sabato 15 giugno 2019

il manifesto 15.6.19
La fine del secolo socialdemocratico
Ritratti. A dieci anni dalla morte, una riflessione sulla figura del sociologo liberale Ralf Dahrendorf che piaceva tanto a Occhetto. La fortuna del pensatore anglo-tedesco presso il gruppo dirigente della Bolognina resta un fenomeno legato alla congiuntura dell’89
di Jacopo Rosatelli


In una scena di Mario, Maria e Mario, film che Ettore Scola dedica ai travagli umani e politici dei militanti del Pci di fronte alla svolta della Bolognina, appare un dettaglio rivelatore: uno dei personaggi tiene sul comodino Il conflitto sociale della modernità, libro di Ralf Dahrendorf uscito presso Laterza (suo editore italiano) in quel fatidico ’89.
Scola non aveva scelto a caso: se c’è un intellettuale che accompagna da vicino e ispira i fautori dello scioglimento e trasformazione del più grande partito comunista d’Occidente, è proprio il sociologo liberale, direttore della London School of Economics nel decennio ’74-’84, poi Warden a Oxford, noto in Italia soprattutto attraverso i suoi editoriali su Repubblica. Sarà lui stesso, nei Diari europei (1996), a definire «di simpatia e stretta familiarità» i suoi rapporti con il neonato Pds.
In Dahrendorf, di cui ricorrono il 17 giugno i dieci anni dalla scomparsa, il gruppo dirigente guidato da Achille Occhetto ritiene di trovare gli strumenti teorici per definire il profilo del nuovo «moderno partito riformatore»: dalla classe operaia si passa alla «cittadinanza», dalle contraddizioni economiche alla grammatica dei diritti, dall’alternativa di sistema alla scoperta della democrazia dell’alternanza. Ma non solo.
IL PENSATORE nato nel ’29 nella rossa Amburgo, a fine anni Ottanta cittadino britannico e successivamente membro della camera dei Lord, serve ai fautori della svolta soprattutto perché proclama – proprio lui, figlio di un deputato della Spd perseguitato dal nazismo – la «fine del secolo socialdemocratico»: le principali tradizioni del movimento operaio sono entrambe arrivate al capolinea. E il Pds si propone come un novum che vuole spingersi oltre le identità del passato: non si lascia il comunismo per ricucire lo strappo di Livorno e «ritornare» socialisti, come avrebbero voluto i miglioristi di Giorgio Napolitano, ma per approdare su inesplorati (e fantomatici) lidi di «sinistra democratica».
Si farebbe torto a Dahrendorf, però, se si imputassero a lui le responsabilità della deriva che il Pds e le sue successive trasformazioni avrebbero conosciuto nei tre decenni successivi. La fortuna del sociologo anglo-tedesco presso il gruppo dirigente della Bolognina resta un fenomeno legato alla congiuntura dell’Ottantanove, non prosegue oltre. La disponibilità all’ascolto del suo punto di vista viene meno quando, dalla metà degli anni Novanta, il Pds di Massimo D’Alema assume altri numi tutelari, come il cantore della «terza via» Anthony Giddens, intellettuale di riferimento del nuovo corso laburista di Tony Blair e della sua variante tedesca, quella di Gerhard Schröder. Dahrendorf disturba le rappresentazioni apologetiche delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, dell’integrazione europea, del «riformismo» di quello che fu celebrato come «Ulivo mondiale». Mentre nelle due sponde dell’Atlantico la parola d’ordine è liberalizzare, proprio un autentico liberale come Dahrendorf mette in guardia sugli effetti collaterali della sbornia pseudo-innovatrice dei «socialdemocratici».
NEL DECENNIO da Quadrare il cerchio (’95) a La società riaperta (2005), avverte sui rischi connessi all’emergere della nuova «classe globale» che governa l’economia dei flussi, una classe per la quale «è naturale tentare di sfuggire alle istituzioni tradizionali della democrazia», ancorate ai luoghi. Un potere globale che non preoccupa Blair e compagni, che, al contrario, prosperano grazie ai rapporti che con esso intrattengono, infischiandone delle lacerazioni nel tessuto sociale e delle nuove esclusioni. Per affrontare le quali i laburisti della terza via brevettano il workfare (tuttora assai in voga, vedi il cosiddetto reddito di cittadinanza), condizionando l’aiuto a prestazioni «socialmente utili»: una bestemmia per Dahrendorf, perché «l’obbligo del lavoro è, come tutti gli obblighi, un passo verso la non-libertà». Il secondo punto dolente, la crisi delle istituzioni democratiche, alimentata da partiti ormai macchine elettorali al servizio dei leader, prigionieri di un «presentismo» senza orizzonte ideale. E poi l’Unione europea, guardata da Dahrendorf con gli occhi dell’«europeista scettico» (da non confondere con l’euroscettico), «che è allarmato dalla frattura esistente fra le intenzioni e la realtà»: l’edificio comunitario soffre di grave deficit democratico, «il ’nucleo duro’ spaccia i propri interessi per quelli europei», l’economia senza politica (e politiche sociali) rischia di far crollare tutto.
NULLA DI RIVOLUZIONARIO, certo, forse persino «insipido» come ebbe a dire di lui Mario Tronti. Eppure, se nei due decenni della globalizzazione triumphans la sinistra «riformista» italiana (ed europea) avesse continuato a leggere Dahrendorf preferendolo a Giddens, avrebbe forse combinato qualche guaio in meno.
Iinvece di aderireE a narrazioni irenistiche, si sarebbe accorta che persino assumendo un punto di vista liberale si può riconoscere il conflitto sociale come potenziale di progresso di fronte alla «minaccia per la libertà» rappresentata dalla diseguaglianza «insopportabile», «quando i privilegiati possono negare i diritti di partecipazione degli svantaggiati» (Libertà attiva, 2003).
Di fronte alla quale, già a inizio Duemila, il sociologo individua un solo rimedio: «un livello di base delle condizioni di vita, forse un reddito minimo garantito».

Repubblica 159.19
Quei leader di sinistra che hanno dimenticato la fatica dei lavoratori
Milioni di voti perduti anche per la scarsa credibilità dei dirigenti Cofferati: torno alla Pirelli. Poi cambia idea E Chiamparino sceglie Marchionne
di Gad Lerner


«Siamo nati in un mondo senza diritti e tutele: molti di noi non sanno cosa sono». Lo raccontava ieri su Repubblica a Marco Patucchi un ventisettenne meccanico stampista della Omron di Frosinone, somministrato - cioè affittato - da Adecco alla multinazionale per cui lavora. Per la prima volta quel giovane ha partecipato a uno sciopero generale dei metalmeccanici, tutelato da un contratto a tempo indeterminato ottenuto dopo anni di precariato. Forse è un’avvisaglia. La sensazione che la misura è colma, e che il futuro dell’industria italiana non si trova affatto in buone mani, sta spingendo i sindacati a ritrovare l’unità perduta. E chi sciopera non prova certo imbarazzo a farlo contro un governo che pure aveva votato. Magari anche solo per marcare la sua distanza siderale da una sinistra ai suoi occhi sfregiata dal marchio d’infamia del privilegio.
La sinistra senza operai è un controsenso. Storico ed esistenziale. La ragione d’essere originaria della sinistra consisteva nel rimettere in discussione il diritto assoluto alla proprietà privata, in nome e per conto di chi ne era escluso. Da quando i dirigenti della sinistra hanno smesso di minacciare il sacro dogma della proprietà privata, allo scopo di rassicurare i detentori della medesima, nella convinzione che averli contro avrebbe frenato la crescita economica e impedito loro di accedere al governo dello Stato, ha avuto inizio la loro separazione dalle classi subalterne. Per consolarsi di questo divorzio, o per evitare di farci i conti, alcuni leader della sinistra nel passato recente erano giunti a sostenere che gli operai non esistono più. Ma naturalmente è falso: cambiano l’organizzazione delle aziende e cambiano le caratteristiche del lavoro sotto padrone. L’epoca è semmai quella della proletarizzazione diffusa di nuovi soggetti, non certo della scomparsa del lavoro alienato, tuttora afflitto spesso anche da fatica fisica.
La destra che si erge a paladina delle vittime di retrocessione sociale, purché dotate di appartenenza nazionale su base etnica e religiosa, rimane altresì custode gelosa delle gerarchie e, pur agitando vaghe promesse di vendetta contro i parassiti, mai e poi mai farebbe sua un’azione incisiva a danno dei ricchi.
E’ spiacevole farci i conti, ma i milioni di voti popolari perduti dalla sinistra hanno molto a che fare con un’incrinatura di credibilità dei suoi dirigenti. Delle loro biografie. Non a caso la propaganda della destra punta il dito contro l’imborghesimento della sinistra. Non solo in Italia. Prendiamo il caso dei due più grandi dirigenti di origine operaia che sul finire del secolo scorso hanno guidato vittoriose rivoluzioni sociali e di libertà: Inàcio Lula da Silva in Brasile, e Lech Walesa in Polonia. Per demolirne il mito, si sono scatenate campagne di denigrazione personale, accusandoli di avere lucrato sul proprio successo rinnegando le loro origini. E’ l’offesa più grave, perché i proletari hanno bisogno di riconoscersi in chi li guida, a partire dal suo stile di vita, per mantenere la certezza che continuerà ad agire nel loro interesse, nella buona e nella cattiva sorte.
E in Italia? Nel lontano 2002 un segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, sul finire del suo mandato fece un annuncio clamoroso ed esemplare: torno a lavorare nella mia fabbrica, la Pirelli. Già da un ventennio il mondo del lavoro dipendente viveva una retromarcia sia nel potere d’acquisto dei salari, sia nelle tutele sindacali. Quel gesto da novello Coriolano sembrava indicare, col proprio sacrificio personale, i tempi lunghi necessari per la rivincita operaia. Cofferati era dirigente amatissimo, da molti indicato come la figura più adatta per un progetto di rifondazione della sinistra. Ma ben presto tornò sui suoi passi, accettando la candidatura a sindaco di Bologna. E l’incantesimo si spezzò. Come se non vi fosse più spazio in Italia per il sogno di un leader operaio. Al contrario, fu proprio in quegli stessi anni che l’erede più riconosciuto della tradizione del Pci di Berlinguer, Massimo D’Alema, per risultare candidato credibile alla guida del Paese, ritenne opportuno "aggiornare" la sua immagine di umile funzionario di partito. Tale innovazione gli costò sgradevoli insinuazioni, probabilmente false, sul costo esagerato delle sue scarpe. Ma fu proprio lui, invece, a compiacersi della (multi)proprietà di una barca a vela, status symbol evidentemente ritenuto funzionale ai ruoli pubblici cui aspirava.
Si badi bene. Anche Enrico Berlinguer amava veleggiare, e di lui si conserva una bellissima fotografia al timone di una barca (non sua) nel mare di Sardegna. Ma nessuno avrebbe mai potuto appiccicargliela addosso con finalità ironiche. Semmai la vera foto-simbolo di Berlinguer rimane quella della sua dolorosa condivisione di una sconfitta operaia: il comizio ai cancelli di Mirafiori, nell’autunno 1980, quando ormai si profilava inevitabile l’espulsione dalla Fiat di decine di migliaia di lavoratori. Alle Botteghe Oscure, non pochi dirigenti del Pci disapprovarono il segretario per quel comizio, in cui per giunta evocò un’azione di lotta estrema come l’occupazione della fabbrica. Ma fu proprio un istinto di sinistra a suggerire a Berlinguer che vi sono circostanze in cui, a torto o a ragione, devi saper dire innanzitutto tu da che parte stai.
Avete presente, trent’anni dopo, Matteo Renzi che proclama: «Io sto con Marchionne senza se e senza ma»? Così come il sindaco torinese Chiamparino, tanto aspro e polemico con Landini e Airaudo della Fiom, quanto compiaciuto di raccontare ai giornalisti le sue partite a scopone notturne con Marchionne?
Mi scuso se ricorro a esempi personali per spiegare un fenomeno mai riducibile ai sentimenti e alle convenienze dei singoli (peraltro, l’ultimo a poter lanciare accuse moralistiche sarebbe il sottoscritto). La recisione dei legami storici con il mondo del lavoro, che in precedenza i partiti di sinistra curavano fino al punto di garantire l’ingresso in Parlamento di quadri operai provenienti da tutte le principali aziende del Paese - di modo che la controparte imprenditoriale tenesse ben presente con quale forza doveva fare i conti - precede e giustifica il cambiamento di stili di vita dei dirigenti. Non solo degli ex comunisti, ma anche dei socialisti. Forse non è un caso se più sobri si mantennero i cattolici, detentori di un altro credo messianico.
Comunisti e socialisti, invece, esaurita la fede, marxista e messianica al tempo stesso, nella Classe operaia con la C maiuscola, levatrice del rovesciamento dei rapporti di produzione, oppure virtuosamente disposta ai sacrifici caricandosi sulle spalle l’interesse nazionale, non potevano che trovare molto meno interessanti i destini individuali degli operai in carne ed ossa. Fu allora che gli operai, il popolo delle formiche, di sconfitta in sconfitta, cominciarono a sentirsi soli.
Gli intellettuali non avevano più l’obbligo di rendere omaggio alla centralità operaia; e passava in second’ordine perfino quel rispetto per il lavoro manuale, i mestieri e le professionalità e la fatica fisica, che avevano fatto scrivere pagine memorabili a Italo Calvino e Primo Levi, fra tanti altri.
Una vera e propria ansia di legittimazione assale poi i gruppi dirigenti della sinistra allorquando si fa concreta la prospettiva di accedere finalmente al governo nazionale, dopo le tante ottime prove fornite nell’amministrazione delle città e delle regioni. Bisognava rassicurare i soliti noti vecchi padroni del vapore. Già lo si sapeva che gli ex comunisti non mangiavano i bambini. Di più, ora bisognava mostrare loro, nei convegni e negli incontri riservati, che la modernizzazione proposta dagli economisti di sinistra non avrebbe insidiato le posizioni dominanti cementate nei decenni precedenti, soprattutto intorno a Mediobanca.
Oggi viene facile orchestrare una danza macabra intorno alla sinistra senza operai, con tanti iscritti Cgil che s’illudono di trovare rifugio nella trincea pseudo-nazionalista del "prima gli italiani", e con lo smottamento in zona leghista di Sesto San Giovanni, Monfalcone, Pistoia, Piombino, Ferrara. Capita perfino che a scoprire l’acqua calda - l’infatuazione lib-lab dietro a Blair, la ritirata dalle periferie, i diritti umani e i diritti civili anteposti alla questione salariale - provvedano i medesimi aedi e rapsodi che diffusero con zelo il verbo di quella terza via rampante. Più utile sarebbe fare un passo di lato, riconoscendo il peso delle nostre fortunate biografie, di gente bene inserita nelle stagioni in cui è stata al potere la sinistra senza operai.
Anche mezzo secolo fa, nel 1969, cominciarono a scioperare nuovi operai del tutto ignari di diritti e tutele, come i giovani precari odierni. Venne l’autunno caldo che inaugurò un ciclo vittorioso di conquiste sociali e di redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro. La storia suggerisce che, dove e quando meno te l’aspetti, la sinistra popolare sa rigenerarsi esprimendo nuovi rappresentanti. Dalle biografie più adatte.
A Mirafiori Enrico Berlinguer, all’epoca segretario del Pci, davanti ai cancelli della Fiat di Mirafiori. La sua fu una scelta di campo precisa, nonostante molti dubbi nella segreteria del partito.


Repubblica 15.6.19
Veleni renziani contro il segretario ma lui vuole evitare la scissione
di Goffredo De Marchis


ROMA – È tutto un equilibrio sopra la follia perché il Pd è un organismo fragilissimo e Nicola Zingaretti è chiamato a tenerlo unito. I veleni, le rese dei conti, il solito fantasma della scissione possono ucciderlo a dispetto della lieve ripresa delle Europee. Del resto il segretario non fa che ripetere quanto sia delicato l’ecosistema interno: «Se alle primarie fossero andati meno di un milione di votanti io non sarei qua e sarebbe già nato un altro partito». Quello di Matteo Renzi.
Luca Lotti e il segretario si sono sentiti tutti i giorni da una settimana a questa parte, l’ultima anche ieri mattina per lasciarsi, raccontano, in maniera civile. Luigi Zanda, che ieri ha attaccato frontalmente il braccio destro renziano, sostiene che senza il suo ultimatum Lotti non si sarebbe autosospeso. Ma il leader la pensa diversamente: l’ex ministro dello Sport è stato accompagnato a fare un passo di lato grazie alla linea garantista e attendista e non certo con lo strappo che tutti i commentatori chiedevano.
«La posizione non colpevolista ha portato alla soluzione di una vicenda delicata». In cui il potere di cacciare un dirigente non appartiene al segretario ma alla commissione di garanzia. Insomma, la cacciata non è mai stata in discussione.
Il segretario, a differenza dei critici, deve pensare alla sopravvivenza del Partito democratico. E Lotti, fa notare con i suoi collaboratori, è il capo della maggiore corrente di minoranza (200 membri su 1000 all’assemblea nazionale ossia il 20 per cento) e in più controlla 50 parlamentari. Una bella fetta. Rompere fragorosamente avrebbe spaccato il Pd.
Il pericolo non è certo scongiurato. I renziani fanno girare la voce maliziosa dei rapporti tra il segretario, i suoi uomini e Fabrizio Centofanti, il lobbista coinvolto nel caso Palamara per via dei regali offerti al pm. Zingaretti non nega di conoscerlo ma naturalmente respinge tutte le insinuazioni e sicuramente, sottolinea, «non mi sono mai occupato delle nomine alla Procura di Roma». Poi c’è tutto il lavorìo intorno al centro da affiancare al Pd. Pier Ferdinando Casini ha lanciato l’idea di un partito con Renzi, Calenda e la cui front woman dovrebbe essere a sorpresa Mara Carfagna, la principale avversaria della Lega dentro Forza Italia. Un’offensiva vera contro una forza troppo schiacciata a sinistra e non in grado d vincere. E se i volti di questa avventura sono forse consumati, non lo è la Carfagna e lo spazio politico esiste.
Ecco il punto. Il segretario vuole evitare in ogni modo di offrire una sponda ai renziani desiderosi di andarsene, insofferenti per la linea schiacciata a sinistra, in cerca di un posto al sole col timore di non essere ricandidati. Perché la corrente di Lotti che si chiama Base riformista controlla anche tanti pezzi del partito sul territorio.
Lotti, malgrado il gesto dell’autosospensione (che non significa granché visto che non ha incarichi), ha messo nel mirino alcune personalità e sono le più vicine a Zingaretti. La prima è il tesoriere Zanda che ribatte: «Per quella seduta spiritica mi hanno interrogat o due volte in Corte d’assise, hanno scartabellato tutte le carte. La mia coscienza è più che a posto». La seconda è Paolo Gentiloni che l’altra sera ha parlato di comportamento «altamente inopportuno di Lotti». È lo stato maggiore zingarettiano, è la spina dorsale del Pd. Il segretario aveva dato mandato per questi attacchi diretti? Zanda lo aveva informato che avrebbe fatto una dichiarazione e non sarebbe stato tenero. Ma sia il tesoriere sia il presidente sono figure con una loro autonomia. Fin dall’inizio il segretario ha usato quella che molti scambiano per pavidità, invece è non cercare l’ostilità, ovvero non usare «il fucile». «Luca, dobbiamo trovare un esito che sia un bene per te e un bene per il partito. Una linea responsabile. Il contrario di quello che fa la Lega che si trincera dietro l’immunità. Risolviamolo tra noi», è stato il ragionamento dietro la lunga telefonata di ieri mattina. Che si è conclusa con un primo passo del parlamentare dem. Resta il paradosso dell’altro deputato coinvolto nel caos procure Cosimo Ferri. Non si è mai fatto sentire dal segretario e ieri al capogruppo del Pd Graziano Delrio ha detto che non ha «alcuna intenzione » di lasciare la commissione Giustizia della Camera, di cui è membro. Forse in questo caso bisogna essere meno "civili".

