il manifesto 22.5.19
Radio Radicale affossata. Si discute sul fondo editoria
Editoria. Le commissioni Bilancio e Finanze bocciano gli emendamenti per salvare l’emittente. Ammesse le correzioni al dl Crescita firmate dal deputato di Leu, Fornaro
di Eleonora Martini
ROMA Il tentativo di trovare una mediazione con il Movimento 5 Stelle e con il sottosegretario all’Editoria Vito Crimi, attraverso alcuni emendamenti al decreto Crescita che potevano essere la precondizione per tenere in vita Radio Radicale, purtroppo non è andato a buon fine.
Le commissioni Bilancio e Finanze della Camera hanno infatti respinto ieri sera il ricorso presentato da Lega e Pd contro la bocciatura degli emendamenti che contemplavano la proroga di sei mesi della convenzione di Radio Radicale con il Mise (scaduta il 20 maggio), fino a una nuova gara per il servizio pubblico. Emendamenti finiti tra gli oltre 540 dichiarati inammissibili perché non attinenti alla materia.
C’è però un colpo di scena che riaccende le speranze per il manifesto, l’Avvenire, Libero e molte altre cooperative editrici di periodici locali: sono stati riammessi invece gli emendamenti che prevedono una moratoria fino alla fine dell’anno dei tagli al fondo per il pluralismo, presentati dal deputato di Leu, Federico Fornaro. Una boccata d’ossigeno per gli editori puri come la cooperativa di giornalisti e poligrafici che ha ripreso in mano le sorti della vecchia cooperativa ed edita questo quotidiano senza soluzione di continuità dal 1971.
Per Radio Radicale invece non c’è stato nulla da fare: gli organismi parlamentari presieduti rispettivamente dai deputati Claudio Borghi (Lega) e Carla Ruocco (M5S) hanno respinto il provvedimento presentato dalla stessa Lega (a prima firma Massimiliano Capitanio) e quelli fotocopia del Pd e di Leu.
La decisione ultima è stata più rinviata nel corso della giornata, segno di una trattativa politica serrata. Sul tavolo della contrattazione tra i due contraenti del patto di governo ci sarebbe stato «uno scambio di emendamenti», secondo i rumors di palazzo.
Tanto che dopo lo stop definitivo agli emendamenti, nelle commissioni è scoppiata la bagarre, con tutti i gruppi politici contro il M5S, ma anche contro il presidente della commissione Bilancio, Claudio Borghi, accusato dalla dem Silvia Fregolent di fare il «Ponzio Pilato». Eppure tra i pentastellati c’era chi, come Primo Di Nicola ed altri parlamentari, avevano chiesto al sottosegretario Crimi un ripensamento sullo stop alla convenzione per la trasmissione delle sedute parlamentari. E lo stesso Luigi Di Maio qualche giorno fa aveva fatto girare la voce che per l’«organo della Lista Marco Pannella» si sarebbe trovata «una soluzione».
Ma il «gerarca minore» (come lo chiamava Massimo Bordin) non si è spostato di un millimetro: «La mia posizione non è mai cambiata, se ci fossero state novità lo avrei annunciato. Questa è la posizione del governo e così rimane», aveva confermato Vito Crimi, malgrado da più parti si erano sollevati appelli alla “ragionevolezza”.
Ci aveva creduto anche l’onorevole Roberto Giachetti, dem iscritto al Partito Radicale, che è ricoverato per le conseguenze di uno sciopero della fame e della sete intrapreso da venerdì scorso. Inutile la raccomandazione – lanciata da Giachetti in collegamento telefonico dall’ospedale San Carlo di Nancy durante la conferenza stampa organizzata a Montecitorio dal direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio – di tenere «accesa la fiammella della speranza, tenendo conto anche delle indicazioni dell’Agcom», l’Autorità a garanzia delle telecomunicazioni che ha definito irrinunciabile il servizio pubblico garantito dall’emittente negli ultimi 40 anni senza interruzione di sorta.
«Allo stato delle cose pagheremo stipendi di maggio ma non di giugno -ha spiegato Falconio – E anche se volessimo lavorare gratis, abbiamo i costi fissi della rete. Parliamo di 285 impianti che coprono circa l’80% del territorio nazionale, che dovremmo continuare a pagare con elevati costi fissi, che siamo in grado di sostenere solo per pochissime settimane».
Nessuno, però, come Radio Radicale conosce l’«essere speranza» di pannelliana memoria. Si ritenterà ancora, in Parlamento. Ma anche nelle urne, E se ne riparlerà dopo il 26 maggio.
Corriere 22.5.19
Il muro del M5S
No al salvataggio di Radio Radicale
Lite sulla proroga voluta anche dalla Lega
di Dino Martirano
ROMA Il M5S ha spento Radio Radicale. Ieri sera, il veto dei deputati grillini — soli contro tutti gli altri partiti — ha precluso alle commissioni Bilancio e Finanze della Camera la possibilità di votare gli emendamenti fotocopia presentati da Lega, Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Misto che puntano a prorogare di sei mesi (seppure con un finanziamento ridotto a 3,5 milioni) la convenzione, scaduta proprio ieri, tra il Mise e la storica emittente radicale: un’emittente che da oltre 40 anni assicura un servizio pubblico con la trasmissione quotidiana delle sedute parlamentari, dei comizi di tutti i partiti, di molti processi.
Inutili gli sforzi del presidente della commissione Bilancio, il leghista Claudio Borghi: la richiesta di poter votare gli emendamenti per Radio Radicale, presentati al testo del ddl di conversione del decreto legge Crescita, si è scontrata contro il muro eretto dai grillini che alla richiesta di un chiarimento avanzato da Silvia Fregolent (Pd), hanno risposto: «Dopo tanti anni di mangiapane a tradimento, basta con il finanziamento pubblico».
La delegazione grillina ha eseguito senza discutere le direttive impartite dal governo, nella persona del sottosegretario Vito Crimi,che ancora ieri ripeteva il suo mantra: «La nostra posizione non cambia». E così in serata — dopo un complesso tentativo di dichiarare ammissibili gli emendamenti sulla proroga della convenzione — è toccato al giovane grillino Raffaele Trano far mancare la necessaria unanimità e infliggere il colpo di grazia alla radio.
Non una parola da parte della presidente della commissione Finanze, Carla Ruocco (M5S) e dagli altri membri grillini riuniti in seduta congiunta della V e della VI commissione (tra gli altri Buonpane, D’Incà, Trizzino, Currò, Zennaro). A questo punto sono davvero a rischio 100 posti di lavoro: «In assenza di fatti nuovi possiamo andare avanti al massimo fino a metà giugno», ha detto il direttore Alessio Falconio.
Il Movimento ha dunque spento la fiammella di Radio Radicale ma sotto la cenere potrebbe esserci ancora un lapillo di salvezza. L’unico che può alimentarlo, ora, è il presidente della Camera Roberto Fico: per consentire al Parlamento di approvare (o di respingere) la richiesta di mantenere in vita una voce libera. Niente di più.
Corriere 22.5.19
Il processo sul depistaggio
Cucchi, parte civile anche il governo La sorella: emozionata
di Ilaria Sacchettoni
ROMA Il presidente del Consiglio, il Viminale, il ministero della Difesa e l’Arma dei carabinieri si dichiarano parti lese al processo per i presunti depistaggi sul caso della morte di Stefano Cucchi. La famiglia la definisce un’iniziativa «senza precedenti» e Ilaria Cucchi si dice «emozionata» da quanto ha appena saputo, fuori dall’aula della gip Antonella Minunni, che si è riservata di decidere sul rinvio a giudizio degli otto carabinieri accusati dal pm Giovanni Musarò di falso, calunnia, favoreggiamento e omessa denuncia.
Quella di Ilaria Cucchi è una vittoria importante dopo anni di incomprensioni con il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Era il 2017 quando lei stessa pubblicò un post sui carabinieri indagati per il pestaggio di Stefano. E l’allora segretario della Lega commentò così: «Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma è un post che mi fa schifo. Mi ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi». In tempi più recenti l’impegno a invitare la Cucchi al Viminale. «Il ministro dell’Interno deve chiedere scusa alla famiglia Cucchi», aveva detto la sorella di Stefano. Ora la decisione del Viminale: anche il ministero dell’Interno sarà parte lesa al processo nei confronti di quei militari accusati di depistaggio. «Gli imputati — si legge nel documento della costituzione di parte civile — nel commettere i reati contestati, hanno cagionato un grave danno patrimoniale e morale alle Amministrazioni su indicate». Ma è lo stesso ministro Salvini a spiegare il perché dell’iniziativa: «Per colpa di poche mele marce non possiamo accettare che vengano infangate tutte le divise. È questo che ha motivato la costituzione di parte civile del Viminale nel processo Cucchi: mi auguro finiscano gli attacchi e le insinuazioni contro tutte le donne e gli uomini che tutti i giorni vigilano sulla sicurezza degli italiani». Mentre il premier Giuseppe Conte invita a «preservare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni».
Quanto agli agenti di polizia penitenziaria assolti al primo processo per la morte di Cucchi, l’avvocato Diego Perugini che li assiste ha depositato a sua volta la richiesta di costituirsi parte lesa: un milione di euro la richiesta di risarcimento.
Corriere 22.5.19
«Per noi il futuro non c’era più»
Il pianto e la verità di Deborah
Roma, rilasciata la 19enne che ha ucciso il padre: «Eccesso di legittima difesa»
La madre: «Vivevamo nel terrore, lei si chiudeva in camera pur di non vederlo»
di Fulvio Fiano
Tivoli La vita di Deborah Sciacquatori non è mai stata diversa da così: «Papà ci ha sempre picchiato. Facevo gli incubi e temevo che ci uccidesse nel sonno. L’unica cosa che mi ha lasciato è la passione per la boxe e il ricordo di quando, avevo tra i sei e gli otto anni, mi portava con lui in palestra». Chiusa in camera a studiare la 19enne non ne parlava con le amiche o con il centro di ascolto a scuola. Rassegnata, quasi. «Il futuro per noi non esisteva più e per questo non siamo neanche più andate al pronto soccorso o a denunciarlo».
Il giorno in cui decide di ribellarsi a quasi 20 anni di violenze subite in prima persona o a cui ha assistito impotente, c’è un gesto che fra tanti colpi, soprusi e insulti fa scattare in lei qualcosa. L’aggressione quotidiana di Lorenzo, suo padre, alla mamma Antonia comincia alle 5. Due ore dopo l’uomo manda la moglie a comprare due birre e dopo la pausa riprende. Pugni al volto, spintoni, minacce. Poi le stringe l’avambraccio attorno al collo, un segnale che la 19enne sa riconoscere e che significa, anche in quel terribile campionario, il superamento di una soglia ancora più pericolosa. È allora che Deborah prende uno dei coltelli della collezione del nonno e lo punta alla nuca del genitore: «Papà, lasciala andare!». Lui è appoggiato alla parete dell’androne dove ha raggiunto la moglie in fuga. La ragazza è aggrappata a loro e sferra pugni per fargli mollare la presa. Poi un movimento, un urto e il coltello ferisce il 41enne. Antonia è libera, il marito cade a terra. Deborah capisce subito che è grave. Solo l’autopsia dirà se è morto per quella ferita, ma intanto lei torna dentro casa, prende del ghiaccio, prova a rianimare il padre: «Non volevo, perdonami, ti voglio bene! Oddio mamma che ho fatto!». Poi non ricorda più nulla.
I vicini
La Procura: «In molti hanno sentito spesso le urla e non si sono mai voluti impicciare»
Le circostanze, raccontate tra i singhiozzi, quell’urlo udito dai vicini «Papà non mi lasciare!» quando vede il genitore a terra in fin di vita, sono gli elementi in base ai quali la Procura di Tivoli decide di derubricare l’accusa di omicidio, ipotizzata a caldo come atto dovuto, nel più lieve eccesso di legitima difesa e ordina la liberazione della ragazza (era agli arresti domiciliari a casa di una zia) già ieri mattina. In via Aldo Moro a Monterotondo, affacciati alle finestre delle case popolari con i muri grigi scrostati, in tanti ora si dicono felici per lei, spiegano che è giusto così. Il procuratore Francesco Menditto annuncia che presto chiederà l’archiviazione del caso e sottolinea però che quelle stesse persone tante volte hanno sentito le urla e non si sono mai volute impicciare perché «sono cose di famiglia». «E invece — dice il magistrato — aggressore e vittima non erano sullo stesso piano, c’era una sottomissione della donna all’uomo violento».
La mamma di Deborah, Antonia, descrive un’esistenza fatta di paura e violenza: «Le cose sono peggiorate nel 2002 quando Lorenzo ha perso suo padre. La nostra vita era un inferno, mia figlia viveva nel terrore e cenava in camera pur di non vederlo. Ancora mi fanno venire il mal di schiena i pugni che lui mi ha dato mentre la allattavo, ma io preferivo che se la prendesse con me, pensavo di salvarlo e recuperare la situazione. Non volevo rovinarlo e poi temevo che mi levassero Deborah perché non ero una buona madre».
Nella ricostruzione di quell’inferno fatta dai carabinieri rimaneva un ultimo buco di quattro anni. L’uomo violento che tutti i giorni picchiava le donne di casa nel marzo 2015 esce dal carcere in cui ha trascorso pochi mesi per i maltrattamenti e le denunce per rissa, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. Un «vuoto» sul quale gli investigatori si interrogano, dato il soggetto in questione (servizi sociali e Tso nel suo passato, famiglia rifugiata in Abruzzo per un periodo), ma che solo Deborah riesce a spiegare con quella rassegnazione a cui infine si è ribellata: «Dopo il carcere papà era cambiato, beveva meno, ci trattava meglio. Ma è durato poco. Ha ripreso a picchiarci, al punto che mamma faceva sparire ogni oggetto pericoloso da casa per paura che ce lo lanciasse contro. Lui la chiamava “put...”, le diceva “ti sgozzo come un maiale”, ogni pretesto era buono per colpirla. La cena, i soldi, la casa in disordine. E la obbligava ad avere rapporti che lei accettava per paura del peggio. Il mio unico rifugio è stato lo studio, volevo darmi una speranza».
Corriere 22.5.19
Libera la ragazza che ha ucciso il padre
Quella vita di odio e amore con il nemico dentro casa
di Dacia Maraini
Quando il nemico si trova in casa i sentimenti che suscita la violenza sono contraddittori. Come non amare un padre che ti ha portata in braccio, che ti ha accompagnata a scuola tante volte, che ti ha fatto ridere giocando a nascondino con te bambina?
L’ amore, la confidenza, le abitudini familiari, hanno radici profonde e non è facile strapparle dalla memoria di un corpo che cresce. Eppure quel padre che tante volte ti ha abbracciata e baciata, che tante volte ti ha sorriso con amore, quel padre può trasformarsi in un nemico pericoloso. Lo raccontano le cronache.
Quel padre amoroso può diventare, per un accumularsi di frustrazioni, di stanchezze, di delusioni, di rabbie, di paura, in un alcolizzato che alza volentieri le mani su moglie e figli.
Come difendersi? Come fermare quella mano diventata improvvisamente nemica ? E non sono solo le bambine a subire le aggressioni di un padre manesco ma spesso anche i bambini. Ricordo che Pier Paolo Pasolini ha raccontato di avere assistito a una simile trasformazione e di essersi alleato con la madre, moltiplicando le rabbie e le frustrazioni del padre.
La violenza comunque, una volta innestata in un cuore impaurito e debole, non torna indietro. Ci saranno parole di pentimento, ci saranno giuramenti di mai più usare le mani, ma purtroppo gli abusi torneranno dopo qualche bicchiere di alcol e saranno sempre più ciechi e rabbiosi. Le donne spesso non denunciano, perché credono a quelle promesse, perché il sentimento che una volta hanno provato, le porta verso una indulgenza ingenua e dolorosa.
La conseguenza più brutta della violenza in famiglia è la morte della fiducia, la nascita del sospetto e il bisogno di affidarsi a strategie da prigionieri. I bambini picchiati crescendo, o tendono a ripetere i gesti paterni su quelli che a loro volta diventano più deboli o si trasformano nei peggiori nemici di se stessi. Non stimandosi, fanno sì che neanche gli altri li stimino.
Nel caso della ragazza di Monterotondo, tutto questo è saltato. Per la semplice ragione che lei ha studiato pugilato e quindi sapeva dare pugni in modo da fare male.
Certamente non voleva uccidere il padre ma solo fermarlo. E non è colpevole se l’uomo non ha resistito alla forza di un suo pugno. È già molto che la ragazza non lo abbia fatto prima.
Ora lei piange sul padre morto. E la capiamo, perché nonostante tutto, quell’uomo ha condiviso tante esperienze certamente anche belle con la figlia bambina e lei non riesce a dimenticare.
Non è un estraneo che si affronta con indifferenza ma carne della tua carne e certamente, nonostante le devastanti trasformazioni, un nocciolo di amore e tenerezza è rimasto in quel cuore ferito.
Nello stesso tempo qualcuno potrà pensare che lui se l’è meritato. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Non immaginava che la figlia l’avrebbe superato in fatto di pugni.
Verrebbe da dire alle tante mogli e ai tanti figli che vengono quotidianamente picchiati in famiglia: andate in palestra, imparate a dare pugni. Non per uccidere, ma per spaventare chi crede solo nel linguaggio dei muscoli.
Corriere 22.5.19
Il problema dei migranti è sul territorio, non in mare
Diminuzione
Tra giugno 2018 e aprile 2019 i rimpatri sono calati del 5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente
Aumento Secondo i dati dell’Ispi di questo passo nel dicembre 2020 gli irregolari nel nostro Paese saranno 718 mila
di Goffredo Buccini
Dai numeri non si scappa. E l’ennesima puntata della saga della Sea Watch si rivela, pur nella sua consueta disumanità, solo un’arma di distrazione di massa. Il problema migratorio dell’Italia, legato alla nostra sicurezza, non è in mare ma sulla terraferma, come testimonia anche l’ultimo drammatico episodio, il rogo di Mirandola. Ancora una volta le stime e i dati dell’Ispi, un istituto di studi con quasi un secolo di reputazione, ribaltano la narrazione del marketing politico. Mentre si combatte una battaglia meramente figurativa sugli ultimi 50 o 60 disperati trasportati da una nave umanitaria sulle nostre coste, con grancassa tv sui malumori di Matteo Salvini, e mentre il titolare del Viminale picchia i pugni sul tavolo del Consiglio dei ministri per far passare il suo secondo decreto Sicurezza, si delineano, proprio nei numeri, gli effetti assai controversi del suo primo decreto, varato a ottobre scorso e poi diventato legge dello Stato.
Il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, basandosi proprio su dati del ministero dell’Interno, evidenzia come tra giugno 2018 e aprile 2019 circa 51 mila stranieri siano «diventati nuovi irregolari in Italia»: di questi, tra gli 11 mila e i 13 mila sarebbero conseguenza diretta del decreto. Le ragioni sembrano evidenti. Cardine del provvedimento voluto da Salvini è l’eliminazione della protezione umanitaria, quella alla quale più frequentemente (forse troppo) negli anni hanno fatto ricorso le commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo dei migranti. All’aumento dei dinieghi corrisponde un aumento degli allontanamenti dai centri di accoglienza cui, attenzione, non corrisponde affatto un eguale aumento di rimpatri. In parole semplici, al migrante che non ha più i requisiti per restare sul nostro territorio viene normalmente messo in mano un foglio di via con l’ingiunzione di lasciare il Paese: è facile capire che, senza controlli, solo una piccola porzione ottempera all’obbligo, la maggioranza finisce per strada, allo sbando, accrescendo paradossalmente la nostra insicurezza. I rimpatri sono peraltro costosi e complicati, quelli non volontari presuppongono un accordo con il Paese d’origine: noi di accordi del genere ne abbiamo solo quattro, Salvini aveva promesso un tour africano per implementarne il numero (servono contropartite da offrire, va da sé) ma del tour s’è persa ogni traccia in questa convulsa fase preelettorale.
I rimpatri vanno dunque assai a rilento. L’Ispi rileva che il governo Conte, tra giugno 2018 e aprile 2019, ha fatto peggio del governo Gentiloni tra giugno 2017 e aprile 2018, scendendo da 6.293 a 5.969 rimpatri, con un calo del 5 per cento. Salvini, prima delle elezioni del 4 marzo, aveva promesso di rispedire velocemente a casa 500 o 600 mila «invisibili», ovvero gli irregolari presenti sul nostro territorio (per effetto della pregressa mala accoglienza) secondo stime quasi coincidenti degli esperti, dall’autorevole fondazione Ismu sino alla Commissione sulle periferie. Non riuscendo a rimpatriarne che una ventina al giorno (tempo previsto con questo ritmo: quasi un secolo) e trovandosi sotto il tiro dell’alleato-competitor Di Maio all’approssimarsi delle elezioni europee, il leader leghista aveva tentato di ridurne «d’ufficio» il numero, dichiarandone 90 mila, ma ricevendo correzioni un po’ da tutte le fonti accreditate in materia.
Il tema è rovente. Non solo perché l’Ispi spiega, grafici alla mano, che di questo passo a dicembre 2020 gli irregolari in Italia saranno 718 mila. Ma perché la questione sicurezza tracima dai numeri e diventa sangue e paura. Il rogo di Mirandola, appiccato da un giovane marocchino in attesa di espulsione, può pesare sulle elezioni di domenica. Salvini, lesto a intuirne pericolosità e potenziale, rilancia subito il mantra dei porti chiusi. Ma i Cinque Stelle sembrano attribuire proprio al ministro degli Interni la responsabilità di spiegare cosa facesse quel ragazzo, che vagava in ipotermia come uno zombie lungo una strada della bassa Modenese, prima del suo raptus criminale. E da dove venisse. Era uno degli invisibili sfuggiti al nostro sistema zoppo? Un nuovo fantasma prodotto proprio dal decreto Salvini?
La sicurezza in politica è a doppio taglio. Ce lo insegna un mito assai radicato nella nostra sinistra: quello di Mechelen, la cittadina belga che, pur ospitando 128 nazionalità e 15 mila islamici su 87 mila residenti, è riuscita, in 15 anni, in un miracolo di integrazione (che tra l’altro ha abbattuto la destra dal 30 all’8 per cento). Ciò che la gauche italiana tende un po’ a sottacere è che il sindaco (liberale e centrista) di Mechelen, Bart Somers, proclamato tre anni fa «miglior primo cittadino del mondo», prima di integrare ha dato una bella stretta ai bulloni: i furti sono scesi del 41%, i furti violenti del 69, gli scippi del 94, lo spaccio di droga azzerato, i poliziotti sono stati triplicati, la città riempita di telecamere, ai nuovi arrivati vengono imposti l’uso del fiammingo, l’adesione a regole comuni di laicità e corsi per imparare cosa sia la democrazia, come ci si comporta con le donne, come funziona la polizia.
Il menu di Mechelen, sicurezza e solidarietà, andrebbe insomma preso tutto insieme. Ma in un Paese come il nostro, molti sceglierebbero à la carte.
https://spogli.blogspot.com/2019/05/il-manifesto-22.html
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
martedì 21 maggio 2019
il manifesto 21.5.19
Perché il 26 maggio votiamo La Sinistra
Appello al voto per le elezioni europee. La Ue così come è non ci piace per nulla e occorre rompere la gabbia dei trattati neoliberisti, ma lo spazio europeo è il terreno di lotta sul quale ha senso oggi battersi e costruire una solidarietà tra gli oppressi. Per questo vi invitiamo a reagire e a battervi assieme a noi per sconfiggere il neoliberismo di Maastricht così come il nazionalismo xenofobo e razzista delle destre
Agenzia Vista Milano, 20 maggio 2019
Calenda va ad abbracciare Renzi prima del comizio a Milano: “Come ai vecchi tempi”
Abbraccio tra l'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e l'ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda a Milano Fonte: Agenzia Vista / Alexander Jakhnagiev
qui
Repubblica 21.5.19
Verso le amministrative
Un bacione a Firenze "Qui Salvini non passa"
Lega e centrodestra inseguono il colpaccio nella città di Renzi ma Nardella spera di riconfermarsi sindaco al primo turno
di Ernesto Ferrara
Firenze — «Vedrete, a Firenze Salvini troverà il Piave» va dicendo da mesi uno che la città la conosce abbastanza bene come l’ex sindaco Matteo Renzi. In effetti il "Capitano" che, complice pure la nuova fidanzata Francesca Verdini, nell’ultimo mese è già passato tre volte in città a fare comizi, qualche mormorio lo ha sentito nelle ultime settimane: sempre accolto da proteste, striscioni, lenzuoli. Per non dire di domenica scorsa, quando si è ritrovato a parlare in piazza Strozzi di fronte a 400 persone con la bandiera della Lega mentre in piazza Repubblica lo contestavano in 2mila. Circostanze che danno buone speranze agli strateghi di Dario Nardella di farcela al primo turno: «Firenze può diventare il simbolo della vera opposizione ai sovranisti. E potremmo farcela pure al primo turno» è la sfida del sindaco ricandidato.
Se appena un anno la Toscana rossa si riscoprì in profonda crisi con la "caduta" in un colpo solo di Siena, Pisa e Massa tutte e tre conquistate dalla Lega, stavolta la resistenza Pd si riorganizza in riva all’Arno. Tra un anno si vota per la Regione e se il capoluogo dovesse passare a destra poi ci sarebbero poche speranze. Salvini ha più volte fatto sapere di nutrire il sogno proibito della presa della "capitale del renzismo". Però il suo candidato, il manager della finanza Ubaldo Bocci, cattolicissimo e mai "sovranista" nei contenuti, sostenuto pure da Forza Italia e Fratelli d’Italia, non ha fatto la campagna da manuale: ha disertato la cerimonia del 25 aprile facendo infuriare mezza città, si è saputo che 5 anni fa organizzava cene elettorali per Nardella e la ciliegina sulla torta l’ha messa con la Tav dicendo che al posto della nuova stazione Foster lui farebbe un campo da cricket. «Il ballottaggio è un obiettivo possibile», ritengono ancora i leghisti fiorentini, che però qui non hanno mai fatto boom (11% contro il 17% nazionale nel 2018), come del resto i 5Stelle (18% contro il 32%). E che i sogni di gloria leghisti si siano trasformati in corsa affannosa lo dimostrano pure le ultime parole di Salvini: «In Emilia faremo tanti sindaci ma a Firenze la battaglia è più complicata, lì c’è anche il mio omonimo».
Non che Renzi si sia visto più di tanto per la verità, mentre invece accanto al sindaco si è visto Zingaretti. Di big a destra si sono visti Meloni, Tajani, Carfagna. Ma fin qui nessuno sembra aver impensierito più di tanto Nardella, che nel programma punta tutto su due nuove tramvie e uno scudo verde modello "area C" di Milano. Un po’ di apprensione in più in casa dem la crea invece il rischio dispersione per quei 4 candidati a sinistra di Nardella tra cui una forte, Antonella Bundu, attivista di colore, ex di Piero Pelù, sostenuta da Tomaso Montanari. Se ci fosse il ballottaggio è prima di tutto a lei che il Pd dovrebbe rivolgersi. Quasi non pervenuti i 5 Stelle, che possono contare sul ministro Alfonso Bonafede come padre nobile e però sono spaccatissimi all’interno sulla candidatura dell’architetto Roberto De Blasi. Come in quei thriller col finale mai scontato un intrigo dell’ultima ora ter rorizza il Pd: la Fiorentina che domenica si gioca la salvezza: «E se retrocediamo e finisce con le proteste? » si domanda qualcuno. Per fortuna di Nardella la gara col Genoa è fissata alle 20.30.
il manifesto 21.5.19
Il manifesto nella «top ten» dei giornali digitali più venduti
iorompo.it. Qui al manifesto ci siamo messi davvero in gioco.Gli ultimi dati di vendita diffusi relativi all’Ads di marzo, ad esempio, ci vedono al decimo posto per vendite digitali "vere", al netto degli sconti (sopra le 2.500 copie al giorno). Ma vogliamo fare di più. E bisogna rompere, tanto
di Matteo Bartocci
Piano piano il muro di 400.000 mattoncini inizia a vacillare. Risolto qualche inevitabile piccolo problema tecnico iniziale, i mattoni iniziano a volare copiosi, come gli abbonamenti. La campagna partita il 15 maggio sarà una lunga maratona e sarete voi lettori, vicini e meno vicini, a decidere il traguardo finale.
Qui al manifesto ci siamo messi davvero in gioco.
Gli ultimi dati di vendita diffusi da Prima comunicazione relativi all’Ads di marzo, ad esempio, ci vedono al decimo posto per vendite digitali “vere”, al netto degli sconti (2.570 copie al giorno) subito sotto al Messaggero.
E questo molto prima della campagna, iniziata appunto a metà maggio. Ma dobbiamo sognare in grande, vogliamo il manifesto nella «top five» se non delle edicole vere (purtroppo servirebbero più di 60mila copie al giorno) almeno in quelle digitali.
Bisogna lavorare duramente per riuscirci ma se riusciremo ad abbattere questo odioso muro, allora costruiremo nel corso del 2020 un giornale on line universale e accessibile a tutti grazie all’impegno dei patroni che hanno partecipato a questa campagna.
Siete voi i capitani di questo vascello, ciascuno di voi può decidere la nostra rotta.
Abbiamo la possibilità di dare una sonora lezione ai pentaleghisti di governo che hanno abolito il fondo per il pluralismo e sperano che il «mercato» faccia il lavoro sporco da solo.
E allora portiamo il manifesto in cima al cosiddetto «mercato» e rimarranno tutti a bocca aperta. Contro chi vuole toglierci la voce non basta alzarla (come si propone Repubblica). Bisogna rompere, e tanto!
Stiamo coinvolgendo artisti, intellettuali, compagni e amici che in modo disinteressato vogliono contribuire al successo di questa campagna.
L’ex sindaco Domenico Lucano ha voluto essere tra i primi a «rompere», aderendo subito alla nuova campagna abbonamenti.
Nel frattempo parte oggi nelle commissioni riunite di camera e senato l’esame degli emendamenti al decreto crescita per la moratoria dei tagli a Radio Radicale (emendamento della Lega) e i quotidiani in cooperativa e non profit (emendamento Pd-Si). Seguiremo con molta attenzione l’iter parlamentare sperando in un sussulto di coscienza della maggioranza.
Non ci sentiamo soli, anche se la fatica di remare in direzione ostinata e contraria è sempre tanta.
Cinquant’anni fa iniziava la storia del manifesto. Vogliamo essere all’altezza del passato e conquistare il futuro. Perciò rompete, diventate patroni, abbonatevi, passate parola a voce o sui social.
