il manifesto 15.12.16
Lo stato di salute del marxismo
«Testamento
politico e altri scritti contro lo stalinismo» di György Lukács, a cura
di Antonino Infranca e Miguel Vedda, per i tipi di Punto Rosso
di Marco Gatto
Per
i tipi di Punto Rosso, Antonino Infranca e Miguel Vedda hanno curato
una preziosa collezione di scritti di György Lukács, in gran parte mai
pubblicati in tradizione italiana. Testamento politico e altri scritti
contro lo stalinismo (pp. 176, euro 15) raccoglie saggi, lettere e
articoli del pensatore ungherese in grado di restituire un’immagine più
chiara della sua riflessione sui compiti della nuova democrazia marxista
e della sua diretta polemica contro Stalin. È noto che Lukács
lavorasse, negli ultimi anni della sua attività, alla prospettiva di
un’ontologia dell’essere sociale, che avrebbe dovuto tradursi anche e
soprattutto in un grande volume sull’etica.
In uno dei saggi più
corposi del volume, il filosofo ungherese propone una vera e propria
lista di questioni ritenute urgenti da affrontare per la salute del
marxismo: fra queste, senz’altro la lotta a una democrazia soltanto
formale, cioè regolata dal principio unificante del capitale, e la
battaglia a favore di un pensiero politico che, esaltando il lavoro come
momento di auto-educazione dell’uomo, sia capace di discendere, senza
demagogia, nelle mediazioni della vita quotidiana. In tal senso, Lukács
continua a pensare la realtà in termini hegelo-marxisti, puntando
l’attenzione sul principio di «mediazione», vituperato dal pensiero
conservatore contro cui il filosofo si batte, e che è poi l’oggetto
polemico, si ricorderà, di uno dei suoi libri più noti, La distruzione
della ragione, cui gli scritti raccolti in volume si ricollegano. Al
nichilismo Lukács contrappone un pensiero che sappia raggiungere il suo
significato storico riappropriandosi della tradizione, senza esaltare
l’ottica della rottura, bensì mediando se stesso in uno scambio
dialettico continuo col passato.
È questa forma di riflessione
che, a parere del Lukács maturo, garantirebbe alla democrazia marxista
la possibilità incarnarsi in una politica capace di dar vita a
«connessioni effettive e dialettiche fra vita pubblica e vita privata»,
senza che queste si pensino esclusive: «L’autocostruzione dell’uomo ha
preso un aspetto nuovo nel senso che si stabilisce, nel movimento
generale, un legame tra l’autoedificazione di sé e quella dell’umanità».
È
chiaro che tutto ciò presupponga, da parte di Lukács, e nello spirito
delle intenzioni di Infranca e Vedda, una posizione del tutto
anti-stalinista o un ripensamento delle rovine prodotte dal regime, a
fronte di una letteratura secondaria che ha spesso insistito sulle
compromissioni del pensatore. Il volume ha infatti questa ambizione:
offrire agli studiosi dei documenti che invalidino la tesi di un Lukács
incapace di svincolarsi dalle ragioni dello stalinismo.
A tal
proposito, accanto all’interessante scritto Oltre Stalin, la vera perla
del volume è la prima traduzione italiana di un interrogatorio della
polizia sovietica ai danni di Lukács, svoltosi nel 1941, allorché venne
accusato di essere il referente di una spia del governo fascista
ungherese. Si tratta di un testo molto drammatico, in cui Lukács afferma
con coerenza la sua posizione, non cedendo mai alle pressioni di chi
interroga. Scrive Infranca: «Adesso ci sono documenti a disposizione dei
lettori, che mettono davanti uno stalinista vero, l’interrogante, e uno
stalinista presunto, Lukács. ’Presunto’, perché questo stalinista è in
questo caso una vittima del regime stalinista, è in carcere e sta
rischiando una lunga detenzione nel Gulag o addirittura la morte».
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
giovedì 15 dicembre 2016
il manifesto 15.12.16
L’esperienza della morte in vita
«Tortura» di Donatella Di Cesare, per Bollati Boringhieri
Quando il dominio sul corpo del nemico si fa simbolo dell'esercizio del potere
di Mauro Palma
Pronunciare la parola indicibile è già operazione di chiarezza. Invita a indagarne il significato, a vedere se o meno corrisponda a situazioni, pratiche, fatti che conosciamo, che sappiamo esistere; li rende presenti con tutti gli interrogativi che tale presenza determina.
È quindi positivo che la parola tortura sia tornata a essere detta. Ma, seppure tolta dall’imbarazzo linguistico, non di meno la tortura continua a essere negata dagli apparati di potere che la praticano. Poiché «nessun regime neppure quello dittatoriale, ammetterà mai il ricorso alla tortura perché significherebbe ammettere la propria illegittimità». Sono le parole dello psicoanalista Miguel Benasayag, torturato durante la dittatura del generale Videla in Argentina, che ricorda come i suoi torturatori, che pur realizzavano una sorta di prossimità feroce tra il loro corpo e il suo che martoriavano, si guardavano dall’essere identificati come funzionari dello Stato; non affermavano la visibilità del potere assoluto, ma si celavano dietro una fantasiosa appartenenza a corpi separati, civili.
L’EPISODIO LO RIPORTA Donatella Di Cesare, che dal duplice punto di vista della filosofia teoretica e dell’analisi storico-critica, ripercorre la persistenza della tortura, il suo consolidarsi anche in termini dialogici nel presente e la continuità del tratto indelebile che lascia nella vittima, come «propria morte esperita in vita» (Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, euro 11).
Molte pagine del suo libro sono dedicate al dibattito sorto dopo il settembre 2001, in larga parte oltre Atlantico, ma per taluni aspetti anche nel vecchio continente. Un dibattito che non ha superato il tabù della negazione, ma lo ha aggirato, attraverso locuzioni contorte che ruotano attorno a concetti di eccezionalità, necessità, utilità dando a essi sinistri significati.
DI CESARE NE TROVA le premesse già nella posizione assunta da Thomas Nagel, più di quaranta anni fa nel periodo della guerra in Vietnam, circa il dilemma morale tra teorie assolutiste e teorie utilitariste, le prime che danno priorità a ciò che si fa, agli schemi valoriali di riferimento, le seconde centrate invece su ciò che accadrà, sulle conseguenze in gioco. Nessun problema per Nagel nel sostenere queste ultime, liquidando l’assolutismo – e quindi il divieto assoluto della tortura nelle Dichiarazioni e Convenzioni dal secondo dopoguerra – come un ideale regolativo insensatamente astratto e provvidenzialmente irrealizzabile.
Anche se il contesto dell’analisi del filosofo analitico è quello bellico, la sua posizione apre alla possibilità di considerare comunque la tortura una opzione eventuale. Tema, questo che da una prospettiva diversa verrà ripreso da Michel Walzer nell’affermazione della necessità per chi ha responsabilità politica di misurarsi anche con le «mani sporche», quasi «nobilitando» la scelta di accettare il fardello morale di un crimine, non reso meno da grave da considerazioni apparentemente necessitanti. Per giungere così al dibattito degli ultimi quindici anni, alla posizione di Alan Dershowitz che Di Cesare sintetizza in una intrigante parola chiave: accountability. Intrigante perché si è abituati a declinarla nel suo significato positivo, di assunzione di responsabilità. Giacché la tortura persiste – ragiona il penalista americano, che si era abituati a collocare nel fronte democratico – ne regoliamo la pratica, la rendiamo trasparente e limitata.
SCRIVE IN PROPOSITO l’autrice: «Al torturatore nobile Dershowitz preferisce l’esperto che mentre conferisce di volta in volta il mandato, autorizzando la tortura, si impegna anche a far luce garantendo la trasparenza, consentendo quella accountability, senza la quale non sarebbe immaginabile la democrazia». Questa pretesa di «portare il diritto nelle stanze oscure degli interrogatori» ha in parte lambito la discussione in alcuni Stati europei che, a metà del primo decennio di questo secolo, hanno proposto di limitare l’assolutezza del divieto di tortura enunciato nella Convenzione europea per i diritti umani, bilanciandolo con le esigenze di sicurezza, quale altro bene da tutelare in modo assoluto.
Una posizione, questa, respinta, ma che ritorna di tanto in tanto quando l’uso legale della forza, il diritto e l’esercizio di giustizia vengono declinati come strumenti di lotta verso un presunto nemico, sia esso un singolo, una organizzazione, un gruppo sociale il cui stesso esistere viene assunto come potenziale aggressore di chi ha la responsabilità di agire in nome della collettività. Lo schema relazionale che si stabilisce diviene allora un derivato della dinamica di guerra e il dominio sul corpo del nemico diviene simbolo e concretezza dell’esercizio di potere.
IL LIBRO SPAZIA lungo gli esempi negli anni recenti che rimandano a questa torsione (l’etimo è lo stesso della parola tortura), dalla tortura politica latino-americana agli episodi europei, inclusi quelli che hanno riguardato l’Italia: gli interrogatori in occasione del sequestro Dozier, le morti purtroppo ormai famose di giovani fermati e privati della libertà, l’epifania della violenza del potere nei giorni di Genova. Tutti casi in cui la parola negata, tortura, è stata scritta in sentenze; anche per dire che non vi è ancora nel nostro codice la possibilità di riconoscerla, chiamarla con il proprio nome e punirla adeguatamente.
Ma, anche casi ripresi per ricordare che la previsione del reato, assolutamente essenziale, non risolve del tutto il nostro rapporto con la tortura, con la corporeità perversa che essa rappresenta, con il suo intrinseco rifiuto del limite necessario. Ancora una volta il diritto non basta; ancora una volta – ci ricorda l’autrice – occorre interrogarci più in profondità.
L’esperienza della morte in vita
«Tortura» di Donatella Di Cesare, per Bollati Boringhieri
Quando il dominio sul corpo del nemico si fa simbolo dell'esercizio del potere
di Mauro Palma
Pronunciare la parola indicibile è già operazione di chiarezza. Invita a indagarne il significato, a vedere se o meno corrisponda a situazioni, pratiche, fatti che conosciamo, che sappiamo esistere; li rende presenti con tutti gli interrogativi che tale presenza determina.
È quindi positivo che la parola tortura sia tornata a essere detta. Ma, seppure tolta dall’imbarazzo linguistico, non di meno la tortura continua a essere negata dagli apparati di potere che la praticano. Poiché «nessun regime neppure quello dittatoriale, ammetterà mai il ricorso alla tortura perché significherebbe ammettere la propria illegittimità». Sono le parole dello psicoanalista Miguel Benasayag, torturato durante la dittatura del generale Videla in Argentina, che ricorda come i suoi torturatori, che pur realizzavano una sorta di prossimità feroce tra il loro corpo e il suo che martoriavano, si guardavano dall’essere identificati come funzionari dello Stato; non affermavano la visibilità del potere assoluto, ma si celavano dietro una fantasiosa appartenenza a corpi separati, civili.
L’EPISODIO LO RIPORTA Donatella Di Cesare, che dal duplice punto di vista della filosofia teoretica e dell’analisi storico-critica, ripercorre la persistenza della tortura, il suo consolidarsi anche in termini dialogici nel presente e la continuità del tratto indelebile che lascia nella vittima, come «propria morte esperita in vita» (Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, euro 11).
Molte pagine del suo libro sono dedicate al dibattito sorto dopo il settembre 2001, in larga parte oltre Atlantico, ma per taluni aspetti anche nel vecchio continente. Un dibattito che non ha superato il tabù della negazione, ma lo ha aggirato, attraverso locuzioni contorte che ruotano attorno a concetti di eccezionalità, necessità, utilità dando a essi sinistri significati.
DI CESARE NE TROVA le premesse già nella posizione assunta da Thomas Nagel, più di quaranta anni fa nel periodo della guerra in Vietnam, circa il dilemma morale tra teorie assolutiste e teorie utilitariste, le prime che danno priorità a ciò che si fa, agli schemi valoriali di riferimento, le seconde centrate invece su ciò che accadrà, sulle conseguenze in gioco. Nessun problema per Nagel nel sostenere queste ultime, liquidando l’assolutismo – e quindi il divieto assoluto della tortura nelle Dichiarazioni e Convenzioni dal secondo dopoguerra – come un ideale regolativo insensatamente astratto e provvidenzialmente irrealizzabile.
Anche se il contesto dell’analisi del filosofo analitico è quello bellico, la sua posizione apre alla possibilità di considerare comunque la tortura una opzione eventuale. Tema, questo che da una prospettiva diversa verrà ripreso da Michel Walzer nell’affermazione della necessità per chi ha responsabilità politica di misurarsi anche con le «mani sporche», quasi «nobilitando» la scelta di accettare il fardello morale di un crimine, non reso meno da grave da considerazioni apparentemente necessitanti. Per giungere così al dibattito degli ultimi quindici anni, alla posizione di Alan Dershowitz che Di Cesare sintetizza in una intrigante parola chiave: accountability. Intrigante perché si è abituati a declinarla nel suo significato positivo, di assunzione di responsabilità. Giacché la tortura persiste – ragiona il penalista americano, che si era abituati a collocare nel fronte democratico – ne regoliamo la pratica, la rendiamo trasparente e limitata.
SCRIVE IN PROPOSITO l’autrice: «Al torturatore nobile Dershowitz preferisce l’esperto che mentre conferisce di volta in volta il mandato, autorizzando la tortura, si impegna anche a far luce garantendo la trasparenza, consentendo quella accountability, senza la quale non sarebbe immaginabile la democrazia». Questa pretesa di «portare il diritto nelle stanze oscure degli interrogatori» ha in parte lambito la discussione in alcuni Stati europei che, a metà del primo decennio di questo secolo, hanno proposto di limitare l’assolutezza del divieto di tortura enunciato nella Convenzione europea per i diritti umani, bilanciandolo con le esigenze di sicurezza, quale altro bene da tutelare in modo assoluto.
Una posizione, questa, respinta, ma che ritorna di tanto in tanto quando l’uso legale della forza, il diritto e l’esercizio di giustizia vengono declinati come strumenti di lotta verso un presunto nemico, sia esso un singolo, una organizzazione, un gruppo sociale il cui stesso esistere viene assunto come potenziale aggressore di chi ha la responsabilità di agire in nome della collettività. Lo schema relazionale che si stabilisce diviene allora un derivato della dinamica di guerra e il dominio sul corpo del nemico diviene simbolo e concretezza dell’esercizio di potere.
IL LIBRO SPAZIA lungo gli esempi negli anni recenti che rimandano a questa torsione (l’etimo è lo stesso della parola tortura), dalla tortura politica latino-americana agli episodi europei, inclusi quelli che hanno riguardato l’Italia: gli interrogatori in occasione del sequestro Dozier, le morti purtroppo ormai famose di giovani fermati e privati della libertà, l’epifania della violenza del potere nei giorni di Genova. Tutti casi in cui la parola negata, tortura, è stata scritta in sentenze; anche per dire che non vi è ancora nel nostro codice la possibilità di riconoscerla, chiamarla con il proprio nome e punirla adeguatamente.
Ma, anche casi ripresi per ricordare che la previsione del reato, assolutamente essenziale, non risolve del tutto il nostro rapporto con la tortura, con la corporeità perversa che essa rappresenta, con il suo intrinseco rifiuto del limite necessario. Ancora una volta il diritto non basta; ancora una volta – ci ricorda l’autrice – occorre interrogarci più in profondità.
il manifesto 15.12.16
L’archeologia orientale è in guerra
Convegno. I maggiori archeologi e studiosi del Vicino oriente il 16 e 17 dicembre saranno a Firenze per affrontare insieme il rischio a cui sono sottoposti i siti in Iraq e in Siria
di Valentina Porcheddu
A causa degli eventi bellici che stanno sconvolgendo paesi di antichissima origine quali Iraq e Siria, l’archeologia orientale non può più essere considerata soltanto una disciplina accademica o scientifica ma deve allargare il proprio orizzonte.
È questo il presupposto in base al quale il Camnes (Center for Ancient Mediterranean and Near Eastern Studies) – fondato nel 2010 – ha convocato per il 16 e 17 dicembre a Firenze, nel Palagio di Parte Guelfa, i maggiori studiosi italiani di archeologia del Vicino oriente per dibattere pubblicamente sulle prospettive del settore. «L’archeologo non è uno statista o uno stratega – dice Stefano Valentini, che dirige il Camnes assieme a Guido Guarducci – ma in virtù delle sue conoscenze può contribuire alla soluzione delle crisi in atto».
SECONDO DAVIDE NADALI, docente di archeologia e storia dell’arte del Vicino oriente antico alla Sapienza di Roma, e membro del comitato scientifico che organizza l’incontro fiorentino «noi archeologi siamo ambasciatori sul campo perché durante le missioni di scavo ci rapportiamo sia con i rappresentanti politici e istituzionali del paese che con la comunità del territorio in cui operiamo. Dei contesti rurali, che normalmente sfuggono all’attenzione di un semplice turista, impariamo a comprendere gli aspetti più autentici. Ciò ci consente di avere il polso della situazione riguardo le trasformazioni della società».
Impegnato dal 1998 al 2010 negli scavi di Ebla in Siria, Nadali ricorda come a Tell Mardikh (nome moderno della città carovaniera, ndr) negli ultimi anni si potesse riscontrare, attraverso il comportamento di alcuni operai più giovani, una radicalizzazione di tipo islamista. L’archeologo dovrebbe essere usato come fonte di informazione ma non di tipo spionistico alla stregua dei primi esploratori di antichità irachene, che erano funzionari al servizio dei governi occidentali e archeologi per hobby. Ora occorre lavorare per il dialogo.
Proprio a questo proposito, Nadali spiega come la missione archeologica di Tell Zurghul (antica Nigin) nella provincia meridionale del Dhi Qar in Iraq, di cui è a capo con Andrea Polcaro dell’università degli studi di Perugia, stia portando avanti una collaborazione con la scuola del villaggio.
LO SCOPO È QUELLO di creare un circuito in cui l’istruzione vada di pari passo con la prevenzione e la custodia del sito archeologico. «In Iraq e Siria stiamo assistendo a eventi di natura straordinaria come templi che vengono fatti esplodere – afferma Valentini – Non possiamo reagire con strumenti ‘tradizionali’. L’archeologia in Medioriente soffre di un retaggio colonialista. L’Occidente dovrebbe impegnarsi affinché le comunità scientifiche locali crescano. Penso, inoltre, che una coscienza etica vada sempre anteposta agli interessi della ricerca. Non bisogna intestardirsi a presenziare nelle zone di guerra ma concentrare le energie sul potenziamento degli archivi e l’elaborazione di strategie di azione post-bellica, in modo da essere pronti quando sarà possibile tornare sul campo in condizione di pace».
L’archeologia orientale è in guerra
Convegno. I maggiori archeologi e studiosi del Vicino oriente il 16 e 17 dicembre saranno a Firenze per affrontare insieme il rischio a cui sono sottoposti i siti in Iraq e in Siria
di Valentina Porcheddu
A causa degli eventi bellici che stanno sconvolgendo paesi di antichissima origine quali Iraq e Siria, l’archeologia orientale non può più essere considerata soltanto una disciplina accademica o scientifica ma deve allargare il proprio orizzonte.
È questo il presupposto in base al quale il Camnes (Center for Ancient Mediterranean and Near Eastern Studies) – fondato nel 2010 – ha convocato per il 16 e 17 dicembre a Firenze, nel Palagio di Parte Guelfa, i maggiori studiosi italiani di archeologia del Vicino oriente per dibattere pubblicamente sulle prospettive del settore. «L’archeologo non è uno statista o uno stratega – dice Stefano Valentini, che dirige il Camnes assieme a Guido Guarducci – ma in virtù delle sue conoscenze può contribuire alla soluzione delle crisi in atto».
SECONDO DAVIDE NADALI, docente di archeologia e storia dell’arte del Vicino oriente antico alla Sapienza di Roma, e membro del comitato scientifico che organizza l’incontro fiorentino «noi archeologi siamo ambasciatori sul campo perché durante le missioni di scavo ci rapportiamo sia con i rappresentanti politici e istituzionali del paese che con la comunità del territorio in cui operiamo. Dei contesti rurali, che normalmente sfuggono all’attenzione di un semplice turista, impariamo a comprendere gli aspetti più autentici. Ciò ci consente di avere il polso della situazione riguardo le trasformazioni della società».
Impegnato dal 1998 al 2010 negli scavi di Ebla in Siria, Nadali ricorda come a Tell Mardikh (nome moderno della città carovaniera, ndr) negli ultimi anni si potesse riscontrare, attraverso il comportamento di alcuni operai più giovani, una radicalizzazione di tipo islamista. L’archeologo dovrebbe essere usato come fonte di informazione ma non di tipo spionistico alla stregua dei primi esploratori di antichità irachene, che erano funzionari al servizio dei governi occidentali e archeologi per hobby. Ora occorre lavorare per il dialogo.
Proprio a questo proposito, Nadali spiega come la missione archeologica di Tell Zurghul (antica Nigin) nella provincia meridionale del Dhi Qar in Iraq, di cui è a capo con Andrea Polcaro dell’università degli studi di Perugia, stia portando avanti una collaborazione con la scuola del villaggio.
LO SCOPO È QUELLO di creare un circuito in cui l’istruzione vada di pari passo con la prevenzione e la custodia del sito archeologico. «In Iraq e Siria stiamo assistendo a eventi di natura straordinaria come templi che vengono fatti esplodere – afferma Valentini – Non possiamo reagire con strumenti ‘tradizionali’. L’archeologia in Medioriente soffre di un retaggio colonialista. L’Occidente dovrebbe impegnarsi affinché le comunità scientifiche locali crescano. Penso, inoltre, che una coscienza etica vada sempre anteposta agli interessi della ricerca. Non bisogna intestardirsi a presenziare nelle zone di guerra ma concentrare le energie sul potenziamento degli archivi e l’elaborazione di strategie di azione post-bellica, in modo da essere pronti quando sarà possibile tornare sul campo in condizione di pace».
Repubblica 15.12.16
“Così Petrarca costruì il mito di se stesso”
Francisco Rico, grande filologo spagnolo, rivela come il poeta reinventò sempre la sua biografia
“È stato il primo intellettuale della storia a capire l’importanza dell’immagine pubblica”
“La modernità del personaggio è tutta nella tensione continua tra vita e letteratura”
intervista di Benedetta Craveri
BARCELLONA Filologo e storico della letteratura di fama internazionale, Francisco Rico — Paco per gli amici — nato a Barcellona ma di famiglia castigliana, è oggi il più illustre campione della grande tradizione culturale spagnola. Basterebbero a farne fede le sue imprescindibili edizioni di “Lazarillo de Tormes” (2001) e del “Don Quijote de la Mancha” (2008). Invitato nelle università e nelle accademie di mezzo mondo, passando con uguale disinvoltura dallo spagnolo all’italiano, al francese, all’inglese, Rico, membro della Real Academia Española, è indubbiamente un erudito sui generis, che unisce all’autorevolezza di un ambasciatore del tempo di Carlo V la elegante leggerezza di un dandy. Ma che l’Italia sia per lui — studioso di Petrarca e di Boccaccio — anche un luo–
go dell’anima, lo conferma oggi l’ultimo titolo della lunga lista dei libri tradotti nella nostra lingua, I venerdì del Petrarca (Adelphi, pagg. 219, euro 14), seguito nello stesso volume da un Profilo biografico di Petrarca in collaborazione con Luca Marcozzi. Un affascinante ritratto di un Petrarca segreto che è al tempo stesso una rigorosa lezione di metodo filologico e una presa di distanza nei confronti di una concezione troppo restrittiva della sua disciplina.
Professor Rico, lei sostiene che anche la filologia è una narrazione, creazione letteraria la cui posta in gioco non è “di ideare personaggi, ma di comprendere delle persone”. Non è una visione troppo eterodossa della sua disciplina?
«Certo che sì. Per me la filologia non è scienza ma, per dirla all’antica, è umanità, ars humanitatis, e merita di essere scritta con rigore ma con la stessa volontà di stile di qualunque altro genere letterario».
Lei mostra bene come Petrarca abbia perseguito fin da giovane il progetto di costruire, tassello dopo tassello, la propria autobiografia, la prima della letteratura occidentale moderna. Cosa ha potuto indurlo a un gesto così innovativo?
«A cominciare(quando aveva già 50 anni) dalla scelta del suo nome definitivo, che prima fluttuava tra “Pentraco”, “Petrachus” e altre forme, Petrarca costruiva la sua biografia perché viveva più pienamente, più autenticamente, nella scrittura che nella realtà. Teneva molto all’immagine, ancor di più a quella che avrebbe mostrato a se stesso: «Intero e pieno — diceva — senza lacerarsi in mille sentimenti contrastanti».
Ci può spiegare la strategia complessa di indizi e di omissioni, di detto e non detto, di cui Petrarca si serve, nel corso della sua intera opera, per mettere in scena il suo personaggio pubblico?