Il Fatto 15.6.19
Radio Radicale, dove sono finiti i 300 milioni di fondi pubblici
Il dossier - Composizione e bilanci dell’azienda
di Patrizia De Rubertis


Trecento milioni di euro arrivati quasi sempre a fine anno nelle leggi di Stabilità, nei decreti Milleproroghe o in altri provvedimenti ad hoc hanno permesso a Radio Radicale di svolgere per 25 anni “servizio pubblico”, senza alcun tipo di valutazione (come l’affidamento con una gara) e nonostante sia una radio privata e legata a un partito. Ed è una ricorrente che il salvataggio dell’emittente fondata nel 1976 da Marco Pannella arrivi sempre in extremis grazie a denaro pubblico. Come l’ultima boccata di ossigeno arrivata dall’accordo Lega-Pd che giovedì ha concesso a Radio Radicale altri 3 milioni nel 2019 (e 4 milioni nel 2020). Che si vanno ad aggiungere ai 5 già stanziati per l’anno in corso. Un unicum nel panorama editoriale quello conquistato dall’emittente.
Radio Radicale nasce 43 anni fa, per iniziativa di un gruppo di deputati militanti dell’omonimo partito, e diventa subito il megafono delle battaglie di Marco Pannella, tra cui quella contro il finanziamento pubblico ai partiti. Ma senza quei fondi e a fronte di costi di gestione sempre più alti, sono costretti a chiudere nel luglio 1986. I dirigenti decidono di sospendere tutti i programmi per lasciare la parola agli ascoltatori che tra messaggi di stima e bestemmie la trasformano nell’emittente più ascoltata d’Italia (l’esperimento è stato ripetuto anche nel 1993, sempre per salvarsi dalla chiusura). Ma la svolta arriva nel 1990 con la legge 230 quando si aprono le porte dei contributi pubblici: da allora la radio percepisce ogni anno circa 4 milioni di euro. La secondo svolta è datata 21 novembre 1994: viene firmata la convenzione, approvata con un decreto del ministro delle Telecomunicazioni Giuseppe Tatarella, che da allora eroga alla società Centro di produzioni S.p.a. (ossia Radio Radicale con il suo archivio in via Principe Amedeo a Roma) 10 milioni di euro ogni anno per la trasmissione delle sedute parlamentari. È merito di un bando del governo Berlusconi, che i maligni dicono sia stato cucito su misura (niente musica e zero pubblicità), se la radio – che navigava in cattive acque – si salva di nuovo. I Radicali continuano a essere contrari a dare i soldi dei contribuenti ai partiti, ma da allora la radio ha incassato oltre 300 milioni di euro. Il bando, fatto per decreto, non è stato mai convertito in legge. È stato rinnovato per ben 17 volte, da tutti i governi, con una specie di regime transitorio. Contributi all’editoria e rinnovo della convenzione che hanno permesso di percepire 14 milioni di euro ogni anno.
Chi c’è dietro la radio? Fino alla fine degli anni Novanta l’azionista unico dell’emittente era l’Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella. Poi l’assetto proprietario cambia nel marzo 2000 quando l’imprenditore Marco Podini (già padrone della catena di supermercati A&O e dei discount Md), aderendo all’appello pubblico di Pannella in un altro momento di difficoltà della radio, acquista tramite la Pasubio Spa il 25% di Radio Radicale per 25 miliardi di lire. Emittente finanziata fino ad allora solo da soldi pubblici, e il cui valore totale schizza così a 100 miliardi di lire. Pochi mesi prima la Rai aveva fatto un’offerta per rilevare tutta la società per una ventina di miliardi. Podini annuncia un aumento della sua partecipazione al 50%, che però non avverrà mai. L’imprenditore siede insieme alla sorella Maria Luisa nel cda della società (la quota è passata nel frattempo alla Holding Lillo) ed è anche il presidente della Dedagroup, una società che si occupa di information technology. Così come l’altro gruppo che possiede, la Piteco, una software house italiana quotata in Borsa.
Da allora le quote della società che controlla la radio sono rimaste immutate: all’associazione Pannella, editore dell’emittente, resta il 62,68% e un’altra piccola quota, del 6,17%, è in mano alla commercialista Cecilia Maria Angioletti. Il resto è in mano alla holding finanziaria Lillo attiva nel campo della distribuzione alimentare che fattura 2,3 miliardi di euro l’anno. Nel 2017, ultimo dato aggiornato del bilancio, i ricavi complessivi della radio hanno raggiunto gli 8,3 milioni con un incremento di 21mila euro sull’anno prima, garantiti dagli introiti della convenzione. A cui si aggiungono 4 milioni di contributi dal fondo dell’editoria. Il costo del personale (a Radio Radicale lavorano 52 dipendenti tra cui 20 giornalisti impiegati) è salito a 4 milioni dai 3,8 del 2016 (compresi contributi e Tfr) con il direttore Alessio Falconio e l’ad Paolo Chiarelli che guadagnano poco più di 100mila euro. Utili ce ne sono stati pochi negli ultimi anni, ma non è sempre andata così. Il 2010, per dire, si chiuse con un utile di 168 mila euro, ma il cda deliberò di distribuire un dividendo di 600 mila euro attingendo alle riserve. Negli ultimi 3 anni i conti hanno sempre chiuso in rosso (nel 2017 di 6.500 euro).

Il Fatto 15.6.19
Lotti si autosospende e manda tre “pizzini” ai vertici del Pd
Csm: un’intervista di Zanda, ispirata dal Nazareno, invita il renziano a lasciare. Nel pomeriggio l’ex sottosegretario ne prende atto con un post allusivo su Fb
di Wanda Marra


Mancano pochi minuti alle 16 quando Luca Lotti consegna a un post su Facebook la sua “autosospensione” dal Pd. Una decisione che gli amici si aspettavano, ma nei prossimi giorni, magari in presenza di un’indagine a suo carico, dopo le notizie sul suo ruolo uscite nell’inchiesta di Perugia su Luca Palamara. Invece, l’amico di sempre di Matteo Renzi ha deciso – in totale autonomia, ma non senza consultarsi con l’ex premier, che per la vicenda è arrabbiatissimo con il neo segretario – di cambiare gioco. Troppo pesanti le notizie emerse, ma anche la voglia di trovare una strada di rilancio. Fino ad oggi, si era difeso attaccando, aveva fatto pesare il suo ruolo e il suo passato. Lui era quello che parlava con tutti, per conto dell’ex premier, ma anche di se stesso. Oggi quel capitale di rapporti, di segreti, di connessioni, di favori fatti e ricevuti, di decisioni sulle nomine nei posti chiave, di potere del passato che si riverbera nel presente, decide di farlo pesare in un altro modo.

Si autosospende dal gruppo parlamentare del Pd alla Camera, ma facendolo lancia “pizzini” e minacce, a tutti. Si iscriverà al gruppo misto, ma da lì, attraverso la sua corrente, Br (Base Riformista), cannoneggerà Nicola Zingaretti. O almeno, ci proverà.
“Caro segretario – scrive dunque Lotti – apprendo oggi dai quotidiani che la mia vicenda imbarazzerebbe i vertici del Pd. Il responsabile legale del partito mi chiede esplicitamente di andarmene per aver incontrato alcuni magistrati e fa quasi sorridere che tale richiesta arrivi da un senatore di lungo corso già coinvolto – a cominciare da una celebre seduta spiritica – in pagine buie della storia istituzionale del nostro Paese”. A chiedere il passo indietro, con un’intervista al Corriere della sera, è stato il tesoriere, Luigi Zanda. Previa interlocuzione con il segretario. Al quale Lotti rinfaccia una cosa su tutte: la presunta seduta spiritica del 4 aprile 1978, nella quale alcuni giovani quadri Dc (tra cui Prodi) cercarono di individuare il luogo in cui era detenuto Aldo Moro. Zanda recapitò al capo della polizia, Giuseppe Parlato, l’indicazione emersa dalla seduta con un biglietto autografo non datato. Una vicenda piena di tutte le ombre che hanno caratterizzato il caso Moro.
Il secondo “pizzino” è per lo stesso Zingaretti: “I fatti sono chiari. Tu li conosci meglio di altri anche perché te ne ho parlato in modo franco nei nostri numerosi incontri”. Un modo per tirare dentro il segretario, sostenendo che lui sapeva tutto. E poi, il passaggio che già delinea una strategia politica: “Sono nato e cresciuto come uomo di squadra. Per questo l’interesse della mia comunità, il Pd, viene prima della mia legittima amarezza. Ti comunico dunque la mia autosospensione dal Pd fino a quando questa vicenda non sarà chiarita. Lo faccio non perché qualche moralista senza morale oggi ha chiesto un mio passo indietro. No. Lo faccio per il rispetto e l’affetto che provo verso gli iscritti del Pd”. Ancora: “Continuerò il mio lavoro con tanti amici in Parlamento per dare una mano contro il peggior governo degli ultimi decenni”.
La rivendicazione di un ruolo politico che va avanti: d’altra parte Lotti ha scelto di fondare una corrente con Antonello Giacomelli e Lorenzo Guerini, che controlla la maggioranza dei parlamentari dem. E il suo è un modo per ribadire che darà battaglia dentro al partito. Come? Per arrivare a cosa? La settimana prossima Br farà una serie di riunioni, proprio per stabilirlo. C’è già un appuntamento, dal 5 al 7 luglio a Montecatini. In quell’occasione le mosse saranno chiare. La guerra alla segreteria pare già decisa, però. Nel frattempo, uno dopo l’altro, escono tutti i parlamentari della corrente, in difesa del loro leader. Un avvertimento preventivo a Zingaretti. “Gli arriverà un messaggio forte”, dicono i vicinissimi. La conclusione del post di Fb è di quelle che potrebbero investire chiunque, a partire da Zingaretti per i rapporti con Palamara e dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che avrebbe manovrato per portare a capo della Procura di Napoli Giovanni Melillo: “Quanti miei colleghi, durante l’azione del nostro Governo e dopo, si sono occupati delle carriere dei magistrati? Davvero si vuol far credere che la nomina dei capiufficio dipenda da un parlamentare semplice e non da un complicato quanto discutibile gioco di correnti della magistratura?”. Finale con citazione di Enzo Tortora: “Io sono innocente. E spero di cuore che lo sia anche chi mi accusa di tutto, senza conoscere niente”.
La risposta di Zingaretti non si fa attendere: “Ringrazio Luca Lotti per un gesto non scontato che considero di grande responsabilità nei confronti della politica, delle istituzioni e del Pd. Sono consapevole della difficoltà umana di questi giorni, ma ciascuno di noi ha una responsabilità alta nei confronti della nostra comunità e verso il Paese”. Formalmente non lo scarica, di fatto ha lavorato per farlo. Ma neanche adesso si può permettere di andare fino in fondo.

Il Fatto 15.6.19
“Il segretario dem doveva muoversi prima e dire no agli intrallazzatori”
Massimo Cacciari - “Sono mancate del tutto una visione e una posizione forte”
di Lorenzo Giarelli


“Con questa faccenda siamo tornati ai livelli di Berlusconi”. Luca Lotti si autosospende dal Pd, eppure il suo è un passo indietro che porta con sé rancori e accuse, tra attacchi ai compagni di partito (“Zanda è coinvolto in pagine buie della storie repubblicana”, ha detto l’ex ministro) e una rivendicata estraneità ai fatti (“Io sono innocente, spero di cuore che lo sia anche chi mi accusa”). E così Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, non nasconde il disappunto per una vicenda che doveva chiudersi ben prima e che ora, dopo settimane di tentennamenti della segreteria e novità giudiziarie, ricorda persino i modi e il linguaggio del leader di Forza Italia.
Professor Cacciari, Lotti si è autosospeso dal partito. È una mossa tardiva?
Lotti ha fatto quel che doveva, ma il punto è che a questa mossa non saremmo neanche dovuti arrivare, perché serviva ben prima una presa di posizione forte da parte di Zingaretti.
Secondo lei il segretario del Pd non si è esposto abbastanza contro l’ex ministro?
Ricordo che Zingaretti ha condotto tutta la campagna elettorale per le ultime primarie celebrando una discontinuità rispetto alla leadership di Matteo Renzi. Ma allora sarebbe stato logico, oltre che utile dal punto di vista politico, che un segretario coerente dicesse chiaro e tondo che quanto è successo tra Lotti, Ferri e il Csm è incompatibile con la nuova linea che il Pd intende assumere, ammesso che a questo punto intenda assumerla.
Dunque questa autosospensione non cambia le cose?
Rimane intatto il fatto politico. Zingaretti doveva esser chiaro nel dire che nel nuovo Pd gli intrallazzatori non sono più ammessi. Lotti ha fatto un gesto doveroso, ma era Zingaretti a doversi esprimere, a dare una visione in prospettiva, al di là della singola vicenda.
Lotti però si professa innocente.
La valutazione politica prescinde dalla questione penale. Nel Pd non può esserci posto per personaggi che intrallazzano in questo modo su nomine della magistratura, della Rai o di qualunque altro posto.
Lotti, nella sua difesa, accusa Zanda di esser coinvolto nella famosa seduta spiritica in cui uscì il nome di via Gradoli, durante il sequestro di Aldo Moro. Piuttosto indicativo dei rapporti interni al partito, non trova?
Nel Partito democratico è bene che ognuno parli per se stesso, perché nessuno ha la lingua abbastanza lunga per poter accusare il prossimo di alcunché. Il 90 per cento del partito è corresponsabile di quegli errori sciagurati che hanno portato alla catastrofe renziana degli ultimi anni, una leadership che ha preso una situazione certamente già in difficoltà ma l’ha portata alla definitiva dissoluzione, sia a livello elettorale sia come partito. E Lotti ovviamente è coinvolto in questa storia.
È mancato uno strappo deciso con quella stagione?
Senza dubbio fin da subito doveva esserci più coraggio e franchezza, almeno nella vicenda tra Lotti e il Csm.
Oltre a dichiarare la propria innocenza, Lotti allude al fatto che chi lo accusa possa essere in malafede.
Mi sembra di essere tornati a quel che diceva Berlusconi.
In che senso?
Quando scoppiarono gli scandali per le feste a Arcore, Berlusconi si giustificava chiedendo che cosa ci fosse di male se a casa sua andava a puttane. Nulla, certo, ma era un po’ strano che lo facesse un presidente del Consiglio, o era normale anche questo? E allora che cosa c’entra la questione penale in questo discorso? Quella sarà competenza dei giudici, io mi occupo di politica, non di processi. Sono cose dell’altro mondo: c’è una totale confusione tra la rilevanza politica e quella giudiziaria. Siamo all’assenza dei fondamentali.

Il Fatto 15.6.19
Petros Markaris
“Il movente dei miei killer è la crisi economica”
di Fabrizio d’Esposito


Col magnifico pretesto del giallo, il greco Petros Markaris è diventato a 82 anni uno dei più grandi narratori delle crisi finanziarie ed economiche che hanno devastato l’Europa negli ultimi lustri.
Lei ormai è l’inventore del giallo anti-troika, contro la tecnocrazia dell’Unione Europea. Dopo L’università del crimine, è Il tempo dell’ipocrisia. Nuovi omicidi che conducono alle imposizioni dell’Ue.
Il problema non sono solo le linee guida dell’Unione Europea, ma soprattutto una realtà che è stata imposta alle persone dalla globalizzazione e dal sistema finanziario. Nel passato la crescita era legata alla distribuzione della ricchezza. Non sto dicendo che tutti avevano la stessa fetta, ma che ognuno aveva il diritto di partecipare alla spartizione. Ora abbiamo sostituito le cifre alle persone. Ci dicono che se i numeri vanno bene, allora anche le persone staranno bene. Questa è ipocrisia, perché il 10% ottiene il 90% della ricchezza e il 90% solo il 10%.
E questo della ricchezza è il movente di uno degli omicidi. Non crede però che l’ipocrisia sia un sentimento inestirpabile, soprattutto in politica?
L’ipocrisia è sempre stata parte della natura umana e delle nostre società. E ha anche avuto una grande importanza nella politica. La differenza tra passato e presente è che una volta combattevamo contro l’ipocrisia, in modo particolare nella politica. Adesso siamo indifesi e, ancora peggio, alcune persone accettano l’ipocrisia come una scintilla di speranza. La crescita dell’estrema destra ne è la prova.
Dal Pil al numero degli occupati e alle banche: nei suoi ultimi libri lei dà lezioni di economia.
La decisione di studiare economia viene da mio padre. Io odiavo l’economia, ma quando cresci nella Istanbul degli anni ’50 all’interno di una minoranza, è tuo padre colui che prende le decisioni. Così sono andato a Vienna a studiare economia. Non ho mai terminato gli studi e non sono mai diventato un dirigente di banca o un manager. Ma ho acquisito competenze sufficienti per capire cosa sta accadendo nel mondo della finanza e utilizzarlo nei miei romanzi.
Gli omicidi sono rivendicati da terroristi che si firmano come l’Esercito degli Idioti Nazionali. L’idiota è colui che viene raggirato dall’ipocrisia del potere?
Nel romanzo questo è causa di un gran mal di testa per la polizia e per l’antiterrorismo. Non si trovano da nessuna parte nel mondo dei terroristi che si definiscono idioti. Potrebbe dipendere dal fatto che si ritengono vittime, oppure dal fatto che credono che la nostra società attuale produca un esercito regolare di idioti nazionali. Il lettore conoscerà la verità solo alla fine del romanzo.
Il rischio è che il lettore simpatizzi per gli assassini. Non è pericoloso?
La grande innovazione nei gialli contemporanei riguarda il cambio della domanda principale. L’enigma non è più “chi” (il killer) come nei tradizionali gialli inglesi, ma “perché”. Perché quest’uomo o questa donna hanno superato i loro limiti e sono diventati degli assassini? La domanda è collegata direttamente alla società, alla politica e all’economia e conduce a due ulteriori questioni: fino a che punto l’assassino è esso stesso una vittima? Fino a che punto la vittima è a sua volta colpevole? Questa è la domanda cruciale nei miei romanzi.
Le idee di giustizia sociale hanno animato in passato altre sigle terroristiche, in Grecia come in Italia.
Però i terroristi non possono cambiare la società. Al contrario, le persone hanno paura del terrorismo, quindi per reazione si attaccano al principio della legge e dell’ordine, il che significa che si riavvicinano al sistema e allo status quo.
Non pensa che alla destra sovranista di Salvini e Le Pen potrebbe piacere il suo giallo?
Non m’interessa se gli piace o no il mio romanzo. Se iniziassi a chiedermi a chi piacerà o chi userà nel modo sbagliato i miei libri smetterei di fare lo scrittore. Sono uno scrittore politicamente impegnato, ma non sono un politico. Molti autori credono, al principio della loro carriera, che con i loro scritti cambieranno il mondo. È un’illusione. Gli scrittori non possono cambiare il mondo. La loro capacità dev’essere quella di scrivere storie che aiutino il lettore a farsi le giuste domande e a pensare un passo avanti.
Dopo un anno i gialloverdi italiani hanno fatto già la fine Tsipras in Grecia? Anche loro realisti, soprattutto i Cinque Stelle?
Beh, questo è il problema principale dei partiti che promettono ai loro elettori che cambieranno l’Unione europea. Alcune di queste promesse sono state fatte per inesperienza ma la maggior parte sono solo opportunistiche. Quando Tsipras e il suo partito cominciarono a dire che avrebbero cambiato l’Europa molti elettori ci credettero e iniziarono a votare per loro. Solo in pochi hanno continuato a chiedersi come un Paese come la Grecia, con un enorme debito pubblico, avrebbe potuto cambiare l’Europa. Qualunque Paese voglia cambiare l’Europa ha bisogno di alleati e alleanze. Non esiste un Paese che farebbe un’alleanza con un perdente. Tsipras l’ha capito dopo il referendum e si è adeguato. I Cinque Stelle stanno affrontando la stessa, dura, realtà.
È così difficile contrastare l’attuale Unione europea, anche dopo le elezioni di maggio?
Credo che i partiti del sistema possano ancora mettere insieme una maggioranza con l’aiuto dei Verdi. Comunque il problema in Europa è proprio il declino dei partiti di sistema. Molti europei, soprattutto le classi medie, sono profondamente delusi dai partiti di sistema. Questa è la ragione principale della crescita delle destre in molti Paesi europei. Non tutti quelli che votano per l’estrema destra hanno ideologie di estrema destra o fasciste. Sono disperati e non esistono al mondo persone disperate che riescano ad avere la mente lucida.
Nel Tempo dell’ipocrisia due novità cambiano la vita del commissario Charitos: diventa nonno e ha la promozione mai avuta. Lunga vita a Charitos e a Markaris!
Nel Tempo dell’ipocrisia avevo bisogno di dare un po’ di speranza a un uomo onesto: ho dato a Charitos quel che meritava da tempo. Grazie per gli auguri.