Per qualsiasi domanda potete scrivere a iorompo@ilmanifesto.it
Errata corrige
Per un nostro spiacevole errore, nella prima versione dell’articolo on line e nel manifesto in edicola il 21 maggio abbiamo indicato per sbaglio che la foto di Domenico Lucano era stata scattata a casa sua a Riace. Così naturalmente non è, perché il divieto di dimora per l’ex sindaco è ancora in vigore. La foto è stata scattata a Stignano, non a Riace. Ce ne scusiamo con Lucano, gli interessati e tutti i lettori.
Corriere 21.5.19
Il retroscena
I due timori della Chiesa
Chiesa divisa e preoccupata
Per il Vaticano Lega favorita dalla debolezza delle altre voci
«Noi siamo irrilevantie il catto-sovranismo avanza»
Sul campo. Il timore che le fratture politiche si riflettano nelle diocesi
e nelle parrocchie
di Massimo Franco
«Abbiamo due spine: l’unità della Chiesa e l’irrilevanza dei cattolici in politica. Non c’è più un partito di riferimento, e mi pare difficile che possa rinascere. E nel deserto avanza il sovranismo religioso della Lega...».
Il cardinale italiano «legge» questa vigilia elettorale con lucidità amara. E non si limita a puntare il dito contro le strumentalizzazioni del Vangelo e del rosario fatte dal leader del Carroccio, Matteo Salvini, nella manifestazione di sabato in piazza del Duomo, a Milano; contro i fischi estremisti quasi «chiamati» nei confronti di papa Francesco. Cerca di spiegare perché, in questa fase, l’unico cattolicesimo visibile in politica sia quello xenofobo, anti islamico, aggressivo perché impaurito, offerto dalla Lega e dai suoi epigoni europei.
Da mesi, le gerarchie ecclesiastiche cercano di capire come riemergere da una deriva che rende le posizioni cattoliche ininfluenti. E si stanno rendendo conto sempre di più che non esiste una soluzione. Finita da oltre un quarto di secolo la Dc, sepolto il collateralismo asimmetrico con Forza Italia e con Silvio Berlusconi, non solo non ci sono sponde ma si profila una realtà politica estranea, prima che ostile. Si staglia il paradosso di un Papa popolare, inclusivo, e, secondo gli avversari, perfino «populista» nella sua vicinanza ostentata ai poveri, costretto a fare i conti con forze politiche populiste ma con un’agenda agli antipodi rispetto alla sua.
Si tratta di formazioni portatrici di un cristianesimo impastato di un’identità declinata in chiave nazionalistica. E pronte perfino a contestare platealmente il pontefice, quando si parla di immigrazione. I fischi di piazza Duomo hanno esaltato un filone culturale ultraconservatore, che si dichiara cattolico ma ha come faro gli avversari interni di Francesco; che brandisce il Vangelo ma ne trae una lezione opposta a quella papale. Soprattutto, quel mondo certifica una frattura che dalla politica si trasferisce nelle parrocchie e negli episcopati, e viceversa. E rende impossibile qualunque mediazione di tipo unitario.
Per questo in Vaticano e nella Conferenza episcopale italiana sono preoccupati. Sanno che il sovranismo religioso oggi è più presente, se non più potente, della cultura dell’inclusione. Sa intercettare e incanalare le paure. E pone una sfida diretta alla cultura della Chiesa cattolica. D’altronde, l’esigenza, quasi l’urgenza di riscoprire una politica in grado di dare voce a un modo cattolico sommerso è affiorata e morta all’inizio dell’anno. Il 18 gennaio si è tenuta la celebrazione del centenario della fondazione del Partito Popolare di Luigi Sturzo. Alcuni vescovi e reduci democristiani hanno cercato di sfruttare l’anniversario per riproporre, aggiornata, quell’esperienza.
Ma la suggestione è durata poco. Alla fine il tentativo si è rivelato velleitario e passatista: un’operazione novecentesca, non da terzo millennio. L’unica certezza emersa dalla fiammata sturziana è stata la consapevolezza di divisioni profonde e irrisolvibili: se non altro perché non esistono più le premesse per far rinascere un partito di cattolici. Non è pensabile connotare una forza in termini religiosi. Come è solito dire il professor Lorenzo Ornaghi, ex rettore dell’Università del Sacro Cuore di Milano, l’unico modo per contare, per i cattolici, è non contarsi. Non a caso, a reagire a Salvini sono stati soprattutto esponenti del mondo religioso, non politico.
Né un modello alternativo può essere quello, a dir poco controverso, dell’elemosiniere del Papa, il cardinale polacco Konrad Krajewski, che viola la legge togliendo i sigilli messi dalla magistratura italiana a un palazzo occupato a Roma, e riattiva la luce non pagata: un gesto «politico» nel senso più discutibile del termine. È in questo vuoto che leader come Salvini si inseriscono con la loro ricetta ideologica. Captano il disorientamento di un arcipelago cattolico nel quale non sempre Papa e vescovi sembrano in totale sintonia. E offrono una sorta di religione fai-da-te, nella quale il motto ambiguo «prima gli italiani» si traduce sul piano della fede con un «prima i cristiani» dalle implicazioni inquietanti.
Sono schegge di un’Internazionale cristiana e sovranista che ha grandi protettori negli Usa in Donald Trump, in Russia in Vladimir Putin. Salvini, l’ungherese Orbán, la francese Le Pen, l’austriaco Strache sono solo pedine locali della destabilizzazione dell’Unione. L’ipoteca della loro strategia, tuttavia, può diventare pesante; e imporre una lettura distorta e strumentale del cristianesimo europeo. Traspare il timore più profondo della Chiesa: che dopo il 26 maggio il sovranismo politico a Bruxelles finisca magari per contare relativamente poco; ma che il sovranismo religioso possa attecchire, produrre nuove divisioni e mettere radici difficili da estirpare, per mancanza di veri anticorpi.
Il cardinale italiano «legge» questa vigilia elettorale con lucidità amara. E non si limita a puntare il dito contro le strumentalizzazioni del Vangelo e del rosario fatte dal leader del Carroccio, Matteo Salvini, nella manifestazione di sabato in piazza del Duomo, a Milano; contro i fischi estremisti quasi «chiamati» nei confronti di papa Francesco. Cerca di spiegare perché, in questa fase, l’unico cattolicesimo visibile in politica sia quello xenofobo, anti islamico, aggressivo perché impaurito, offerto dalla Lega e dai suoi epigoni europei.
Da mesi, le gerarchie ecclesiastiche cercano di capire come riemergere da una deriva che rende le posizioni cattoliche ininfluenti. E si stanno rendendo conto sempre di più che non esiste una soluzione. Finita da oltre un quarto di secolo la Dc, sepolto il collateralismo asimmetrico con Forza Italia e con Silvio Berlusconi, non solo non ci sono sponde ma si profila una realtà politica estranea, prima che ostile. Si staglia il paradosso di un Papa popolare, inclusivo, e, secondo gli avversari, perfino «populista» nella sua vicinanza ostentata ai poveri, costretto a fare i conti con forze politiche populiste ma con un’agenda agli antipodi rispetto alla sua.
Si tratta di formazioni portatrici di un cristianesimo impastato di un’identità declinata in chiave nazionalistica. E pronte perfino a contestare platealmente il pontefice, quando si parla di immigrazione. I fischi di piazza Duomo hanno esaltato un filone culturale ultraconservatore, che si dichiara cattolico ma ha come faro gli avversari interni di Francesco; che brandisce il Vangelo ma ne trae una lezione opposta a quella papale. Soprattutto, quel mondo certifica una frattura che dalla politica si trasferisce nelle parrocchie e negli episcopati, e viceversa. E rende impossibile qualunque mediazione di tipo unitario.
Per questo in Vaticano e nella Conferenza episcopale italiana sono preoccupati. Sanno che il sovranismo religioso oggi è più presente, se non più potente, della cultura dell’inclusione. Sa intercettare e incanalare le paure. E pone una sfida diretta alla cultura della Chiesa cattolica. D’altronde, l’esigenza, quasi l’urgenza di riscoprire una politica in grado di dare voce a un modo cattolico sommerso è affiorata e morta all’inizio dell’anno. Il 18 gennaio si è tenuta la celebrazione del centenario della fondazione del Partito Popolare di Luigi Sturzo. Alcuni vescovi e reduci democristiani hanno cercato di sfruttare l’anniversario per riproporre, aggiornata, quell’esperienza.
Ma la suggestione è durata poco. Alla fine il tentativo si è rivelato velleitario e passatista: un’operazione novecentesca, non da terzo millennio. L’unica certezza emersa dalla fiammata sturziana è stata la consapevolezza di divisioni profonde e irrisolvibili: se non altro perché non esistono più le premesse per far rinascere un partito di cattolici. Non è pensabile connotare una forza in termini religiosi. Come è solito dire il professor Lorenzo Ornaghi, ex rettore dell’Università del Sacro Cuore di Milano, l’unico modo per contare, per i cattolici, è non contarsi. Non a caso, a reagire a Salvini sono stati soprattutto esponenti del mondo religioso, non politico.
Né un modello alternativo può essere quello, a dir poco controverso, dell’elemosiniere del Papa, il cardinale polacco Konrad Krajewski, che viola la legge togliendo i sigilli messi dalla magistratura italiana a un palazzo occupato a Roma, e riattiva la luce non pagata: un gesto «politico» nel senso più discutibile del termine. È in questo vuoto che leader come Salvini si inseriscono con la loro ricetta ideologica. Captano il disorientamento di un arcipelago cattolico nel quale non sempre Papa e vescovi sembrano in totale sintonia. E offrono una sorta di religione fai-da-te, nella quale il motto ambiguo «prima gli italiani» si traduce sul piano della fede con un «prima i cristiani» dalle implicazioni inquietanti.
Sono schegge di un’Internazionale cristiana e sovranista che ha grandi protettori negli Usa in Donald Trump, in Russia in Vladimir Putin. Salvini, l’ungherese Orbán, la francese Le Pen, l’austriaco Strache sono solo pedine locali della destabilizzazione dell’Unione. L’ipoteca della loro strategia, tuttavia, può diventare pesante; e imporre una lettura distorta e strumentale del cristianesimo europeo. Traspare il timore più profondo della Chiesa: che dopo il 26 maggio il sovranismo politico a Bruxelles finisca magari per contare relativamente poco; ma che il sovranismo religioso possa attecchire, produrre nuove divisioni e mettere radici difficili da estirpare, per mancanza di veri anticorpi.
Corriere 21.5.19
Prima la Padania, ora i migranti Quei fischi leghisti ai pontefici
Salvini loda Wojtyla e Ratzinger: ma anche loro erano contro la chiusura dei confini
I rom. Giovanni Paolo II nel 2001 invitava a «riscoprire i valori tipici dei nomadi»
Con i lefebvriani.
Il Carroccio chiamò, per celebrare il Parlamento Padano, il negazionista Abrahamowicz
di Gian Antonio Stella
«Oè, Vaticano», tuonò Umberto Bossi, «La Padania non ha interesse a cambiar religione, ma l’indipendenza non è in vendita. T’ee capii?». Papa Francesco non se la prenda per l’invito ai fischi partito da Matteo Salvini in piazza Duomo.
La Lega non è nuova a queste cose. Fa sorridere semmai che in contrapposizione al Papa d’oggi il segretario del Carroccio abbia elevato Giovanni Paolo II: il Papa più insultato dai leghisti di ieri.
Non c’era giorno senza che il Senatùr martellasse il «Papa extracomunitario»: «È il re di Roma OltreTevere: si mangiò una banca per finanziare Solidarnosc e ha molta gente disposta a piegare il (censura) tutte le mattine alla Mecca romana». «Il Vaticano è il nemico che le camicie verdi affogheranno nel water della storia». E arrivò a urlare che «come già accade nel bergamasco, i fedeli andranno in parrocchia con il fazzoletto verde e si alzeranno se solo sentiranno pronunciare certi sermoni. Urleranno: va’ a da’ via el (censura)». In confronto, su questo, Salvini è un’educanda.
Colpiscono comunque quelle due citazioni dei due «papi buoni», diciamo così, rispetto a quello attuale. Prima «San Giovanni Paolo II, nato proprio il 18 maggio e che parlava di vocazione dell’Europa alla fraternità dei popoli dall’Atlantico agli Urali, non della Turchia in Europa perché non sarà mai Europa». Poi Joseph Ratzinger: «L’Europa di cui parlava Benedetto XVI e di cui qualcuno negava le radici giudaico cristiane». Sintesi prese la prima da un discorso del 5 ottobre ‘82 alle Conferenze Episcopali d’Europa, la seconda da una lectio del 1° aprile 2005 a Subiaco, il giorno prima della morte del pontefice polacco del quale il cardinale tedesco sarebbe stato il successore.
Dell’uno e dell’altro, però, vengono ignorate parole non meno importanti di quelle a difesa delle radici cristiane dell’Europa. Ad esempio i messaggi annuali di Giovanni Paolo II per la Giornata Mondiale dell’Emigrazione. Tipo quello del 1996. Alcuni passaggi? «È necessario vigilare contro l’insorgere di forme di neorazzismo o di comportamento xenofobo, che tentano di fare di questi nostri fratelli dei capri espiatori». «Adeguata protezione va assicurata a coloro che, se pur fuggiti dai loro paesi per motivi non previsti dalle convenzioni internazionali, di fatto potrebbero correre un serio pericolo per la loro vita qualora fossero costretti a ritornare in patria». «Nella Chiesa nessuno è straniero, e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo».
Quanto ai rom, oggi al centro di campagne di odio che vanno spesso oltre il bisogno di sicurezza dei cittadini, forse nessuno ha usato le parole di Carol Wojtyla il 1° dicembre 2001: «Mi è caro ribadire (…) la costante attenzione che la Chiesa rivolge alla vita delle comunità dei Nomadi. Essi hanno trovato un posto “nel cuore della Chiesa” (…) Occorre riscoprire i valori tipici dei Nomadi. Anche gli inizi d’Israele, come ricorda la Bibbia, furono caratterizzati dal nomadismo. I Nomadi sono poveri di sicurezze umane, costretti ogni giorno a fare i conti con la precarietà e l’incertezza del futuro».
Lo stesso Joseph Ratzinger, prima di salire al soglio pontificio, quando era il braccio destro di Giovanni Paolo II, dopo il naufragio di una nave albanese, accusò in un’intervista al Corriere l’egoismo dei paesi benestanti come il nostro: «Non vogliamo essere “disturbati”. Manca questa capacità di dividere con l’altro, di accettarlo, di aiutarlo». E spiegò che sì, fintanto che in Albania la tensione era altissima, la chiusura dei confini non si poteva fare: «Certo, c’è da distinguere la posizione degli elementi criminali, che poi sono proprio quelli che hanno scatenato questa situazione. Ma chiudere semplicemente le frontiere non si può». Erano molti anni fa? Certo. Ma molti anni dopo, eletto Papa, nel messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del rifugiato del 2013 ribadiva: «Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione». Condannati i «misfatti» dei trafficanti di uomini, esortava poi ad affrontare il problema con «una gestione regolata dei flussi migratori, che non si riduca alla chiusura ermetica delle frontiere, all’inasprimento delle sanzioni contro gli irregolari e all’adozione di misure che dovrebbero scoraggiare nuovi ingressi».
E allora? Torniamo indietro a cercare il Papa «giusto» nel passato? Ahi ahi… Paolo VI arrivò a celebrare il suo compleanno del ‘65 a Pomezia tra migliaia di Rom: «Dovunque voi vi fermiate, siete considerati importuni ed estranei. E restate timidi e timorosi. Qui no. Qui siete bene accolti, siete attesi, salutati, festeggiati». E Giovanni XXIII, «il Gran Papa Lumbard» rimpianto dal Senatur? Macché! Nella Pacem in terris del ‘63 scrisse: «Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse». A farla corta, per trovare un Papa da portare a supporto del sovranismo più arroccato, bisognerebbe tornare indietro, indietro, indietro. Un suggerimento, magari, potrebbe darlo padre Floriano Abrahamowicz, il prete lefebvriano che nega Auschwitz («I gas erano usati solo per disinfettare») e che una dozzina d’anni fa fu chiamato a celebrare a Vicenza, tra Bossi e Maroni, il «Parlamento Padano». Sotto «il segno della Croce».
A proposito, persino il Vangelo di Matteo (l’originale), pare eccepire sui comizi di un certo tipo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per esser visti dagli uomini». Ma che poteva capire un apostolo della politica?politiche e stabilirsi in esse». A farla corta, per trovare un Papa da portare a supporto del sovranismo più arroccato, bisognerebbe tornare indietro, indietro, indietro. Un suggerimento, magari, potrebbe darlo padre Floriano Abrahamowicz, il prete lefebvriano che nega Auschwitz («I gas erano usati solo per disinfettare») e che una dozzina d’anni fa fu chiamato a celebrare a Vicenza, tra Bossi e Maroni, il «Parlamento Padano». Sotto «il segno della Croce».
A proposito, persino il Vangelo di Matteo (l’originale), pare eccepire sui comizi di un certo tipo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per esser visti dagli uomini». Ma che poteva capire un apostolo della politica?
Repubblica 21.5.19
Chiesa antisovranista il Papa lancia un Sinodo su fede e politica
Padre Spadaro: "Indagherà anche le forme dell’impegno democratico dei cattolici". Il vescovo di Mazara: "Chi è con Salvini non può dirsi cristiano"
di Paolo Rodari
Città del Vaticano — Francesco apre l’assemblea dei vescovi italiani in Vaticano ventiquattro ore dopo il botta e risposta fra il vicepremier Salvini e il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e lanciando la proposta, osteggiata in alcuni ambienti dell’episcopato, di un Sinodo della Chiesa dice indirettamente la sua proprio sull’Italia, sull’idea di governo del Paese, su una politica troppo spesso chiusa e settaria. «Soffiano venti contrari » gli dice il presidente della Cei Gualtiero Bassetti. «Un Sinodo?», si è chiesto non a caso il direttore di Civiltà Cattolica padre Antonio Spadaro, fedelissimo del Papa. E si risponde: è anche «per discernere le forme dell’impegno democratico dei cristiani per essere, come chiedeva Francesco alla fine del suo discorso a Firenze – in occasione del Convegno ecclesiale, ndr – costruttori dell’Italia».
Oltretevere, e così fra i vescovi, c’è consapevolezza che esiste una parte della Chiesa italiana - presuli, preti e laici - che considera Salvini e le sue politiche sovraniste un male minore. Una Chiesa che nell’era ruiniana aprì con un atto d’imperio a Berlusconi e all’uomo solo al comando. L’idea di un Sinodo, che secondo quanto scrisse tempo fa Avvenire è anche per ridiscutere il rapporto esistente fra fede e politica, è un’implicita e insieme eloquente risposta a questo cattolicesimo identitario di Salvini, alle sue chiusure sui migranti a colpi di citazioni di «San Giovanni Paolo II», «Chesterton» e «Maria Immacolata». La maggior parte dei vescovi adunati ieri in assemblea ha vissuto con sconcerto il comizio sovranista di Salvini di sabato a Milano. Eppure, come racconta a Repubblica l’arcivescovo di Monreale Michele Pennisi, «ci sono alcuni presuli, soprattutto al Nord, che reputano la Lega il meno peggio». E continua: «A me, in ogni caso, più che la strumentalizzazione del nome di Dio, lascia con l’amaro in bocca l’attacco al Papa, i fischi contro di lui, questo continuo citare Wojtyla come il vero Papa capace di intercettare un certo sentimento».
Fra Santa Sede e Salvini la frattura al momento è insanabile. E a poco servono le parole del vicepremier che ieri diceva che gli piacerebbe «essere ricevuto dal Papa». Come a poco serve il canale aperto da tempo da Giancarlo Giorgetti con la segreteria di Stato. La crepa si è aperta l’8 dicembre scorso quando Salvini, in piazza del Popolo, disse di riconoscersi soltanto in Woityla. Questa uscita ha molto infastidito il Vaticano, soprattutto perché arrivata da una persona con responsabilità istituzionale nel Paese.
In assemblea Francesco, durante il confronto a porte chiuse, dice la sua anche su sovranismi e populismi. Lo fa limitandosi a parlare della situazione europea, spiegando che occorre accogliere e, responsabilmente, integrare. Ed anche se non cita mai Salvini, lo fanno altri per lui: «Chi è con Salvini non può dirsi cristiano perché ha rinnegato il comandamento dell’amore », spiega in modo esplicito il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, a margine dell’assemblea. Come Mogavero la pensa gran parte del mondo cattolico. Sono, ad esempio, i Missionari Comboniani d’Italia a esprimere indignazione per «l’utilizzo strumentale del rosario», baciato a Milano dal ministro. E ancora: «Rosario che è segno della tenerezza di Dio, macchiato dal sangue dei migranti che ancora muoiono nel Mediterraneo: 60 la settimana scorsa, nel silenzio dell’indifferenza dei caìni del mondo». Sullo stesso tono anche l’associazione Insieme, nata con lo scopo di creare un forum che permetta di ritrovarsi alle diverse anime del politicamente frammentato universo cattolico: «Carissimi amici cattolici, non vi pare che sia giunto il momento di riflettere su come Salvini strumentalizzi la nostra fede?». Oggi la parola passa a Bassetti per un discorso atteso soprattutto per gli eventuali affondi sulla situazione italiana.
Corriere 21.5.19
La parlamentare
Mila Spicola «Censurare la storia è gravissimo»
di F.C.
Adesso che Mila Spicola, candidata Pd alle Europee, anche lei insegnante, ha rilanciato il caso della mae-stra considerata «comuni-sta» perché fa leggere il diario di Anna Frank, fonti del Miur la accusano di avere strumentalizzato con una fake news «una storia di ceffoni».
«Non ci sto. Lo scappellot-to può anche essere vero e di questo si occuperanno giudi-ci e sindacalisti. Ma se una mamma in un documento ufficiale redatto dalla diri-gente scolastica definisce “comunista” la collega di Scordia perché fa leggere Anna Frank, il nostro Paese è a rischio deriva».
La maestra non viene sospesa per la lettura del Diario, ma per lo «scappel-lotto», insistono le fonti del ministero dell’Istruzione.
«Nel provvedimento di sospensione firmato dalla dirigente scolastica si legge che è preferibile evitare ai bambini letture su “avveni-menti funesti e luttuosi”, soprattutto “per le terribili modalità”. Evidente l’implici-to richiamo ai lager nazisti. Ma altrettanto evidente il consiglio di tacere sulla Shoah davanti a bambini troppo piccoli per capire. Ma che modo è questo di fare educazione civica».
Non sembra eccessivo il parallelo con la professores-sa di Palermo accusata di mancato controllo sul confronto fra leggi razziali e decreto Salvini?
«La materia è drammatica-mente omogenea. La “mani-polazione politica” additata dalla madre del bambino non può essere recepita dalla pre-side e su questo sono pronta a prendermi una denuncia. È come condividere la bizzarra accusa di imbottire i bambini di “nozioni comuniste”. Sa-rebbe da “comunisti” leggere Anna Frank? La maestra può avere fatto qualche errore e si vedrà in altra sede, ma questa distorta visione del mondo va raccontata e contestata».
il manifesto 21.5.19
Porti aperti alle armi, chiusi agli umani
Italia. Nella visione del governo la guerra è da tempo diventata «umanitaria» e l’accoglienza umanitaria è tout-court «criminale». Quando dovrebbe essere evidente che chi apre i porti ai mercanti di armi e li chiude al soccorso umanitario e all’accoglienza, distrugge la civiltà, cancella il futuro e prepara il campo aperto dell’odio
di Tommaso Di Francesco
Se volete avere una rappresentazione tangibile e concreta della natura del governo in carica, quello del «contratto» tra sovranismo razzista della Lega e populismo giustizialista del M5S, guardate il Belpaese da nord a sud, nei suoi due porti di Genova e di Lampedusa.
Da una parte, nella capitale ligure, è attraccata la nave saudita Bahri Yanbu, tradizionalmente carica di armamenti; dall’altra nell’estrema isola siciliana rimaneva fino a 48 ore fa confinata al largo la Sea Watch, la nave di soccorso umanitario ai profughi. Porti aperti, per decisione del governo italiano, ai carichi di armi per un paese in guerra come l’Arabia saudita e per il conflitto sanguinoso in Yemen; porti chiusi, sempre per decisione del governo italiano e in particolare del ministro dell’odio Matteo Salvini, invece per i carichi di esseri umani disperati.
Ma per entrambi, ecco la novità, di fronte ai silenzi, alle ambiguità, alla tracotanza del governo che ora si rimpalla le responsabilità, in crisi con se stesso e con la coscienza della società civile italiana, sul fronte dei porti è scesa in campo la protesta. Di chi a Genova, attivisti e sindacalisti, non vuole più contribuire ad insanguinare il mondo con i traffici di armi e blocca una nave la Bahri Yanbu di fatto militare – appartiene infatti alla società saudita che gestisce il monopolio della logistica militare di Riyadh.
A Lampedusa è scesa in strada una lenzuolata di civiltà che vuole accogliere invece che respingere chi fugge disperato dalle troppe nostre guerre e dalla miseria prodotta dal nostro modello di rapina delle risorse energetiche, in Africa e non solo.
È una sintonia di avvenimenti con la quale irrompe nell’Italietta ripiegata su se stessa, la questione internazionale. Perché entrambe le vicende sono casi internazionali e chiamano in causa subito l’Europa, significativamente alla vigilia del voto per le europee. Infatti la nave saudita, che porta armi e/o strumentazioni comunque destinate alle forze armate della monarchia saudita infatti, è partita dagli Stati uniti, passata per il Canada prima di arrivare in Europa, ha come destinazione Gedda e, dopo avere caricato munizioni di produzione belga nel porto di Anversa, ha visitato e cercato di approdare nel Regno unito, in Francia e in Spagna. Sempre accolta dalla protesta dei pacifisti, degli attivisti dei diritti umani e dei portuali locali.
E l’Italia non è un attracco qualsiasi: qui su licenza tedesca sono prodotte bombe dalla Rwm Italia (con sede a Ghedi, Brescia, e nello stabilimento a Domusnovas, in Sardegna) che vengono utilizzate contro la popolazione civile yemenita.
È un traffico di morte con il concorso dell’intera Europa: secondo i rapporti della stessa Ue sulle esportazioni di armi, gli Stati membri dell’Ue hanno emesso nel solo 2016 almeno 607 licenze per oltre 15,8 miliardi di euro in Arabia saudita.
Ieri il porto di Genova è stato bloccato dalla manifestazione degli attivisti e dei camalli, ma il governo ha aggirato la protesta e fatto attraccare la nave lo stesso.
Anche a Lampedusa alla fine, la nave Sea Watch confinata al largo per giorni è stata fatta approdare e sono stati fatti scendere i migranti. E con l’accoglienza popolare, quasi festosa allo sbarco dei 47 profughi, è andata in onda l’alternativa del «modello Mimmo Lucano», l’ex sindaco di Riace ora al bando ed esiliato perché ha dimostrato che l’integrazione è possibile, è concreta ed è fattore produttivo, di nuovo lavoro e di nuova civiltà.
Subito si è scatenata la reazione rabbiosa del ministro dell’Inferno, sponsor di quel “Decreto sicurezza bis” che le Nazioni unite accusano apertamente di «violare di diritti umani». Così la nave umanitaria è stata sequestrata e il comandante è stato denunciato per «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».
Ecco che le due anime del «contratto di governo» si ritrovano unite negli intenti finali, anche elettorali.
Non dimentichiamo però che la loro forza, sempre più fragile, deriva dai disastri provocati dai governi precedenti italiani ed europei, di centrodestra e di centrosinistra, sia per l’accoglienza dei migranti che per le guerre infinite in corso. È così. Questo governo gestisce nient’altro che una vergognosa eredità, quella delle decine di muri eretti alle frontiere di ogni paese europeo e, nel Mediterraneo, della esternalizzazione dei confini alle presunte autorità della Libia.
Che, nonostante sia travolta da mesi da una guerra intestina e per procura, continua ad essere chiamata in causa ogni giorno dal ministro degli interni Salvini perché, con la sua milizia che si chiama «guardia costiera libica», tenga ben aperti ai migranti le carceri e i campi di concentramento.
Mentre nella grammatica corrente, la guerra è da tempo diventata «umanitaria» e l’accoglienza umanitaria adesso è tout-court «criminale». Quando dovrebbe essere evidente che chi apre i porti ai mercanti di armi e li chiude al soccorso umanitario e all’accoglienza, distrugge la civiltà, cancella il futuro e prepara il campo aperto dell’odio.
Repubblica 21.5.19
Salvini e i porti aperti
Chi salva il nostro onore
di Luigi Manconi
La portavoce italiana di Sea Watch è Giorgia Linardi (quella ragazza bionda che appare talvolta in televisione). Non ancora ventinovenne, è nata a Como e ha lavorato presso l’Alto commissariato per i rifugiati e per Medici senza frontiere. Uno dei comandanti delle imbarcazioni di Open Arms è un giovane uomo, Riccardo Gatti di Calolziocorte (Lecco), in passato operatore in una comunità per minori. Colti, conoscono le lingue e sono curiosi del mondo e degli esseri umani: dalla provincia italiana ai mari tra Europa e Africa il passo può essere brevissimo. Nati negli anni in cui i muri dell’Europa venivano abbattuti, faticano ad accettare — come milioni di loro coetanei — che le frontiere risultino aperte alle merci e ai capitali e non a chi fugge da guerre e miserie, da conflitti tribali e persecuzioni etniche, religiose, politiche e sessuali.
In genere, non c’è in loro alcun tratto eroicistico né una postura profetica e predicatoria. Ritengono, piuttosto, che salvare vite umane sia un obbligo razionale che in questo momento assolvono e che non li rende migliori degli altri.
Appartengono alla generazione dei «giovani contemporanei», secondo la definizione evocata dalla madre di Giulio Regeni. Tra loro, la gran parte di quanti agiscono come volontari, operatori e attivisti dei diritti umani non esprime iattanza e tantomeno velleità superomistiche. E questo li rende schivi e riottosi, a eccezione di qualche leader particolarmente narcisista, così prossimi a noi, sostituibili e alla portata di chi volesse svolgere quel lavoro per un periodo determinato della propria vita.
Qualcosa già hanno ottenuto (come, peraltro, l’Ong italiana Mediterranea). Si è dimostrato inequivocabilmente che i porti italiani — è fin troppo ovvio — sono aperti. Chi continua a negarlo, come il ministro dell’Interno, lo fa per convincere se stesso e i propri cari. Insomma, anche il tonitruante Capitano rivela una sindrome da insicurezza. E sono aperti, quei porti, innanzitutto per una ragione: non esiste un solo atto formale del Consiglio dei ministri, un decreto o un provvedimento scritto che abbia disposto quella chiusura. E se pure esistesse tale misura, sarebbe destinata a decadere, perché in conflitto oltre che con l’articolo 10 della nostra Costituzione, con tutti, ma proprio tutti, gli obblighi internazionali fissati dalla Convenzione di Ginevra per i Rifugiati e da quella sulla Salvaguardia della vita umana, da quella sul Diritto del mare e dalla Sar.