«Lui non poteva negare direttamente cose che aveva affermato in passato, perché i suoi testi erano ormai nelle mani di molti. Ciò che faceva era dare nuove interpretazioni dei fatti. Così, dell’incontro con Laura, della laurea napoletana o del suo atteggiamento (prima favorevole e poi critico) verso Cola di Rienzo offre distinte versioni, che non coincidono tra loro, per far sì che l’ultima cancellasse le precedenti».
Lei scrive che nell’abbracciare la totalità della propria “peregrinatio tra vita e letteratura”, Petrarca mirava a un insegnamento morale di carattere universale, ma che questa narrazione esemplare celava una rivelazione autobiografica più complessa.
«Sì, perché se la biografia che voleva vivere e scrivere rispondeva a un’immagine ideale, quell’ideale poteva soltanto essere universale, morale e religioso ».
Petrarca, tuttavia, voleva anche lasciare una traccia occulta della sua vicenda privata e lei ha individuato nei molti venerdì che si rincorrono nei suoi scritti — ricordiamo quello dell’incontro fatidico con Laura il 6 aprile 1327, e quello della morte di lei, il 6 aprile 1348 — una data feticcio.
«La propria vita gli si presentava come un libro segmentato in capitoli e sezioni che segnavano tappe e cambiamenti nella sua immagine pubblica: la grande “mutatio” dei quarant’anni, prima e dopo Laura, la rinuncia alla lussuria nell’occasione del Giubileo del 1350, eccetera. Ma certi momenti ed episodi venivano segnati anche come con un post-it colorato: quelli che corrispondono a un venerdì sono tanti e così rilevanti, che non c’è dubbio che quel giorno fosse significativo nella sua vita intima ».
Come giudicare la scelta, a dir poco audace, di Petrarca di annotare i suoi fatti personali in margine a un preziosissimo codice di Virgilio oggi custodito alla Biblioteca Ambrosiana?
«Tutti scrivevano nei libri. Ma per dare la sua ultima versione della storia di Laura, Petrarca sceglie il codice più prezioso della sua biblioteca, sapendo che il volume sarebbe passato in altre mani e quella versione avrebbe finito col diventare pubblica».
Dobbiamo pensare a una sola Laura o a tante Laure in una? E dobbiamo iscriverla sotto il segno dell’amor sacro o dell’amor profano, della letteratura o della vita?
«Una e tante. Tendo a pensare che una “Laura” esistette realmente, ma è anche una sorta di compendio di tutte le sue esperienze amorose (ed erotiche), privilegiando le più nobili per tradizione letteraria e decoro o dignità spirituale».
Tutta la vita di Petrarca è attraversata tanto dalla necessità di trovarsi dei protettori e puntare a un ruolo di consigliere del principe, quanto dal desiderio di raccoglimento e di ozio studioso. Due esigenze per lui irrinunciabili?
«Irrinunciabili perché imprescindibili. Una vita come la sua si poteva soltanto ottenere con benefici ecclesiastici e protezione dei potenti».
Perché quello di Petrarca le appare come “il carattere tipico del nevrotico”?
«Perché ossessivo, ansioso, irritabile, contraddittorio, in conflitto con se stesso».
In che misura passioni mondane come l’interesse e l’amore si conciliano in Petrarca con la sua condizione di chierico e con la sua battaglia contro il vizio?
«Non era più peccatore di chiunque altro dell’epoca. Il suo cristianesimo, con risvolti superstiziosi, era profondo e orientava tutti i suoi scritti».
Cosa ha fatto di Petrarca fino al XIX secolo il poeta per antonomasia dell’Europa moderna?
«Fino ad allora, la lirica gli deve tutto (e in Italia il poeta nazionale è lui, non Dante); il moralista restò nel dimenticatoio a metà del Cinquecento; ma la sua lezione per quanto concerne lo studio dei classici fu decisiva nella genesi dell’umanesimo maturo ».
IL LIBRO I venerdì del Petrarca di Francisco Rico ( Adelphi pagg. 219 euro 14) L’autore riceve oggi a Roma il premio De Sanctis dedicato alle migliori opere di saggistica
“Così Petrarca costruì il mito di se stesso”
Francisco Rico, grande filologo spagnolo, rivela come il poeta reinventò sempre la sua biografia
“È stato il primo intellettuale della storia a capire l’importanza dell’immagine pubblica”
“La modernità del personaggio è tutta nella tensione continua tra vita e letteratura”
intervista di Benedetta Craveri
BARCELLONA Filologo e storico della letteratura di fama internazionale, Francisco Rico — Paco per gli amici — nato a Barcellona ma di famiglia castigliana, è oggi il più illustre campione della grande tradizione culturale spagnola. Basterebbero a farne fede le sue imprescindibili edizioni di “Lazarillo de Tormes” (2001) e del “Don Quijote de la Mancha” (2008). Invitato nelle università e nelle accademie di mezzo mondo, passando con uguale disinvoltura dallo spagnolo all’italiano, al francese, all’inglese, Rico, membro della Real Academia Española, è indubbiamente un erudito sui generis, che unisce all’autorevolezza di un ambasciatore del tempo di Carlo V la elegante leggerezza di un dandy. Ma che l’Italia sia per lui — studioso di Petrarca e di Boccaccio — anche un luo–
go dell’anima, lo conferma oggi l’ultimo titolo della lunga lista dei libri tradotti nella nostra lingua, I venerdì del Petrarca (Adelphi, pagg. 219, euro 14), seguito nello stesso volume da un Profilo biografico di Petrarca in collaborazione con Luca Marcozzi. Un affascinante ritratto di un Petrarca segreto che è al tempo stesso una rigorosa lezione di metodo filologico e una presa di distanza nei confronti di una concezione troppo restrittiva della sua disciplina.
Professor Rico, lei sostiene che anche la filologia è una narrazione, creazione letteraria la cui posta in gioco non è “di ideare personaggi, ma di comprendere delle persone”. Non è una visione troppo eterodossa della sua disciplina?
«Certo che sì. Per me la filologia non è scienza ma, per dirla all’antica, è umanità, ars humanitatis, e merita di essere scritta con rigore ma con la stessa volontà di stile di qualunque altro genere letterario».
Lei mostra bene come Petrarca abbia perseguito fin da giovane il progetto di costruire, tassello dopo tassello, la propria autobiografia, la prima della letteratura occidentale moderna. Cosa ha potuto indurlo a un gesto così innovativo?
«A cominciare(quando aveva già 50 anni) dalla scelta del suo nome definitivo, che prima fluttuava tra “Pentraco”, “Petrachus” e altre forme, Petrarca costruiva la sua biografia perché viveva più pienamente, più autenticamente, nella scrittura che nella realtà. Teneva molto all’immagine, ancor di più a quella che avrebbe mostrato a se stesso: «Intero e pieno — diceva — senza lacerarsi in mille sentimenti contrastanti».
Ci può spiegare la strategia complessa di indizi e di omissioni, di detto e non detto, di cui Petrarca si serve, nel corso della sua intera opera, per mettere in scena il suo personaggio pubblico?
«Lui non poteva negare direttamente cose che aveva affermato in passato, perché i suoi testi erano ormai nelle mani di molti. Ciò che faceva era dare nuove interpretazioni dei fatti. Così, dell’incontro con Laura, della laurea napoletana o del suo atteggiamento (prima favorevole e poi critico) verso Cola di Rienzo offre distinte versioni, che non coincidono tra loro, per far sì che l’ultima cancellasse le precedenti».
Lei scrive che nell’abbracciare la totalità della propria “peregrinatio tra vita e letteratura”, Petrarca mirava a un insegnamento morale di carattere universale, ma che questa narrazione esemplare celava una rivelazione autobiografica più complessa.
«Sì, perché se la biografia che voleva vivere e scrivere rispondeva a un’immagine ideale, quell’ideale poteva soltanto essere universale, morale e religioso ».
Petrarca, tuttavia, voleva anche lasciare una traccia occulta della sua vicenda privata e lei ha individuato nei molti venerdì che si rincorrono nei suoi scritti — ricordiamo quello dell’incontro fatidico con Laura il 6 aprile 1327, e quello della morte di lei, il 6 aprile 1348 — una data feticcio.
«La propria vita gli si presentava come un libro segmentato in capitoli e sezioni che segnavano tappe e cambiamenti nella sua immagine pubblica: la grande “mutatio” dei quarant’anni, prima e dopo Laura, la rinuncia alla lussuria nell’occasione del Giubileo del 1350, eccetera. Ma certi momenti ed episodi venivano segnati anche come con un post-it colorato: quelli che corrispondono a un venerdì sono tanti e così rilevanti, che non c’è dubbio che quel giorno fosse significativo nella sua vita intima ».
Come giudicare la scelta, a dir poco audace, di Petrarca di annotare i suoi fatti personali in margine a un preziosissimo codice di Virgilio oggi custodito alla Biblioteca Ambrosiana?
«Tutti scrivevano nei libri. Ma per dare la sua ultima versione della storia di Laura, Petrarca sceglie il codice più prezioso della sua biblioteca, sapendo che il volume sarebbe passato in altre mani e quella versione avrebbe finito col diventare pubblica».
Dobbiamo pensare a una sola Laura o a tante Laure in una? E dobbiamo iscriverla sotto il segno dell’amor sacro o dell’amor profano, della letteratura o della vita?
«Una e tante. Tendo a pensare che una “Laura” esistette realmente, ma è anche una sorta di compendio di tutte le sue esperienze amorose (ed erotiche), privilegiando le più nobili per tradizione letteraria e decoro o dignità spirituale».
Tutta la vita di Petrarca è attraversata tanto dalla necessità di trovarsi dei protettori e puntare a un ruolo di consigliere del principe, quanto dal desiderio di raccoglimento e di ozio studioso. Due esigenze per lui irrinunciabili?
«Irrinunciabili perché imprescindibili. Una vita come la sua si poteva soltanto ottenere con benefici ecclesiastici e protezione dei potenti».
Perché quello di Petrarca le appare come “il carattere tipico del nevrotico”?
«Perché ossessivo, ansioso, irritabile, contraddittorio, in conflitto con se stesso».
In che misura passioni mondane come l’interesse e l’amore si conciliano in Petrarca con la sua condizione di chierico e con la sua battaglia contro il vizio?
«Non era più peccatore di chiunque altro dell’epoca. Il suo cristianesimo, con risvolti superstiziosi, era profondo e orientava tutti i suoi scritti».
Cosa ha fatto di Petrarca fino al XIX secolo il poeta per antonomasia dell’Europa moderna?
«Fino ad allora, la lirica gli deve tutto (e in Italia il poeta nazionale è lui, non Dante); il moralista restò nel dimenticatoio a metà del Cinquecento; ma la sua lezione per quanto concerne lo studio dei classici fu decisiva nella genesi dell’umanesimo maturo ».
IL LIBRO I venerdì del Petrarca di Francisco Rico ( Adelphi pagg. 219 euro 14) L’autore riceve oggi a Roma il premio De Sanctis dedicato alle migliori opere di saggistica
Corriere 15.12.16
Napoleone li rubò, Canova li riportò a casa
La nuova vita dei capolavori recuperati
Duecento anni fa tornarono in Italia le opere sottratte dalla Francia, ora riunite in mostra
di Paolo Conti
È il 4 gennaio 1816 e il «Diario di Roma», il giornale politico dello Stato Pontificio, scrive: «Giunsero in questa Capitale diversi carri contenenti vari dei migliori capi d’opera in Pittura e Scultura, che con trasporto di giubilo e per il Bene delle Arti, ritornano ad associarsi a questi Monumenti Romani, vale a dire a quel centro di riunione ch’è il solo capace di formare gli Artisti e d’inspirar loro la sublimità de’ concetti. Questo avvenimento ha eccitato il più grande entusiasmo del Popolo Romano». È una delle tante cronache del ritorno nei diversi Stati italiani preunitari delle splendide opere d’arte sottratte tra il 1796 e il 1814 nella penisola italiana per volere di Napoleone Bonaparte.
Sullo sfondo, il progetto di un Louvre che fosse Museo Universale, apoteosi culturale del nuovo ordine imperiale napoleonico, simbolo estetico delle sue conquiste territoriali. Da Roma partono persino opere monumentali e delicatissime come il Laocoonte e l’ Apollo del Belvedere . Caduto l’Empereur, i diversi Stati italiani ottengono, nel Congresso di Vienna, la restituzione dei loro capolavori, che rientrano nel 1816. Sono passati duecento anni e le Scuderie del Quirinale a Roma propongono da domani, 16 dicembre, e fino al 12 marzo 2017 la mostra Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova a cura di Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce. L’accostamento di Canova a Napoleone è una delle chiavi della rassegna: fu il grande scultore, come commissario dello Stato Pontificio, a organizzare da Parigi il rientro delle opere romane. Il Laocoonte rischiò danni irreparabili, cadendo sul ghiaccio del Moncenisio dalla carrozza che lo trasportava.
La mostra offre autentici capolavori. Il vero divo sarà sicuramente Raffaello, col suo Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de' Rossi , che arriva con un prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi. E poi ecco La strage degli innocenti di Guido Reni dalla Pinacoteca di Bologna, l’immensa Assunzione della Vergine di Tiziano dal Duomo di Verona, il Compianto sul Cristo morto di Correggio e la Deposizione di Annibale Carracci dalla Galleria nazionale di Parma, la Cattedra di San Pietro del Guercino dalla Pinacoteca di Cento, il Battista tra i Quattro Santi di Perugino dalla Galleria nazionale dell’Umbria. E poi verranno esposti due capolavori della statuaria classica come la Venere Capitolina dai Musei Capitolini e il Giove di Otricoli dai Musei Vaticani.
La diversa provenienza geografica intende testimoniare, nelle intenzioni dei curatori, non solo la quantità e la qualità delle opere disseminate in Italia (testimonianza di una produzione artistica fertile in ogni regione) ma anche l’effetto prodotto da quel rientro: molte opere, dopo essere state conservate in depositi organizzati sull’onda dell’emergenza del ritorno, non vennero ricollocate nel loro contesto originario ma dettero vita, a loro volta, a molti musei moderni italiani, così come li conosciamo ora, proprio sul modello ideale del Louvre. Per esempio il definitivo arricchimento della Pinacoteca di Brera a Milano voluta proprio da Napoleone nel 1805, la creazione della Galleria Nazionale dell’Umbria, o le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Pinacoteca di Bologna. Tutti musei pubblici figli dei tempi ormai cambiati per sempre.
La mostra segna l’esordio delle «nuove» Scuderie del Quirinale, spazio espositivo autonomo ormai sganciato dall’Azienda speciale Palaexpo (che lo ha gestito fino a settembre e ha avviato la preparazione dell’evento). Le Scuderie del Quirinale sono state affidate dalla presidenza della Repubblica al ministero per i Beni e le attività culturali e quindi ad Ales, la società in-house del ministero, presieduta da Mario De Simoni. Il progetto è farne una sorta di Grand Palais italiano, il punto di riferimento delle grandi mostre temporanee di respiro nazionale.
Spiega De Simoni:«Dopo i grandi successi registrati negli anni scorsi, il ministero punta a stabilire un’alleanza organica tra le Scuderie e il sistema museale italiano. Parliamo di uno spazio di enorme prestigio, di superbo posizionamento nel cuore di Roma ma privo ovviamente di una propria collezione. Questo elemento solo apparentemente di debolezza può essere brillantemente superato inserendo le Scuderie in un circuito espositivo nazionale ma ovviamente di respiro internazionale. Faccio un esempio concreto proprio parlando del Grand Palais. Molte grandi mostre organizzate dal Louvre, come quella dello scorso anno sul Velàzquez, sono state allestite al Grand Palais con un accordo con La Réunion des musées nationaux, ovviamente il Grand Palais e il musée du Louvre di Parigi e il Kunsthistorisches Museum di Vienna».
Intanto Raffaello con Leone X accoglieranno i visitatori alle Scuderie. Ed è già un magnifico esordio, visto che si tratta di uno dei pezzi più importanti dei 63 selezionati nella collezione granducale toscana, tra il marzo e l’aprile 1799, dal pittore Jean Baptiste Wicar e destinati a far parte del futuro Musée Napoléon al Louvre. Proprio Leone X apriva, nel 1804, l’elenco dei dipinti di Raffaello nel catalogo del nuovo museo parigino. Caduto l’Impero, il ritratto di Leone X venne incluso nella seconda spedizione di rientro da Parigi in Italia. Partì dal Louvre il 23 ottobre 1815 e arrivò a Firenze il 27 dicembre dopo aver passato (come il Laocoonte ) il passo del Moncenisio, aver fatto tappa a Torino e quindi a Milano. Un’avventura straordinaria, per i tempi.
Infine, il ritorno nelle collezioni granducali, non più agli Uffizi ma a Palazzo Pitti nella Sala di Marte il 21 febbraio 1816: segno visibile della Restaurazione, con sommo gaudio de l granduca Ferdinando III.
Napoleone li rubò, Canova li riportò a casa
La nuova vita dei capolavori recuperati
Duecento anni fa tornarono in Italia le opere sottratte dalla Francia, ora riunite in mostra
di Paolo Conti
È il 4 gennaio 1816 e il «Diario di Roma», il giornale politico dello Stato Pontificio, scrive: «Giunsero in questa Capitale diversi carri contenenti vari dei migliori capi d’opera in Pittura e Scultura, che con trasporto di giubilo e per il Bene delle Arti, ritornano ad associarsi a questi Monumenti Romani, vale a dire a quel centro di riunione ch’è il solo capace di formare gli Artisti e d’inspirar loro la sublimità de’ concetti. Questo avvenimento ha eccitato il più grande entusiasmo del Popolo Romano». È una delle tante cronache del ritorno nei diversi Stati italiani preunitari delle splendide opere d’arte sottratte tra il 1796 e il 1814 nella penisola italiana per volere di Napoleone Bonaparte.
Sullo sfondo, il progetto di un Louvre che fosse Museo Universale, apoteosi culturale del nuovo ordine imperiale napoleonico, simbolo estetico delle sue conquiste territoriali. Da Roma partono persino opere monumentali e delicatissime come il Laocoonte e l’ Apollo del Belvedere . Caduto l’Empereur, i diversi Stati italiani ottengono, nel Congresso di Vienna, la restituzione dei loro capolavori, che rientrano nel 1816. Sono passati duecento anni e le Scuderie del Quirinale a Roma propongono da domani, 16 dicembre, e fino al 12 marzo 2017 la mostra Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova a cura di Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce. L’accostamento di Canova a Napoleone è una delle chiavi della rassegna: fu il grande scultore, come commissario dello Stato Pontificio, a organizzare da Parigi il rientro delle opere romane. Il Laocoonte rischiò danni irreparabili, cadendo sul ghiaccio del Moncenisio dalla carrozza che lo trasportava.
La mostra offre autentici capolavori. Il vero divo sarà sicuramente Raffaello, col suo Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de' Rossi , che arriva con un prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi. E poi ecco La strage degli innocenti di Guido Reni dalla Pinacoteca di Bologna, l’immensa Assunzione della Vergine di Tiziano dal Duomo di Verona, il Compianto sul Cristo morto di Correggio e la Deposizione di Annibale Carracci dalla Galleria nazionale di Parma, la Cattedra di San Pietro del Guercino dalla Pinacoteca di Cento, il Battista tra i Quattro Santi di Perugino dalla Galleria nazionale dell’Umbria. E poi verranno esposti due capolavori della statuaria classica come la Venere Capitolina dai Musei Capitolini e il Giove di Otricoli dai Musei Vaticani.
La diversa provenienza geografica intende testimoniare, nelle intenzioni dei curatori, non solo la quantità e la qualità delle opere disseminate in Italia (testimonianza di una produzione artistica fertile in ogni regione) ma anche l’effetto prodotto da quel rientro: molte opere, dopo essere state conservate in depositi organizzati sull’onda dell’emergenza del ritorno, non vennero ricollocate nel loro contesto originario ma dettero vita, a loro volta, a molti musei moderni italiani, così come li conosciamo ora, proprio sul modello ideale del Louvre. Per esempio il definitivo arricchimento della Pinacoteca di Brera a Milano voluta proprio da Napoleone nel 1805, la creazione della Galleria Nazionale dell’Umbria, o le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Pinacoteca di Bologna. Tutti musei pubblici figli dei tempi ormai cambiati per sempre.
La mostra segna l’esordio delle «nuove» Scuderie del Quirinale, spazio espositivo autonomo ormai sganciato dall’Azienda speciale Palaexpo (che lo ha gestito fino a settembre e ha avviato la preparazione dell’evento). Le Scuderie del Quirinale sono state affidate dalla presidenza della Repubblica al ministero per i Beni e le attività culturali e quindi ad Ales, la società in-house del ministero, presieduta da Mario De Simoni. Il progetto è farne una sorta di Grand Palais italiano, il punto di riferimento delle grandi mostre temporanee di respiro nazionale.
Spiega De Simoni:«Dopo i grandi successi registrati negli anni scorsi, il ministero punta a stabilire un’alleanza organica tra le Scuderie e il sistema museale italiano. Parliamo di uno spazio di enorme prestigio, di superbo posizionamento nel cuore di Roma ma privo ovviamente di una propria collezione. Questo elemento solo apparentemente di debolezza può essere brillantemente superato inserendo le Scuderie in un circuito espositivo nazionale ma ovviamente di respiro internazionale. Faccio un esempio concreto proprio parlando del Grand Palais. Molte grandi mostre organizzate dal Louvre, come quella dello scorso anno sul Velàzquez, sono state allestite al Grand Palais con un accordo con La Réunion des musées nationaux, ovviamente il Grand Palais e il musée du Louvre di Parigi e il Kunsthistorisches Museum di Vienna».
Intanto Raffaello con Leone X accoglieranno i visitatori alle Scuderie. Ed è già un magnifico esordio, visto che si tratta di uno dei pezzi più importanti dei 63 selezionati nella collezione granducale toscana, tra il marzo e l’aprile 1799, dal pittore Jean Baptiste Wicar e destinati a far parte del futuro Musée Napoléon al Louvre. Proprio Leone X apriva, nel 1804, l’elenco dei dipinti di Raffaello nel catalogo del nuovo museo parigino. Caduto l’Impero, il ritratto di Leone X venne incluso nella seconda spedizione di rientro da Parigi in Italia. Partì dal Louvre il 23 ottobre 1815 e arrivò a Firenze il 27 dicembre dopo aver passato (come il Laocoonte ) il passo del Moncenisio, aver fatto tappa a Torino e quindi a Milano. Un’avventura straordinaria, per i tempi.
Infine, il ritorno nelle collezioni granducali, non più agli Uffizi ma a Palazzo Pitti nella Sala di Marte il 21 febbraio 1816: segno visibile della Restaurazione, con sommo gaudio de l granduca Ferdinando III.
Corriere 15.12.16
Pechino e Taiwan La storia di due Cine
risponde Sergio Romano
Il governo cinese ha tirato le orecchie al presidente eletto statunitense Donald Trump perché avrebbe risposto a una telefonata di congratulazioni della presidente di Taiwan, un piccolo Paese, ma ricco e sviluppato. Pechino, si sa, rivendica da tempo il possesso di quell’isola-Stato. Non stupisce più che i cinesi reagiscano; stupisce invece che gli Stati Uniti sostengano militarmente un Paese come Taiwan che formalmente non riconoscono da decenni, al punto da esporsi moltissimo con la seconda potenza economica (e militare?) mondiale. Mi può aiutare a capire se diplomazia, soprattutto in casi come questo, faccia rima con ipocrisia?
Fabrizio Amadori
Caro Amadori,
Non credo che esistano rischi particolari. Dopo la nascita della Repubblica popolare cinese nel 1949, gli Stati Uniti riconobbero formalmente l’esistenza di una Cina in esilio nell’isola di Formosa (come era stata chiamata dai portoghesi nel XVI secolo) e le permisero di avere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza sino a quando sperarono di potere isolare e indebolire il regime comunista di Pechino. Quando la guerra del Vietnam, l’influenza di Henry Kissinger su Richard Nixon e il consolidamento della Repubblica popolare indussero Washington a modificare la propria linea, fu subito chiaro che la Cina continentale, sostenuta da altri Paesi, avrebbe preteso il seggio del Consiglio di sicurezza. Dopo qualche iniziale resistenza, gli Stati Uniti permisero che una mozione dell’Onu, nell’ottobre del 1971, privasse Taiwan del suo seggio. Conservarono fino al 1978 il Patto di reciproca sicurezza che avevano stipulato con Taiwan nel 1954 e lo denunciarono soltanto quando decisero di stabilire con Pechino rapporti stabili e formali nel 1978. Ma non smisero, anche negli anni seguenti, di trattare l’isola come un alleato, di proteggerla con la Settima flotta e di garantirle forniture militari che l’avrebbero difesa da un attacco improvviso.