Repubblica 15.6.19
Cucchi, la perizia che chiude il caso "Senza botte non sarebbe morto"
I periti del gip: "Se non ci fosse stata la frattura sacrale non sarebbe finito in ospedale". Ilaria: "Dimostrato il legame tra lesione e decesso"
di Francesco Salvatore


ROMA — Cade anche l’ultimo ostacolo sulla strada per determinare se la morte di Stefano Cucchi sia un omicidio preterintenzionale. Ovvero il legame tra le botte date dai carabinieri che lo hanno aggredito in caserma il 15 ottobre del 2009 e il suo decesso, avvenuto sette giorni dopo all’ospedale Pertini di Roma. A raccontare ieri nel processo in Corte d’Assise a Roma, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, che il continuum tra le lesioni e la morte di Cucchi sia un’ipotesi fondata è stato uno dei periti incaricati di scandagliare ogni aspetto della morte del geometra: «Se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente non sarebbe morto», la spiegazione del professor Francesco Introna, medico legale del policlinico di Bari.
Poche parole, mai pronunciate in aula in dieci anni di processi, che per la prima volta permettono di legittimare l’ipotesi da sempre formulata dal pm Giovanni Musarò, ovvero che Cucchi è morto per gli esiti letali del pestaggio che subì la notte del suo arresto: omicidio preterintenzionale, la traduzione da codice penale. «Nessuno può avere certezze — ha specificato Introna — se non ci fosse stata la lesione s4 (in una delle vertebre ndr ) il soggetto non sarebbe stato ospedalizzato. Cucchi era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per la frattura. Se non fosse stato in questa condizione, non avrebbe avuto una vescica atonica, ma avrebbe avuto probabilmente lo stimolo alla diuresi. Dunque se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento». Una serie di concause, quindi. Che secondo il medico prescindono da quei calci e pugni.
Introna fa parte dei periti nominati dal gip nell’ambito dell’incidente probatorio nell’inchiesta bis sul caso Cucchi. La sua dichiarazione, dunque, nell’aula del tribunale — dove si formano le prove per stabilire la sentenza penale — potrebbe essere determinante. «Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto», ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al termine dell’udienza. Gli ha fatto eco l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi: «Ora nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria».
Di diverso avviso l’avvocato Alessandra De Benedictis, legale di uno dei carabinieri imputati: «I periti hanno sottolineato oggi che la lesione del nervo vescicale, che determina lo stimolo ad urinare, ha scatenato il nervo vagale. Il problema è il rigonfiamento della vescica causata dal catetere non funzionante. Se in ospedale il catetere avesse fatto il suo dovere la vescica si sarebbe svuotata. Certo non possiamo essere accusati di omicidio preterintenzionale per un catetere non funzionante ».

La Stampa 15.6.19
Fausto Amodei
“In Italia nessuno dice più pane al pane, vino al vino”
di Marinella Venegoni


Un bel gruzzolo di scrittori e architetti, avvocati e poeti, etnomusicologi, giornalisti e letterati. Un combo torinese. Vivevano del loro lavoro ma coltivavano con tenacia la passione per la canzone sociale, che volteggiava per metafore o faceva le pulci in musica ad Andreotti e Fanfani cantandone le malefatte. Cantacronache nacque come contraltare ostinato alla canzone stupidina che si era andata affermando soprattutto a Sanremo, dove le mamme del mondo erano tutte belle. Qui, invece, si badava ai contenuti più che alla musica. Attivo fra il 1957 e il 1963, il gruppo si era riempito di personaggi eterogenei come Italo Calvino, Franco Fortini, Sergio Liberovici, Emilio Jona, Michele Straniero, Margot, Fausto Amodei; tutti scrutati dall’occhio affettuoso e complice di Umberto Eco.
Da loro finirono per discendere anni dopo i cantautori, e se De André si ispirò apertamente alla pacifista Dove vola l’avvoltoio di Calvino per la Guerra di Piero, Francesco Guccini confessò poi non a caso di esser stato influenzato da Fausto Amodei, che fra tutti appare ancora il più moderno, il più vicino alla canzone d’autore che noi conosciamo. Un fulmine, Amodei, nel catturare situazioni in atto e farne musica. Pensiamo soltanto a Per i morti di Reggio Emilia, la più famosa delle sue, scritta dopo l’uccisione di 5 manifestanti nel 1960: roba che se qualcuno mai la intonasse oggi in una scuola, passerebbe guai seri.
Otto album sono usciti da qualche giorno, vinili dei ‘60 e ‘70 trasformati per la prima volta in Cd rimasterizzati, a cura della benemerita collana «Dischi del Sole» di Toni Verona, destinata a preservare la memoria storica oggi così poco di moda. Spicca L’ultima crociata di Fausto Amodei, il cantautore ante-litteram, che nel 1974 mentre infuriava la campagna del referendum sul divorzio del 12 maggio, scrisse pepate canzoni sul tema e sulla situazione politica, poi confluite in questo album.
«In parte avevo sbagliato bersaglio perché me la prendevo con Andreotti invece che con Fanfani» dice adesso Amodei, che a 84 anni resta un signore acuto, pacato e assai ironico. Architetto, fu anche deputato fra il ‘68 e il’72 occupandosi del regime dei suoli, senza mai perdere di vista la chitarra che aveva sempre pronta: «Nel ‘62 Cantacronache si aggregò al Nuovo Canzoniere Italiano, fino a fine ‘70, e lavoravo con loro. A un certo punto, con gli anni di piombo, mi sono ritirato non perché mi sentissi disarmato, ma perché tutti questi gruppi musicali non facevano belle canzoni. Ho interrotto al momento dei nouveaux philosophes, subodoravo che potesse venir fuori qualcosa di brutto come successe. L’estrema sinistra mi accusava di revisionismo, scrissi: Io che son revisionista. Il testo diceva tra l’altro: «...C’è un’accusa che mi coglie un poco alla sprovvista/per cui il comunismo mio val niente/Perché non sono un anticomunista».
Per un po’ non ha tenuto più concerti; «Mi sono occupato di Angelo Brofferio e del mio grande Brassens. L’ho anche conosciuto, lui, dopo un concerto a Parigi: ma eravamo due timidi e abbiamo parlato poco».
Voi Cantacronache siete stati i padri dei cantautori... «Abbiamo aperto sulla strada degli chansonnier francesi. Io picchiavo su Brassens, Liberovici invece, si ispirava a Kurt Weill e allo yiddish». Quando ascolta ciò che si suona in questi anni, cosa pensa? «Noi si cantava con i microfoni quando andava bene, adesso come minimo ci sono i fuochi d’artificio. Quel che mi manca è la miseria musicale, ora tutto è sovrastato da echi e batteria. Giocano su 3-4 note, e non sanno che là fuori c’è un mondo. Buttano delle possibilità piacevoli».
Amodei dice di non suonare né cantare almeno da 7 anni: «Quel che continuo a fare sono altre traduzioni di Brassens, che vengono raccolte dalla barese Mirella Conenna. È rimasto comunista? «No. Bisogna prender atto che il socialismo reale ha dato esempi poco luminosi. Lo sarei se ci fosse un partito alla Berlinguer».
Oggi non si scrivono canzoni che risveglino la coscienza, come faceva lei... «Oggi si usano metafore e perifrasi. A dire pane al pane e vino al vino, sono rimasti i fascisti».


https://spogli.blogspot.com/2019/06/il-manifesto-15.html

giovedì 13 giugno 2019

Repubblica 13.6.19
di  Emanuele Severino
Heidegger mi leggeva
A 90 anni il filosofo italiano racconta il suo legame a distanza con l’autore di "Essere e tempo": "Uniti dal linguaggio"
“Nel corso della vita ho sostenuto il manifestarsi dell’eternità di tutte le cose: è l’unica risposta possibile al nihilismo
di Antonio Gnoli


Martin Heidegger, il filosofo più osannato in Italia, non amava la filosofia italiana. Distante dalle radici greche, la giudicava irrilevante. Unica eccezione, a quanto pare, il pensiero di Emanuele Severino che nel 1950 pubblicò la sua tesi di laurea: Heidegger e la metafisica .
Sia quel testo, che il lungo saggio Ritornare a Parmenide del 1964 sono stati ritrovati, con degli appunti, negli scaffali della biblioteca di Heidegger. Quale fu il loro rapporto? Se ne discute da oggi al 15 giugno, presso l’Università Cattolica di Brescia in un convegno internazionale (curato da Ines Testoni e Giulio Goggi).
Professor Severino, come arrivò a occuparsi di Heidegger?
«Tramite il mio maestro Gustavo Bontadini. Alla Cattolica di Milano si studiava seriamente Heidegger. E a me sembrava che il suo pensiero aprisse nuovi orizzonti alla metafisica classica».
È stato Cornelio Fabro, allora potente professore della Cattolica, a inviare i suoi due scritti a Heidegger?
«È una leggenda che li avesse ricevuti da Fabro. So che si conoscevano e so che nei rari incontri, avvenuti soprattutto a Roma, Fabro gli parlava della filosofia italiana. Da una lettera che mi scrisse il nipote di Heidegger, il reverendo Heinrich Heidegger, si capisce che il filosofo tedesco era piuttosto tiepido nei confronti di Fabro».
Un atteggiamento che estendeva a tutta la filosofia italiana?
«Non credo ci fosse disinteresse, oltretutto con lui lavoravano anche alcuni allievi italiani. Più semplicemente penso che se ne interessasse a suo modo.
Concentrandosi sui problemi filosofici più che sulle scuole di provenienza».
Heidegger fu ospite per alcuni giorni a Roma nel 1936 in occasione di un convegno durante il quale tenne una conferenza su Hölderlin.
Era presente anche Giovanni Gentile. Ma il loro incontro sfumò in un nulla di fatto. Pensa che le loro filosofie fossero incompatibili?
«Negli anni in cui scrivevo la mia tesi pensavo che la sua filosofia, come quella di Gentile, fosse la base per la metafisica classica. Quindi che non fossero così incompatibili. La verità è che ognuno dei due era troppo legato al proprio linguaggio perché potessero davvero comprendersi.
Gentile e Heidegger erano troppo concentrati sul loro pensiero per poter prendere in considerazione l’idea che qualcuno spiegasse la filosofia dell’altro».
Benedetto Croce fu tra i critici più severi della filosofia di Heidegger.
Ritiene che fosse una critica ingenerosa e comunque discutibile?
«Ma è discutibile anche il modo in cui Heidegger tratta il neohegelismo europeo, quindi anche Croce. Tra gli italiani Croce e Gentile da una parte e Heidegger dall’altra di amicizia ce ne fu ben poca».
Alla fine come pensa che i suoi due scritti siano arrivati a Heidegger?
«Von Hermann, allievo di Heidegger e curatore delle sue opere, fu testimone diretto di un certo interesse del maestro per il mio pensiero. E il nipote di Heidegger, Heinrich, sentì in più di un’occasione pronunciare il mio nome dallo zio.
Ma resta irrisolto il modo in cui ricevette i miei due scritti».
Francesco Alfieri, allievo e assistente di von Hermann, sostiene che il vero tramite tra Heidegger e lei sia stato Gadamer.
«Gadamer adorava l’Italia, conosceva perfettamente la nostra lingua ed è plausibile che avesse parlato, tra le altre cose, anche di me. Da una ricerca di Alfieri risulterebbe che nei primissimi anni Novanta Gadamer scrisse su Civiltà delle macchine un articolo sui miei scritti».
C’è una questione politica che nella lettura del pensiero heideggeriano ha preso il sopravvento. Le sembra inaggirabile la vecchia questione del suo antisemitismo?
«È appunto una questione invecchiata. Le critiche di Heidegger agli ebrei sono le stesse che egli rivolge al cristianesimo, alla metafisica occidentale, alla tecnica.
Non sono l’"avversario", ma appartengono alla grande dimensione dalla quale Heidegger intende prendere le distanze: la generale dimenticanza dell’Essere».
Che giudizio complessivo dà dei "Quaderni neri", in cui la questione dell’antisemitismo è tornata fuori prepotentemente?
«Sono decifrabili solo se si conoscono i Contributi alla filosofia che Heidegger compose quasi subito dopo Essere e tempo . I Quaderni neri erano un suo strumento di lavoro.
Non mi pare che aggiungano qualcosa di decisivo al suo pensiero.
Il loro antisemitismo è un equivoco in cui sono incappati certi critici».
Per alcuni pensatori lei ricorre all’immagine del sottosuolo. Quasi a voler dar loro una forza speculativa straordinaria.
Heidegger è un pensatore del sottosuolo?
«Nonostante la sua grandezza direi di no. I pensatori di questo sottosuolo sono coloro che conferiscono la massima coerenza e potenza alla follia che avvolge l’uomo da quando abita la terra. Pensatori del sottosuolo furono soprattutto Gentile, Nietzsche, Leopardi».
Perché non Heidegger?
«La sua "follia" fu incoerente. E tutt’altro che estrema. Alla fine si accontentò della speranza che "solo un Dio ci può salvare"».
Follia intesa in che senso?
«Non come un’esperienza psichiatrica. Ma come il tratto dell’Occidente, per cui è ovvia la convinzione che le cose nascono dal nulla e tornino nel nulla».
Tutto il suo lavoro si oppone dunque a questa follia?
«I miei scritti indicano la "non-follia", allo stesso modo che un semplice gesto della mano indica l’immenso sistema montuoso. La "non-follia" è perciò il manifestarsi dell’eternità di tutte le cose, di tutti gli stati e gli istanti del mondo e della nostra coscienza. È la risposta al nichilismo».

Il Fatto 13.6.19
Gramsci dietro una pila di libri. E nacque la cultura socialista
Il 1° maggio 1919 nasceva il giornale che avrebbe radunato intellettuali, operai e proletari intorno all’idea dei consigli di fabbrica come base della democrazia
Il giornale viene ora riproposto in un’edizione anastatica di 250 esemplari dalla Viglongo
di Massimo Novelli


“Questo foglio esce per rispondere a un bisogno profondamente sentito dai gruppi socialisti di una palestra di discussioni, studi e ricerche intorno ai problemi della vita nazionale e internazionale”. Così comincia “Battute di preludio”, l’editoriale non firmato, ma redatto o ispirato da Antonio Gramsci, del primo numero del giornale L’Ordine Nuovo. La Rassegna settimanale di cultura socialista, come era specificato sotto la testata, uscì cento anni fa a Torino, il primo maggio del 1919. Poco prima, il 23 marzo, a Milano Benito Mussolini aveva dato vita ai Fasci di combattimento.
L’Ordine Nuovo era nato per iniziativa di un gruppo di giovani della sezione socialista composto, oltre che da Gramsci, da Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti.
Quei giovani e quel giornale ebbero presto un ruolo rilevante nella sinistra, visto che furono tra i protagonisti del movimento dei consigli operai e dell’occupazione delle fabbriche, e quindi della fondazione a Livorno, nel gennaio del 1921, del Partito Comunista d’Italia. Piero Gobetti, che sarebbe diventato un collaboratore del settimanale, lo avrebbe definito su La Rivoluzione Liberale del 2 aprile 1922 “il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista che sia apparso (con qualche serietà ideale) in Italia”. Il primo numero del giornale, di cui Gramsci era l’anima, viene ora riproposto in un’edizione anastatica di 250 esemplari, assieme al numero unico di La Città Futura, altro foglio gramsciano, dalla Viglongo. È una ristampa che vuole essere anche un omaggio ad Andrea Viglongo (1900-1986), il fondatore dell’omonima casa editrice torinese e uno dei redattori di L’Ordine Nuovo.
La novità del settimanale, che in seguito divenne quotidiano, fu quella di porsi come un vero giornale completo, dalla politica allo sport, dalla cultura alla cronaca. Rammentava Viglongo che si voleva fare un giornale “che bastasse alla lettura del lettore più esigente”. E si prefiggeva, in particolare, di dare alla classe operaia una preparazione culturale moderna. “Si respirò una cultura internazionale”, ha detto lo storico Angelo d’Orsi, “inserendosi quella piccola impresa in un quadro europeo, e non solo, di discussione e rivitalizzazione critica del marxismo, nel quale si collocò, di lì a poco, per citare una istituzione destinata a grande fama, la cosiddetta Scuola di Francoforte”.
Da quel maggio del 1919, nel giro di tre anni, si sarebbero consumati l’occupazione delle fabbriche, il “biennio rosso”, lo squadrismo fascista, fino alla marcia su Roma e alla presa del potere da parte di Mussolini. In modo simile all’idea di rivoluzione di Gobetti, il giornale diretto da Gramsci, che vi compariva come segretario di redazione, scrive sempre D’Orsi, rientrava nel “progetto complesso capace di costruire grandi unità di masse ed élite, di operai e intellettuali, di proletari dell’industria e proletari della terra”, con al centro l’idea dei consigli di fabbrica come base di una democrazia operaia.
La sede torinese, al numero 3 di via dell’Arcivescovado, era nei pressi di un convento; nei primi anni Trenta avrebbe ospitato l’allora appena nata casa editrice Einaudi. Nelle memorie consegnate a Maurizio e a Marcella Ferrara, Togliatti avrebbe ricordato che la redazione era “composta da due grandi cameroni, in cui lavoravano tutti i redattori e i cronisti, uno stanzino per la stenografia e una dove stava Gramsci. Una stanza assurda era questa, piccolissima, con una scrivania messa di traverso e dappertutto libri e giornali”. La sua testa “si vedeva appena, entrando, dietro ai cumuli di giornali e di carte”.
Il sogno di Gramsci, come quello di Gobetti aggredito più volte dagli squadristi, e morto giovanissimo in esilio a Parigi, si frantumò con il fascismo. E Gramsci sarebbe stato emarginato in carcere dagli stessi compagni comunisti, legati a Stalin. Qualche settimana fa in un albergo torinese, in via dell’Arcivescovado, si è tenuto un comizio di CasaPound. A nessuno è venuto in mente che in quella strada, a pochi metri di distanza, nel 1922 i fascisti assaltarono e distrussero la sede dell’Ordine Nuovo.

