporaneo per restare assieme ai figli alunni, non per motivi eccezionali legati a condizioni patologiche di cui soffra il minore, ma per ragioni connesse allo sviluppo psico-fisico del minore.
Una sentenza che aumenta il caos, ha subito commentato Roberto Salvan, direttore di Unicef Italia: “Il legislatore deve intervenire, per mettere un po' d'ordine”. Dello stesso avviso Marco Paggi, uno degli avvocati di punta dell'Asgi, l'Associazione dei giuristi dell'immigrazione: “Il continuo cambiamento della linea interpretativa della Cassazione, tradisce l'imbarazzo dei giudici. Il governo non può restare alla finestra, né estendere la criminalizzazione degli immigrati, che poi non riesce a espellere. Deve intervenire invece con delle norme chiare, per regolamentare questi casi delicati”.
Con la nuova sentenza, che reca il numero 5886, la Cassazione, in particolare, ha bocciato il ricorso di un extracomunitario albanese privo di permesso di soggiorno, padre di due figli in età scolare, che chiedeva di restare accanto a loro perché con un suo allontanamento avrebbero subito “un vero e proprio depauperamento sentimentale” tale da incidere pesantemente sul futuro dei ragazzi. L'uomo è marito di una concittadina titolare di permesso di soggiorno a Milano, e addirittura in attesa della cittadinanza italiana non per aver fatto domanda dopo aver trascorso da regolare dieci anni nel nostro paese, ma perché adottata da un signore di Busto Arsizio. Evidentemente la coppia ha preferito non ricorrere all'istituto del ricongiungimento familiare, che comporta una lunga procedura e prevede che il ricongiunto non risieda già sul territorio nazionale.
E' stato invece presentato un ricorso al Tribunale dei minori che, secondo l'articolo 31 del Testo unico sull'immigrazione, può autorizzare l'ingresso e/o il soggiorno del familiare del minore soggiornante in Italia, per un periodo di durata limitata e “per gravi motivi connessi allo sviluppo-psicofisico” del giovane. Ribaltando la precedente sentenza, la Cassazione ha sostenuto dunque che questi gravi motivi debbono essere “determinati da una situazione di emergenza”, mentre la frequenza della scuola presuppone una “tendenziale stabilità” e una “essenziale normalità”. Se così non fosse, “le norme finirebbero con il legittimare l'inserimento di famiglie di stranieri strumentalizzando l'infanzia”. Tradotto in parole povere: facciamo un figlio per poter ottenere poi il permesso di soggiorno. Anche se quello che si può ottenere dal Tribunale dei minori è di durata inferiore al massimo previsto oggi per legge, che è di due anni. Quando il testo della sentenza, relatrice Maria Rosaria Cultrera sarà noto, potremo anche capire quanti anni hanno oggi i due minori, perché per arrivare fino in Cassazione ce n'è passato di tempo. Ma l'intervento del governo, che Unicef e Asgi reclamano a gran voce, non può essere comunque limitato a regolamentare i casi dei figli di genitori irregolari, alunni di scuole italiane. E' assolutamente necessario compiere l'altro pezzo della regolarizzazione: finora è stata accordata soltanto per le colf e le badanti, lasciando fuori, con un'omissione di assai dubbia costituzionalità, tutti gli altri immigrati che svolgono altre attività e magari hanno figli a scuola. In questo modo, oltretutto, lo stesso diktat governativo dell'espulsione dei cosiddetti clandestini, oltreché ingiusto, si rivela ancora più evanescente e irrealizzabile. Altra misura più che mai necessaria, l'allungamento della durata dei permessi di soggiorno, per rendere meno precaria la condizione dei regolari e agevolare il lavoro delle Prefetture. Dura la reazione del Pd. I deputati Jean Leonard Touadi e Guido Melis osservano che “è un errore gravissimo far prevalere le ragioni del respingimento condannando anche i figli con i padri”. Ma come reagisce la scuola? “Non cambia nulla – assicura Simonetta Salacone, direttrice didattica della scuola romana Iqbal Masih – Per l'iscrizione sono richiesti atto di nascita e certificato sanitario. Nessuno, in Italia e in Europa, domanda se i genitori sono clandestini o no”.

Repubblica 12.3.10
Vento, onde e paura ecco le rotte dei nuovi schiavi
di Daniele Mastrogiacomo