I cinesi furono realisti e capirono che non sarebbe stato né semplice né opportuno impadronirsi di Taiwan con un colpo di mano. Naturalmente la loro politica cambierebbe se il nuovo presidente americano modificasse sostanzialmente la linea degli Stati Uniti. Ma ho l’impressione che per il momento si tratti soltanto di schermaglie e improvvisazioni nello stile di Donald Trump. Aggiungo soltanto una curiosità. Negli ultimi decenni Taiwan ha perduto il riconoscimento internazionale delle maggiori potenze e, più recentemente, anche quello della Santa Sede, a cui preme soprattutto stabilire rapporti formali con Pechino. Ma l’isola è ancora riconosciuta come Cina da un nugolo di piccoli e piccolissimi Stati fra cui, salvo mutamenti degli ultimi tempi, sei in Oceania, tre in Africa, sei nell’America centrale, cinque nei Caraibi e uno nell’America del Sud (Paraguay).
Pechino e Taiwan La storia di due Cine
risponde Sergio Romano
Il governo cinese ha tirato le orecchie al presidente eletto statunitense Donald Trump perché avrebbe risposto a una telefonata di congratulazioni della presidente di Taiwan, un piccolo Paese, ma ricco e sviluppato. Pechino, si sa, rivendica da tempo il possesso di quell’isola-Stato. Non stupisce più che i cinesi reagiscano; stupisce invece che gli Stati Uniti sostengano militarmente un Paese come Taiwan che formalmente non riconoscono da decenni, al punto da esporsi moltissimo con la seconda potenza economica (e militare?) mondiale. Mi può aiutare a capire se diplomazia, soprattutto in casi come questo, faccia rima con ipocrisia?
Fabrizio Amadori
Caro Amadori,
Non credo che esistano rischi particolari. Dopo la nascita della Repubblica popolare cinese nel 1949, gli Stati Uniti riconobbero formalmente l’esistenza di una Cina in esilio nell’isola di Formosa (come era stata chiamata dai portoghesi nel XVI secolo) e le permisero di avere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza sino a quando sperarono di potere isolare e indebolire il regime comunista di Pechino. Quando la guerra del Vietnam, l’influenza di Henry Kissinger su Richard Nixon e il consolidamento della Repubblica popolare indussero Washington a modificare la propria linea, fu subito chiaro che la Cina continentale, sostenuta da altri Paesi, avrebbe preteso il seggio del Consiglio di sicurezza. Dopo qualche iniziale resistenza, gli Stati Uniti permisero che una mozione dell’Onu, nell’ottobre del 1971, privasse Taiwan del suo seggio. Conservarono fino al 1978 il Patto di reciproca sicurezza che avevano stipulato con Taiwan nel 1954 e lo denunciarono soltanto quando decisero di stabilire con Pechino rapporti stabili e formali nel 1978. Ma non smisero, anche negli anni seguenti, di trattare l’isola come un alleato, di proteggerla con la Settima flotta e di garantirle forniture militari che l’avrebbero difesa da un attacco improvviso.
I cinesi furono realisti e capirono che non sarebbe stato né semplice né opportuno impadronirsi di Taiwan con un colpo di mano. Naturalmente la loro politica cambierebbe se il nuovo presidente americano modificasse sostanzialmente la linea degli Stati Uniti. Ma ho l’impressione che per il momento si tratti soltanto di schermaglie e improvvisazioni nello stile di Donald Trump. Aggiungo soltanto una curiosità. Negli ultimi decenni Taiwan ha perduto il riconoscimento internazionale delle maggiori potenze e, più recentemente, anche quello della Santa Sede, a cui preme soprattutto stabilire rapporti formali con Pechino. Ma l’isola è ancora riconosciuta come Cina da un nugolo di piccoli e piccolissimi Stati fra cui, salvo mutamenti degli ultimi tempi, sei in Oceania, tre in Africa, sei nell’America centrale, cinque nei Caraibi e uno nell’America del Sud (Paraguay).
il manifesto 15.12.16
Tutti gli stratagemmi della «Trumpsistance»
American Psycho. Con l’elezione di Donald Trump alla presidenza, aumentano proteste, eventi e «autodifese». In prima fila ci sono le donne americane
di Marina Catucci
NEW YORK L’elezione del nuovo presidente degli Stati uniti ha prodotto un’ondata di neologismi: l’ultimo arrivato è Trumpsistance, una crasi tra «Trump» e «Resistance», ovvero «resistenza a Trump». Sin dal giorno immediatamente successivo all’elezione, le strade delle principali città americane, New York in testa, si sono riempite di cortei spontanei che hanno visto sfilare migliaia di persone, mentre le donazioni ad enti non governativi che proteggono i diritti civili hanno assistito a un picco inusitato di offerte.
Con il passare delle settimane e l’avvicinamento al 20 gennaio, giorno del giuramento e del passaggio di consegne tra l’amministrazione Obama e quella Trump, la protesta è diventata Trumpsistance e ha preso una forma nuova.
PROTESTE E MANIFESTAZIONI di dissenso in America si sono evolute negli ultimi 20 anni, da NotInOurName (Nion) che nell’era di Bush jr era riuscita a portare più di un milione di persone per strada per dire no alla guerra, nell’epoca di una mobilitazione mondiale contro interventi armati e globalizzazione, la prima delle quali, il 15 febbraio del 2003 aveva avuto come epicentro New York, fino ai movimenti recenti di Occupy Wall Street e Black Lives Matter.
Se Nion cercava sempre, tramite il sito, di coordinarsi in modo globale mirando a manifestazioni trasversali nel globo, Occupy si organizzava comunicando all’ultimo momento luoghi, percorsi e azioni previste in giro per la città in modo da sorprendere e disperdere la polizia di Bloomberg che li vedeva come il fumo negli occhi. Black Lives Matter, invece, agisce in modo ancora diverso; le manifestazioni di Blm scaturiscono da tristi eventi di cronaca che vedono cittadini afroamericani vittime della violenza razzista, come nel caso del sedicenne Trayvon Martin, o della polizia, come in innumerevoli altri casi.
LA TRUMPSISTANCE è un’altra cosa ancora, perché si ripropone di essere capillare, continua, puntuale, onnipresente e per questo stanno nascendo calendari, serie di appuntamenti che vengono resi noti con largo anticipo e molto pubblicizzati. Il più importante tra questi è di sicuro la «Million Women March», corteo di donne contro Trump di cui si parla già da settimane e che è prevista a Washington il 21 gennaio, giorno successivo all’insediamento.
Ma non solo Washington, perché per chi non può andare nella capitale, sono previste manifestazioni in altre città e cortei simili spuntano in tutto il paese, previsti per lo stesso giorno. Un altro evento di Trumpsistance femminile si è appena svolto a New York lunedì 12 dicembre: migliaia di donne di tutte le età hanno marciato dal Trump International Hotel alla Trump Tower in segno di protesta contro il presidente eletto e le posizioni della sua nascente amministrazione riguardo i diritti delle donne. La marcia era parte di una campagna nazionale; ci sono state marce simili in molte città, tra cui Los Angeles, Portland, Houston. Secondo la pagina Facebook, la campagna mira a condannare «ogni tentativo di erodere i diritti delle donne e di altri gruppi vulnerabili». A New York la marcia è iniziata a mezzogiorno con un intervento di Eve Ensler, l’attivista femminista e autrice di «I monologhi della vagina».
ENSLER HA INVITATO LA FOLLA a «stare in piedi e portare avanti questa rivolta e a protestare, proteggere, pianificare, profetizzare». Per il 19 dicembre, giorno del voto dei delegati al presidente, sono previste manifestazioni davanti alle varie Trump Tower disseminate in giro per l’America, giusto per ribadire che l’agenda che si va formando non è supinamente accettata da tutta la popolazione americana.
Anche i benefit, le raccolte di fondi per sostenere le realtà resistenti si moltiplicano, come quelle a sostegno dei Sioux di Standing Rock, visto che il corpo degli ingegneri dell’esercito ha già annunciato che farà passare per altre vie l’accesso alla Dakota Pipeline. Alla luce di questa dichiarazione i manifestanti sono rimasti sul posto, a Standing Rock, consapevoli del fatto che la lotta per impedire di far passare la pipeline attraverso le terre dei nativi non è terminata, e hanno bisogno di esser sostenuti. Molti di questi benefit per Standing Rock sono imponenti ed intervengono artisti del calibro della super star di Broadway Lin-Manuel Miranda, cosí come per i benefit a sostegno dei Planned Parenthood, consultori familiari abilitati a praticare aborti, fortemente osteggiati da chiunque nell’amministrazione Trump.
LO SLOGAN REDS NEED GREEN, «il rosso ha bisogno del verde», riassume il vivificato socialismo americano, organizzatore di corsi di resistenza ambientalista e in procinto di pianificare una serie di scioperi dei consumi in concomitanza con ogni votazione che coinvolgerà scelte ambientali.
Ma forse uno degli aspetti più interessanti della Trumpsistance riguarda un percorso formativo nuovo, più che le manifestazioni di piazza. In giro per gli Usa, specie nelle librerie, si stanno organizzando corsi per imparare a reagire in modo efficace e non violento se ci si ritrova ad assistere ad un caso di molestie razziste, xenofobe, in modo da sapere come operare una de-escalation senza ricorrere alla violenza e far sentire protetta la vittima dell’attacco.
Tutti gli stratagemmi della «Trumpsistance»
American Psycho. Con l’elezione di Donald Trump alla presidenza, aumentano proteste, eventi e «autodifese». In prima fila ci sono le donne americane
di Marina Catucci
NEW YORK L’elezione del nuovo presidente degli Stati uniti ha prodotto un’ondata di neologismi: l’ultimo arrivato è Trumpsistance, una crasi tra «Trump» e «Resistance», ovvero «resistenza a Trump». Sin dal giorno immediatamente successivo all’elezione, le strade delle principali città americane, New York in testa, si sono riempite di cortei spontanei che hanno visto sfilare migliaia di persone, mentre le donazioni ad enti non governativi che proteggono i diritti civili hanno assistito a un picco inusitato di offerte.
Con il passare delle settimane e l’avvicinamento al 20 gennaio, giorno del giuramento e del passaggio di consegne tra l’amministrazione Obama e quella Trump, la protesta è diventata Trumpsistance e ha preso una forma nuova.
PROTESTE E MANIFESTAZIONI di dissenso in America si sono evolute negli ultimi 20 anni, da NotInOurName (Nion) che nell’era di Bush jr era riuscita a portare più di un milione di persone per strada per dire no alla guerra, nell’epoca di una mobilitazione mondiale contro interventi armati e globalizzazione, la prima delle quali, il 15 febbraio del 2003 aveva avuto come epicentro New York, fino ai movimenti recenti di Occupy Wall Street e Black Lives Matter.
Se Nion cercava sempre, tramite il sito, di coordinarsi in modo globale mirando a manifestazioni trasversali nel globo, Occupy si organizzava comunicando all’ultimo momento luoghi, percorsi e azioni previste in giro per la città in modo da sorprendere e disperdere la polizia di Bloomberg che li vedeva come il fumo negli occhi. Black Lives Matter, invece, agisce in modo ancora diverso; le manifestazioni di Blm scaturiscono da tristi eventi di cronaca che vedono cittadini afroamericani vittime della violenza razzista, come nel caso del sedicenne Trayvon Martin, o della polizia, come in innumerevoli altri casi.
LA TRUMPSISTANCE è un’altra cosa ancora, perché si ripropone di essere capillare, continua, puntuale, onnipresente e per questo stanno nascendo calendari, serie di appuntamenti che vengono resi noti con largo anticipo e molto pubblicizzati. Il più importante tra questi è di sicuro la «Million Women March», corteo di donne contro Trump di cui si parla già da settimane e che è prevista a Washington il 21 gennaio, giorno successivo all’insediamento.
Ma non solo Washington, perché per chi non può andare nella capitale, sono previste manifestazioni in altre città e cortei simili spuntano in tutto il paese, previsti per lo stesso giorno. Un altro evento di Trumpsistance femminile si è appena svolto a New York lunedì 12 dicembre: migliaia di donne di tutte le età hanno marciato dal Trump International Hotel alla Trump Tower in segno di protesta contro il presidente eletto e le posizioni della sua nascente amministrazione riguardo i diritti delle donne. La marcia era parte di una campagna nazionale; ci sono state marce simili in molte città, tra cui Los Angeles, Portland, Houston. Secondo la pagina Facebook, la campagna mira a condannare «ogni tentativo di erodere i diritti delle donne e di altri gruppi vulnerabili». A New York la marcia è iniziata a mezzogiorno con un intervento di Eve Ensler, l’attivista femminista e autrice di «I monologhi della vagina».
ENSLER HA INVITATO LA FOLLA a «stare in piedi e portare avanti questa rivolta e a protestare, proteggere, pianificare, profetizzare». Per il 19 dicembre, giorno del voto dei delegati al presidente, sono previste manifestazioni davanti alle varie Trump Tower disseminate in giro per l’America, giusto per ribadire che l’agenda che si va formando non è supinamente accettata da tutta la popolazione americana.
Anche i benefit, le raccolte di fondi per sostenere le realtà resistenti si moltiplicano, come quelle a sostegno dei Sioux di Standing Rock, visto che il corpo degli ingegneri dell’esercito ha già annunciato che farà passare per altre vie l’accesso alla Dakota Pipeline. Alla luce di questa dichiarazione i manifestanti sono rimasti sul posto, a Standing Rock, consapevoli del fatto che la lotta per impedire di far passare la pipeline attraverso le terre dei nativi non è terminata, e hanno bisogno di esser sostenuti. Molti di questi benefit per Standing Rock sono imponenti ed intervengono artisti del calibro della super star di Broadway Lin-Manuel Miranda, cosí come per i benefit a sostegno dei Planned Parenthood, consultori familiari abilitati a praticare aborti, fortemente osteggiati da chiunque nell’amministrazione Trump.
LO SLOGAN REDS NEED GREEN, «il rosso ha bisogno del verde», riassume il vivificato socialismo americano, organizzatore di corsi di resistenza ambientalista e in procinto di pianificare una serie di scioperi dei consumi in concomitanza con ogni votazione che coinvolgerà scelte ambientali.
Ma forse uno degli aspetti più interessanti della Trumpsistance riguarda un percorso formativo nuovo, più che le manifestazioni di piazza. In giro per gli Usa, specie nelle librerie, si stanno organizzando corsi per imparare a reagire in modo efficace e non violento se ci si ritrova ad assistere ad un caso di molestie razziste, xenofobe, in modo da sapere come operare una de-escalation senza ricorrere alla violenza e far sentire protetta la vittima dell’attacco.
Corriere 15.12.16
Silicon Valley in processione da Trump
I giganti dell’economia digitale siglano la tregua col neopresidente
E Bill Gates lo paragona a Kennedy
di Massimo Gaggi
NEW YORK S olo qualche mese fa Donald Trump era il nemico giurato delle imprese digitali: minacciava boicottaggi contro Apple, attaccava il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, reo di incalzarlo sulla questione degli immigrati (la Silicon Valley ha un gran bisogno di ingegneri e matematici stranieri). E Jeff Bezos, gran capo di Amazon ma anche del Washington Post , schierato contro il candidato repubblicano, veniva minacciato di rappresaglie, qualora «The Donald» fosse diventato presidente.
Tutto dimenticato, almeno in apparenza. Ieri il neopresidente ha accolto festoso la processione dei top manager della tecnologia venuti a rendergli omaggio nella Trump Tower: «Sono qui per aiutarvi. Siete gente straordinaria». Tra il presidente conservatore e populista e l’industria del futuro, da sempre schierata coi democratici, se non è scoppiata la pace, è forse arrivato il tempo dell’armistizio.
Ben ricordando come, alla vigilia del voto, 140 personalità della Silicon Valley guidate dal cofondatore della Apple, Steve Wozniack, avessero firmato un appello che definiva l’eventuale presidenza Trump «un disastro per l’innovazione», il neopresidente aveva escluso le imprese di questo settore (salvo la «vecchia» Ibm) dal comitato dei suoi consiglieri strategici per l’industria. Poi l’invito ai manager dell’hi-tech ad un incontro una tantum coi collaboratori del presidente eletto per illustrare i loro problemi. I giganti digitali sono stati tentati di mandare figure di secondo piano. Poi ha prevalso il pragmatismo: prima l’incontro di martedì di Trump con Bill Gates. Col fondatore di Microsoft che alla fine ha parlato del neopresidente conservatore come di un nuovo, potenziale John Kennedy: «Un presidente che ha la possibilità di ristabilire la leadership americana attraverso l’innovazione». Ieri pomeriggio, poi, sono arrivati alla Trump Tower Tim Cook di Apple, il fondatore di Google, Larry Page, e quello di Amazon Jeff Bezos, Elon Musk di Tesla e, ancora, l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella e quelli di Cisco Systems, Intel, Oracle, Ibm e altre aziende ancora. Solo due grandi assenti: Mark Zuckerberg (ma Facebook è stata comunque rappresentata dalla numero 2 e plenipotenziaria politica Sheryl Sandberg) e Jack Dorsey, il fondatore di Twitter. Forse in imbarazzo nel ruolo di inventore del trampolino che ha lanciato Trump verso la Casa Bianca.
È presto per dire se queste imprese, già dimenticato il loro passato obamiano, avranno una collaborazione proficua con l’Amministrazione Trump. Certamente ieri si è discusso dei temi che uniscono — le tasse — più di quelli che dividono. Il neopresidente ha promesso a queste imprese di facilitare i loro scambi internazionali. Quanto al Fisco, l’intenzione di Trump di ridurre l’imposta sugli utili d’impresa dal 35 al 15 per cento — anche per favorire il rimpatrio dei profitti congelati dalle multinazionali nelle loro filiali estere — non può non piacere alle società della Silicon Valley.
Un segnale Trump l’ha dato anche riaprendo il suo consiglio industriale che aveva riempito di finanzieri di Wall Street e rappresentanti di industrie tradizionali come la General Motors: ora l’ha allargato a Indra Nooyi, la manager indiana che guida la Pepsi, e a due personaggi della Silicon Valley. Google e Facebook, aziende molto attive nell’uso delle «porte girevoli» nell’era Obama, per ora restano fuori. Trump ha scelto due personaggi emersi più di recente: Travis Kalanick di Uber e Elon Musk di Tesla. Uno che di certo non era stato tenero col tycoon entrato in politica.
Silicon Valley in processione da Trump
I giganti dell’economia digitale siglano la tregua col neopresidente
E Bill Gates lo paragona a Kennedy
di Massimo Gaggi
NEW YORK S olo qualche mese fa Donald Trump era il nemico giurato delle imprese digitali: minacciava boicottaggi contro Apple, attaccava il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, reo di incalzarlo sulla questione degli immigrati (la Silicon Valley ha un gran bisogno di ingegneri e matematici stranieri). E Jeff Bezos, gran capo di Amazon ma anche del Washington Post , schierato contro il candidato repubblicano, veniva minacciato di rappresaglie, qualora «The Donald» fosse diventato presidente.
Tutto dimenticato, almeno in apparenza. Ieri il neopresidente ha accolto festoso la processione dei top manager della tecnologia venuti a rendergli omaggio nella Trump Tower: «Sono qui per aiutarvi. Siete gente straordinaria». Tra il presidente conservatore e populista e l’industria del futuro, da sempre schierata coi democratici, se non è scoppiata la pace, è forse arrivato il tempo dell’armistizio.
Ben ricordando come, alla vigilia del voto, 140 personalità della Silicon Valley guidate dal cofondatore della Apple, Steve Wozniack, avessero firmato un appello che definiva l’eventuale presidenza Trump «un disastro per l’innovazione», il neopresidente aveva escluso le imprese di questo settore (salvo la «vecchia» Ibm) dal comitato dei suoi consiglieri strategici per l’industria. Poi l’invito ai manager dell’hi-tech ad un incontro una tantum coi collaboratori del presidente eletto per illustrare i loro problemi. I giganti digitali sono stati tentati di mandare figure di secondo piano. Poi ha prevalso il pragmatismo: prima l’incontro di martedì di Trump con Bill Gates. Col fondatore di Microsoft che alla fine ha parlato del neopresidente conservatore come di un nuovo, potenziale John Kennedy: «Un presidente che ha la possibilità di ristabilire la leadership americana attraverso l’innovazione». Ieri pomeriggio, poi, sono arrivati alla Trump Tower Tim Cook di Apple, il fondatore di Google, Larry Page, e quello di Amazon Jeff Bezos, Elon Musk di Tesla e, ancora, l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella e quelli di Cisco Systems, Intel, Oracle, Ibm e altre aziende ancora. Solo due grandi assenti: Mark Zuckerberg (ma Facebook è stata comunque rappresentata dalla numero 2 e plenipotenziaria politica Sheryl Sandberg) e Jack Dorsey, il fondatore di Twitter. Forse in imbarazzo nel ruolo di inventore del trampolino che ha lanciato Trump verso la Casa Bianca.
È presto per dire se queste imprese, già dimenticato il loro passato obamiano, avranno una collaborazione proficua con l’Amministrazione Trump. Certamente ieri si è discusso dei temi che uniscono — le tasse — più di quelli che dividono. Il neopresidente ha promesso a queste imprese di facilitare i loro scambi internazionali. Quanto al Fisco, l’intenzione di Trump di ridurre l’imposta sugli utili d’impresa dal 35 al 15 per cento — anche per favorire il rimpatrio dei profitti congelati dalle multinazionali nelle loro filiali estere — non può non piacere alle società della Silicon Valley.
Un segnale Trump l’ha dato anche riaprendo il suo consiglio industriale che aveva riempito di finanzieri di Wall Street e rappresentanti di industrie tradizionali come la General Motors: ora l’ha allargato a Indra Nooyi, la manager indiana che guida la Pepsi, e a due personaggi della Silicon Valley. Google e Facebook, aziende molto attive nell’uso delle «porte girevoli» nell’era Obama, per ora restano fuori. Trump ha scelto due personaggi emersi più di recente: Travis Kalanick di Uber e Elon Musk di Tesla. Uno che di certo non era stato tenero col tycoon entrato in politica.
il manifesto 15.12.16
Atene ricattata dall’Eurogruppo: congelato l’accordo sul debito
I falchi dell'austerity . Nel mirino i provvedimenti del governo Tsipras: aumento delle pensioni e sgravi alle isole per l'accoglienza ai migranti
di Teodoro Andreadis Synghellakis, Fabio Veronica Forcella
La notizia è di quelle che lascia, praticamente, senza parole. L’Eurogruppo ha deciso di rimangiarsi la parola data il 5 dicembre, quando è stato raggiunto l’accordo sul parziale alleggerimento del debito greco, con l’allungamento delle scadenze e tassi di interesse più bassi. Ora, questa decisione viene congelata, praticamente per punire la Grecia e il governo di Alexis Tsipras, che ha annunciato un aumento delle pensioni più basse.
Una settimana fa, infatti il leader di Syriza aveva annunciato che più di 600 milioni di euro dell’avanzo primario verranno redistribuiti a 1 milione e 600 mila pensionati con reddito inferiore a 800 euro al mese. Una misura resa possibile dal superamento degli obiettivi fissati assieme ai creditori: l’avanzo primario dello Stato greco, per quest’ anno, si sarebbe dovuto attestare allo 0,5%, mentre, alla fine, si è riusciti ad arrivare all’1,9%. E quindi Tsipras ha deciso di usarne una parte per sostenere chi è a rischio di esclusione sociale o è di fatto sotto la soglia della povertà, dopo sette anni di durissima crisi.
Nonostante questo, i ministri delle finanze dell’Euro, hanno deciso di mettersi di traverso, intervenendo pesantemente e limitando – ancora una volta – l’autonomia di iniziativa politica del governo di Atene. Michel Reijns, portavoce del presidente dell’Eurogruppo, ha reso noto tramite twitter che «le istituzioni creditrici sono arrivate alla conclusione che le azioni del governo greco sembrano non essere in linea con gli accordi». Ha aggiunto, inoltre, che anche alcuni Stati membri vedono la questione in questo modo e quindi, al momento, non c’è unanimità per applicare le misure a breve termine sul debito». Il tutto viene congelato sino a gennaio, «in attesa di un rapporto dettagliato delle istituzioni creditrici».
Si tratta, praticamente, dell’ennesimo ricatto politico. Nel momento in cui la Grecia cerca di ripartire, con previsioni di crescita del Pil del 2,7% per il 2017, i falchi provano a bloccare qualunque misura concreta che possa rafforzare le politiche sociali. Tsipras ha sempre ripetuto, negli ultimi giorni, che nessuno può dire alla Grecia come usare i soldi delle sue casse pubbliche, dal momento che gli obiettivi pattuiti con i creditori sono stati rispettati e ampiamente superati. Ci si aspetta, tra l’altro, che affronti l’argomento nei colloqui che avrà con molti leader europei nel vertice dei capi di Stato e di governo oggi a Bruxelles e ovviamente domani, nell’incontro bilaterale che avrà a Berlino con Angela Merkel.