Il Fatto 13.6.19
Il grande rogo della cultura
Si sta diffondendo l’idea che nell’epoca di Google Books e Amazon le biblioteche e i musei siano superflui: un alibi per ridurre spese di manutenzione: come dimostra Notre Dame, basta un incidente a causare danni giganteschi
di Salvatore Settis


In tutto il mondo, la conservazione e alimentazione della memoria culturale è sempre meno importante nelle priorità politiche e negli investimenti pubblici. Musei, monumenti, archivi e biblioteche vengono contrapposti al vibrare sempre mutevole delle nuove tecnologie; e si diffonde la convinzione che la progettazione del futuro debba farsi a prezzo di una progressiva marginalizzazione del passato, inteso come un peso passivo e non come una forza attiva, una riserva di energia culturale e morale a cui attingere.
Ne è sintomo recente un articolo uscito pochi mesi fa su Forbes, secondo cui le biblioteche pubbliche sono inutili nell’era di Amazon e Google Books. L’autore, l’economista Panos Mourdoukoutas di Long Island University, invita a chiudere le biblioteche per risparmiare i soldi dei contribuenti. Un’ondata di proteste ha costretto Forbes a cancellare dal proprio sito questo articolo a 72 ore dalla pubblicazione, ma il sintomo resta. E questa tesi non è poi così diversa da quella di chi sostiene (anche in Italia) che a tenere in piedi musei e monumenti debbano essere i privati, e che biblioteche e archivi vadano definanziati perché non producono reddito.
La crisi del patrimonio culturale, o meglio della sua funzione, non nasce ieri. Nel 1968, anno di rivolte contro ogni passatismo, un esponente della pop art, Ed Ruscha, la espresse dipingendo il Los Angeles County Museum deserto e in preda alle fiamme. Un disastro metaforico e simbolico, che fu però quasi la profezia di un fatto reale, il terribile incendio della Los Angeles Public Library (29 aprile 1986) che distrusse mezzo milione di volumi.
Un libro recente (Susan Orlean, The Library Book, 2019) offre le coordinate di quest’evento: primo, non si è mai capito chi ne fosse responsabile; secondo, la scarsa prevenzione era stata denunciata da tempo (dal Los Angeles Times); terzo, il calo di finanziamenti pubblici era legato a conflitti di competenza fra le istituzioni. Le stesse identiche coordinate ricorrono, mutatis mutandis, in altre e più vicine catastrofi, che traducono l’incendio-metafora in desolanti fatti di cronaca. Per esempio, il fuoco che distrusse il Museo Nazionale di Rio de Janeiro (3 settembre 2018), partito da un singolo condizionatore d’aria, si diffuse rapidamente perché gli impianti di sicurezza erano disattivati o inesistenti per mancanza di fondi (il museo spendeva in prevenzione poco più di 1.000 euro l’anno). La carenza di finanziamenti nasceva dallo spostamento della Capitale da Rio a Brasilia e dalla conseguente devoluzione di competenze dallo Stato federale alle amministrazioni locali e all’università, con incerta suddivisione delle responsabilità, calo del bilancio e allentamento di ogni sorveglianza e prevenzione.
L’incendio di Notre Dame a Parigi è a prima vista un caso diversissimo, dato che la Francia investe nel patrimonio culturale molto più non solo del Brasile ma dell’Italia. Eppure qualcosa in comune c’è: la difficoltà di accertare responsabilità precise, l’insufficiente prevenzione, i conflitti di competenza. L’abile risposta mediatica di Macron, che ha chiamato a raccolta i capitali privati per ricostruire Notre Dame in quattro e quattr’otto, “più bella di prima”, evidenzia il mito della velocità che sovrasta la necessaria lentezza di un restauro serio; ma anche la tendenziale abdicazione al ruolo delle istituzioni pubbliche nella custodia del patrimonio culturale. Era un privilegio, è diventato un peso.
Il potere distruttivo del fuoco si presta all’uso metaforico degli eventi di Rio e di Parigi come condensazione simbolica di uno strisciante ripudio della memoria storica. In Italia tale processo è favorito dalla doppia perdita di potere del governo nazionale: verso “l’alto” (l’Unione europea) e verso “il basso” (le autonomie regionali). La devoluzione di essenziali funzioni culturali (dalla scuola alla tutela del paesaggio) alle Regioni è tema attualissimo come cavallo di battaglia della Lega: ma non va dimenticato che, se è oggi possibile rivendicare l’autonomia regionale in questi ambiti, è in conseguenza della riforma costituzionale promossa nel 2001 dal centrosinistra. Forme di autonomia furono chieste dalla Toscana già nel 2003, dalla Lombardia e dal Veneto nel 2007, cioè da regioni governate da una coalizione politica diversa da quella del governo nazionale del momento. Il precedente è, oggi come ieri, l’autonomia della Sicilia nell’ambito dei beni culturali e del paesaggio, concessa nel 1975, con irresponsabile incoerenza, pochi mesi dopo l’istituzione del ministero dei Beni culturali. E le devoluzioni che sono dietro l’angolo non hanno nulla a che vedere con i diritti dei cittadini e la funzionalità delle istituzioni, ma puntano solo alla spartizione del potere.
Si sfarina e si disperde per tal via il patrimonio civile della Costituzione (art. 9), secondo cui “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Della Nazione: inteso dunque come inscindibile unità, e non terra di conquista per “governatori” di qualsivoglia partito e relative clientele. La memoria culturale, viva sostanza della storia e dell’identità del Paese, anima della cultura e dell’idea stessa di cittadinanza, rischia così di diventare – contro l’evidente segno unitario dell’art. 9 – materia frammentata di micro-conflittualità localistiche. Eppure l’articolo 9 della Costituzione fu proposto in Costituente da Concetto Marchesi e Aldo Moro precisamente come un argine alla temuta “raffica regionalistica” (così negli atti della Costituente, 30 aprile 1947). Le prospettate devoluzioni non sono che il cavallo di Troia di una brutale lottizzazione che, all’insegna della deregulation, minaccia la stessa unità nazionale. Una sorta di secessione strisciante di marca leghista. Possiamo solo sperare che questo progetto anti-costituzionale trovi nelle istituzioni, dal Quirinale al Parlamento alla Consulta, i necessari controveleni.

La Stampa 13.6.19
Nuto Revelli, il geometra partigiano che ha dato voce al popolo dei vinti
di Mario Baudino

https://www.lastampa.it/2019/06/13/cultura/nuto-revelli-il-geometra-partigiano-che-ha-dato-voce-al-popolo-dei-vinti-ZPiHoJlonklDlxQ2LWOW3J/premium.html


La Stampa 13.6.19
“La nostra Resistenza: gente comune con pregi e difetti, non un esercito di santi”

Carissimo Sandro,
ho letto con vivo interesse il tuo bellissimo articolo «Mito e storia della Resistenza» e mi rallegro di questa tua molto opportuna messa a punto.
Tu sai che mi sono rituffato nel partigianato per tentare di mettere giù la mia esperienza di quel tempo: un lavoro difficile, impegnativo, sproporzionato alle mie capacità. Ritrovare il partigianato così com’era, non come vorremmo fosse stato. Comprendi, caro Sandro, perché sono così entusiasta del tuo articolo? Perché la penso come te (anche se le mie idee sono ben più confuse delle tue).
In questo benedetto «Decennale» delle commemorazioni, dei discorsi, delle celebrazioni ufficiali, articoli come il tuo riportano un po’ di ordine e chiariscono le idee nel nostro ambiente. Credimi, è molto: chiarire le idee ai partigiani, prima che agli altri.
A volte, leggendo libri partigiani, quasi mi lasciavo cogliere da un senso di smarrimento: madonna santa, ma che partigiani in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di «mangiare» non parlavano mai, che ammazzavano i tedeschi a centinaia, e sparavano sempre fino all’ultima cartuccia. Possibile che soltanto per noi, partigianelli G.L. del Cuneese, esistessero un’infinità di piccoli problemi - le scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie? Che il nostro fosse soltanto un «piccolo» partigianato?
Da quando però ho ripreso a girare e rigirare i miei mucchi di scartoffie - scartoffie di allora - mi sono accorto che il nostro «piccolo» partigianato è quello vero, proprio perché dice che i tedeschi li ammazzavano soltanto a decine e non a centinaia, non parlavamo mai di strategia ma soltanto di tattica e sovente i problemi logistici erano più impegnativi dei problemi militari. Non piantavamo le bandiere sulle torri, né trovavamo il tempo per le «ore politiche»: alcuni di noi scappavano in combattimento, altri si facevano scannare piuttosto di mollare. Politicamente chi ne capiva di più e chi di meno: chi era salito in montagna per rischiare la pelle, chi per salvarla.
Questo era il nostro partigianato: un’esperienza meravigliosa perché vissuta da gente diversa - mille tipi con mille idee - da gente diversa che s’era ritrovata proprio nel partigianato, nella lotta. Gente comune, con pregi e difetti, non un esercito di santi. […]
Ciao, caro Sandro, molte cordialità
aff.mo Nuto

il manifesto 13.6.19
Il nostro Berlinguer, prima e dopo la radiazione
Berlinguer. Non era chiuso, invece era ironico; ma lo scoprii dopo. Quando faceva un comizio non strillava, ragionava, era «sincero». Perciò era popolare, il contrario di populista
di Luciana Castellina


Quell’11 giugno dell’84 in cui Enrico Berlinguer si accasciò per un improvviso malore sul palco dove, a Padova, aveva appena tenuto un comizio, ero a Trieste per una iniziativa organizzata dalla federazione del Pci, non ricordo su che tema. A parlare c’era anche Aldo Tortorella e al termine, come è consuetudine, siamo andati a cena con i compagni.
È mentre stavamo mangiando che arriva al ristorante una telefonata per Aldo, membro, allora, della segreteria del Pci. La inconsueta chiamata ha una ragione: lo hanno informato che Berlinguer è stato ricoverato. Gravissimo.
È davvero troppo tardi per correre a Padova, partiamo all’alba del giorno successivo, accorati arriviamo all’ospedale e ci è concesso di vederlo da lontano. Fuori si erano addensati i compagni, tutti in un lugubre silenzio.
Il resto della vicenda la conoscete. A me che, fortuitamente, ho potuto vederlo in quel letto di ospedale quell’immagine è rimasta incardinata: ogni volta che viene nominato quel nome è a quella che ritorno.
Con sgomento e dolore. E mi ha commosso, ora, il ricordo che ne ha tracciato sua figlia Bianca, non le tante memorie agiografiche che hanno celebrato il 35mo anniversario della sua morte improvvisa.
Dolore e sgomento veri, sebbene fosse stato proprio lui – forse non proprio volente – a buttarmi dalla finestra, ché questa è stata per me la radiazione dal partito in cui avevo già militato per 22 anni.
L’AVEVO incontrato nel ’47, ancor prima di iscrivermi al Pci, nella sede del Fronte della gioventù, così si chiamava l’organizzazione antifascista che raccoglieva giovani comunisti e socialisti e dove appresi i primi rudimenti della militanza politica. Alla prima riunione a Roma nella sede che sorgeva nel parco del Celio, mi chiese, ricordo, di spostare una panca per far posto a chi arrivava. Si trattò solo della prima indicazione, perché poi Enrico Berlinguer divenne il mio segretario nella Fgci appena ricostituita. Dove sono rimasta a lungo, direttore, dopo Sandro Curzi, del suo settimanale, Nuova Generazione.
LA FGCI ABITAVA allora a Botteghe Oscure, al primo piano, quello dimesso con i soffitti bassi, subito sotto quello nobile del segretario del partito, ancora Togliatti. La stanza di Berlinguer restava quasi sempre chiusa. Nel senso che lui mai si univa ai nostri schiamazzi negli altri locali. Come si sa Enrico era austero. E severo. Si andava a parlare con lui solo se era proprio indispensabile e con timore. Forse – abbiamo sempre pensato – è così perché già da giovanissimo aveva dovuto subire la scorta, che per un ragazzo è reclusione.
Austera era però anche tutta la Fgci, 400.000 iscritti, solo, e a lungo, il 2 per cento di studenti, il resto mezzadri e aspiranti operai: si deve arrivare alla fine degli anni ’50 perché le fabbriche, sia pure in modo molto discriminatorio, si aprissero alla nuova generazione. Dopo la sconfitta del 18 aprile 1948 l’Italia si era spaccata in due società non comunicanti: quella dei comunisti (e per un pezzo dei socialisti) e quella degli altri. La nostra era austera perché era poverissima. E poi il tema della morale e del coraggio era dominante: da qui venne la tanto discussa indicazione di Enrico di considerare nostra eroina santa Maria Goretti, uccisa perché si era ribellata a uno stupro.
IN REALTÀ Enrico non era scontroso e chiuso, era anzi ironico; ma questo lo scoprii solo in seguito. Allora avevamo troppa soggezione per capirlo. Quando faceva un comizio non strillava, ragionava. Al suo immenso funerale una donna vicino a me ebbe a dire: «Nei suoi discorsi non ci sono mai fronzoli, si vede che è sincero». Per questo era popolare, il contrario di populista.
QUALCHE TENTATIVO di dialogo con «l’altro mondo», quello dei giovani della Dc che nei primi anni ’50 erano parecchio di sinistra (tanto è vero che molti di loro finirono poi per uscirne e approdare al Pci) venne fatto. Fu proprio Enrico che mi incaricò del primo approccio ufficiale, perché io dirigevo gli studenti comunisti e nelle università, per via delle organizzazioni rappresentative, un rapporto, sia pure conflittuale, era già maturato. Mi chiese di andare a parlare con il loro segretario, Malfatti (poi ministro e perfino presidente della Commissione europea), per chiedergli se fosse stato disposto ad andare come osservatore al congresso della Federazione Mondiale della gioventù che si sarebbe tenuto a Varsavia.
LO CHIAMAI, ma non sapevamo dove incontrarci: che io andassi nella sede Dc di piazza del Gesù impensabile, altrettanto che lui traversasse la strada per approdare a Botteghe Oscure. Finimmo così per parlarci nella sua automobile, parcheggiata a piazza del Quirinale, interrotti dai venditori di fiori, tanto che alla fine, per avere pace, Malfatti mi comprò una rosa.
Alla nostra proposta rispose di non poter essere lui ad andare ma che avrebbe inviato un suo giovane di fiducia, uno di Bergamo: Lucio Magri.
Che conobbi così, a Milano, dove gli portai il passaporto col visto polacco, poco prima della partenza del treno, che io non potei prendere perché, per l’ennesima volta, la Questura, in nome dei miei primi reati politici, mi aveva negato il documento.
POI TANTE COSE, e quindi la radiazione. Che cercò di evitare, con proposte concilianti, ma tutte rigidamente chiuse nel quadro di quanto il dissenso poteva esser considerato legittimo dal Pci di allora. Noi del Manifesto, come sapete, rifiutammo.
I dieci anni successivi Berlinguer non l’ho più visto. Furono anni di rottura totale, il Pci disse di noi cose terribili. E noi attaccammo frontalmente la scelta berlingueriana del compromesso storico.
E PERÒ nel 1980 ci ritrovammo: in un famoso comitato centrale tenuto, per via del tremendo terremoto della vicina Irpinia, a Salerno ( e per questo l’evento venne chiamato la «seconda svolta di Salerno», in ricordo di quella operata da Togliatti al suo arrivo in Italia nel ’44). Berlinguer abbandonò infatti l’ipotesi delle «larghe intese», dimostratasi così infruttuosa. E rilanciò la proposta di unità delle sinistre.
POCO DOPO ci fu la rottura ufficiale con il PcUs. Tardiva, purtroppo, perché a quel punto il vento degli anni ’70, che in occidente con le lotte operaie e studentesche, nel Terzo mondo con il fronte dei non allineati, e anche nell’Est Europa con le rivolte operaie in Polonia a Danzica e Stettino, aveva mutato i rapporti di forza che erano stati in favore della sinistra e si era spento. Tanto è vero che quella rottura fu interpretata da molti non come la proposta di un nuovo e diverso comunismo, ma come l’impossibilità di realizzarlo.
Non Berlinguer, che non era affatto arreso, e in qui primi anni ’80, a fronte dell’arrogante anticomunismo craxiano, radicalizzò la sua linea.
NON SENZA contrasti: la sua critica al degrado delle istituzioni nell’intervista a Scalfari, non fu la liquidazione della orgogliosa «diversità comunista» ( che era rifiuto dell’omologazione), ma un lungimirante attacco al potere; così come la proposta dell’austerità non fu una scelta «codina», ma un primo approccio alla tematica ecologica che muoveva allora primi passi. Si aprì anche al femminismo: ricordo la sua attenta partecipazione ad un convegno, a Milano, promosso dalla Libreria delle Donne.
Tra l’altro nell’83 nella famosa intervista a Mixer condotta da Gianni Minoli aveva definito Luigi Pintor come «il miglior giornalista italiano».
Soprattutto sostenne e mobilitò il Pci dall’81 all’83, a cominciare da quello siciliano con Pio La Torre – che venne poi assassinato – in grandi manifestazioni contro le derive della guerra fredda di cui era sempre interprete la Nato e quindi contro l’installazione a Comiso dei missili nucleari Pershing II e Cruise. Fu quella di Comiso una grande stagione del pacifismo europeo e italiano, unitaria, anche grazie a lui.
TUTTO QUESTO ci portò, a noi del Pdup (il Partito di unità proletaria), ad un inedita collaborazione col Pci. Che ebbe alla fine un esito importante, quando Enrico Berlinguer, un po’ a sorpresa, venne ad assistere all’apertura del nostro congresso, a Milano, marzo 1984. E, ascoltata la relazione di Lucio Magri, andò da lui e gli disse: «Ma perché non rientrate nel partito, adesso che le ragioni del dissenso sono state superate?». Con qualche travaglio ma con l’accordo della grande maggioranza del Pdup, accettammo la proposta.
ERAVAMO ai primi passi del processo quando a Padova la sua vita fu bruscamente interrotta. E tutto cambiò. Berlinguer quella richiesta di rientro l’aveva fatta perché, sebbene segretario del Pci, era rimasto isolato proprio sulla linea che a noi ci aveva invece ravvicinato. Eravamo certo un piccolo partito, ma dotato di un migliaio di quadri capaci e avremmo forse potuto influire sul dibattito che stava, sia pure mai ufficialmente, già dividendo il gruppo dirigente del Pci.
E che alla fine, Berlinguer ormai scomparso, portò alla malaugurata scelta di sciogliere il partito comunista.

