sabato 10 maggio 2008

l’Unità 10.5.08
Rinaldini: sono pronto a lasciare la Cgil
«Sono solidale con i dirigenti sospesi, non si può decapitare il nostro sindacato a Milano»
di Luigina Venturelli


«Sono pronto a lasciare la Cgil» dice Gianni Rinaldini a l’Unità. La sospensione di quattro dirigenti Fiom di Milano rischia di generare un terremoto: se i provvedimenti disciplinari verranno confermati, il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Rinaldini, presenterà le sue dimissioni dal sindacato: «Mi assumo tutte le responsabilità».

DISCIPLINA «Se i provvedimenti di sospensione verranno confermati, per me si chiuderà il capitolo dell’iscrizione alla Cgil». Le dimissioni di Gianni Rinaldini sono quasi sul tavolo, il segretario generale della Fiom è pronto ad abbandonare l’organizzazione
sindacale in cui milita da trent’anni. Al cuore della vicenda, che già mercoledì scorso l’ha portato ad allontanarsi dal direttivo sulla riforma della contrattazione, i provvedimenti disciplinari inflitti dalla Cgil a quattro dirigenti della Fiom milanese.
A posteriori, il classico sassolino che, dalla vetta della montagna, rotola fino a valle con la forza dirompente di una valanga. Nel 2006 Massimiliano Murgo, delegato Fiom dello stabilimento Marcegaglia di Milano, decide di aderire a uno sciopero nazionale dei Cobas. Non come singolo lavoratore, ma in qualità di rappresentante dei metalmeccanici Cgil, nonostante la contrarietà dell’organizzazione. Segue l’espulsione. Nel maggio 2007, Murgo (che nel frattempo ha pure ricevuto un avviso di garanzia in merito alle indagini sulle nuove Br) si presenta a un attivo dei delegati a Sesto San Giovanni: gli si permette d’intervenire, senza che qualcuno replichi sul momento alle sue insinuazioni contro la segreteria della Fiom.
Un peccato veniale, forse di superficialità, che sarebbe finito nel dimenticatoio se uno zelante delegato non avesse deferito l’accaduto alla commissione di garanzia della Cgil. Così, pochi giorni fa, sono stati sospesi la segretaria della Fiom milanese Maria Sciancati (6 mesi) ed altri tre funzionari lombardi (dai 3 ai 4 mesi). Il segretario generale della categoria ha deciso di condividerne responsabilità e sorti. E un caso disciplinare rischia di trasformarsi in un terremoto sindacale, in grado di scuotere i già difficili rapporti tra la Fiom e la Cgil.
Rinaldini, saputo dei quattro provvedimenti di sospensione, ha deciso di non partecipare al dibattito sulla riforma del modello di contrattazione. Perché?
«È giusto che io mi assuma la responsabilità delle scelte compiute dai dirigenti della Fiom di Milano. Ero a conoscenza dei fatti sull’attivo dei delegati in questione. Quindi, se sarà confermata la sospensione di Maria Sciancati, mi riterrò sospeso anch’io dall’iscrizione alla Cgil».
Dunque, un atto di protesta nei confronti di quei provvedimenti disciplinari?
«Non è in discussione l’indipendenza della magistratura interna della Cgil, ma c’è una certa distinzione tra il riconoscere l’autorità della commissione di garanzia e l’essere d’accordo con le scelte che prende».
Significa che non approva le sospensioni?
«Non è possibile che il gruppo dirigente della Fiom milanese venga decapitato in questo modo. Sono decenni che faccio vita politica e sindacale, ma una cosa così non l’ho mai vista».
I rapporti tra la Fiom e la Cgil rischiano di essere compromessi?
«Non è compromesso un bel niente, è evidente che esistono posizioni diverse che fanno parte di un normale confronto democratico. Spero comunque in una conclusione positiva: siamo sommersi da decine di lettere di sostegno ai dirigenti sospesi, provenienti dalla Rsu di tutta la Lombardia, e lunedì sarò presente al direttivo della Fiom di Milano».
Se invece le sospensioni fossero confermate?
«Allora per me si chiuderà un capitolo. Il capitolo dell’iscrizione alla Cgil».
In assenza della bufera milanese, che cosa avrebbe detto mercoledì al dibattito sulla riforma della contrattazione?
«Ritengo sbagliato privare il contratto collettivo nazionale, ovvero il principale elemento di solidarietà tra i lavoratori di tutto il paese, della possibilità di aumentare le retribuzioni reali. E ritengo penalizzante per le singole categorie il cosiddetto indice inflazionistico realisticamente prevedibile, diverso dall’inflazione Istat».
Perché?
«Chi lo determinerà se non le confederazioni insieme alla Confindustria? Ricordiamoci che non stiamo discutendo di che cosa chiedere nel prossimo rinnovo, ma di quale struttura dare alla contrattazione per i prossimi vent’anni».

Repubblica 10.5.08
Così l’Occidente produce la fame nel mondo
di Luciano Gallino


Tempo fa l´allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la metà del mondo guarda in tv l´altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica. Con una precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.
Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all´alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc. – l´abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare-mercati-consumo. Si può anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee. L´intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni 80, è consistito nel distruggere nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali. Ricchi di biodiversità, partecipi degli ecosistemi locali, facilmente adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero potuto nutrire meglio, sul posto, un numero molto più elevato di persone. Si sarebbe dovuto svilupparli con interventi mirati ad aumentare la produttività delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche. Invece i sistemi agricoli regionali sono stati cancellati in modo sistematico dalla faccia della terra.
Dall´India all´America Latina, dall´Africa all´Indonesia e alle Filippine, milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie. La produttività per ettaro è aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi benefici sono andati alle megacorporation del settore, le varie Monsanto (oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem), General Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l´unica non americana del gruppo. Da parte loro i contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati slum urbani del pianeta. Oppure si uccidono perché non riescono più a pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di competere sul mercato con i prezzi imposti – alle sementi, ai fertilizzanti, alle macchine – dalle corporation dell´agro-business. Nella sola India, tra il 1995 e il 2006, vi sono stati almeno duecentomila suicidi di piccoli coltivatori.
È noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli regionali sono stati la Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per qualsiasi opera – diga, autostrada, oleodotto, zona economica speciale, ecc. – servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con l´imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi privatizzazione forzata di terra, acqua, aziende di servizio) quale condizione di onerosi prestiti; l´Organizzazione mondiale per il commercio. Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l´Africa, viene la Commissione Europea, la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a milioni di contadini africani facendo in modo, a suon di sussidi e jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del Poitou costino meno, in molte zone dell´Africa, dei prodotti locali. Il tutto con la fervida adesione dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni rapporti con le multinazionali che non provvedere al sostentamento delle popolazioni rurali.
Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di economisti che in parte operano alle dipendenze di tali organizzazioni, in parte costruiscono per uso e legittimazione delle medesime, nelle università e nelle business school, infinite variazioni sul principio del vantaggio comparato. In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di paterno buon senso: se gli inglesi son più bravi a tessere lane che non a fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i tessuti di lana, converrà ad ambedue acquistare dall´altro Paese il prodotto che quello fa meglio. Ma l´onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe sbalordito al vedere che esso, reincarnato in complessi modelli econometrici digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un´unica specie di vegetale per il mercato mondiale, piuttosto che coltivare le dozzine di specie di granaglie e frutti che soddisferebbero i bisogni della comunità locale.
Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia misura autosufficienti un megasistema agrario globale che si dava per certo esser capace di autoregolarsi, il resto è seguito per vie naturali. Le grandi società dell´agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle principali derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi comuni investono massicciamente in titoli derivati del settore alimentare, praticando e incentivando la speculazione al rialzo. Cosa che non avrebbero motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero ancora di piccole o medie dimensioni. Da parte loro, illusi dall´idea d´un mercato globale delle derrate autoregolantesi, i governi dei Paesi sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi la quantità delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in luogo di almeno 24.
Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli che si preoccupano perché anche il prezzo delle tortine di argilla, la terra che mangiano per placare i morsi della fame quando il mais o il riso sono diventati inaccessibili, è aumentato troppo: succede ad Haiti. La crisi alimentare in atto non è infatti dovuta alla scarsità di cibo; esso non è mai stato, nel mondo, altrettanto abbondante. È un problema di accesso al cibo, in altre parole di povertà, di cui il sistema agricolo globale ha immensamente elevato la soglia.
Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o elettronico tanto rozzo, perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e Ue negli ultimi vent´anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle organizzazioni internazionali che l´hanno costruito, gli economisti che hanno fornito i disegni di base, e i politici che ne hanno posto le basi con leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.
Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare. Può spegnere la tv, per non doversi sorbire ancora una volta, giusto all´ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi scheletrici che frugano nell´immondizia. Oppure può decidere di investire una quota dei suoi risparmi in azioni dell´agrindustria, come consigliano sul web dozzine di società di consulenza finanziaria. Un investimento promettente, assicurano, perché i prezzi degli alimentari continueranno a crescere per lungo tempo. Infine può scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro alto dodici metri per tener fuori gli affamati. Se qualcuno conosce altre soluzioni che la politica, al momento, sia capace di offrire, per favore lo faccia sapere.