Oltre agli aiuti ai pensionati più poveri, il primo ministro greco si è anche impegnato a rimandare l’aumento dell’Iva nelle isole dell’Egeo che più hanno contribuito, in questi mesi, ad affrontare l’emergenza profughi. Molti esponenti del centrodestra greco, tuttavia, avevano criticato, nei giorni scorsi, le misure del governo, lasciando intendere che avrebbero potuto innervosire i partner. Una posizione fortemente condannata da Tsipras, ma che potrebbe spiegare, alla luce delle alleanze europee in campo conservatore, la reazione – ai limiti dell’intromissione – di alcuni governi formati da partiti che appartengono all’area del Partito popolare europeo.
In tutto ciò, c’è in ballo anche la conclusione della seconda valutazione, da parte dei creditori, su come la Grecia ha applicato le misure pattuite nell’estate del 2015. Come mezzo di ulteriore pressione, potrebbe slittare, per non permettere ad Atene di usufruire del Quantitative Easing, di tornare sui mercati e stabilizzare la ripresa. Il fronte dell’austerity, continua a cercare di andare all’offensiva, incurante degli enormi danni già causati.
Atene ricattata dall’Eurogruppo: congelato l’accordo sul debito
I falchi dell'austerity . Nel mirino i provvedimenti del governo Tsipras: aumento delle pensioni e sgravi alle isole per l'accoglienza ai migranti
di Teodoro Andreadis Synghellakis, Fabio Veronica Forcella
La notizia è di quelle che lascia, praticamente, senza parole. L’Eurogruppo ha deciso di rimangiarsi la parola data il 5 dicembre, quando è stato raggiunto l’accordo sul parziale alleggerimento del debito greco, con l’allungamento delle scadenze e tassi di interesse più bassi. Ora, questa decisione viene congelata, praticamente per punire la Grecia e il governo di Alexis Tsipras, che ha annunciato un aumento delle pensioni più basse.
Una settimana fa, infatti il leader di Syriza aveva annunciato che più di 600 milioni di euro dell’avanzo primario verranno redistribuiti a 1 milione e 600 mila pensionati con reddito inferiore a 800 euro al mese. Una misura resa possibile dal superamento degli obiettivi fissati assieme ai creditori: l’avanzo primario dello Stato greco, per quest’ anno, si sarebbe dovuto attestare allo 0,5%, mentre, alla fine, si è riusciti ad arrivare all’1,9%. E quindi Tsipras ha deciso di usarne una parte per sostenere chi è a rischio di esclusione sociale o è di fatto sotto la soglia della povertà, dopo sette anni di durissima crisi.
Nonostante questo, i ministri delle finanze dell’Euro, hanno deciso di mettersi di traverso, intervenendo pesantemente e limitando – ancora una volta – l’autonomia di iniziativa politica del governo di Atene. Michel Reijns, portavoce del presidente dell’Eurogruppo, ha reso noto tramite twitter che «le istituzioni creditrici sono arrivate alla conclusione che le azioni del governo greco sembrano non essere in linea con gli accordi». Ha aggiunto, inoltre, che anche alcuni Stati membri vedono la questione in questo modo e quindi, al momento, non c’è unanimità per applicare le misure a breve termine sul debito». Il tutto viene congelato sino a gennaio, «in attesa di un rapporto dettagliato delle istituzioni creditrici».
Si tratta, praticamente, dell’ennesimo ricatto politico. Nel momento in cui la Grecia cerca di ripartire, con previsioni di crescita del Pil del 2,7% per il 2017, i falchi provano a bloccare qualunque misura concreta che possa rafforzare le politiche sociali. Tsipras ha sempre ripetuto, negli ultimi giorni, che nessuno può dire alla Grecia come usare i soldi delle sue casse pubbliche, dal momento che gli obiettivi pattuiti con i creditori sono stati rispettati e ampiamente superati. Ci si aspetta, tra l’altro, che affronti l’argomento nei colloqui che avrà con molti leader europei nel vertice dei capi di Stato e di governo oggi a Bruxelles e ovviamente domani, nell’incontro bilaterale che avrà a Berlino con Angela Merkel.
Oltre agli aiuti ai pensionati più poveri, il primo ministro greco si è anche impegnato a rimandare l’aumento dell’Iva nelle isole dell’Egeo che più hanno contribuito, in questi mesi, ad affrontare l’emergenza profughi. Molti esponenti del centrodestra greco, tuttavia, avevano criticato, nei giorni scorsi, le misure del governo, lasciando intendere che avrebbero potuto innervosire i partner. Una posizione fortemente condannata da Tsipras, ma che potrebbe spiegare, alla luce delle alleanze europee in campo conservatore, la reazione – ai limiti dell’intromissione – di alcuni governi formati da partiti che appartengono all’area del Partito popolare europeo.
In tutto ciò, c’è in ballo anche la conclusione della seconda valutazione, da parte dei creditori, su come la Grecia ha applicato le misure pattuite nell’estate del 2015. Come mezzo di ulteriore pressione, potrebbe slittare, per non permettere ad Atene di usufruire del Quantitative Easing, di tornare sui mercati e stabilizzare la ripresa. Il fronte dell’austerity, continua a cercare di andare all’offensiva, incurante degli enormi danni già causati.
Il Sole 15.12.16
Grecia, sospesi gli aiuti sul debito
Decisione dell’Eurogruppo dopo che Tsipras ha concesso un bonus natalizio alle pensioni minime
La sfide dell’Europa. Sale la tensione tra Atene e i creditori mentre il Governo greco è sempre più tentato di andare al voto anticipato
di Beda Romano, Vittorio Da Rold
Con una decisione inattesa, i ministri delle Finanze della zona euro hanno annunciato ieri di avere sospeso le misure di alleggerimento del debito greco appena decise all’inizio del mese dopo un sofferto negoziato tra i Paesi membri dell’unione monetaria.
La decisione è giunta dopo che il governo Tsipras ha annunciato nei giorni scorsi misure di spesa pubblica che i creditori considerano incompatibili con il programma di aiuti finanziari. La Borsa di Atene ha chiuso ieri in forte ribasso (-3,2%).
In un tweet, il portavoce del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha spiegato ieri pomeriggio che agli occhi delle istituzioni creditizie le misure greche «appaiono non in linea con i nostri accordi». «Alcuni Paesi membri la vedono anche loro in questo modo». Non vi è quindi «in questo momento» l’unanimità per introdurre misure di breve termine relative al debito. «Aspettiamo in gennaio da parte delle istituzioni creditizie, una relazione completa» che chiarisca la situazione.
Nei giorni scorsi, il governo Tsipras ha promesso agli 1,6 milioni di pensionati bonus natalizi tra i 300 e gli 800 euro. Ha anche annunciato la sospensione dell’imposta sul valore aggiunto che doveva entrare in vigore in alcune isole dell’Egeo nelle quali sono arrivati molti rifugiati dal Vicino Oriente. Misure che l’Eurogruppo considera incompatibili con la promessa di alleggerire il debito, riducendo le necessità lorde di finanziamento dell’economia greca del 5% (si veda Il Sole 24 Ore del 6 dicembre).
Per ora, tutte queste misure sono state sospese. In un comunicato, un portavoce del Meccanismo europeo di Stabilità (Esm), ha spiegato che «le istituzioni creditizie stanno valutando l’impatto delle scelte greche rispetto agli impegni e agli obiettivi del programma» di aiuti finanziari di cui la Grecia è oggetto. Sempre ieri, da Berlino, un portavoce del governo aveva detto di aspettare «chiarezza» per capire se le misure annunciate da Atene fossero compatibili con il programma di aiuti finanziari.
La situazione è improvvisamente peggiorata ancora una volta quando il premier Alexis Tsipras - in forte calo di popolarità tra gli elettori, e sempre più isolato dopo le dimissioni di Matteo Renzi in Italia, la rinuncia a candidarsi alle presidenziali francesi di François Hollande e alla fine del mandato di Barack Obama, suoi stretti alleati in funzione anti-austerity - aveva promesso di allargare un po’i cordoni della borsa dopo sette anni di sacrifici che hanno prodotto manovre di austerità pari al 30% del Pil ellenico.
«La situazione sta migliorando - aveva detto in un discorso televisiovo al Paese - e il 2016 si chiuderà con un avanzo primario superiore alle attese». Questo piccolo “tesoretto” sarà destinato a garantire una tredicesima (precedentemente abolita) alle pensioni sotto gli 850 euro e a congelare l’aumento dell’Iva sulle isole dell’Egeo dove sono sbarcati i rifugiati che hanno, loro malgrado, parzialmente rovinato la stagione estiva di questi luoghi.
I creditori, presi in contropiede dalla mossa di Tsipras, si sono irrigiditi e i falchi del Nord Europa hanno promesso una risposta dura. I greci hanno visto nel varo di queste misure espansive una mossa politica della disperazione per rivitalizzare il consenso di Syriza (in calo nei sondaggi rispetto al centrodestra di Nea Demokratia) nell’ipotesi che si fa sempre più forte tra gli analisti locali che Tsipras, pur di non cedere ai creditori, chiami il paese al voto anticipato per l’ennesimo braccio di ferro con i creditori.
Oggi il governo ha deciso di mettere al voto in Parlamento il bonus pensionistico una tantum e il rinvio dell’aumento dell Iva nelle isole. Una decisione che ha messo in difficoltà Nea Dimokratia, il maggior partito di opposizione, che ha detto di essere pronto a votare a favore del provvedimento in Parlamento oggi per evitare di essere accusato di “affamare” i pensionati e di essre a favore delle politiche di austerità volute dalla troika.
Il Governo greco ha registrato un avanzo di bilancio primario di 7,45 miliardi di euro negli 11 mesi a novembre, battendo il suo obiettivo di 3,89 miliardi di euro grazie a maggiori entrate fiscali. Su questa base Tsipras ha deciso di usare 617 milioni di euro del “tesoretto” per pagare una tantum agli 1,6 milioni di pensionati e alleggerire l’austerità.
Le prossime settimane diranno se si andrà allo scontro o si troverà, come si augura il ministro delle Finanze greco Euclid Tsakalotos, un accordo accettabile per tutte le parti in causa.
Grecia, sospesi gli aiuti sul debito
Decisione dell’Eurogruppo dopo che Tsipras ha concesso un bonus natalizio alle pensioni minime
La sfide dell’Europa. Sale la tensione tra Atene e i creditori mentre il Governo greco è sempre più tentato di andare al voto anticipato
di Beda Romano, Vittorio Da Rold
Con una decisione inattesa, i ministri delle Finanze della zona euro hanno annunciato ieri di avere sospeso le misure di alleggerimento del debito greco appena decise all’inizio del mese dopo un sofferto negoziato tra i Paesi membri dell’unione monetaria.
La decisione è giunta dopo che il governo Tsipras ha annunciato nei giorni scorsi misure di spesa pubblica che i creditori considerano incompatibili con il programma di aiuti finanziari. La Borsa di Atene ha chiuso ieri in forte ribasso (-3,2%).
In un tweet, il portavoce del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha spiegato ieri pomeriggio che agli occhi delle istituzioni creditizie le misure greche «appaiono non in linea con i nostri accordi». «Alcuni Paesi membri la vedono anche loro in questo modo». Non vi è quindi «in questo momento» l’unanimità per introdurre misure di breve termine relative al debito. «Aspettiamo in gennaio da parte delle istituzioni creditizie, una relazione completa» che chiarisca la situazione.
Nei giorni scorsi, il governo Tsipras ha promesso agli 1,6 milioni di pensionati bonus natalizi tra i 300 e gli 800 euro. Ha anche annunciato la sospensione dell’imposta sul valore aggiunto che doveva entrare in vigore in alcune isole dell’Egeo nelle quali sono arrivati molti rifugiati dal Vicino Oriente. Misure che l’Eurogruppo considera incompatibili con la promessa di alleggerire il debito, riducendo le necessità lorde di finanziamento dell’economia greca del 5% (si veda Il Sole 24 Ore del 6 dicembre).
Per ora, tutte queste misure sono state sospese. In un comunicato, un portavoce del Meccanismo europeo di Stabilità (Esm), ha spiegato che «le istituzioni creditizie stanno valutando l’impatto delle scelte greche rispetto agli impegni e agli obiettivi del programma» di aiuti finanziari di cui la Grecia è oggetto. Sempre ieri, da Berlino, un portavoce del governo aveva detto di aspettare «chiarezza» per capire se le misure annunciate da Atene fossero compatibili con il programma di aiuti finanziari.
La situazione è improvvisamente peggiorata ancora una volta quando il premier Alexis Tsipras - in forte calo di popolarità tra gli elettori, e sempre più isolato dopo le dimissioni di Matteo Renzi in Italia, la rinuncia a candidarsi alle presidenziali francesi di François Hollande e alla fine del mandato di Barack Obama, suoi stretti alleati in funzione anti-austerity - aveva promesso di allargare un po’i cordoni della borsa dopo sette anni di sacrifici che hanno prodotto manovre di austerità pari al 30% del Pil ellenico.
«La situazione sta migliorando - aveva detto in un discorso televisiovo al Paese - e il 2016 si chiuderà con un avanzo primario superiore alle attese». Questo piccolo “tesoretto” sarà destinato a garantire una tredicesima (precedentemente abolita) alle pensioni sotto gli 850 euro e a congelare l’aumento dell’Iva sulle isole dell’Egeo dove sono sbarcati i rifugiati che hanno, loro malgrado, parzialmente rovinato la stagione estiva di questi luoghi.
I creditori, presi in contropiede dalla mossa di Tsipras, si sono irrigiditi e i falchi del Nord Europa hanno promesso una risposta dura. I greci hanno visto nel varo di queste misure espansive una mossa politica della disperazione per rivitalizzare il consenso di Syriza (in calo nei sondaggi rispetto al centrodestra di Nea Demokratia) nell’ipotesi che si fa sempre più forte tra gli analisti locali che Tsipras, pur di non cedere ai creditori, chiami il paese al voto anticipato per l’ennesimo braccio di ferro con i creditori.
Oggi il governo ha deciso di mettere al voto in Parlamento il bonus pensionistico una tantum e il rinvio dell’aumento dell Iva nelle isole. Una decisione che ha messo in difficoltà Nea Dimokratia, il maggior partito di opposizione, che ha detto di essere pronto a votare a favore del provvedimento in Parlamento oggi per evitare di essere accusato di “affamare” i pensionati e di essre a favore delle politiche di austerità volute dalla troika.
Il Governo greco ha registrato un avanzo di bilancio primario di 7,45 miliardi di euro negli 11 mesi a novembre, battendo il suo obiettivo di 3,89 miliardi di euro grazie a maggiori entrate fiscali. Su questa base Tsipras ha deciso di usare 617 milioni di euro del “tesoretto” per pagare una tantum agli 1,6 milioni di pensionati e alleggerire l’austerità.
Le prossime settimane diranno se si andrà allo scontro o si troverà, come si augura il ministro delle Finanze greco Euclid Tsakalotos, un accordo accettabile per tutte le parti in causa.
Repubblica 15.12.16
Iran
“Con l’intesa nucleare niente è cambiato” Nelle strade di Teheran delusa dall’Occidente
“Libertà e lavoro non sono arrivati”. E dopo la vittoria di Trump i falchi provano a fermare Rouhani
di Vanna Vannuccini
TEHERAN. Alle sei di sera la libreria Saless è piena di giovani, ma l’entusiasmo e le speranze di un anno fa, quando entrò in vigore l’accordo nucleare e tutti si aspettavano che l’Iran tornasse ad essere un paese normale, sono ormai spenti. «Speravamo in nuove opportunità di lavoro, in scambi col resto del mondo, e in una maggiore libertà», dice Nahal, una giovane laureata che è appena stata fermata dalla polizia alla guida della sua macchina perché il foulard era scivolato dietro la testa. «E invece trovare lavoro è diventato ancora più difficile, e noi continuiamo a vivere sotto non uno ma mille dittatori» .
Se guidi senza foulard per punizione devi tenere in garage la macchina per una settimana. Nahal aveva obbiettato di dover ogni giorno insegnare all’università. È stata chiamata dai Servizi: «Collabori con noi, se non vuol pagare la multa. Ci servono informazioni, soprattutto ora che ci avviciniamo alle elezioni». Nahal ha rifiutato, ma pensa che tanti invece accettino di collaborare. Così non si fida più di nessuno. Come per questi giovani, anche per il presidente Rouhani l’accordo nucleare doveva essere l’avvio per grandi riforme interne. «Abbiamo fatto Barjam uno, ora dobbiamo fare Barjam due a casa nostra » aveva detto a febbraio (Barjam è l’acronimo con cui gli iraniani chiamano l’accordo). Ma agli occhi del Leader supremo le aperture potrebbero rendere la Repubblica islamica vulnerabile alla “infiltrazione” americana: «Dietro la spinta verso nuovi Barjam c’è un complotto americano. L’obbiettivo è sempre lo stesso: cambiare la costituzione, rovesciare il sistema islamico», ha ribattuto Khamenei.
Se il Leader aveva appoggiato il negoziato - senza il suo consenso nessun accordo avrebbe potuto essere firmato - non aveva però mai smesso di insistere sulla necessità di un’ «economia di resistenza » (tutto il contrario dell’apertura al mondo). Ora, dopo l’elezione di Trump e dopo che il Congresso americano ha ribadito la volontà di bloccare qualsiasi vantaggio economico che l’Iran potrebbe trarre dall’accordo, e dopo la vittoria di Assad ad Aleppo con l’aiuto determinante degli iraniani oltre che dei russi, per la prima volta il Leader supremo si è schierato apertamente dalla parte dei fondamentalisti. Ha attaccato direttamente Rouhani: «La corsa a firmare l’accordo sul nucleare è stata un errore », ha detto in un incontro coi capi della Marina militare. Rouhani non è più nelle sue grazie, e il Leader non perde occasione per manifestare in pubblico la sua disaffezione, ostentando ad esempio simpatia per il vice presidente Jahangiri. Sotto pressione, Rouhani tenta l’appeasement: promette alla Marina militare sottomarini nucleari, ha licenziato il ministro della Cultura Jannati, inviso ai conservatori perché generoso nel permettere concerti e mostre di pittura (le pressioni sono arrivate al punto che gli ultrà hanno appeso in parlamento le foto di una signora che secondo le accuse sarebbe legata al ministro). Ma il tentativo non ha fatto che accrescere la delusione degli iraniani, mentre i conservatori profittano del clima creato dall’elezione di Trump per dare il colpo di grazia al presidente sostenuto dai riformatori .
Il Consiglio dei Guardiani respingerà a maggio la candidatura di Rouhani per un secondo mandato, si dice. La storia si ripete nella Repubblica islamica. Quindici anni fa, quando al presidente riformatore Khatami si affiancò un parlamento deciso a cambiare le cose, i conservatori dissero basta. E con l’appoggio decisivo del Leader supremo neutralizzarono Khatami , impedendogli qualsiasi riforma fino a che gli iraniani non si convinsero che i riformatori «erano come gli altri se non peggio» e che era inutile votare per loro. Fu così che andò al potere Ahmadinejad.
Questa volta la posta in gioco è ancora più alta. Nei prossimi anni si tratterà di nominare il successore di Khamenei, che va per gli ottanta. E per i conservatori nessuna calamità sarebbe maggiore che vedere un riformatore prendere il suo posto. Rouhani avrebbe tutte le carte in regola per farlo, meglio perciò metterlo da parte prima. Le lotte nell’ombra sono cominciate e come in passato la prima mossa è puntare sulle delusioni della gente: si vieta qualche mostra, si blocca l’uscita di un film, si mettono decine di poliziotti senza uniforme per le strade a multare la donne “mal vestite”. Hanno coniato anche uno slogan, Hassan il fabbro, subito adottato dalla popolazione stanca di non aver visto nessun miglioramento da un presidente che in campagna elettorale si era presentato con in mano la chiave per risolvere i problemi del paese. “Ha messo la chiave nella serratura e lì gli si è bloccata”, dicono. «Tanti hanno la memoria corta, nessuno si ricorda dell’eredità disastrosa lasciata da Ahmadinejad», ricorda un economista. In realtà la macchina dell’economia in questi ultimi mesi ha ricominciato muoversi. Entro la fine dell’anno iraniano che si chiude il 21 marzo è prevista una crescita del 6% e un’inflazione a una cifra per la prima volta da ventisei anni. Ma i prossimi cinque mesi saranno cruciali.
Iran
“Con l’intesa nucleare niente è cambiato” Nelle strade di Teheran delusa dall’Occidente
“Libertà e lavoro non sono arrivati”. E dopo la vittoria di Trump i falchi provano a fermare Rouhani
di Vanna Vannuccini
TEHERAN. Alle sei di sera la libreria Saless è piena di giovani, ma l’entusiasmo e le speranze di un anno fa, quando entrò in vigore l’accordo nucleare e tutti si aspettavano che l’Iran tornasse ad essere un paese normale, sono ormai spenti. «Speravamo in nuove opportunità di lavoro, in scambi col resto del mondo, e in una maggiore libertà», dice Nahal, una giovane laureata che è appena stata fermata dalla polizia alla guida della sua macchina perché il foulard era scivolato dietro la testa. «E invece trovare lavoro è diventato ancora più difficile, e noi continuiamo a vivere sotto non uno ma mille dittatori» .
Se guidi senza foulard per punizione devi tenere in garage la macchina per una settimana. Nahal aveva obbiettato di dover ogni giorno insegnare all’università. È stata chiamata dai Servizi: «Collabori con noi, se non vuol pagare la multa. Ci servono informazioni, soprattutto ora che ci avviciniamo alle elezioni». Nahal ha rifiutato, ma pensa che tanti invece accettino di collaborare. Così non si fida più di nessuno. Come per questi giovani, anche per il presidente Rouhani l’accordo nucleare doveva essere l’avvio per grandi riforme interne. «Abbiamo fatto Barjam uno, ora dobbiamo fare Barjam due a casa nostra » aveva detto a febbraio (Barjam è l’acronimo con cui gli iraniani chiamano l’accordo). Ma agli occhi del Leader supremo le aperture potrebbero rendere la Repubblica islamica vulnerabile alla “infiltrazione” americana: «Dietro la spinta verso nuovi Barjam c’è un complotto americano. L’obbiettivo è sempre lo stesso: cambiare la costituzione, rovesciare il sistema islamico», ha ribattuto Khamenei.
Se il Leader aveva appoggiato il negoziato - senza il suo consenso nessun accordo avrebbe potuto essere firmato - non aveva però mai smesso di insistere sulla necessità di un’ «economia di resistenza » (tutto il contrario dell’apertura al mondo). Ora, dopo l’elezione di Trump e dopo che il Congresso americano ha ribadito la volontà di bloccare qualsiasi vantaggio economico che l’Iran potrebbe trarre dall’accordo, e dopo la vittoria di Assad ad Aleppo con l’aiuto determinante degli iraniani oltre che dei russi, per la prima volta il Leader supremo si è schierato apertamente dalla parte dei fondamentalisti. Ha attaccato direttamente Rouhani: «La corsa a firmare l’accordo sul nucleare è stata un errore », ha detto in un incontro coi capi della Marina militare. Rouhani non è più nelle sue grazie, e il Leader non perde occasione per manifestare in pubblico la sua disaffezione, ostentando ad esempio simpatia per il vice presidente Jahangiri. Sotto pressione, Rouhani tenta l’appeasement: promette alla Marina militare sottomarini nucleari, ha licenziato il ministro della Cultura Jannati, inviso ai conservatori perché generoso nel permettere concerti e mostre di pittura (le pressioni sono arrivate al punto che gli ultrà hanno appeso in parlamento le foto di una signora che secondo le accuse sarebbe legata al ministro). Ma il tentativo non ha fatto che accrescere la delusione degli iraniani, mentre i conservatori profittano del clima creato dall’elezione di Trump per dare il colpo di grazia al presidente sostenuto dai riformatori .
Il Consiglio dei Guardiani respingerà a maggio la candidatura di Rouhani per un secondo mandato, si dice. La storia si ripete nella Repubblica islamica. Quindici anni fa, quando al presidente riformatore Khatami si affiancò un parlamento deciso a cambiare le cose, i conservatori dissero basta. E con l’appoggio decisivo del Leader supremo neutralizzarono Khatami , impedendogli qualsiasi riforma fino a che gli iraniani non si convinsero che i riformatori «erano come gli altri se non peggio» e che era inutile votare per loro. Fu così che andò al potere Ahmadinejad.