il manifesto 13.6.19
Hong Kong, scontri e proteste anti-Cina La polizia: «Rivolta»
Manifestazioni sono in corso da giorni contro l’approvazione della legge che permette l’estradizione a Pechino dei «sospetti»
di Simone Pieranni


Come accade sempre più spesso in Asia, quando c’è di mezzo la Cina, le proteste rischiano di rappresentare sentimenti radicati nel tempo: quelle in scena da giorni a Hong Kong sono contro l’approvazione del provvedimento che consentirebbe per la prima volta l’estradizione di sospetti di reati verso la Cina continentale, ma sono innanzitutto proteste anti-cinesi.
Le persone in piazza hanno dimostrato – infatti – l’insofferenza di Hong Kong verso una presenza sempre più evidente di Pechino negli affari interni dell’ex colonia britannica. Non c’entra solo la Cina, perché ovviamente di fronte alla proteste anche gli Usa hanno detto la loro, da Nancy Pelosi, contraria all’estradizione (che poi dipenderebbe dall’esecutivo, accusato di essere filocinese), a Trump che, invece, ha espresso la volontà che tutto si possa risolvere di comune accordo con la Cina.
foto da Scmp.com
Ipotesi piuttosto complicata, mentre Admiralty, Central, luoghi comuni a chiunque sia mai passato da Hong Kong, si riempivano di manifestanti e ben presto diventavano luoghi di scontri con la polizia, che nella serata di ieri ha etichettato come «rivolta» la protesta, lasciando intendere un seguito repressivo non da poco, quanto a potenziali condanne per gli arrestati (sia quelli già in custodia, sia quelli che arriveranno nei prossimi giorni).
Quanto al provvedimento, è ancora in bilico, ma solo per questione di «ordine pubblico»: oggi potrebbe diventare ufficiale. In breve, la legge permetterebbe l’estradizione in Cina di «sospetti» autori di reati per cui si prevedono più di sette anni di pena (quest’ultima caratteristica è arrivata dopo le prime proteste soprattutto degli avvocati dell’ex colonia britannica).
Chi ritiene sia necessario il provvedimento (il governo di Hong Kong, guidato da Carrie Lam, accusata di «vendere Hong Kong alla Cina» e naturalmente Pechino) portano a propria giustificazione il caso del ragazzo autore di un omicidio a Taiwan e poi rifugiatosi a Hong Kong. In questo caso la legge permetterebbe l’estradizione (il provvedimento prevede la possibilità di estradare sia in Cina, sia a Taiwan sia a Macau).
Chi è contrario ritiene molto semplicemente che la legge permetterà alla Cina di ottenere eventuali dissidenti o persone accusate di reati di opinione contro Pechino. Ma naturalmente non c’è solo questo: in ballo infatti c’è un riavvicinamento politico sempre più netto, dopo che già economicamente e finanziariamente Hong Kong è ultra collegata alla Cina continentale. Le manifestazioni davvero partecipate – come mai si era visto nell’ex colonia, neanche nel 2014 ai tempi della cosiddetta «Umbrella Revolution» che si caratterizzò per la richiesta di suffragio universale (a Hong Kong il chief executive è nominato indirettamente) – dimostrano come per gran parte della società di Hong Kong la propria peculiarità, ovvero la presenza di elementi democratici al proprio interno, sia intoccabile.
La storia, però, sembra andare in una direzione contraria: la Cina ha sempre più rilevanza geopolitica mondiale e sempre più frecce al proprio arco per tenere al guinzaglio paesi e governi.
Le proteste, soprattutto quelle di ieri, sono tracimate in scontri violenti, arresti, feriti in ospedale. Carrie Lam piangente ha assicurato di non aver venduto la città alla Cina, Pechino ha ribadito che la legge permetterà alla città di liberarsi di criminali, affermazioni che si sono immediatamente trasformate nella giustificazione di legge e scontri da parte dei filo cinesi.
Il problema vero per chi protesta è che di fronte non ha solo il governo e la polizia cittadina, bensì la seconda potenza mondiale. Le possibilità di riuscire a bloccare la legge sono sostanzialmente nulle, almeno, sulla carta e data la volontà dell’esecutivo di andare avanti.
Il rischio è quello di interventi ancora più violenti di quanto non sia accaduto da parte della polizia e una coda repressiva di proporzioni gigantesche: un seguito che potrebbe tagliare le ali a un movimento che rispetto a quello visto all’opera nel 2014 è sembrato più radicale, più organizzato e composto non solo da middle class e giovani, ma anche da lavoratori.
La violenza di alcuni scontri è l’ultima risorsa per i manifestanti a fronte di un muro opposto, fino ad oggi, alle loro richieste.

Il Fatto 13.6.19
“La Cina vuole tutti in ostaggio”
di Alessia Grossi

“Se la legge che permette l’estradizione dei sospetti criminali da Hong Kong alla Cina venisse approvata, sarebbe preoccupante non solo per i suoi cittadini, ma anche per gli stranieri e per chiunque transiti sul suo territorio”. Andrea Sing-Ying Lee è il Rappresentante di Taiwan in Italia – l’isola a 180 km dalla costa cinese che dal 1949 rivendica la propria indipendenza da Pechino – ed è certo che la nuova norma aprirà le porte alla persecuzione anche politica di cittadini invisi a Pechino.
Per questo “le proteste di questi giorni del popolo di Hong Kong – spiega – sono assolutamente legittime”. “Taiwan appoggia i cittadini hongkonghesi che sono scesi in strada per difendere i diritti umani e lo Stato di diritto del loro Paese”, continua Lee. La norma contro cui più di un milione di persone a Hong Kong sta manifestando – scontrandosi con la polizia che ha caricato con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, causando 70 feriti, di cui due gravi –, viola non solo l’accordo secondo cui l’isola non può subire interferenze né giuridiche né politiche da parte della Repubblica Popolare Cinese fino al 2047, cioè per i 50 anni successivi al ritorno sotto la sovranità cinese nel 1997. Ma, soprattutto “vedrebbe cancellate libertà che in Cina non esistono”, sostiene il rappresentante di Taiwan, quelle acquisite da Hong Kong sotto il sistema britannico di cui fu un governatorato dal 1898. “Esorto il governo ad ascoltare le preoccupazioni della sua popolazione”, è stato l’appello lanciato dal ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt. Eppure la governatrice Carrie Lam – che ha dichiarato di non avere intenzione di ritirare la legge tanto discussa, nonostante le proteste – sostiene che “la norma garantirebbe in alcuni articoli “l’applicazione della richiesta di estradizione in Cina soltanto di persone sospettate per stupro e omicidio oltreché il rispetto dei diritti umani”. “Il sistema giudiziario cinese è noto a tutti per le sua mancanza di trasparenza”, sostiene invece Lee, “non è detto che Pechino garantisca agli imputati gli stessi diritti di Hong Kong”. Dunque, si domanda Lee, “perché non lasciare che a processare gli accusati sia il proprio sistema giudiziario invece di inviarli in Cina?”.
Per non parlare dei danni “anche economici che potrebbero derivare a Hong Kong da questa legge”, spiega ancora Andrea Lee, al quale non sfugge che tra l’isola e Pechino “ci siano già leggi di cooperazione dal punto di vista giuridico” e che quindi questa “nuova concessione al governo di Xi JinPing non sarebbe poi così necessaria”.
“In questo modo – afferma – tutte le aziende straniere che operano sul territorio di Hong Kong potrebbero non sentirsi più protette da uno Stato di diritto con leggi eque, sensazione che avrebbe in realtà chiunque transitasse anche solo per l’aeroporto dell’isola rischiando di essere estradato in Cina se Pechino lo ritenesse in qualsiasi momento necessario”. Non nasconde il tema degli oppositori politici Lee, come i cittadini di Taiwan, Paese di dissidenti secondo Pechino, che a Hong Kong “ha investito 30 miliardi di dollari” e ha creato “centinaia di aziende in cui lavorano più di 100 mila taiwanesi”. “Una situazione preoccupante”, la definisce il rappresentante di Taipei in Italia. Intanto la Cina, che fin dalle prime proteste di domenica ha fatto sapere che appoggia la legge, ha negato le voci secondo cui avrebbe inviato forze di sicurezza dalla terraferma. “Sono solo notizie per creare il panico”, ha detto il ministro degli Esteri di Xi JinPing, Geng Shuang, dopo che fin dalle prime ore della protesta aveva chiesto all’Occidente di “non intromettersi nella questione”. Eppure, nonostante in teoria la nuova legge sia nata dopo la fuga a Hong Kong di un omicida cinese, i sospetti verso Pechino si sono rafforzati per una serie di sparizioni di oppositori al potere cinese, fra cui anche un gruppo di editori dissidenti e un miliardario, poi ricomparsi nelle prigioni della Cina continentale.
Non a caso a Pechino la copertura mediatica delle proteste è stata molto limitata. A differenza di quanto è accaduto in tutto il mondo, in cui gli scontri – ancora più imponenti “delle proteste degli ombrelli” che nel 2014 chiedevano il suffragio universale per l’elezione del governatore – hanno invaso social, tv e siti di news. “Speriamo che queste immagini tristi che ricordano Tienanmen e altri scontri del passato non diventino la norma in un Paese pacifico, ma siano un’eccezione”, si augura Lee. Intanto Pechino ieri ha fatto sapere di aver aperto la prima tratta ad alta velocità che collegherà Tianjin, nella Cina continentale, a Hong Kong, operativa dal 10 luglio. La tratta toccherà 12 stazioni, facendo salire così i collegamenti con l’ex colonia britannica a 58.

Repubblica 13.6.19
Carrie Lam
dal nostro corrispondente


PECHINO — Non ha mai ceduto di un millimetro Carrie Lam. Neppure quando si trattava di demolire uno degli storici moli coloniali di Hong Kong: da segretario allo Sviluppo, era il 2007, si presentò davanti alla folla di manifestanti radunata per bloccare i lavori e disse "no", preservare il passato non era possibile: «Non voglio dare false speranze». Non le sta dando neppure ora che è chief executive , il primo "governatore" donna della storia di Hong Kong, e in gioco c’è molto più di un molo: l’identità stessa della città. La legge sull’estradizione verso la Cina serve, ha scandito due giorni fa davanti ai microfoni in tutta la sua compostezza, per nulla impressionata dalla folla di un milione di persone che il giorno prima aveva marciato "contro", lei e la norma. E ai giovani che ieri sono scesi in strada, gli stessi con cui durante la protesta degli ombrelli la mandarono a dialogare, ha riservato solo lacrimogeni, pallottole di gomma e un durissimo video di tre minuti: la loro «è istigazione alla rivolta, non amore per Hong Kong».
Non si piega, perché in fondo è a questa dedizione d’acciaio che la 62enne Lam Cheng Yuet-ngor, il suo nome cantonese, deve tutto. Nata da una famiglia povera, quarta di cinque figli, si è sudata ogni passo verso l’alto, all’istituto cattolico femminile, tra i banchi di Sociologia, poi tra quelli di Cambridge, quindi nei ranghi dell’amministrazione. Il problema è che molti ora si chiedono dove batta il cuore, dietro a tanta determinazione: prima ha servito la Gran Bretagna, poi, dopo la restituzione del 1997, la Repubblica popolare cinese. Ma Hong Kong? Ieri durante gli scontri è stata trasmessa una sua intervista registrata in cui, lacrime agli occhi, risponde all’accusa di averla svenduta alla Cina: «Come potrei mai? Sono nata qui. L’amore per questo posto mi ha portato a fare dei sacrifici personali».
Eppure come tutti i bravi funzionari Lam sa bene che più di tutto contano le priorità del capo, quel Xi Jinping che l’ha scelta e di fronte a cui ha giurato. E tra i pensieri di Xi non c’è di sicuro lo stato di diritto a Hong Kong. Proprio come il marito, matematico conosciuto a Cambridge, e i due figli, anche lei aveva un secondo passaporto inglese, una scialuppa di salvataggio che i locali si tengono ben stretti. Ma ci ha rinunciato per entrare nel "governo" della città. Ora è solo cinese e i cartelli la ritraggono dipinta di rosso, con una falce e un martello gialli attorno agli occhi.
Le chiedono di dimettersi, qualcuno la minaccia addirittura di morte. Sarà lei a trasformare questa città orgogliosa in una delle tante metropoli cinesi? Una volta la cattolica Lam si attribuì una beatitudine biblica: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché loro è il regno dei cieli». Chissà se si sente nel giusto anche oggi che ha mezza Hong Kong contro. O se si è solo ritrovata spalle al muro per una legge tutto sommato inutile, ma appoggiata da Pechino in modo così smaccato che non si può più ritirare. In ogni caso, Carrie Lam non arretra di un millimetro.

https://spogli.blogspot.com/2019/06/repubblica-13.html

martedì 11 giugno 2019

“La domenica mattina – dice – in mezzo alle baracche ci stavamo noi con il giornale e la suora con il crocifisso e la campanella”. Due chiese.
“Non siamo riusciti a fare il socialismo in Italia, facciamolo a casa nostra, volemose bene”
Il Fatto 11.6.19
“Caro compagno”, l’anima di Berlinguer in una lettera
35 anni fa moriva l’uomo della “questione morale”. Il militante e il carteggio con il segretario: “Una persona di un’umiltà straordinaria”
di Tommaso Rodano


Sostiene il compagno Sergio Fazi che Enrico Berlinguer “l’hanno fatto morì accorato”, col cuore gonfio di amarezza, “per colpa della questione morale”. Sostiene Sergio che il segretario del Pci era amato dalla gente, ma nel partito c’erano troppi dirigenti con un’idea della politica meschina, lontana dalla sua (Sergio fa i nomi, ma questa è un’altra storia).
Berlinguer è morto esattamente 35 anni fa, l’11 giugno 1984: si è spento a Padova quattro giorni dopo l’ultimo comizio, quando un malore lo colse sul palco e lo costrinse a uno sforzo disperato e struggente per arrivare alla fine del discorso. Bisogna rivedere quel filmato: la figura austera, il linguaggio rigoroso e complesso. Sembrano passati due secoli, più che 35 anni.
Eppure quella figura rimane. “Berlinguer ti voglio bene” è il titolo di un film di Giuseppe Bertolucci con Roberto Benigni ma pure, ancora, un sentimento collettivo. Per capire come sia possibile questa memoria ostinata e questo affetto quasi irrazionale per un uomo di partito, bisogna parlare con le persone che riannodano quotidianamente i fili di quei ricordi.
Come Sergio Fazi, appunto. Classe 1946, romano dell’Appio Latino, tessera del Pci dal 1962, segretario di circolo per tanti anni e figura di riferimento nel quartiere da sempre. Indossa una maglietta rossa, siede su una panchina e stringe in mano un foglio, la fotocopia di un documento dattiloscritto. “Ora vi spiego chi era Berliguer”, dice.
“Questa lettera è del 24 marzo 1981, ha la sua firma. Lui, il segretario del Partito comunista italiano, aveva trovato il tempo per ringraziare me, che ero un compagno qualsiasi”. La storia è questa: “Io gli mandai una missiva perché sapevo che sarebbe stato ospite di una tribuna politica e gli volevo dare un consiglio: sicuramente i giornalisti proveranno a metterti alle strette sui rapporti del Pci con l’Unione Sovietica, tu invece parlagli dei problemi concreti della gente. Non sapevo se l’avrebbe mai letta e non pensavo certo che avrebbe risposto”. Invece andò proprio così, Berlinguer iniziò quella trasmissione raccontando la storia di un pensionato in difficoltà e portò il dibattito sul terreno che gli stava a cuore. Dopo qualche giorno, nella piccola sezione del Pci dell’Appio Latino si presentò una collaboratrice del segretario che portava in mano una busta. Sergio Fazi non poteva crederci. C’era scritto questo: “Caro compagno, durante la conferenza stampa alla televisione ho tenuto sul tavolo la tua lettera, pronto a leggerne un passo nel caso che il primo giro di domande dei giornalisti avesse riguardato solo questioni internazionali e di politica generale. Come avrai visto, questa volta vi sono state diverse domande che mi hanno consentito di trattare alcuni problemi di largo interesse popolare. Ti ringrazio per la tua lettera e i tuoi consigli, in ogni caso utili. Fraterni saluti”. E la firma a penna: Enrico Berlinguer.
Sergio ha ancora gli occhi lucidi. “Questo era l’uomo. Di un’umiltà che oggi non si può nemmeno immaginare”. E questo era il Pci: “Un partito che parlava alle persone, stava in mezzo alla gente, in mezzo alle strade”. Si scioglie in un flusso di ricordi. Racconta di quando da ragazzo portava l’Unità ai baraccati del “borghetto Latino”, un gruppo di tre o quattrocento famiglie che viveva ai margini del parco della Caffarella, dentro abitazioni che erano scatole di lamiere. Il Pci trovò loro una casa vera, guidando l’occupazione di un grande palazzo disabitato dietro la basilica di Santa Maria Maggiore, in piazza dell’Esquilino. Sergio c’era.
“La domenica mattina – dice – in mezzo alle baracche ci stavamo noi con il giornale e la suora con il crocifisso e la campanella”. Due chiese. La sua vita è un piccolo saggio nel grande racconto collettivo del Pci: la prima tessera a 16 anni (“Mia madre, avvertita dal prete di quartiere, me la strappò: ero il primo comunista della famiglia”), poi il lavoro da tipografo nella stamperia dell’Unità e del Paese Sera.
Le figure per lui coincidono, Berlinguer era il partito, il partito era la politica, la politica era il rapporto con gli altri: “Ti svegliavi e sapevi che dovevi cambiare la società”. Ricorda quel segretario, quell’uomo buono, e piange ancora, sulla panchina di piazza Scipione Ammirato, vicina alla vecchia sezione. Cita le parole finali di uno dei comizi di San Giovanni che “ancora mi danno i brividi come allora”: “Compagni, tornate nei quartieri e nelle case, portate la voce del partito comunista”. E poi racconta i lucciconi che rigavano le guance a tutti, il giorno di quei funerali monumentali che hanno bloccato la città e fermato il tempo, il 13 giugno 1984.
Il racconto di Sergio Fazi è spezzato come l’eredità di quella storia. Ci sono anche le amarezze, la perdita del lavoro in tipografia e poi il congedo dal partito: “Non ero un nostalgico, né un gruppettaro, un radicale. Per me potevamo pure cambiare nome ma non dovevano tagliare le nostre radici”.
Quello che rimane della lezione di Berlinguer suona nelle parole che vuole consegnare ai nipotini: “Non vivete in pantofole, ribellatevi alle ingiustizie”. E nell’abbraccio alla moglie, il giorno che decise di non rinnovare più la tessera: “Non siamo riusciti a fare il socialismo in Italia, facciamolo a casa nostra, volemose bene”.