FADIOUTH. «Barça o barzak!». Barcellona o morte! Sembra di essere tornati ai tempi della guerra civile spagnola, al grido di battaglia dei moros musulmani per la conquista della mitica al-Andalus. Siamo invece nel nuovo millennio, a sud di Dakar, sulla spiaggia di Fadiouth, la spiaggia delle conchiglie. Si trova nel cuore della Petite Côte: onde imponenti, sabbia fine, mangrovie, palme piegate dal vento e un sacco di pesci. Dietro i bungalow immersi nel verde e pieni di turisti, duecento persone agitano mani e piangono. Rispondono all´addio che arriva dal largo. Su una piroga di 25 metri, dipinta con i colori vivaci di queste latitudini, 113 giovani tentano l´ultima sfida. Lo fanno da dieci anni. Continuano a farlo. Vecchi e nuovi schiavi. Vogliono arrivare in Spagna e poi in Europa.
Mezzo secolo dopo la fine del colonialismo il Senegal, e gran parte dell´Africa, non riesce ad offrire alcuna alternativa. Si continua a partire. La ricchezza resta concentrata nel nord del mondo. Lì ci sono occasioni di lavoro; lì si può fare ciò che gli altri non fanno e non vogliono più fare. Cento chilometri più a nord, su un´isola che è diventata un museo, file di afroamericani si affacciano in silenzio sulla porta degli schiavi. Tre secoli dopo, Gorée conserva quasi intatta quella magia carica di sofferenza che ha colpito anche un segretario di Stato pragmatico come Condoleezza Rice. Il forte portoghese con i suoi cannoni rivolti al largo, il camminamento delle guardie, il sottoscala destinato alle donne afflitte dal mestruo, la stanza in cui erano visitati gli uomini strappati alla giungla. Tutto avvolto da un silenzio pesante. Fino a quella porta affacciata sull´oceano, a strapiombo sugli scogli, che dalla metà del Seicento portava dritta sul vascello, pronto a salpare verso il buio, l´ignoto.
I giovani della piroga sono già al largo. «Chi aveva organizzato il viaggio - racconta Amar Moussé N´gom, 28 anni, oggi presidente del Gie, un´organizzazione che si occupa degli immigrati irregolari - era gente esperta. Vecchi pescatori. Sapevano cosa significa navigare per 8 giorni e 8 notti sull´Atlantico. E su una piroga dove un solo movimento brusco, un cambio di peso, la fa rovesciare. Quelle sono barche usate per andare a pesca, anche per cinque giorni. Al massimo caricano trenta persone, noi eravamo 113. Con i viveri, riso, latte, olio, carne e pesce congelati, acqua, pasticche per il mal di mare. Qui siamo tutti poveri: tirare fuori 750 mila franchi senegalesi a testa, 1300 euro, non è uno scherzo. Lo sappiamo tutti, quando accettiamo di partire: viaggio veloce e ci affidiamo ad Allah. Via terra è molto più complicato. Spesso devi vagare per mesi tra un Paese e l´altro, nasconderti, cercare di lavorare per finire di pagare il resto del viaggio. Sei alla mercé di banditi, taglieggiatori, gente che ti prende, ti spoglia di tutto, ti porta in pieno deserto e ti abbandona. Resistono solo i più forti: molti perdono il senso dell´orientamento, si lasciano morire».
Sulla piroga ci sono anche mappe artigianali. Sono state tracciate dai pescatori che le hanno elaborate in base alle esperienze di chi ha già fatto il viaggio. Un Gps, l´unico strumento a bordo oltre la bussola, ti segnala il punto e ti avverte quando esci dalle acque internazionali. Amar Moussè torna a quella notte. «Per cinque giorni è filato tutto liscio, poi è arrivata la tempesta. Vento e onde da paura. L´acqua entrava da tutte le parti: a bordo pochissimi sapevano nuotare e si facevano prendere dal panico. Il cibo scarseggiava, ma il problema era l´acqua potabile. La salsedine, il sole a picco ci seccavano sempre la gola. La gente aveva sete e beveva. La vera fatica è stata tenerla ferma. Accucciata sul fondo, tra urla, grida, preghiere, vomiti, febbre».
A Dakar oggi si parla di Haiti. Il Senegal ha un particolare legame con quell´isola. Il presidente Abdoulaye Wade ha proposto agli abitanti sconvolti dal terremoto di tornare in Africa, ha promesso loro anche un pezzo di terra. Il ministero della Cultura organizza una giornata alla memoria. Parlare di Haiti significa rievocare una coscienza, riaprire una ferita che quattrocento anni di tratta degli schiavi continuano a farla sanguinare. Anche oggi: sulle decine di barche che continuano a sognare il nord del mondo.
La piroga combatte contro le onde. Piegata su un lato, semiaffondata, vira verso terra e raggiunge la costa. «Il mare si era calmato - ricorda ancora Amar - la gente era felice, pensava di essere arrivata. Li abbiamo dovuti frenare, si sarebbero buttati in acqua pur di raggiungere la riva. Gli uomini del Polisario erano già sulle dune. Sono capaci di ucciderti, dopo averti torturato. Spesso ti catturano come schiavo. E´ la loro terra e non vogliono stranieri. Siamo tornati al largo e quando il Gps ci ha detto che eravamo entrati nelle acque spagnole, abbiamo puntato dritti su Tenerife. La gente del posto è uscita dalle case, ci è venuta incontro. Ci ha applaudito. Ci ha fatto sentire degli eroi. Avevamo affrontato la morte per una nuova vita. La polizia ci ha messo in un campo. E´ stata chiara: se fra 40 giorni siete ancora qui, sarete liberi di andare dove volete. Ma cinque giorni prima della scadenza sono arrivati gli uomini dei servizi di Dakar. Furbi, abilissimi, ci hanno interrogato, chiesto dove stavamo andando. Poi hanno fatto una bella lista, messo delle crocette rosse sui nomi e via su un aereo. Ci siamo ritrovati a Saint Louis, in Senegal».
Il ricordo di Haiti e degli schiavi dura tutto il giorno a Dakar. Sono presenti deputati, leader politici, religiosi, presidenti di banche, rappresentanti esteri. Il dibattito appassiona e coinvolge tutti. Fuori il traffico è di nuovo caotico. La gente torna dal lavoro. Le strade sono ancora piene di venditori. Piccoli e grandi, uomini e donne. Si lotta per portare a casa qualcosa da mangiare. E´ un rito che si ripete tutti i giorni. Tra gas di scarico asfissianti, autobus traballanti e colmi di passeggeri, carri trainati da asini ridotti a scheletri, moto e taxi sgangherati. Dicono che a Tenerife ci sia un cimitero di piroghe affondate. I motori fuoribordo vengono confiscati.
Amar Moussè N´gom ha gli occhi arrossati di chi dorme poco e male. Si vede che soffre. Oggi dirige questa associazione che ha portato in piazza migliaia di giovani rimpatriati. Il prefetto, davanti a quella folla esasperata, ha promesso di fare qualcosa. Amar passeggia nervoso, la testa bassa. Tira calci ai sassi della spiaggia già piena di pescatori che trattano al mercato. «L´unica volta che ho pianto - dice - è stato quando sono tornato a casa. Le mie sorelle e mia madre sono venute in stanza e mi hanno abbracciato. Mio padre stava riparando la barca, fuori. Gli amici erano spariti. Altri ci hanno riprovato e sono riusciti. Mi chiamano ogni tanto. Lavorano, hanno una casa, dicono di essere felici. Per me e tanti altri è diverso: abbiamo fallito. Con noi stessi e con questo Stato incapace di riscattarci».