Repubblica 10.5.08
Regina di Saba, una luce sul mistero "Il suo trono era qui in Etiopia"
di Rosalba Castelletti


Lo studioso: "Quadra tutto, i dettagli, l´orientamento dell´edificio"
Scettici altri esperti: "Visse nell´Arabia Felix e trasformò la terra in tanti giardini"

«Tutto quadra», esulta l´archeologo Helmut Ziegert convinto di aver risolto un mistero che perdura da tremila anni e di avere individuato ad Axum in Etiopia non solo il Palazzo della Regina di Saba, ma anche l´altare su cui fu custodita l´Arca della Santa Alleanza. Il leggendario fascino della sovrana e la straordinaria saggezza della sovrana che nel X secolo avanti Cristo irretirono il re Salomone d´Israele è giunto intatto sino a noi, seppure tramandato da scarsi enigmatici versi. «È provvista di ogni bene e possiede un trono magnifico» scrive di lei il Corano, mentre l´Antico Testamento ne ricorda la visita a Gerusalemme: «La regina di Saba, sentita la fama di Salomone, venne per metterlo alla prova con enigmi... Il re Salomone le diede quanto essa desiderava e aveva domandato... Quindi essa tornò nel suo Paese». Dove tornò è da secoli oggetto di contesa tra lo Yemen che la vuole a capo del regno sabeo di Marib e l´Etiopia dov´è chiamata Makeda ed è considerata la capostipite dell´intera dinastia dei negus. Ed è qui, e precisamente nella capitale religiosa ortodossa Axum, che Ziegert sostiene di avere rinvenuto sotto le fondamenta di un edificio cristiano i resti del Palazzo della mitica sovrana.
«Ne sono sicuro. Quadra tutto. I dettagli, la datazione e l´orientamento dell´edificio»: i ruderi risalirebbero al X secolo avanti Cristo e sarebbero orientati verso la stella Sirio legata al culto della divinità egizia Sothis introdotto in Etiopia, secondo l´archeologo tedesco, da Menelik I, presunto figlio della regina di Saba e del re Salomone d´Israele. Ma le rivendicazioni dell´archeologo tedesco non si concludono qui. Alla figura della sovrana sabea è legata anche la leggenda della perduta Arca d´acacia rivestita d´oro contenente le Tavole dei Dieci comandamenti di Mosè. Secondo la tradizione etiopica preservata nel XIV secolo nel Kebra Nagast ("Gloria dei re"), non fu saccheggiata dai conquistatori babilonesi, ma bensì trafugata da Menelik che in età adulta si sarebbe recato a Gerusalemme per incontrare il presunto padre. L´Arca della Santa Alleanza si troverebbe tuttora in una cripta segreta del santuario di Santa Maria di Sion di Axum dove a vegliarla è il «più santo dei monaci», ma - afferma Ziegert - «fu custodita per molto tempo» nel palazzo rinvenuto ad Axum.
Accolta con entusiasmo dalla stampa tedesca - che da Die Welt a Die Spiegel ha dedicato alla scoperta grandi titoli - la rivendicazione ha invece sollevato lo scetticismo di quasi tutto il mondo accademico. «La regina di Saba è tanto vera quanto lo è re Artù» ha commentato un collega di Ziegert, Ricardo Eichmann, mentre altri hanno sottolineato il tempismo dell´annuncio dell´archeologo tedesco che anticipa di 15 giorni l´uscita dell´ultimo episodio della quadrilogia di "Indiana Jones" che nel 1981 debuttò proprio con i "Predatori dell´Arca Perduta". «Il regno di Saba è esistito e si può datare al decimo secolo avanti Cristo» chiarisce l´archeologo Alessandro de Maigret da anni impegnato in scavi nello Yemen. È qui che avrebbe regnato la regina sabea, in arabo Bilqis, trasformando l´altipiano yemenita che circonda la città di Marib in una distesa verde ricca di giardini pensili che i romani avrebbero soprannominato "Arabia Felix". E qui, ricorda De Maigret, «sono state rinvenute numerose iscrizioni risalenti all´epoca sabea». Secondo il suo collega Rofoldo Fattovich, che invece lavora ad Axum da 37 anni, «la scoperta di Ziegert sarebbe sensazionale se non fosse che non c´è alcuna iscrizione ad attribuire i resti rinvenuti alla regina di Saba e che la relazione tra Sirio, Sothis e Menelik non è testimoniata da alcuna fonte. Quella di Ziegert - aggiunge - è un´invenzione gratuita».

Repubblica 10.5.08
Dal mondo greco al ´900 Riflessioni sul valore estetico di un´azione politica o di una norma giuridica
di Franco Cordero