Il Fatto Quotidiano 11.6.19
L’ultimo comizio

Folena: “La Rai evitò la diffusione di quel filmato sconvolgente”
Pietro Folena è stato dirigente e parlamentare del Pci e dei partiti che ne hanno raccolto l’eredità. Su Facebook ha ricordato l’ultimo comizio di Enrico Berlinguer a Padova (l’aneddoto è contenuto anche nel suo libro I ragazzi di Berlinguer). “Per anni mi ero rifiutato di raccontarlo, quel giorno. Mi sembrava una cosa di cattivo gusto. E soprattutto (…) avevo sognato troppe volte il rantolo del coma, l’uomo moribondo sulla lettiga (…). Quelle immagini del malore durante il comizio erano il frutto totalmente involontario e inaspettato di un primo tentativo (…) di modernizzare il comizio, di farne un evento spettacolare. E così avevamo noleggiato un sistema di riprese e di videoproiezione da un privato, che aveva fornito anche l’operatore. Dopo il malore (…) ci tornò un po’ tardivamente in mente – a noi che stando sul palco dietro a Berlinguer non avevamo visto la diretta della sofferenza sul maxi-schermo – che esisteva una cassetta. Cercammo l’operatore. Era scomparso. La cassetta stava per finire sul mercato. Qualche ora dopo quelle immagini potevano già essere sui teleschermi di mezzo mondo. Tramite la Direzione del Pci facemmo intervenire la Rai, che si assicurò i diritti di quelle sconvolgenti riprese”.

Repubblica 11.6.19
Intervista a Bianca Berlinguer
“Ogni giorno mi chiedo che cosa penserebbe papà Enrico”
di Simonetta Fiori


A 35 anni dalla morte del leader del Pci, Bianca Berlinguer ricorda “la sua lezione ancora viva”. E dice: “Non voleva che lo pensassero triste, non lo era”
Ancora oggi non credo di essere riuscita a elaborare completamente il mio lutto». È un momento di pausa a Saxa Rubra, Bianca Berlinguer ha appena fissato la scaletta del suo programma. Chiusa la porta della stanza, perde quel tratto imperioso in cui si rifugiano molto spesso le donne pubbliche per difendersi dal mondo. Sono passati 35 anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer, l’11 giugno 1984, e lei parla del padre con un’emozione intatta, come se quella drammatica pellicola impressa nei ricordi di molti di noi – il malore sul palco di Padova, l’agonia, il funerale in piazza San Giovanni – fosse stata girata ieri.
Perché dici che non hai elaborato il lutto?
«Sento ancora un dolore vivo e profondo, come se una parte di me non si fosse mai rassegnata a quella perdita e a quella assenza».
Non è cambiato nulla in questi anni nel tuo modo di rapportarti a lui?
«Non direi. La sua morte è stata così improvvisa e inaspettata e io ero così giovane che ho faticato a elaborare un rapporto maturo con la sua figura. E poi forse ha inciso anche un altro aspetto».
Quale?
«A me e ai mie fratelli fu sottratta quella intimità che accompagna gli ultimi momenti di vita di un padre e di una madre. Fin dal malore sul palco di Padova, la grande macchina del Pci e la diffusa emozione popolare finirono involontariamente e per troppo amore col sottrarci una parte del nostro dolore rendendolo così condiviso e così pubblico».
Ne parli come se ancora ti toccasse.
«E come potrei mai dimenticare quei giorni? Ci furono di grande conforto il presidente Pertini e i pugni chiusi e i segni della croce di tantissime persone al passaggio della bara. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, continuo a percepire affetto e dolore per la sua perdita».
Come spieghi questo rimpianto così vivo?
«Forse perché mio padre è stato capace di rappresentare la speranza di un cambiamento: il Pci ha incarnato questo progetto per molta parte del nostro paese. Allora il leader era una figura mai separata dal suo partito. Ed esisteva una forte identificazione tra il segretario e il militante perché le loro vite erano simili: passione, lotte e sacrifici. E di dedizione a quell’idea».
So che non ti vuoi spingere al paragone con l’oggi.
«È impossibile. Tutto è cambiato, a cominciare dalla divisione del mondo in due blocchi. Poi mi ha sempre dato fastidio questo strattonarlo da una parte o dall’altra per immaginare che cosa avrebbe detto rispetto all’attualità. Non voglio farlo io».
C’è qualcosa che ti disturba nella memoria pubblica di Enrico Berlinguer?
«Ci sono aspetti rimasti nell’ombra, come l’ amore per il suo Paese e le istituzioni democratiche. Non è un suo tratto peculiare, ma proprio di gran parte della sua generazione che coltivava un fortissimo senso dello Stato, a prescindere dalle appartenenze partitiche. Mio padre era un comunista italiano. E negli anni difficili del terrorismo e delle stragi l’interesse nazionale veniva prima anche dello stesso interesse del Pci».
Il feretro era avvolto in una bandiera italiana.
«Sì, così lo accompagnammo nel viaggio dall’ospedale di Padova fino all’aeroporto dove ci imbarcammo sull’aereo del presidente Pertini.
Quando arrivammo la sera tardi a Ciampino, mamma si accorse che c’era solo la bandiera rossa. E allora chiese che ci fosse anche il tricolore.
Enrico, disse, era prima di tutto un uomo che amava il suo paese».
Fu criticato perché ci mise tanto a fare lo strappo dall’Urss.
«Lo fece quando era sicuro di portarsi dietro tutto il partito. Ma in realtà il suo distacco era maturato da tempo. Già nel 1977 a Mosca il suo discorso sul valore universale della democrazia venne accolto da una reazione glaciale. E nel 1973 c’era stato il gravissimo incidente stradale in Bulgaria: lui era convinto che si fosse trattato di un attentato».
Anche in famiglia non avvertivi un sentimento di vicinanza all’Urss.
«Tutt’altro. Ricordo quando arrivammo a Jalta in nave, nel nostro unico viaggio in Unione Sovietica: guardando verso la banchina papà diceva: “Poveri noi, ecco Ponomariov (un altissimo dirigente del Pcus), ecco Smirnov” (un importante funzionario). Era il 1979 e sapeva di essere un sorvegliato speciale».
Cos’altro non approvi della sua immagine pubblica?
«La tendenza a leggere la questione morale come espressione della diversità antropologica dei comunisti. In quella celebre intervista a Scalfari mio padre denunciò l’occupazione della società e dello Stato da parte dei partiti, anticipando quello che sarebbe poi accaduto, ossia la sfiducia dei cittadini nella politica. Non l’ho mai sentito parlare di superiorità morale dei comunisti».
Il suo tratto caratteriale non ammetteva nessuna supponenza.
«Era un uomo sobrio, ma anche tormentato, che si faceva tante domande. Sentiva il peso di guidare il maggior partito comunista dell’Occidente».
Era timido?
«Sì».
E quando Benigni lo prese in braccio?
«Ero con lui al Pincio. “Ma papà che gli hai detto quando ti ha sollevato?”. “Piano, piano”. Era preoccupato dalla paura di cadere con lui. Però era contento. Benigni gli piaceva molto».
C’è un suo gesto in particolare che ti manca?
«Le tante cose fatte insieme. Ora capisco di più il valore di certe sue attenzioni, quando durante una campagna elettorale difficile o un congresso del Pci lo costringevo, stanco com’era, a preparare con me l’interrogazione di filosofia del giorno dopo».
Cosa gli procurava dispiacere?
«Il fatto di essere considerato triste e serioso. Papà non lo era affatto. Anzi era anche un po’ naif, capace di iniziative imprevedibili, come se volesse recuperare qualcosa che nell’infanzia gli era stata negata. La morte precoce della madre aveva segnato profondamente la sua vita.
Da qui anche il tratto di riservatezza e pudore verso i propri sentimenti.
Ma con noi figli ritrovava quella giocosità forse mai vissuta pienamente da bambino».
L’ultima volta che hai pensato: cosa avrebbe detto o fatto?
«Sempre, Anche ieri».
Ti capita di chiedergli ancora l’approvazione e temere di non averla?
«L’ho fatto per tutta la vita e continuerò a farlo. Ma credo che sia una prerogativa di tutti i figli rispetto ai propri genitori, soprattutto se sono mancati presto».

Corriere 11.6.19
Culture politiche
Così il pd è rimasto solo
di Antonio Polito


Sui giornali scriviamo ancora «centrosinistra». Di solito per dire che «ha perso», talvolta che «ha tenuto», di recente perfino per annunciarne qui e là la «ripresa». Ma che cosa è il «centrosinistra»? A che cosa ci si riferisce con questo nome? Alle elezioni europee del maggio scorso solo un partito tra tutti quelli riconducibili al centrosinistra ha superato il quorum: il Pd di Zingaretti. Nel centrodestra sono stati tre. Anche alle Europee di cinque anni fa il Pd fu solo, ma allora prese il 40,8 per cento dei voti, mentre oggi ha il 22,7. La vasta e frammentata area elettorale che ruotava nel passato intorno a quel partito è stata dunque prima risucchiata e poi prosciugata. Il risultato è che oggi non c’è più un centrosinistra. Intorno alla guarnigione asserragliata del Pd c’è il deserto dei tartari; e se proprio vogliamo insistere nella metafora del romanzo di Buzzati, i tartari sono le orde leghiste che da un momento all’altro potrebbero dare l’assalto alla Fortezza Bastiani, l’Emilia rossa. Ecco perché anche un buon risultato elettorale del Pd, quale sicuramente è stato scavalcare i Cinquestelle alle Europee, resta sempre una vittoria di Pirro. Non rende più facile fare l’opposizione(grida vendetta il voto favorevole dei parlamentari democratici, in evidente stato confusionale, alla proposta dei mini-Bot); né prefigura una maggioranza di governo, perché in tempi di proporzionale neanche una buona performance del Pd alle prossime elezioni potrebbe rompere la sua solitudine, e anzi rischierebbe di aggravarla.
Ogni ipotesi di schieramento alternativo al populismo e alla destra soffre infatti della scomparsa nel nostro Paese, o del ridimensionamento fino all’irrilevanza, di tre grandi culture politiche che nel passato italiano e nel presente europeo hanno svolto e svolgono invece un importante ruolo di tessuto connettivo del sistema: l’ambientalismo, il liberalismo e il solidarismo cattolico.
Le prime due sono state le protagoniste delle ultime elezioni in Francia e in Germania, compensando la crisi della sinistra politica e facendo da cuscinetto all’avanzata delle destre anti-sistema. Da noi, invece, i Verdi hanno ottenuto il 2,3% e la lista +Europa, iscritta al gruppo liberale europeo, il 3,1%. Risultati che ne f anno partiti di testimonianza, magari pronti a riscuotere un po’ di collegi uninominali quando si andrà alle urne per le elezioni generali, ma troppo flebili per poter dare un contributo di idee e di leadership nuove alla costruzione di uno schieramento competitivo. Le ragioni sono molteplici, e spesso storiche. Ma tra di queste c’è anche l’imperialismo che il Pd ha praticato nel passato nei loro confronti, e che ora gli si ritorce contro. Al punto che c’è chi ipotizza, come Calenda, di concepire «in vitro» quella forza liberal-europeista che non c’è, per non lasciare troppo solo il Pd (con maligna efficacia, Renzi ha ricordato al suo ex ministro che per fondare un partito di solito non si chiede il permesso a quello di provenienza) .
L’altra cultura politica il cui apporto manca sempre più al centrosinistra, e a dire il vero all’intero dibattito pubblico del nostro Paese, è quella del cattolicesimo, della parte cioè del mondo cristiano che si impegna nella vita civile con l’obiettivo del bene comune. Un’area che, pur continuando ad avere nel volontariato, nei movimenti cristiani, nel sindacalismo, una presenza radicata e trascinante, ha smesso di far politica, forse bruciata dalle troppe delusioni del passato.
L’assenza dalla scena pubblica di queste tre grandi culture, della loro elaborazione intellettuale e della loro spinta ideale, rispecchia anche la fragilità e l’arretratezza del tessuto sociale della Nazione, la debolezza di ceti che potrebbero invece guidare l’opinione pubblica nei momenti cruciali. Un Paese «invecchiato» come il nostro, pensa infatti a consumare risorse e perde interesse nella questione ambientale, che riguarda il futuro e dunque di solito mobilita i giovani. Un Paese sempre più corporativo, che cerca nel «particulare» la via d’uscita a una crisi che sembra non finire mai, è indifferente se non ostile a ogni anelito di riforma liberale dell’economia. Infine un Paese incattivito, perennemente in cerca di capri espiatori, si chiude inevitabilmente allo spirito solidaristico delle tante esperienze cattoliche, che ormai anche la sinistra politica sembra ignorare, pur lavandosi ogni tanto la coscienza con un gridolino di ammirazione per papa Bergoglio.
A furia di discutere per anni se centrosinistra andasse scritto con il trattino o senza, i suoi leader sono riusciti a non averne più nessuno. E siccome non è un animale mitologico, non rinascerà come d’incanto dalle sue ceneri. Il Pd non basta. Qualcun altro ci deve mettere mano.

Corriere 11.6.19
Al centrodestra
l’Italia dei Comuni
di Renato Benedetto


Il centrodestra avanza ed espugna Ferrara e Forlì. Questa è cronaca di oggi. Già, ma il centrodestra avanzava anche l’anno scorso, mentre in un’altra regione «ex rossa», la Toscana, prendeva Pisa, Siena e Massa. E ancora l’anno prima, in città simbolo, come Genova, ma non solo. Così, in due anni, fortino dopo fortino, è maturato il sorpasso. Adesso — dopo il voto di domenica scorsa — se si prendono i 110 comuni capoluogo, quelli governati da un sindaco di centrodestra sono la maggioranza: 53, contro i 41 del centrosinistra. Senza voler riavvolgere troppo il nastro, soltanto due anni fa la situazione era rovesciata: 58 a 38 a favore di Pd e alleati. Un vantaggio saldo, frutto di anni di successi amministrativi: nel 2013, per esempio, il centrosinistra era oltre quota 70.
Ma adesso, appunto, il quadro nelle città capoluogo si è rovesciato, in linea con il dato nazionale che vede la Lega in testa al Centro-Nord, tranne in Toscana (e i 5 Stelle, deludenti però nel voto locale, più a Sud). E con le Regioni che, proprio nel 2019, hanno visto il sorpasso del centrodestra, confermato con il Piemonte.
Nella contesa dei capoluoghi, questa tornata elettorale, tra primo turno e ballottaggio, si è chiusa in parità: 12 a 12. Il pari avvantaggia però il centrodestra, che ne guadagna 5 (prima del voto ne guidava 7). Al Carroccio passa anche Potenza: Mario Guarente, vincente per appena duecento voti, è il primo sindaco leghista di un capoluogo di regione al Sud (risultato che arriva a due mesi e mezzo dalla vittoria del centrodestra alle Regionali lucane). Il centrosinistra trova importanti conferme a Bari, Firenze, Bergamo, Reggio Emilia. Strappa Rovigo alla Lega e Livorno ai 5 Stelle. Ma cede, oltre a Ferrara e Forlì, anche a Pavia, Vercelli, Biella, Pescara.
Se si considerano tutti i Comuni al voto domenica scorsa, non solo i capoluoghi,il centrodestra strappa diverse amministrazioni al centrosinistra, che comunque ne porta a casa di più: 112 sui 221 sopra i 15 mila abitanti al voto, secondo i dati forniti da YouTrend. Il centrodestra vince in 85 comuni: ne aveva 39.
Il Movimento al ballottaggio ha perso in entrambe le città dove amministrava (Avellino e Livorno). Ha vinto però a Campobasso, strappato al centrosinistra al ballottaggio.
È proprio al ballottaggio che il Movimento si conferma un partito «pigliatutto»: ha difficoltà ad accedere al secondo turno, ma quando arriva riesce a pescare elettori a destra e sinistra in modo trasversale. A Campobasso — secondo i dati elaborati dall’Istituto Cattaneo — il 67% di chi al primo turno aveva votato centrosinistra si è poi riversato, anche in chiave anti leghista, sul candidato grillino. Il Movimento è però rimasto fuori dal secondo turno quasi ovunque: chi aveva votato 5 Stelle solo in pochi casi — spiega l’analisi del Cattaneo curata da Marco Valbruzzi — al ballottaggio è tornato alle urne. «Quando il loro candidato non si presenta al secondo turno — dice Valbruzzi — privilegiano in larga misura l’astensione, che in città come Prato e Reggio Emilia attrae più di nove decimi di questo bacino». Tra chi è andato al ballottaggio «non si osserva un pattern univoco», ma si vota «in base a specifiche considerazioni locali»: «Prevale il voto per il centrosinistra a Cremona, a Reggio Emilia e a Foggia, prevale il voto per il centrodestra a Ferrara e Forlì». A Ferrara è stato il 26% degli elettori che al primo turno avevano scelto 5 Stelle a preferire, al ballottaggio, l’alleato leghista (l’11% alla sinistra, gli altri astenuti). Al contrario a Livorno è stato preferito il Pd (29%, contro l’11% del centrodestra).

il manifesto 11.6.19
E poi una mattina il paese si svegliò
Habemus Corpus. Da quando il regime dell’ordine e delle frontiere era al potere, i dissenzienti erano costretti alla clandestinità.
di Mariangela Mianiti

Da quando il regime dell’ordine e delle frontiere era al potere, i dissenzienti erano costretti alla clandestinità. Neonate ordinanze avevano imposto nuovi divieti. Vietato riunirsi in luogo pubblico in più di tre persone, cosa che creava grossi problemi alle coppie con due figli perché dovevano andare a passeggio due a due e distanziati di almeno centro metri gli uni dagli altri. Vietato nominare il nome del capo se non per osannarlo, bisognava quindi stare attenti ovunque perché telefoni, email, angoli delle strade, portoni dei palazzi, l’interno dei locali e gli ingressi delle abitazioni erano disseminati di telecamere, microfoni e spie in ascolto.
IL TERZO comandamento recitava Vietato esporre striscioni a finestre e balconi. La misura era stata imposta con un’ordinanza, segreta perché bisognava salvare la parvenza di democrazia, dal Ministero dell’interno alla PORCA, la Polizia Ordine Repressione Controllo Armati che rispondeva direttamente al ministro. La decisione era stata presa dopo che in tutto il Paese era spuntata una quantità crescente di lenzuoli e striscioni che recitavano «Non in mio nome», «Non sono tuo figlio», «Sei il ministro dell’odio», «Non ti votiamo e non ti vogliamo», «Sei un fascista», «Dove hai messo i 49 milioni che hai rubato?», «Chi di barconi ferisce, di balconi perisce», «Non sei il benvenuto», «Mai con te».
Per annientare sul nascere ogni tentativo di insubordinazione, la PORCA aveva cominciato a perquisire le case sospette e i negozi di biancheria per la casa requisendo tutte le tovaglie, tende e lenzuola di colore chiaro e a tinta unita. Ormai sul mercato si trovava solo teleria a tinte forti e fantasie marcate. Erano ammessi solo fiorami, strisce e figure geometriche invasive che rendevano illeggibile e confusa qualunque scritta.
ANCHE la candeggina e i prodotti sbiancanti erano stati ritirati dal mercato per stroncare sul nascere tentativi di decolorazione, così come erano scomparsi pennarelli, pitture indelebili e tinte fluorescenti. Costretta a dormire fra lenzuola multicolor e a mangiare su tovaglie psichedeliche, la popolazione aveva cominciato a dare fuori di matto. Rilassarsi era diventato impossibile, i sonni si erano fatti agitati, i bambini si svegliavano irascibili, gli adulti andavano a dormire infelici. Si stava diffondendo un’epidemia di disturbi della personalità da tetraggine acuta, il paese oscillava fra isteria e depressione.
I più determinati e ribelli cominciarono a organizzarsi. Serviva una resistenza capillare e capace di aggirare i divieti. Non c’erano più teli bianchi a disposizione? Avrebbero ritagliato grandi lettere dai tessuti fantasia. Si rischiava l’arresto se si esponeva alla finestra una scritta? Avrebbero usato spazi pubblici o comuni. Non si poteva criticare il ministro? Non lo avrebbero nominato scegliendo uno slogan, solo uno, da diffondere in tutto il Paese. Una rete di volontari cominciò a fare a pezzi tende, lenzuola e tovaglie ricucendole a forma di lettere giganti, un’altra le unì formando la frase prescelta. Un altro drappello si dotò di tagliaerba per incidere la scritta sui prati. Poi, la notte dopo la parata del Regime, quando le polizie ubriache di vittoria dormivano, i dissenzienti piazzarono in ogni spazio disponibile la frase della rivolta.
La mattina dopo, quando la gente si alzò e gli elicotteri della PORCA si alzarono in volo per l’abituale giro di ispezione, sui tetti, sotto i ponti, sui prati, sulle facciate delle chiese, sulle piazze, lungo le spiagge, l’intero Paese gridava una sola coloratissima frase: NON CI AVRETE. La resistenza era cominciata.