l’Unità 12.3.10
Pedofilia, vescovo di Ratisbona attacca la ministra tedesca
Il vescovo di Ratisbona contro il Guardasigilli tedesco reo di aver accusato la Chiesa di scarsa collaborazione. «È massone e favorevole alla pedofilia». Nessun nesso tra celibato e pedofilia. Oggi parla Benedetto XVI.
di Roberto Monteforte

Un’accusa pesante alla Guardasigilli: «Taccia, è massone e vuole depenalizzare la pedofilia»
Reato gravissimo «Chi se ne macchia, è fuori dal sacerdozio. Nessun legame con il celibato»

Linea dura della Chiesa cattolica sulla pedofilia. Decisa pulizia al proprio interno, ma attenzione a chi critica il Vaticano. A Roma, per il convegno teologico sul sacerdozio che si svolge alla Pontificia Università lateranense, ieri il vescovo di Ratisbona, monsignor Gerhard Mueller ammette le colpe del clero, ma lancia fendenti verso chi criticala Santa Sede. «I colpevoli non possono restare nella Chiesa. Non possono continuare a svolgere il loro ruolo di sacerdoti, di rappresentanti di Cristo» afferma. Poi attacca frontalmente il ministro della Giustizia tedesca, Sabine Leuthesser-Scharrenberger, rea di aver accusato il Vaticano per aver ostacolato le indagini sui casi di abusi sessuali nelle scuole cattoliche tedesche. «Fa parte dell’Unione umanistica, quasi una franco-massoneria, che considera normale la pedofilia e che vuole depenalizzarla. Questa signora ci critica, mentre dovrebbe criticare la sua stessa ideologia» ha scandito il vescovo. Assicura che l’«operazione verità» è in corso nella Chiesa tedesca e che non sono necessari «commissari della Santa Sede» per condurla a termine. Invita a distinguere tra casi di abusi sessuali e metodi di correzione violenti praticati nelle scuole, nei collegi e nei convitti cattolici. E assicura l’estraneità di Georg Ratzinger, il fratello di papa Benedetto XVI, rispetto all’unico caso di abusi sessuali accertato, commesso più di 40 anni fa, nella struttura del coro di voci bianche, i «passerotti del Coro del duomo di Ratisbona, quando era lui a dirigerlo.
Quello che il vescovo di Ratisbona respinge è il collegamento tra pedofilie e obbligo del celibato per i sacerdoti. «Non c’è nessun motivo per cambiare la tradizione della Chiesa latina che il Concilio ha sottolineato» ha puntualizzato Mueller che rilancia. Premette che le origini della pedofilia risiedono in un «disturbo evolutivo» della personalità di «cui non si conoscono esattamente le cause», per poi definire «una grande ingiustizia» l’attenzione mediatica vero i casi di pedofilia denunciati in Germania. «È un’offesa per tutti quelli che lavorano bene per la Chiesa». L’accostamento tra pedofilia e obbligo dl celibato, attribuito all’arcivescovo di Vienna, cardinale Scoerder, ma poi smentito, è stata rigettata anche dal presidente della Caritas Internazionale, cardinale Oscar Rodriquez Maradiaga. «Non capisco come possa darsi un rapporto. Gli abusi sessuali ci sono in tutte le categorie, anche in quelle non formate da celibi». «Quello che succede ha aggiunto è che i casi di abusi sessuali su minori perpetrati da non sacerdoti non sono pubblicizzati». Il punto su cui insistere ha spiegato è quello «della formazione del clero». Comunque ha concluso il sacerdozio non si può ridurre ad alcuni pochi che hanno fallito, che hanno peccato».
TOLLERANZA ZERO
Che la linea della Chiesa sia quella della «tolleranza zero» lo ha ribadito l’osservatore della Santa Sede all’Onu, monsignor Silvano Tomasi. Intervenendo a Ginevra all’incontro annuale delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini ha affermato che «Non ci possono essere scuse per i preti che si macchiano del crimine odioso di pedofilia. La protezione dei minori da queste aggressioni deve essere in cima alle priorità della Chiesa».
Oggi Benedetto XVI parlerà. Incontrerà i partecipanti al convegno sul clero della «Lateranse». Riceverà in udienza anche il presidente della conferenza episcopale tedesca, monsignor Robert Zollitsch. Intanto il bubbone si espande. Tre preti cattolici austriaci del monastero di Kremsmuenster, nel distretto di Kirchdorf, in Alta Austria, sono stati sospesi dalle funzioni sacerdotali per presunti abusi sessuali e maltrattamenti avvenuti negli anni 80 nei confronti di alcuni ragazzi della scuola gestita dal monastero. Lo ha annunciato ieri l’abate di Kremsmuenster, Ambros Ebhart. Uno dei tre religiosi ha ammesso gli abusi.