Pubblichiamo una parte della Lectio intitolata "Giustizia e bellezza" di che oggi alle 13, nella Sala Blu della Fiera Internazionale del Libro di Torino, dialoga con Luigi Zoja. Sarà invece Francesco Maria Cataluccio a moderare l´incontro. Zoja, psicanalista, è autore di un libro intitolato, appunto, Giustizia e bellezza, uscito da Bollati Boringhieri (pagg. 120, euro 7).
Arte vissuta: Antigone s´era scelta una parte inseguendo «luminosa gloria» (vv., 623-26); Ifigenia l´assume volentieri in Aulide; azioni teatrali ma anche il mondo è teatro. Consideriamo due opere eminenti. Lauro De Bosis (Roma, 9 dicembre 1901) è figlio d´Adolfo, poeta, manager d´industria, cultore della décadence franco-anglosassone, artefice d´una singolare impresa editoriale. Sono capolavori d´eleganza grafica i 12 libri del Convito, gennaio 1895-dicembre 1907, più il numero speciale contenente "Versi e disegni offerti dalla Baronessa Blanc nella festa di beneficenza per i feriti d´Africa", Roma, Palazzo Sciarra, 12 febbraio 1895, 17 giorni prima d´Adua: cantano «Venus victrix», invocata da Cesare a Farsaglia; ossia «il potere indistruttibile della Bellezza», maiuscola, «nella sovrana dignità dello spirito»; Pascoli li inaugura con versi dai Poemi conviviali e presenta Minerva oscura, infelice cabala dantesca; D´Annunzio pubblica a puntate Le Vergini delle Rocce.
Lauro respira quest´aria: i versi gli vengono spontanei come a Ovidio: è ventunenne dottore in chimica; traduce Edipo Re e Il ramo d´oro; va negli Usa, invitato dalla Italy America Society; tiene un corso d´italiano ad Harvard; scopre la politica (credeva che il fascismo avesse guarito l´Italia dalla sbornia sovversiva). Traduce anche Antigone, agonista del dissenso etico. La stessa intenzione traspare da Icaro, versi suoi: Minosse ovvero la tirannia, servita dal gran tecnico Dedalo; Icaro vuol evadere, persuade il padre a costruirgli le ali e muore nel tentativo. Con questo poema vince il premio bandito dalle Olimpiadi d´Amsterdam, 1928.
Eccolo segretario della Italy America Society, malvisto dalle due parti: era sospettoso anche Salvemini, consultato sul possibile volo nel cielo romano, ma ictu oculi gli crede (Memorie d´un fuoruscito, Opere, VIII, Feltrinelli, 1978); benedetto dalle Muse, irradia charme (Prezzolini, L´Italiano inutile, Longanesi, 1953, 278ss.). Due anni dopo opera clandestinamente: missive ciclostilate spiegavano cos´abbia d´immorale e funesto il regime fascista; la polizia scova i mittenti, inclusa sua madre, Lilian Vernon. Stava tornando in Italia: vuol costituirsi, lo dissuadono; indotta dal difensore, l´imputata scrive una lettera al Duce; resterà segreta, dicono, e salta fuori nel dibattimento, con quella all´ambasciatore negli Usa dove lui professava fedeltà politica, sperando d´avere mano libera. Regìa perfida: i corrispondenti della stampa estera filofascista insinuano dubbi; bastava aspettare qualche giorno, sarebbe caduto nella rete; perché rimane fuori? L´unica risposta possibile è l´atto quasi suicida: impara a volare; nel maggio 1931 s´alza da solo. Il 13 luglio parte da Cannes e un incidente meccanico lo ferma sulla Corsica. Ne parlano tutti. Sabato 3 ottobre ritenta levandosi da Marignan, presso Marsiglia, ore 15.15; «Pegaso» è un trabiccolo, fa 150 km l´ora; divora il doppio la famosa aviazione fascista (tra poco Balbo trasvolerà l´Atlantico); l´ordine è d´abbattere ogni incursore. Lascia un testamento autografo, otto pagine sobrie, Histoire de ma mort, da pubblicare nel probabile caso infausto.
Arriva su Roma nei bagliori del tramonto, insigne impresa aeronautica, considerati macchina e pilota apprendista: incrocia mezz´ora a bassa quota, disseminando 400 mila manifestini; sfiora Trinità dei Monti, dove abitava, indi punta verso nord-ovest e scompare, non sappiamo dove. Secondo l´ipotesi più plausibile, cade in mare. Charis De Bosis, sorella presumo (erano sette figli), chiude così il cenno biografico nell´edizione italiana della Storia: «una bella vita, una bella morte»; epigrafe perfetta.
Nell´estetica vissuta splende die weisse Rose, Rosa bianca. A Monaco, tra giugno e luglio 1942 circolano quattro volantini sulfurei: i Tedeschi risponderanno della vergogna collettiva d´avere servito chi li istupidisce e perverte; la cosiddetta visione nazista del mondo è ciarpame; ogni patriota onesto s´auguri la sconfitta; «teniamo a mente» i nomi, anche dei meno colpevoli. Incredibile che qualcuno diffonda materiale simile in piena fortuna militare, mentre le armate sud irrompono da Voronov lungo il Don verso il petrolio; i generali credono d´avere vinto, persino l´anti - hitleriano pedante Franz Halder, capo dell´Okh. Gli autori sono Hans Scholl, 24 anni, e Alexander Schnorell, 25, studenti in medicina; poco dopo militano nel servizio medico ausiliario sul fronte russo. Al ritorno riprendono i fili clandestini: l´illusione estiva è svanita; la VI Armata soccombe nella tenaglia russa sul Volga. Die weisse Rose annovera anche un professore, Kurt Huber, filosofo e musicologo. La più giovane della compagnia è Sophie Scholl, sorella minore d´Hans, 21 anni: adempiuto il servizio ausiliario, studia biologia; voleva partecipare al writing notturno (pennellano slogans sui muri dell´Università, «Hitler Massenmörder»); il fratello glielo vieta; ma giovedì 18 febbraio 1942 un bidello li coglie sulle scale mentre lanciano l´ultimo volantino. Se ne occupa la Gestapo con apparente fair play: inutile negare, tante sono le prove; domenica ricevono l´atto d´accusa. Sophie s´informa sul modo della pena capitale: Hans ha diritto alla fucilazione, quale soldato?; meglio che pendere dalla forca o essere decapitata.
E già arrivato da Berlino, portando la condanna, Ronald Freisler, presidente del Volksgerichthof, laido psicopatico, famoso perché sopraffà i pazienti con una voce simile all´hitleriana, e lunedì mattina tiene banco. Poi i due Scholl vedono i genitori. Condivide la loro sorte Cristoph Probst, individuato dalla minuta d´un messaggio disfattista che Hans portava in tasca: «non sapevo che la morte fosse così facile», commenta; il personale della prigione, commosso, li lascia insieme qualche minuto. La prima è Sophie. Esiste dunque una bella Dike. Freisler funge da ministro del sordido.
Spesso il bello innesca riflessi ostili. Li ha definiti Melania Klein: l´invidioso patisce quel che gli manca; non potendosene impadronire, lo guasta.
Passioni labili, maschere permutabili, è il senso d´una storia tra dittatura mussoliniana e Italia equivocamente postfascista. Qualche cospiratore milanese sotto la sigla «Giustizia e libertà» direbbe «imputo mihi» se fosse autocritico: cavalieri dell´interventismo democratico, nella primavera 1915 cooperavano al fascio ante litteram; dubbio exploit d´intelletto politico (vedi Salvemini, virtuoso gaffeur); ma quando la malattia esplode sette anni dopo, sfidano i poteri dominanti; peccato che siano malaccorti. Ad esempio, accolgono senza vagliarlo un giovane: tre lauree (giurisprudenza, economia e commercio, scienze politiche), piccola statura, viso ben configurato con sfumature torbide nello sguardo, varie curatele fallimentari, una Fiat 514; massone e mazziniano veste in nero come l´apostolo, con un segreto; metteva le mani nei soldi dei fallimenti; mancano 126 mila lire (a occhio e croce 250 mila euro); siccome non può versarle sul conto intestato al giudice (maledetta lex superveniens, 10 luglio 1930), schiva la galera diventando spia e agente provocatore. Se la provocazione riuscisse, il caso sarebbe enorme: i cospiratori progettano fiamme dimostrative in vari uffici finanziari nella notte 28 ottobre 1930, ottavo anniversario della marcia su Roma; l´Ovra nascente vuole un fatto ricollegabile alla strage nella Fiera, 12 aprile 1928; roba da pena capitale ma i rei sbagliano le dosi e buttano gli ordigni nel fiume.
Fallita la messinscena grossa, resta quanto basta alle condanne (un imputato muore suicida, altri incassano vent´anni e ne sconteranno nove, più quattro di confino, fino al collasso del Leviathan fascista). Lo spione va in Argentina, torna, intrattiene lucrosi rapporti con i vertici polizieschi, combina affari spagnoli, diventa cattolico antisemita: verso la fine professa un fascismo duro, estremista anche nella Repubblica sociale; rifugiatosi sotto le ali del Caudillo, riappare dopo sei anni. Ernesto Rossi era uno dei condannati dal Tribunale speciale: sa bene chi sia costui; nude carte d´archivio lo dipingono; esce Una spia del regime, Feltrinelli, 1955. L´homunculus in fabula querela chiunque tocchi l´argomento: perde 12 volte e non paga spese né danni, invulnerabile dalle azioni esecutive; s´improvvisa editore; quattro suoi libelli distinguono l´autentico fascismo dal falso, identificato con l´Italia antifascista. Ha la stoffa dell´illusionista inquinatore d´idee: gli mancano solo le circostanze adatte; combinerebbe mirabilia sotto le nostre lune. Dalla battaglia dei cavilli esce vincitore: l´Ordine forense romano l´aveva radiato ma deve riammetterlo; dopo 12 scacchi, una sbalorditiva massima 9 febbraio 1966 antepone l´onore tartufesco alla verità storica. Lo studio dell´animale umano svela mille figure: abbiamo visto Themis, Eunomia, Dike, Irene, le nove Muse; e brulicano laboriosi i diavoli deformi dipinti da Hieronymus Bosch.