Questa volta la posta in gioco è ancora più alta. Nei prossimi anni si tratterà di nominare il successore di Khamenei, che va per gli ottanta. E per i conservatori nessuna calamità sarebbe maggiore che vedere un riformatore prendere il suo posto. Rouhani avrebbe tutte le carte in regola per farlo, meglio perciò metterlo da parte prima. Le lotte nell’ombra sono cominciate e come in passato la prima mossa è puntare sulle delusioni della gente: si vieta qualche mostra, si blocca l’uscita di un film, si mettono decine di poliziotti senza uniforme per le strade a multare la donne “mal vestite”. Hanno coniato anche uno slogan, Hassan il fabbro, subito adottato dalla popolazione stanca di non aver visto nessun miglioramento da un presidente che in campagna elettorale si era presentato con in mano la chiave per risolvere i problemi del paese. “Ha messo la chiave nella serratura e lì gli si è bloccata”, dicono. «Tanti hanno la memoria corta, nessuno si ricorda dell’eredità disastrosa lasciata da Ahmadinejad», ricorda un economista. In realtà la macchina dell’economia in questi ultimi mesi ha ricominciato muoversi. Entro la fine dell’anno iraniano che si chiude il 21 marzo è prevista una crescita del 6% e un’inflazione a una cifra per la prima volta da ventisei anni. Ma i prossimi cinque mesi saranno cruciali.
il manifesto 15.12.16
Non basterà il sapone di Aleppo
di Tommaso Di Francesco
Non basterà il sapone di Aleppo – ormai introvabile per effetto della guerra – a lavare le responsabilità dell’Occidente e le post-verità, raccontate negli ultimi cinque anni sulla Siria.
Del resto è già capitato per le guerre nell’ex Jugoslavia: sotto una foto che dimostrava come i crimini fossero commessi da tutte la parti, si preferiva una didascalia menzognera. Così sotto una fotografia, in bella mostra su un settimanale di grido, che mostrava un miliziano musulmano con tanto di berretto afghano e in mano il trofeo di tre teste tagliate di nemici, veniva scritta la didascalia: «Atrocità delle milizie serbe»; era in realtà un mujaheddin già allora cortocircuitato con altre migliaia in Bosnia dall’Afghanistan grazie a Usa, Iran e Arabia saudita. E le teste tagliate appartenevano, come emerse, a tre miliziani serbi.
Adesso accade la stessa cosa.
Perché il fermo-immagine era quello di armeni, kurdi e cristiani in festa in tutta Aleppo, con migliaia di rifugiati in cammino per raggiungere l’ovest della città. Certo prima dell’attuale stallo, con gli ultimi civili bloccati nell’evacuazione perché deve avvenire insieme ai combattenti jihadisti, mentre riprendono i micidiali raid aerei governativi e russi e i lanci di razzi dei «ribelli» che hanno provocato sei vittime nel quartiere Bustan al Qasr da poco riconquistato dai governativi.
Ora la foto vera dello stallo siriano sono gli autobus, con le insegne governative, che avrebbero dovuto portare a termine l’ultima evacuazione, fermi e vuoti ad Al Ramusa, con colonne di civili che si sono avvicinate per poi allontanarsi di nuovo.
Di fronte alla tragedia di Aleppo, sfigurata per sempre nell’orizzonte delle sue rovine, i media occidentali sembrano divertirsi a gridare alla «strage di civili», quasi augurandosela.
Ma di stragi di civili ce ne sono state a centinaia e nell’indifferenza generale, se è vero che i morti di Aleppo sono più di 100mila e più di 200mila nel Paese ormai dilaniato, con 1 milione di feriti e con circa 7 milioni tra profughi e rifugiati interni. Questa è la strage che più o meno dovrebbe stare sotto i nostri occhi tutt’altro che innocenti.
Perché i Paesi europei, gli Stati uniti con la Turchia e le petromonarchie del Golfo (Arabia saudita in testa) hanno tentato con coalizioni internazionali come gli «Amici della Siria» e con un intervento militare indiretto – fatto di forniture di armi, finanziamenti e addestramento militare fin nelle basi della Nato nella confinante Turchia – di destabilizzare la Siria esattamente come avevano fatto già con successo in Libia con Gheddafi.
Certo sulla scia della repressione di Assad contro una rivolta interna che era scoppiata, ma che più che movimento di «primavera» fu quasi subito armata e con un ruolo centrale dello jihadismo islamista (dai salafiti, ad Al Nusra-Al Qaeda, a formazioni legate all’Isis) e invece con una presenza subito marginale dell’«opposizione democratica», anch’essa armata. Un’area politica, quella jihadista, dilagata dai santuari libici in tutta la regione fino a costituirsi in «Stato islamico» in metà della Siria e in due terzi dell’Iraq, qui grazie ai disastri provocati di ben tre guerre americane.
Questa tragedia strategica dell’Occidente, segnatamente sia delle destre che delle sinistre al governo, è un’ombra che sarà difficile rimuovere.
Nonostante – ha recentemente notato anche Paolo Mieli sul Corriere della Sera – il dispendio di manicheismo politico-giornalistico. Per il quale ci sarebbero i bombardamenti aerei dei «buoni», quelli Usa che su Mosul sgancerebbero caramelle – e invece anche lì è strage di civili – e dall’altra i raid aerei dei «cattivi» del nemico finalmente ritrovato, la Russia di Putin. Che, è bene ricordarlo, torna sullo scenario siriano una prima volta nel 2013 quando impedisce l’attacco Usa per un presunto raid governativo al gas nervino – che inchieste indipendenti e il New Yorker dimostreranno inventato – insieme alla preghiera di papa Francesco. Che in questi giorni ha inviato una lettera che auspicava la fine della guerra «contro ogni violenza» proprio ad Assad in qualche modo criticando i suoi metodi ma anche accreditandolo come interlocutore; poi Putin ritorna a fine 2015 quasi chiamato da Obama che lo incontra nel «vertice del caminetto» alla Casa bianca, di fronte al fallimento della strategia militare occidentale e all’esplodere del bubbone Turchia, con le rivelazioni sui rapporti diretti, in armi e traffici petroliferi, tra il Sultano atlantico Erdogan e lo Stato islamico.
Ora Aleppo est è liberata dalle milizie jihadiste e dei pochi combattenti dell’opposizione democratica che però per esistere si sono ormai coordinati con salafiti e qaedisti, dopo l’ennesimo insuccesso degli Stati uniti – per ammissione della stessa Cia – che hanno provato ad organizzarli.
Ma la guerra non è finita, anzi. Con la Turchia impegnata a massacrare i kurdi e a demolire le autonomie del Rojava ai suoi confini, e con l’Isis che resta forte a Idlib e Raqqa. Dove affluiscono tutti i jihadisti scampati da Aleppo e quelli in fuga dall’Iraq.
La nuova battaglia infatti che si apre, e che punta a decretare la pericolosa spartizione della Siria, è quella delle «vie d’uscita» jihadiste.
Con chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili
Con chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili, in fuga in milioni e in centinaia di migliaia arrivati nel cuore dell’Europa e sostanzialmente da noi respinti. Con i civili, anche adesso che servono a far durare la battaglia di Aleppo.
Ma è naturalmente politicamente scorretto dire per Aleppo quello che è narrazione corrente per Mosul: e cioè che sono sequestrati come scudi umani. Se escono loro devono uscire anche i miliziani jihadisti.
Questa è la trattativa sul campo, quello che l’inviato dell’Onu Staffan De Mistura chiede da due mesi appellandosi alle milizie anti-Assad perché abbandonino le posizioni evacuando sotto supervisione Onu.
Della foto di questo stallo la didascalia che suggeriamo è: «Ecco il fallimento della guerra umanitaria dell’Occidente che ha avvantaggiato Putin richiamandolo a ruolo egemone nell’area, permettendo alla nuova destra nazionalpopulista americana di ergersi addirittura a garante della pace».
La rappresentante Usa all’Onu Samantha Power ha accusato Russia-Iran e Cina di «sponsorizzare la barbarie», invitandoli a «vergognarsi».
Ma non dovrebbero vergognarsi per primi proprio gli Stati uniti e i governi europei impegnati nella scellerata «amicizia» con la Siria?
Non basterà il sapone di Aleppo
di Tommaso Di Francesco
Non basterà il sapone di Aleppo – ormai introvabile per effetto della guerra – a lavare le responsabilità dell’Occidente e le post-verità, raccontate negli ultimi cinque anni sulla Siria.
Del resto è già capitato per le guerre nell’ex Jugoslavia: sotto una foto che dimostrava come i crimini fossero commessi da tutte la parti, si preferiva una didascalia menzognera. Così sotto una fotografia, in bella mostra su un settimanale di grido, che mostrava un miliziano musulmano con tanto di berretto afghano e in mano il trofeo di tre teste tagliate di nemici, veniva scritta la didascalia: «Atrocità delle milizie serbe»; era in realtà un mujaheddin già allora cortocircuitato con altre migliaia in Bosnia dall’Afghanistan grazie a Usa, Iran e Arabia saudita. E le teste tagliate appartenevano, come emerse, a tre miliziani serbi.
Adesso accade la stessa cosa.
Perché il fermo-immagine era quello di armeni, kurdi e cristiani in festa in tutta Aleppo, con migliaia di rifugiati in cammino per raggiungere l’ovest della città. Certo prima dell’attuale stallo, con gli ultimi civili bloccati nell’evacuazione perché deve avvenire insieme ai combattenti jihadisti, mentre riprendono i micidiali raid aerei governativi e russi e i lanci di razzi dei «ribelli» che hanno provocato sei vittime nel quartiere Bustan al Qasr da poco riconquistato dai governativi.
Ora la foto vera dello stallo siriano sono gli autobus, con le insegne governative, che avrebbero dovuto portare a termine l’ultima evacuazione, fermi e vuoti ad Al Ramusa, con colonne di civili che si sono avvicinate per poi allontanarsi di nuovo.
Di fronte alla tragedia di Aleppo, sfigurata per sempre nell’orizzonte delle sue rovine, i media occidentali sembrano divertirsi a gridare alla «strage di civili», quasi augurandosela.
Ma di stragi di civili ce ne sono state a centinaia e nell’indifferenza generale, se è vero che i morti di Aleppo sono più di 100mila e più di 200mila nel Paese ormai dilaniato, con 1 milione di feriti e con circa 7 milioni tra profughi e rifugiati interni. Questa è la strage che più o meno dovrebbe stare sotto i nostri occhi tutt’altro che innocenti.
Perché i Paesi europei, gli Stati uniti con la Turchia e le petromonarchie del Golfo (Arabia saudita in testa) hanno tentato con coalizioni internazionali come gli «Amici della Siria» e con un intervento militare indiretto – fatto di forniture di armi, finanziamenti e addestramento militare fin nelle basi della Nato nella confinante Turchia – di destabilizzare la Siria esattamente come avevano fatto già con successo in Libia con Gheddafi.
Certo sulla scia della repressione di Assad contro una rivolta interna che era scoppiata, ma che più che movimento di «primavera» fu quasi subito armata e con un ruolo centrale dello jihadismo islamista (dai salafiti, ad Al Nusra-Al Qaeda, a formazioni legate all’Isis) e invece con una presenza subito marginale dell’«opposizione democratica», anch’essa armata. Un’area politica, quella jihadista, dilagata dai santuari libici in tutta la regione fino a costituirsi in «Stato islamico» in metà della Siria e in due terzi dell’Iraq, qui grazie ai disastri provocati di ben tre guerre americane.
Questa tragedia strategica dell’Occidente, segnatamente sia delle destre che delle sinistre al governo, è un’ombra che sarà difficile rimuovere.
Nonostante – ha recentemente notato anche Paolo Mieli sul Corriere della Sera – il dispendio di manicheismo politico-giornalistico. Per il quale ci sarebbero i bombardamenti aerei dei «buoni», quelli Usa che su Mosul sgancerebbero caramelle – e invece anche lì è strage di civili – e dall’altra i raid aerei dei «cattivi» del nemico finalmente ritrovato, la Russia di Putin. Che, è bene ricordarlo, torna sullo scenario siriano una prima volta nel 2013 quando impedisce l’attacco Usa per un presunto raid governativo al gas nervino – che inchieste indipendenti e il New Yorker dimostreranno inventato – insieme alla preghiera di papa Francesco. Che in questi giorni ha inviato una lettera che auspicava la fine della guerra «contro ogni violenza» proprio ad Assad in qualche modo criticando i suoi metodi ma anche accreditandolo come interlocutore; poi Putin ritorna a fine 2015 quasi chiamato da Obama che lo incontra nel «vertice del caminetto» alla Casa bianca, di fronte al fallimento della strategia militare occidentale e all’esplodere del bubbone Turchia, con le rivelazioni sui rapporti diretti, in armi e traffici petroliferi, tra il Sultano atlantico Erdogan e lo Stato islamico.
Ora Aleppo est è liberata dalle milizie jihadiste e dei pochi combattenti dell’opposizione democratica che però per esistere si sono ormai coordinati con salafiti e qaedisti, dopo l’ennesimo insuccesso degli Stati uniti – per ammissione della stessa Cia – che hanno provato ad organizzarli.
Ma la guerra non è finita, anzi. Con la Turchia impegnata a massacrare i kurdi e a demolire le autonomie del Rojava ai suoi confini, e con l’Isis che resta forte a Idlib e Raqqa. Dove affluiscono tutti i jihadisti scampati da Aleppo e quelli in fuga dall’Iraq.
La nuova battaglia infatti che si apre, e che punta a decretare la pericolosa spartizione della Siria, è quella delle «vie d’uscita» jihadiste.
Con chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili
Con chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili, in fuga in milioni e in centinaia di migliaia arrivati nel cuore dell’Europa e sostanzialmente da noi respinti. Con i civili, anche adesso che servono a far durare la battaglia di Aleppo.
Ma è naturalmente politicamente scorretto dire per Aleppo quello che è narrazione corrente per Mosul: e cioè che sono sequestrati come scudi umani. Se escono loro devono uscire anche i miliziani jihadisti.
Questa è la trattativa sul campo, quello che l’inviato dell’Onu Staffan De Mistura chiede da due mesi appellandosi alle milizie anti-Assad perché abbandonino le posizioni evacuando sotto supervisione Onu.
Della foto di questo stallo la didascalia che suggeriamo è: «Ecco il fallimento della guerra umanitaria dell’Occidente che ha avvantaggiato Putin richiamandolo a ruolo egemone nell’area, permettendo alla nuova destra nazionalpopulista americana di ergersi addirittura a garante della pace».
La rappresentante Usa all’Onu Samantha Power ha accusato Russia-Iran e Cina di «sponsorizzare la barbarie», invitandoli a «vergognarsi».
Ma non dovrebbero vergognarsi per primi proprio gli Stati uniti e i governi europei impegnati nella scellerata «amicizia» con la Siria?
Repubblica 15.12.16
Lo Zar d’Oriente
di Bernardo Valli
L’INTESA tra lo zar russo e il raìs siriano esce vincente da Aleppo assediata e martirizzata. L’alleanza Putin- Assad ha distrutto e conquistato quella città consacrata, quando era in piedi, patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
HA demolito le mura all’ombra delle quali guerreggiò il Saladino. I cronisti al seguito dell’esercito siriano hanno descritto la gioia della popolazione liberata, mentre le esecuzioni annunciate dall’Onu sono rimaste nell’ombra. In alcuni quartieri orientali si combatte ancora, forse per qualche ora o giorno supplementare, a dispetto del cessate il fuoco. Vladimir Putin ha rianimato e porta al successo l’agonizzante e screditato regime di Bashar al Assad. È riuscito in un’impresa azzardata, che sarebbe stata impossibile se l’Occidente non gli avesse lasciato via libera. I prudenti Stati Uniti di Obama, ansiosi di sganciarsi al più presto dalle disastrose spedizioni di Bush jr, si sono impegnati il meno possibile. E comunque la coppia russo-siriana non l’avrebbe spuntata senza l’aiuto determinante degli ayatollah di Teheran, degli hezbollah libanesi e delle altre numerose milizie sciite, irachene e afghane, che hanno fornito forze di terra indispensabili al limitato esercito siriano e all’aviazione russa.
Questa è dunque l’alleanza russo-sciita che sta ultimando la conquista delle rovine di una delle più belle città mediorientali. Risulta invece sconfitto nella battaglia di Aleppo il variegato fronte sunnita anche se non impegnato ufficialmente nei combattimenti. L’Iran sciita, presente sul campo di battaglia, ha sconfitto l’Arabia saudita sunnita non presente direttamente sul campo di battaglia, ma sua grande antagonista in Medio Oriente. L’infortunio più imbarazzante, se non proprio bruciante, l’ha tuttavia subito l’Occidente nel suo insieme. Dalla fine della Guerra fredda, sul piano politico militare come su quello morale, non era mai accaduto niente di simile.
Declassata come superpotenza con l’implosione dell’Unione Sovietica, la Russia ritorna trionfante in Medio Oriente, almeno per il momento, dove un conflitto sta cambiando confini ed equilibri. E la regione conserva la sua importanza, anche se gli Stati Uniti danno l’impressione di considerarla un’incontrollabile area rissosa, con insanabili vizi balcanici, da quando hanno raggiunto l’autonomia energetica e il petrolio mediorientale ha perduto valore. E il loro interesse strategico è rivolto all’Estremo Oriente.
Vladimir Putin cavalca la vittoria con il rischio di essere disarcionato. La guerra in Siria non è infatti conclusa. Ma la conquista di Aleppo lo impone come attore principale in una situazione in cui sono in gioco innumerevoli interessi internazionali. Ha conquistato quel ruolo con il suo apparato militare e diplomatico. Gli strumenti di una vera potenza. Dopo l’Ucraina, con identica spregiudicatezza e abilità, ha sfruttato l’incertezza occidentale. Ha puntato su un regime come quello di Bashar al Assad, bolso, dato per spacciato fino a qualche mese fa, e giudicato impresentabile per l’uso di gas, di torture, di eccidi contro la sua gente. Ha trasformato un assedio interminabile in una vittoria. Il controllo della seconda città siriana non è soltanto l’occupazione di un grande centro abitato: è la conclusione di una battaglia che può cambiare il corso di un conflitto.
La battaglia di Aleppo è cominciata nel 2012 con l’insurrezione di forze animate dal desiderio di liberarsi dal regime degli Assad: prima aveva governato Hafez, il padre arrivato al potere nei primissimi Settanta, e poi gli era succeduto il figlio Bashar. Decenni ritmati da repressioni. Nel Libano occupato dalla Siria di Assad sono stati uccisi più palestinesi che a Gaza e in Cisgordania. Il potere iniziale della famiglia si è basato soprattutto sulla minoranza alawita cui appartiene. È un gruppo religioso derivato dalla corrente sciita dell’Islam. Il clima delle “primavere arabe”, non ancora spente, e i conti che la maggioranza sunnita della società siriana pensava di potere regolare infine con gli Assad per i massacri subiti, furono all’origine della rivolta. Il cui carattere moderato, privo di fanatismo religioso, fu accolto con favore dalle potenze sunnite in funzione anti sciita e da quelle occidentali sensibili alle ambizioni democratiche degli insorti. I cauti aiuti iniziali furono subito ridotti o addirittura sospesi, quando arrivarono in Siria i movimenti curdi indipendentisti e soprattutto i gruppi derivanti da Al Qaeda, e poi lo stesso Daesh ( lo Stato islamico), che ha visto nella valle del Tigri e dell’Eufrate il luogo ideale per il califfato terrorista.
Pur condannando il regime di Assad l’insurrezione fu subito sostanzialmente isolata. Il turco Erdogan non tollerò l’azione dei curdi, in particolare del Pkk considerato terrorista, e gli americani evitarono di fornire armi troppo sofisticate ai ribelli del “Libero esercito siriano” per evitare che finissero nelle mani di Daesh. Quando Bashar al Assad fu accusato di usare armi chimiche contro la popolazione civile, Barack Obama fissò una “linea rossa”. Ma non se ne tenne conto. La minaccia non si concretizzò perché l’obiettivo della coalizione animata dagli Stati Uniti era lo Stato islamico, nemico di Assad, il quale diventava obiettivamente quasi un alleato. Comunque qualcuno da non attaccare, da lasciare tra le braccia di Vladimir Putin.
Lo Zar d’Oriente
di Bernardo Valli
L’INTESA tra lo zar russo e il raìs siriano esce vincente da Aleppo assediata e martirizzata. L’alleanza Putin- Assad ha distrutto e conquistato quella città consacrata, quando era in piedi, patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
HA demolito le mura all’ombra delle quali guerreggiò il Saladino. I cronisti al seguito dell’esercito siriano hanno descritto la gioia della popolazione liberata, mentre le esecuzioni annunciate dall’Onu sono rimaste nell’ombra. In alcuni quartieri orientali si combatte ancora, forse per qualche ora o giorno supplementare, a dispetto del cessate il fuoco. Vladimir Putin ha rianimato e porta al successo l’agonizzante e screditato regime di Bashar al Assad. È riuscito in un’impresa azzardata, che sarebbe stata impossibile se l’Occidente non gli avesse lasciato via libera. I prudenti Stati Uniti di Obama, ansiosi di sganciarsi al più presto dalle disastrose spedizioni di Bush jr, si sono impegnati il meno possibile. E comunque la coppia russo-siriana non l’avrebbe spuntata senza l’aiuto determinante degli ayatollah di Teheran, degli hezbollah libanesi e delle altre numerose milizie sciite, irachene e afghane, che hanno fornito forze di terra indispensabili al limitato esercito siriano e all’aviazione russa.
Questa è dunque l’alleanza russo-sciita che sta ultimando la conquista delle rovine di una delle più belle città mediorientali. Risulta invece sconfitto nella battaglia di Aleppo il variegato fronte sunnita anche se non impegnato ufficialmente nei combattimenti. L’Iran sciita, presente sul campo di battaglia, ha sconfitto l’Arabia saudita sunnita non presente direttamente sul campo di battaglia, ma sua grande antagonista in Medio Oriente. L’infortunio più imbarazzante, se non proprio bruciante, l’ha tuttavia subito l’Occidente nel suo insieme. Dalla fine della Guerra fredda, sul piano politico militare come su quello morale, non era mai accaduto niente di simile.
Declassata come superpotenza con l’implosione dell’Unione Sovietica, la Russia ritorna trionfante in Medio Oriente, almeno per il momento, dove un conflitto sta cambiando confini ed equilibri. E la regione conserva la sua importanza, anche se gli Stati Uniti danno l’impressione di considerarla un’incontrollabile area rissosa, con insanabili vizi balcanici, da quando hanno raggiunto l’autonomia energetica e il petrolio mediorientale ha perduto valore. E il loro interesse strategico è rivolto all’Estremo Oriente.
Vladimir Putin cavalca la vittoria con il rischio di essere disarcionato. La guerra in Siria non è infatti conclusa. Ma la conquista di Aleppo lo impone come attore principale in una situazione in cui sono in gioco innumerevoli interessi internazionali. Ha conquistato quel ruolo con il suo apparato militare e diplomatico. Gli strumenti di una vera potenza. Dopo l’Ucraina, con identica spregiudicatezza e abilità, ha sfruttato l’incertezza occidentale. Ha puntato su un regime come quello di Bashar al Assad, bolso, dato per spacciato fino a qualche mese fa, e giudicato impresentabile per l’uso di gas, di torture, di eccidi contro la sua gente. Ha trasformato un assedio interminabile in una vittoria. Il controllo della seconda città siriana non è soltanto l’occupazione di un grande centro abitato: è la conclusione di una battaglia che può cambiare il corso di un conflitto.
La battaglia di Aleppo è cominciata nel 2012 con l’insurrezione di forze animate dal desiderio di liberarsi dal regime degli Assad: prima aveva governato Hafez, il padre arrivato al potere nei primissimi Settanta, e poi gli era succeduto il figlio Bashar. Decenni ritmati da repressioni. Nel Libano occupato dalla Siria di Assad sono stati uccisi più palestinesi che a Gaza e in Cisgordania. Il potere iniziale della famiglia si è basato soprattutto sulla minoranza alawita cui appartiene. È un gruppo religioso derivato dalla corrente sciita dell’Islam. Il clima delle “primavere arabe”, non ancora spente, e i conti che la maggioranza sunnita della società siriana pensava di potere regolare infine con gli Assad per i massacri subiti, furono all’origine della rivolta. Il cui carattere moderato, privo di fanatismo religioso, fu accolto con favore dalle potenze sunnite in funzione anti sciita e da quelle occidentali sensibili alle ambizioni democratiche degli insorti. I cauti aiuti iniziali furono subito ridotti o addirittura sospesi, quando arrivarono in Siria i movimenti curdi indipendentisti e soprattutto i gruppi derivanti da Al Qaeda, e poi lo stesso Daesh ( lo Stato islamico), che ha visto nella valle del Tigri e dell’Eufrate il luogo ideale per il califfato terrorista.
Pur condannando il regime di Assad l’insurrezione fu subito sostanzialmente isolata. Il turco Erdogan non tollerò l’azione dei curdi, in particolare del Pkk considerato terrorista, e gli americani evitarono di fornire armi troppo sofisticate ai ribelli del “Libero esercito siriano” per evitare che finissero nelle mani di Daesh. Quando Bashar al Assad fu accusato di usare armi chimiche contro la popolazione civile, Barack Obama fissò una “linea rossa”. Ma non se ne tenne conto. La minaccia non si concretizzò perché l’obiettivo della coalizione animata dagli Stati Uniti era lo Stato islamico, nemico di Assad, il quale diventava obiettivamente quasi un alleato. Comunque qualcuno da non attaccare, da lasciare tra le braccia di Vladimir Putin.