l’Unità 12.3.10
Francia, alle amministrative attesa la vittoria della gauche
Ora il Presidente della Repubblica vuol sminuire la portata del voto amministrativo, che potrebbe dare 22 regioni su 22 all’opposizione. Per il Ps è in gioco il ruolo di candidato alle presidenziali: Aubry, Royal o Strauss Kahn?
di Luca Sebastiani

Domenica al voto in 22 regioni. In gioco anche la leadership del Ps
I sondaggi Alla sinistra il 52%, il 28% al partito di Sarkozy, il 9 a Fn

La gauche ha il vento in poppa. A una manciata di ore dall’apertura delle urne, l’unico dubbio che ancora permane sul risultato e sul quale le forze politiche stanno concentrando gli ultimi sforzi di una lunga campagna elettorale, riguarda la possibilità che la sinistra riesca o meno nell’en plein, nel vincere cioè lo scrutinio amministrativo di domenica 14 e 21 in ventidue regioni su ventidue.
Da un mese tutti i sondaggi non fanno che confermare che un’onda rosa è pronta ad abbattersi sulla Francia. Le inchieste d’opinione possono differire di uno o due punti, ma tutte concordano che da questa tornata elettorale la gauche uscirà maggioritaria nel paese. Il 52% dei francesi intendono votare per un partito della sinistra, contro il 28 che sceglierà il partito presidenziale (Ump) e il 9% la destra neofascista del Fronte nazionale.
Nella numerosa famiglia della gauche poi, le belle notizie arrivano in particolare per il Partito socialista. I sondaggi confermano infatti la sua buona progressione e ora, attestandosi su uno score del 31%, il Ps è in procinto di vincere d’un sol colpo la sfida esterna con l’Ump e quella interna con i verdi. A giugno, alle ultime europee, Europe ecologie aveva infatti raggiunto i socialisti, ma oggi con il 14% delle intenzioni di voto deve rivedere i suoi sogni di egemonia a sinistra e consolidarsi come partner del Ps. L’apporto dei verdi, insieme a quello rosso del Fronte della sinistra (comunisti e socialisti scissionisti sono dati al 6%) costituiranno infatti un bacino importante di voti per il secondo turno di domenica 21, quando i socialisti sperano di confermarsi alla guida delle 20 regioni che già amministrano e di strappare la Corsica e l’Alsazia alla destra sarkozista. L’ipotesi non è peregrina, visto che al ballottaggio l’Ump non può contare su scorte di voti. Certo, c’è sempre quel 9% del Fronte, ma Le Pen non darà indicazione di votare per il partito d Sarkozy. Il Fronte però sarà anche un elemento di disturbo nelle regioni in cui riuscirà ad imporre un triangolare, cioè a conservare un proprio candidato al ballottaggio superando la soglia del 10% dei consensi al primo turno.
Che le prospettive a destra non siano rose e fiori l’ha confermato anche il presidente della Repubblica, che in queste ore si è speso per regionalizzare la portata dello scrutinio doto averla nazionalizzata. «Elezioni regionali, conseguenze regionali», ha detto Sarkozy, smentendo se stesso che ancora a novembre voleva fare di queste elezioni un trionfo personale. Ora la situazione è cambiata, la sua popolarità è al minimo storico e solo una persona su tre ha una buona opinione di
lui. Ragion per cui in questa campagna elettorale la sua presenza è stata centellinata.
L’armata della destra presidenziale è invece stata condotta dal primo ministro. Mentre i candidati hanno snobbato l’impopolare Sarkozy, si sono invece litigati il popolarissimo François Fillon, l’unico in grado, a questo punto, di contenere le perdite e cercare di conservare almeno il bastione còrso e alsaziano. E poi, comunque vada, la sua posizione non sarà in discussione, perché accentrando tutti i poteri all’Eliseo, Sarkozy ora può essere il solo responsabile della eventuale batosta elettorale.
Ma il test di domenica è un passaggio importante anche a sinistra. Sulle regionali, infatti, si giocano il futuro tutti i pretendenti al ruolo di candidato della gauche alle presidenziali del 2012. La segretaria del Ps Martin Aubry spera in uno sfondamento per rivendicare il successo. Ségolène Royal, che sarà senz’altro confermata alla testa del Poitou Charentes, punta a strafare per rimbalzare a livello nazionale. Per lei è l’ultima opportunità per infilarsi tra la Aubry e un Dominique Strauss Kahn che da Washington, sulla poltrona di direttore dell’Fmi, guarda e aspetta il suo momento.

l’Unità 12.3.10
Intervista a Yasser Abed Rabbo
«Basta colonie. Obama deve fermare il governo Netanyahu»
Il segretario del Comitato esecutivo dell’Olp: «Una provocazione l’annuncio di nuovi alloggi a Gerusalemme Est. Sono accecati dal fanatismo»
di U.D.G.