E, ancora, si è dimostrato che, per ricorrere a un’immagine abusata, "esiste un giudice a Berlino", come (prima di Bertolt Brecht) ha raccontato Enrico Broglio in un’opera del 1880. Qui non siamo in Germania, ma ad Agrigento e il magistrato che compie il suo dovere è un pubblico ministero. Certo, tra la Prussia di Federico il Grande e l’Italia attuale corrono due secoli e mezzo e la distanza sotto tutti i profili è vertiginosa, eppure una qualche affinità c’è: l’iniziativa del procuratore Patronaggio appare rara e fin solitaria. Almeno rispetto all’orientamento della grande maggioranza della classe politica, di una parte significativa dell’opinione pubblica e di molti magistrati. Per questo va apprezzata: perché risulta, a un tempo, rispettosissima delle norme e autonoma nei confronti della mentalità dominante. Ed è forse giusto che sia così.
Tuttavia, va ribadito, il soccorso in mare costituisce il fondamento stesso del sistema universale dei diritti umani.
Ovvero la base su cui si fonda il principio di reciprocità che, a sua volta, sostanzia il legame sociale e dà vita al consorzio umano. Per questa ragione insidiare il diritto-dovere di soccorso rappresenta un attentato alla civiltà giuridica.
Eppure (ecco ancora quella sensazione di solitudine) sembra che quel valore essenziale così alto e al contempo così tragicamente concreto — una questione di vita o di morte — interessi solo esigue minoranze. Ne consegue che, a farsi carico di quella responsabilità tanto onerosa, sembrano rimasti solo il mestiere del soccorso ("la legge del mare") e quanti lo praticano, guardia costiera e navi mercantili e militari comprese. Sono solo questi, ed è disperante, a salvare l’onore di un’Europa torpida e codarda.
il manifesto 21.5.19
Guerra alle ong, il manuale di Satana contro i soccorsi
Decreto sicurezza bis. Multe da 20 a 50 mila euro per chi dirige i salvataggi dei migranti e confisca delle navi. Un fondo per i rimpatri
di Adriana Pollice
«Se Luigi Di Maio non ha il decreto Sicurezza bis glielo manderemo tutto a colori»: il Consiglio dei ministri ieri non era ancora iniziato e già tra il vicepremier Matteo Salvini e l’omologo 5S volavano gli stracci. Il testo, arrivato in Cdm dopo polemiche e correzioni, spazia dai migranti alla sicurezza negli stadi, a misure anti clan fino all’invio di 500 militari in più a Napoli per le Universiadi 2019.
I PRIMI DUE ARTICOLI sono dedicati a bloccare gli sbarchi delle Ong: il comandante della nave che effettua il salvataggio «è tenuto ad operare nel rispetto delle istruzioni operative emanate dalle autorità responsabili dell’area in cui ha luogo il soccorso». Norma che, nelle condizioni attuali, si traduce nel Centro di coordinamento di Tripoli. In caso di inosservanza è prevista una multa a carico del comandante tra 20mila e 50mila euro. Su suggerimento del ministro Toninelli, in caso di reiterazione o qualora il numero degli stranieri sbarcati sia superiore a 100, arriva «immediatamente il sequestro cautelare della nave». Può anche essere sospesa la concessione delle attività di soccorso da uno a dodici mesi.
L’ARTICOLO 2 PREVEDE l’ampliamento dei poteri del ministero dell’Interno, che potrà «limitare o vietare il transito o la sosta di navi nel mare territoriale per motivi di ordine e sicurezza pubblica», invadendo quindi il campo del Mit e della Difesa, che devono solo essere informati. L’articolo 3 modifica il codice di procedura penale estendendo al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina la competenza delle Dda, inclusa la disciplina delle intercettazioni preventive. L’articolo 4 istituisce le operazioni sotto copertura, con un fondo da un milione di euro annui, per il contrasto all’immigrazione. L’ultimo articolo, il numero 12, serve a disinnescare le accuse di Di Maio, che da settimane inchioda Salvini alla sua promessa, disattesa, di rimpatriare gli irregolari: viene istituito un fondo di premialità per le politiche di rimpatrio, 2 milioni di euro per il solo 2019, per «finanziare interventi di cooperazione o intese bilaterali» con stati extra Ue.
DALL’ARTICOLO 6 IL DECRETO passa a occuparsi di ordine pubblico, rendendo sempre più difficile manifestare il dissenso in piazza. Non solo viene punito da uno a quattro anni chi utilizza razzi, bengala, fuochi artificiali o petardi ma anche (da uno a tre anni) chi «utilizza scudi o altri oggetti di protezione passiva». Da due a tre anni, con l’ammenda da 2mila a 6mila euro, nei casi di resistenza a pubblico ufficiale. Infine, introduce un Commissario straordinario nominato dal Viminale per garantire le notifiche delle sentenze oggi ferme, con 800 assunti a tempo determinato, invadendo le competenze degli uffici giudiziari e del ministro della Giustizia.
CRISTINA ORNANO, segretario di Area (il gruppo delle toghe progressiste), ha duramente criticato il decreto: «La sanzione pecuniaria per i salvataggi si tradurrebbe in una grave violazione del diritto-dovere di tutelare la vita in mare e degli obblighi imposti dalle Convenzioni e dal codice della navigazione. Con l’articolo sulla Dda si rischia di depotenziare l’attività delle procure competenti». In quanto ai maggiori poteri attribuiti al Viminale: «È un ingiustificato esautoramento del Mit con una pericolosa espansione del concetto di ordine e sicurezza pubblica. Rispetto alle manifestazioni, introduce ipotesi di responsabilità oggettiva non consentite dall’ordinamento e sanziona condotte di mera partecipazione in violazione del diritto costituzionalmente di riunirsi e manifestare».
L’ONU IERI È TORNATA a chiedere il ritiro del decreto: «Il diritto alla vita e il principio di non respingimento dovrebbero sempre prevalere sulla legislazione nazionale». E ancora: «Esortiamo le autorità a smettere di mettere in pericolo la vita dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime della tratta. Le politiche migratorie restrittive contribuiscono ad aggravare le vulnerabilità dei migranti e servono solo ad aumentare il traffico di persone».
L’Onu ha chiesto anche il ritiro delle precedenti direttive che vietano l’accesso ai porti italiani alle Ong: «Temiamo che questo tipo di retorica aumenterà ulteriormente il clima di odio e di xenofobia».
CONTRARIE ANCHE le organizzazioni del Tavolo per l’Asilo nazionale: «Il governo, negando l’esistenza della guerra in Libia, continua nell’intento di impedire qualsiasi fuga. Colpisce chi risponde all’obbligo di soccorso con multe per comportamenti coerenti con l’ordinamento giuridico e con i principi costituzionali».
PER MEDICI SENZA FRONTIERE si tratta di una grave aggressione ai principi umanitari: «Ieri c’erano la legge del mare e le convenzioni internazionali sui rifugiati. Oggi servono un magistrato, un sequestro, ripetuti e inascoltati appelli per dare un porto a chi ne ha diritto».
Repubblica 21.5.19
Le toghe contro Salvini "Basta intimidazioni"
L’Anm dopo gli attacchi sul caso dei migranti soccorsi dalla Sea Watch: crea un clima di avversione L’ex procuratore di Torino Spataro: "Mi inchino ai colleghi, scendiamo in piazza per difenderli"
di Liana Milella
Roma — «Senza retorica, mi inchino di fronte ai colleghi di Agrigento. Stringiamoci attorno a loro, se necessario scendiamo in piazza in loro onore, parliamo e informiamo». Parte così, con le parole dell’ex procuratore di Torino Armando Spataro, toga progressista da sempre attenta ai rapporti tra poteri e Costituzione, la reazione dei magistrati all’attacco di Salvini. Solo 12 ore prima, in tv, il ministro dell’Interno si era scagliato contro il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio per il sequestro della nave Sea Watch minacciando una denuncia per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Con il linguaggio rude che gli è abituale, Salvini ricorda che fu Patronaggio a indagarlo per la Diciotti e lo invita «a candidarsi alle elezioni se vuole fare il ministro».
Decisamente troppo per una magistratura da mesi vittima delle battute delegittimanti di Salvini di fronte a misure sgradite. Stavolta i giudici si sollevano. Perché, come dice il costituzionalista Gaetano Azzariti «il ministro sta accusando la magistratura di attività eversiva e va ben oltre la critica all’esercizio della funzione giudiziaria che ha portato la procura di Agrigento a intervenire. Se ha correttamente operato saranno le ordinarie vie processuali a dirlo, ma non spetta certo a un esponente del governo scatenare una così pericolosa drammatizzazione». Tant’è che di «delegittimazione e intimidazione » parla l’Anm e del rischio che le parole di Salvini «suscitino un clima di avversione nei confronti dei singoli magistrati e dell’istituzione ». Il presidente Pasquale Grasso ricorda che «nel sistema costituzionale disegnato all’indomani del disastro morale e civile della seconda guerra mondiale i giudici agiscono in nome del popolo italiano non secondo un’investitura elettorale, ma in forza di una legittimazione tecnica, fortemente voluta e perseguita dai costituenti». Proprio così, tant’è che Azzariti nota come quella di Salvini «può ritenersi un’impropria interferenza nei confronti del potere giudiziario in quanto azione finalizzata a fermare o condizionare le indagini in corso».
Ma Salvini ha sempre contestato i giudici. Ignorando quello che mette in rilievo il presidente M5S della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra: «Non possono esserci scontri tra esecutivo e magistratura. Sono, esecutivo e magistratura, due poteri diversi e autonomi l’uno dall’altro, per cui ci dev’essere piena indipendenza e rispetto». Salvini invece ignora proprio questo principio. Tocca a Nello Rossi, direttore della rivista online "Questione Giustizia" promossa da Magistratura democratica, ricordarglielo: «Bisognerà che tutti, compreso Salvini, se ne facciano una ragione: in un Stato democratico esiste la separazione dei poteri. Non si può procedere a strappi e scossoni politici. I provvedimenti giudiziari possono essere impugnati e quindi sottoposti a controllo. Ma il punto è un altro. Che i politici sono alla vigilia delle elezioni e hanno di mira i risultati del voto; i magistrati invece seguono le logiche del diritto che restano eguali quali che sia il momento in cui adottano i loro provvedimenti». Proprio come hanno fatto ad Agrigento per la Sea Watch e per la Diciotti. «Se è per questo, Salvini dovrebbe denunciare anche l’Onu» chiosa il presidente di Md Riccardo De Vito. E aggiunge: «I magistrati fanno rispettare la Costituzione anche alla politica. Per questo non sono eletti. La loro indipendenza è rafforzata proprio dal non dover prestare ossequio a una parte politica».
Repubblica 21.5.19
Agrigento
I pm di frontiera "La politica ci lasci lavorare"
I magistrati che hanno fatto scendere i migranti "Vogliamo solo prendere i cattivi, bianchi o neri"
di Alessandra Ziniti
roma — «L’ uomo solo sul molo», come lo ha ribattezzato chi lo ha visto domenica per ore, fino a sera, attendere pazientemente e responsabilmente al porto di Lampedusa che tutto andasse come doveva andare, la mette così: «Quello che sorprende è la reazione del ministro. Il mio lavoro è prendere i cattivi, bianchi o neri che siano. Noi i migranti li vediamo arrivare da anni e li sappiamo riconoscere. Se dovessimo accertare che, oltre ai trafficanti e agli aguzzini africani e libici, in questo mercimonio è coinvolto anche qualche europeo, abbiamo tutto l’interesse, la forza e il coraggio per andare a fondo».
Salvatore Vella, 49 anni, da un anno procuratore aggiunto di Agrigento nell’ufficio di frontiera guidato da Luigi Patronaggio, per tutto il weekend ha gestito minuto per minuto da Lampedusa, dove era andato per interrogare il comandante e il capomissione della Mare Jonio, la "crisi" Sea Watch. Un caso come tanti altri per questa piccola procura di provincia che da decenni si occupa di sbarchi di migranti, ha gestito decine di indagini delicatissime su naufragi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ha arrestato centinaia di scafisti e, da un anno a questa parte, si ritrova a dover fare quello che non avrebbe mai pensato di fare: mettere sotto inchiesta i salvatori. Finora, però, di reati a carico delle Ong non ne hanno trovati.
Salvini invece avrebbero voluto portarlo davanti al tribunale dei ministri se il Senato non avesse negato l’autorizzazione a procedere: sequestro di persona per il caso Diciotti. È stato così che, ad agosto, dopo essere salito sulla nave della Guardia costiera ferma a Catania, il procuratore Luigi Patronaggio, 60 anni e una lunga esperienza a Palermo di processi di mafia e politica, è finito nel mirino del ministro dell’Interno. E forse non è un caso che uno degli articoli del decreto sicurezza- bis, quello che attribuisce la competenza delle inchieste sull’immigrazione clandestina solo alle Dda, toglierebbe al suo ufficio tutte le indagini, alcune delle quali puntano molto in alto.
Ora che Matteo Salvini, dopo lo sbarco della Sea Watch, è arrivato a minacciare di volerlo denunciare per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, Patronaggio si limita a ribadire quanto già detto dopo lo scontro con Salvini sul caso Diciotti: «Bisogna rispettare le diverse sfere di autonomia dei poteri. Alla politica spetta fare le scelte che ritiene più opportune, alla magistratura la valutazione giuridica. È quello che abbiamo fatto».
Patronaggio, Vella e 10 giovanissimi sostituti procuratori, nove donne e un uomo, quasi tutti al primo incarico, per occuparsi di immigrazione, abusivismo edilizio e demolizione, ma anche corruzione e tutela dell’ambiente. E mafia naturalmente. Una mole di lavoro spaventosa per un ufficio con enormi vuoti di organico. Negli anni più caldi, solo per i reati di immigrazione clandestina, 1.300 procedimenti all’anno con 10 mila indagati.
«Noi, da soli con la nostra polizia giudiziaria, tutti qui a schiena bassa a lavorare — dice il procuratore aggiunto Salvatore Vella — Siamo un grande gruppo, ci mettiamo il cuore e l’anima. Questo clima da stadio, disancorato dai fatti, non aiuta. Le istituzioni tutte dovrebbero garantirci più serenità per permetterci di fare al meglio il nostro lavoro. E il nostro lavoro, lo ripeto, è prendere i cattivi. Dovunque si trovino».
Per accertare se ce ne fosse qualcuno sulla Sea Watch i pm adesso faranno quello che hanno sempre fatto: interrogatori dei migranti (a uno di loro hanno trovato due telefoni tra cui un satellitare), interrogatorio del comandante, acquisizione della documentazione, dei registri, delle conversazioni di bordo. «Per questo abbiamo sequestrato la nave, come nei casi precedenti», spiega Vella . «La Guardia di finanza ci ha trasmesso un’informativa segnalando possibili atti illeciti da parte della Ong e per verificarlo abbiamo dovuto procedere al sequestro dell’imbarcazione e ovviamente allo sbarco dei migranti. Esattamente come è successo per i precedenti sbarchi della Mare Jonio in costante coordinamento con la polizia giudiziaria. Erano tutti informati, tutti».
Repubblica 21.5.19
La solidarietà ai magistrati
Il senso di scendere in piazza
di Armando Spataro
La decisione della procura di Agrigento di far sbarcare a Lampedusa i migranti rimasti a bordo della Sea Watch ha suscitato, da un lato, la prevedibile reazione del "Ministro di tutto" e, dall’altro, sentimenti di gratitudine verso la magistratura da parte di chi crede nel dovuto rispetto dei diritti fondamentali e nella separazione dei poteri in democrazia. L’incompatibilità tra queste opposte posizioni, però, è tale che occorre parlare e spiegare perché un ministro, qualora ipotizzi un reato nelle attività di soccorso in mare, non può, indipendentemente dal fondamento della sua opinione, disporre o richiedere il sequestro di una nave e impedire lo sbarco di migranti.
Il sequestro in un processo penale, con quanto ne consegue, è atto giudiziario, compete solo ai pubblici ministeri e alla polizia giudiziaria che è da loro funzionalmente diretta. Ma secondo il ministro dell’Interno, anche in presenza del sequestro, i migranti non dovevano sbarcare. Al di là dei principi vigenti in materia, forse egli pensa che i migranti dovessero essere custoditi in un ufficio corpi di reato, anziché scendere a terra?
Il procuratore di Agrigento, come ha reso noto, sta indagando sul reato di immigrazione clandestina e ne valuterà la sussistenza, ma tale doverosa attività non attenua in alcun modo, neppure nel caso di accertata responsabilità del comandante o dell’equipaggio della nave, il suo obbligo (non solo "suo" a dire il vero!) di tutelare i diritti delle persone e i loro beni fondamentali, fra i quali in primis
la salute, l’integrità fisica e la dignità. Né attenua il suo dovere di interrompere ogni attività che possa apparire illegale, come già ritenuto dal Tribunale dei Ministri di Catania nel caso Diciotti.
L’esecutivo, a sua volta, non può, in ragione di proprie opposte convinzioni e aspettative (rispetto alle quali la magistratura deve essere totalmente indifferente), intaccare il principio della separazione dei poteri costituzionalmente tutelato, addirittura ipotizzando condotte illegali della procura agrigentina (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina).
È facile in questa situazione individuare chi ha esorbitato dalle proprie competenze istituzionali, ma — in tempi di difficile partita di civiltà — bisogna "scendere in piazza": un invito che non ha rapporto né con le bandiere di parte e con gli slogan a effetto né con la divisa di Zorro, ma solo con l’immagine luminosa della democrazia. Il procuratore di Agrigento non ha certo bisogno di essere difeso, né di essere applaudito nelle piazze. Egli ben conosce i sentimenti di solidarietà e rispetto che la parte consapevole del Paese gli dedica: non si è mai soli, infatti, quando si cammina in avanti, pensando e agendo con lucidità per il rispetto della legge e la difesa della dignità collettiva.
Ma i "cittadini consapevoli" — come a me piace definirli — devono "scendere in piazza", dovunque sia possibile, anche nelle scuole, nelle case e nei luoghi di lavoro, dando luogo a una contronarrazione pacata e chiara che, opponendosi alle logiche elettorali, serva a far comprendere a tutti, da un lato, che è giusto invocare l’intervento dell’Europa per rendere effettivi e operanti gli accordi sovranazionali esistenti in tema di accoglienza dei migranti e così vincere le inadempienze di altri governi e, dall’altro, che questo obiettivo non si può raggiungere né violando gli obblighi che in materia gravano anche sull’Italia, né con atteggiamenti polemici nei confronti dell’Europa. Serve guadagnare autorità e credibilità, dimostrando la propria irrinunciabile fedeltà agli obblighi internazionali e ancor prima ai principi affermati nella Costituzione italiana.
il manifesto 21.5.19
Tutta la Liguria chiusa alla guerra
Porto D'Armi. A Genova la vittoria dei camalli: il generatore per lo Yemen non sale sul cargo saudita. Cgil: sciopero in tutti i porti per evitare carichi. Indiscrezioni sull’aggiramento del blocco a La Spezia: all’arsenale potevano essere caricati anche 8 cannoni. La Bahri Yanbu accolto all’alba con razzi e lacrimogeni. Poi la prefettura dà ragione ai lavoratori: il materiale «border line» viene trasferito fuori dal porto
di Massimo Franchi
Hanno vinto i camalli, ha vinto la «guerra alla guerra». Lo sciopero e il presidio indetti a Genova contro la Bahri Yanbu è riuscito: la nave cargo saudita arrivata ieri mattina non verrà caricata con i generatori elettrici che sarebbero serviti per la guerra in Yemen. E il blocco da oggi si estende a tutti i porti liguri per evitare che il carico avvenga nel porto militare di La Spezia, lontano dai riflettori accesi meritoriamente da lavoratori e Cgil nel capoluogo.
SOTTO UNA FORTE PIOGGIA alle 4 e 30 la nave è stata accolta dagli striscioni e dai fumogeni del Collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) che hanno anche tentato di salire sul cargo. Poi i lavoratori della Compagnia unica dei camalli hanno impedito le operazioni di carico nell’area di attracco della nave partendo con un presidio al varco portuale Etiopia, in lungomare Canepa.
Lo sciopero deciso domenica dalla Filt Cgil era mirato: riguardava tutti gli operatori di mare e di terra che avrebbero dovuto lavorare sulla Bahri Yanbu, il cargo della compagnia marittima dell’Arabia Saudita che trasporta materiale bellico diretto a Gedda e da lì al conflitto civile in Yemen.
Uno striscione al presidio al porto
La mobilitazione partita già la scorsa settimana sotto la scia del boicottaggio avvenuto al porto francese di Le Havre aveva visto saldare le posizioni dei camalli con quelle delle ong laiche come Arci, Amnesty, Libera, Opal per il disarmo e cattoliche Acli, Salesiani del Don Bosco, comunità di San Benedetto. Tutti uniti dallo striscione: «Porti chiusi alla guerra, porti aperti ai migranti».
Sotto accusa c’erano i generatori della Defence Tecnel di Roma, materiale militare che invece l’agente a Genova della Bahri sosteneva essere «civile». La scoperta dei generatori «border line» aveva portato anche la Cgil – dopo il collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) – alla mobilitazione totale anche sotto la spinta della affollata assemblea pubblica di venerdì.
IL SUGGELLO ALLA VITTORIA dei lavoratori è arrivata dalla riunione tenuta in prefettura con i rappresentanti sindacali, i vertici dell’Autorità portuale e i dirigenti del Gmt, il terminal. Niente carico e generatori spostati in un’area protetta del Centro smistamento merci (Csm). Quando verso mezzogiorno la polizia ha scortato gli operatori che spostavano i grossi generatori il blocco è stato tolto fra la felicità di tutti. «Avevamo proposto noi di portare fuori la merce contestata e ci hanno ascoltato», commenta Luigi Cianci della Cooperativa unica dei camalli e delegato Filt Cgil. «A parte il comportamento vergognoso di Cisl e Uil, questa volta c’era tanta voglia nei lavoratori di fare qualcosa, di cominciare ad agire, di scrollarsi di dosso l’apatia», spiega Richi del Calp.
NEL PRIMO POMERIGGIO però iniziava a farsi concreta la possibilità che il generatore potesse essere spostato al porto di Spezia dove secondo indiscrezioni potrebbero arrivare nelle prossime ore, via treno, anche gli 8 cannoni Caesar che sono stati all’origine del blocco al porto di Le Havre.
Per evitare che il problema di Genova si ripresenti perfino peggiorato a La Spezia la Filt Cgil assieme alla Cgil Liguria hanno indetto uno sciopero preventivo per tutti i porti della regione. «Abbiamo deciso di dichiarare lo sciopero dei lavoratori addetti a tutti i servizi e alle operazioni portuali, di mare e di terra, che riguardano gli scali liguri dove avvenga l’eventuale attracco della nave Bahri Yanbu – spiega Laura Andrei, segretaria regionale della Filt Cgil – perché non si proceda con l’imbarco di materiale bellico impiegato in operazioni definite dalle Nazioni Unite “crimini di guerra”. Anche all’arsenale di Spezia riusciremmo a bloccare il carico».
FILT E CGIL LIGURIA «auspicano che anche l’Italia, come gli altri stati europei, decida finalmente di dare un segnale forte contro la più grave catastrofe umanitaria del mondo».
A conferma del livello di intatta civiltà di buona parte di Genova arriva il commento del presidente di Federlogistica ed ex presidente dell’autorità portuale Luigi Merlo: «Credo che la decisione dei camalli e della comunità dei lavoratori portuali vada rispettata perché fa parte della loro storia e identità. È vero che c’è il libero scambio delle merci – ha completato Merlo – ma c’è anche la scelta individuale, importante, etica e morale, che credo debba essere rispettata e faccia pienamente parte della storia del porto di Genova».
il manifesto 21.5.19
Bahri Yanbu, una flotta pendolare tra Usa e Golfo
Italia/Arabia saudita. Intervista a Carlo Tombola (Opal): «Hanno fatto bene i portuali a scioperare. Da Sunny Point, terminal della marina americana, a Santander: a bordo ci sono armi»
di Chiara Cruciati
«A febbraio uscirono le foto di quanto aveva nella stiva la Bahri Yanbu arrivata a Genova: veicoli blindati, cingolati, apparecchiature già camuffate per il deserto, probabilmente di fabbricazione americana». Il direttore di Opal, Carlo Tombola, dà per certo il transito di armi dal porto ligure, in passato, a bordo delle navi della flotta saudita Bahri, «pendolare» tra Stati uniti e Golfo.
«La Bahri ha la più grande flotta della monarchia – ci spiega – Sei navi fanno la stessa rotta per l’approvvigionamento militare americano e britannico, il 75% del totale. Impiegano due mesi e mezzo all’andata e altrettanti al ritorno, tra i due porti “estremi”. Ma sono sei: ogni 15 giorni più o meno toccano il porto di interesse».
Ed è qui, in porto, che scavando si può sapere cosa contengono: al documento di carico ufficialmente non si accede, ma ufficiosamente sì perché entra in possesso di assicurazione, compagnia di gestione, trasportatore. Le dogane devono sapere cosa c’è in stiva per poter movimentare la nave.
«In questo caso a bordo ci sono sei container di munizioni caricate ad Anversa e altre munizioni caricate a Santander: le hanno viste gli attivisti locali. E poi quello che è stato caricato a Sunny Point negli Stati uniti: si tratta di un terminal della marina americana, lì caricano solo sistemi militari».
Fino all’Italia dove i portuali hanno detto no: «Hanno fatto bene gli operai di Genova a scioperare. I generatori della Teknel sono dual use, possono essere usati in contesto militare e civile. Per capirci: il generatore serve a far funzionare lo shelter, un piccolo container blindato a tenuta con una porta e piccole feritoie che contiene attrezzature elettroniche e collegamenti elettrici. Ovvero computer, visori, schermi con cui si può dare moto a un’artiglieria, guidare un drone, gestire il diurno e il notturno. Dalla Teknel i sauditi hanno comprato 18 shelter e 18 generatori».
Il sospetto che a Genova quelli destinati al carico fossero per uso militare non è campato in aria.
Il Fatto 21.5.19
Toh, per sgonfiare il pallone gonfiato basta la democrazia
di Antonio Padellaro
Domenica sera, lo show del Matteo Salvini smentito in diretta tv a Non è l’Arena, ci ha detto alcune cose sugli strumenti che ha la democrazia per far ritornare sulla terra i palloni gonfiati.
Primo: l’informazione. In passato, spesso intervistatore compiaciuto e ammiccante del vicepremier leghista, questa volta Massimo Giletti si è calato nei panni del giornalista che becca la notizia, la tiene in pugno e non la molla cascasse il cielo.
La sequenza alternata del ministro degli Interni categorico (“dalla Sea Watch non sbarca nessuno”) e del conduttore incalzante che gli legge in diretta le agenzie che danno conto dello sbarco in corso, resta televisivamente imperdibile. E rappresenta un esempio di come i media possano svolgere un importante servizio pubblico semplicemente ponendo all’autorità di turno una, due, tre, quattro, cinque volte la stessa domanda. Senza accontentarsi della stessa risposta.
Secondo: la magistratura. Il Procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio ha disposto lo sbarco dei 47 migranti a bordo, non in preda a una crisi acuta di buonismo o perché foraggiato da Soros ma in conseguenza del sequestro probatorio della Sea Watch 3 per violazione dell’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione che contrasta gli ingressi illegali. Anche in questo caso il ministro si mostra all’oscuro di tutto. Sembra ignorare norme e procedure che gli dovrebbero essere familiari (alcune portano la sua firma). Come se considerasse il potere giudiziario, un fastidioso ingombro se non addirittura un ostacolo all’esercizio di un potere (il suo) che egli considera evidentemente illimitato e inappellabile.
Terzo: il ministro. Rubizzo e con gli occhi lucidi sembra febbricitante (in questo caso auguri di pronta guarigione) ma non rinuncia ad ergersi come un misirizzi in delirio di onnipotenza.
Senza rendersi conto che più rivendica sconfinate potestà (“io governo il paese”) e più si sta ficcando in una trappola micidiale. Quando se ne accorge simula risate di cuore e forse si appresta a mandare i consueti bacioni, senonché viene impallato dalle implacabili immagini di una motovedetta della GdF con a bordo i migranti sani e salvi. Di nuovo s’incupisce e minaccia (“finché il ministro sono io”), poi comincia a menare colpi al buio. Prima contro l’incolpevole collega Danilo Toninelli (“lo spieghi agli italiani”) ma quando Rocco Casalino portavoce di palazzo Chigi (dove qualcuno si gode la scena) smentisce interventi di ministri 5 Stelle, si avventa deciso sul pm. Ignaro della dinamica degli eventi, compulsa nervosamente il cellulare che immaginiamo sordo (il numero da lei selezionato…), e infine si rifugia sul classico (“ se intende fare il ministro si candidi alle elezioni”). Salvo che all’indomani, forse rinfrancato dalla tachipirina, rivendica come una sua vittoria personale l’intervento della magistratura. Uno spettacolo.
Il pubblico. Ma chi governa sto’ paese? Lo avranno pensato in molti osservando il ministro preposto alla sicurezza dei cittadini scavalcato dagli accadimenti proprio sul terreno (anzi sulle acque) di cui si proclama demiurgo supremo. Seguono le seguenti riflessioni. Allora è vero che al Viminale non ci sta mai. Allora non è vero che ha chiuso e sigillato i porti. Vuoi vedere che è finto anche il rosario?
Repubblica 21.5.19
Reportage dal Sudan
Le ragazze di Khartoum
Da dicembre migliaia di persone sono in strada per chiedere democrazia. In prima fila moltissime donne: cuoche, infermiere, giornaliste. La cacciata del dittatore Bashir non basta: ora il nemico sono i militari
di Giampaolo Cadalanu
KHARTOUM - Alla farmacia del sit-in, gli attivisti di Khartoum si rivolgono alla dottoressa Riat con cortesia, parlando sottovoce, anche perché nella tenda dell’ospedale da campo il suono dei tamburi e delle percussioni sulle ringhiere arriva soffuso. La farmacista volontaria distribuisce pillole e cerotti con il sorriso sulle labbra, il velo celeste immacolato nonostante la polvere. Quello che i militanti pensano, sulla presenza delle donne, Riat l’ha capito alla manifestazione del 31 dicembre: «Quando gli agenti della sicurezza hanno cominciato a sparare, ero fra i più esposti. All’improvviso mi sono trovata davanti un ragazzo che non conoscevo, era venuto a farmi scudo con il suo corpo. L’ho cercato per ringraziarlo, ma non l’ho più visto».