Corriere 15.12.16
Aleppo, i crimini contro l’umanità
di Rula Jebreal
Caro direttore, sono appena stata sul confine tra Libano e Siria: ad Aleppo regna l’orrore, lo stupro è un’arma del regime contro le donne per instillare terrore. Molte donne si suicidano per non essere stuprate. La ribellione che ha portato alla guerra civile in Siria è nata da una richiesta pacifica di pane, giustizia sociale e libertà. Mai mi sarei aspettata di vedere la barbarie e la ferocia di questi giorni.
Aleppo è un nuovo Ruanda. Un’altra Bosnia. Donne, bambini, civili senza distinzione vengono macellati, torturati e uccisi dalle forze di Assad. Esecuzioni sommarie, corpi abbracciati di donne e bambini, bombardamenti, bombe a grappolo. Il regime di Assad ha commesso crimini di guerra su larga scala (dagli omicidi di massa all’uso di armi chimiche) come risposta a chi chiedeva riforme politiche, un sistema democratico e trasparente invece di una dittatura corrotta.
Assad ha una sola strategia: rilasciare gli jihadisti e perseguitare gli attivisti per la democrazia, torturarli e massacrarli. Assad ha eredito la presidenza e la violenza dal padre, che fu feroce. La prima vittima del regime di Assad è infatti un bambino di 13 anni di nome Hassan Al Kateeb: fu arrestato, torturato e fucilato, perché aveva osato cantare mentre tornava da scuola «cade il regime di Assad». Così Assad è diventato il mostro, il macellaio del nostro secolo, questo il titolo conferito da Time . Nonostante oggi, militarmente, Assad abbia già vinto, punta all’eliminazione totale degli abitanti di Aleppo, con l’aiuto della Russia di Putin — che con la vittoria di Trump negli Stati Uniti ha avuto carta bianca. Stare al fianco della Russia significa giustificare il genocidio di Aleppo.
Dal 2011 mezzo milione di siriani è stato massacrato. E molti ancora ne moriranno, nel silenzio del mondo intero. La comunità internazionale ha la responsabilità di proteggere i civili. C’è una risoluzione delle Nazioni Unite che parla chiaro. La Siria oggi e il più grande fallimento della comunità internazionale, la macchia più scura sull’eredità politica del presidente Obama: quando si bombardano ospedali, si distruggono scuole, si commette davanti agli occhi del mondo intero un altro genocidio, l’incapacità della comunità internazionale di agire diventa una violazione della coscienza del mondo.
La vittoria dell’autoritarismo violento e sanguinario è anche la vittoria del jihadismo globale, di terroristi che per anni sfrutteranno il dolore e la disperazione, la rabbia che monta ad Aleppo. I terroristi continuano a promuovere l’idea che la democrazia non serve a niente, che la comunità internazionale è incapace di reagire e quindi complice, e che l’unica alternativa è sempre e solo la violenza: il terrorismo è il prodotto avariato e velenoso dei regime capaci di massacrare milioni per mantenere il potere.
Oggi tutti portiamo addosso la vergogna e la responsabilità morale di questo moderno Olocausto.
Aleppo, i crimini contro l’umanità
di Rula Jebreal
Caro direttore, sono appena stata sul confine tra Libano e Siria: ad Aleppo regna l’orrore, lo stupro è un’arma del regime contro le donne per instillare terrore. Molte donne si suicidano per non essere stuprate. La ribellione che ha portato alla guerra civile in Siria è nata da una richiesta pacifica di pane, giustizia sociale e libertà. Mai mi sarei aspettata di vedere la barbarie e la ferocia di questi giorni.
Aleppo è un nuovo Ruanda. Un’altra Bosnia. Donne, bambini, civili senza distinzione vengono macellati, torturati e uccisi dalle forze di Assad. Esecuzioni sommarie, corpi abbracciati di donne e bambini, bombardamenti, bombe a grappolo. Il regime di Assad ha commesso crimini di guerra su larga scala (dagli omicidi di massa all’uso di armi chimiche) come risposta a chi chiedeva riforme politiche, un sistema democratico e trasparente invece di una dittatura corrotta.
Assad ha una sola strategia: rilasciare gli jihadisti e perseguitare gli attivisti per la democrazia, torturarli e massacrarli. Assad ha eredito la presidenza e la violenza dal padre, che fu feroce. La prima vittima del regime di Assad è infatti un bambino di 13 anni di nome Hassan Al Kateeb: fu arrestato, torturato e fucilato, perché aveva osato cantare mentre tornava da scuola «cade il regime di Assad». Così Assad è diventato il mostro, il macellaio del nostro secolo, questo il titolo conferito da Time . Nonostante oggi, militarmente, Assad abbia già vinto, punta all’eliminazione totale degli abitanti di Aleppo, con l’aiuto della Russia di Putin — che con la vittoria di Trump negli Stati Uniti ha avuto carta bianca. Stare al fianco della Russia significa giustificare il genocidio di Aleppo.
Dal 2011 mezzo milione di siriani è stato massacrato. E molti ancora ne moriranno, nel silenzio del mondo intero. La comunità internazionale ha la responsabilità di proteggere i civili. C’è una risoluzione delle Nazioni Unite che parla chiaro. La Siria oggi e il più grande fallimento della comunità internazionale, la macchia più scura sull’eredità politica del presidente Obama: quando si bombardano ospedali, si distruggono scuole, si commette davanti agli occhi del mondo intero un altro genocidio, l’incapacità della comunità internazionale di agire diventa una violazione della coscienza del mondo.
La vittoria dell’autoritarismo violento e sanguinario è anche la vittoria del jihadismo globale, di terroristi che per anni sfrutteranno il dolore e la disperazione, la rabbia che monta ad Aleppo. I terroristi continuano a promuovere l’idea che la democrazia non serve a niente, che la comunità internazionale è incapace di reagire e quindi complice, e che l’unica alternativa è sempre e solo la violenza: il terrorismo è il prodotto avariato e velenoso dei regime capaci di massacrare milioni per mantenere il potere.
Oggi tutti portiamo addosso la vergogna e la responsabilità morale di questo moderno Olocausto.
Corriere 15.12.16
La verità nascosta alla luce del sole
Stefano Cucchi, battaglia infinita
di Giovanni Bianconi
Quando s’indaga su una morte misteriosa, qualunque ne sia la causa, si deve interrogare il cadavere. Che può aiutare a capire che cosa è successo, chi e perché ha messo fine alla persona che era. È il punto di partenza per risalire ai responsabili di un eventuale reato, il primo indizio. E in alcuni casi le autopsie diventano decisive, se ne discute all’infinito, si litiga per arrivare a conclusioni opposte. Per cercare la verità. O nasconderla.
È quello che è accaduto e continua ad accadere nella vicenda di Stefano Cucchi, il trentunenne romano arrestato il 15 ottobre 2009 con l’accusa di spaccio di droga e morto dopo una settimana di detenzione trascorsa tra camere di sicurezza, carcere e ospedali. Un incredibile intreccio di colpe e burocrazia, bugie, depistaggi e giustizia negata che il giornalista Carlo Bonini racconta in un libro significativamente intitolato Il corpo del reato (Feltrinelli, pagine 320, euro 18).
Perché è dal corpo (e sul corpo) di Stefano che tutto è cominciato, e perché dietro questa storia si continuano a inseguire reati che qualcuno voleva coprire. A partire dal certificato di «morte naturale» redatto subito dopo il decesso, e dall’ineffabile comunicazione data ai genitori che solo attraverso la notifica dell’autopsia seppero che il loro ragazzo non c’era più. «Si è spento», si sentirono dire.
La narrazione di Bonini si addentra in ogni passaggio della battaglia che la famiglia Cucchi conduce da sette anni, e si snoda proponendo un parallelo con un’altra morte violenta, tragica e misteriosa, quella di Giulio Regeni. Anche in quel caso è stato il cadavere a smentire le menzogne e gli inquinamenti, attraverso lo svelamento delle torture che ha fatto piazza pulita delle falsità proposte a più riprese dal regime egiziano. In comune tra i due casi c’è l’anatomopatologo che ha fatto parlare i corpi delle vittime — il professor Vittorio Fineschi, uno dei protagonisti principali del racconto — e la determinazione dei parenti a non accontentarsi di un funerale e qualche scusa. Approdati entrambi in una sede istituzionale, il Senato, per chiedere aiuto a ottenere giustizia. Con una differenza di non poco conto: per Regeni si tratta di sfidare un altro Stato a trovarla; per Cucchi, a quattromila chilometri e qualche gradino di democrazia più su, si attende che lo faccia la Repubblica italiana.
I genitori e la sorella di Stefano, Ilaria, dovettero mostrare a tutti le foto del ragazzo ridotto a poco più di uno scheletro, così come era stato restituito dalle istituzioni che lo avevano in custodia. Lo ha fatto anche un pubblico ministero, in uno dei vari processi che si sono succeduti senza approdare a nulla. Per far capire di che cosa si stava parlando, muovere le coscienze e tenere accesi i riflettori.
«Andrà a finire che su questa storia ci faranno anche un film!», si lamentò il difensore di qualche imputato. «Magari!» replicò l’avvocato dei Cucchi, Fabio Anselmo, altro personaggio che si muove tra le pagine del libro con un ruolo di primo piano. Perché è grazie alla pubblicità voluta dalla famiglia, alla volontà di tenere desta l’attenzione di chi rimaneva fuori dalle aule di tribunale, che a sette ani di distanza c’è ancora la speranza di arrivare a una versione credibile di ciò che è successo, e individuare i responsabili.
Bonini ripercorre i principali punti di svolta di un percorso lungo e accidentato. Dalle incongruità della notte dell’arresto alla settimana in cui Cucchi è rimasto segretato, privato non solo della libertà ma anche dei diritti che invocava inutilmente: per esempio il colloquio con un avvocato; dalle manovre per lasciare nell’ombra chi lo aveva avuto tra le mani nelle prime ore, all’inutile processo agli agenti di custodia, viziato da consulenze e perizie che si ostinavano a negare ogni relazione tra le percosse subite da Cucchi e la sua morte. Per mettere a tacere il corpo e occultare il reato; andando a ripescare testi medici dell’Ottocento sulla morte per fame come durante le carestie, o gli studi sulla fine inflitta ai prigionieri dei campi di sterminio, lasciati senza cibo né acqua.
Poi è arrivata la nuova indagine sui carabinieri, innescata dalle rivelazioni di due colleghi ai Cucchi e portata avanti da magistrati diversi della Procura di Roma, con metodi ereditati dalle inchieste sulla criminalità organizzata grazie ai quali è caduto il muro di omertà eretto intorno alla cattura di Stefano. Ma anche queste nuove prove, su cui verosimilmente si imbastirà un nuovo processo, dovranno fare i conti con una nuova perizia sulle cause della morte, che stavolta ha tirato in ballo un presunto quanto incomprensibile attacco epilettico. E sarà l’ennesima battaglia legale.
Il corpo del reato si chiude riproponendo un paragone con l’omicidio consumato al Cairo poco meno di un anno fa: il paradosso di una verità nascosta alla luce del sole. Ma il caso Cucchi è ancora aperto. Come il caso Regeni.
La verità nascosta alla luce del sole
Stefano Cucchi, battaglia infinita
di Giovanni Bianconi
Quando s’indaga su una morte misteriosa, qualunque ne sia la causa, si deve interrogare il cadavere. Che può aiutare a capire che cosa è successo, chi e perché ha messo fine alla persona che era. È il punto di partenza per risalire ai responsabili di un eventuale reato, il primo indizio. E in alcuni casi le autopsie diventano decisive, se ne discute all’infinito, si litiga per arrivare a conclusioni opposte. Per cercare la verità. O nasconderla.
È quello che è accaduto e continua ad accadere nella vicenda di Stefano Cucchi, il trentunenne romano arrestato il 15 ottobre 2009 con l’accusa di spaccio di droga e morto dopo una settimana di detenzione trascorsa tra camere di sicurezza, carcere e ospedali. Un incredibile intreccio di colpe e burocrazia, bugie, depistaggi e giustizia negata che il giornalista Carlo Bonini racconta in un libro significativamente intitolato Il corpo del reato (Feltrinelli, pagine 320, euro 18).
Perché è dal corpo (e sul corpo) di Stefano che tutto è cominciato, e perché dietro questa storia si continuano a inseguire reati che qualcuno voleva coprire. A partire dal certificato di «morte naturale» redatto subito dopo il decesso, e dall’ineffabile comunicazione data ai genitori che solo attraverso la notifica dell’autopsia seppero che il loro ragazzo non c’era più. «Si è spento», si sentirono dire.
La narrazione di Bonini si addentra in ogni passaggio della battaglia che la famiglia Cucchi conduce da sette anni, e si snoda proponendo un parallelo con un’altra morte violenta, tragica e misteriosa, quella di Giulio Regeni. Anche in quel caso è stato il cadavere a smentire le menzogne e gli inquinamenti, attraverso lo svelamento delle torture che ha fatto piazza pulita delle falsità proposte a più riprese dal regime egiziano. In comune tra i due casi c’è l’anatomopatologo che ha fatto parlare i corpi delle vittime — il professor Vittorio Fineschi, uno dei protagonisti principali del racconto — e la determinazione dei parenti a non accontentarsi di un funerale e qualche scusa. Approdati entrambi in una sede istituzionale, il Senato, per chiedere aiuto a ottenere giustizia. Con una differenza di non poco conto: per Regeni si tratta di sfidare un altro Stato a trovarla; per Cucchi, a quattromila chilometri e qualche gradino di democrazia più su, si attende che lo faccia la Repubblica italiana.
I genitori e la sorella di Stefano, Ilaria, dovettero mostrare a tutti le foto del ragazzo ridotto a poco più di uno scheletro, così come era stato restituito dalle istituzioni che lo avevano in custodia. Lo ha fatto anche un pubblico ministero, in uno dei vari processi che si sono succeduti senza approdare a nulla. Per far capire di che cosa si stava parlando, muovere le coscienze e tenere accesi i riflettori.
«Andrà a finire che su questa storia ci faranno anche un film!», si lamentò il difensore di qualche imputato. «Magari!» replicò l’avvocato dei Cucchi, Fabio Anselmo, altro personaggio che si muove tra le pagine del libro con un ruolo di primo piano. Perché è grazie alla pubblicità voluta dalla famiglia, alla volontà di tenere desta l’attenzione di chi rimaneva fuori dalle aule di tribunale, che a sette ani di distanza c’è ancora la speranza di arrivare a una versione credibile di ciò che è successo, e individuare i responsabili.
Bonini ripercorre i principali punti di svolta di un percorso lungo e accidentato. Dalle incongruità della notte dell’arresto alla settimana in cui Cucchi è rimasto segretato, privato non solo della libertà ma anche dei diritti che invocava inutilmente: per esempio il colloquio con un avvocato; dalle manovre per lasciare nell’ombra chi lo aveva avuto tra le mani nelle prime ore, all’inutile processo agli agenti di custodia, viziato da consulenze e perizie che si ostinavano a negare ogni relazione tra le percosse subite da Cucchi e la sua morte. Per mettere a tacere il corpo e occultare il reato; andando a ripescare testi medici dell’Ottocento sulla morte per fame come durante le carestie, o gli studi sulla fine inflitta ai prigionieri dei campi di sterminio, lasciati senza cibo né acqua.
Poi è arrivata la nuova indagine sui carabinieri, innescata dalle rivelazioni di due colleghi ai Cucchi e portata avanti da magistrati diversi della Procura di Roma, con metodi ereditati dalle inchieste sulla criminalità organizzata grazie ai quali è caduto il muro di omertà eretto intorno alla cattura di Stefano. Ma anche queste nuove prove, su cui verosimilmente si imbastirà un nuovo processo, dovranno fare i conti con una nuova perizia sulle cause della morte, che stavolta ha tirato in ballo un presunto quanto incomprensibile attacco epilettico. E sarà l’ennesima battaglia legale.
Il corpo del reato si chiude riproponendo un paragone con l’omicidio consumato al Cairo poco meno di un anno fa: il paradosso di una verità nascosta alla luce del sole. Ma il caso Cucchi è ancora aperto. Come il caso Regeni.
La Stampa 15.12.16
I nuovi Lea
Eterologa rimborsata in tutte le Regioni
di Paolo Russo
Eterologa rimborsata in tutte le Regioni, Lombardia compresa. Accertamenti gratuiti per i celiaci, scooter a quattro ruote per i disabili, 110 nuove malattie rare curabili a carico dello Stato. E poi, ancora: epidurale anche per le donne che partoriscono naturalmente, screening neonatali, vaccinazioni gratuite ovunque per varicella, pneumococco, meningococco e papilloma virus. Ma anche stop alle analisi inutili, quelle fatte alla ceca, senza verificare prima se ce ne sia effettivamente bisogno. Sono i nuovi Lea, i Livelli essenziali di assistenza, l’elenco aggiornato delle oltre seimila prestazioni mutuabili, in standby da ben 15 anni, annunciati come cosa fatta e poi rimessi in freezer non si sa quante volte, ma ieri approvati in via definitiva da Camera e Senato, pronti per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Tra le novità il cosiddetto «meccanismo reflex». Tradotto: gli accertamenti a raffica, tipo quelli per verificare un tipo di infezione, si rimborsano solo se preceduti da quello che accerta la presenza di un qualche stato infettivo. Si allentano invece i vincoli per i medici di famiglia: la maggior parte delle limitazioni prescrittive, su oltre 200 accertamenti considerati a rischio di uso «inappropriato», diventano semplici indicazioni terapeutiche per i dottori, che potranno continuare a prescrivere «in scienza e coscienza».
Per il resto tanti nuovi ingressi nel paradiso della rimborsabilità. I nefropatici cronici non dovranno più pagare di tasca propria i prodotti dietetici a basso contenuto di proteine e quelli addensanti. Ausili informatici e per la comunicazione di persone disabili con gravissime limitazioni non saranno più a pagamento, così come gli apparecchi acustici per chi ha seri problemi di udito. E poi, ancora: apparecchi per l’incentivazione dei muscoli respiratori, la barella per doccia, le carrozzine con sistema di verticalizzazione, lo scooter a quattro ruote, i sollevatori fissi e per vasca da bagno, i sistemi di sostegno nell’ambiente bagno (maniglioni e braccioli),i carrelli servoscala per interni. Tutti ausili spesso a pagamento per i disabili.
Esenzione dai ticket, infine, per sei nuove patologie: broncopneumopatia cronica ostruttiva, rene policistico, endometriosi (limitatamente agli stadi 3 e 4), osteomielite cronica, malattie renali croniche e sindrome da talidomine, la grave malattia provocata dall’omonimo sedativo negli anni ’50 e ’60.
I nuovi Lea
Eterologa rimborsata in tutte le Regioni
di Paolo Russo
Eterologa rimborsata in tutte le Regioni, Lombardia compresa. Accertamenti gratuiti per i celiaci, scooter a quattro ruote per i disabili, 110 nuove malattie rare curabili a carico dello Stato. E poi, ancora: epidurale anche per le donne che partoriscono naturalmente, screening neonatali, vaccinazioni gratuite ovunque per varicella, pneumococco, meningococco e papilloma virus. Ma anche stop alle analisi inutili, quelle fatte alla ceca, senza verificare prima se ce ne sia effettivamente bisogno. Sono i nuovi Lea, i Livelli essenziali di assistenza, l’elenco aggiornato delle oltre seimila prestazioni mutuabili, in standby da ben 15 anni, annunciati come cosa fatta e poi rimessi in freezer non si sa quante volte, ma ieri approvati in via definitiva da Camera e Senato, pronti per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Tra le novità il cosiddetto «meccanismo reflex». Tradotto: gli accertamenti a raffica, tipo quelli per verificare un tipo di infezione, si rimborsano solo se preceduti da quello che accerta la presenza di un qualche stato infettivo. Si allentano invece i vincoli per i medici di famiglia: la maggior parte delle limitazioni prescrittive, su oltre 200 accertamenti considerati a rischio di uso «inappropriato», diventano semplici indicazioni terapeutiche per i dottori, che potranno continuare a prescrivere «in scienza e coscienza».
Per il resto tanti nuovi ingressi nel paradiso della rimborsabilità. I nefropatici cronici non dovranno più pagare di tasca propria i prodotti dietetici a basso contenuto di proteine e quelli addensanti. Ausili informatici e per la comunicazione di persone disabili con gravissime limitazioni non saranno più a pagamento, così come gli apparecchi acustici per chi ha seri problemi di udito. E poi, ancora: apparecchi per l’incentivazione dei muscoli respiratori, la barella per doccia, le carrozzine con sistema di verticalizzazione, lo scooter a quattro ruote, i sollevatori fissi e per vasca da bagno, i sistemi di sostegno nell’ambiente bagno (maniglioni e braccioli),i carrelli servoscala per interni. Tutti ausili spesso a pagamento per i disabili.
Esenzione dai ticket, infine, per sei nuove patologie: broncopneumopatia cronica ostruttiva, rene policistico, endometriosi (limitatamente agli stadi 3 e 4), osteomielite cronica, malattie renali croniche e sindrome da talidomine, la grave malattia provocata dall’omonimo sedativo negli anni ’50 e ’60.
Corriere 15.12.16
Boldrini: «Ora la sinistra torni unita. E Renzi tenga conto del No»
La presidente della Camera Laura Boldrini: serve il dialogo con i sindacati. In Gentiloni c’è un’evidente discontinuità: lo stile. Jobs act, i voucher hanno creato più precariato
intervista di Aldo Cazzullo
Presidente Boldrini, come le sembra il governo Gentiloni? Non c’era l’aspettativa di un cambiamento? Non le pare che questa aspettativa sia stata tradita?
«Una discontinuità c’è, ed è evidente: lo stile del presidente del Consiglio, che è stato notato da tutti, anche in Aula».
Ad esempio?
«Ad esempio Gentiloni ha detto subito che la legge elettorale sarà prerogativa del Parlamento, e che il governo avrà il compito di accompagnare».
Tutto bene quindi?
«Anch’io mi sarei aspettata qualche segnale in più di cambiamento. Colgo però nel premier questo differente modo di relazionarsi. Ora il Pd dovrà cogliere il malessere del Paese che si è manifestato con il referendum. Altrimenti saranno altri a farlo, a loro modo: con slogan efficaci ma non praticabili; con ricette che non funzionano».
Come l’uscita dall’euro?
«Sì. E come la gestione dell’immigrazione. La realtà è più complicata degli slogan. Mi auguro che la sinistra, e soprattutto il Pd, riprenda il dialogo con le forze sociali, con i corpi intermedi. Le riforme vanno bene quando si coinvolgono i sindacati, che hanno il compito di trasferire a chi è al potere le istanze delle persone, e di spiegare alle persone il senso delle riforme che hanno condiviso. Altrimenti si crea il cortocircuito. E si verifica il paradosso per cui riforme che stabilizzano decine di migliaia di persone, come quella della scuola, finiscono per creare molti disagi».
Cosa deve fare Gentiloni secondo lei?
«Il governo precedente ha fatto cose positive, come la legge sulle unioni civili, ma anche altre su cui il nuovo dovrà aggiustare il tiro. I voucher del Jobs act hanno creato ancora più precariato: bisognerà rimetterci le mani in tempo utile. I grandi patrimoni devono pagare di più; il lavoro deve essere meno tassato. È questo che deve fare la sinistra, piuttosto che togliere l’imposta sulla prima casa a chi, possedendo grandi proprietà, potrebbe pagarla. I giganti del web devono pagare le imposte nei Paesi in cui fanno affari d’oro, non là dove le imposte sono più basse. La sinistra si deve riappropriare dei suoi valori che ha considerato desueti: combattere le disuguaglianze, lottare contro le nuove forme di schiavitù, tra i migranti ma anche tra gli italiani. E arginare i danni della globalizzazione, che ha creato un nuovo esercito di espulsi: lavoratori cui vengono negate la dignità, la sopravvivenza».
Lei si candida a riorganizzare l’area a sinistra del Pd?
«È una sfida di tutta la sinistra, in cui il Pd è il partito più grande. Una volta letto il malessere sociale, bisogna creare dei correttivi. Il Sud e i giovani hanno votato in massa No, non solo per amore della Costituzione, ma per protesta verso il sistema che li esclude».
Lei cos’ha votato?
«Non lo dico perché il mio ruolo mi richiede terzietà, e anche perché penso non sia utile alla discussione futura. Nel campo progressista c’è chi ha votato No, e c’è chi ha votato Sì. Bisogna essere maturi e generosi, capire che la posta in ballo è troppo grande. Bisogna saper guardare oltre. Se alle prossime elezioni si vuole vincere non c’è altra alternativa che tornare insieme, e ritrovare il terreno comune. Se no ci dobbiamo assumere la responsabilità che al governo vadano altri».
Pisapia propone di costruire una forza di sinistra che si allei con il Pd. Lei cosa ne pensa?