Corriere della Sera 10.5.08
Immigrazione Il ministro Maroni accelera sul piano. Senza accordi con Tripoli Cpt al collasso
Il Viminale punta all'arresto dei clandestini
di Fiorenza Sarzanini


PALERMO - Li chiamano «arrivi a massa compatta» e sono quelli che fanno paura. Perché quando la Libia allenta i controlli sulle proprie coste, in Sicilia approdano barconi con centinaia di clandestini. E il centro di Lampedusa, avamposto europeo nell'accoglienza degli irregolari, rischia il collasso. La scorsa settimana, quando il figlio del colonnello Gheddafi pronunciò il suo anatema contro l'Italia minacciando ritorsioni se Roberto Calderoli fosse diventato ministro, sono arrivati più di 400 stranieri. E la capienza di ottocento persone è stata ampiamente superata con oltre mille presenze. Ora sono nuovamente scesi a 300, ma nessuno si illude perché gli analisti sanno che senza intese forti con Tripoli gli saranno sbarchi continui.
Quello dell'immigrazione è il tema che il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha voluto affrontare ieri, nel giorno del suo insediamento al Viminale. E così la prima riunione con i capi dei Dipartimenti si è trasformata nell'occasione per fare un punto di situazione e dare la linea anche in materia di sicurezza. I tempi dettati dall'agenda sono strettissimi. Martedì è stata fissata a palazzo Chigi la riunione tecnica sul decreto che il governo vuole approvare al massimo durante il secondo consiglio dei ministri. Già lunedì Maroni vuole un piano da portare all'esame dei colleghi di Giustizia, Esteri e Difesa.
La strada è tracciata, adesso bisogna pensare all'attuazione delle misure, soprattutto tenendo conto della possibilità che torni un clima teso con Tripoli. L'accordo siglato a fine dicembre dal precedente esecutivo appare ormai superato. Difficilmente la Libia accetterà il pattugliamento delle proprie coste, così come aveva invece assicurato. E in ogni caso questo è stato sottolineato anche durante la riunione di ieri - le scelte politiche sull'immigrazione non possono confidare sulla tenuta dei buoni rapporti con il colonnello Gheddafi.
Il potenziamento dei controlli in acque italiane non serve da deterrente, come è stato ampiamente dimostrato in questi ultimi anni, dunque altri saranno i provvedimenti per cercare di frenare gli arrivi. Il principale, quello su cui la Lega batte da anni, riguarda l'introduzione del reato di immigrazione clandestina con la previsione dell'arresto obbligatorio per chi varca il confine senza permesso. Una misura che, unita alla possibilità di prolungare la permanenza nei centri di prima accoglienza - ora limitati ad un massimo di sessanta giorni -, si ritiene possa scoraggiare chi salpa da porti e spiagge per cercare fortuna in Italia.
Il governo dovrà dunque affrontare il problema delle strutture visto che la maggior parte dei Cpt sono già pieni e la possibilità di aprirne altri si è sempre scontrata con le resistenze dei cittadini. Al momento il ministro Maroni ha preferito dedicarsi ai campi nomadi, sollecitando una sorta di «mappatura». Il titolare del Viminale ha spiegato chiaramente di voler valutare i risultati ottenuti dai «patti per la sicurezza» siglati con i sindaci delle principali città italiane per studiare eventuali correttivi. E in questo filone ha inserito le nuove norme che il governo approverà per contrastare anche la permanenza nel nostro Paese dei cittadini comunitari, primi fra tutti i rumeni: chi vuole rimanere dovrà dimostrare di avere mezzi di sostentamento sufficienti.

Corriere della Sera 10.5.08
Epistolari. Il filosofo privato
Nietzsche a Torino: lettere in bilico sulla follia
di Armando Torno


Tra fine settembre 1888 e inizio 1889 Friedrich Nietzsche vive a Torino l'ultima fase della sua vita cosciente. Dopo un soggiorno estivo a Sils-Maria, dove il clima fu disastroso, il filosofo cerca di nuovo nella città subalpina una possibilità «di sopravvivenza ». La sua salute è minata. Le lettere che scrive a getto continuo — ora raccolte, anche con gli abbozzi, a cura di Giuliano Campioni nella traduzione di Vivetta Vivarelli — sono soprattutto il diario di una tragedia esistenziale. L'ultima epistola, indirizzata a Jakob Burckhardt il 6 gennaio, porta gli inequivocabili segni della follia: «... sarei stato molto più volentieri professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato al punto di tralasciare per colpa sua la creazione del mondo...». Ormai si firma «Dioniso» o «il Crocefisso»; scrive a re Umberto I, al cardinale Mariani («martedì verrò a Roma per rivedere Sua Santità»), ai polacchi. È altrove.
Ma non c'è soltanto pazzia irreversibile in queste lettere. Troviamo suggerimenti per meglio comprendere gli ultimi scritti, tra i quali Ecce homo; si conoscono i suoi interessi musicali, che vanno dal Requiem del «vecchio napoletano maestro Jommelli» a Bizet, dalle opere liriche ai concerti a cui assiste continuamente. E poi gli errori di stampa che scopre nei suoi libri, i propositi contro il cristianesimo, le letture di periodici francesi e troppe altre cose di un pensatore unico.
FRIEDRICH NIETZSCHE Lettere da Torino ADELPHI PP. 276, e 15

venerdì 9 maggio 2008

l'Unità 9.5.08
«Niente fronde, ma chiedo discussione vera»
D’Alema a «Italianieuropei»: no allo scontro per la leadership. Il partito leggero? Un’illusione
di Ninni Andriolo


«CREDO che nessuno possa in questo momento ragionevolmente mettere in discussione il ruolo di Veltroni come segretario...». Massimo D’Alema affida a Italianieuropei la sua riflessione sul voto e sulle prospettive che questo indica al Partito democratico.
Con una lunga intervista alla rivista della sua Fondazione, l’ex ministro degli Esteri sottolinea che «l’unica cosa che si chiede è una discussione aperta e meno difensiva, a partire da un’analisi vera, che sappia vedere anche i limiti e le insufficienze del progetto così come si è dispiegato fino ad oggi». La replica è riservata alle illazioni sulle fronde anti loft e sull’utilizzazione correntizia di Italianieuropei. «In un partito moderno istituti come “Italianieuropei” possono svolgere un ruolo importante - spiega D’Alema - Non come organo di partito ma come strumento di ricerca, di dialogo con la società e la cultura, di formazione della classe dirigente». L’ex vice premier rilegge l’esito del voto a partire dall’analisi delle società italiana. Emergono chiare, ovviamente, posizioni differenti da letture emerse nel loft democratico di Sant’Anastasia. È svanita «l’illusione del partito leggero, senza strutture e senza iscritti», sottolinea D’Alema. Quanto alla «grande sfida» della «costruzione del Pd», occorre una «innovazione robusta, in grado di farci uscire da una dialettica paralizzante tra “un nuovo” troppo fragile per affermarsi e “un vecchio” troppo pesante per farsi da parte». Per D’Alema, in sostanza, il «radicamento» del Pd necessita, adesso, di uno «sforzo di invenzione organizzativa» che deve sfidare «le forze migliori, non in uno scontro sulla leadership, di cui nessuno avverte il bisogno, ma in una ricerca comune, in un confronto di idee e proposte». I problemi da risolvere non sono soltanto organizzativi, in ogni caso. Per D’Alema, in particolare, «il riferimento al lavoro» deve rappresentare «il tratto identitario» di un Pd «portatore di un nuovo compromesso sociale». L’ex vice premier insiste, poi, sul tema delle alleanze del Pd. Non si può fare «l’errore» di pensare che se le forze della Sinistra Arcobaleno «non sono rappresentante in Parlamento, esse non esistono più nella società italiana». E «il più grande partito dell’opposizione deve avere la forza di rappresentare quella maggioranza di cittadini che non ha votato per la destra e non solo quel 33% che ha votato per noi». Non può esserci «contrasto», quindi, «tra l’idea di allargare i confini del Pd e la ricerca di una politica di alleanze». E il Pd non ha alcun interesse «a sospingere l’Udc, di nuovo, sotto l’egemonia di Berlusconi». Mentre si deve riflettere con attenzione anche sul fenomeno della Lega. D’Alema, in ogni caso, guarda con «preoccupazione» a un’idea di federalismo fiscale «che introduca sperequazioni territoriali, assai pesanti nella distribuzione delle risorse». e che potrebbe produrre il rischio che l’Italia diventi «il paese delle leghe, non solo al Nord, ma presto anche al Sud». Nel Pd nessuna «contrapposizione schematica tra vocazione maggioritaria e alleanze», in ogni caso. Mentre la proposta di introdurre soglie minime d’accesso per le elezioni europee, avanzata per primo da Franceschini, non convince. La lunga intervista di D’Alema parte dalla premessa che il risultato elettorale del 14 aprile «non segna una svolta improvvisa». «Anche quando vincemmo nel 1996» nella società «la destra era in maggioranza». Lo sfondamento della Lega nella base operaia del Nord, ad esempio, era stato già fotografato. Al di là della Lega, comunque, il problema è «che le forze della destra hanno una sintonia profonda con il paese». Anche per questo «Malgrado il disastro del suo governo, Berlusconi nel 2006 è riuscito sostanzialmente a pareggiare con il centrosinistra». E «la forza del fenomeno berlusconiano» non va ridotta soltanto alle tv, ma al «diffondersi di una concezione plebiscitaria e leaderistica della democrazia». E la riflessione si incentra sulle «difficoltà» della sinistra e del centrosinistra. Assieme a «limiti di analisi e di elaborazione programmatica» - sottolinea D’Alema - la «sconfitta» del 14 aprile è «figlia anche di ritardi ed errori politici»: l’aver riproposto nel 2006 «un centrosinistra già visto»; l’aver pensato «di aver vinto le elezioni», mentre «il risultato elettorale era un sostanziale pareggio»; l’esperienza del governo,Prodi, non solo a proposito delle divisioni della maggioranza, ma - soprattutto - in relazione al contrasto che si è manifestato «tra il voto di quegli italiani che non arrivavano alla fine del mese ed erano tornati a rivolgersi alla sinistra, e la priorità, apparsa quasi tecnocratica, che il governo ha attribuito al tema del riassetto dei conti pubblici».
E riflettendo ancora sull’ultima campagna elettorale - anche in senso autocritico - D’Alema si sofferma «sul tipo di messaggio» che il Pd ha lanciato al paese. «Intendiamoci - sottolinea - la novità del Pd, la forza delle primarie e la leadership di Veltroni, insieme alla decisione di andare da soli o quasi da soli alle elezioni, hanno consentito di limitare la portata della sconfitta». perché «se ci fossimo presentati come nel 2006, adesso non vi sarebbero che macerie». Fatta questa premessa, tuttavia, bisogna chiedersi perché «il risultato del voto è stato inferiore alle attese». E l’ex vice premier conclude che «al di là delle piazze gremite ed euforiche che abbiamo incontrato, c’era una maggioranza silenziosa che non siamo riusciti a vedere e interpretare». Un’«Italia profonda» che chiede «una guida forte», mentre «noi abbiamo messo l’accento in modo prevalente sul richiamo generazionale, sui volti nuovi della società civile, sull’idea di un partito e di una politica leggeri. Questo ha funzionato nel ceto medio urbano, nell’opinione pubblica che legge i giornali, ma è un messaggio apparso fragile ad una società intimorita e preoccupata per il suo futuro». Radicare il Pd, quindi, per farne un «partito vero», che non ripropone tuttavia «modelli del passato». Affrontando, nel contempo, «con serietà» il tema delle grandi organizzazioni sociali. «Nessuno vuole mettere in discussione l’autonomia del sindacato, dell’associazionismo, della cooperazione. Ma il Pd non può non porsi il problema del rapporto fra queste grandi forze associate e il paese».