Nel campus universitario occupato, vicino al quartier generale della Difesa, il sit-in della società civile va avanti dall’inizio di aprile. Oltre 25mila attivisti sono accampati qui, per chiedere ai militari di farsi da parte dopo la deposizione di Omar al Bashir. In questa piccola città rivoluzionaria uomini e donne si dividono alla fila per la perquisizione, e naturalmente nelle stanze dedicate al riposo, durante le ore di sole, quando non c’è spazio per grandi attività, tra i 43 gradi all’ombra e il digiuno del Ramadan. Poi si mescolano senza problemi. Ma basta uno sguardo ai crocchi di persone sotto i lampioni per capire che in Sudan la rivoluzione è donna.
Sara Isam, responsabile della Sanità del sit-in, sottolinea che su undici comitati di gestione sette sono guidati da donne. Anche gli uomini sono d’accordo: fra i dimostranti di Khartoum il grido ritmato delle attiviste è diventato un incitamento per i momenti più difficili. «Serve a ricordarci che se le ragazze sono in prima fila, noi dobbiamo essere all’altezza », dice Munif, attivista del Media Center. E le giovani non si tirano indietro: come ricorda citando una poesia di Mohamed Taha Algadal la quindicenne Samah Rahama: «Non sono le pallottole a uccidere, è il silenzio ».
Lo avevano capito anche i paramilitari leali al vecchio regime, frange delle Rapid Support Forces che Omar al Bashir aveva fatto tornare dalle regioni strategiche come il Darfur per trasformarle in Guardia presidenziale. All’inizio della rivolta, in dicembre, gli ufficiali avevano dato ordini precisi: bisognava spaventare le donne, per far sparire anche gli uomini. Racconta Fatma, 32enne madre di due bambini: «Dopo un corteo, gli agenti dei servizi hanno arrestato tutti. Io ero nascosta in una casa vicina, sotto il letto. Uno di loro mi ha trovato, ha cominciato a strapparmi i vestiti. Voleva violentarmi. Mi ha salvato l’arrivo della padrona di casa, che ha detto: è mia figlia, lasciala stare».
La minaccia degli stupri non è bastata a fermare la ribellione. Al Bashir è stato deposto, ma anche i generali che hanno preso il potere hanno vita difficile. Le organizzazioni della società civile coordinate dall’Associazione dei professionisti sudanesi hanno avviato un braccio di ferro con la giunta, per strappare un ruolo più importante negli organi che dovranno gestire la transizione verso la democrazia: un Consiglio supremo, un governo ad interim e un’assemblea. Si va avanti a singhiozzo, anche perché le forze del cambiamento rappresentano solo una fetta minoritaria del Paese e hanno una struttura orizzontale, con leadership diffusa, che rende più difficile ogni negoziato. Ma l’accordo appare vicino: questione di giorni, o forse di ore.
Anche negli organi provvisori il ruolo delle donne dovrà essere significativo. «Bisogna introdurre le quote rosa. Nella società siamo il 50 per cento, dovrebbe essere così anche nello Stato», taglia corto Tasneem Elfatih. E mostra i bigliettini che stampa e distribuisce ai militanti per ricordare l’anima solidale prima che politica del movimento. I compagni la prendono in giro, con aperta ammirazione: "Va a filmare in prima fila, anche quando si spara, per contrastare le bugie dei media sudanesi ».
Dal suo letto all’ospedale Royal Care, mamma Igbal Aljack Ahmed tira la coperta rosso fuoco a coprire i tubi del drenaggio. «Mi sono rotta il femore nella calca quando gli agenti hanno lanciato lacrimogeni. Ma non ho sentito dolore: ho chiesto una sedia, ho continuato a camminare appoggiandomi. Poi mi hanno portato il corpo del ragazzo che mi aiutava a distribuire i pasti. L’hanno ucciso, aveva solo 15 anni, non ho mai saputo il suo nome. Sono svenuta». I parenti l’hanno rintracciata il giorno dopo. «Appena potrò camminare, tornerò in piazza, anche davanti ai fucili».
E’ la scelta anche di Iman, arrestata e trattenuta una settimana, fra bastonate e umiliazioni. E’ la scelta di Umm Hazaa, che ha visto uccidere il figlio nel 2013, nei giorni scorsi ha perso suo padre, colpito da un candelotto lacrimogeno ed è ancora in piazza con i due figli rimasti. E’ la scelta di "Jood" Tareq, che i militari hanno rapato a zero dopo il primo arresto: quando è tornata a manifestare è stata fermata di nuovo, gli uomini del regime le hanno spezzato un polso a bastonate, ma è sempre lì.
La presenza delle donne, mescolata alla tradizione sudanese e alla cultura digitale, ha creato a Khartoum una rivoluzione gentile. A Nile Street, i dimostranti continuano a chiedere un governo senza militari, gridando alle auto di passaggio: «Civile! Civile!». Poi si chinano a raccogliere i blocchetti che avevano staccato dal marciapiede per costruire barricate. Li risistemano con cura, e spazzano, perché la città è casa loro. Nel campus universitario gli oratori fanno a gara a pochi metri l’uno dall’altro, ma nemmeno il volume dei megafoni sveglia i tanti che hanno disteso una stuoia o dormono direttamente sul cemento caldo, a due passi dai banchetti di the, di noccioline, di pannocchie. Più che una rivolta, è un happening che unisce gli anziani in turbante e tunica bianca e i giovanissimi con dreadlocks e maschere di V for Vendetta. A legarli è il sogno di un Sudan migliore. Vicino a due operai che mescolano cemento e sassi per riparare il marciapiede danneggiato, un manifesto recita: «Siamo murati qui. E non ce ne andiamo».
OZAN KOSE / AFP
In piazza Sit-in di protesta dei sudanesi davanti al quartier generale della Difesa a Khartoum: chiedono ai militari di farsi da parte dopo la deposizione di Omar al Bashir. In alto a destra Tasneem Elfatih
Le attiviste Umm Hazaa con la foto del figlio assassinato e Igbal Aljack Ahmed in ospedale
Corriere 21.5.19
Il trionfo di Mussolini sulle ceneri della libertà
Nel 1922 la marcia su Roma con l’avallo del re
Poi vent’anni di dominio sfociati nel disastro
di Dino Messina
Il falso mito della «vittoria mutilata»
inventato dal poeta Gabriele d’Annunzio
procurò al fascismo notevoli consensi
Società I ceti medi emergenti diedero un contributo cruciale al movimento delle camicie nere
La marcia su Roma era stata messa a punto alla metà di ottobre 1922 dai quadrumviri Emilio De Bono, Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi. L’Italia era stata divisa in dodici zone ciascuna sotto il controllo di un ispettore fascista, mentre l’avvicinamento alla capitale sarebbe avvenuto da tre punti di raccolta: Santa Marinella, Monte Rotondo e Tivoli.
L’azione cominciò con il congresso di Napoli del 24 ottobre, che richiamò 40 mila fascisti. Benito Mussolini, davanti a quella platea di militanti in camicia nera tuonò: «Io vi dico, con tutta la solennità che il momento impone: o ci danno il potere o noi ce lo prenderemo piombando su Roma». L’attacco a Roma era stabilito per il 28, ma prudenzialmente il capo del fascismo rientrò a Milano per dare una parvenza di legalità alle sue manovre parlamentari e nello stesso tempo perché da Milano, dove l’avventura fascista era cominciata poco più di tre anni prima, era più facile raggiungere la Svizzera, se le cose si fossero messe al peggio.
La narrazione di Pierre Milza e Serge Berstein, due dei maggiori storici francesi dell’età contemporanea, nella corposa Storia del fascismo da oggi in edicola con il «Corriere della Sera» è allo stesso tempo rigorosa e accattivante. Ripercorre tutte le fasi dell’età mussoliniana — dallo scoppio della Grande Guerra all’esecuzione del Duce — in una cavalcata storica di cinquecento pagine che lascia senza respiro e risponde alle maggiori domande su uno dei fenomeni centrali del Novecento italiano ed europeo.
Chi erano innanzitutto i militanti che diedero vita al movimento prima e al Partito fascista poi? Erano espressione delle classi deboli di una società piegata dalle difficoltà del dopoguerra o costituivano l’avanguardia di ceti emergenti che volevano sostituirsi alla vecchia classe dirigente? Secondo un’inchiesta del 1921 su 151 mila aderenti, cioè la metà degli iscritti, scrivono Milza e Berstein, «si contavano 18.000 proprietari agrari e 4.000 industriali, (una proporzione inferiore a quella di tali categorie nell’intera società), 14.000 piccoli commercianti, 15.000 impiegati, 7.000 funzionari, diecimila professionisti, in una proporzione che superava di gran lunga tali categoria nel corpo sociale». Il resto era rappresentato da operai agricoli (circa 37 mila) e da operai disoccupati (23 mila). Queste categorie, osservano gli autori, rappresentavano la manovalanza nelle azioni squadristiche che terrorizzarono le città e sovvertirono gli equilibri anche nelle campagne, dando man forte ai proprietari terrieri che non intendevano rispettare gli accordi faticosamente raggiunti con le leghe dei braccianti.
Milza e Berstein sottolineano tuttavia che nell’ascesa del fascismo giocarono un ruolo fondamentale quelle che Renzo De Felice aveva definito le «classi medie emergenti».
Tornando alla marcia su Roma, le cose non si svolsero nel più lineare dei modi. Mentre nel resto del Paese, dal 27 ottobre gli squadristi si presentavano alle prefetture e ai comandi di polizia, alle centrali telefoniche e alle stazioni per prendere il controllo del situazione senza incontrare resistenza, sulla capitale confluirono soltanto 26 mila uomini, male armati e peggio organizzati. A Roma era presente un presidio militare di 28 mila uomini, molto ben equipaggiati e addestrati al comando del generale Emanuele Pugliese. Sarebbe bastato un ordine preciso dall’alto per ribaltare la situazione. Ma il re Vittorio Emanuele III, rassicurato anche dal cambiamento filomonarchico di Mussolini, si rifiutò di decretare lo stato d’assedio.
Quattro anni dopo la fine della Grande guerra, conclusasi secondo la mitologia dannunziana con una «vittoria mutilata» e dopo due anni di scontri sanguinosi, la classe dirigente dell’età liberale assisteva all’ascesa legale del sovvertitore Mussolini. Molti, anche convinti democratici, tirarono un sospiro di sollievo pensando che l’incarico di presidente del Consiglio al capo delle camicie nere, che il 30 ottobre si era presentato al Quirinale in divisa fascista, fosse il prezzo minore e provvisorio da pagare per lo scampato pericolo della rivoluzione bolscevica. Invece non andò così, come ben raccontano Milza e Berstein.
Il Fatto 21.5.19
Com’è umano il mostro
Il parco dei Mostri di Bomarzo, ideato da Pirro Ligorio nel XVI secolo
di Daniela Ranieri
Adelphi dà alle stampe in contemporanea due libri che risuonano nelle zone sensibili delle menti soggette al fascino del mostro, quell’entità composta di angelicità, terrore, stranezza, disponibilità e spiritualità tutte mischiate insieme e che rimanda, sulla sua superficie impenetrabile, la stessa immagine umana. Si tratta de Il libro dei mostri di J. Rodolfo Wilcock e di Dialettica del mostro. Inchiesta su Opicino de Canistris di Sylvain Piron.
Di Wilcock, della sua selvatichezza furente, si sa ormai quasi tutto: originario di Buenos Aires, nel 1957 si trasferì a Roma e poi nel ’60 a Velletri, da dove coltiverà il suo gusto da giostraio della parola votato all’irragionevole e al sarcastico, al perturbante e al rigoroso. I mostri di Wilcock tornano a inquietare (questa è una riedizione del volume di Adelphi del 1978) e a mostrarsi, appunto, a noi come a una specie di spietato pubblico da fiera, mentre l’autore li ostenta in una tassonomia malinconica. La Spoon River dei mostri umani degenerati e abbandonati che subiscono metamorfosi, amputazioni e accrescimenti carnali o semplicemente si allontano dal mondo, come Wilcock, per cuocersi dentro la loro bizzarria, è ipnotica: due per tutti, il meccanico Fizio Milo, “una persona così modesta che a poco a poco è scomparso quasi del tutto, soltanto è rimasta in un angolo dell’officina una specie di fosforescenza diffusa” e ora passa il tempo “a contare alla luce di sé stesso quante lenticchie ci sono nel libro di Daniele o nei Giudici, quanti elefanti ci sono nei Salmi (nessuno)”; e il musicista Sligo, di cui “qualcosa è rimasto”, “ma che cosa sia non si vede bene, tutto il suo corpo è come avvolto in una specie di schiuma rosea appiccicosa… la testolina indiscernibile nel suo cappuccio di bava”.
Sylvain Piron è un medievalista che ha dedicato anni a cercare di decifrare il materiale autografo, riportato alla luce dai bibliotecari vaticani, di un certo Opicino de Canistris, nato a Pavia nel 1296, miniatore e scriba per conto del papato a Avignone.
Opicino è un mostro meraviglioso: affetto, secondo gli studiosi di oggi, da “parafrenia fantastica”, nel corso del travagliato e schizofrenico 1300, tra indulgenze, simonia e cattività avignonese, scrisse un diario angoscioso sulla sua vita “da bestia” e disegnò tavole disturbanti e surreali, ispirate alle mappe dei cartografi genovesi, nelle quali la topografia classica si ibrida con figure antropomorfe, organi, vene, creature deformi, sangue, latte.
“Ero nella lotta della carne”, scrive Opicino, “nutrito in mezzo alle bestie” (che sono poi gli umani, dei quali aveva terrore), sopra le distese marine che solo due secoli dopo sarebbero state solcate dalle pance delle navi spagnole. Il Mediterraneo rigurgita di anatomie bizzarre; l’Africa delimita il corpo di una donna-Europa nuda, vestita di stivali che occupano il Sud Italia e la Dalmazia; il ventre insanguinato, sito in Lombardia, contiene il feto di una piccola Europa che sta per nascere per parto cesareo nel golfo di Genova; altrove, il pugno di un braccio risale l’Adriatico e assale le parti intime della donna nella laguna veneziana, e un sesso maschile in erezione eiacula sul litorale di Alicante, lungo la costa aragonese, appoggiato al collo della donna. Considerando che partoriva le sue creazioni mentre Dante moriva, la mente morbosa e surrealista di Opicino allibisce e affascina.
L’occasione di poter disporre insieme del trattato mostruoso di Wilcock e della cosmogonia deviante e feticistica di Opicino è imperdibile: un’entrata dentro due camere delle meraviglie separate dai secoli e unite dall’ossessione e da umanissima grazia. Wilcock: “Chi riesce a fare questo deve senz’altro essere bello, per quanto schifo possa fare la sua apparenza generale”. Opicino: “Chi sono io? Sulla mia schiena, il grande fiume Danubio, da Dan che significa giudizio e dubium, come tutti i giudizi di cui dubito”.
Corriere 1935-2019
Scompare a 83 anni il poeta che fu tra gli animatori del Gruppo 63 e fondatore dei mensili «Quindici» e «Alfabeta»
Nanni Balestrini, il pioniere ribelle
Furore avanguardistico
Sconfinava tra i generi creando bricolage che facevano inorridire i fautori del romanzo tradizionale e della poesia postermetica
di Paolo Di Stefano
Da sperimentatore negli anni Sessanta scriveva versi
usando un calcolatore Ibm. E raccontò l’autunno caldo
I nemici della neoavanguardia lo chiamavano «il poeta cotonato». Milanese, classe 1935, di padre lombardo e madre tedesca, fu Nanni Balestrini ad accendere i fuochi del Gruppo 63: per alcuni una colpa imperdonabile, per altri un grande merito. Era attratto dalle sperimentazioni elettroniche di Berio, Maderna e Stockhausen, e anche lui, allora giovane poeta e redattore della rivista letteraria «Il Verri», utilizzava un «calcolatore» Ibm per comporre versi: con il suo impeto forse incosciente fu Balestrini a convincere il barone siciliano Francesco Agnello a ospitare una riunione di letterati durante la rassegna internazionale della Nuova Musica. E così il 3 ottobre 1963 l’Hotel Zagarella di Solanto accolse il vivace manipolo di giovani intellettuali in bungalow che si affacciavano sul mare del piccolo golfo a ovest di Palermo. I nomi oggi sono noti: c’erano Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Renato Barilli, Enrico Filippini, Alberto Arbasino, Amelia Rosselli, Furio Colombo, Giorgio Manganelli, Francesco Leonetti... E i cinque poeti che nel 1961 avevano fatto parte dell’antologia I Novissimi: Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani e lo stesso Balestrini. Tra le presenze silenziose all’Hotel Zagarella c’era Elio Vittorini, mentre Alberto Moravia partecipò opponendosi con vigore (e divertimento) alle tesi dei «ribelli». Tra i giornalisti che seguirono la denuncia contro le Liale del ’63 (Cassola, Bassani) facevano capolino Andrea Barbato e Sandro Viola. Ne venne fuori, sull’«Espresso», una cronaca dal titolo L’avanguardia in vagone letto, tratto da una frase di Eco.
Abbandonati gli studi di economia, redattore della Bompiani (con Eco) e poi della Feltrinelli (fino al ’72, anno della morte di Giangiacomo), Balestrini è stato un precoce accanito sperimentatore, creatore e pioniere di nuove forme, combinatore di collage, indagatore sconfinante ovunque — nel teatro, nella musica, nel balletto, nelle arti visive — con assemblaggi e bricolage che facevano inorridire i pacifici fautori del romanzo tradizionale e della poesia postermetica. Il primo frutto narrativo del suo furore avanguardistico fu Tristano (Feltrinelli 1966), definito un «romanzo multiplo», che nelle intenzioni doveva essere un progetto di esemplari illimitati e diversi l’uno dall’altro, composto di materiali preesistenti, scarti e rimasugli della narrativa rosa, dei libri di geografia e di navigazione, dei saggi storico-politici. In realtà si trattò di un omaggio ironico all’archetipo del romanzo amoroso ma in forma di inventario provocatorio della merce verbale capitalistica, percepita come sostanza già un po’ deperita.
È con Vogliamo tutto (Feltrinelli 1971) che Balestrini si impone all’attenzione del pubblico (con traduzioni pressoché immediate), trattando il tema dell’autunno caldo del 1969, la mobilitazione sindacale e le rivendicazioni delle fabbriche del Nord. A colpire nel segno è il «montaggio creativo», un altro lavoro combinatorio, che questa volta si avvale della registrazione della voce al magnetofono di un operaio salernitano, Alfonso Natella, emigrato a Torino e coinvolto nella protesta: documenti prelevati direttamente dalla realtà, restituiti senza sintassi né punteggiatura, quasi come pure «impressioni» ritmiche e referenziali, la cui organizzazione per blocchi narrativi intercambiabili è spinta al limite del nonsense. Natella è l’operaio-massa vittima dell’alienazione, personaggio collettivo «ossessionato dalla ricerca di una fonte di reddito per consumare e sopravvivere», incapace però di accettare la nuova ottica produttiva. Il «rifiuto di ogni valenza soggettiva e consolatoria» è anche la cifra dei versi di Balestrini, a partire da Il sasso appeso (Scheiwiller 1961), con il suo linguaggio programmaticamente alieno ai registri alti. Agitatore instancabile per natura, gli si deve l’invenzione del mensile Quindici, e alla fine degli Anni 70 la fondazione di un altro mensile, Alfabeta: nella cui redazione raccolse gli amici di sempre, la studiosa Maria Corti, il poeta Antonio Porta, Umberto Eco e Pier Aldo Rovatti, gli scrittori Francesco Leonetti, Mario Spinella e Paolo Volponi, il grafico Gianni Sassi. Un gruppo formidabile, da cui nacque quella che Romano Luperini ha definito «l’ultima rivista del Novecento italiano, l’ultimo nucleo culturale che tenne acceso il dibattito letterario, politico e culturale»: uno spazio che riuniva varie anime, dai critici legati al Pci alle espressioni radicali extraparlamentari, dall’accademia strutturalista agli eredi della neoavanguardia, dal pensiero debole al postmoderno internazionale.
Intanto, coinvolto nell’ondata di arresti che dal 7 aprile 1979 coinvolsero per associazione sovversiva e banda armata molti esponenti di Autonomia operaia, Balestrini evitò il carcere rifugiandosi in Francia fino all’84, quando fu assolto e potè tornare in Italia. Già nel 1976, il suo «sismografo» ipersensibile aveva registrato i sommovimenti e le paure degli anni di piombo ne La violenza illustrata (Einaudi), un nuovo libero montaggio-laboratorio, questa volta fatto di deposizioni processuali, dissertazioni, cronache di guerriglia.
Guardando alla sua energia proteiforme, anche i suoi (numerosi) detrattori dovranno riconoscere la strenua fedeltà di Balestrini a un’idea di letteratura contaminata, «sporca», a suo modo testimonianza civile dei luoghi più caldi della contemporaneità (per esempio le curve da stadio ne I furiosi, Bompiani 1994 ). A testimonianza della sua tenacia nella lotta, ancora nel 2010 tornò nell’arena della più stretta militanza rilanciando una nuova serie di Alfabeta con giovani compagni di strada come Andrea Cortellessa, Maria Teresa Carbone e Andrea Inglese. Cercava il dialogo con le generazioni più giovani e lo ottenne.
Il Fatto 21.5.19
Balestrini. Addio al Poeta dell’Avanguardia
Con Eco, Arbasino e altri era stato fondatore e voce di uno dei movimenti letterari più creativi degli anni Sessanta e Settanta: il suo “Vogliamo tutto” è stato il manifesto di una intera generazione
di Furio Colombo
E adesso? Nanni Balestrini, ventenne allora, ottantenne nel giorno della chiusura, ha sempre provveduto alla esistenza, alla convivenza, allo stare e ritornare insieme, al rilanciare la fune cui aggrapparsi per continuare un legame che avrebbe dovuto evaporare negli anni e che è stato chiamato Gruppo 63.
È vero, si è disperso, ma per un ritrovarsi continuo, in un intrico di rapporti che – dalla citazione alla collaborazione professionale -, finisce solo, di volta in volta, per ragioni di destino, mai per noia o caduta di interesse. Qui sto usando la parola “destino” nel senso spagnolo di destinazione, perché uno dei più importanti eventi del Gruppo 63 ha avuto luogo a Barcellona (nel 1966), complici un gruppo di architetti, una attivissima casa editrice e alcuni pittori catalani già celebri. Erano gli ultimi giorni del franchismo, ma la Catalogna si considerava libera, e Balestrini non ha avuto alcuna esitazione nel convocare la nostra riunione in Spagna (dove il Gruppo aveva già la sua filiale).
Infatti ignorare i confini e non tener conto “dei nostri valori tradizionali” era già lo spirito profondo del gruppo che Balestrini aveva, allo stesso tempo, portato nel gruppo e assorbito dal gruppo. Esempi: da un lato Balestrini aveva agganciato la piccola (e poi molto cresciuta) casa editrice Wagenbach di Berlino, e gli scrittori del Gruppo tedesco 47. Dall’altra, con Arbasino autore della Gita a Chiasso (il messaggio era: “Andate almeno al confine svizzero per intravedere il resto del mondo, e sapere che c’è vita fuori dai sacri confini della patria”), aveva lanciato il manifesto della nuova aggregazione di poeti, scrittori, filosofi, musicisti, pittori, scienziati, liberi da ogni superstizione sovranista (la parola non esisteva, ma c’erano già i post-fascisti).
Balestrini non aveva (e dunque il Gruppo 63) e non ha mai avuto agganci politici nel senso italiano della espressione. La destra aveva trovato nel Gruppo 63 i suoi nemici (contro la tradizione, scherziamo?). Il centro non si fidava e non si sarebbe neppure accostato. Craxi era celebre per il suo rude modo di rivolgersi alla cultura con parole come “intellettuali dei miei stivali”. Il Pci non trovava l’oggetto “avanguardia” (parola comunque sospetta) nei suoi scaffali, neppure sotto la voce “sperimentalismo” (che avrebbe potuto essere un escamotage del capitalismo in cerca di infiltrazioni tra i giovani), e non apprezzava humour e satira che il gruppo spargeva intorno, anche per avere spazio e respiro rispetto all’assedio perdurante della letteratura del sentimento.
Nasce Quindici, il giornale del gruppo, dal disegno e formato unico (nel senso di enorme ed elegantissimo), proposto e realizzato (la produzione), ovviamente, da Balestrini, scritto dal gruppo, cominciando con Umberto Eco, atteso dai grandi settimanali per cogliere titoli e argomenti. Qui la politica si accosta in un altro modo, in forma di rivoluzione. Si tratta di decidere se e a chi dare la parola, nel mondo giovane che esplode al di fuori del gruppo, ma quasi contiguo. Il Gruppo 63 dice no, perché scarta e respinge la violenza. Interrompe le pubblicazioni. Comincia una stagione difficile, afona. La festosa creatività che era stata il segno del gruppo diventa un lavorare più intenso e isolato.
Balestrini scrive Vogliamo tutto, forse il libro simbolo di quegli anni (che sono anche gli “anni di piombo”), la più attendibile interpretazione di quello che sta accadendo, che non chiede adesione ma fornisce il più straordinario murale di un’epoca. Eco pubblica Il nome della Rosa con il suo immenso, leggendario successo. E qui leggereste, in ogni altra storia di gruppi culturali, che il legame si scioglie e ognuno torna alla suo unico mondo. Ma non è stato così. Nel 2016 a Milano, c’erano tutti alla mostra di Balestrini (figure ottenute da un collage di parole) a cominciare da Eco.
Poche sere fa, da Otello, a Roma, Angelo Guglielmi (il critico divenuto manager), Giovanni Battista Zorzoli (lo scienziato divenuto letterato) e Balestrini erano insieme a cena, in un incontro convocato da Balestrini per un nuovo numero della rivista Alfabeta.
il manifesto 21.5.19
Il rigore della speranza
Vogliamo tutto. Nanni Balestrini scrisse anche «L’orda d’oro»: è il lavoro che portò a termine insieme a Primo Moroni nell’anniversario del ’68, vent’anni dopo
di Sergio Bologna
Se qualcuno di noi, sociologo, storico orale, giornalista, avesse nel 1969, in pieno autunno caldo, intervistato Alfonso Natella noi avremmo oggi in archivio una delle tantissime testimonianze conservate come un bene prezioso ma che pochi leggono. Consegnata, quella testimonianza, a uno scrittore, a un poeta come Nanni Balestrini, è diventata un simbolo inestinguibile dei valori del ’68 operaio e non solo. La potenza del linguaggio letterario si esprime in Vogliamo tutto con quella valenza universale che riesce a condensare storia e memoria, utopia e iperrealismo, calcolo e speranza.
Sì, calcolo anche. Perché una lotta operaia dove sono in gioco interessi grossi, dove ciascuno si gioca il posto di lavoro, dove, se finisce bene, si cambia la storia d’Italia e il rapporto tra istituzioni, da dove può nascere addirittura un nuovo modo di produrre l’automobile – una cosa così né s’improvvisa né può riuscire senza che una serie complessa d’intelligenze, di conoscenze, una massa pesante d’esperienze vengano messe assieme, trasformate in sentire collettivo, codificate in parole d’ordine… e si decida di cominciare.
Di quegli anni, di quelle lotte, noi dovremmo proprio ripensare l’idea di spontaneità e dovremmo combattere lo stereotipo dell’operaio meridionale neoassunto che si ribella «perché è incazzato». Vogliamo tutto è la voce di un sapere antico che non ha difficoltà a decodificare i meccanismi delle moderne tecno-strutture. Altro che mera incazzatura, da lì sono nate le azioni e le riflessioni che hanno trasformato la medicina del lavoro, il modo d’insegnare, di fare informazione e anche, forse, il modo di scrivere. Balestrini ha avuto il grande merito di capire che se c’era una continuità nell’esperienza di avanguardia letteraria, quella che lo aveva visto tra gli iniziatori del Gruppo 63, la si poteva trovare solo nel rapporto coi movimenti del ‘68/’69. Aveva capito che fare cultura era un’altra cosa dopo il ’68.
E qui si potrebbe riaprire il capitolo del rapporto tra intelletti e movimenti sociali con intenzioni rivoluzionarie.
Un tema fin troppe volte esplorato ma che, riconsiderato alla luce dell’esperienza umana di Nanni, può presentare ancora qualche spunto stimolante. In che senso? A mio avviso per capirlo occorre prendere in mano dopo Vogliamo tutto il lavoro che Balestrini porta a termine assieme a Primo Moroni, L’orda d’oro. Lo scrivono in una situazione in cui noi ci siamo trovati l’anno scorso: l’anniversario del ’68. Come in Vogliamo tutto Balestrini s’era scelto quale interlocutore una persona che meglio poteva rappresentare l’autunno operaio, così nel 1988 si sceglie come interlocutore la persona che meglio poteva interpretare lo spirito del movimento del 1977: Primo Moroni. Il libro va a ruba, è introvabile, lo prende in mano Sergio Bianchi, lo arricchisce di contributi e lo stampa con Feltrinelli nel 1997, una terza edizione uscirà nel 2003 e l’anno scorso, 2018, lo abbiamo ancora riletto e usato nelle commemorazioni del cinquantenario. Non è usuale che un libro di storia dopo 30 anni sia ancora rivelatore.
Ecco, bastano queste due opere per consentirci di fare il paragone con un altro che ha caratterizzato la sua vita di scrittore, saggista, poeta, sulla base di un rapporto coi movimenti: Franco Fortini. Due approcci più diversi al rapporto tra cultura, scrittura e movimenti è difficile immaginarli.
Franco ha interpretato il suo ruolo come quello di un profeta, di un censore, come quello di una guida che continua a richiamare al retto cammino una moltitudine che procede un po’ disordinata. La sua voce quindi si leva sopra il movimento, si deve sentire forte. Aspro dev’essere il suo tono che richiama i confusionari al rigore, alla coerenza e i sovraeccitati alla misura. La voce di Nanni invece non si sente, si confonde con quelle della moltitudine, una voce che non ostenta saggezza ma contiene tanto sapere tacito. Non c’è il minimo protagonismo nei suoi rapporti con il movimento mentre, credo – a partire da me stesso – di protagonismo e di narcisismo è infestata la dimora di quelli che vengono definiti «intellettuali».
E magari alcuni ci cascano e pensano davvero di esserlo, mentre sono invece, ahimé, inutili rompiscatole.