«Ho appena detto che bisogna ritrovare un terreno comune, e quindi apprezzo lo sforzo di Pisapia. Però prima che di alleanze dobbiamo parlare di programmi. Io mi voglio alleare innanzitutto con le persone che ho incontrato nelle periferie delle grandi città, allo Zen, al Corviale, a Quarto Oggiaro, a Scampia, dove tornerò lunedì prossimo. Persone che resistono, aggregano, combattono il degrado e lo spaccio. Lì sono i laboratori di politica. Si fa più politica lì che nelle riunioni in cui si parla di alleanze e di schemi. Ci dobbiamo alleare con i soggetti che danno risposte a problemi concreti, e anche con i delusi che non ci credono più ma aspettano un richiamo: se gli proponi qualcosa di utile e di importante, sono pronti a esserci. Non cadiamo nella trappola dell’alleanza precostituita. Questo approccio non funziona».
Lei parla come se Renzi non fosse più in campo. Ma resta il segretario del partito. Cosa dovrebbe fare?
«Non sta a me decidere il suo futuro. C’è una discussione aperta nel Pd, che non ha certo bisogno dei miei consigli. Ma non si può fare finta di niente, come se il voto referendario non ci fosse stato; bisogna leggerlo e dargli una risposta adeguata in termini di nuove politiche. La priorità non può essere il ponte sullo Stretto; la priorità è la messa in sicurezza del territorio, e lo dico oggi che la Camera ha appena approvato all’unanimità il decreto sul terremoto. E poi dobbiamo ripartire dal Sud: Gentiloni ha fatto bene a istituire un nuovo ministero. E al Sud servono investimenti pubblici e privati sulla scuola, sull’università, sulla ricerca e per creare lavoro».
La legislatura deve arrivare alla fine?
«Sarà il Parlamento a decidere. Fino a quando c’è la fiducia e c’è una maggioranza, il governo continua».
Quanto pesa il vitalizio?
«Non lo so. Le cose che pesano sono altre. È uno degli aspetti; non può diventare il centro del dibattito. Il vitalizio non c’è più dalla scorsa legislatura: i deputati versano i contributi, come tutti. Se la legislatura arriva alla fine, prenderanno la pensione quando avranno 65 anni; altrimenti i soldi versati saranno loro restituiti. Bisogna fare chiarezza. Altrimenti il clima di calunnia genera aggressioni gravi».
Si riferisce a Osvaldo Napoli «arrestato» dai manifestanti all’uscita della Camera?
«Ho già espresso solidarietà a Napoli. Gentiloni l’ha detto in Aula: no alla violenza nel dibattito politico. E io aggiungo: no alle aggressioni via social network, no a una società inquinata dall’odio. Le bufale della rete non sono goliardate: sono menzogne decise a tavolino per sporcare le persone, per alimentare la rabbia popolare. Non possiamo lasciare soli i cittadini a gestire subire l’inquinamento della rete. Ho incontrato i vertici di Facebook, ho fatto richieste precise e continuerò a incalzarli».
Magari fossero solo menzogne. Non crede che questa legislatura non sia riuscita a dare il segno di una svolta nell’uso del denaro pubblico?
«Alla Camera, per la prima volta nella storia della Repubblica, abbiamo tagliato 270 milioni di euro e ridotto la spesa in modo consistente. Non è una quisquilia. È un segnale chiaro e forte di discontinuità».
La legge elettorale la farà la Consulta? O il Parlamento?
«Il Parlamento può iniziare a discutere. Ci sono varie proposte di legge, altre ne arriveranno. Ma certo non si potrà prescindere dalla sentenza della Consulta».
La entusiasma il ritorno al proporzionale?
«Non esiste la legge perfetta. Hillary ha avuto molti voti più di Trump, e ha perso. Bisogna trovare una sintesi tra due esigenze: rappresentanza e governabilità».
E il Mattarellum?
«È una base su cui ragionare. Una formula che di sicuro sarà all’attenzione del Parlamento».
Boldrini: «Ora la sinistra torni unita. E Renzi tenga conto del No»
La presidente della Camera Laura Boldrini: serve il dialogo con i sindacati. In Gentiloni c’è un’evidente discontinuità: lo stile. Jobs act, i voucher hanno creato più precariato
intervista di Aldo Cazzullo
Presidente Boldrini, come le sembra il governo Gentiloni? Non c’era l’aspettativa di un cambiamento? Non le pare che questa aspettativa sia stata tradita?
«Una discontinuità c’è, ed è evidente: lo stile del presidente del Consiglio, che è stato notato da tutti, anche in Aula».
Ad esempio?
«Ad esempio Gentiloni ha detto subito che la legge elettorale sarà prerogativa del Parlamento, e che il governo avrà il compito di accompagnare».
Tutto bene quindi?
«Anch’io mi sarei aspettata qualche segnale in più di cambiamento. Colgo però nel premier questo differente modo di relazionarsi. Ora il Pd dovrà cogliere il malessere del Paese che si è manifestato con il referendum. Altrimenti saranno altri a farlo, a loro modo: con slogan efficaci ma non praticabili; con ricette che non funzionano».
Come l’uscita dall’euro?
«Sì. E come la gestione dell’immigrazione. La realtà è più complicata degli slogan. Mi auguro che la sinistra, e soprattutto il Pd, riprenda il dialogo con le forze sociali, con i corpi intermedi. Le riforme vanno bene quando si coinvolgono i sindacati, che hanno il compito di trasferire a chi è al potere le istanze delle persone, e di spiegare alle persone il senso delle riforme che hanno condiviso. Altrimenti si crea il cortocircuito. E si verifica il paradosso per cui riforme che stabilizzano decine di migliaia di persone, come quella della scuola, finiscono per creare molti disagi».
Cosa deve fare Gentiloni secondo lei?
«Il governo precedente ha fatto cose positive, come la legge sulle unioni civili, ma anche altre su cui il nuovo dovrà aggiustare il tiro. I voucher del Jobs act hanno creato ancora più precariato: bisognerà rimetterci le mani in tempo utile. I grandi patrimoni devono pagare di più; il lavoro deve essere meno tassato. È questo che deve fare la sinistra, piuttosto che togliere l’imposta sulla prima casa a chi, possedendo grandi proprietà, potrebbe pagarla. I giganti del web devono pagare le imposte nei Paesi in cui fanno affari d’oro, non là dove le imposte sono più basse. La sinistra si deve riappropriare dei suoi valori che ha considerato desueti: combattere le disuguaglianze, lottare contro le nuove forme di schiavitù, tra i migranti ma anche tra gli italiani. E arginare i danni della globalizzazione, che ha creato un nuovo esercito di espulsi: lavoratori cui vengono negate la dignità, la sopravvivenza».
Lei si candida a riorganizzare l’area a sinistra del Pd?
«È una sfida di tutta la sinistra, in cui il Pd è il partito più grande. Una volta letto il malessere sociale, bisogna creare dei correttivi. Il Sud e i giovani hanno votato in massa No, non solo per amore della Costituzione, ma per protesta verso il sistema che li esclude».
Lei cos’ha votato?
«Non lo dico perché il mio ruolo mi richiede terzietà, e anche perché penso non sia utile alla discussione futura. Nel campo progressista c’è chi ha votato No, e c’è chi ha votato Sì. Bisogna essere maturi e generosi, capire che la posta in ballo è troppo grande. Bisogna saper guardare oltre. Se alle prossime elezioni si vuole vincere non c’è altra alternativa che tornare insieme, e ritrovare il terreno comune. Se no ci dobbiamo assumere la responsabilità che al governo vadano altri».
Pisapia propone di costruire una forza di sinistra che si allei con il Pd. Lei cosa ne pensa?
«Ho appena detto che bisogna ritrovare un terreno comune, e quindi apprezzo lo sforzo di Pisapia. Però prima che di alleanze dobbiamo parlare di programmi. Io mi voglio alleare innanzitutto con le persone che ho incontrato nelle periferie delle grandi città, allo Zen, al Corviale, a Quarto Oggiaro, a Scampia, dove tornerò lunedì prossimo. Persone che resistono, aggregano, combattono il degrado e lo spaccio. Lì sono i laboratori di politica. Si fa più politica lì che nelle riunioni in cui si parla di alleanze e di schemi. Ci dobbiamo alleare con i soggetti che danno risposte a problemi concreti, e anche con i delusi che non ci credono più ma aspettano un richiamo: se gli proponi qualcosa di utile e di importante, sono pronti a esserci. Non cadiamo nella trappola dell’alleanza precostituita. Questo approccio non funziona».
Lei parla come se Renzi non fosse più in campo. Ma resta il segretario del partito. Cosa dovrebbe fare?
«Non sta a me decidere il suo futuro. C’è una discussione aperta nel Pd, che non ha certo bisogno dei miei consigli. Ma non si può fare finta di niente, come se il voto referendario non ci fosse stato; bisogna leggerlo e dargli una risposta adeguata in termini di nuove politiche. La priorità non può essere il ponte sullo Stretto; la priorità è la messa in sicurezza del territorio, e lo dico oggi che la Camera ha appena approvato all’unanimità il decreto sul terremoto. E poi dobbiamo ripartire dal Sud: Gentiloni ha fatto bene a istituire un nuovo ministero. E al Sud servono investimenti pubblici e privati sulla scuola, sull’università, sulla ricerca e per creare lavoro».
La legislatura deve arrivare alla fine?
«Sarà il Parlamento a decidere. Fino a quando c’è la fiducia e c’è una maggioranza, il governo continua».
Quanto pesa il vitalizio?
«Non lo so. Le cose che pesano sono altre. È uno degli aspetti; non può diventare il centro del dibattito. Il vitalizio non c’è più dalla scorsa legislatura: i deputati versano i contributi, come tutti. Se la legislatura arriva alla fine, prenderanno la pensione quando avranno 65 anni; altrimenti i soldi versati saranno loro restituiti. Bisogna fare chiarezza. Altrimenti il clima di calunnia genera aggressioni gravi».
Si riferisce a Osvaldo Napoli «arrestato» dai manifestanti all’uscita della Camera?
«Ho già espresso solidarietà a Napoli. Gentiloni l’ha detto in Aula: no alla violenza nel dibattito politico. E io aggiungo: no alle aggressioni via social network, no a una società inquinata dall’odio. Le bufale della rete non sono goliardate: sono menzogne decise a tavolino per sporcare le persone, per alimentare la rabbia popolare. Non possiamo lasciare soli i cittadini a gestire subire l’inquinamento della rete. Ho incontrato i vertici di Facebook, ho fatto richieste precise e continuerò a incalzarli».
Magari fossero solo menzogne. Non crede che questa legislatura non sia riuscita a dare il segno di una svolta nell’uso del denaro pubblico?
«Alla Camera, per la prima volta nella storia della Repubblica, abbiamo tagliato 270 milioni di euro e ridotto la spesa in modo consistente. Non è una quisquilia. È un segnale chiaro e forte di discontinuità».
La legge elettorale la farà la Consulta? O il Parlamento?
«Il Parlamento può iniziare a discutere. Ci sono varie proposte di legge, altre ne arriveranno. Ma certo non si potrà prescindere dalla sentenza della Consulta».
La entusiasma il ritorno al proporzionale?
«Non esiste la legge perfetta. Hillary ha avuto molti voti più di Trump, e ha perso. Bisogna trovare una sintesi tra due esigenze: rappresentanza e governabilità».
E il Mattarellum?
«È una base su cui ragionare. Una formula che di sicuro sarà all’attenzione del Parlamento».
La Stampa 15.12.16
Fedeli nel mirino
Lo staff cancella il «diploma di laurea»
Il giorno dopo lo scoppio delle polemiche sul suo titolo di studio Valeria Fedeli modifica il suo curriculum online: via «diploma di laurea», sostituito da «diploma per assistenti sociali». Una retromarcia - fanno sapere dall’entourage del ministro - fatta «per togliere ogni ambiguità» e per «evitare confusioni». ma la polemica non si placa. Sui social il ministro dell’Istruzione finisce al centro di ironie e richieste di dimissioni. Fedeli è stata presa di mira in modo particolare dagli organizzatori del Family Day, anche per la sua militanza femminista e la sua lotta alle discriminazioni di genere. Laura Boldrini, presidente della Camera, su Twitter ha difeso la proposta di legge sull’educazione di genere a scuola: «Serve a prevenire la violenza sulle donne».
Fedeli nel mirino
Lo staff cancella il «diploma di laurea»
Il giorno dopo lo scoppio delle polemiche sul suo titolo di studio Valeria Fedeli modifica il suo curriculum online: via «diploma di laurea», sostituito da «diploma per assistenti sociali». Una retromarcia - fanno sapere dall’entourage del ministro - fatta «per togliere ogni ambiguità» e per «evitare confusioni». ma la polemica non si placa. Sui social il ministro dell’Istruzione finisce al centro di ironie e richieste di dimissioni. Fedeli è stata presa di mira in modo particolare dagli organizzatori del Family Day, anche per la sua militanza femminista e la sua lotta alle discriminazioni di genere. Laura Boldrini, presidente della Camera, su Twitter ha difeso la proposta di legge sull’educazione di genere a scuola: «Serve a prevenire la violenza sulle donne».
il manifesto 15.12.16
Spunta il proporzionale pret-a-porter
Legge elettorale. Giuseppe Lauricella, deputato vicinissimo alla neo ministra Anna Finocchiaro, anticipa la prevedibile sentenza della Consulta. E la Corte costituzionale fa in modo che tutti gli argomenti contro l'Italicum possano essere discussi il 24 gennaio
di Andrea Fabozzi
Mentre il governo e il parlamento cominciano a mettere a fuoco le possibili soluzioni sulla legge elettorale, la Corte costituzionale che il 24 gennaio dovrà pronunciare l’atteso giudizio sull’Italicum fa le sue prime mosse. Sulla Gazzetta ufficiale di ieri sono state pubblicate le ordinanze dei tribunali di Trieste e Genova che hanno sollevato le ultime questioni di costituzionalità sulla nuova legge elettorale. Il che consentirà ai giudici della Consulta di inserire nuovi argomenti nell’udienza del 24, data scelta proprio per non lasciare fuori alcun ricorso. A dispetto delle critiche di lentezza che sono piovute sui giudici, la Corte ha impresso un’accelerazione al suo iter tradizionale, stringendo i tempi per le parti e invertendo l’ordine della pubblicazione in Gazzetta: in questo modo tutte le cinque ordinanze (da ottobre erano già pronte quelle di Messina, Torino e Perugia) potranno essere esaminate. Il che aumenta le chance che l’Italicum venga pesantemente, se non completamente, mutilato.
Proprio in previsione di quel giudizio, ieri il deputato del Pd Giuseppe Lauricella ha presentato una proposta di legge che trasforma l’Italicum in quello che prevedibilmente potrebbe uscire dalla Consulta. Cancellato il ballottaggio (è uno dei punti sottoposti ai giudici), resta una legge proporzionale con un forte premio di maggioranza (il 15% dei seggi) attribuibile però solo alla lista che raggiunga il 40% dei voti su base nazionale. Lista e non coalizione, lo prevede già l’Italicum ma resta improbabile che un partito da solo, nelle attuali condizioni, raggiunga la soglia. In più, perché scatti il premio, il 40% dovrebbe essere raggiunto non solo alla camera ma anche al senato; altrimenti la legge funzionerebbe come un proporzionale puro – o quasi visto che sono previste soglie di sbarramento non troppo alte: 3% alla camera e 4% al senato. Altra novità, anche questa evidentemente studiata per incontrare la prevedibile decisione della Consulta, la riduzione delle pluricandidature: i capilista bloccati scenderebbero da dieci a tre e verrebbe introdotto un criterio per non lasciare al loro libero arbitrio l’opzione del collegio (altro punto dell’Itallicum sottoposto al vaglio di costituzionalità).
Il testo di Lauricella potrebbe essere, allora, un testo prêt-à-porter per i giorni successivi alla sentenza della Consulta, o meglio alla pubblicazione delle motivazioni (prevedibilmente i primi del prossimo febbraio). Il punto di caduta per un parlamento che volesse limitarsi a recepire la sentenza. Per poi votare al più presto, nella tarda primavera. Come hanno auspicato ieri diversi esponenti del Pd renziano, a cominciare dal vice segretario Pd Guerini: «Si può fare una legge per votare a giugno».
Guerini ha aggiunto che, dopo il referendum, si deve considerare «chiuso il ventennio maggioritario». Una conversione- ascrivibile agli ultimi umori di Renzi – decisamente rapida per chi fino a poco fa sosteneva una legge (l’Italicum) ultra maggioritaria, imponendola con il voto di fiducia. Le convenienze del momento spingono soprattutto a fare presto. Ricercando l’accordo con Berlusconi, che da quando Forza Italia è crollata dalle parti del 10% è diventato un fan del proporzionale.
D’altra parte la collocazione politica di Lauricella è una garanzia: da sempre è assai vicino ad Anna Finocchiaro, che in veste di ministra per i rapporti con il parlamento ha ereditato da Maria Elena Boschi il dossier sulla legge elettorale. La sua più volte ribadita preferenza per il vecchio Mattarellum (uninominale di collegio) può finire sacrificata alle nuove richieste renziane. Sempre che si stabilizzino.
La revanche proporzionalista, ieri, si è fatta spazio anche nel discorso del presidente del Consiglio al senato. Nel corso del dibattito sulla fiducia, Gentiloni ha ripetuto che il governo non sarà l’attore protagonista della riforma elettorale per lasciar spazio al parlamento. Anche se ha calcato un po’ di più sulla volontà di sollecitare i parlamentari a fare presto. Poi, citando due interventi favorevoli al proporzionale – dei senatori Mineo e Quagliariello – ha parlato di «evoluzione del nostro sistema rispetto a come è stato negli ultimi anni». Gli anni del maggioritario.
Spunta il proporzionale pret-a-porter
Legge elettorale. Giuseppe Lauricella, deputato vicinissimo alla neo ministra Anna Finocchiaro, anticipa la prevedibile sentenza della Consulta. E la Corte costituzionale fa in modo che tutti gli argomenti contro l'Italicum possano essere discussi il 24 gennaio
di Andrea Fabozzi
Mentre il governo e il parlamento cominciano a mettere a fuoco le possibili soluzioni sulla legge elettorale, la Corte costituzionale che il 24 gennaio dovrà pronunciare l’atteso giudizio sull’Italicum fa le sue prime mosse. Sulla Gazzetta ufficiale di ieri sono state pubblicate le ordinanze dei tribunali di Trieste e Genova che hanno sollevato le ultime questioni di costituzionalità sulla nuova legge elettorale. Il che consentirà ai giudici della Consulta di inserire nuovi argomenti nell’udienza del 24, data scelta proprio per non lasciare fuori alcun ricorso. A dispetto delle critiche di lentezza che sono piovute sui giudici, la Corte ha impresso un’accelerazione al suo iter tradizionale, stringendo i tempi per le parti e invertendo l’ordine della pubblicazione in Gazzetta: in questo modo tutte le cinque ordinanze (da ottobre erano già pronte quelle di Messina, Torino e Perugia) potranno essere esaminate. Il che aumenta le chance che l’Italicum venga pesantemente, se non completamente, mutilato.
Proprio in previsione di quel giudizio, ieri il deputato del Pd Giuseppe Lauricella ha presentato una proposta di legge che trasforma l’Italicum in quello che prevedibilmente potrebbe uscire dalla Consulta. Cancellato il ballottaggio (è uno dei punti sottoposti ai giudici), resta una legge proporzionale con un forte premio di maggioranza (il 15% dei seggi) attribuibile però solo alla lista che raggiunga il 40% dei voti su base nazionale. Lista e non coalizione, lo prevede già l’Italicum ma resta improbabile che un partito da solo, nelle attuali condizioni, raggiunga la soglia. In più, perché scatti il premio, il 40% dovrebbe essere raggiunto non solo alla camera ma anche al senato; altrimenti la legge funzionerebbe come un proporzionale puro – o quasi visto che sono previste soglie di sbarramento non troppo alte: 3% alla camera e 4% al senato. Altra novità, anche questa evidentemente studiata per incontrare la prevedibile decisione della Consulta, la riduzione delle pluricandidature: i capilista bloccati scenderebbero da dieci a tre e verrebbe introdotto un criterio per non lasciare al loro libero arbitrio l’opzione del collegio (altro punto dell’Itallicum sottoposto al vaglio di costituzionalità).
Il testo di Lauricella potrebbe essere, allora, un testo prêt-à-porter per i giorni successivi alla sentenza della Consulta, o meglio alla pubblicazione delle motivazioni (prevedibilmente i primi del prossimo febbraio). Il punto di caduta per un parlamento che volesse limitarsi a recepire la sentenza. Per poi votare al più presto, nella tarda primavera. Come hanno auspicato ieri diversi esponenti del Pd renziano, a cominciare dal vice segretario Pd Guerini: «Si può fare una legge per votare a giugno».
Guerini ha aggiunto che, dopo il referendum, si deve considerare «chiuso il ventennio maggioritario». Una conversione- ascrivibile agli ultimi umori di Renzi – decisamente rapida per chi fino a poco fa sosteneva una legge (l’Italicum) ultra maggioritaria, imponendola con il voto di fiducia. Le convenienze del momento spingono soprattutto a fare presto. Ricercando l’accordo con Berlusconi, che da quando Forza Italia è crollata dalle parti del 10% è diventato un fan del proporzionale.
D’altra parte la collocazione politica di Lauricella è una garanzia: da sempre è assai vicino ad Anna Finocchiaro, che in veste di ministra per i rapporti con il parlamento ha ereditato da Maria Elena Boschi il dossier sulla legge elettorale. La sua più volte ribadita preferenza per il vecchio Mattarellum (uninominale di collegio) può finire sacrificata alle nuove richieste renziane. Sempre che si stabilizzino.
La revanche proporzionalista, ieri, si è fatta spazio anche nel discorso del presidente del Consiglio al senato. Nel corso del dibattito sulla fiducia, Gentiloni ha ripetuto che il governo non sarà l’attore protagonista della riforma elettorale per lasciar spazio al parlamento. Anche se ha calcato un po’ di più sulla volontà di sollecitare i parlamentari a fare presto. Poi, citando due interventi favorevoli al proporzionale – dei senatori Mineo e Quagliariello – ha parlato di «evoluzione del nostro sistema rispetto a come è stato negli ultimi anni». Gli anni del maggioritario.
La Stampa 15.12.16
Nessuno crede alla rottura tra Verdini e il neo premier
di Marcello Sorgi
Non c’era un solo senatore ieri a Palazzo Madama, al dibattito-bis sulla fiducia in perfetto stile bicameralismo paritario post-vittoria del No, disposto a credere alla rottura tra Verdini e Gentiloni: determinata, secondo l’ex-braccio destro di Berlusconi, dalla mancata assegnazione di un ministero al partitino transfuga dall’opposizione di centrodestra che tante volte aveva aiutato Renzi nelle votazioni in cui mancavano i voti della minoranza Pd. Così il gruppo di diciotto senatori che era stato decisivo per approvare la riforma costituzionale bocciata nelle urne stavolta ha fatto mancare il proprio appoggio. Ma il governo ha ottenuto lo stesso la fiducia con 169 voti grazie al sostegno di dissidenti sparsi di vari gruppi dell’opposizione, compresi 5 stelle e Sel, e all’indispensabile contributo del gruppo delle autonomie Gal, il cui leader Paolo Naccarato, cossighiano alla memoria del fu Capo dello Stato, per l’occasione indossava la storica cravatta fondativa dei Quattro Gatti voluta da Cossiga per contrassegnare nel ’98 la nascita del governo D’Alema. Naccarato sostiene - e quasi certamente non ha torto - che nel Senato redivivo di quest’ultima legislatura, salvato dal No al referendum e in attesa della tempesta trasformista che arriverà nella prossima con il ritorno al proporzionale dei mille gruppi e gruppuscoli, non si troveranno mai i 161voti necessari a far passare un’eventuale mozione di sfiducia.
Qui torna il dubbio che l’opposizione di Verdini - che oltre al ministero inutilmente agognato fa perdere ad Ala anche il posto di viceministro allo Sviluppo economico di Zanetti e svariati sottosegretariati -, invece di essere contro Gentiloni, sia a favore della maggiore debolezza, voluta da Renzi, del governo appena nato nella Camera Alta. Dove malgrado i buoni numeri di ieri, tornerà a essere molto difficile far passare i provvedimenti nelle commissioni e in aula non appena i senatori riprenderanno il loro normale tasso di assenze e di missioni, o se l’opposizione, quella vera di Grillo e Salvini, adopererà tutti gli strumenti messi a disposizione dal regolamento parlamentare, a partire dalla verifica del numero legale che in passato è stata in grado di bloccare per giorni l’attività del Senato, rallentando l’approvazione di decreti o portandoli pericolosamente vicini alla scadenza. Si vedrà allora se il risentito No a Gentiloni dei verdiniani sarà in grado di produrre il patatrac finale della legislatura, o se invece il soccorso azzurro si manifesterà con provvidenziali uscite dall’aula dei berlusconiani, e soprattutto fino a quando.