l'Unità 9.5.08
Cuneo difende la Resistenza
I reduci di Salò restano a casa
di Oreste Pivetta


Il ricordo di Duccio
Galimberti, anima
della lotta partigiana
torturato e ucciso
dai repubblichini

Talvolta ritornano e talvolta ci provano. Ci proveranno ancora. «All’anno prossimo», ha promesso Diego Michelini della federazione di Torino del raggruppamento nazionale combattenti e reduci di Salò che via fax aveva comunicato al questore di Cuneo l’intenzione di commemorare sabato 10 maggio, «l’eccidio di ventotto militari, di cui cinque ausiliarie, perpetrato da bande partigiane comuniste e sottaciuto per 63 anni». Michelini ha rinunciato. «Di fronte alle pressioni delle autorità, prefetto e questore», ha precisato. Michelini non immaginava di dover sbattere contro un muro di “no” o di silenzi, compresi quelli di An.
Aveva detto “no” il sindaco Alberto Valmaggia, negando come di sua competenza l’uso del suolo pubblico. Si stavano organizzando l’Anpi, i partiti, le associazioni democratiche. Rifondazione voleva la sua contromanifestazione. «Il bello - spiegava Valmaggia - è stato la solidarietà, è stato la comunanza di intenti espressa anche dal consiglio comunale: non si poteva offendere così la città».
Ieri mattina questi sentimenti sono stati espressi in una riunione con il prefetto e il questore, che avranno preso atto invitando il Michelini a fare altrettanto, cancellando gli inviti e disdettando l’oratore ufficiale, Marco Pirina. In quale fa professione di storico a Pordenone, reclamizza le sue opere in un sito titolato “Silentes loquimur”, occupandosi in particolare di foibe e di vendette e stragi perpetrate dai “partigiani rossi”. Si vanta di essere uno dei fornitori di Pansa (anche di numeri assai improbabili) e ostenta, nel sito, una citazione di Vespa: il quale, nel suo libro «Vincitori e vinti», lo gratifica della primogenitura negli studi attorno a quella che fu la tragedia delle foibe, dimenticando che altri ben prima di lui e a sinistra avevano trattato quella terribile stagione (ricordando i massacri fascisti in nome della pulizia etnica). Di Pirina si può godere un’immagine in un altro sito, quello di Azione tradizionale. Il professore si fa ritrarre con alle spalle una bandiera al centro della quale campeggia una faretra e un ritratto di Julius Evola. Pirina, dirigente del Fuan a Roma, militante della Lega, poi dentro Forza Italia, infine simpatizzante di An, subì negli anni Settanta pure l’arresto, accusato d’esser coinvolto nel tentato golpe Borghese. Venne prosciolto. Dichiarò che tutto nasceva dalla scoperta del suo nome in un’agenda di un personaggio assai particolare: quella del «comandante» Sandro Saccucci, lui pure accusato per il golpe, celebre per aver chiuso un comizio a Sezze Romano sparando a destra e a manca (un giovane della Fgci, Luigi Di Rosa, morì, Saccucci si diede a una lunga fuga finita in Argentina).
Pirina avrebbe dovuto cantare la sua a proposito di quella vicenda, citata da Michelini, «l’eccidio... sottaciuto per 63 anni», di cui, peraltro, narra una bella mostra, “Liberazioni”, a cura dell’Istituto di studi storici sulla Resistenza, aperta nella Sala S. Giovanni, mostra fotografica di volti e di storie dall’8 settembre in poi.
L’8 settembre segnò anche a Cuneo la fuga dei fascisti e l’inizio della Resistenza sui monti. Quei giorni li hanno raccontati in molti, tra i quali Giorgio Bocca e Nuto Revelli, nelle loro memorie di partigiani (non comunisti, ma di Giustizia e libertà). Sono memorie di una gran voglia di libertà, ma anche di paure di sofferenze, di fame e, naturalmente, di morti: a due passi da Cuneo c’è ad esempio Boves, un paese, medaglia d’oro al valor civile, che ebbe modo di sperimentare la prima rappresaglia nazista: ventiquattro morti e centinaia di case distrutte. Era solo il 19 settembre. Altre ne seguirono di rappresaglie: a dicembre del ‘43 e all’inizio dell’anno successivo (allora i morti furono una sessantina). In quel lontano 10 maggio del 1945, che Michelini avrebbe voluto ricordare, Cuneo era libera e non fu ucciso proprio nessuno. L’eccidio è del 3 maggio: le ausiliarie e alcuni fascisti s’erano messi a sparare su gente inerme, che seguiva il funerale di un partigiano. Molti fascisti vennero disarmati e poi rilasciati. Ad altri andò peggio: processati e condannati. La guerra costò a Cuneo tremila morti.
Il sindaco Valmaggia, dopo il suo “no”, si era anche posto una domanda: meglio impedire quel raduno, rischiando di dar fiato a qualche protesta contro le “censure” in nome della “pacificazione” oppure lasciar fare, abbandonando i quattro reduci di Salò nella solitudine.
Marco Revelli, storico e figlio del comandante partigiano Nuto, ha risposto: «È un quesito frequente. Lo sdegno popolare ha sempre spinto in una direzione, una spinta dal basso che ha aiutato a costruire un rapporto positivo tra la gente e le istituzioni: è la volontà di resistere al tentativo di dissacrare ciò che non si può dissacrare. A Cuneo è andata così: ci provò anche Almirante, che si chiuse in un cinema, mentre la città era invasa dai cortei dei partigiani, guidati dal sindaco democristiano Mario Dal Pozzo e i parroci suonavano le campane. Questi sono luoghi della memoria, dove ancora nessuno accetta gesti che hanno il segno tecnico della rappresaglia».
Cuneo è anche la città di Duccio Galimberti, il mite avvocato figlio del ministro delle poste di Giolitti. Era un mazziniano, organizzò la lotta antifascista. A Torino, nel novembre del 1944, cadde nelle mani dei repubblichini, che lo portarono a Cuneo, lo torturano e lo fucilarono con una raffica di mitra alla schiena.