Franco Fortini e Nanni Balestrini si sono mossi su due dimensioni diverse, hanno interpretato due ruoli ben distinti ma ambedue indispensabili: il ruolo del battistrada (oggi diremmo della leadership) e quello che Primo Moroni definiva «il ruolo della struttura di servizio».
il manifesto 21.5.19
Nel mio viaggio con Nanni
La ricerca del linguaggio la poesia e la pratica come irripetibile luogo di comunanza e parola che si rigenera nel «noi»
di Giairo Daghini
E noi facciamone un’altra, era un leit motiv di Nanni quello di ricominciare sempre da capo tornando al luogo da dove si è partiti. Come la rivoluzione. Come il linguaggio. Ma per farne un altro. Il linguaggio senza fine del divenire. Ho compiuto molti viaggi con Nanni, sempre scavalcando delle frontiere. Il confine è uno spazio che vale come separazione, limitazione o come possibilità di connessione e attraversamento. Lui lo ha sempre pensato e scritto come spazio di apertura e di sperimentazione. Il confine liberato dagli aculei dei reticolati per la creazione di nuovi territori. O come la forma del linguaggio liberata dalle paludi della sintassi. Nella sua opera grafica, nei suoi découpages geografici saltano i confini chiusi e si ridisegnano nuovi ambienti del vivente.
Ho iniziato quel viaggio con Nanni molti anni fa, nel 1960 quando con «Linguaggio e opposizione» egli opponeva al comune linguaggio convenzionale, il linguaggio magmatico del parlato fatto di ritmi inconsueti , di grovigli, di immagini spropositate come il luogo di straordinarie apparizioni di fatti e pensieri. «Di qui – diceva – si fa strada l’idea di una poesia che nasca e viva diversamente. Una poesia più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in linguaggio, espressione confusa e ribollente ancora, che porta su di sé i segni del distacco dallo stato mentale, della fusione non completamente avvenuta con lo stato verbale».
L’ascolto di quelle emozioni, di quel linguaggio era anche la linea di comportamento di noi che in quegli anni facevamo intervento ai cancelli delle fabbriche dove era arrivata una nuova generazione di lavoratori. Il nostro intervento di antagonismo a quel lavoro, a quello sfruttamento si incontrava sul suo fare poesia come opposizione al dogma e al conformisno che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi. Con la sua poesia, con la musica di Demetrio Stratos, con il nuovo linguaggio filosofico del marxismo e della fenomenologia ho praticato il viaggio di quegli anni.
il manifesto 21.5.19
L’allegria che non demorde
Vogliamo tutto. Il ricordo che ho dei suoi collage anni settanta è di fogli un po’ spenti, un po’ grigiastri, era quello il suo bello, non ti pare? Perché l’immagine era grigia, e la vita a colori.
di Franco Berardi Bifo
Pensi che Balestrini sia a colori o in bianco e nero? Pensi che Balestrini sia luccicante o un po’ color seppia? Pensi che Balestrini sia liscio o zigrinato, che sia polveroso o ben levigato?
Queste domande trovano (ça va de soi) risposte contraddittorie nei settori più avanzati della critica, quelli più arretrati non lo so perché non li frequento. Mica posso essere dappertutto.
All’ingresso della galleria Mudima che si trova in via Tadino nei fumi serali della metropoli sgonfia c’è una scritta enorme attaccata sulle vetrine che dice VOGLIAMO TUTTO.
Ma dovunque tu vada e chiunque incontri nelle città tristanzuole di questo paese in cui tutti tranne Balestrini sono vecchi, ti fa pensare che non vogliamo niente, oppure vogliamo qualcosa che comunque non ce la danno e non sappiamo come fare a prendercela per cui? Per cui rinunciamo che ci vuoi fare lasciamo perdere. Lascia che vadano all’Esselunga che là si divertono. Vogliamo tutto, ma tutto cosa? Be’ per esempio l’allegria, la svagatezza, quattro giorni di vacanza, una torta con l’hashish, un cappello con le piume di struzzo, uno struzzo, un calcestruzzo.
Niente invece avremo niente, niente avrete, ecco qua quello che ho sentito dire in tutti i luoghi di questa sputacchiosa metropoli. Rassegnamoci diceva il ragazzo alla ragazza, ma come dico io siete così giovani venite a via Tadino dove c’è la mostra di Balestrini che ci divertiamo e poi vediamo cosa si può fare. Ma loro no, loro erano veramente un po’ timidi forse imbarazzati come non capirli, potrei essere suo nonno. Balestrini potrebbe essere il bisnonno. Che ce li porto a fare in via Tadino questi ragazzi. Sulla vetrina della galleria Mudima c’è scritto dunque Vogliamo tutto a caratteri cubitali.
Dentro ci sono le opere, ma sono cambiate, per questo mi chiedevo scusate secondo voi Balestrini è in colori o in bianco e nero? E vi chiedevo è luccicante o color seppia? Il ricordo che ho dei suoi collage anni settanta è di fogli un po’ spenti, un po’ grigiastri, era quello il suo bello, non ti pare?
Perché l’immagine era grigia, e la vita a colori.
Non lo schermo a colori e la vita così grigia.
Ora con l’ink jet e la stampante su tela ingranditi di molte volte e sparati con nettezza su fondi verniciati e abbacinanti ci parla di distanze abissali.
Dentro i muri bianchi e le luci abbaglianti e un nugolo di ottantenni allegri.
Sì l’allegria l’abbiamo conosciuta ed essa torna. Come quel pomeriggio quando lo conobbi era il 1970 in via Solferino nella cucina di Oreste e di Lucia e aveva un DS Citroen e andammo a Roma nella sua casa piena di divani un po’ sfondati. E l’allegria di allora non demorde.
Balestrini è allegro, questa è la lezione che imparate se state ad ascoltarla.
È allegro quando danza con la signorina Richmond è allegro quando è triste e dice: siamo come dei personaggi di Stendhal. Anche Stendhal era allegro, come! non lo ricordi? Balestrini è l’allegria che non demorde.
(La mostra a cui si fa riferimento era alla Fondazione Mudima di Milano, «Ottobre rosso», 25 ottobre-10 novembre 2017)
Repubblica 21.5.19
Neoavanguardia
Balestrini addio al mite rivoluzionario
Lo scrittore e poeta è morto a 84 anni. È stato uno dei fondatori del Gruppo 63 e ha sostenuto le contestazioni del ’68. Fu accusato di terrorismo, ma poi fu assolto
di Paolo Mauri
Improvvisamente la notizia della scomparsa di Nanni Balestrini, poeta, artista visivo, scrittore e organizzatore culturale, classe 1935, mi ha riportato alla memoria un antico articolo di Goffredo Parise che era intitolato "Balestrini ladro di stile", dove ladro stava a significare il riuso che Balestrini faceva nelle sue opere degli scritti altrui o più in generale del già scritto (o già detto). E, ancora sul filo della memoria, vedo il titolo-slogan del suo romanzo Vogliamo tutto che comparve nel 1971, ed era maturato in pieno autunno caldo. «Vogliamo tutto meno Balestrini », suonava una irridente variazione.
Ma Balestrini in mezzo alle contestazioni era cresciuto.
Si era allora da poco conclusa l’avventura di Quindici , la rivista del Gruppo 63 di cui era direttore Alfredo Giuliani. La redazione era in casa di Balestrini, a Roma, in via dei Banchi Vecchi 58. Praticamente la neoavanguardia aveva chiuso i suoi lavori ufficiali due anni prima con la riunione di Fano. Quindici era già una propaggine fortemente intenzionata a discutere anche di lotte studentesche e sociali e non solo di letteratura: di lì le discussioni interne e poi la chiusura. Nanni Balestrini era stato assunto da Feltrinelli molti anni prima come redattore della rivista di Luciano Anceschi, Il Verri , e non è un caso che di riviste si sia sempre occupato fino alla riedizione on-line di Alfabeta , tutt’ora in corso.
Mi raccontò Maria Corti, tra il divertito e l’ammirato, che fu proprio durante una riunione di redazione della prima Alfabeta (1979) che arrivò la notizia della fuga in Francia di Balestrini: lui aveva semplicemente varcato il confine su un paio di sci. Se fosse rimasto in Italia sarebbe stato molto probabilmente arrestato. Il giudice Pietro Calogero, che aveva elaborato un suo teorema allora celebre, era sulle tracce degli intellettuali di sinistra cui attribuiva responsabilità dirette, dunque anche penali, nell’organizzazione dell’eversione armata, quella delle Brigate Rosse e di altre bande armate. L’accusa (siamo a ridosso del caso Moro) era di omicidio plurimo e non solo. Balestrini rimase in Francia cinque anni. L’unico addebito, scrisse poi, che si poteva muovere contro di lui era dato dal fatto che il suo numero di telefono figurava nell’agenda di Toni Negri. Non era un complotto: i due erano semplicemente amici. E infatti al termine del processo Balestrini venne assolto.
Rivoluzionario mite, Nanni Balestrini complottava invece molto nel campo della scrittura e basterebbe rileggere i titoli di certe sue raccolte o imprese artistico-poetiche: La violenza illustrata (uscirà il prossimo luglio, da Bollati Boringhieri,
La nuova violenza illustrata ), Sfinimondo , I furiosi , Caosmogonia . Fin dagli anni Sessanta realizza con un calcolatore Ibm Tape Mark I una poesia che verrà pubblicata nell’Almanacco Bompiani del 1961. Presente nella storica antologia dei Novissimi insieme a Sanguineti, Pagliarani, Porta e Giuliani, che di quell’antologia era stato curatore e teorico, Balestrini lavora contro la letteratura tradizionale non per un nuovo ordine, ma forse per un nuovo Caos, privilegiando la tecnologia che gli permette di variare lo stesso testo in maniera praticamente infinita. Possiedo anch’io una copia unica di Tristano , il romanzo multiplo ottenuto nel 2007 variando il testo della prima edizione che è del 1966. «L’operazione», scrive Balestrini nella prefazione (l’editore, benemerito per Balestrini ,è DeriveApprodi) «mette in crisi il dogma della versione originale, unica e definitiva». Siamo al dopo Gutenberg, nell’Era Internet. Nell’introdurre Tristano , Umberto Eco, con un po’ di perfidia, elenca i molti che ben prima di Balestrini si sono soffermati sul gioco combinatorio. «Leibniz», scrive Eco, «si pone il problema che aveva già affascinato Mersenne: qual sia il numero massimo di enunciati, veri, falsi, e persino insensati, che si possono formulare usando un alfabeto finito… ». Ma come si deve comportare il lettore di Tristano? Lasciamo ancora la parola a Eco: «Io vedo… tre possibilità: 1) procurarsene una sola copia e leggerla come se si trattasse di un testo unico, irripetibile e immodificabile; 2) assicurarsene molte copie e divertirsi a seguire gli esiti inattesi della combinatoria; 3) scegliere uno solo tra i tanti testi a disposizione, ritenendo che sia il più bello».
Una volta Angelo Guglielmi, credo proprio su Quindici, scrisse che il Gruppo 63 aveva avuto in campo culturale lo stesso valore o ruolo della Resistenza in campo storico e politico. Il parallelo era ed è indubbiamente esagerato, ma la neoavanguardia è stata un importante momento di riflessione sulla ( e contro) la Letteratura.
Poi le ragioni del mercato e la dispersione del discorso critico hanno cancellato un po’ tutto, come fosse stato scritto sulla sabbia. Per questo gli scrittori come Balestrini dovrebbero essere difesi e curati come si fa con i Panda. Via via che scompaiono ci si accorge che avevano incarnato qualcosa di irripetibile, comunque un’avventura rischiosa dell’intelligenza.
https://spogli.blogspot.com/2019/05/il-manifesto-21.html
Perché il 26 maggio votiamo La Sinistra
Appello al voto per le elezioni europee. La Ue così come è non ci piace per nulla e occorre rompere la gabbia dei trattati neoliberisti, ma lo spazio europeo è il terreno di lotta sul quale ha senso oggi battersi e costruire una solidarietà tra gli oppressi. Per questo vi invitiamo a reagire e a battervi assieme a noi per sconfiggere il neoliberismo di Maastricht così come il nazionalismo xenofobo e razzista delle destre
Hanno firmato tra gli altri:
Rossana Rossanda
Franco Berardi Bifo
Fausto Bertinotti
Luciana Castellina
Nichi Vendola
https://ilmanifesto.it/perche-il-26-maggio-votiamo-la-sinistra/
Agenzia Vista Milano, 20 maggio 2019
Calenda va ad abbracciare Renzi prima del comizio a Milano: “Come ai vecchi tempi”
Abbraccio tra l'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e l'ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda a Milano Fonte: Agenzia Vista / Alexander Jakhnagiev
qui
Repubblica 21.5.19
Verso le amministrative
Un bacione a Firenze "Qui Salvini non passa"
Lega e centrodestra inseguono il colpaccio nella città di Renzi ma Nardella spera di riconfermarsi sindaco al primo turno
di Ernesto Ferrara
Firenze — «Vedrete, a Firenze Salvini troverà il Piave» va dicendo da mesi uno che la città la conosce abbastanza bene come l’ex sindaco Matteo Renzi. In effetti il "Capitano" che, complice pure la nuova fidanzata Francesca Verdini, nell’ultimo mese è già passato tre volte in città a fare comizi, qualche mormorio lo ha sentito nelle ultime settimane: sempre accolto da proteste, striscioni, lenzuoli. Per non dire di domenica scorsa, quando si è ritrovato a parlare in piazza Strozzi di fronte a 400 persone con la bandiera della Lega mentre in piazza Repubblica lo contestavano in 2mila. Circostanze che danno buone speranze agli strateghi di Dario Nardella di farcela al primo turno: «Firenze può diventare il simbolo della vera opposizione ai sovranisti. E potremmo farcela pure al primo turno» è la sfida del sindaco ricandidato.
Se appena un anno la Toscana rossa si riscoprì in profonda crisi con la "caduta" in un colpo solo di Siena, Pisa e Massa tutte e tre conquistate dalla Lega, stavolta la resistenza Pd si riorganizza in riva all’Arno. Tra un anno si vota per la Regione e se il capoluogo dovesse passare a destra poi ci sarebbero poche speranze. Salvini ha più volte fatto sapere di nutrire il sogno proibito della presa della "capitale del renzismo". Però il suo candidato, il manager della finanza Ubaldo Bocci, cattolicissimo e mai "sovranista" nei contenuti, sostenuto pure da Forza Italia e Fratelli d’Italia, non ha fatto la campagna da manuale: ha disertato la cerimonia del 25 aprile facendo infuriare mezza città, si è saputo che 5 anni fa organizzava cene elettorali per Nardella e la ciliegina sulla torta l’ha messa con la Tav dicendo che al posto della nuova stazione Foster lui farebbe un campo da cricket. «Il ballottaggio è un obiettivo possibile», ritengono ancora i leghisti fiorentini, che però qui non hanno mai fatto boom (11% contro il 17% nazionale nel 2018), come del resto i 5Stelle (18% contro il 32%). E che i sogni di gloria leghisti si siano trasformati in corsa affannosa lo dimostrano pure le ultime parole di Salvini: «In Emilia faremo tanti sindaci ma a Firenze la battaglia è più complicata, lì c’è anche il mio omonimo».
Non che Renzi si sia visto più di tanto per la verità, mentre invece accanto al sindaco si è visto Zingaretti. Di big a destra si sono visti Meloni, Tajani, Carfagna. Ma fin qui nessuno sembra aver impensierito più di tanto Nardella, che nel programma punta tutto su due nuove tramvie e uno scudo verde modello "area C" di Milano. Un po’ di apprensione in più in casa dem la crea invece il rischio dispersione per quei 4 candidati a sinistra di Nardella tra cui una forte, Antonella Bundu, attivista di colore, ex di Piero Pelù, sostenuta da Tomaso Montanari. Se ci fosse il ballottaggio è prima di tutto a lei che il Pd dovrebbe rivolgersi. Quasi non pervenuti i 5 Stelle, che possono contare sul ministro Alfonso Bonafede come padre nobile e però sono spaccatissimi all’interno sulla candidatura dell’architetto Roberto De Blasi. Come in quei thriller col finale mai scontato un intrigo dell’ultima ora ter rorizza il Pd: la Fiorentina che domenica si gioca la salvezza: «E se retrocediamo e finisce con le proteste? » si domanda qualcuno. Per fortuna di Nardella la gara col Genoa è fissata alle 20.30.
il manifesto 21.5.19
Il manifesto nella «top ten» dei giornali digitali più venduti
iorompo.it. Qui al manifesto ci siamo messi davvero in gioco.Gli ultimi dati di vendita diffusi relativi all’Ads di marzo, ad esempio, ci vedono al decimo posto per vendite digitali "vere", al netto degli sconti (sopra le 2.500 copie al giorno). Ma vogliamo fare di più. E bisogna rompere, tanto
di Matteo Bartocci
Piano piano il muro di 400.000 mattoncini inizia a vacillare. Risolto qualche inevitabile piccolo problema tecnico iniziale, i mattoni iniziano a volare copiosi, come gli abbonamenti. La campagna partita il 15 maggio sarà una lunga maratona e sarete voi lettori, vicini e meno vicini, a decidere il traguardo finale.
Qui al manifesto ci siamo messi davvero in gioco.
Gli ultimi dati di vendita diffusi da Prima comunicazione relativi all’Ads di marzo, ad esempio, ci vedono al decimo posto per vendite digitali “vere”, al netto degli sconti (2.570 copie al giorno) subito sotto al Messaggero.
E questo molto prima della campagna, iniziata appunto a metà maggio. Ma dobbiamo sognare in grande, vogliamo il manifesto nella «top five» se non delle edicole vere (purtroppo servirebbero più di 60mila copie al giorno) almeno in quelle digitali.
Bisogna lavorare duramente per riuscirci ma se riusciremo ad abbattere questo odioso muro, allora costruiremo nel corso del 2020 un giornale on line universale e accessibile a tutti grazie all’impegno dei patroni che hanno partecipato a questa campagna.
Siete voi i capitani di questo vascello, ciascuno di voi può decidere la nostra rotta.
Abbiamo la possibilità di dare una sonora lezione ai pentaleghisti di governo che hanno abolito il fondo per il pluralismo e sperano che il «mercato» faccia il lavoro sporco da solo.
E allora portiamo il manifesto in cima al cosiddetto «mercato» e rimarranno tutti a bocca aperta. Contro chi vuole toglierci la voce non basta alzarla (come si propone Repubblica). Bisogna rompere, e tanto!
Stiamo coinvolgendo artisti, intellettuali, compagni e amici che in modo disinteressato vogliono contribuire al successo di questa campagna.
L’ex sindaco Domenico Lucano ha voluto essere tra i primi a «rompere», aderendo subito alla nuova campagna abbonamenti.
Nel frattempo parte oggi nelle commissioni riunite di camera e senato l’esame degli emendamenti al decreto crescita per la moratoria dei tagli a Radio Radicale (emendamento della Lega) e i quotidiani in cooperativa e non profit (emendamento Pd-Si). Seguiremo con molta attenzione l’iter parlamentare sperando in un sussulto di coscienza della maggioranza.
Non ci sentiamo soli, anche se la fatica di remare in direzione ostinata e contraria è sempre tanta.
Cinquant’anni fa iniziava la storia del manifesto. Vogliamo essere all’altezza del passato e conquistare il futuro. Perciò rompete, diventate patroni, abbonatevi, passate parola a voce o sui social.
Per qualsiasi domanda potete scrivere a iorompo@ilmanifesto.it
Errata corrige
Per un nostro spiacevole errore, nella prima versione dell’articolo on line e nel manifesto in edicola il 21 maggio abbiamo indicato per sbaglio che la foto di Domenico Lucano era stata scattata a casa sua a Riace. Così naturalmente non è, perché il divieto di dimora per l’ex sindaco è ancora in vigore. La foto è stata scattata a Stignano, non a Riace. Ce ne scusiamo con Lucano, gli interessati e tutti i lettori.
Corriere 21.5.19
Il retroscena
I due timori della Chiesa
Chiesa divisa e preoccupata
Per il Vaticano Lega favorita dalla debolezza delle altre voci
«Noi siamo irrilevantie il catto-sovranismo avanza»
Sul campo. Il timore che le fratture politiche si riflettano nelle diocesi
e nelle parrocchie
di Massimo Franco
«Abbiamo due spine: l’unità della Chiesa e l’irrilevanza dei cattolici in politica. Non c’è più un partito di riferimento, e mi pare difficile che possa rinascere. E nel deserto avanza il sovranismo religioso della Lega...».
Il cardinale italiano «legge» questa vigilia elettorale con lucidità amara. E non si limita a puntare il dito contro le strumentalizzazioni del Vangelo e del rosario fatte dal leader del Carroccio, Matteo Salvini, nella manifestazione di sabato in piazza del Duomo, a Milano; contro i fischi estremisti quasi «chiamati» nei confronti di papa Francesco. Cerca di spiegare perché, in questa fase, l’unico cattolicesimo visibile in politica sia quello xenofobo, anti islamico, aggressivo perché impaurito, offerto dalla Lega e dai suoi epigoni europei.
Da mesi, le gerarchie ecclesiastiche cercano di capire come riemergere da una deriva che rende le posizioni cattoliche ininfluenti. E si stanno rendendo conto sempre di più che non esiste una soluzione. Finita da oltre un quarto di secolo la Dc, sepolto il collateralismo asimmetrico con Forza Italia e con Silvio Berlusconi, non solo non ci sono sponde ma si profila una realtà politica estranea, prima che ostile. Si staglia il paradosso di un Papa popolare, inclusivo, e, secondo gli avversari, perfino «populista» nella sua vicinanza ostentata ai poveri, costretto a fare i conti con forze politiche populiste ma con un’agenda agli antipodi rispetto alla sua.
Si tratta di formazioni portatrici di un cristianesimo impastato di un’identità declinata in chiave nazionalistica. E pronte perfino a contestare platealmente il pontefice, quando si parla di immigrazione. I fischi di piazza Duomo hanno esaltato un filone culturale ultraconservatore, che si dichiara cattolico ma ha come faro gli avversari interni di Francesco; che brandisce il Vangelo ma ne trae una lezione opposta a quella papale. Soprattutto, quel mondo certifica una frattura che dalla politica si trasferisce nelle parrocchie e negli episcopati, e viceversa. E rende impossibile qualunque mediazione di tipo unitario.
Per questo in Vaticano e nella Conferenza episcopale italiana sono preoccupati. Sanno che il sovranismo religioso oggi è più presente, se non più potente, della cultura dell’inclusione. Sa intercettare e incanalare le paure. E pone una sfida diretta alla cultura della Chiesa cattolica. D’altronde, l’esigenza, quasi l’urgenza di riscoprire una politica in grado di dare voce a un modo cattolico sommerso è affiorata e morta all’inizio dell’anno. Il 18 gennaio si è tenuta la celebrazione del centenario della fondazione del Partito Popolare di Luigi Sturzo. Alcuni vescovi e reduci democristiani hanno cercato di sfruttare l’anniversario per riproporre, aggiornata, quell’esperienza.
Ma la suggestione è durata poco. Alla fine il tentativo si è rivelato velleitario e passatista: un’operazione novecentesca, non da terzo millennio. L’unica certezza emersa dalla fiammata sturziana è stata la consapevolezza di divisioni profonde e irrisolvibili: se non altro perché non esistono più le premesse per far rinascere un partito di cattolici. Non è pensabile connotare una forza in termini religiosi. Come è solito dire il professor Lorenzo Ornaghi, ex rettore dell’Università del Sacro Cuore di Milano, l’unico modo per contare, per i cattolici, è non contarsi. Non a caso, a reagire a Salvini sono stati soprattutto esponenti del mondo religioso, non politico.
Né un modello alternativo può essere quello, a dir poco controverso, dell’elemosiniere del Papa, il cardinale polacco Konrad Krajewski, che viola la legge togliendo i sigilli messi dalla magistratura italiana a un palazzo occupato a Roma, e riattiva la luce non pagata: un gesto «politico» nel senso più discutibile del termine. È in questo vuoto che leader come Salvini si inseriscono con la loro ricetta ideologica. Captano il disorientamento di un arcipelago cattolico nel quale non sempre Papa e vescovi sembrano in totale sintonia. E offrono una sorta di religione fai-da-te, nella quale il motto ambiguo «prima gli italiani» si traduce sul piano della fede con un «prima i cristiani» dalle implicazioni inquietanti.
Sono schegge di un’Internazionale cristiana e sovranista che ha grandi protettori negli Usa in Donald Trump, in Russia in Vladimir Putin. Salvini, l’ungherese Orbán, la francese Le Pen, l’austriaco Strache sono solo pedine locali della destabilizzazione dell’Unione. L’ipoteca della loro strategia, tuttavia, può diventare pesante; e imporre una lettura distorta e strumentale del cristianesimo europeo. Traspare il timore più profondo della Chiesa: che dopo il 26 maggio il sovranismo politico a Bruxelles finisca magari per contare relativamente poco; ma che il sovranismo religioso possa attecchire, produrre nuove divisioni e mettere radici difficili da estirpare, per mancanza di veri anticorpi.
Il cardinale italiano «legge» questa vigilia elettorale con lucidità amara. E non si limita a puntare il dito contro le strumentalizzazioni del Vangelo e del rosario fatte dal leader del Carroccio, Matteo Salvini, nella manifestazione di sabato in piazza del Duomo, a Milano; contro i fischi estremisti quasi «chiamati» nei confronti di papa Francesco. Cerca di spiegare perché, in questa fase, l’unico cattolicesimo visibile in politica sia quello xenofobo, anti islamico, aggressivo perché impaurito, offerto dalla Lega e dai suoi epigoni europei.
Da mesi, le gerarchie ecclesiastiche cercano di capire come riemergere da una deriva che rende le posizioni cattoliche ininfluenti. E si stanno rendendo conto sempre di più che non esiste una soluzione. Finita da oltre un quarto di secolo la Dc, sepolto il collateralismo asimmetrico con Forza Italia e con Silvio Berlusconi, non solo non ci sono sponde ma si profila una realtà politica estranea, prima che ostile. Si staglia il paradosso di un Papa popolare, inclusivo, e, secondo gli avversari, perfino «populista» nella sua vicinanza ostentata ai poveri, costretto a fare i conti con forze politiche populiste ma con un’agenda agli antipodi rispetto alla sua.
Si tratta di formazioni portatrici di un cristianesimo impastato di un’identità declinata in chiave nazionalistica. E pronte perfino a contestare platealmente il pontefice, quando si parla di immigrazione. I fischi di piazza Duomo hanno esaltato un filone culturale ultraconservatore, che si dichiara cattolico ma ha come faro gli avversari interni di Francesco; che brandisce il Vangelo ma ne trae una lezione opposta a quella papale. Soprattutto, quel mondo certifica una frattura che dalla politica si trasferisce nelle parrocchie e negli episcopati, e viceversa. E rende impossibile qualunque mediazione di tipo unitario.
Per questo in Vaticano e nella Conferenza episcopale italiana sono preoccupati. Sanno che il sovranismo religioso oggi è più presente, se non più potente, della cultura dell’inclusione. Sa intercettare e incanalare le paure. E pone una sfida diretta alla cultura della Chiesa cattolica. D’altronde, l’esigenza, quasi l’urgenza di riscoprire una politica in grado di dare voce a un modo cattolico sommerso è affiorata e morta all’inizio dell’anno. Il 18 gennaio si è tenuta la celebrazione del centenario della fondazione del Partito Popolare di Luigi Sturzo. Alcuni vescovi e reduci democristiani hanno cercato di sfruttare l’anniversario per riproporre, aggiornata, quell’esperienza.
Ma la suggestione è durata poco. Alla fine il tentativo si è rivelato velleitario e passatista: un’operazione novecentesca, non da terzo millennio. L’unica certezza emersa dalla fiammata sturziana è stata la consapevolezza di divisioni profonde e irrisolvibili: se non altro perché non esistono più le premesse per far rinascere un partito di cattolici. Non è pensabile connotare una forza in termini religiosi. Come è solito dire il professor Lorenzo Ornaghi, ex rettore dell’Università del Sacro Cuore di Milano, l’unico modo per contare, per i cattolici, è non contarsi. Non a caso, a reagire a Salvini sono stati soprattutto esponenti del mondo religioso, non politico.
Né un modello alternativo può essere quello, a dir poco controverso, dell’elemosiniere del Papa, il cardinale polacco Konrad Krajewski, che viola la legge togliendo i sigilli messi dalla magistratura italiana a un palazzo occupato a Roma, e riattiva la luce non pagata: un gesto «politico» nel senso più discutibile del termine. È in questo vuoto che leader come Salvini si inseriscono con la loro ricetta ideologica. Captano il disorientamento di un arcipelago cattolico nel quale non sempre Papa e vescovi sembrano in totale sintonia. E offrono una sorta di religione fai-da-te, nella quale il motto ambiguo «prima gli italiani» si traduce sul piano della fede con un «prima i cristiani» dalle implicazioni inquietanti.
Sono schegge di un’Internazionale cristiana e sovranista che ha grandi protettori negli Usa in Donald Trump, in Russia in Vladimir Putin. Salvini, l’ungherese Orbán, la francese Le Pen, l’austriaco Strache sono solo pedine locali della destabilizzazione dell’Unione. L’ipoteca della loro strategia, tuttavia, può diventare pesante; e imporre una lettura distorta e strumentale del cristianesimo europeo. Traspare il timore più profondo della Chiesa: che dopo il 26 maggio il sovranismo politico a Bruxelles finisca magari per contare relativamente poco; ma che il sovranismo religioso possa attecchire, produrre nuove divisioni e mettere radici difficili da estirpare, per mancanza di veri anticorpi.
Corriere 21.5.19
Prima la Padania, ora i migranti Quei fischi leghisti ai pontefici
Salvini loda Wojtyla e Ratzinger: ma anche loro erano contro la chiusura dei confini
I rom. Giovanni Paolo II nel 2001 invitava a «riscoprire i valori tipici dei nomadi»
Con i lefebvriani.
Il Carroccio chiamò, per celebrare il Parlamento Padano, il negazionista Abrahamowicz
di Gian Antonio Stella
«Oè, Vaticano», tuonò Umberto Bossi, «La Padania non ha interesse a cambiar religione, ma l’indipendenza non è in vendita. T’ee capii?». Papa Francesco non se la prenda per l’invito ai fischi partito da Matteo Salvini in piazza Duomo.
La Lega non è nuova a queste cose. Fa sorridere semmai che in contrapposizione al Papa d’oggi il segretario del Carroccio abbia elevato Giovanni Paolo II: il Papa più insultato dai leghisti di ieri.