Se è possibile, le scuse sono ancora più gravi del fatto in questione. In quelle scuse rivolte da Netanyahu a Biden c’è tutta l’ambiguità del primo ministro israeliano e del suo governo di falchi oltranzisti. Un governo che fa di tutto per chiudere ogni spazio reale al negoziato; un governo che gioca col fuoco». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli della leadership palestinese: Yasser Abed Rabbo, segretario del Comitato esecutivo dell’Olp, promotore, assieme all’israeliano Yossi Beilin, dell’Iniziativa di Ginevra, il piano di pace elaborato da politici, militari, intellettuali palestinesi e israeliani.
Siamo di nuovo al punto di partenza tra Israele e Anp? «Ciò che è accaduto in questi giorni è sotto gli occhi di tutti. In Medio Oriente arriva il vice presidente Usa, Joe Biden, con l’obiettivo dichiarato di rilanciare le trattative e rimarcare la linea dell’amministrazione Obama, che punta a una soluzione “due popoli, due Stati”. Ebbene, Israele accoglie Biden annunciando un nuovo piano di colonizzazione di Gerusalemme Est. Se questa non è provocazione». Netanyahu si è scusato con Biden... «Ma quali scuse! Netanyahu ha solo affermato che è stato un errore il momento dell’annuncio, non la sostanza. Il fatto è che Netanyahu è parte attiva di quella politica unilateralista e colonizzatrice che mira a svuotare di ogni significato concreto un ipotetico negoziato di pace». Lei è andato giù molto duro nei confronti dei dirigenti politici israeliani, definendoli “una banda di ladri fanatici” che si comportano da “bulli e rapinatori” anche in presenza di uno dei massimi rappresentanti degli Stati Uniti. Non le sembra di aver esagerato?
«Ammetto che sono parole forti, posso mitigare i termini ma la sostanza non cambia: a scandire la politica israeliana sono personaggi come Avigdor Lieberman che non ha mai nascosto di considerare improponibile qualsiasi compromesso con i palestinesi, liquidando in modo sprezzante il presidente Abbas (Abu Mazen) bollato come interlocutore “inaffidabile”. Il loro atteggiamento è improntato all’arroganza del più forte, ad una esibizione muscolare che copre un vuoto di strategia di pace. Costoro sono animati da un fanatismo nazionalista che nulla ha a che fare con il diritto alla sicurezza rivendicato da Israele».
Diritto sacrosanto, non crede?
«Certo che lo credo, come credo che quel diritto non è scindibile dal diritto dei palestinesi a vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente, senza insediamenti israeliani al suo interno, con confini riconosciuti e garantiti internazionalmente. Uno Stato con Gerusalemme Est sua capitale; quella Gerusalemme che Netanyahu e il suo governo di oltranzisti vorrebbero preclusa ai palestinesi».
Da dove ripartire?
«Dallo stop totale della colonizzazione. In Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Questa, è il caso di chiarirlo, non è una richiesta pregiudiziale da parte palestinese. Ciò che chiediamo è che Israele rispetti gli accordi sottoscritti e quella Road Map che a parole Netanyahu dice di accettare».
Cosa chiedete agli Stati Uniti e all’Europa? «Semplice: chiediamo loro di essere arbitri imparziali e attivi tra le due parti, non limitandosi a denunciare le forzature israeliane ma intervenendo per rimuoverle».
Netanyahu ribatte denunciando la vostra rigidità. «Evidentemente per lui flessibilità è sinonimo di resa, di capitolazione. È una strana idea di “pace” quella di Netanyahu, che nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso, potrà mai avallare».
Biden ha ribadito che la pace con i palestinesi è nell’interesse d’Israele... «Ma evidentemente non lo è per coloro che governano oggi Israele».
C’è chi sostiene che la destra israeliana è la migliore alleata di Hamas... «Su questo non ho mai avuto dubbi.

l’Unità 12.3.10
Intervista
Morin: ripartiamo da Marx
Parla il filosofo francese: Senza un pensiero, per la sinistra è difficile arginare la crisi”
di Manuela Modica