l'Unità 9.5.08
Sternhell: il boicottaggio culturale
è la cosa più anticulturale che c’è
di Umberto De Giovannangeli

«Boicottare la Fiera del Libro? È uno scandalo e dei peggiori. Perché fondato sull'ignoranza e l'incomprensione dei fatti». A sostenerlo è il più autorevole storico israeliano: Zeev Sternhell. Tra le sue opere, ricordiamo «Nascita d'Israele. Miti, storia, contraddizioni»; «Nascita dell'ideologia fascista»; «Contro l'illuminismo. Dal XVIII° secolo alla guerra fredda», editi in Italia da Baldini, Castoldi, Dalai.
Professor Sternhell, l'Italia si trova oggi al centro della polemica intorno alla Fiera Internazionale del Libro di Torino, in cui Israele è ospite d'onore in occasione dei suoi 60 anni. Quella che dovrebbe essere una festa della cultura finisce con il diventare un festival di boicottaggi e contro-boicottaggi. Qual è il senso di tutta questa opposizione?
«Penso che tutto ciò sia uno scandalo. Del peggiore degli scandali, perché originato da una bassa demagogia o peggio, dall'ignoranza e dalla incomprensione dei fatti. Non si può costruire una posizione su una questione così complessa sulla base di immagini televisive, per cruente e orribili che siano. Quello che avviene con i palestinesi è terribile, ma in questa guerra ci sono due parti che si dividono la responsabilità di quanto avviene, in parti fra l'altro non eque se si mette in conto l'uso del terrorismo. La gente deve capire che se non avvenisse ciò che avviene in questi giorni a Gaza, probabilmente gli schermi tv sarebbero pieni di immagini di terrorismo a Tel Aviv o a Gerusalemme, come è già più volte avvenuto negli ultimi anni. Io grido a piena voce da anni contro le decisioni dei governi che mi rappresentano. Sostengo che si deve trovare un modo di porre fine a tutto ciò, ma questo non c'entra con la cultura. Il boicottaggio culturale è la cosa più anti-culturale che esiste. Fin troppo facile ricordare chi ne ha fatto uso, e non fa molto onore trovarsi in compagnia di movimenti come il nazionalsocialismo o il fascismo. Si deve assolutamente evitare che la cultura diventi ostaggio della protesta politica. E questo è ancora più ingiusto se viene fatto contro un Paese che ha più volte dimostrato di essere democratico e libero, all'interno del quale si svolge da decenni un confronto politico e ideologico duro, profondo e sincero su quanto avviene nei Territori occupati. Solo poche settimane fa abbiamo festeggiato i 30 anni di Peace Now. Non si possono chiudere gli occhi e non constatare che se nella società palestinese non esistono voci del genere e che se ci fossero, forse le cose andrebbero diversamente. Ed è anche un fatto che le posizioni dell'opinione pubblica israeliana sono radicalmente cambiate dal passato, laddove oggi la maggioranza degli israeliani è pronta ad accettare uno Stato palestinese. Non posso credere che chi boicotta Torino per la presenza di Israele sappia e capisca tutto questo; al massimo si può dar loro il beneficio della superficialità, della non comprensione del fatto che si tratta di una situazione molto complessa in cui non si può vedere tutto bianco o tutto nero, perché oggi, in definitiva, sono Hamas e i movimenti integralisti, che continuano a rifiutare ogni accettazione dello Stato d'Israele e a rappresentare il maggiore ostacolo per la pace. E in questo imbroglio - in cui la cosa forse più necessaria è quella di capire, capirsi, parlare e spiegare -il boicottaggio culturale può solo portare ad una ulteriore chiusura, ignoranza e incomprensione. Vale a dire l'esatto contrario di ciò di cui abbiamo bisogno».
Israele festeggia i 60 anni dalla sua nascita. Quale bilancio è possibile trarre di una vicenda storica cosi complessa e per molti versi drammatica?
«Al termine dei suoi primi 60 anni, possiamo individuare nello Stato d'Israele allo stesso tempo una incredibile storia di successo e alcuni cocenti fallimenti. Se guardiamo agli obiettivi primari e di fondo del sionismo, sono stati tutti conseguiti: abbiamo uno Stato in cui vivono 7 milioni di persone - un numero che perfino in termini europei non è così piccolo - una società che in quanto a capacità tecnologiche si trova all'avanguardia nel mondo, un livello di vita occidentale secondo tutti i parametri materiali e se vogliamo anche culturali; insomma un luogo in cui oggi qualsiasi ebreo che voglia trasferirvisi non deve, come poteva avvenire in passato, fare una scomoda scelta ideologica rinunciando al benessere della sua terra di provenienza. Ma tutto ciò non può lasciarci sazi e soddisfatti. A controbilanciare questi enormi successi, ci sono anche grandi fallimenti. Il primo, più evidente a tutti, è rappresentato dall'incapacità di risolvere, almeno finora, il conflitto con i palestinesi e con parte del mondo arabo. Che sia chiaro, è una responsabilità che va divisa almeno a metà fra le parti, laddove gli arabi, in sostanza, non hanno ancora accettato l'esistenza dello Stato d'Israele. Ma ciò che a me brucia di più, è lo stato attuale della società israeliana: una società borghese assolutamente convenzionale in cui la sperequazione dei redditi è una delle più alte nel mondo occidentale. E in questo caso, la responsabilità non è attribuibile ad altri che a noi stessi» .
Se oggi Theodor Herzl si trovasse a camminare nelle strade di Israele sarebbe deluso?
«No, probabilmente se oggi Herzl potesse vedere Israele, sarebbe felice di vedere realizzato lo Stato degli Ebrei, in cui essi possono vivere liberi, padroni della propria vita, non più dipendenti dalla benevolenza di questo o di un altro sovrano, governo o nazione. Sarebbe fiero dei simboli dello Stato, della lingua, rinata dopo oltre duemila anni e parlata oggi nelle strade, nei mercati e nell'accademia. In altre parole, Hezrl e con lui i pionieri del sionismo sarebbero felici della normalità del Paese e del popolo che lo abita, tranne poi cominciare ad avere qualche dubbio vedendo quanto questa normalità si è ormai radicata, soffocando quel qualcosa in più che ci si aspetta da Israele come Stato ebraico».
Ed è giusto questo pretendere di più da Israele?
«A giudicare da come ci si riferisce ad Israele nel mondo, sembra che questa pretesa sia un semplice dato di fatto, neppure messo in discussione. Si richiede ad Israele di essere più giusto, meno violento, di impegnarsi nel mantenere l'uguaglianza e la giustizia più di quanto altri popoli e nazioni abbiano fatto nel passato e fanno nel presente. Non c'è nazione al mondo che non abbia fatto molto peggio di quanto viene attribuito a Israele. La guerra quotidiana combattuta contro i palestinesi è orribile, sanguinosa. I suoi risultati mi spezzano il cuore ogni giorno. E non mi consola pensare che - tanto per dare un esempio - i francesi in Algeria abbiano represso nel maggio 1945 una sommossa, uccidendo un minimo di 15.000 persone, e che in tutta questa guerra abbiano perso la vita circa un milione di algerini. E come con i francesi, potrei prendere l'esempio di decine di altre nazioni i cui governi, mass media e opinioni pubbliche pretendono da Israele standard di moralità che loro non hanno saputo mantenere in passato e che nutro forti dubbi saprebbero mantenere in circostanze simili a quelle in cui si trova ad agire Israele. Eppure, questo non mi consola e mi arrabbio con il mio Paese, perché negli ultimi decenni tende a prendere da tutte le società del mondo il peggio di quanto queste offrono, il materialismo sfrenato, il consumismo. No, rispondendo alla sua domanda, probabilmente quanto si pretende da Israele non è giusto, ma io sento che in ogni caso è quello che Israele deve fare. Deve farlo verso l'esterno, ma soprattutto deve farlo per sé stesso, per essere una società migliore, più umana, più solidale. La sfida che vorrei Israele vincesse, è proprio di riuscire a trovare quell'equilibrio in cui giustizia sociale, solidarietà e benessere riescano a convivere perfino nelle proibitive condizioni in cui opera Israele».
Da storico, ha ancora un significato parlare di Israele come Stato sionista, termine usato spesso con intenzioni offensive?
«Questa è una delle maggiori distorsioni a cui oggi assistiamo. Il sionismo è l'espressione del nazionalismo ebraico. Una corrente resa impellente da circostanze storiche, legittima come lo sono tutti gli altri nazionalismi, francese, italiano, belga, svedese ecc... Quanto è successo nella Shoah non ha fatto altro che confermare in modo schiacciante quanto il sionismo avesse ragione in termini di richiesta di un focolaio nazionale del popolo ebraico, di una normalità. Per questo la conquista del Paese fino al 1949 è stata a mio parere giusta e legittima: poiché era indispensabile. Era la condizione necessaria per rendere possibile l'esistenza nella normalità del popolo ebraico. Il problema è nato dopo il 1967, quando è iniziata l'opera di insediamento dei Territori. Considero tutto ciò che è avvenuto dopo il ‘67 illegittimo, dannoso e soprattutto non necessario. Israele si è infilato in una trappola quando ha smesso di considerare inviolabili gli aspetti universali del sionismo, quelli che identificavano i propri diritti alla pari di quelli degli altri, quelli che determinavano in modo inoppugnabile il diritto di ogni popolo alla libertà, all'indipendenza e alla sovranità. È per questo che io, per fortuna con molti altri, mi batto da 30 anni per riportare alla giusta interpretazione del sionismo, per convincere che questa terra deve essere divisa fra i due popoli che ne hanno pari diritto. In questa tragedia ognuno ha le proprie responsabilità: Israele deve smobilitare la gran parte degli insediamenti nei Territori e i palestinesi devono accettare una volta per tutte l'esistenza di Israele e rinunciare alla richiesta del diritto al ritorno, un eufemismo dietro il quale si nasconde l'eliminazione graduale di Israele».
Lei è spesso in prima linea nel criticare l'operato dei governi di Israele eppure ha ricevuto questo anno il maggiore riconoscimento concesso dallo Stato ai suoi ricercatori e scienziati. Qual è il senso di questo riconoscimento: è - come alcuni dicono - una foglia di fico, oppure - come affermano altri - è il segno di un Paese democratico a confronto con situazioni ingestibili in una vera democrazia?
«Questo riconoscimento mi è stato dato per la mia ricerca scientifica, anche se nelle motivazioni della commissione è ricordata la mia attività pubblica. Ciò non sarebbe potuto avvenire in una società non democratica e nessuno può ignorare o sminuire la democraticità di Israele, delle sue istituzioni, della sua Corte suprema e della sua società, che sono in grado di elevarsi al di sopra delle divergenze e premiare anche chi, da decenni, esprime le proprie critiche e l'opposizione politica alle scelte dei governi di Israele. Criticare e ammonire, sono parti integrali dell'attività dell'intellettuale. Io e tanti altri come me, non solo hanno in Israele il proprio spazio nella dialettica politica del Paese, ma hanno di fatto contribuito a cambiare l'opinione degli israeliani i quali oggi, è bene ricordarlo, sono in gran parte a favore della spartizione del territorio in due Stati. Il premio dato a me è in fondo, anche un premio alla democrazia israeliana».