il manifesto 11.6.19
Russia-Cina: il vertice che non fa notizia
L'arte della guerra. Mentre celebravano l'incontro tra Trump e i leader europei della Nato nell’anniversario del D-Day, i grandi media hanno invece ignorato quello, ben più rilevante, svoltosi a Mosca tra i presidenti di Russia e Cina, Vladimir Putin e Xi Jinping
di Malio Dinucci


I riflettori mediatici si sono focalizzati il 5 giugno sul presidente Trump e i leader europei della Nato che, nell’anniversario del D-Day, autocelebravano a Portmouth «la pace, libertà e democrazia assicurate in Europa» impegnandosi a «difenderle in qualsiasi momento siano minacciate». Chiaro il riferimento alla Russia.
I grandi media hanno invece ignorato o relegato in secondo piano, a volte con toni sarcastici, l’incontro svoltosi lo stesso giorno a Mosca tra i presidenti di Russia e Cina. Vladimir Putin e Xi Jinping, quasi al trentesimo incontro in sei anni, che hanno presentato non concetti retorici ma una serie di fatti. L’interscambio tra i due paesi, che ha superato l’anno scorso i 100 miliardi di dollari, viene accresciuto da circa 30 nuovi progetti cinesi di investimento in Russia, in particolare nel settore energetico, per un totale di 22 miliardi.
La Russia è divenuta il maggiore esportatore di petrolio in Cina e si prepara a divenirlo anche per il gas naturale: a dicembre entrerà in funzione il grande gasdotto orientale, cui se ne aggiungerà un altro dalla Siberia, più due grossi impianti per l’esportazione di gas naturale liquefatto. Il piano Usa di isolare la Russia con le sanzioni, attuate anche dalla Ue, e con il taglio delle esportazioni energetiche russe in Europa, viene in tal modo vanificato.
La cooperazione russo-cinese non si limita al settore energetico. Sono stati varati progetti congiunti in campo aerospaziale e altri settori ad alta tecnologia. Si stanno potenziando le vie di comunicazione ferroviarie, stradali, fluviali e marittime tra i due paesi. In forte aumento anche gli scambi culturali e i flussi turistici. Una cooperazione a tutto campo, la cui visione strategica emerge da due decisioni annunciate al termine dell’incontro: la firma di un accordo intergovernativo per espandere l’uso delle monete nazionali, il rublo e lo yuan, negli scambi commerciali e nelle transazioni finanziarie,
in alternativa al dollaro ancora dominante; l’intensificazione degli sforzi per integrare la Nuova Via della Seta, promossa dalla Cina, e l’Unione economica eurasiatica, promossa dalla Russia, con «la visione di formare in futuro una più grande partnership eurasiatica».
Che tale visione non sia semplicemente economica lo conferma la «Dichiarazione congiunta sul rafforzamento della stabilità strategica globale» firmata al termine dell’incontro. Russia e Cina hanno «posizioni identiche o molto vicine», di fatto contrarie a quelle Usa/Nato, riguardo a Siria, Iran, Venezuela e Corea del Nord. Avvertono che il ritiro degli Usa dal Trattato Inf (allo scopo di schierare missili nucleari a raggio intermedio a ridosso sia della Russia che della Cina) può accelerare la corsa agli armamenti e accrescere la possibilità di un conflitto nucleare. Denunciano la decisione Usa di non ratificare il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari e di preparare il sito per possibili test nucleari. Dichiarano «irresponsabile» il fatto che alcuni Stati, pur aderendo al Trattato di non-proliferazione, attuino «missioni nucleari congiunte» e richiedono loro «il rientro nei territori nazionali di tutte le armi nucleari schierate fuori dai confini».
Una richiesta che riguarda direttamente l’Italia e gli altri paesi europei dove, violando il Trattato di non-proliferazione, gli Stati uniti hanno schierato armi nucleari utilizzabili anche dai paesi ospiti sotto comando Usa: le bombe nucleari B-61 che saranno sostituite dal 2020 dalle ancora più pericolose B61-12. Di tutto questo non hanno parlato i grandi media, che il 5 giugno erano impegnati a descrivere le splendide toilettes della First Lady Melania Trump alle cerimonie del D-Day.

La Stampa 11.6.19
La glasnost, oggi
di Mattia Feltri


MicGorbaciov impiegò diciotto giorni per comunicare al suo Paese il disastro della centrale nucleare Lenin di Chernobyl. L’esplosione avvenne all’1.25 del 26 aprile. Ci vollero 36 ore perché i 43 mila abitanti di Prypiat, la città più vicina, fossero evacuati. La sera del 28 la tv diede un’asettica notizia in dieci secondi. Il primo maggio gli abitanti della zona furono incoraggiati a partecipare ai cortei della festa patriottica dei lavoratori, ed esposti alle radiazioni: tutto sotto controllo, aveva scritto la Pravda in un trafiletto. Il mondo già sapeva dei livelli anomali di radioattività registrati in Svezia e provenienti dall’Urss. Soldati, ingegneri, minatori, a migliaia vennero mandati allo sbaraglio a Chernobyl per metterci una pezza, dietro la promessa d’essere dichiarati eroi nazionali. Morirono quasi tutti. Quando satelliti spia fotografarono la centrale danneggiata, finalmente Gorbaciov parlò, il 14 maggio. Fra l’altro, accusò la stampa occidentale d’aver ingigantito le conseguenze «per diffamare l’Unione sovietica». Non so se la serie Chernobyl, la cui prima puntata è andata in onda ieri su Sky, parli di quei diciotto giorni, politicamente i più interessanti del disastro. Non so se si metta in risalto la buona e curiosa fama di cui Gorbaciov e la sua glasnost (trasparenza) continuano a godere in Europa. Si sa però che a Mosca è pronta una serie alternativa, siccome questa è «propaganda per diffamare la Russia», in cui la colpa del guasto ricade sulla Cia. Orgoglio nazionalistico, occultamento o ricostruzione farlocca dei fatti, individuazione del nemico: meraviglioso che siamo ancora lì.

Il Fatto 11.6.19
In nome di “Ivan il giusto” i russi sfidano il Cremlino
Mosca, giornali e proteste - Falsa accusa di possesso di droga per il cronista che indagava sulla corruzione nella Capitale: “Noi siamo Golunov” è il titolo di tre quotidiani
Vedomosti, RBK e Kommersant – Sono i tre giornali che hanno stampato la prima in comune
di Michela A.G. Iaccarino


“Noi siamo Ivan Golunov”. C’è scritto a caratteri cubitali sulle prime pagine identiche dei tre quotidiani indipendenti di Mosca: RBK, Kommersant, Vedomosti. Anche Novaya Gazeta si schiera con Ivan il giusto, il giornalista arrestato che ha risvegliato la coscienza sopita di Mosca. Già al mattino viene esposto un cartello in molte edicole russe: le copie dei tre quotidiani uze net, sono già finite. Ora su Internet costano già 3.000 rubli.
Il coraggio contro la paura: sabato scorso una folla di cittadini spontaneamente ha cominciato a radunarsi intorno al tribunale Nikulinsky per urlare Svabodu Ivanu, libertà per Ivan. In aula veniva formalmente accusato di traffico di droga – pena prevista 20 anni di carcere, in base all’articolo 228 – il reporter investigativo russo Ivan Galunov. Al giornalista, volto rigato di lacrime dietro le sbarre della gabbia del tribunale, i colleghi urlavano derzhis, sii forte, resisti, tutti sono con te.
Alle spalle Ivan ha centinaia di inchieste pubblicate sulla testata Meduza, riguardanti corruzione e proprietà acquisite illegalmente nella Capitale russa, un giro a cui non si sottraggono esponenti delle forze dell’ordine. Ad arrestare Golunov sono stati gli agenti del colonnello Andrey Shchirov, riferisce l’ong Transparency International. Shchirov possiede terreni del valore di 70 milioni di rubli, eppure ne guadagna solo 800 mila l’anno. Il giornalista, pestato dalle forze dell’ordine che hanno rifiutato di sottoporlo ai test anti-droga quando lo hanno preso in custodia, è stato anche ricoverato in ospedale per le percosse, dice il suo avvocato Andrey Dzulay. Fino al 7 agosto rimarrà agli arresti domiciliari perché “vittima di una fabrikazia”. Mentre il canale statale Rossia24 trasmetteva con la sua vulgata pigra la versione della polizia, facendo sventolare davanti alle telecamere i presunti sacchetti di cocaina trovati nell’appartamento del giornalista, ieri pochi ascoltavano la melassa della propaganda. I messaggi sui profili Telegram raccontavano cosa stava succedendo davvero nei parchi, per strada, negli uffici di Mosca, con una raffica di tweet e video di giornalisti e redattori, perché “oggi tocca a Ivan, ma domani a te”. Il quotidiano Rbk va oltre: si prepara a contestare in tribunale il gigante mediatico del Cremlino, l’agenzia di stampa Ria, che sul delo Golunov, il caso di Ivan, non fa che intorbidire le notizie. Dopo la muraglia solidale dei mass media, perentoria la reazione della società civile. A Mosca è il momento in cui è impossibile rimanere zitti, senza che la coscienza si spezzi per sempre.
La prima a schierarsi è l’ex politica Ksenia Sobchak: “Ivan non ha niente a che fare con la droga”. Una petizione online per la liberazione di Galunov viene firmata da 150 mila persone in poche ore. I russi continuano a fotografarsi davanti alla sede del ministero dell’Interno esibendo cartelli con su scritto: “vergogna” o “narkomani, drogati siete voi”. Sfregio alla verità e spregio della paura: i moscoviti si scattano selfie accanto alle sedi della polizia con la scritta: “Il mio nome è Ivan Golunov, sono un giornalista, arrestate anche me”, nelle metropolitane oppure con lo sfondo rosso delle mura del Cremlino.
Se l’FSB confidava nell’immobilità rassegnata della società, ha dovuto ricredersi quando è rimasta impallinata dalle conseguenze digitali inattese provocate dall’arresto ingiusto. Perfino Putin è stato costretto a esprimersi con il suo portavoce Dimitry Peskov per tamponare la voragine della protesta: “È una vicenda che solleva domande, errori possibili nel caso Golunov”.
“Ormai si tratta della libertà di ognuno di noi” dicono attori e cantanti russi, compresi quelli leggendari dei gruppi Machina Vremenie Ddt. Si combatte dentro e fuori dal web, dal digitale e reale: dopo i commenti che continuano a moltiplicarsi, l’organizzazione di un corteo previsto per domani. Rimane incertezza sul futuro di Golunov, non è detto che ci sarà giustizia, ma nella Mosca dove fino a ieri c’era silenzio, urlare oggi è già vittoria.

il manifesto 11.6.19
Beethoven pacifista (ma non troppo)
In una parola. Domenica sera è andato in onda su Rai3 il programma di Ezio Bosso "Che storia è la musica". Il maestro ha definito «pacifista» la settima sinfonia, la cui prima esecuzione avvenne l’8 dicembre nel 1813 a Vienna in un concerto di beneficenza a favore delle vedove dei caduti nella battaglia di Hanau e dei giovani tornati mutilati
di Alberto Leiss


Grazie all’avviso via whatsapp di un amica che suona il sassofono e il pianoforte non mi sono perso domenica sera il lungo programma sui Rai3 di Ezio Bosso Che storia è la musica. Conoscevo il musicista Bosso solo di fama, e la passione con cui ha spiegato, smontato e diretto la quinta e la settima sinfonia di Beethoven è stata una sorpresa molto bella. Con l’omaggio-intermezzo del preludio della Traviata, tributo dovuto giacché la trasmissione-concerto avveniva nel piccolo delizioso teatro Verdi di Busseto.
Bosso ha scherzato sul proprio cognome, che richiama la pianta forse all’origine del nome del paese natale di Verdi, e si è intrattenuto con vari ospiti, da Enrico Mentana a Gino Strada, Luca Bizzarri, Roby Facchinetti, altre e altri. Tutti un po’ intimoriti oltre che ammirati, invitati a sedersi accanto al direttore che agitava ampiamente braccia, mani e bacchetta davanti ai musicisti dell’Orchestra dell’Europa Filarmonica, presentati quasi a uno a uno.
Bosso ha definito «pacifista» la settima sinfonia, la cui prima esecuzione avvenne l’8 dicembre nel 1813 a Vienna in un concerto di beneficenza a favore delle vedove dei caduti nella battaglia di Hanau e dei giovani tornati mutilati. I tedeschi e i loro alleati inseguivano Napoleone che si ritirava dopo aver perso duramente a Lipsia. Ma a Hanau i francesi ebbero la meglio, infliggendo pesanti perdite ai loro inseguitori.
Il «pacifismo» della settima va forse cercato soprattutto nella cantabilità a tratti «celestiale», sostenuta da un ritmo sempre più incalzante fino ai trionfi del finale e da nuovissime soluzioni estetiche che – come ha raccontato Bosso – «inorridirono» alcuni contemporanei. Il pubblico presente alla «prima» però apprezzò molto quest’opera, chiedendo il «bis» del meraviglioso secondo tempo.
La storia e l’arte sono però contraddittorie. Nello stesso concerto di quell’8 dicembre 1813, oltre alla settima e ad altre musiche, fu eseguita anche un’altra quasi-sinfonia di Beethoven, la Vittoria di Wellington: pezzo che celebrava la battaglia vinta dal generale inglese, sempre contro i francesi, in Spagna, nella località di Vitoria. Qui non udiamo le melodie e le armonie che affascinarono Berlioz, o i ritmi che entusiasmarono Wagner, ma un susseguirsi di rulli di tamburo, squilli di tromba, mentre gli archi e gli ottoni di due orchestre si fondono con la riproduzione di scariche di fucileria e colpi di cannone. Le cronache dell’epoca raccontano che i più noti musicisti che erano a Vienna parteciparono all’esecuzione «militare», a cominciare da quell’Antonio Salieri (che il mito – raccolto da Puskin – vorrebbe assassino di Mozart) che fu maestro di Beethoven. Il successo fu travolgente e contribuì non poco alla maggiore fama dell’autore.
Si sa che l’autore della sinfonia Eroica, inizialmente dedicata a Napoleone, si era infiammato alle idee di libertà che venivano dalla Rivoluzione francese, ma aveva rapidamente cambiato idea di fronte al cesarismo di Bonaparte. Fino a comporre, oltre alla rumorosa Vittoria di Wellington, musiche ancora più retoriche in occasione del Congresso di Vienna e delle feste con teste coronate che lo accompagnarono.
In mezzo però a capolavori come la settima e l’ottava sinfonia, o il Fidelio. Chissà che il compositore non mescolasse col patriottismo anche un po’ di «strategia di mercato»…
Non intendo però contraddire il maestro Bosso. La musica di Beethoven ispira senz’altro i sentimenti migliori, e rende vera e viva – come si è visto e ascoltato domenica sera – l’affermazione che un’orchestra può rappresentare il modello di una «società ideale».
E che la Rai ci riprovi.

Il Fatto 11.6.19
Africa Unite, il reggae è un quintetto d’archi
Contro la voracità del mondo virtuale, lo storico gruppo ha preso tempo e si è reinventato
In Tempo Reale Africa Unite e Architorti Self distribuzione
di Diletta Parlangeli


Qui e ora, appiattiti sulla linea del presente ingolfato d’informazioni, di slogan, di nuovi suoni da gettare in pasto alla (spesso) pessima dieta digitale. In Tempo Reale (Self distribuzione) è il nuovo disco degli Africa Unite che non faticano a definire “un segnale”. La dimostrazione di una volontà di rottura rispetto alla frenesia bulimica che caratterizza le uscite discografiche: “Tutto corre velocissimo, sembra che se non fai un singolo al mese verrai fagocitato. La musica passa sempre di più in secondo piano rispetto al personaggio che cresce online e ci sembra che sia sempre un po’ vuota. A noi questo non appartiene molto”, dice Bunna, anima del gruppo con Madaski dal 1981. E infatti, non ci pensano nemmeno. Il nuovo disco non solo si è preso il suo tempo, ma ha già viaggiato molto. Ha fatto la spola tra loro e gli Architorti, quintetto d’archi già incontrato sulla strada – l’ultima occasione nel 2018 nello spettacolo multimediale “Offline”, con la compagnia di danza MMCDC – che ha trascinato gli storici fautori del reggae italiano in territori sonori diversi. A tratti più cupi, se vogliamo, coraggiosi. Senza eufemismi, come i testi. “[…] il capitano di felpe, stilista nemico giurato di ogni scafista slogan precotti a tutta intervista finita la pacchia è l’Impero del Nord ogni straniero sarà un terrorista” recita un brano. E nell’incetta di slogan veloci, quante assonanze si trovano con il mondo della musica di cui Bunna parlava all’inizio, lo stesso fatto di “personaggi che internet fabbrica con disinvoltura” citato dal giornalista Marco Molendini nel suo testo di addio al Messaggero.
“È un tipo di superficialità pericolosa su tutti i fronti. Sembra che se non ‘spacchi’, non sei nessuno e che tu debba sempre vivere sulla cima della piramide”. Servirebbero meno picchi d’istanti e più tempo per l’approfondimento, la divulgazione, la cultura, prosegue Bunna. Se dovesse iniziare fornendo consigli per l’ascolto a un ragazzo, direbbe: “Marley, Fossati e Caparezza. Tutti, ognuno con le sue peculiarità, per la grande bravura a far passare dei messaggi importanti”.