Non c’era giorno senza che il Senatùr martellasse il «Papa extracomunitario»: «È il re di Roma OltreTevere: si mangiò una banca per finanziare Solidarnosc e ha molta gente disposta a piegare il (censura) tutte le mattine alla Mecca romana». «Il Vaticano è il nemico che le camicie verdi affogheranno nel water della storia». E arrivò a urlare che «come già accade nel bergamasco, i fedeli andranno in parrocchia con il fazzoletto verde e si alzeranno se solo sentiranno pronunciare certi sermoni. Urleranno: va’ a da’ via el (censura)». In confronto, su questo, Salvini è un’educanda.
Colpiscono comunque quelle due citazioni dei due «papi buoni», diciamo così, rispetto a quello attuale. Prima «San Giovanni Paolo II, nato proprio il 18 maggio e che parlava di vocazione dell’Europa alla fraternità dei popoli dall’Atlantico agli Urali, non della Turchia in Europa perché non sarà mai Europa». Poi Joseph Ratzinger: «L’Europa di cui parlava Benedetto XVI e di cui qualcuno negava le radici giudaico cristiane». Sintesi prese la prima da un discorso del 5 ottobre ‘82 alle Conferenze Episcopali d’Europa, la seconda da una lectio del 1° aprile 2005 a Subiaco, il giorno prima della morte del pontefice polacco del quale il cardinale tedesco sarebbe stato il successore.
Dell’uno e dell’altro, però, vengono ignorate parole non meno importanti di quelle a difesa delle radici cristiane dell’Europa. Ad esempio i messaggi annuali di Giovanni Paolo II per la Giornata Mondiale dell’Emigrazione. Tipo quello del 1996. Alcuni passaggi? «È necessario vigilare contro l’insorgere di forme di neorazzismo o di comportamento xenofobo, che tentano di fare di questi nostri fratelli dei capri espiatori». «Adeguata protezione va assicurata a coloro che, se pur fuggiti dai loro paesi per motivi non previsti dalle convenzioni internazionali, di fatto potrebbero correre un serio pericolo per la loro vita qualora fossero costretti a ritornare in patria». «Nella Chiesa nessuno è straniero, e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo».
Quanto ai rom, oggi al centro di campagne di odio che vanno spesso oltre il bisogno di sicurezza dei cittadini, forse nessuno ha usato le parole di Carol Wojtyla il 1° dicembre 2001: «Mi è caro ribadire (…) la costante attenzione che la Chiesa rivolge alla vita delle comunità dei Nomadi. Essi hanno trovato un posto “nel cuore della Chiesa” (…) Occorre riscoprire i valori tipici dei Nomadi. Anche gli inizi d’Israele, come ricorda la Bibbia, furono caratterizzati dal nomadismo. I Nomadi sono poveri di sicurezze umane, costretti ogni giorno a fare i conti con la precarietà e l’incertezza del futuro».
Lo stesso Joseph Ratzinger, prima di salire al soglio pontificio, quando era il braccio destro di Giovanni Paolo II, dopo il naufragio di una nave albanese, accusò in un’intervista al Corriere l’egoismo dei paesi benestanti come il nostro: «Non vogliamo essere “disturbati”. Manca questa capacità di dividere con l’altro, di accettarlo, di aiutarlo». E spiegò che sì, fintanto che in Albania la tensione era altissima, la chiusura dei confini non si poteva fare: «Certo, c’è da distinguere la posizione degli elementi criminali, che poi sono proprio quelli che hanno scatenato questa situazione. Ma chiudere semplicemente le frontiere non si può». Erano molti anni fa? Certo. Ma molti anni dopo, eletto Papa, nel messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del rifugiato del 2013 ribadiva: «Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione». Condannati i «misfatti» dei trafficanti di uomini, esortava poi ad affrontare il problema con «una gestione regolata dei flussi migratori, che non si riduca alla chiusura ermetica delle frontiere, all’inasprimento delle sanzioni contro gli irregolari e all’adozione di misure che dovrebbero scoraggiare nuovi ingressi».
E allora? Torniamo indietro a cercare il Papa «giusto» nel passato? Ahi ahi… Paolo VI arrivò a celebrare il suo compleanno del ‘65 a Pomezia tra migliaia di Rom: «Dovunque voi vi fermiate, siete considerati importuni ed estranei. E restate timidi e timorosi. Qui no. Qui siete bene accolti, siete attesi, salutati, festeggiati». E Giovanni XXIII, «il Gran Papa Lumbard» rimpianto dal Senatur? Macché! Nella Pacem in terris del ‘63 scrisse: «Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse». A farla corta, per trovare un Papa da portare a supporto del sovranismo più arroccato, bisognerebbe tornare indietro, indietro, indietro. Un suggerimento, magari, potrebbe darlo padre Floriano Abrahamowicz, il prete lefebvriano che nega Auschwitz («I gas erano usati solo per disinfettare») e che una dozzina d’anni fa fu chiamato a celebrare a Vicenza, tra Bossi e Maroni, il «Parlamento Padano». Sotto «il segno della Croce».
A proposito, persino il Vangelo di Matteo (l’originale), pare eccepire sui comizi di un certo tipo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per esser visti dagli uomini». Ma che poteva capire un apostolo della politica?politiche e stabilirsi in esse». A farla corta, per trovare un Papa da portare a supporto del sovranismo più arroccato, bisognerebbe tornare indietro, indietro, indietro. Un suggerimento, magari, potrebbe darlo padre Floriano Abrahamowicz, il prete lefebvriano che nega Auschwitz («I gas erano usati solo per disinfettare») e che una dozzina d’anni fa fu chiamato a celebrare a Vicenza, tra Bossi e Maroni, il «Parlamento Padano». Sotto «il segno della Croce».
A proposito, persino il Vangelo di Matteo (l’originale), pare eccepire sui comizi di un certo tipo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per esser visti dagli uomini». Ma che poteva capire un apostolo della politica?
Repubblica 21.5.19
Chiesa antisovranista il Papa lancia un Sinodo su fede e politica
Padre Spadaro: "Indagherà anche le forme dell’impegno democratico dei cattolici". Il vescovo di Mazara: "Chi è con Salvini non può dirsi cristiano"
di Paolo Rodari
Città del Vaticano — Francesco apre l’assemblea dei vescovi italiani in Vaticano ventiquattro ore dopo il botta e risposta fra il vicepremier Salvini e il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e lanciando la proposta, osteggiata in alcuni ambienti dell’episcopato, di un Sinodo della Chiesa dice indirettamente la sua proprio sull’Italia, sull’idea di governo del Paese, su una politica troppo spesso chiusa e settaria. «Soffiano venti contrari » gli dice il presidente della Cei Gualtiero Bassetti. «Un Sinodo?», si è chiesto non a caso il direttore di Civiltà Cattolica padre Antonio Spadaro, fedelissimo del Papa. E si risponde: è anche «per discernere le forme dell’impegno democratico dei cristiani per essere, come chiedeva Francesco alla fine del suo discorso a Firenze – in occasione del Convegno ecclesiale, ndr – costruttori dell’Italia».
Oltretevere, e così fra i vescovi, c’è consapevolezza che esiste una parte della Chiesa italiana - presuli, preti e laici - che considera Salvini e le sue politiche sovraniste un male minore. Una Chiesa che nell’era ruiniana aprì con un atto d’imperio a Berlusconi e all’uomo solo al comando. L’idea di un Sinodo, che secondo quanto scrisse tempo fa Avvenire è anche per ridiscutere il rapporto esistente fra fede e politica, è un’implicita e insieme eloquente risposta a questo cattolicesimo identitario di Salvini, alle sue chiusure sui migranti a colpi di citazioni di «San Giovanni Paolo II», «Chesterton» e «Maria Immacolata». La maggior parte dei vescovi adunati ieri in assemblea ha vissuto con sconcerto il comizio sovranista di Salvini di sabato a Milano. Eppure, come racconta a Repubblica l’arcivescovo di Monreale Michele Pennisi, «ci sono alcuni presuli, soprattutto al Nord, che reputano la Lega il meno peggio». E continua: «A me, in ogni caso, più che la strumentalizzazione del nome di Dio, lascia con l’amaro in bocca l’attacco al Papa, i fischi contro di lui, questo continuo citare Wojtyla come il vero Papa capace di intercettare un certo sentimento».
Fra Santa Sede e Salvini la frattura al momento è insanabile. E a poco servono le parole del vicepremier che ieri diceva che gli piacerebbe «essere ricevuto dal Papa». Come a poco serve il canale aperto da tempo da Giancarlo Giorgetti con la segreteria di Stato. La crepa si è aperta l’8 dicembre scorso quando Salvini, in piazza del Popolo, disse di riconoscersi soltanto in Woityla. Questa uscita ha molto infastidito il Vaticano, soprattutto perché arrivata da una persona con responsabilità istituzionale nel Paese.
In assemblea Francesco, durante il confronto a porte chiuse, dice la sua anche su sovranismi e populismi. Lo fa limitandosi a parlare della situazione europea, spiegando che occorre accogliere e, responsabilmente, integrare. Ed anche se non cita mai Salvini, lo fanno altri per lui: «Chi è con Salvini non può dirsi cristiano perché ha rinnegato il comandamento dell’amore », spiega in modo esplicito il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, a margine dell’assemblea. Come Mogavero la pensa gran parte del mondo cattolico. Sono, ad esempio, i Missionari Comboniani d’Italia a esprimere indignazione per «l’utilizzo strumentale del rosario», baciato a Milano dal ministro. E ancora: «Rosario che è segno della tenerezza di Dio, macchiato dal sangue dei migranti che ancora muoiono nel Mediterraneo: 60 la settimana scorsa, nel silenzio dell’indifferenza dei caìni del mondo». Sullo stesso tono anche l’associazione Insieme, nata con lo scopo di creare un forum che permetta di ritrovarsi alle diverse anime del politicamente frammentato universo cattolico: «Carissimi amici cattolici, non vi pare che sia giunto il momento di riflettere su come Salvini strumentalizzi la nostra fede?». Oggi la parola passa a Bassetti per un discorso atteso soprattutto per gli eventuali affondi sulla situazione italiana.
Corriere 21.5.19
La parlamentare
Mila Spicola «Censurare la storia è gravissimo»
di F.C.
Adesso che Mila Spicola, candidata Pd alle Europee, anche lei insegnante, ha rilanciato il caso della mae-stra considerata «comuni-sta» perché fa leggere il diario di Anna Frank, fonti del Miur la accusano di avere strumentalizzato con una fake news «una storia di ceffoni».
«Non ci sto. Lo scappellot-to può anche essere vero e di questo si occuperanno giudi-ci e sindacalisti. Ma se una mamma in un documento ufficiale redatto dalla diri-gente scolastica definisce “comunista” la collega di Scordia perché fa leggere Anna Frank, il nostro Paese è a rischio deriva».
La maestra non viene sospesa per la lettura del Diario, ma per lo «scappel-lotto», insistono le fonti del ministero dell’Istruzione.
«Nel provvedimento di sospensione firmato dalla dirigente scolastica si legge che è preferibile evitare ai bambini letture su “avveni-menti funesti e luttuosi”, soprattutto “per le terribili modalità”. Evidente l’implici-to richiamo ai lager nazisti. Ma altrettanto evidente il consiglio di tacere sulla Shoah davanti a bambini troppo piccoli per capire. Ma che modo è questo di fare educazione civica».
Non sembra eccessivo il parallelo con la professores-sa di Palermo accusata di mancato controllo sul confronto fra leggi razziali e decreto Salvini?
«La materia è drammatica-mente omogenea. La “mani-polazione politica” additata dalla madre del bambino non può essere recepita dalla pre-side e su questo sono pronta a prendermi una denuncia. È come condividere la bizzarra accusa di imbottire i bambini di “nozioni comuniste”. Sa-rebbe da “comunisti” leggere Anna Frank? La maestra può avere fatto qualche errore e si vedrà in altra sede, ma questa distorta visione del mondo va raccontata e contestata».
il manifesto 21.5.19
Porti aperti alle armi, chiusi agli umani
Italia. Nella visione del governo la guerra è da tempo diventata «umanitaria» e l’accoglienza umanitaria è tout-court «criminale». Quando dovrebbe essere evidente che chi apre i porti ai mercanti di armi e li chiude al soccorso umanitario e all’accoglienza, distrugge la civiltà, cancella il futuro e prepara il campo aperto dell’odio
di Tommaso Di Francesco
Se volete avere una rappresentazione tangibile e concreta della natura del governo in carica, quello del «contratto» tra sovranismo razzista della Lega e populismo giustizialista del M5S, guardate il Belpaese da nord a sud, nei suoi due porti di Genova e di Lampedusa.
Da una parte, nella capitale ligure, è attraccata la nave saudita Bahri Yanbu, tradizionalmente carica di armamenti; dall’altra nell’estrema isola siciliana rimaneva fino a 48 ore fa confinata al largo la Sea Watch, la nave di soccorso umanitario ai profughi. Porti aperti, per decisione del governo italiano, ai carichi di armi per un paese in guerra come l’Arabia saudita e per il conflitto sanguinoso in Yemen; porti chiusi, sempre per decisione del governo italiano e in particolare del ministro dell’odio Matteo Salvini, invece per i carichi di esseri umani disperati.
Ma per entrambi, ecco la novità, di fronte ai silenzi, alle ambiguità, alla tracotanza del governo che ora si rimpalla le responsabilità, in crisi con se stesso e con la coscienza della società civile italiana, sul fronte dei porti è scesa in campo la protesta. Di chi a Genova, attivisti e sindacalisti, non vuole più contribuire ad insanguinare il mondo con i traffici di armi e blocca una nave la Bahri Yanbu di fatto militare – appartiene infatti alla società saudita che gestisce il monopolio della logistica militare di Riyadh.
A Lampedusa è scesa in strada una lenzuolata di civiltà che vuole accogliere invece che respingere chi fugge disperato dalle troppe nostre guerre e dalla miseria prodotta dal nostro modello di rapina delle risorse energetiche, in Africa e non solo.
È una sintonia di avvenimenti con la quale irrompe nell’Italietta ripiegata su se stessa, la questione internazionale. Perché entrambe le vicende sono casi internazionali e chiamano in causa subito l’Europa, significativamente alla vigilia del voto per le europee. Infatti la nave saudita, che porta armi e/o strumentazioni comunque destinate alle forze armate della monarchia saudita infatti, è partita dagli Stati uniti, passata per il Canada prima di arrivare in Europa, ha come destinazione Gedda e, dopo avere caricato munizioni di produzione belga nel porto di Anversa, ha visitato e cercato di approdare nel Regno unito, in Francia e in Spagna. Sempre accolta dalla protesta dei pacifisti, degli attivisti dei diritti umani e dei portuali locali.
E l’Italia non è un attracco qualsiasi: qui su licenza tedesca sono prodotte bombe dalla Rwm Italia (con sede a Ghedi, Brescia, e nello stabilimento a Domusnovas, in Sardegna) che vengono utilizzate contro la popolazione civile yemenita.
È un traffico di morte con il concorso dell’intera Europa: secondo i rapporti della stessa Ue sulle esportazioni di armi, gli Stati membri dell’Ue hanno emesso nel solo 2016 almeno 607 licenze per oltre 15,8 miliardi di euro in Arabia saudita.
Ieri il porto di Genova è stato bloccato dalla manifestazione degli attivisti e dei camalli, ma il governo ha aggirato la protesta e fatto attraccare la nave lo stesso.
Anche a Lampedusa alla fine, la nave Sea Watch confinata al largo per giorni è stata fatta approdare e sono stati fatti scendere i migranti. E con l’accoglienza popolare, quasi festosa allo sbarco dei 47 profughi, è andata in onda l’alternativa del «modello Mimmo Lucano», l’ex sindaco di Riace ora al bando ed esiliato perché ha dimostrato che l’integrazione è possibile, è concreta ed è fattore produttivo, di nuovo lavoro e di nuova civiltà.
Subito si è scatenata la reazione rabbiosa del ministro dell’Inferno, sponsor di quel “Decreto sicurezza bis” che le Nazioni unite accusano apertamente di «violare di diritti umani». Così la nave umanitaria è stata sequestrata e il comandante è stato denunciato per «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».
Ecco che le due anime del «contratto di governo» si ritrovano unite negli intenti finali, anche elettorali.
Non dimentichiamo però che la loro forza, sempre più fragile, deriva dai disastri provocati dai governi precedenti italiani ed europei, di centrodestra e di centrosinistra, sia per l’accoglienza dei migranti che per le guerre infinite in corso. È così. Questo governo gestisce nient’altro che una vergognosa eredità, quella delle decine di muri eretti alle frontiere di ogni paese europeo e, nel Mediterraneo, della esternalizzazione dei confini alle presunte autorità della Libia.
Che, nonostante sia travolta da mesi da una guerra intestina e per procura, continua ad essere chiamata in causa ogni giorno dal ministro degli interni Salvini perché, con la sua milizia che si chiama «guardia costiera libica», tenga ben aperti ai migranti le carceri e i campi di concentramento.
Mentre nella grammatica corrente, la guerra è da tempo diventata «umanitaria» e l’accoglienza umanitaria adesso è tout-court «criminale». Quando dovrebbe essere evidente che chi apre i porti ai mercanti di armi e li chiude al soccorso umanitario e all’accoglienza, distrugge la civiltà, cancella il futuro e prepara il campo aperto dell’odio.
Repubblica 21.5.19
Salvini e i porti aperti
Chi salva il nostro onore
di Luigi Manconi
La portavoce italiana di Sea Watch è Giorgia Linardi (quella ragazza bionda che appare talvolta in televisione). Non ancora ventinovenne, è nata a Como e ha lavorato presso l’Alto commissariato per i rifugiati e per Medici senza frontiere. Uno dei comandanti delle imbarcazioni di Open Arms è un giovane uomo, Riccardo Gatti di Calolziocorte (Lecco), in passato operatore in una comunità per minori. Colti, conoscono le lingue e sono curiosi del mondo e degli esseri umani: dalla provincia italiana ai mari tra Europa e Africa il passo può essere brevissimo. Nati negli anni in cui i muri dell’Europa venivano abbattuti, faticano ad accettare — come milioni di loro coetanei — che le frontiere risultino aperte alle merci e ai capitali e non a chi fugge da guerre e miserie, da conflitti tribali e persecuzioni etniche, religiose, politiche e sessuali.
In genere, non c’è in loro alcun tratto eroicistico né una postura profetica e predicatoria. Ritengono, piuttosto, che salvare vite umane sia un obbligo razionale che in questo momento assolvono e che non li rende migliori degli altri.
Appartengono alla generazione dei «giovani contemporanei», secondo la definizione evocata dalla madre di Giulio Regeni. Tra loro, la gran parte di quanti agiscono come volontari, operatori e attivisti dei diritti umani non esprime iattanza e tantomeno velleità superomistiche. E questo li rende schivi e riottosi, a eccezione di qualche leader particolarmente narcisista, così prossimi a noi, sostituibili e alla portata di chi volesse svolgere quel lavoro per un periodo determinato della propria vita.
Qualcosa già hanno ottenuto (come, peraltro, l’Ong italiana Mediterranea). Si è dimostrato inequivocabilmente che i porti italiani — è fin troppo ovvio — sono aperti. Chi continua a negarlo, come il ministro dell’Interno, lo fa per convincere se stesso e i propri cari. Insomma, anche il tonitruante Capitano rivela una sindrome da insicurezza. E sono aperti, quei porti, innanzitutto per una ragione: non esiste un solo atto formale del Consiglio dei ministri, un decreto o un provvedimento scritto che abbia disposto quella chiusura. E se pure esistesse tale misura, sarebbe destinata a decadere, perché in conflitto oltre che con l’articolo 10 della nostra Costituzione, con tutti, ma proprio tutti, gli obblighi internazionali fissati dalla Convenzione di Ginevra per i Rifugiati e da quella sulla Salvaguardia della vita umana, da quella sul Diritto del mare e dalla Sar.
E, ancora, si è dimostrato che, per ricorrere a un’immagine abusata, "esiste un giudice a Berlino", come (prima di Bertolt Brecht) ha raccontato Enrico Broglio in un’opera del 1880. Qui non siamo in Germania, ma ad Agrigento e il magistrato che compie il suo dovere è un pubblico ministero. Certo, tra la Prussia di Federico il Grande e l’Italia attuale corrono due secoli e mezzo e la distanza sotto tutti i profili è vertiginosa, eppure una qualche affinità c’è: l’iniziativa del procuratore Patronaggio appare rara e fin solitaria. Almeno rispetto all’orientamento della grande maggioranza della classe politica, di una parte significativa dell’opinione pubblica e di molti magistrati. Per questo va apprezzata: perché risulta, a un tempo, rispettosissima delle norme e autonoma nei confronti della mentalità dominante. Ed è forse giusto che sia così.
Tuttavia, va ribadito, il soccorso in mare costituisce il fondamento stesso del sistema universale dei diritti umani.
Ovvero la base su cui si fonda il principio di reciprocità che, a sua volta, sostanzia il legame sociale e dà vita al consorzio umano. Per questa ragione insidiare il diritto-dovere di soccorso rappresenta un attentato alla civiltà giuridica.
Eppure (ecco ancora quella sensazione di solitudine) sembra che quel valore essenziale così alto e al contempo così tragicamente concreto — una questione di vita o di morte — interessi solo esigue minoranze. Ne consegue che, a farsi carico di quella responsabilità tanto onerosa, sembrano rimasti solo il mestiere del soccorso ("la legge del mare") e quanti lo praticano, guardia costiera e navi mercantili e militari comprese. Sono solo questi, ed è disperante, a salvare l’onore di un’Europa torpida e codarda.
il manifesto 21.5.19
Guerra alle ong, il manuale di Satana contro i soccorsi
Decreto sicurezza bis. Multe da 20 a 50 mila euro per chi dirige i salvataggi dei migranti e confisca delle navi. Un fondo per i rimpatri
di Adriana Pollice
«Se Luigi Di Maio non ha il decreto Sicurezza bis glielo manderemo tutto a colori»: il Consiglio dei ministri ieri non era ancora iniziato e già tra il vicepremier Matteo Salvini e l’omologo 5S volavano gli stracci. Il testo, arrivato in Cdm dopo polemiche e correzioni, spazia dai migranti alla sicurezza negli stadi, a misure anti clan fino all’invio di 500 militari in più a Napoli per le Universiadi 2019.
I PRIMI DUE ARTICOLI sono dedicati a bloccare gli sbarchi delle Ong: il comandante della nave che effettua il salvataggio «è tenuto ad operare nel rispetto delle istruzioni operative emanate dalle autorità responsabili dell’area in cui ha luogo il soccorso». Norma che, nelle condizioni attuali, si traduce nel Centro di coordinamento di Tripoli. In caso di inosservanza è prevista una multa a carico del comandante tra 20mila e 50mila euro. Su suggerimento del ministro Toninelli, in caso di reiterazione o qualora il numero degli stranieri sbarcati sia superiore a 100, arriva «immediatamente il sequestro cautelare della nave». Può anche essere sospesa la concessione delle attività di soccorso da uno a dodici mesi.
L’ARTICOLO 2 PREVEDE l’ampliamento dei poteri del ministero dell’Interno, che potrà «limitare o vietare il transito o la sosta di navi nel mare territoriale per motivi di ordine e sicurezza pubblica», invadendo quindi il campo del Mit e della Difesa, che devono solo essere informati. L’articolo 3 modifica il codice di procedura penale estendendo al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina la competenza delle Dda, inclusa la disciplina delle intercettazioni preventive. L’articolo 4 istituisce le operazioni sotto copertura, con un fondo da un milione di euro annui, per il contrasto all’immigrazione. L’ultimo articolo, il numero 12, serve a disinnescare le accuse di Di Maio, che da settimane inchioda Salvini alla sua promessa, disattesa, di rimpatriare gli irregolari: viene istituito un fondo di premialità per le politiche di rimpatrio, 2 milioni di euro per il solo 2019, per «finanziare interventi di cooperazione o intese bilaterali» con stati extra Ue.
DALL’ARTICOLO 6 IL DECRETO passa a occuparsi di ordine pubblico, rendendo sempre più difficile manifestare il dissenso in piazza. Non solo viene punito da uno a quattro anni chi utilizza razzi, bengala, fuochi artificiali o petardi ma anche (da uno a tre anni) chi «utilizza scudi o altri oggetti di protezione passiva». Da due a tre anni, con l’ammenda da 2mila a 6mila euro, nei casi di resistenza a pubblico ufficiale. Infine, introduce un Commissario straordinario nominato dal Viminale per garantire le notifiche delle sentenze oggi ferme, con 800 assunti a tempo determinato, invadendo le competenze degli uffici giudiziari e del ministro della Giustizia.
CRISTINA ORNANO, segretario di Area (il gruppo delle toghe progressiste), ha duramente criticato il decreto: «La sanzione pecuniaria per i salvataggi si tradurrebbe in una grave violazione del diritto-dovere di tutelare la vita in mare e degli obblighi imposti dalle Convenzioni e dal codice della navigazione. Con l’articolo sulla Dda si rischia di depotenziare l’attività delle procure competenti». In quanto ai maggiori poteri attribuiti al Viminale: «È un ingiustificato esautoramento del Mit con una pericolosa espansione del concetto di ordine e sicurezza pubblica. Rispetto alle manifestazioni, introduce ipotesi di responsabilità oggettiva non consentite dall’ordinamento e sanziona condotte di mera partecipazione in violazione del diritto costituzionalmente di riunirsi e manifestare».
L’ONU IERI È TORNATA a chiedere il ritiro del decreto: «Il diritto alla vita e il principio di non respingimento dovrebbero sempre prevalere sulla legislazione nazionale». E ancora: «Esortiamo le autorità a smettere di mettere in pericolo la vita dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime della tratta. Le politiche migratorie restrittive contribuiscono ad aggravare le vulnerabilità dei migranti e servono solo ad aumentare il traffico di persone».
L’Onu ha chiesto anche il ritiro delle precedenti direttive che vietano l’accesso ai porti italiani alle Ong: «Temiamo che questo tipo di retorica aumenterà ulteriormente il clima di odio e di xenofobia».
CONTRARIE ANCHE le organizzazioni del Tavolo per l’Asilo nazionale: «Il governo, negando l’esistenza della guerra in Libia, continua nell’intento di impedire qualsiasi fuga. Colpisce chi risponde all’obbligo di soccorso con multe per comportamenti coerenti con l’ordinamento giuridico e con i principi costituzionali».
PER MEDICI SENZA FRONTIERE si tratta di una grave aggressione ai principi umanitari: «Ieri c’erano la legge del mare e le convenzioni internazionali sui rifugiati. Oggi servono un magistrato, un sequestro, ripetuti e inascoltati appelli per dare un porto a chi ne ha diritto».
Repubblica 21.5.19
Le toghe contro Salvini "Basta intimidazioni"
L’Anm dopo gli attacchi sul caso dei migranti soccorsi dalla Sea Watch: crea un clima di avversione L’ex procuratore di Torino Spataro: "Mi inchino ai colleghi, scendiamo in piazza per difenderli"
di Liana Milella
Roma — «Senza retorica, mi inchino di fronte ai colleghi di Agrigento. Stringiamoci attorno a loro, se necessario scendiamo in piazza in loro onore, parliamo e informiamo». Parte così, con le parole dell’ex procuratore di Torino Armando Spataro, toga progressista da sempre attenta ai rapporti tra poteri e Costituzione, la reazione dei magistrati all’attacco di Salvini. Solo 12 ore prima, in tv, il ministro dell’Interno si era scagliato contro il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio per il sequestro della nave Sea Watch minacciando una denuncia per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Con il linguaggio rude che gli è abituale, Salvini ricorda che fu Patronaggio a indagarlo per la Diciotti e lo invita «a candidarsi alle elezioni se vuole fare il ministro».
Decisamente troppo per una magistratura da mesi vittima delle battute delegittimanti di Salvini di fronte a misure sgradite. Stavolta i giudici si sollevano. Perché, come dice il costituzionalista Gaetano Azzariti «il ministro sta accusando la magistratura di attività eversiva e va ben oltre la critica all’esercizio della funzione giudiziaria che ha portato la procura di Agrigento a intervenire. Se ha correttamente operato saranno le ordinarie vie processuali a dirlo, ma non spetta certo a un esponente del governo scatenare una così pericolosa drammatizzazione». Tant’è che di «delegittimazione e intimidazione » parla l’Anm e del rischio che le parole di Salvini «suscitino un clima di avversione nei confronti dei singoli magistrati e dell’istituzione ». Il presidente Pasquale Grasso ricorda che «nel sistema costituzionale disegnato all’indomani del disastro morale e civile della seconda guerra mondiale i giudici agiscono in nome del popolo italiano non secondo un’investitura elettorale, ma in forza di una legittimazione tecnica, fortemente voluta e perseguita dai costituenti». Proprio così, tant’è che Azzariti nota come quella di Salvini «può ritenersi un’impropria interferenza nei confronti del potere giudiziario in quanto azione finalizzata a fermare o condizionare le indagini in corso».
Ma Salvini ha sempre contestato i giudici. Ignorando quello che mette in rilievo il presidente M5S della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra: «Non possono esserci scontri tra esecutivo e magistratura. Sono, esecutivo e magistratura, due poteri diversi e autonomi l’uno dall’altro, per cui ci dev’essere piena indipendenza e rispetto». Salvini invece ignora proprio questo principio. Tocca a Nello Rossi, direttore della rivista online "Questione Giustizia" promossa da Magistratura democratica, ricordarglielo: «Bisognerà che tutti, compreso Salvini, se ne facciano una ragione: in un Stato democratico esiste la separazione dei poteri. Non si può procedere a strappi e scossoni politici. I provvedimenti giudiziari possono essere impugnati e quindi sottoposti a controllo. Ma il punto è un altro. Che i politici sono alla vigilia delle elezioni e hanno di mira i risultati del voto; i magistrati invece seguono le logiche del diritto che restano eguali quali che sia il momento in cui adottano i loro provvedimenti». Proprio come hanno fatto ad Agrigento per la Sea Watch e per la Diciotti. «Se è per questo, Salvini dovrebbe denunciare anche l’Onu» chiosa il presidente di Md Riccardo De Vito. E aggiunge: «I magistrati fanno rispettare la Costituzione anche alla politica. Per questo non sono eletti. La loro indipendenza è rafforzata proprio dal non dover prestare ossequio a una parte politica».
Repubblica 21.5.19
Agrigento
I pm di frontiera "La politica ci lasci lavorare"
I magistrati che hanno fatto scendere i migranti "Vogliamo solo prendere i cattivi, bianchi o neri"
di Alessandra Ziniti
roma — «L’ uomo solo sul molo», come lo ha ribattezzato chi lo ha visto domenica per ore, fino a sera, attendere pazientemente e responsabilmente al porto di Lampedusa che tutto andasse come doveva andare, la mette così: «Quello che sorprende è la reazione del ministro. Il mio lavoro è prendere i cattivi, bianchi o neri che siano. Noi i migranti li vediamo arrivare da anni e li sappiamo riconoscere. Se dovessimo accertare che, oltre ai trafficanti e agli aguzzini africani e libici, in questo mercimonio è coinvolto anche qualche europeo, abbiamo tutto l’interesse, la forza e il coraggio per andare a fondo».