Sandali aperti, e calze: tipico stile casual d’oltralpe. Sembrerebbe un qualsiasi crocerista nord-europeo, invece, è Edgar Morin, il filosofo francese che ha rivoluzionato il pensiero occidentale e gettato una scure sull’approccio del sapere scientifico così com’è adesso, tendente alla semplificazione e alla frammentazione. Uno dei maggiori filosofi viventi. E vive con una certa intensità: in barba ai suoi 89 anni, infatti, Morin cammina, sale strade scoscese, scalini, si piega per veder meglio le mura del forte. E chatta, tanto, mentre cerca la suoneria adatta al suo Ipod. Non crede alla conoscenza che si basa solo sul rapporto tra causa ed effetto e non crede ai miracoli: «Una volta sì, ma due miracoli di fila, no», dice rammaricato di aver perso le «stiló» che era un ricordo della moglie. L’aveva già ripescato quella volta che l’aveva dimenticato al ristorante italiano a Parigi, racconta, e a ritrovare la penna della sua perduta moglie due volte non ci crede. Ma capiterà, e di fronte al secondo miracolo il grande filosofo francese non tratterrà le lacrime. È in Italia per una serie di seminari tra Messina e Napoli, voluti dal «Centro studi della filosofia della complessità Edgar Morin», diretto dal professore messinese Giuseppe Gembillo. Comincia dallo Stretto, dove è sbarcato per un’intera settimana di incontri, e una girandola di strette di mano e di «sono onoratissimo» a cui ha partecipato con inchini e un’incredibile pazienza, sorridendo sempre, così che le pieghe del suo volto vanno disegnando una mappa di luoghi della sua storia, dove si potrebbe leggere dalla dominazione tedesca alla «scomunica» comunista gli eventi che l’hanno portato a riflettere sulle cose del mondo a modo suo, rifiutando il metodo imposto alla nostra cultura da Aristotele in poi.
Quel modo suo che lo porta a scandalizzare, ancora, affossando in un attimo l’idea di «sviluppo sostenibile»: «Non è affatto sostenibile. È da abbandonare l’idea stessa di sviluppo, che produce crisi morale, perché l’unica chiave attraverso la quale viene concepito è quella tecnicista. In quest’ottica anche quello di Pinochet in Cile può essere considerato sviluppo».
Sviluppo no, parliamo allora di crisi...
«La crisi ha fatto Hitler, la guerra civile spagnola, e finalmente la seconda guerra mondiale. Anche questa crisi è molto pericolosa, e invece di provvedere ad arginarla, è la scusa del capitalismo per licenziare i lavoratori mentre non c’è più un contropotere sindacale e politico che possa agire da freno, così che il capitalismo è scatenato. Occorre una ricostruzione, ma non la si può fare senza un pensiero: è quello che manca. Intanto, registriamo l’incapacità delle organizzazioni internazionali di arginarne la pericolosità, di fare qualcosa. E viviamo una economia chiusa, incapace di prevedere la crisi, incapace di prevedere quando finirà, perché è un’economia formale unicamente matematizzata che non ha nessuna connessione con le altre realtà sociali. La situazione è pericolosa, non solo per l’Italia, ma anche per la Francia e gli altri paesi».
Se questa è un’economia chiusa, immagina come dovrebbe essere l’apertura? «Immagino un’economia pluralista, solidale, di cui abbiamo già degli esempi nell’associazionismo...»
Lei parla di Hitler, mentre in Italia molti ritornano a fare riferimento a Mussolini, associando la situazione storica e politica di oggi con quella del fascismo, è d’accordo?
«Penso che ci sia un’inflazione di parole, non è possibile identificare quel che succede oggi con quel che succedeva nel passato».
Però assistiamo a fenomeni, come il razzismo, per esempio, che riprendono vigore, quando sembravano superati dalle vicende della Storia...
«Certamente, è una regressione generale, però, legata alla regressione della sinistra, all’assenza di un umanismo di sinistra. Quel che è più preoccupante è la tendenza del governo a diminuire l’indipendenza del potere giudiziario. Ma la vittoria di Berlusconi è principalmente la sconfitta della sinistra, che viene da un vuoto, da un’assenza di un’idea politica della sinistra, di cui una parte ha anche abbracciato la corrente neoliberale. E l’altra non può solo criticare in modo astratto, non si può solo denunciare ma bisogna anche enunciare».
Perché la sinistra non trova il modo di enunciare?
«Nel secolo passato abbiamo vissuto un comunismo che viveva dell’illusione della realtà sovietica, adesso sappiamo che la Russia non può essere un modello. Che quel pensiero politico, adatto alla situazione passata, non è più adatto alla situazione presente. Bisogna trovare un’altra via: il capitalismo non è morto ma non è immortale. Il partito democratico, in Italia, non ha saputo trovare unità e soprattutto un pensiero nuovo, ma è la stessa crisi in Francia. Bisogna ricominciare, da quel che rimane vivo della critica del capitalismo di Marx, che deve esser pure ancora considerato, la mondializzazione era già il pensiero di Marx... Ma nessuna soluzione può essere più trovata in questo pensiero: bisogna ricominciare la politica di sinistra».
Qual è lo sguardo sull’Italia dalla Francia?
«L’Italia non vive in un mondo chiuso, ma all’interno di una situazione europea e planetaria. La regressione politica, la minaccia sull’indipendenza del potere giudiziario, la mancanza di vivacità politica... Sarkozy e Berlusconi sono due persone diverse ma non sono tanto distanti, pur nelle loro differenze caratteriali, sono quasi uguali: rivelatori di una stessa realtà».
Qualcuno però sostiene che l’Italia stia insegnando la corruzione al mondo, la stia esportando... «È evidente che in Italia c’è un potere di mafia e camorra esteso. In Francia c’è una tradizione statale di integrità che è diminuita ma che rimane solida. Lo stato italiano non ha le basi storiche dello stato francese, e allora si, in Italia c’è più corruzione, ma attenzione, la corruzione guadagna terreno in tutti i paesi».