La Stampa TuttoSalute 11.6.19
Quando colpisce il burnout
I consigli per correre ai ripari se lo stress da lavoro ha superato il livello di guardia
di Fabio Di Todaro


Una stanchezza che non va mai via. Un aumento dell’ansia oltre la soglia di guardia. L’assenza di motivazioni e anche di tempo da dedicare a se stessi. E il pensiero ricorrente, che non sfuma nemmeno quando si è in vacanza: quello del ritorno tra i corridoi dell’ufficio e delle responsabilità a cui si è costretti.
Di fronte a questi campanelli d’allarme, una volta esclusa la presenza di altre malattie, un medico è oggi autorizzato a mettere nero su bianco il nome eloquente di una sindrome sempre più diffusa: il «burnout». Essere colpiti da stress da lavoro d’ora in avanti non sarà più materia esclusiva dei giudici del lavoro. L’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha infatti sdoganato quello che viene definito come «un fenomeno occupazionale per il quale si può cercare una cura, pur non trattandosi di una condizione medica».
L'Oms definisce lo stress da lavoro «una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo». Sono tre le caratteristiche-chiave individuate dagli studiosi: «Senso di esaurimento o debolezza energetica, aumento dell'isolamento dal proprio lavoro con sentimenti di negativismo o cinismo e, infine, ridotta efficacia professionale». Il «burnout», quindi, è una realtà molto specifica: si riferisce - secondo la classificazione dell’Oms - proprio a una serie di fenomeni legati al «contesto occupazionale» e non dev’essere confusa con esperienze simili, ma scatenate da altri ambiti della vita.
Le motivazioni. Il primo ad occuparsi di questo problema, nel 1974, fu lo psicologo Herbert Freudenberger. La sua esperienza si riferiva principalmente a professioni cosiddette «di aiuto» (come quelle di infermieri e medici) e si estese nel tempo a tutti coloro che vivevano a contatto con il disagio altrui. Poi, anno dopo anno, se n’è parlato sempre di più come un fenomeno sociale in crescita. Ma al momento non ci sono ancora dati definitivi sull’estensione del fenomeno.
«La velocità con cui si opera oggi è sicuramente un fattore di rischio, ma non credo che andare in miniera agli inizi del ‘900 fosse piacevole», morde il freno Cristina Colombo, responsabile del centro dei disturbi dell’umore dell’ospedale San Raffaele di Milano. «I ritmi odierni portano le persone più responsabili ad avvertire la percezione di lavorare male. Questo disagio può determinare l’instaurarsi di uno stato d’ansia cronico che, se protratto a lungo, porta anche all’esaurimento delle proprie risorse». Accade, così, di sentirsi svuotati, privi di energie e schiacciati dagli impegni. Non è in gioco solo il sovraccarico di responsabilità: il «burnout» può dipendere dall’insoddisfazione sempre più marcata nei confronti del proprio lavoro. «Il termine, infatti, non indica soltanto una situazione dovuta all’eccesso di lavoro, ma anche alla sensazione che la propria attività non abbia una vera utilità».
I segnali. Che qualcosa non vada, in genere, è il corpo a evidenziarlo, prima che la mente. Sentirsi prosciugati, soffrire di nausea, non riuscire a dormire e a superare banali malattie come il raffreddore, percepirsi come sempre in affanno: a fronte di questi campanelli d’allarme è possibile che si sia già alle prese con la condizione estrema inquadrata dalla comunità scientifica. Prima che sia troppo tardi è dunque necessario correre ai ripari. Già, ma come?
Un «vademecum» valido per chiunque, e per tutti i casi, non esiste. Di sicuro occorre parlarne: prima con chi ci è accanto tutti i giorni, dai famigliari ai colleghi di lavoro, poi, eventualmente, anche con uno specialista. La risposta non è da ricercare nei farmaci, bensì in un cambio di strategia che ci porti a ricordare che la vita non è fatta soltanto di lavoro. «Occorre riscoprire tutte quelle piccole cose sacrificate per troppo tempo, ma che in realtà ci possono indurre un piacere autentico». Che si tratti di un viaggio o di un’attività sportiva, di una rimpatriata con gli amici o di un po’ di tempo da dedicare alla casa o a un hobby, ciò che conta è sempre lo stesso risultato: riuscire a staccare con il lavoro e a liberare davvero la mente. L’importante è procedere a piccoli passi, senza porsi obiettivi eccessivamente ambiziosi. E a maggior ragione se è stata proprio una lunga lista di «cose da fare» a farci esplodere e provocare un senso di esaurimento delle proprie energie, fisiche e mentali.
Cambiare occupazione è la soluzione più estrema: talvolta necessaria, ma oggi non sempre possibile. Se però non si possono fare le valigie, può essere utile quanto meno «chiedere di cambiare mansioni, almeno per un periodo limitato». Il telelavoro? Anche questo può rappresentare un’opportunità, ma occupare lo stesso ruolo semplicemente lavorando da casa non sempre rappresenta una soluzione definitiva.
A rischio. La fatica accomuna sempre chi lavora, ma «a fare la differenza sono la soddisfazione e il riconoscimento del proprio ruolo - prosegue l’esperta -. Non è un caso che una delle categorie più a rischio, oggi, sia quella degli insegnanti». Più esposti all’esaurimento professionale - le donne risultano più colpite rispetto agli uomini - sono, comunque, tutti coloro che sono coinvolti in situazioni di emergenza o che lavorano in «contesti di aiuto» o in quelli sociali. Si tratta, da una parte, di medici, infermieri, poliziotti e vigili del fuoco e, dall’altra, di educatori, assistenti sociali, «caregiver».
Senza dimenticare che lo stress aumenta sia nelle professioni più performanti (dagli avvocati ai broker) sia in quelle - spiega l’Oms - dove si sommano elementi diversi, ma ugualmente a rischio: dalla insufficiente comunicazione alla limitata partecipazione nei processi decisionali, dallo scarso potere di controllo sul proprio settore di lavoro all’inadeguato livello di supporto da parte dei capi, fino agli orari sempre, e comunque, inflessibili e a compiti e obiettivi poco chiari, che generano confusione e conflitti.
E «last but not least» l’ombra delle molestie psicologiche e delle diffuse pratiche di mobbing.

La Stampa TuttoSalute 11.6.19
I medici tra le categorie più colpite
di F. D. T.


Anche chi deve prendersi cura degli altri può ammalarsi di «burnout». I medici italiani, secondo un’indagine in 12 Paesi dello «European General Practice Research Network», hanno un livello di stress quasi doppio (il 43%) rispetto alla media dei colleghi europei (22%). Colpa delle notti trascorse in bianco a seguire troppi pazienti, degli insufficienti tempi di recupero, del mancato riconoscimento retributivo e della paura di sbagliare e di essere denunciati. Condizioni che portano soprattutto gli ospedalieri a soffrire di sindromi da esaurimento, oltre che a una profonda insoddisfazione lavorativa. Da qui la campagna lanciata da Consulcesi, network di servizi legali specializzato nell’assistenza ai camici bianchi: #BurnoutInCorsia. «È a rischio sia la salute di chi cura sia quella di chi dovrebbe essere curato. L’eccesso di stress può causare la compromissione delle performance cognitive». Quanto alle categorie, secondo un’indagine negli Usa, sono soprattutto i medici di terapia intensiva e i neurologi a essere esposti al «burnout». A seguire medici di famiglia, ginecologi, internisti e medici del pronto soccorso. F. D. T.

Corriere 11.6.19
Un saggio di Tommaso Braccini (Salerno) sulle antiche vicende della città che C’è un velo su Bisanzio
poi divenne Costantinopoli e oggi è Istanbul. Un nodo strategico essenziale per i traffici di ogni tipo sulle cui origini non esistono fonti davvero affidabili
Fu colonia greca, poi capitale romana
Sulla sua storia sono sorti troppi miti
di Paolo Mieli


Nel IV secolo a. C. lo storico Teopompo di Chio riferiva di come ai suoi tempi Bisanzio fosse già molto conosciuta. Conosciuta anche come città del vizio, dal momento che gli abitanti si accalcavano per l’intera giornata al porto e al mercato tra postriboli e bettole, in cui affluiva il vino delle navi dirette verso il Mar Nero. Il commediografo Menandro in un frammento riferisce di «mercanti tutti ubriachi». Lo storico Filarco sosteneva che i Bizantini erano soliti affittare agli stranieri le loro stanze da letto, «mogli comprese». Stratonico di Atene alla metà del IV secolo a. C. raccontava che Bisanzio era soprannominata l’«ascella della Grecia» per i cattivi odori che la città emanava, con un probabile riferimento al grande commercio di pesce fresco ed essiccato. Si può dire che all’epoca l’odierna Istanbul fosse già famosissima. In ogni senso.
La colonia greca Byzantion aveva mille anni di età allorché Costantino, all’inizio del IV secolo dell’era cristiana, fondò la Nuova Roma (questo il nome ufficiale che fu dato a Costantinopoli) sul Bosforo, fa notare Tommaso Braccini, in apertura di Bisanzio prima di Bisanzio. Miti e fondazioni della Nuova Roma, che sta per essere pubblicato da Salerno. Dopo la fondazione di Costantinopoli, «Byzantion, oltre che una città è diventata», sostiene Braccini, «un laboratorio mitografico in piena regola e non ha ancora smesso di esserlo». Ad alimentare questo «laboratorio mitografico» è stata innanzitutto quella che potremmo definire la propaganda ufficiale, ma nel corso dei secoli ha giocato un ruolo importante anche «il bisogno dei suoi abitanti di superare il trauma di una serie di rifondazioni radicali che talora li hanno fatti sentire come alieni in una terra incognita e potenzialmente ostile».
Le «rinascite», secondo le leggende medievali, «non hanno azzerato quel che c’era prima, ma hanno progressivamente portato a compimento quel che era previsto da sempre». Ragion per cui quello delle origini di Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul è un vero rompicapo per gli storici alle prese con un difficile lavoro di distinzione e di integrazione, tra impronte storiche vere e proprie (poche), ricostruzioni mitologiche e tracce archeologiche. A questo proposito Braccini riprende alcuni elementi già presenti nel libro da lui scritto con Silvia Ronchey, Il romanzo di Costantinopoli, edito da Einaudi. Ma qualcosa si può ritrovare anche nello straordinario L’impero che non voleva morire. Il paradosso di Bisanzio (640-740 d.C.) di John Haldon (Einaudi) e nel libro del turco Tursun Bey, La conquista di Costantinopoli, pubblicato da Mondadori.
Il principale tra gli elementi che contraddistinguono Bisanzio fin dai suoi albori è costituito sicuramente dalla cornice naturale della città, a cavallo tra due continenti: il Bosforo, il Corno d’Oro, il promontorio Bosporio. A questa eccezionale collocazione geografica sono strettamente collegati altri elementi: l’importanza del commercio, la menzione dei viaggiatori (a partire dai mitici Argonauti) e anche gli assedi «che scandiscono di pari passo la storia reale e quella mitica della città». Su questo palcoscenico ideale si susseguono l’uno dopo l’altro i personaggi a cui viene attribuito il merito di aver fondato quella che sarà una «capitale imperiale». All’inizio — in varie fonti antiche come Dionisio — non ci sono «personalità dominanti». Viene evocato «un vero e proprio pulviscolo di colonizzatori provenienti da ogni parte della Grecia», oppure si fa cenno, forse più plausibilmente, a «un gruppo di fondatori megaresi, che si muovono lungo un Corno d’Oro e un Bosforo minutamente ricostruiti in tutti i loro anfratti, nelle calette e negli scogli». Si tratta spesso «di microtoponimi e riferimenti a piccole entità topografiche, che però significavano qualcosa nella vita di chi li vedeva ogni giorno e che, pertanto, nella ricostruzione di Dionisio, sono tutti collegati con miti e storie che spesso sono solo la variante locale di trame ben più diffuse, nell’antichità e oltre».
In passato, scrive Braccini, si è oscillato tra due interpretazioni contrapposte dei miti di fondazione di questa città, miti «che sono una componente fondamentale di ogni identità pubblica»: in una prima fase, «secondo una prospettiva positivistica, si è creduto che conservassero in ogni caso un nucleo di verità storica e che andassero accuratamente setacciati in cerca di questa sorta di pagliuzze d’oro». Successivamente, con un approccio definito «costruttivistico», si è asserito che si trattasse di mere invenzioni finalizzate a «corroborare e illustrare peculiari istanze sociali e politiche proprie delle epoche e dei contesti culturali nei quali tanti miti furono di volta in volta elaborati».
Entrambi gli elementi — sostiene Braccini — possono tranquillamente convivere: «Gli scampoli di realtà storica, spesso decontestualizzati e ridotti ai minimi termini, costituiscono altrettanti mattoni che, a fianco di veri e propri “motivi” mitici e folklorici ampiamente diffusi», contribuiscono a edificare una costruzione che non è certo neutra o oggettiva, «ma veicola volutamente l’immagine di sé vagheggiata» da chi l’ha costruita. Anche i «miti di fondazione» della colonia greca di Byzantion e l’«archeologia» relativa al passato di Costantinopoli precedente alla sua conquista da parte di Costantino «si adeguano al contesto nel quale vengono concepiti e raccontati». Alcuni temi o figure («non necessariamente attinenti alla realtà storica», specifica Braccini) si rivelano più resistenti e risultano attestati dall’antichità fino all’epoca ottomana. Altri invece sono più transitori e spesso attingono al patrimonio delle «leggende migratorie» che circolano «nel tempo e nello spazio, al contempo paradigma prestigioso e comodo serbatoio per corroborare e ampliare il passato di una città divenuta improvvisamente capitale di un impero, e successivamente, dopo il trauma di una conquista, di un altro».
Per orientarsi tra le testimonianze, spesso pochissimo note, di storici, poeti, cronisti ed eruditi distribuiti in oltre un millennio e mezzo, è pressoché obbligatorio attingere alla Patria Costantinopolitana, una collezione di opere storiche compilata attorno al 995, ai tempi del regno di Basilio II. La Patria Costantinopolitana contiene il testo sulla storia di Bisanzio scritto dal pagano Esichio di Mileto nel VI secolo. Quella incentrata sulle antichità di Bisanzio era perlopiù «una microstoria locale, trovatasi inopinatamente su una ribalta mondiale»: troppo «gracile, frammentaria e provinciale perché potesse sostenere da sola il peso di elogi all’altezza del nuovo ruolo». Il problema che si trovarono di fronte i suoi panegiristi, in prosa e in poesia, fu dunque quello «di corroborare questi miti delle origini (anche ricorrendo a “prestiti” più o meno disinvolti) e renderli presentabili». Da un lato si cercò il più possibile di «sganciare le leggende da una madrepatria greca abbastanza oscura e insignificante»; dall’altro «di riorganizzarle e rileggerle sulla falsariga della storia romana… per enfatizzare come il destino di diventare una nuova Roma fosse già fatalmente scritto nell’origine e nella storia di Bisanzio». Discorso di cui si trovavano anticipazioni già nel libro di Gilbert Dagron, edito da Einaudi, Costantinopoli: nascita di una capitale (330-451).
Lo storico Polibio ricordava come i Bizantini «abitassero un luogo che, per quanto ubicato in maniera non ottimale dalla parte di terra, godeva invece di una posizione invidiabile per sicurezza e prosperità rispetto al mare». Infatti, proseguiva, «la città dominava l’imboccatura del Ponto, al punto che non si poteva né entrare né uscire da esso senza il suo benestare». Dal Ponto giungevano merci utili e pregiate (Polibio le elenca: bestiame, schiavi, miele, cera, pesce secco) e ne conseguiva che i Bizantini ne erano i veri padroni. Lo stesso peraltro si poteva dire dell’olio e del vino che dal Mediterraneo passavano al Mar Nero e del grano che «era soggetto a flussi commerciali alterni».
Se Bisanzio avesse deciso di bloccare il transito o si fosse schierata con i Galati e soprattutto i Traci, o se non fosse mai stata fondata e il controllo dello stretto fosse stato lasciato ai barbari, ipotizza l’autore, i Greci ben difficilmente avrebbero potuto godere di tali fondamentali commerci. Per questo motivo, conclude Polibio, era giusto considerare i Bizantini benefattori comuni di tutti e non limitarsi a essere loro grati, ma «mostrarsi anche pronti ad aiutarli nel caso di minaccia da parte dei barbari». A proposito dei Traci va aggiunto che sulle origini di Bisanzio ha a lungo gravato il sospetto (Braccini lo definisce lo «spettro») che avesse avuto una parte fondamentale proprio quel popolo considerato bestiale e incivile. Ciò che aveva spesso indotto «a minimizzare (anche se mai a eludere completamente) l’apporto locale alla nascita della futura colonia». Sarebbe stato imbarazzante attribuire ai Traci un ruolo di un qualche rilievo nella fondazione di quella che era destinata a diventare la capitale dell’impero.
Ma torniamo ai traffici mercantili. Certo è, scrive Braccini, che a partire dal V secolo i diritti riscossi dalle navi in transito lungo il Bosforo costituirono una fonte di rendita sempre più importante al punto da fare gola agli Ateniesi e ad altri. I Bizantini, «liberisti ante litteram», ironizza l’autore, cercarono di ricorrervi il meno possibile, ma talora «finirono per cedere a questa tentazione soprattutto in circostanze di emergenza in cui c’era necessità di “fare cassa” rapidamente come in occasione della crisi causata nel III secolo dalla minaccia dei Galli stanziati nella vicina Tylis».
Bisanzio fu sottoposta a numerosi assedi. Il primo, riferisce Esichio, fu quello di Odrise, re degli Sciti respinto con il lancio di rettili sull’esercito degli assalitori (dopodiché i Bizantini non fecero mai male ai serpenti come ricompensa per il «servigio reso»). Il più storicamente documentato fu quello di Filippo II di Macedonia (338 a.C.) di cui si parla ampiamente nel saggio di Luisa Prandi Taverne e bevitori di Bisanzio greca: a proposito delle vicende di Leone (pubblicato dalle Edizioni universitarie di Trieste). Il Leone di cui al titolo di questo studio sarebbe stato un oratore di Bisanzio che, da un’improvvisata discussione con il sovrano macedone, ne intuì le intenzioni aggressive e poté aiutare la sua città a resistergli. Il figlio di Filippo, Alessandro Magno, avrebbe poi collocato trombe alimentate dal vento per spaventare i «popoli impuri» di Gog e Magog (i Tatari) e tenerli lontani dalla città.
L’ultimo assedio sarebbe stato quello di Settimio Severo (sul trono di Roma dal 193 al 211 d.C.). Ne parla Cassio Dione e, secondo Braccini, «il trauma della distruzione e della sanguinosa conquista della futura capitale dell’impero da parte di un imperatore romano rimase sempre vivo al punto che talora, in maniera fantasiosa, si cercò di negare» l’accaduto. Braccini da tutto ciò trae l’impressione «che le costruzioni di poeti, storici ed eruditi in merito al passato più remoto di Istanbul e, ancor prima, di Costantinopoli, siano simili alla nebbia che, nelle testimonianze di tanti viaggiatori, avvolgeva impenetrabile la città». Dal punto di vista dello storico tutto gli è parso come «un velo di affabulazioni, leggero, impalpabile, perennemente mutevole» che «sembra avviluppare gli edifici e il terreno». Qualche elemento naturale o architettonico «pare emergere, più o meno stabilmente, dalla coltre opaca»; ma a volte quello che sembrava concreto «non è che l’ennesimo miraggio». Molto meglio affrontare la «leggenda di Bisanzio» come «una costruzione culturale, spesso consapevole» che cerca di conciliare i racconti mitici «con le specificità in alcuni casi davvero notevoli, dell’antica colonia greca poi divenuta capitale mondiale». Che però conteneva tutta la sua grandezza quando era una colonia greca famosa per la promiscuità sessuale e i mercati maleodoranti.

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