Salvatore Vella, 49 anni, da un anno procuratore aggiunto di Agrigento nell’ufficio di frontiera guidato da Luigi Patronaggio, per tutto il weekend ha gestito minuto per minuto da Lampedusa, dove era andato per interrogare il comandante e il capomissione della Mare Jonio, la "crisi" Sea Watch. Un caso come tanti altri per questa piccola procura di provincia che da decenni si occupa di sbarchi di migranti, ha gestito decine di indagini delicatissime su naufragi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ha arrestato centinaia di scafisti e, da un anno a questa parte, si ritrova a dover fare quello che non avrebbe mai pensato di fare: mettere sotto inchiesta i salvatori. Finora, però, di reati a carico delle Ong non ne hanno trovati.
Salvini invece avrebbero voluto portarlo davanti al tribunale dei ministri se il Senato non avesse negato l’autorizzazione a procedere: sequestro di persona per il caso Diciotti. È stato così che, ad agosto, dopo essere salito sulla nave della Guardia costiera ferma a Catania, il procuratore Luigi Patronaggio, 60 anni e una lunga esperienza a Palermo di processi di mafia e politica, è finito nel mirino del ministro dell’Interno. E forse non è un caso che uno degli articoli del decreto sicurezza- bis, quello che attribuisce la competenza delle inchieste sull’immigrazione clandestina solo alle Dda, toglierebbe al suo ufficio tutte le indagini, alcune delle quali puntano molto in alto.
Ora che Matteo Salvini, dopo lo sbarco della Sea Watch, è arrivato a minacciare di volerlo denunciare per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, Patronaggio si limita a ribadire quanto già detto dopo lo scontro con Salvini sul caso Diciotti: «Bisogna rispettare le diverse sfere di autonomia dei poteri. Alla politica spetta fare le scelte che ritiene più opportune, alla magistratura la valutazione giuridica. È quello che abbiamo fatto».
Patronaggio, Vella e 10 giovanissimi sostituti procuratori, nove donne e un uomo, quasi tutti al primo incarico, per occuparsi di immigrazione, abusivismo edilizio e demolizione, ma anche corruzione e tutela dell’ambiente. E mafia naturalmente. Una mole di lavoro spaventosa per un ufficio con enormi vuoti di organico. Negli anni più caldi, solo per i reati di immigrazione clandestina, 1.300 procedimenti all’anno con 10 mila indagati.
«Noi, da soli con la nostra polizia giudiziaria, tutti qui a schiena bassa a lavorare — dice il procuratore aggiunto Salvatore Vella — Siamo un grande gruppo, ci mettiamo il cuore e l’anima. Questo clima da stadio, disancorato dai fatti, non aiuta. Le istituzioni tutte dovrebbero garantirci più serenità per permetterci di fare al meglio il nostro lavoro. E il nostro lavoro, lo ripeto, è prendere i cattivi. Dovunque si trovino».
Per accertare se ce ne fosse qualcuno sulla Sea Watch i pm adesso faranno quello che hanno sempre fatto: interrogatori dei migranti (a uno di loro hanno trovato due telefoni tra cui un satellitare), interrogatorio del comandante, acquisizione della documentazione, dei registri, delle conversazioni di bordo. «Per questo abbiamo sequestrato la nave, come nei casi precedenti», spiega Vella . «La Guardia di finanza ci ha trasmesso un’informativa segnalando possibili atti illeciti da parte della Ong e per verificarlo abbiamo dovuto procedere al sequestro dell’imbarcazione e ovviamente allo sbarco dei migranti. Esattamente come è successo per i precedenti sbarchi della Mare Jonio in costante coordinamento con la polizia giudiziaria. Erano tutti informati, tutti».
Repubblica 21.5.19
La solidarietà ai magistrati
Il senso di scendere in piazza
di Armando Spataro
La decisione della procura di Agrigento di far sbarcare a Lampedusa i migranti rimasti a bordo della Sea Watch ha suscitato, da un lato, la prevedibile reazione del "Ministro di tutto" e, dall’altro, sentimenti di gratitudine verso la magistratura da parte di chi crede nel dovuto rispetto dei diritti fondamentali e nella separazione dei poteri in democrazia. L’incompatibilità tra queste opposte posizioni, però, è tale che occorre parlare e spiegare perché un ministro, qualora ipotizzi un reato nelle attività di soccorso in mare, non può, indipendentemente dal fondamento della sua opinione, disporre o richiedere il sequestro di una nave e impedire lo sbarco di migranti.
Il sequestro in un processo penale, con quanto ne consegue, è atto giudiziario, compete solo ai pubblici ministeri e alla polizia giudiziaria che è da loro funzionalmente diretta. Ma secondo il ministro dell’Interno, anche in presenza del sequestro, i migranti non dovevano sbarcare. Al di là dei principi vigenti in materia, forse egli pensa che i migranti dovessero essere custoditi in un ufficio corpi di reato, anziché scendere a terra?
Il procuratore di Agrigento, come ha reso noto, sta indagando sul reato di immigrazione clandestina e ne valuterà la sussistenza, ma tale doverosa attività non attenua in alcun modo, neppure nel caso di accertata responsabilità del comandante o dell’equipaggio della nave, il suo obbligo (non solo "suo" a dire il vero!) di tutelare i diritti delle persone e i loro beni fondamentali, fra i quali in primis
la salute, l’integrità fisica e la dignità. Né attenua il suo dovere di interrompere ogni attività che possa apparire illegale, come già ritenuto dal Tribunale dei Ministri di Catania nel caso Diciotti.
L’esecutivo, a sua volta, non può, in ragione di proprie opposte convinzioni e aspettative (rispetto alle quali la magistratura deve essere totalmente indifferente), intaccare il principio della separazione dei poteri costituzionalmente tutelato, addirittura ipotizzando condotte illegali della procura agrigentina (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina).
È facile in questa situazione individuare chi ha esorbitato dalle proprie competenze istituzionali, ma — in tempi di difficile partita di civiltà — bisogna "scendere in piazza": un invito che non ha rapporto né con le bandiere di parte e con gli slogan a effetto né con la divisa di Zorro, ma solo con l’immagine luminosa della democrazia. Il procuratore di Agrigento non ha certo bisogno di essere difeso, né di essere applaudito nelle piazze. Egli ben conosce i sentimenti di solidarietà e rispetto che la parte consapevole del Paese gli dedica: non si è mai soli, infatti, quando si cammina in avanti, pensando e agendo con lucidità per il rispetto della legge e la difesa della dignità collettiva.
Ma i "cittadini consapevoli" — come a me piace definirli — devono "scendere in piazza", dovunque sia possibile, anche nelle scuole, nelle case e nei luoghi di lavoro, dando luogo a una contronarrazione pacata e chiara che, opponendosi alle logiche elettorali, serva a far comprendere a tutti, da un lato, che è giusto invocare l’intervento dell’Europa per rendere effettivi e operanti gli accordi sovranazionali esistenti in tema di accoglienza dei migranti e così vincere le inadempienze di altri governi e, dall’altro, che questo obiettivo non si può raggiungere né violando gli obblighi che in materia gravano anche sull’Italia, né con atteggiamenti polemici nei confronti dell’Europa. Serve guadagnare autorità e credibilità, dimostrando la propria irrinunciabile fedeltà agli obblighi internazionali e ancor prima ai principi affermati nella Costituzione italiana.
il manifesto 21.5.19
Tutta la Liguria chiusa alla guerra
Porto D'Armi. A Genova la vittoria dei camalli: il generatore per lo Yemen non sale sul cargo saudita. Cgil: sciopero in tutti i porti per evitare carichi. Indiscrezioni sull’aggiramento del blocco a La Spezia: all’arsenale potevano essere caricati anche 8 cannoni. La Bahri Yanbu accolto all’alba con razzi e lacrimogeni. Poi la prefettura dà ragione ai lavoratori: il materiale «border line» viene trasferito fuori dal porto
di Massimo Franchi
Hanno vinto i camalli, ha vinto la «guerra alla guerra». Lo sciopero e il presidio indetti a Genova contro la Bahri Yanbu è riuscito: la nave cargo saudita arrivata ieri mattina non verrà caricata con i generatori elettrici che sarebbero serviti per la guerra in Yemen. E il blocco da oggi si estende a tutti i porti liguri per evitare che il carico avvenga nel porto militare di La Spezia, lontano dai riflettori accesi meritoriamente da lavoratori e Cgil nel capoluogo.
SOTTO UNA FORTE PIOGGIA alle 4 e 30 la nave è stata accolta dagli striscioni e dai fumogeni del Collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) che hanno anche tentato di salire sul cargo. Poi i lavoratori della Compagnia unica dei camalli hanno impedito le operazioni di carico nell’area di attracco della nave partendo con un presidio al varco portuale Etiopia, in lungomare Canepa.
Lo sciopero deciso domenica dalla Filt Cgil era mirato: riguardava tutti gli operatori di mare e di terra che avrebbero dovuto lavorare sulla Bahri Yanbu, il cargo della compagnia marittima dell’Arabia Saudita che trasporta materiale bellico diretto a Gedda e da lì al conflitto civile in Yemen.
Uno striscione al presidio al porto
La mobilitazione partita già la scorsa settimana sotto la scia del boicottaggio avvenuto al porto francese di Le Havre aveva visto saldare le posizioni dei camalli con quelle delle ong laiche come Arci, Amnesty, Libera, Opal per il disarmo e cattoliche Acli, Salesiani del Don Bosco, comunità di San Benedetto. Tutti uniti dallo striscione: «Porti chiusi alla guerra, porti aperti ai migranti».
Sotto accusa c’erano i generatori della Defence Tecnel di Roma, materiale militare che invece l’agente a Genova della Bahri sosteneva essere «civile». La scoperta dei generatori «border line» aveva portato anche la Cgil – dopo il collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) – alla mobilitazione totale anche sotto la spinta della affollata assemblea pubblica di venerdì.
IL SUGGELLO ALLA VITTORIA dei lavoratori è arrivata dalla riunione tenuta in prefettura con i rappresentanti sindacali, i vertici dell’Autorità portuale e i dirigenti del Gmt, il terminal. Niente carico e generatori spostati in un’area protetta del Centro smistamento merci (Csm). Quando verso mezzogiorno la polizia ha scortato gli operatori che spostavano i grossi generatori il blocco è stato tolto fra la felicità di tutti. «Avevamo proposto noi di portare fuori la merce contestata e ci hanno ascoltato», commenta Luigi Cianci della Cooperativa unica dei camalli e delegato Filt Cgil. «A parte il comportamento vergognoso di Cisl e Uil, questa volta c’era tanta voglia nei lavoratori di fare qualcosa, di cominciare ad agire, di scrollarsi di dosso l’apatia», spiega Richi del Calp.
NEL PRIMO POMERIGGIO però iniziava a farsi concreta la possibilità che il generatore potesse essere spostato al porto di Spezia dove secondo indiscrezioni potrebbero arrivare nelle prossime ore, via treno, anche gli 8 cannoni Caesar che sono stati all’origine del blocco al porto di Le Havre.
Per evitare che il problema di Genova si ripresenti perfino peggiorato a La Spezia la Filt Cgil assieme alla Cgil Liguria hanno indetto uno sciopero preventivo per tutti i porti della regione. «Abbiamo deciso di dichiarare lo sciopero dei lavoratori addetti a tutti i servizi e alle operazioni portuali, di mare e di terra, che riguardano gli scali liguri dove avvenga l’eventuale attracco della nave Bahri Yanbu – spiega Laura Andrei, segretaria regionale della Filt Cgil – perché non si proceda con l’imbarco di materiale bellico impiegato in operazioni definite dalle Nazioni Unite “crimini di guerra”. Anche all’arsenale di Spezia riusciremmo a bloccare il carico».
FILT E CGIL LIGURIA «auspicano che anche l’Italia, come gli altri stati europei, decida finalmente di dare un segnale forte contro la più grave catastrofe umanitaria del mondo».
A conferma del livello di intatta civiltà di buona parte di Genova arriva il commento del presidente di Federlogistica ed ex presidente dell’autorità portuale Luigi Merlo: «Credo che la decisione dei camalli e della comunità dei lavoratori portuali vada rispettata perché fa parte della loro storia e identità. È vero che c’è il libero scambio delle merci – ha completato Merlo – ma c’è anche la scelta individuale, importante, etica e morale, che credo debba essere rispettata e faccia pienamente parte della storia del porto di Genova».
il manifesto 21.5.19
Bahri Yanbu, una flotta pendolare tra Usa e Golfo
Italia/Arabia saudita. Intervista a Carlo Tombola (Opal): «Hanno fatto bene i portuali a scioperare. Da Sunny Point, terminal della marina americana, a Santander: a bordo ci sono armi»
di Chiara Cruciati
«A febbraio uscirono le foto di quanto aveva nella stiva la Bahri Yanbu arrivata a Genova: veicoli blindati, cingolati, apparecchiature già camuffate per il deserto, probabilmente di fabbricazione americana». Il direttore di Opal, Carlo Tombola, dà per certo il transito di armi dal porto ligure, in passato, a bordo delle navi della flotta saudita Bahri, «pendolare» tra Stati uniti e Golfo.
«La Bahri ha la più grande flotta della monarchia – ci spiega – Sei navi fanno la stessa rotta per l’approvvigionamento militare americano e britannico, il 75% del totale. Impiegano due mesi e mezzo all’andata e altrettanti al ritorno, tra i due porti “estremi”. Ma sono sei: ogni 15 giorni più o meno toccano il porto di interesse».
Ed è qui, in porto, che scavando si può sapere cosa contengono: al documento di carico ufficialmente non si accede, ma ufficiosamente sì perché entra in possesso di assicurazione, compagnia di gestione, trasportatore. Le dogane devono sapere cosa c’è in stiva per poter movimentare la nave.
«In questo caso a bordo ci sono sei container di munizioni caricate ad Anversa e altre munizioni caricate a Santander: le hanno viste gli attivisti locali. E poi quello che è stato caricato a Sunny Point negli Stati uniti: si tratta di un terminal della marina americana, lì caricano solo sistemi militari».
Fino all’Italia dove i portuali hanno detto no: «Hanno fatto bene gli operai di Genova a scioperare. I generatori della Teknel sono dual use, possono essere usati in contesto militare e civile. Per capirci: il generatore serve a far funzionare lo shelter, un piccolo container blindato a tenuta con una porta e piccole feritoie che contiene attrezzature elettroniche e collegamenti elettrici. Ovvero computer, visori, schermi con cui si può dare moto a un’artiglieria, guidare un drone, gestire il diurno e il notturno. Dalla Teknel i sauditi hanno comprato 18 shelter e 18 generatori».
Il sospetto che a Genova quelli destinati al carico fossero per uso militare non è campato in aria.
Il Fatto 21.5.19
Toh, per sgonfiare il pallone gonfiato basta la democrazia
di Antonio Padellaro
Domenica sera, lo show del Matteo Salvini smentito in diretta tv a Non è l’Arena, ci ha detto alcune cose sugli strumenti che ha la democrazia per far ritornare sulla terra i palloni gonfiati.
Primo: l’informazione. In passato, spesso intervistatore compiaciuto e ammiccante del vicepremier leghista, questa volta Massimo Giletti si è calato nei panni del giornalista che becca la notizia, la tiene in pugno e non la molla cascasse il cielo.
La sequenza alternata del ministro degli Interni categorico (“dalla Sea Watch non sbarca nessuno”) e del conduttore incalzante che gli legge in diretta le agenzie che danno conto dello sbarco in corso, resta televisivamente imperdibile. E rappresenta un esempio di come i media possano svolgere un importante servizio pubblico semplicemente ponendo all’autorità di turno una, due, tre, quattro, cinque volte la stessa domanda. Senza accontentarsi della stessa risposta.
Secondo: la magistratura. Il Procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio ha disposto lo sbarco dei 47 migranti a bordo, non in preda a una crisi acuta di buonismo o perché foraggiato da Soros ma in conseguenza del sequestro probatorio della Sea Watch 3 per violazione dell’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione che contrasta gli ingressi illegali. Anche in questo caso il ministro si mostra all’oscuro di tutto. Sembra ignorare norme e procedure che gli dovrebbero essere familiari (alcune portano la sua firma). Come se considerasse il potere giudiziario, un fastidioso ingombro se non addirittura un ostacolo all’esercizio di un potere (il suo) che egli considera evidentemente illimitato e inappellabile.
Terzo: il ministro. Rubizzo e con gli occhi lucidi sembra febbricitante (in questo caso auguri di pronta guarigione) ma non rinuncia ad ergersi come un misirizzi in delirio di onnipotenza.
Senza rendersi conto che più rivendica sconfinate potestà (“io governo il paese”) e più si sta ficcando in una trappola micidiale. Quando se ne accorge simula risate di cuore e forse si appresta a mandare i consueti bacioni, senonché viene impallato dalle implacabili immagini di una motovedetta della GdF con a bordo i migranti sani e salvi. Di nuovo s’incupisce e minaccia (“finché il ministro sono io”), poi comincia a menare colpi al buio. Prima contro l’incolpevole collega Danilo Toninelli (“lo spieghi agli italiani”) ma quando Rocco Casalino portavoce di palazzo Chigi (dove qualcuno si gode la scena) smentisce interventi di ministri 5 Stelle, si avventa deciso sul pm. Ignaro della dinamica degli eventi, compulsa nervosamente il cellulare che immaginiamo sordo (il numero da lei selezionato…), e infine si rifugia sul classico (“ se intende fare il ministro si candidi alle elezioni”). Salvo che all’indomani, forse rinfrancato dalla tachipirina, rivendica come una sua vittoria personale l’intervento della magistratura. Uno spettacolo.
Il pubblico. Ma chi governa sto’ paese? Lo avranno pensato in molti osservando il ministro preposto alla sicurezza dei cittadini scavalcato dagli accadimenti proprio sul terreno (anzi sulle acque) di cui si proclama demiurgo supremo. Seguono le seguenti riflessioni. Allora è vero che al Viminale non ci sta mai. Allora non è vero che ha chiuso e sigillato i porti. Vuoi vedere che è finto anche il rosario?
Repubblica 21.5.19
Reportage dal Sudan
Le ragazze di Khartoum
Da dicembre migliaia di persone sono in strada per chiedere democrazia. In prima fila moltissime donne: cuoche, infermiere, giornaliste. La cacciata del dittatore Bashir non basta: ora il nemico sono i militari
di Giampaolo Cadalanu
KHARTOUM - Alla farmacia del sit-in, gli attivisti di Khartoum si rivolgono alla dottoressa Riat con cortesia, parlando sottovoce, anche perché nella tenda dell’ospedale da campo il suono dei tamburi e delle percussioni sulle ringhiere arriva soffuso. La farmacista volontaria distribuisce pillole e cerotti con il sorriso sulle labbra, il velo celeste immacolato nonostante la polvere. Quello che i militanti pensano, sulla presenza delle donne, Riat l’ha capito alla manifestazione del 31 dicembre: «Quando gli agenti della sicurezza hanno cominciato a sparare, ero fra i più esposti. All’improvviso mi sono trovata davanti un ragazzo che non conoscevo, era venuto a farmi scudo con il suo corpo. L’ho cercato per ringraziarlo, ma non l’ho più visto».
Nel campus universitario occupato, vicino al quartier generale della Difesa, il sit-in della società civile va avanti dall’inizio di aprile. Oltre 25mila attivisti sono accampati qui, per chiedere ai militari di farsi da parte dopo la deposizione di Omar al Bashir. In questa piccola città rivoluzionaria uomini e donne si dividono alla fila per la perquisizione, e naturalmente nelle stanze dedicate al riposo, durante le ore di sole, quando non c’è spazio per grandi attività, tra i 43 gradi all’ombra e il digiuno del Ramadan. Poi si mescolano senza problemi. Ma basta uno sguardo ai crocchi di persone sotto i lampioni per capire che in Sudan la rivoluzione è donna.
Sara Isam, responsabile della Sanità del sit-in, sottolinea che su undici comitati di gestione sette sono guidati da donne. Anche gli uomini sono d’accordo: fra i dimostranti di Khartoum il grido ritmato delle attiviste è diventato un incitamento per i momenti più difficili. «Serve a ricordarci che se le ragazze sono in prima fila, noi dobbiamo essere all’altezza », dice Munif, attivista del Media Center. E le giovani non si tirano indietro: come ricorda citando una poesia di Mohamed Taha Algadal la quindicenne Samah Rahama: «Non sono le pallottole a uccidere, è il silenzio ».
Lo avevano capito anche i paramilitari leali al vecchio regime, frange delle Rapid Support Forces che Omar al Bashir aveva fatto tornare dalle regioni strategiche come il Darfur per trasformarle in Guardia presidenziale. All’inizio della rivolta, in dicembre, gli ufficiali avevano dato ordini precisi: bisognava spaventare le donne, per far sparire anche gli uomini. Racconta Fatma, 32enne madre di due bambini: «Dopo un corteo, gli agenti dei servizi hanno arrestato tutti. Io ero nascosta in una casa vicina, sotto il letto. Uno di loro mi ha trovato, ha cominciato a strapparmi i vestiti. Voleva violentarmi. Mi ha salvato l’arrivo della padrona di casa, che ha detto: è mia figlia, lasciala stare».
La minaccia degli stupri non è bastata a fermare la ribellione. Al Bashir è stato deposto, ma anche i generali che hanno preso il potere hanno vita difficile. Le organizzazioni della società civile coordinate dall’Associazione dei professionisti sudanesi hanno avviato un braccio di ferro con la giunta, per strappare un ruolo più importante negli organi che dovranno gestire la transizione verso la democrazia: un Consiglio supremo, un governo ad interim e un’assemblea. Si va avanti a singhiozzo, anche perché le forze del cambiamento rappresentano solo una fetta minoritaria del Paese e hanno una struttura orizzontale, con leadership diffusa, che rende più difficile ogni negoziato. Ma l’accordo appare vicino: questione di giorni, o forse di ore.
Anche negli organi provvisori il ruolo delle donne dovrà essere significativo. «Bisogna introdurre le quote rosa. Nella società siamo il 50 per cento, dovrebbe essere così anche nello Stato», taglia corto Tasneem Elfatih. E mostra i bigliettini che stampa e distribuisce ai militanti per ricordare l’anima solidale prima che politica del movimento. I compagni la prendono in giro, con aperta ammirazione: "Va a filmare in prima fila, anche quando si spara, per contrastare le bugie dei media sudanesi ».
Dal suo letto all’ospedale Royal Care, mamma Igbal Aljack Ahmed tira la coperta rosso fuoco a coprire i tubi del drenaggio. «Mi sono rotta il femore nella calca quando gli agenti hanno lanciato lacrimogeni. Ma non ho sentito dolore: ho chiesto una sedia, ho continuato a camminare appoggiandomi. Poi mi hanno portato il corpo del ragazzo che mi aiutava a distribuire i pasti. L’hanno ucciso, aveva solo 15 anni, non ho mai saputo il suo nome. Sono svenuta». I parenti l’hanno rintracciata il giorno dopo. «Appena potrò camminare, tornerò in piazza, anche davanti ai fucili».
E’ la scelta anche di Iman, arrestata e trattenuta una settimana, fra bastonate e umiliazioni. E’ la scelta di Umm Hazaa, che ha visto uccidere il figlio nel 2013, nei giorni scorsi ha perso suo padre, colpito da un candelotto lacrimogeno ed è ancora in piazza con i due figli rimasti. E’ la scelta di "Jood" Tareq, che i militari hanno rapato a zero dopo il primo arresto: quando è tornata a manifestare è stata fermata di nuovo, gli uomini del regime le hanno spezzato un polso a bastonate, ma è sempre lì.
La presenza delle donne, mescolata alla tradizione sudanese e alla cultura digitale, ha creato a Khartoum una rivoluzione gentile. A Nile Street, i dimostranti continuano a chiedere un governo senza militari, gridando alle auto di passaggio: «Civile! Civile!». Poi si chinano a raccogliere i blocchetti che avevano staccato dal marciapiede per costruire barricate. Li risistemano con cura, e spazzano, perché la città è casa loro. Nel campus universitario gli oratori fanno a gara a pochi metri l’uno dall’altro, ma nemmeno il volume dei megafoni sveglia i tanti che hanno disteso una stuoia o dormono direttamente sul cemento caldo, a due passi dai banchetti di the, di noccioline, di pannocchie. Più che una rivolta, è un happening che unisce gli anziani in turbante e tunica bianca e i giovanissimi con dreadlocks e maschere di V for Vendetta. A legarli è il sogno di un Sudan migliore. Vicino a due operai che mescolano cemento e sassi per riparare il marciapiede danneggiato, un manifesto recita: «Siamo murati qui. E non ce ne andiamo».
OZAN KOSE / AFP
In piazza Sit-in di protesta dei sudanesi davanti al quartier generale della Difesa a Khartoum: chiedono ai militari di farsi da parte dopo la deposizione di Omar al Bashir. In alto a destra Tasneem Elfatih
Le attiviste Umm Hazaa con la foto del figlio assassinato e Igbal Aljack Ahmed in ospedale
Corriere 21.5.19
Il trionfo di Mussolini sulle ceneri della libertà
Nel 1922 la marcia su Roma con l’avallo del re
Poi vent’anni di dominio sfociati nel disastro
di Dino Messina
Il falso mito della «vittoria mutilata»
inventato dal poeta Gabriele d’Annunzio
procurò al fascismo notevoli consensi
Società I ceti medi emergenti diedero un contributo cruciale al movimento delle camicie nere
La marcia su Roma era stata messa a punto alla metà di ottobre 1922 dai quadrumviri Emilio De Bono, Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi. L’Italia era stata divisa in dodici zone ciascuna sotto il controllo di un ispettore fascista, mentre l’avvicinamento alla capitale sarebbe avvenuto da tre punti di raccolta: Santa Marinella, Monte Rotondo e Tivoli.
L’azione cominciò con il congresso di Napoli del 24 ottobre, che richiamò 40 mila fascisti. Benito Mussolini, davanti a quella platea di militanti in camicia nera tuonò: «Io vi dico, con tutta la solennità che il momento impone: o ci danno il potere o noi ce lo prenderemo piombando su Roma». L’attacco a Roma era stabilito per il 28, ma prudenzialmente il capo del fascismo rientrò a Milano per dare una parvenza di legalità alle sue manovre parlamentari e nello stesso tempo perché da Milano, dove l’avventura fascista era cominciata poco più di tre anni prima, era più facile raggiungere la Svizzera, se le cose si fossero messe al peggio.
La narrazione di Pierre Milza e Serge Berstein, due dei maggiori storici francesi dell’età contemporanea, nella corposa Storia del fascismo da oggi in edicola con il «Corriere della Sera» è allo stesso tempo rigorosa e accattivante. Ripercorre tutte le fasi dell’età mussoliniana — dallo scoppio della Grande Guerra all’esecuzione del Duce — in una cavalcata storica di cinquecento pagine che lascia senza respiro e risponde alle maggiori domande su uno dei fenomeni centrali del Novecento italiano ed europeo.
Chi erano innanzitutto i militanti che diedero vita al movimento prima e al Partito fascista poi? Erano espressione delle classi deboli di una società piegata dalle difficoltà del dopoguerra o costituivano l’avanguardia di ceti emergenti che volevano sostituirsi alla vecchia classe dirigente? Secondo un’inchiesta del 1921 su 151 mila aderenti, cioè la metà degli iscritti, scrivono Milza e Berstein, «si contavano 18.000 proprietari agrari e 4.000 industriali, (una proporzione inferiore a quella di tali categorie nell’intera società), 14.000 piccoli commercianti, 15.000 impiegati, 7.000 funzionari, diecimila professionisti, in una proporzione che superava di gran lunga tali categoria nel corpo sociale». Il resto era rappresentato da operai agricoli (circa 37 mila) e da operai disoccupati (23 mila). Queste categorie, osservano gli autori, rappresentavano la manovalanza nelle azioni squadristiche che terrorizzarono le città e sovvertirono gli equilibri anche nelle campagne, dando man forte ai proprietari terrieri che non intendevano rispettare gli accordi faticosamente raggiunti con le leghe dei braccianti.
Milza e Berstein sottolineano tuttavia che nell’ascesa del fascismo giocarono un ruolo fondamentale quelle che Renzo De Felice aveva definito le «classi medie emergenti».
Tornando alla marcia su Roma, le cose non si svolsero nel più lineare dei modi. Mentre nel resto del Paese, dal 27 ottobre gli squadristi si presentavano alle prefetture e ai comandi di polizia, alle centrali telefoniche e alle stazioni per prendere il controllo del situazione senza incontrare resistenza, sulla capitale confluirono soltanto 26 mila uomini, male armati e peggio organizzati. A Roma era presente un presidio militare di 28 mila uomini, molto ben equipaggiati e addestrati al comando del generale Emanuele Pugliese. Sarebbe bastato un ordine preciso dall’alto per ribaltare la situazione. Ma il re Vittorio Emanuele III, rassicurato anche dal cambiamento filomonarchico di Mussolini, si rifiutò di decretare lo stato d’assedio.
Quattro anni dopo la fine della Grande guerra, conclusasi secondo la mitologia dannunziana con una «vittoria mutilata» e dopo due anni di scontri sanguinosi, la classe dirigente dell’età liberale assisteva all’ascesa legale del sovvertitore Mussolini. Molti, anche convinti democratici, tirarono un sospiro di sollievo pensando che l’incarico di presidente del Consiglio al capo delle camicie nere, che il 30 ottobre si era presentato al Quirinale in divisa fascista, fosse il prezzo minore e provvisorio da pagare per lo scampato pericolo della rivoluzione bolscevica. Invece non andò così, come ben raccontano Milza e Berstein.
Il Fatto 21.5.19
Com’è umano il mostro
Il parco dei Mostri di Bomarzo, ideato da Pirro Ligorio nel XVI secolo
di Daniela Ranieri
Adelphi dà alle stampe in contemporanea due libri che risuonano nelle zone sensibili delle menti soggette al fascino del mostro, quell’entità composta di angelicità, terrore, stranezza, disponibilità e spiritualità tutte mischiate insieme e che rimanda, sulla sua superficie impenetrabile, la stessa immagine umana. Si tratta de Il libro dei mostri di J. Rodolfo Wilcock e di Dialettica del mostro. Inchiesta su Opicino de Canistris di Sylvain Piron.