Chi è
Dall’idea comunista alla teoria dei sistemi
La vita Edgar Morin è nato a Parigi nel 1921. Entrato a vent’anni nel P.C.F., quando la Francia era ancora occupata, ne viene escluso dieci anni dopo. Sociologo al C.N.R.S., si dedica negli anni Cinquanta a ricerche, rimaste celebri, sul divismo, i giovani e la cultura di massa. Collabora con articoli politici al «France-Observateur» e poi al «Nouvel Observateur». Fonda, nel 1956, con altri intellettuali transfughi del P.C.F., che non hanno abbandonato l’idea comunista, la rivista «Arguments», che si ispira alla rivista «Ragionamenti» di Franco Fortini, e durerà fino al l962, trattando i temi politici centrali degli anni Cinquanta e Sessanta: il congelamento della lotta di classe nei paesi del «socialismo reale», la nuova classe burocratica, la guerra d’Algeria, il gaullismo. Nel 1967, con Roland Barthes e Georges Friedmann, fonda «Communications». Un soggiorno al Salk Institut nel l969 lo mette a contatto con la teoria dei sistemi che costituirà il punto di partenza delle sue successive ricerche epistemologiche.
Le opere Segnaliamo: «L’An zéro de l’Allemagne», Parigi 1946; «L’homme et la mort», Parigi 1951; «Il cinema e l’uomo immaginario», Milano 1957; «Les stars», Parigi 1957; «Autocritique», Le Seuil Parigi 1959; «L’esprit du temps», Parigi 1962; «L’industrie culturelle», Parigi 1962, trad. it. «L’industria culturale», Bologna 1974; «Introduction à une politique de l’homme» Le Seuil Parigi 1965; «La comune di Parigi del maggio l968», Il Saggiatore, Milano l968; «Il paradigma perduto», Bompiani Milano 1974; «Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione», Feltrinelli Milano 1983; «La vita della vita», Feltrinelli Milano 1987; «Le rose et le noir», Parigi l984; «La conoscenza della conoscenza», Feltrinelli Milano l989; «Pensare l’Europa», Milano 1988; «Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi», Feltrinelli Milano l993.
Il Centro Studi Il Centro Studi di Filosofia della Complessità Edgar Morin è stato fondato nel marzo 2002 a Messina da un gruppo di studiosi del Dipartimento di Filosofia dell’Università, da tempo impegnati a indagare le relazioni fra filosofia e scienze, e a esplicare i differenti paradigmi epistemologici che si sono succeduti e contrastati negli ultimi due secoli.

Repubblica 12.3.10
L’età della conquista
Quando Roma s´innamorò della Grecia

Ai musei Capitolini la prima di cinque mostre sull´arte dell´Impero: così nacque quell´idea di classicità che fonda il pensiero occidentale
Si possono vedere alcune "Teste grandiose", fregi e una serie di arredi
Alcune opere provengono da Santuari altre da Monumenti onorari
Viene proposta una ricostruzione del patrimonio artistico dell´epoca

ROMA. Il ciclo di cinque mostre sull´Antico concepito da Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce comincia ora con la prima dedicata a L´Età della conquista. Il fascino dell´arte greca a Roma quando Roma pone le basi di quello che sarà l´Impero dilagando dalla Spagna all´Oriente, tra il terzo e il primo secolo a.C. E´ il tempo in cui i romani, guerrieri poco dediti alle arti e alla cultura, conquistano la Grecia e ne restano conquistati quando scoprono il fascino di una eccelsa tradizione rendendosi progressivamente conto della necessità di assimilare quel sapere che rafforza i potenti nobilitando l´esistenza.
La mostra vuole raccontare un momento decisivo nella storia delle culture, un fenomeno che si può riscontrare in tante altre tradizioni orientali e occidentali. La stessa cosa accadde, infatti, in Giappone nel momento della assimilazione della cultura cinese, lo stesso è accaduto ben oltre la caduta dell´Impero romano nell´impatto tra culture nomadi, che non costruiscono edifici perché si spostano in continuazione, e culture stanziali che utilizzano il marmo e la pietra formando la struttura urbana.
Ma non c´è dubbio che l´impatto della cultura greca su quella romana costituisce quasi il fondamento stesso della nostra cultura e del nostro modo di vedere le cose a distanza di oltre duemila anni. Siamo alle radici del nostro sapere.
Gli antichi romani avevano sviluppato una formidabile macchina militare e organizzativa, avevano forme di tecnologia avanzata specie nel campo dell´idraulica e dell´ingegneria, ma per molto tempo non ebbero i presupposti per una maturazione in senso umanistico. Scaturiti da una complessa commistione di popoli italici e etruschi furono poi giudicati dalla storiografia, a partire dal quinto secolo d.C. fino a oggi, come esponenti della suprema civiltà antica ma solo tardi giunta a un´idea ben precisa di classicità. Ecco il punto ed ecco il problema storico-critico che la prima mostra del ciclo de I Giorni di Roma vuole affrontare. Come nasce il concetto della classicità e in che misura è vero che la eletta cultura greca riuscì a penetrare nelle teste dure dei romani fino a civilizzarli e orientarli verso ideali oggi considerati come la quintessenza dell´Antichità capace di nutrire poi in egual misura i geni del Rinascimento italiano, i rivoluzionari francesi del diciottesimo secolo, i padri della nostra Costituzione dopo la seconda guerra mondiale?
Il patrimonio artistico risalente al III-I secolo a.C. ci è pervenuto disgregato e danneggiato. Gli ordinatori della mostra hanno proposto una acuta ricostruzione con una intelligenza e una dottrina incomparabili. Il criterio storiografico di indagine è semplicissimo. Siamo nell´epoca ellenistica caratterizzata da fervore e animazione delle immagini, cariche di pathos e di ardenti passioni. I personaggi veri e quelli della mitologia sono raffigurati sovente da artisti di alto livello per presentare al mondo intero una sorta di saga in cui la storia reale transita sul piano dell´arte con l´orgoglio e la magnificenza di una civiltà che avverte oscuramente di aver raggiunto esiti difficilmente superabili nel campo della politica, dell´economia, della stabilità sociale, dell´idea stessa di progresso. I Romani conquistano militarmente questo mondo e opere d´arte greca affluiscono a Roma nei trionfi dei condottieri che considerano l´opera d´arte come un trofeo attestante un traguardo conseguito.
Così i curatori della mostra hanno convocato una ampia messe di opere che devono farci capire questo fenomeno epocale. Alcune provengono da Santuari per ricordarci la immensa produzione di statue votive o di culto. L´ellenismo era scaturito dalle acquisizioni definitive di giganti dell´arte come Fidia. E proprio di gigantismo è necessario parlare perché si sviluppa nella cultura greca l´idea dello ieratico e del colossale. Le immense sculture che giacevano sovente come compresse nelle celle dei Templi venivano a affiancarsi e talvolta a sostituirsi agli antichi idoli in terracotta, di minori dimensioni e di più sobria formulazione. Tutto o quasi è annichilito di quel mondo orgoglioso e solenne ma alcune Teste grandiose, alcune sculture come quella della Giunione Cesi dei Musei capitolini o certi fregi come quello bellissimo della Galatomachia fungono da efficace ricordo. Poi ci sono i Monumenti onorari tra cui alcuni frammenti notevoli dei Cavalieri dal Tempio di Giunone Sospita di Lanuvio ( oggi a Leeds) e ritratti importanti di persone celebri come Cicerone. Infine tutta una serie di arredi che fanno vedere come si vivesse "alla greca" mentre i costumi funerari evidenziano una più forte sopravvivenza di quella semplicità romana che Catone il censore tentò di opporre al dilagare della moda ellenica. Si capisce come fosse fondamentale il dibattito interno alla società romana tra i magistrati e i militari, tutti orientati verso l´assimilazione della dottrina e del fascino greco ma in modi diversi. A Roma arrivano artigiani, medici, artisti, studiosi, provenienti dalla Grecia e la vicenda storica si dipana tra la presa di Siracusa e Taranto nel terzo secolo e quella di Corinto nel primo. L´immagine del Dio greco diventa un modello di riferimento nella cultura romana fino a sollecitarne comportamenti trasgressivi in un´ottica non troppo diversa dalla diffusione della cultura rock nell´Italia democristiana.
La Rocca, nel suo bellissimo saggio in catalogo, si diverte a ricordare come emblematica una vicenda raccontata da Vitruvio. Il sommo architetto Deinokrates non riusciva a farsi ricevere da Alessandro Magno, uomo dottissimo ma troppo preso dal lavoro militare e amministrativo. Un giorno Alessandro è in tribunale e entra nell´aula Deinokrates, che pare fosse un gran bell´uomo dall´ aspetto maestoso, nudo unto d´olio, coronato di foglie di pioppo, coperto solo da un vello di leone e con la clava in mano. Insomma si era travestito da Ercole secondo le prescrizioni della grande statuaria. Alessandro lo invitò immediatamente a un colloquio.