Nessuno crede alla rottura tra Verdini e il neo premier
di Marcello Sorgi
Non c’era un solo senatore ieri a Palazzo Madama, al dibattito-bis sulla fiducia in perfetto stile bicameralismo paritario post-vittoria del No, disposto a credere alla rottura tra Verdini e Gentiloni: determinata, secondo l’ex-braccio destro di Berlusconi, dalla mancata assegnazione di un ministero al partitino transfuga dall’opposizione di centrodestra che tante volte aveva aiutato Renzi nelle votazioni in cui mancavano i voti della minoranza Pd. Così il gruppo di diciotto senatori che era stato decisivo per approvare la riforma costituzionale bocciata nelle urne stavolta ha fatto mancare il proprio appoggio. Ma il governo ha ottenuto lo stesso la fiducia con 169 voti grazie al sostegno di dissidenti sparsi di vari gruppi dell’opposizione, compresi 5 stelle e Sel, e all’indispensabile contributo del gruppo delle autonomie Gal, il cui leader Paolo Naccarato, cossighiano alla memoria del fu Capo dello Stato, per l’occasione indossava la storica cravatta fondativa dei Quattro Gatti voluta da Cossiga per contrassegnare nel ’98 la nascita del governo D’Alema. Naccarato sostiene - e quasi certamente non ha torto - che nel Senato redivivo di quest’ultima legislatura, salvato dal No al referendum e in attesa della tempesta trasformista che arriverà nella prossima con il ritorno al proporzionale dei mille gruppi e gruppuscoli, non si troveranno mai i 161voti necessari a far passare un’eventuale mozione di sfiducia.
Qui torna il dubbio che l’opposizione di Verdini - che oltre al ministero inutilmente agognato fa perdere ad Ala anche il posto di viceministro allo Sviluppo economico di Zanetti e svariati sottosegretariati -, invece di essere contro Gentiloni, sia a favore della maggiore debolezza, voluta da Renzi, del governo appena nato nella Camera Alta. Dove malgrado i buoni numeri di ieri, tornerà a essere molto difficile far passare i provvedimenti nelle commissioni e in aula non appena i senatori riprenderanno il loro normale tasso di assenze e di missioni, o se l’opposizione, quella vera di Grillo e Salvini, adopererà tutti gli strumenti messi a disposizione dal regolamento parlamentare, a partire dalla verifica del numero legale che in passato è stata in grado di bloccare per giorni l’attività del Senato, rallentando l’approvazione di decreti o portandoli pericolosamente vicini alla scadenza. Si vedrà allora se il risentito No a Gentiloni dei verdiniani sarà in grado di produrre il patatrac finale della legislatura, o se invece il soccorso azzurro si manifesterà con provvidenziali uscite dall’aula dei berlusconiani, e soprattutto fino a quando.
Corriere 15.12.16
La tentazione del leader pd: lasciare a Orfini
Renzi ancora in bilico tra l’ipotesi di rinviare il congresso e le dimissioni per farlo subito
Ricci (segreteria dem): «Se la sinistra ci ha ripensato e vuole posticipare, Matteo li ascolti»
di Dino Martirano
ROMA Fatte salve le prerogative del capo dello Stato, la data delle elezioni politiche, e di conseguenza la durata del governo Gentiloni, le condiziona chi comanda nel Pd. Però il segretario dem Matteo Renzi ancora non ha stabilito da che parte fermare il pendolo della resa dei conti nel partito. Anzi, a giorni alterni, il segretario dosa i passi tattici che ora — dopo giornate impostate sul rinvio — tendono di nuovo verso il congresso in tempi rapidi: un’accelerazione, dunque, da far precedere dalle dimissioni del segretario in carica con affidamento del Pd alla reggenza del presidente Matteo Orfini. E lo stesso vicesegretario, Lorenzo Guerini, conferma il cambio di passo: Renzi «probabilmente sarà il candidato al prossimo congresso come segretario».
Sullo scenario del rinvio si è inserito il vicepresidente del Pd Matteo Ricci, che prova a tendere la mano alla minoranza: «Se hanno cambiato idea e ora chiedono di rinviare il congresso, Renzi dovrebbe ascoltarli. Se siamo tutti d’accordo sulla necessità di prender tempo decidiamo insieme all’assemblea nazionale di domenica. Non possiamo permetterci di trasformare questo appuntamento in una battaglia sullo statuto del partito».
Invece il governatore della Toscana Enrico Rossi, candidato alla segreteria, dice che il calendario non può essere rovesciato: «Prima delle elezioni ci dovrà essere il congresso».
Matteo Ricci, che è anche il sindaco di Pesaro, ritiene poi che «si debba andare a votare in primavera, quando saranno chiamati alle urne 1000 Comuni tra i quali 25 capoluoghi: da Genova a Palermo, da Parma all’Aquila...». Sulla legge elettorale, Ricci spiega: «Non possiamo fare i passi indietro sulla governabilità e la rappresentatività. E le strade da intraprendere sono due, anche prima del 24 gennaio quando la Consulta dirà la sua sull’Italicum». Dunque, secondo il vicepresidente del Pd, o si punta sul Mattarellum o su una «legge proporzionale con premio di maggioranza».
Ma sul recupero dell’Italicum il deputato Giuseppe Lauricella (Pd), che è professore di Diritto costituzionale a Palermo, ha già presentato una sua proposta: un turno solo (via il ballottaggio) con premio di maggioranza (15%) al primo partito che supera il 40% alla Camera e al Senato. Il «Lauricellum» è un proporzionale che però pone sul tavolo una variante maggioritaria residuale. Inoltre mantiene il premio al partito, i capilista bloccati, 3 delle 10 pluricandidature, e risolve con un astuto trucco contabile il rebus delle leggi non omogenee per Camera e Senato. I premi di maggioranza conquistati su base regionale, infatti, hanno fin qui provocato «risultati casuali» determinando «maggioranze non coincidenti nei due rami del Parlamento».
La tentazione del leader pd: lasciare a Orfini
Renzi ancora in bilico tra l’ipotesi di rinviare il congresso e le dimissioni per farlo subito
Ricci (segreteria dem): «Se la sinistra ci ha ripensato e vuole posticipare, Matteo li ascolti»
di Dino Martirano
ROMA Fatte salve le prerogative del capo dello Stato, la data delle elezioni politiche, e di conseguenza la durata del governo Gentiloni, le condiziona chi comanda nel Pd. Però il segretario dem Matteo Renzi ancora non ha stabilito da che parte fermare il pendolo della resa dei conti nel partito. Anzi, a giorni alterni, il segretario dosa i passi tattici che ora — dopo giornate impostate sul rinvio — tendono di nuovo verso il congresso in tempi rapidi: un’accelerazione, dunque, da far precedere dalle dimissioni del segretario in carica con affidamento del Pd alla reggenza del presidente Matteo Orfini. E lo stesso vicesegretario, Lorenzo Guerini, conferma il cambio di passo: Renzi «probabilmente sarà il candidato al prossimo congresso come segretario».
Sullo scenario del rinvio si è inserito il vicepresidente del Pd Matteo Ricci, che prova a tendere la mano alla minoranza: «Se hanno cambiato idea e ora chiedono di rinviare il congresso, Renzi dovrebbe ascoltarli. Se siamo tutti d’accordo sulla necessità di prender tempo decidiamo insieme all’assemblea nazionale di domenica. Non possiamo permetterci di trasformare questo appuntamento in una battaglia sullo statuto del partito».
Invece il governatore della Toscana Enrico Rossi, candidato alla segreteria, dice che il calendario non può essere rovesciato: «Prima delle elezioni ci dovrà essere il congresso».
Matteo Ricci, che è anche il sindaco di Pesaro, ritiene poi che «si debba andare a votare in primavera, quando saranno chiamati alle urne 1000 Comuni tra i quali 25 capoluoghi: da Genova a Palermo, da Parma all’Aquila...». Sulla legge elettorale, Ricci spiega: «Non possiamo fare i passi indietro sulla governabilità e la rappresentatività. E le strade da intraprendere sono due, anche prima del 24 gennaio quando la Consulta dirà la sua sull’Italicum». Dunque, secondo il vicepresidente del Pd, o si punta sul Mattarellum o su una «legge proporzionale con premio di maggioranza».
Ma sul recupero dell’Italicum il deputato Giuseppe Lauricella (Pd), che è professore di Diritto costituzionale a Palermo, ha già presentato una sua proposta: un turno solo (via il ballottaggio) con premio di maggioranza (15%) al primo partito che supera il 40% alla Camera e al Senato. Il «Lauricellum» è un proporzionale che però pone sul tavolo una variante maggioritaria residuale. Inoltre mantiene il premio al partito, i capilista bloccati, 3 delle 10 pluricandidature, e risolve con un astuto trucco contabile il rebus delle leggi non omogenee per Camera e Senato. I premi di maggioranza conquistati su base regionale, infatti, hanno fin qui provocato «risultati casuali» determinando «maggioranze non coincidenti nei due rami del Parlamento».
Corriere 15.12.16
Un Pd confuso si prepara a elezioni entro giugno
di Massimo Franco
L’impressione è che il Pd e Matteo Renzi stiano faticosamente cercando di ritrovare la lucidità dopo la sconfitta referendaria. L’istinto dell’ex premier di andare al congresso anticipato e regolare i conti con la minoranza si sta calmando: al punto che probabilmente il congresso non si farà prima della fine del 2017. Renzi rischiava di doversi dimettere anche dal partito per renderlo possibile, e i giochi interni lo avrebbero ulteriormente indebolito.
Non solo. Una dichiarazione improvvida del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, «una scivolata», la chiama, lascia capire che ci sarebbe un accordo per andare alle urne a giugno. Obiettivo: far saltare il referendum sul Jobs act promosso dalla Cgil. Sono segnali di un nervosismo palpabile, che si aggiungono ai veleni che affiorano tra i dem sulla conferma dell’ex ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, come sottosegretaria a Palazzo Chigi. Ma sembrano anche la conferma che in questa fase il Pd si presenta confuso e diviso.
Renzi medita e rimugina nella quiete di Rignano. Ma il partito comincia a ragionare in una prospettiva che non ruota più intorno alla sua leadership: non solo, almeno. Il risultato è che il premier Paolo Gentiloni ottiene la fiducia del Senato con un governo consapevole della propria fragilità, e assediato da opposizioni elettrizzate. Lo sforzo è di andare avanti il più possibile, per approvare entro febbraio o marzo un nuovo sistema elettorale, ed evitare censure troppo plateali dalla Commissione europea sui conti pubblici.
Presto l’Italia potrebbe registrare lo smantellamento di uno dei pochi risultati rivendicati dal governo precedente. Vedersi bocciare, dopo le riforme costituzionali, anche la legge sul mercato del lavoro presentata come un fiore all’occhiello, sarebbe la disfatta. La previsione è che la Corte costituzionale sia intenzionata ad ammettere il referendum della Cgil e farlo votare in primavera. Ma il Pd vorrebbe scongiurarlo. «Se si vota prima del referendum, il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile», ha dichiarato ufficialmente Poletti.
Di fatto, sarebbe rinviato di un anno. Ma interrompere la legislatura per timore di un altro responso popolare sa di autogol. Le parole del ministro del Lavoro sono state accolte dalle reazioni furibonde delle opposizioni, e dal silenzio imbarazzato di quasi tutto il suo partito: quasi, perché il governatore della Toscana, Enrico Rossi, parla di «suicidio» del Pd se avalla le sue posizioni. Ma al voto a giugno la maggioranza pensa davvero. «Si può fare», conferma il vicesegretario, Lorenzo Guerini. Chissà se a Gentiloni verrà dato il tempo anche solo per cominciare davvero.
Un Pd confuso si prepara a elezioni entro giugno
di Massimo Franco
L’impressione è che il Pd e Matteo Renzi stiano faticosamente cercando di ritrovare la lucidità dopo la sconfitta referendaria. L’istinto dell’ex premier di andare al congresso anticipato e regolare i conti con la minoranza si sta calmando: al punto che probabilmente il congresso non si farà prima della fine del 2017. Renzi rischiava di doversi dimettere anche dal partito per renderlo possibile, e i giochi interni lo avrebbero ulteriormente indebolito.
Non solo. Una dichiarazione improvvida del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, «una scivolata», la chiama, lascia capire che ci sarebbe un accordo per andare alle urne a giugno. Obiettivo: far saltare il referendum sul Jobs act promosso dalla Cgil. Sono segnali di un nervosismo palpabile, che si aggiungono ai veleni che affiorano tra i dem sulla conferma dell’ex ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, come sottosegretaria a Palazzo Chigi. Ma sembrano anche la conferma che in questa fase il Pd si presenta confuso e diviso.
Renzi medita e rimugina nella quiete di Rignano. Ma il partito comincia a ragionare in una prospettiva che non ruota più intorno alla sua leadership: non solo, almeno. Il risultato è che il premier Paolo Gentiloni ottiene la fiducia del Senato con un governo consapevole della propria fragilità, e assediato da opposizioni elettrizzate. Lo sforzo è di andare avanti il più possibile, per approvare entro febbraio o marzo un nuovo sistema elettorale, ed evitare censure troppo plateali dalla Commissione europea sui conti pubblici.
Presto l’Italia potrebbe registrare lo smantellamento di uno dei pochi risultati rivendicati dal governo precedente. Vedersi bocciare, dopo le riforme costituzionali, anche la legge sul mercato del lavoro presentata come un fiore all’occhiello, sarebbe la disfatta. La previsione è che la Corte costituzionale sia intenzionata ad ammettere il referendum della Cgil e farlo votare in primavera. Ma il Pd vorrebbe scongiurarlo. «Se si vota prima del referendum, il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile», ha dichiarato ufficialmente Poletti.
Di fatto, sarebbe rinviato di un anno. Ma interrompere la legislatura per timore di un altro responso popolare sa di autogol. Le parole del ministro del Lavoro sono state accolte dalle reazioni furibonde delle opposizioni, e dal silenzio imbarazzato di quasi tutto il suo partito: quasi, perché il governatore della Toscana, Enrico Rossi, parla di «suicidio» del Pd se avalla le sue posizioni. Ma al voto a giugno la maggioranza pensa davvero. «Si può fare», conferma il vicesegretario, Lorenzo Guerini. Chissà se a Gentiloni verrà dato il tempo anche solo per cominciare davvero.
il manifesto 15.12.16
La grande vittoria del No e la sconfitta della strategia «classista» di Renzi
Referendum e questione sociale. C’è un passaggio chiave nelle scelte economiche di Renzi: l’abolizione dell’Imu prima casa. In un paese che in meno di 10 anni ha perso il 25% della sua base produttiva, premiare la rendita fondiaria non ha pagato
di Piero Bevilacqua
Il grado di sofisticazione cui oggi è giunta l’analisi dei flussi elettorali ci consente di cogliere aspetti importanti del voto referendario.È stato a ragione segnalato il carattere «sociale» visibile nella geografia del No lungo la Penisola: la periferia delle città rispetto al loro centro, il Sud rispetto al Nord, i disoccupati rispetto agli occupati, i giovani rispetto agli anziani.
Ma uno sguardo alla cartografia del Sì non è meno interessante per la conferma di tale lettura. Esso fa intravedere le nette fratture, non solo generalmente sociali, ma di classe, che lacerano la società italiana. Le disuguaglianze crescenti dell’ultimo decennio hanno creato nel Paese due mondi separati: quello dei ceti che godono di reddito sufficiente e di sicurezza e possono affrontare la riduzione del welfare e la politica di austerità, e quello degli strati che indietreggiano verso la povertà o nella povertà sono già precipitati. Quella cartografia ci mostra anche – certo all’ingrosso – un profilo sociologico delle base di consenso di cui godeva il governo Renzi e a cui lo stesso presidente del Consiglio guardava per il proprio progetto di affermazione. È in parte anche la base sociale di questo Pd, che rappresenta ormai prevalentemente gli interessi della media borghesia cittadina, gruppi finanziari e imprenditoriali, settori della stampa, del mondo intellettuale, parte del quale crede di appartenere ancora a una gloriosa tradizione e non si è accorto in quale nuovo continente è approdato.
La vittoria del No è dunque anche l’espressione di un conflitto sociale contro una strategia «classista» di governo che ormai mostrava nitidamente – al di là degli elementi di modernizzazione pur presenti in alcune iniziative – il suo carattere di progetto di «governo della crisi» fondato sul consolidamento di un blocco di classe.
La linea economica di questo esecutivo, l’abbiamo rilevato più volte, consisteva nel tentativo di rilanciare l’economia italiana tramite un rilevante afflusso di investimenti esteri attratti dai vantaggi offerti alla libera valorizzazione dei capitali. Nulla di diverso dallo schema neocoloniale perseguito dal ceto politico dell’Occidente negli ultimi anni. A tal fine si è offerta, o si è cercato di offrire, nuova flessibilità del lavoro (Jobs act), scuola subordinata ai bisogni del mercato del lavoro, agevolazioni fiscali alle imprese, esecutivo libero da eccessivi vincoli di procedure democratiche, ecc.
C’è un passaggio rivelatore, nella politica economica del passato governo, che mostra nitidamente la scelta di consolidamento di un blocco sociale contro le ragioni stesse dell’economia produttiva e di un possibile rilancio della domanda interna: l’esenzione dell’Imu dalla prima casa.
Com’è possibile, in un Paese che in meno di 10 anni ha perso il 25% della sua base produttiva, premiare a tal punto la rendita fondiaria, se non per la ragione che Renzi voleva radicare il suo potere nei ceti abbienti della società italiana?
Nel voto del No c’è dunque la sconfitta di questa strategia, che non ha rilanciato l’economia italiana, non ha scalfito la disoccupazione dilagante, non ha ridotto ma esasperato le disuguaglianze, non ha contenuto ma moltiplicato la precarietà del lavoro, non ha attenuato ma accresciuto l’emarginazione della gioventù, non ha sollevato le sorti del Sud, ma ne ha spinto i ceti più deboli nella disperazione sociale.
Forse mai come in questo voto referendario c’è stato tanto conflitto politico contro le classi dirigenti e il loro governo.
Ma questa vittoria che oggi ci esalta, ci inquieta al tempo stesso. Esistono tutte le condizioni perché la sinistra si metta in sintonia con le grandi masse popolari del nostro Paese, con i ceti produttivi, con le nuove generazioni, con le genti del Sud, con i gruppi intellettuali, anche con quelli di area Pd, che devono prendere atto dell’inadeguatezza della loro lettura della crisi e del capitalismo attuale.
Ma dov’è la voce della sinistra? Sel ha compiuto il gesto generoso di sciogliersi per favorire un nuovo processo di aggregazione e si aspettavano le mosse e le iniziative di Sinistra Italiana. Quest’ultima doveva celebrare il proprio congresso fondativo in questo dicembre e lo ha spostato a febbraio. E nel frattempo? I gruppi dirigenti di SI, con l’apporto anche di intellettuali d’area, stanno elaborando una piattaforma programmatica che si mette alle spalle decenni di riformismo neoliberista. Sul piano teorico e culturale si sta scrivendo una nuova pagina progettuale. Ma è evidente in questo momento l’assenza di senso del tempo, la capacità di seguire le scansioni della lotta in corso con spirito d’iniziativa e creatività di manovra. È oggi, non domani, che è necessario mostrare, ai mille gruppi dispersi della sinistra, ai lavoratori, ai giovani, un punto di riferimento, un centro aggregatore dotato di un serio progetto riformatore, all’altezza delle sfide che l’Italia deve affrontare. Non sappiamo da tempo che, se il nuovo partito nascerà a ridosso delle elezioni, verrà valutato dagli italiani come l’ennesimo tentativo di un ceto politico marginale di ritagliarsi uno spazio qualunque nella rappresentanza parlamentare?
La grande vittoria del No e la sconfitta della strategia «classista» di Renzi
Referendum e questione sociale. C’è un passaggio chiave nelle scelte economiche di Renzi: l’abolizione dell’Imu prima casa. In un paese che in meno di 10 anni ha perso il 25% della sua base produttiva, premiare la rendita fondiaria non ha pagato
di Piero Bevilacqua
Il grado di sofisticazione cui oggi è giunta l’analisi dei flussi elettorali ci consente di cogliere aspetti importanti del voto referendario.È stato a ragione segnalato il carattere «sociale» visibile nella geografia del No lungo la Penisola: la periferia delle città rispetto al loro centro, il Sud rispetto al Nord, i disoccupati rispetto agli occupati, i giovani rispetto agli anziani.
Ma uno sguardo alla cartografia del Sì non è meno interessante per la conferma di tale lettura. Esso fa intravedere le nette fratture, non solo generalmente sociali, ma di classe, che lacerano la società italiana. Le disuguaglianze crescenti dell’ultimo decennio hanno creato nel Paese due mondi separati: quello dei ceti che godono di reddito sufficiente e di sicurezza e possono affrontare la riduzione del welfare e la politica di austerità, e quello degli strati che indietreggiano verso la povertà o nella povertà sono già precipitati. Quella cartografia ci mostra anche – certo all’ingrosso – un profilo sociologico delle base di consenso di cui godeva il governo Renzi e a cui lo stesso presidente del Consiglio guardava per il proprio progetto di affermazione. È in parte anche la base sociale di questo Pd, che rappresenta ormai prevalentemente gli interessi della media borghesia cittadina, gruppi finanziari e imprenditoriali, settori della stampa, del mondo intellettuale, parte del quale crede di appartenere ancora a una gloriosa tradizione e non si è accorto in quale nuovo continente è approdato.
La vittoria del No è dunque anche l’espressione di un conflitto sociale contro una strategia «classista» di governo che ormai mostrava nitidamente – al di là degli elementi di modernizzazione pur presenti in alcune iniziative – il suo carattere di progetto di «governo della crisi» fondato sul consolidamento di un blocco di classe.
La linea economica di questo esecutivo, l’abbiamo rilevato più volte, consisteva nel tentativo di rilanciare l’economia italiana tramite un rilevante afflusso di investimenti esteri attratti dai vantaggi offerti alla libera valorizzazione dei capitali. Nulla di diverso dallo schema neocoloniale perseguito dal ceto politico dell’Occidente negli ultimi anni. A tal fine si è offerta, o si è cercato di offrire, nuova flessibilità del lavoro (Jobs act), scuola subordinata ai bisogni del mercato del lavoro, agevolazioni fiscali alle imprese, esecutivo libero da eccessivi vincoli di procedure democratiche, ecc.
C’è un passaggio rivelatore, nella politica economica del passato governo, che mostra nitidamente la scelta di consolidamento di un blocco sociale contro le ragioni stesse dell’economia produttiva e di un possibile rilancio della domanda interna: l’esenzione dell’Imu dalla prima casa.
Com’è possibile, in un Paese che in meno di 10 anni ha perso il 25% della sua base produttiva, premiare a tal punto la rendita fondiaria, se non per la ragione che Renzi voleva radicare il suo potere nei ceti abbienti della società italiana?
Nel voto del No c’è dunque la sconfitta di questa strategia, che non ha rilanciato l’economia italiana, non ha scalfito la disoccupazione dilagante, non ha ridotto ma esasperato le disuguaglianze, non ha contenuto ma moltiplicato la precarietà del lavoro, non ha attenuato ma accresciuto l’emarginazione della gioventù, non ha sollevato le sorti del Sud, ma ne ha spinto i ceti più deboli nella disperazione sociale.
Forse mai come in questo voto referendario c’è stato tanto conflitto politico contro le classi dirigenti e il loro governo.
Ma questa vittoria che oggi ci esalta, ci inquieta al tempo stesso. Esistono tutte le condizioni perché la sinistra si metta in sintonia con le grandi masse popolari del nostro Paese, con i ceti produttivi, con le nuove generazioni, con le genti del Sud, con i gruppi intellettuali, anche con quelli di area Pd, che devono prendere atto dell’inadeguatezza della loro lettura della crisi e del capitalismo attuale.
Ma dov’è la voce della sinistra? Sel ha compiuto il gesto generoso di sciogliersi per favorire un nuovo processo di aggregazione e si aspettavano le mosse e le iniziative di Sinistra Italiana. Quest’ultima doveva celebrare il proprio congresso fondativo in questo dicembre e lo ha spostato a febbraio. E nel frattempo? I gruppi dirigenti di SI, con l’apporto anche di intellettuali d’area, stanno elaborando una piattaforma programmatica che si mette alle spalle decenni di riformismo neoliberista. Sul piano teorico e culturale si sta scrivendo una nuova pagina progettuale. Ma è evidente in questo momento l’assenza di senso del tempo, la capacità di seguire le scansioni della lotta in corso con spirito d’iniziativa e creatività di manovra. È oggi, non domani, che è necessario mostrare, ai mille gruppi dispersi della sinistra, ai lavoratori, ai giovani, un punto di riferimento, un centro aggregatore dotato di un serio progetto riformatore, all’altezza delle sfide che l’Italia deve affrontare. Non sappiamo da tempo che, se il nuovo partito nascerà a ridosso delle elezioni, verrà valutato dagli italiani come l’ennesimo tentativo di un ceto politico marginale di ritagliarsi uno spazio qualunque nella rappresentanza parlamentare?