Di Wilcock, della sua selvatichezza furente, si sa ormai quasi tutto: originario di Buenos Aires, nel 1957 si trasferì a Roma e poi nel ’60 a Velletri, da dove coltiverà il suo gusto da giostraio della parola votato all’irragionevole e al sarcastico, al perturbante e al rigoroso. I mostri di Wilcock tornano a inquietare (questa è una riedizione del volume di Adelphi del 1978) e a mostrarsi, appunto, a noi come a una specie di spietato pubblico da fiera, mentre l’autore li ostenta in una tassonomia malinconica. La Spoon River dei mostri umani degenerati e abbandonati che subiscono metamorfosi, amputazioni e accrescimenti carnali o semplicemente si allontano dal mondo, come Wilcock, per cuocersi dentro la loro bizzarria, è ipnotica: due per tutti, il meccanico Fizio Milo, “una persona così modesta che a poco a poco è scomparso quasi del tutto, soltanto è rimasta in un angolo dell’officina una specie di fosforescenza diffusa” e ora passa il tempo “a contare alla luce di sé stesso quante lenticchie ci sono nel libro di Daniele o nei Giudici, quanti elefanti ci sono nei Salmi (nessuno)”; e il musicista Sligo, di cui “qualcosa è rimasto”, “ma che cosa sia non si vede bene, tutto il suo corpo è come avvolto in una specie di schiuma rosea appiccicosa… la testolina indiscernibile nel suo cappuccio di bava”.
Sylvain Piron è un medievalista che ha dedicato anni a cercare di decifrare il materiale autografo, riportato alla luce dai bibliotecari vaticani, di un certo Opicino de Canistris, nato a Pavia nel 1296, miniatore e scriba per conto del papato a Avignone.
Opicino è un mostro meraviglioso: affetto, secondo gli studiosi di oggi, da “parafrenia fantastica”, nel corso del travagliato e schizofrenico 1300, tra indulgenze, simonia e cattività avignonese, scrisse un diario angoscioso sulla sua vita “da bestia” e disegnò tavole disturbanti e surreali, ispirate alle mappe dei cartografi genovesi, nelle quali la topografia classica si ibrida con figure antropomorfe, organi, vene, creature deformi, sangue, latte.
“Ero nella lotta della carne”, scrive Opicino, “nutrito in mezzo alle bestie” (che sono poi gli umani, dei quali aveva terrore), sopra le distese marine che solo due secoli dopo sarebbero state solcate dalle pance delle navi spagnole. Il Mediterraneo rigurgita di anatomie bizzarre; l’Africa delimita il corpo di una donna-Europa nuda, vestita di stivali che occupano il Sud Italia e la Dalmazia; il ventre insanguinato, sito in Lombardia, contiene il feto di una piccola Europa che sta per nascere per parto cesareo nel golfo di Genova; altrove, il pugno di un braccio risale l’Adriatico e assale le parti intime della donna nella laguna veneziana, e un sesso maschile in erezione eiacula sul litorale di Alicante, lungo la costa aragonese, appoggiato al collo della donna. Considerando che partoriva le sue creazioni mentre Dante moriva, la mente morbosa e surrealista di Opicino allibisce e affascina.
L’occasione di poter disporre insieme del trattato mostruoso di Wilcock e della cosmogonia deviante e feticistica di Opicino è imperdibile: un’entrata dentro due camere delle meraviglie separate dai secoli e unite dall’ossessione e da umanissima grazia. Wilcock: “Chi riesce a fare questo deve senz’altro essere bello, per quanto schifo possa fare la sua apparenza generale”. Opicino: “Chi sono io? Sulla mia schiena, il grande fiume Danubio, da Dan che significa giudizio e dubium, come tutti i giudizi di cui dubito”.
Corriere 1935-2019
Scompare a 83 anni il poeta che fu tra gli animatori del Gruppo 63 e fondatore dei mensili «Quindici» e «Alfabeta»
Nanni Balestrini, il pioniere ribelle
Furore avanguardistico
Sconfinava tra i generi creando bricolage che facevano inorridire i fautori del romanzo tradizionale e della poesia postermetica
di Paolo Di Stefano
Da sperimentatore negli anni Sessanta scriveva versi
usando un calcolatore Ibm. E raccontò l’autunno caldo
I nemici della neoavanguardia lo chiamavano «il poeta cotonato». Milanese, classe 1935, di padre lombardo e madre tedesca, fu Nanni Balestrini ad accendere i fuochi del Gruppo 63: per alcuni una colpa imperdonabile, per altri un grande merito. Era attratto dalle sperimentazioni elettroniche di Berio, Maderna e Stockhausen, e anche lui, allora giovane poeta e redattore della rivista letteraria «Il Verri», utilizzava un «calcolatore» Ibm per comporre versi: con il suo impeto forse incosciente fu Balestrini a convincere il barone siciliano Francesco Agnello a ospitare una riunione di letterati durante la rassegna internazionale della Nuova Musica. E così il 3 ottobre 1963 l’Hotel Zagarella di Solanto accolse il vivace manipolo di giovani intellettuali in bungalow che si affacciavano sul mare del piccolo golfo a ovest di Palermo. I nomi oggi sono noti: c’erano Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Renato Barilli, Enrico Filippini, Alberto Arbasino, Amelia Rosselli, Furio Colombo, Giorgio Manganelli, Francesco Leonetti... E i cinque poeti che nel 1961 avevano fatto parte dell’antologia I Novissimi: Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani e lo stesso Balestrini. Tra le presenze silenziose all’Hotel Zagarella c’era Elio Vittorini, mentre Alberto Moravia partecipò opponendosi con vigore (e divertimento) alle tesi dei «ribelli». Tra i giornalisti che seguirono la denuncia contro le Liale del ’63 (Cassola, Bassani) facevano capolino Andrea Barbato e Sandro Viola. Ne venne fuori, sull’«Espresso», una cronaca dal titolo L’avanguardia in vagone letto, tratto da una frase di Eco.
Abbandonati gli studi di economia, redattore della Bompiani (con Eco) e poi della Feltrinelli (fino al ’72, anno della morte di Giangiacomo), Balestrini è stato un precoce accanito sperimentatore, creatore e pioniere di nuove forme, combinatore di collage, indagatore sconfinante ovunque — nel teatro, nella musica, nel balletto, nelle arti visive — con assemblaggi e bricolage che facevano inorridire i pacifici fautori del romanzo tradizionale e della poesia postermetica. Il primo frutto narrativo del suo furore avanguardistico fu Tristano (Feltrinelli 1966), definito un «romanzo multiplo», che nelle intenzioni doveva essere un progetto di esemplari illimitati e diversi l’uno dall’altro, composto di materiali preesistenti, scarti e rimasugli della narrativa rosa, dei libri di geografia e di navigazione, dei saggi storico-politici. In realtà si trattò di un omaggio ironico all’archetipo del romanzo amoroso ma in forma di inventario provocatorio della merce verbale capitalistica, percepita come sostanza già un po’ deperita.
È con Vogliamo tutto (Feltrinelli 1971) che Balestrini si impone all’attenzione del pubblico (con traduzioni pressoché immediate), trattando il tema dell’autunno caldo del 1969, la mobilitazione sindacale e le rivendicazioni delle fabbriche del Nord. A colpire nel segno è il «montaggio creativo», un altro lavoro combinatorio, che questa volta si avvale della registrazione della voce al magnetofono di un operaio salernitano, Alfonso Natella, emigrato a Torino e coinvolto nella protesta: documenti prelevati direttamente dalla realtà, restituiti senza sintassi né punteggiatura, quasi come pure «impressioni» ritmiche e referenziali, la cui organizzazione per blocchi narrativi intercambiabili è spinta al limite del nonsense. Natella è l’operaio-massa vittima dell’alienazione, personaggio collettivo «ossessionato dalla ricerca di una fonte di reddito per consumare e sopravvivere», incapace però di accettare la nuova ottica produttiva. Il «rifiuto di ogni valenza soggettiva e consolatoria» è anche la cifra dei versi di Balestrini, a partire da Il sasso appeso (Scheiwiller 1961), con il suo linguaggio programmaticamente alieno ai registri alti. Agitatore instancabile per natura, gli si deve l’invenzione del mensile Quindici, e alla fine degli Anni 70 la fondazione di un altro mensile, Alfabeta: nella cui redazione raccolse gli amici di sempre, la studiosa Maria Corti, il poeta Antonio Porta, Umberto Eco e Pier Aldo Rovatti, gli scrittori Francesco Leonetti, Mario Spinella e Paolo Volponi, il grafico Gianni Sassi. Un gruppo formidabile, da cui nacque quella che Romano Luperini ha definito «l’ultima rivista del Novecento italiano, l’ultimo nucleo culturale che tenne acceso il dibattito letterario, politico e culturale»: uno spazio che riuniva varie anime, dai critici legati al Pci alle espressioni radicali extraparlamentari, dall’accademia strutturalista agli eredi della neoavanguardia, dal pensiero debole al postmoderno internazionale.
Intanto, coinvolto nell’ondata di arresti che dal 7 aprile 1979 coinvolsero per associazione sovversiva e banda armata molti esponenti di Autonomia operaia, Balestrini evitò il carcere rifugiandosi in Francia fino all’84, quando fu assolto e potè tornare in Italia. Già nel 1976, il suo «sismografo» ipersensibile aveva registrato i sommovimenti e le paure degli anni di piombo ne La violenza illustrata (Einaudi), un nuovo libero montaggio-laboratorio, questa volta fatto di deposizioni processuali, dissertazioni, cronache di guerriglia.
Guardando alla sua energia proteiforme, anche i suoi (numerosi) detrattori dovranno riconoscere la strenua fedeltà di Balestrini a un’idea di letteratura contaminata, «sporca», a suo modo testimonianza civile dei luoghi più caldi della contemporaneità (per esempio le curve da stadio ne I furiosi, Bompiani 1994 ). A testimonianza della sua tenacia nella lotta, ancora nel 2010 tornò nell’arena della più stretta militanza rilanciando una nuova serie di Alfabeta con giovani compagni di strada come Andrea Cortellessa, Maria Teresa Carbone e Andrea Inglese. Cercava il dialogo con le generazioni più giovani e lo ottenne.
Il Fatto 21.5.19
Balestrini. Addio al Poeta dell’Avanguardia
Con Eco, Arbasino e altri era stato fondatore e voce di uno dei movimenti letterari più creativi degli anni Sessanta e Settanta: il suo “Vogliamo tutto” è stato il manifesto di una intera generazione
di Furio Colombo
E adesso? Nanni Balestrini, ventenne allora, ottantenne nel giorno della chiusura, ha sempre provveduto alla esistenza, alla convivenza, allo stare e ritornare insieme, al rilanciare la fune cui aggrapparsi per continuare un legame che avrebbe dovuto evaporare negli anni e che è stato chiamato Gruppo 63.
È vero, si è disperso, ma per un ritrovarsi continuo, in un intrico di rapporti che – dalla citazione alla collaborazione professionale -, finisce solo, di volta in volta, per ragioni di destino, mai per noia o caduta di interesse. Qui sto usando la parola “destino” nel senso spagnolo di destinazione, perché uno dei più importanti eventi del Gruppo 63 ha avuto luogo a Barcellona (nel 1966), complici un gruppo di architetti, una attivissima casa editrice e alcuni pittori catalani già celebri. Erano gli ultimi giorni del franchismo, ma la Catalogna si considerava libera, e Balestrini non ha avuto alcuna esitazione nel convocare la nostra riunione in Spagna (dove il Gruppo aveva già la sua filiale).
Infatti ignorare i confini e non tener conto “dei nostri valori tradizionali” era già lo spirito profondo del gruppo che Balestrini aveva, allo stesso tempo, portato nel gruppo e assorbito dal gruppo. Esempi: da un lato Balestrini aveva agganciato la piccola (e poi molto cresciuta) casa editrice Wagenbach di Berlino, e gli scrittori del Gruppo tedesco 47. Dall’altra, con Arbasino autore della Gita a Chiasso (il messaggio era: “Andate almeno al confine svizzero per intravedere il resto del mondo, e sapere che c’è vita fuori dai sacri confini della patria”), aveva lanciato il manifesto della nuova aggregazione di poeti, scrittori, filosofi, musicisti, pittori, scienziati, liberi da ogni superstizione sovranista (la parola non esisteva, ma c’erano già i post-fascisti).
Balestrini non aveva (e dunque il Gruppo 63) e non ha mai avuto agganci politici nel senso italiano della espressione. La destra aveva trovato nel Gruppo 63 i suoi nemici (contro la tradizione, scherziamo?). Il centro non si fidava e non si sarebbe neppure accostato. Craxi era celebre per il suo rude modo di rivolgersi alla cultura con parole come “intellettuali dei miei stivali”. Il Pci non trovava l’oggetto “avanguardia” (parola comunque sospetta) nei suoi scaffali, neppure sotto la voce “sperimentalismo” (che avrebbe potuto essere un escamotage del capitalismo in cerca di infiltrazioni tra i giovani), e non apprezzava humour e satira che il gruppo spargeva intorno, anche per avere spazio e respiro rispetto all’assedio perdurante della letteratura del sentimento.
Nasce Quindici, il giornale del gruppo, dal disegno e formato unico (nel senso di enorme ed elegantissimo), proposto e realizzato (la produzione), ovviamente, da Balestrini, scritto dal gruppo, cominciando con Umberto Eco, atteso dai grandi settimanali per cogliere titoli e argomenti. Qui la politica si accosta in un altro modo, in forma di rivoluzione. Si tratta di decidere se e a chi dare la parola, nel mondo giovane che esplode al di fuori del gruppo, ma quasi contiguo. Il Gruppo 63 dice no, perché scarta e respinge la violenza. Interrompe le pubblicazioni. Comincia una stagione difficile, afona. La festosa creatività che era stata il segno del gruppo diventa un lavorare più intenso e isolato.
Balestrini scrive Vogliamo tutto, forse il libro simbolo di quegli anni (che sono anche gli “anni di piombo”), la più attendibile interpretazione di quello che sta accadendo, che non chiede adesione ma fornisce il più straordinario murale di un’epoca. Eco pubblica Il nome della Rosa con il suo immenso, leggendario successo. E qui leggereste, in ogni altra storia di gruppi culturali, che il legame si scioglie e ognuno torna alla suo unico mondo. Ma non è stato così. Nel 2016 a Milano, c’erano tutti alla mostra di Balestrini (figure ottenute da un collage di parole) a cominciare da Eco.
Poche sere fa, da Otello, a Roma, Angelo Guglielmi (il critico divenuto manager), Giovanni Battista Zorzoli (lo scienziato divenuto letterato) e Balestrini erano insieme a cena, in un incontro convocato da Balestrini per un nuovo numero della rivista Alfabeta.
il manifesto 21.5.19
Il rigore della speranza
Vogliamo tutto. Nanni Balestrini scrisse anche «L’orda d’oro»: è il lavoro che portò a termine insieme a Primo Moroni nell’anniversario del ’68, vent’anni dopo
di Sergio Bologna
Se qualcuno di noi, sociologo, storico orale, giornalista, avesse nel 1969, in pieno autunno caldo, intervistato Alfonso Natella noi avremmo oggi in archivio una delle tantissime testimonianze conservate come un bene prezioso ma che pochi leggono. Consegnata, quella testimonianza, a uno scrittore, a un poeta come Nanni Balestrini, è diventata un simbolo inestinguibile dei valori del ’68 operaio e non solo. La potenza del linguaggio letterario si esprime in Vogliamo tutto con quella valenza universale che riesce a condensare storia e memoria, utopia e iperrealismo, calcolo e speranza.
Sì, calcolo anche. Perché una lotta operaia dove sono in gioco interessi grossi, dove ciascuno si gioca il posto di lavoro, dove, se finisce bene, si cambia la storia d’Italia e il rapporto tra istituzioni, da dove può nascere addirittura un nuovo modo di produrre l’automobile – una cosa così né s’improvvisa né può riuscire senza che una serie complessa d’intelligenze, di conoscenze, una massa pesante d’esperienze vengano messe assieme, trasformate in sentire collettivo, codificate in parole d’ordine… e si decida di cominciare.
Di quegli anni, di quelle lotte, noi dovremmo proprio ripensare l’idea di spontaneità e dovremmo combattere lo stereotipo dell’operaio meridionale neoassunto che si ribella «perché è incazzato». Vogliamo tutto è la voce di un sapere antico che non ha difficoltà a decodificare i meccanismi delle moderne tecno-strutture. Altro che mera incazzatura, da lì sono nate le azioni e le riflessioni che hanno trasformato la medicina del lavoro, il modo d’insegnare, di fare informazione e anche, forse, il modo di scrivere. Balestrini ha avuto il grande merito di capire che se c’era una continuità nell’esperienza di avanguardia letteraria, quella che lo aveva visto tra gli iniziatori del Gruppo 63, la si poteva trovare solo nel rapporto coi movimenti del ‘68/’69. Aveva capito che fare cultura era un’altra cosa dopo il ’68.
E qui si potrebbe riaprire il capitolo del rapporto tra intelletti e movimenti sociali con intenzioni rivoluzionarie.
Un tema fin troppe volte esplorato ma che, riconsiderato alla luce dell’esperienza umana di Nanni, può presentare ancora qualche spunto stimolante. In che senso? A mio avviso per capirlo occorre prendere in mano dopo Vogliamo tutto il lavoro che Balestrini porta a termine assieme a Primo Moroni, L’orda d’oro. Lo scrivono in una situazione in cui noi ci siamo trovati l’anno scorso: l’anniversario del ’68. Come in Vogliamo tutto Balestrini s’era scelto quale interlocutore una persona che meglio poteva rappresentare l’autunno operaio, così nel 1988 si sceglie come interlocutore la persona che meglio poteva interpretare lo spirito del movimento del 1977: Primo Moroni. Il libro va a ruba, è introvabile, lo prende in mano Sergio Bianchi, lo arricchisce di contributi e lo stampa con Feltrinelli nel 1997, una terza edizione uscirà nel 2003 e l’anno scorso, 2018, lo abbiamo ancora riletto e usato nelle commemorazioni del cinquantenario. Non è usuale che un libro di storia dopo 30 anni sia ancora rivelatore.
Ecco, bastano queste due opere per consentirci di fare il paragone con un altro che ha caratterizzato la sua vita di scrittore, saggista, poeta, sulla base di un rapporto coi movimenti: Franco Fortini. Due approcci più diversi al rapporto tra cultura, scrittura e movimenti è difficile immaginarli.
Franco ha interpretato il suo ruolo come quello di un profeta, di un censore, come quello di una guida che continua a richiamare al retto cammino una moltitudine che procede un po’ disordinata. La sua voce quindi si leva sopra il movimento, si deve sentire forte. Aspro dev’essere il suo tono che richiama i confusionari al rigore, alla coerenza e i sovraeccitati alla misura. La voce di Nanni invece non si sente, si confonde con quelle della moltitudine, una voce che non ostenta saggezza ma contiene tanto sapere tacito. Non c’è il minimo protagonismo nei suoi rapporti con il movimento mentre, credo – a partire da me stesso – di protagonismo e di narcisismo è infestata la dimora di quelli che vengono definiti «intellettuali».
E magari alcuni ci cascano e pensano davvero di esserlo, mentre sono invece, ahimé, inutili rompiscatole.
Franco Fortini e Nanni Balestrini si sono mossi su due dimensioni diverse, hanno interpretato due ruoli ben distinti ma ambedue indispensabili: il ruolo del battistrada (oggi diremmo della leadership) e quello che Primo Moroni definiva «il ruolo della struttura di servizio».
il manifesto 21.5.19
Nel mio viaggio con Nanni
La ricerca del linguaggio la poesia e la pratica come irripetibile luogo di comunanza e parola che si rigenera nel «noi»
di Giairo Daghini
E noi facciamone un’altra, era un leit motiv di Nanni quello di ricominciare sempre da capo tornando al luogo da dove si è partiti. Come la rivoluzione. Come il linguaggio. Ma per farne un altro. Il linguaggio senza fine del divenire. Ho compiuto molti viaggi con Nanni, sempre scavalcando delle frontiere. Il confine è uno spazio che vale come separazione, limitazione o come possibilità di connessione e attraversamento. Lui lo ha sempre pensato e scritto come spazio di apertura e di sperimentazione. Il confine liberato dagli aculei dei reticolati per la creazione di nuovi territori. O come la forma del linguaggio liberata dalle paludi della sintassi. Nella sua opera grafica, nei suoi découpages geografici saltano i confini chiusi e si ridisegnano nuovi ambienti del vivente.
Ho iniziato quel viaggio con Nanni molti anni fa, nel 1960 quando con «Linguaggio e opposizione» egli opponeva al comune linguaggio convenzionale, il linguaggio magmatico del parlato fatto di ritmi inconsueti , di grovigli, di immagini spropositate come il luogo di straordinarie apparizioni di fatti e pensieri. «Di qui – diceva – si fa strada l’idea di una poesia che nasca e viva diversamente. Una poesia più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in linguaggio, espressione confusa e ribollente ancora, che porta su di sé i segni del distacco dallo stato mentale, della fusione non completamente avvenuta con lo stato verbale».
L’ascolto di quelle emozioni, di quel linguaggio era anche la linea di comportamento di noi che in quegli anni facevamo intervento ai cancelli delle fabbriche dove era arrivata una nuova generazione di lavoratori. Il nostro intervento di antagonismo a quel lavoro, a quello sfruttamento si incontrava sul suo fare poesia come opposizione al dogma e al conformisno che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi. Con la sua poesia, con la musica di Demetrio Stratos, con il nuovo linguaggio filosofico del marxismo e della fenomenologia ho praticato il viaggio di quegli anni.
il manifesto 21.5.19
L’allegria che non demorde
Vogliamo tutto. Il ricordo che ho dei suoi collage anni settanta è di fogli un po’ spenti, un po’ grigiastri, era quello il suo bello, non ti pare? Perché l’immagine era grigia, e la vita a colori.
di Franco Berardi Bifo
Pensi che Balestrini sia a colori o in bianco e nero? Pensi che Balestrini sia luccicante o un po’ color seppia? Pensi che Balestrini sia liscio o zigrinato, che sia polveroso o ben levigato?
Queste domande trovano (ça va de soi) risposte contraddittorie nei settori più avanzati della critica, quelli più arretrati non lo so perché non li frequento. Mica posso essere dappertutto.
All’ingresso della galleria Mudima che si trova in via Tadino nei fumi serali della metropoli sgonfia c’è una scritta enorme attaccata sulle vetrine che dice VOGLIAMO TUTTO.
Ma dovunque tu vada e chiunque incontri nelle città tristanzuole di questo paese in cui tutti tranne Balestrini sono vecchi, ti fa pensare che non vogliamo niente, oppure vogliamo qualcosa che comunque non ce la danno e non sappiamo come fare a prendercela per cui? Per cui rinunciamo che ci vuoi fare lasciamo perdere. Lascia che vadano all’Esselunga che là si divertono. Vogliamo tutto, ma tutto cosa? Be’ per esempio l’allegria, la svagatezza, quattro giorni di vacanza, una torta con l’hashish, un cappello con le piume di struzzo, uno struzzo, un calcestruzzo.
Niente invece avremo niente, niente avrete, ecco qua quello che ho sentito dire in tutti i luoghi di questa sputacchiosa metropoli. Rassegnamoci diceva il ragazzo alla ragazza, ma come dico io siete così giovani venite a via Tadino dove c’è la mostra di Balestrini che ci divertiamo e poi vediamo cosa si può fare. Ma loro no, loro erano veramente un po’ timidi forse imbarazzati come non capirli, potrei essere suo nonno. Balestrini potrebbe essere il bisnonno. Che ce li porto a fare in via Tadino questi ragazzi. Sulla vetrina della galleria Mudima c’è scritto dunque Vogliamo tutto a caratteri cubitali.
Dentro ci sono le opere, ma sono cambiate, per questo mi chiedevo scusate secondo voi Balestrini è in colori o in bianco e nero? E vi chiedevo è luccicante o color seppia? Il ricordo che ho dei suoi collage anni settanta è di fogli un po’ spenti, un po’ grigiastri, era quello il suo bello, non ti pare?
Perché l’immagine era grigia, e la vita a colori.
Non lo schermo a colori e la vita così grigia.
Ora con l’ink jet e la stampante su tela ingranditi di molte volte e sparati con nettezza su fondi verniciati e abbacinanti ci parla di distanze abissali.
Dentro i muri bianchi e le luci abbaglianti e un nugolo di ottantenni allegri.
Sì l’allegria l’abbiamo conosciuta ed essa torna. Come quel pomeriggio quando lo conobbi era il 1970 in via Solferino nella cucina di Oreste e di Lucia e aveva un DS Citroen e andammo a Roma nella sua casa piena di divani un po’ sfondati. E l’allegria di allora non demorde.
Balestrini è allegro, questa è la lezione che imparate se state ad ascoltarla.
È allegro quando danza con la signorina Richmond è allegro quando è triste e dice: siamo come dei personaggi di Stendhal. Anche Stendhal era allegro, come! non lo ricordi? Balestrini è l’allegria che non demorde.
(La mostra a cui si fa riferimento era alla Fondazione Mudima di Milano, «Ottobre rosso», 25 ottobre-10 novembre 2017)
Repubblica 21.5.19
Neoavanguardia
Balestrini addio al mite rivoluzionario
Lo scrittore e poeta è morto a 84 anni. È stato uno dei fondatori del Gruppo 63 e ha sostenuto le contestazioni del ’68. Fu accusato di terrorismo, ma poi fu assolto
di Paolo Mauri
Improvvisamente la notizia della scomparsa di Nanni Balestrini, poeta, artista visivo, scrittore e organizzatore culturale, classe 1935, mi ha riportato alla memoria un antico articolo di Goffredo Parise che era intitolato "Balestrini ladro di stile", dove ladro stava a significare il riuso che Balestrini faceva nelle sue opere degli scritti altrui o più in generale del già scritto (o già detto). E, ancora sul filo della memoria, vedo il titolo-slogan del suo romanzo Vogliamo tutto che comparve nel 1971, ed era maturato in pieno autunno caldo. «Vogliamo tutto meno Balestrini », suonava una irridente variazione.
Ma Balestrini in mezzo alle contestazioni era cresciuto.
Si era allora da poco conclusa l’avventura di Quindici , la rivista del Gruppo 63 di cui era direttore Alfredo Giuliani. La redazione era in casa di Balestrini, a Roma, in via dei Banchi Vecchi 58. Praticamente la neoavanguardia aveva chiuso i suoi lavori ufficiali due anni prima con la riunione di Fano. Quindici era già una propaggine fortemente intenzionata a discutere anche di lotte studentesche e sociali e non solo di letteratura: di lì le discussioni interne e poi la chiusura. Nanni Balestrini era stato assunto da Feltrinelli molti anni prima come redattore della rivista di Luciano Anceschi, Il Verri , e non è un caso che di riviste si sia sempre occupato fino alla riedizione on-line di Alfabeta , tutt’ora in corso.
Mi raccontò Maria Corti, tra il divertito e l’ammirato, che fu proprio durante una riunione di redazione della prima Alfabeta (1979) che arrivò la notizia della fuga in Francia di Balestrini: lui aveva semplicemente varcato il confine su un paio di sci. Se fosse rimasto in Italia sarebbe stato molto probabilmente arrestato. Il giudice Pietro Calogero, che aveva elaborato un suo teorema allora celebre, era sulle tracce degli intellettuali di sinistra cui attribuiva responsabilità dirette, dunque anche penali, nell’organizzazione dell’eversione armata, quella delle Brigate Rosse e di altre bande armate. L’accusa (siamo a ridosso del caso Moro) era di omicidio plurimo e non solo. Balestrini rimase in Francia cinque anni. L’unico addebito, scrisse poi, che si poteva muovere contro di lui era dato dal fatto che il suo numero di telefono figurava nell’agenda di Toni Negri. Non era un complotto: i due erano semplicemente amici. E infatti al termine del processo Balestrini venne assolto.
Rivoluzionario mite, Nanni Balestrini complottava invece molto nel campo della scrittura e basterebbe rileggere i titoli di certe sue raccolte o imprese artistico-poetiche: La violenza illustrata (uscirà il prossimo luglio, da Bollati Boringhieri,
La nuova violenza illustrata ), Sfinimondo , I furiosi , Caosmogonia . Fin dagli anni Sessanta realizza con un calcolatore Ibm Tape Mark I una poesia che verrà pubblicata nell’Almanacco Bompiani del 1961. Presente nella storica antologia dei Novissimi insieme a Sanguineti, Pagliarani, Porta e Giuliani, che di quell’antologia era stato curatore e teorico, Balestrini lavora contro la letteratura tradizionale non per un nuovo ordine, ma forse per un nuovo Caos, privilegiando la tecnologia che gli permette di variare lo stesso testo in maniera praticamente infinita. Possiedo anch’io una copia unica di Tristano , il romanzo multiplo ottenuto nel 2007 variando il testo della prima edizione che è del 1966. «L’operazione», scrive Balestrini nella prefazione (l’editore, benemerito per Balestrini ,è DeriveApprodi) «mette in crisi il dogma della versione originale, unica e definitiva». Siamo al dopo Gutenberg, nell’Era Internet. Nell’introdurre Tristano , Umberto Eco, con un po’ di perfidia, elenca i molti che ben prima di Balestrini si sono soffermati sul gioco combinatorio. «Leibniz», scrive Eco, «si pone il problema che aveva già affascinato Mersenne: qual sia il numero massimo di enunciati, veri, falsi, e persino insensati, che si possono formulare usando un alfabeto finito… ». Ma come si deve comportare il lettore di Tristano? Lasciamo ancora la parola a Eco: «Io vedo… tre possibilità: 1) procurarsene una sola copia e leggerla come se si trattasse di un testo unico, irripetibile e immodificabile; 2) assicurarsene molte copie e divertirsi a seguire gli esiti inattesi della combinatoria; 3) scegliere uno solo tra i tanti testi a disposizione, ritenendo che sia il più bello».
Una volta Angelo Guglielmi, credo proprio su Quindici, scrisse che il Gruppo 63 aveva avuto in campo culturale lo stesso valore o ruolo della Resistenza in campo storico e politico. Il parallelo era ed è indubbiamente esagerato, ma la neoavanguardia è stata un importante momento di riflessione sulla ( e contro) la Letteratura.
Poi le ragioni del mercato e la dispersione del discorso critico hanno cancellato un po’ tutto, come fosse stato scritto sulla sabbia. Per questo gli scrittori come Balestrini dovrebbero essere difesi e curati come si fa con i Panda. Via via che scompaiono ci si accorge che avevano incarnato qualcosa di irripetibile, comunque un’avventura rischiosa dell’intelligenza.
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