Repubblica 12.3.10
Intervista al curatore Eugenio La Rocca
E la città di terracotta scoprì il marmo
di Raffaella De Santis

«Per prima volta viene dedicata un´intera mostra all´arte romana del tardo ellenismo». Eugenio La Rocca, professore di archeologia e storia dell´arte greca e romana, curatore de L´Età della conquista ai Musei Capitolini, sottolinea così la particolarità di questa grande esposizione. Tra statuette di terracotta e marmi colossali, tra posture rigide o vivificate da orientale sensualità, la mostra è un percorso dentro un mondo in fermento, risultato del contatto tra cultura greca e romana.
Professore, come cambia l´arte romana in questi anni?
«E´ questo il momento, dopo le vittoriose campagne militari sugli stati greci e asiatici, in cui il marmo fa la sua apparizione e i moduli dell´arte romana iniziano a essere influenzati da quella greca. Prima Roma era una città di legno e terracotta».
Le enormi teste in mostra si rifanno al modello greco?
«Le dimensioni colossali della scultura romana di questo periodo sono un´innovazione greca. Certo i colossi romani non erano grandi come l´Athena Partenos e lo Zeus di Fidia, ma potevano arrivare a misurare fino a cinque volte il vero».
Come furono accolte le innovazioni? Catone il Censore condannò la nuova arte.
«Catone temeva che il costume romano potesse degenerare a contatto con le influenze greche, ma era destinato a perdere la sua battaglia».
Era anche allora in corso uno scontro tra progressisti e conservatori?
«Tra chi voleva che Roma si aprisse al mondo orientale e chi identificava le virtù romane in una tradizione parca: donne senza gioielli e uomini rudi. Ma i romani impararono a vivere nel lusso, in ville con giardini, statue e fontane. Tanto che anche le case più povere esponevano statuette simili ai nostri sette nani».
Che influenza avrà la cultura greco-romana sullo sviluppo dell´arte occidentale?
«Resterà il modello insuperato per la cultura artistica occidentale, fino ai giorni nostri. Ma si deve piuttosto parlare di una nuova classicità. In Michelangelo, Rosso Fiorentino, Pontormo, in David o in Picasso e Bacon le forme classiche rivivono ogni volta in modo diverso».
La mostra è il primo passo di un ciclo dedicato all´arte romana antica. E´ stato difficile riunire le opere?
«Molte vengono dai grandi musei europei. La testa di Catone dal Louvre e le statuette in terracotta dal British Museum. Poi ci sono i prestiti dal Museo Archeologico Nazionale di Atene, tra cui la testa di Ercole di Polykles, quelle di Athena di Euboulides e del gigante Anytos di Damophon di Messene, e anche lo Zeus di Eukleides».