l'Unità 9.5.08
LO SCRITTORE ISRAELIANO
Yehoshua: dialogo con Hamas per fermare la strage


«Penso che si debba dialogare anche con Hamas come unica via per arrivare a fermare questo stillicidio di morti da tutte e due le parti» ha detto ieri Abraham Yehoshua alla Fiera di Torino, aggiungendo di confidare nella realizzazione di uno stato palestinese «entro quest’anno o al massimo il prossimo. La Fiera del libro potrà così invitare presto la Palestina come stato ospite d’onore. In quell’occasione tornerò anche io a Torino, per festeggiare e confrontarmi con i colleghi». Lo scrittore israeliano ha affrontato questo argomento in risposa a una domanda del pubblico sul boicottaggio: «Quando si è cominciato a sentirne parlare ci sono rimasto malissimo. Io sono 40 anni che mi batto per la costituzione di uno stato palestinese, naturalmente appoggiando coloro che sono per il confronto e il dialogo, non certo chi cerca il boicottaggio».

l'Unità 9.5.08
Alleanze sì, alleanze no: dibattito antico (ma ancora utile)
di Giuseppe Tamburrano


Il dibattito che si è aperto nel Pd tra Veltroni e D’Alema - se la definizione dell’identità sia prioritaria rispetto alle alleanze - è ricorrente nella vita politica. Durante la fase di preparazione del centro-sinistra Fanfani sosteneva che i programmi (l’identità) vengono prima della politica (le alleanze) e Moro invece privilegiava le alleanze. Così nel Psi il confronto era tra Nenni: prima la politica (politique d’abord), e Lombardi: l’impegno riformatore.
Io ho sempre pensato che questo dibattito è astratto (se non nasconde un contrasto tra persone e gruppi). È astratto perché chi dà la priorità alle alleanze deve pure specificare “su che cosa”, poiché ci si incontra per fare delle cose insieme e non un passeggiata o una cena. E se un partito non ha una identità chiara, cioè non sa chi è e che cosa è, non può sapere che cosa vuole e con chi volerla. Dunque ha ragione Veltroni? Fino ad un certo punto, perché in politica ci si definisce nel movimento, per le scelte che si compiono e le alleanze che si realizzano: un partito non si ritira in un eremo per “definirsi” e poi, con le idee chiare, scende in campo.
Insomma hanno ragione e torto tutti e due. Aggiungo che, se ho ben capito, D’Alema propone un’alleanza eterogenea, dall’Udc alla Sinistra Arcobaleno, con un’unica finalità: l’opposizione al governo Berlusconi. E questo impoverisce la sua proposta, rende strumentali le alleanze che si farebbero in negativo, “contro” il governo, invece che in positivo, “per” un programma.
Per quanto riguarda i veltroniani, francamente stupisce sentirli dire che il Pd non ha una ben definita identità. Quando alcuni di noi chiedevano ai Ds e alla Margherita di precisare l’identità del nuovo partito che si stava costruendo ci si rispondeva che i caratteri del Partito democratico erano chiari, vi era una Carta e ci sarebbe stato il programma elettorale. Ora si scopre che avevamo ragione noi.
Mi sia concesso di dire sia a Veltroni sia a D’Alema che questi due aspetti - l’identità, le alleanze - sono due facce della stessa medaglia. Quale può essere in Europa l’orizzonte identitario di un partito che si oppone alla destra? Di un partito che per la parte maggioritaria, viene da una storia di sinistra, se non un partito di sinistra, cioè - per restare ai modelli della casa comune, l’Europa - un partito socialista?
D’Alema ha provato varie “Cose”. Ricordo le speranze, anche gli entusiasmi della “Cosa Due”. Le ha provate, ma non in modo coerente e rigoroso. Lo ha riconosciuto egli stesso!
Oggi nel paesaggio lunare della sinistra ci vuole una grande iniziativa per sanare il divorzio tra la sinistra sociale e culturale che è nella società e la sinistra politica che sembra essersi dissolta. Ma possono scomparire le sigle dei partiti, «nomenclatura delle classi sociali» (Gramsci), non le forze reali che sono nella storia di un Paese, e nella dialettica della vita associata.
In un precedente articolo sull’Unità ho invocato una Epinay italiana, ed auspicato che fosse Veltroni il Mitterrand nazionale. Per le posizioni assunte, sembra che questo ruolo di unire la sinistra possa essere svolto da D’Alema. Il compito è arduo, ma esaltante. Occorre lavorare con esponenti ed espressioni della sinistra più larga, perché venga elaborato un progetto di socialismo riformista all’altezza dei tempi e della crisi del capitalismo. È questa la posizione costruttiva nel dibattito interno al Pd: definire l’identità del nuovo partito nel vivo di una ricerca collettiva, che veda la partecipazione di tutte le forze politiche e intellettuali della sinistra, delle “vie maestre” del socialismo riformista oggi. È un sogno?

Repubblica 9.5.08
Più che il ´68 È l´89 che ci ha cambiati
di TIMOTHY GARTON ASH


È già stato versato più inchiostro sull´anniversario del 1968 di quanto sangue sia sgorgato dalle ghigliottine di Parigi dopo il 1798. In Francia risultano i pubblicati più di 100 libri solo per richiamare alla memoria lo scenario rivoluzionario del maggio ´68. La Germania ha avuto la sua festa della birra versione intellettuale; Varsavia e Praga hanno rivisitato le ambiguità agrodolci delle rispettive primavere; persino in Gran Bretagna è uscita una retrospettiva su Prospect, la principale rivista culturale del paese.
Non è difficile capire i motivi di quest´orgia di pubblicazioni. I sessantottini sono una generazione straordinariamente ben definita in tutta Europa, probabilmente la meglio definita dopo quella che potremmo chiamare dei "ragazzi del ´39", segnati a vita dall´esperienza della seconda guerra mondiale. Gli ex studenti del 1968, oggi sessantenni o giù di lì, sono ai vertici della produzione culturale in gran parte dei paesi europei. Pensate forse che perdano l´occasione di parlare della loro gioventù? Scherzate? E io non conto?
Non esiste una classe dei novantottini paragonabile. I protagonisti di quell´anno di prodigi erano diversi: più eterogenei e, si potrebbe dire, più sérieux. Navigati dissidenti, apparatchik, capi religiosi, uomini e donne di mezz´età in piazza, pazienti, a dire basta. In qualche occasione gli studenti hanno avuto un ruolo, non da ultimo a Praga, dove fu una manifestazione studentesca a dare il via alla rivoluzione di velluto e, vent´anni dopo, alcuni di loro sono personaggi di spicco della vita pubblica del loro paese. Ma i leader del ´98 in genere erano più vecchi e molti, in realtà, sessantottini. Persino gli "eroi della ritirata" sovietici vicini a Mikhail Gorbaciov erano plasmati dalla memoria del 1968.
È regola generale che si ricordino con più intensità le esperienze vissute da giovani. L´alba vista a vent´anni con una ragazza/ragazzo tra le braccia magari in seguito si rivelerà fasulla, quella che vedi a 50 anni può cambiare il mondo per sempre, ma la memoria, astuta imbrogliona, privilegerà sempre la prima. Inoltre mentre il 1968 in Europa c´è stato sia a ovest che a est, a Parigi e a Praga, il 1989 c´è stato sul serio solo a est. La maggior parte degli europei dell´ovest erano affascinati spettatori dell´89, non i protagonisti.

Sotto il profilo politico l´89 ha prodotto molti più cambiamenti. Le primavere di Praga e Varsavia del 1968 finirono in sconfitta; le primavera di Parigi, Roma e Berlino finirono in parziali restaurazioni, o produssero cambiamenti solo marginali. Probabilmente la più grande manifestazione di piazza che si tenne a Parigi il 30 maggio 1968 fu una manifestazione della destra politica, che l´elettorato francese riportò al potere per un altro decennio. In Germania ovest parte dello spirito del ´68 si riversò con maggior successo nella socialdemocrazia riformista di Willy Brandt. Ovunque in occidente il capitalismo sopravvisse, si riformò e prosperò. Il 1989, invece, ha posto fine al comunismo in Europa, all´impero sovietico, alla divisione della Germania e ad una lotta ideologica e geopolitica, la guerra fredda, che aveva caratterizzato l´intera politica mondiale per mezzo secolo. È stato, quanto a esiti geopolitici, importante come il 1945 o il 1914. A confronto il ´68 fu una bazzecola.
Vista con gli occhi di oggi gran parte della retorica marxista, trozkista maoista o anarchico-liberazionista del ´68 appare ridicola, infantile e moralmente irresponsabile. Citando George Orwell, è un giocare col fuoco da parte di persone che non sanno neppure che il fuoco brucia. Evocando l´avvio di un «periodo di transizione cultural-rivoluzionaria» – così la brutale rivoluzione culturale di Mao che distrusse tante vite veniva assurta a modello da imitare in Europa – e definendo i Viet Cong «forze rivoluzionarie di liberazione contro l´imperialismo Usa», Rudi Dutschke disse al congresso sul Vietnam a Berlino ovest che queste verità liberatorie erano state scoperte grazie al "particolare rapporto di produzione dei produttori studenti". Produzione di cazzate, cioè. Alla London School of Economics scandivano questo slogan: «Cosa vogliamo? Tutto. Quando lo vogliamo? Subito». Narciso con la bandiera rossa.
Quelli che nel 1968 erano tanto duri nei confronti di alcuni appartenenti alla generazione dei loro genitori (i ragazzi del ´39) che avevano simpatizzato con il terrore fascista e stalinista forse in occasione di questo anniversario vorranno fare un piccolo esame di coscienza per aver spensieratamente simpatizzato con il terrore in lontani paesi che conoscevano ben poco. Ma in quell´esame di coscienza va messo anche che molti rappresentanti di spicco della generazione del ´68 hanno imparato in seguito da questi errori e leggerezze. Nel migliore dei casi si sono impegnati nei decenni successivi in politiche più serie di "nuovo evoluzionismo" liberale, socialdemocratico o verde (per mutuare un´espressione del sessantottino polacco Adam Michnik), compreso il porre fine a una gran quantità di regimi autoritari in Europa, dal Portogallo alla Polonia e il promuovere i diritti umani e della democrazia in paesi lontani che hanno imparato a conoscere meglio.
È quindi troppo semplicistico nel bilancio del ´68 indicare solo l´aspetto frivolo, effimero e irrilevante, contrapponendolo ad un ´89 serio e significativo. A fare il punto è Daniel Cohn-Bendit, l´archetipo del sessantottino: «Abbiamo vinto in campo culturale e sociale, mentre, fortunatamente, abbiamo perso in politica». Il 1989 ha prodotto, sorprendentemente in mancanza di violenza, una trasformazione nelle strutture della politica interna ed estera e dell´economia che ha cambiato il mondo. Sotto il profilo culturale e sociale ha più il carattere di restaurazione, o quanto meno, di riproduzione o imitazione delle società consumistiche occidentali esistenti. Il 1968 non produsse trasformazioni paragonabili delle strutture politiche e sociali ma catalizzò un profondo cambiamento culturale e sociale, sia nell´est che nell´ovest d´Europa. (Il 1968 in realtà rappresenta un fenomeno più ampio, gli "anni Sessanta" nel complesso, in cui la diffusione della pillola ebbe più importanza di qualunque manifestazione o barricata).

Nessun mutamento di queste proporzioni ha solo effetti positivi e alcuni esiti negativi sono visibili nelle nostre società di oggi. Ma, nel complesso il ´68 ha segnato un passo avanti nell´emancipazione dell´umanità. In gran parte delle nostre società le donne, gli omosessuali e le lesbiche, gli appartenenti a molte minoranze e classi sociali in precedenza tenute a freno da rigide gerarchie hanno oggi maggiori opportunità rispetto a prima del 1968. Persino i critici del ´68 come Nicolas Sarkozy beneficiano di questo cambiamento. (Avrebbe mai potuto un figlio di immigrati, divorziato, diventare presidente nell´idillio conservatore pre-68 del suo immaginario?)
Per quanto i due movimenti siano fortemente contrastanti è stato l´effetto congiunto dell´utopico ´68 e dell´anti-utopico ´89 a produrre in gran parte d´Europa e del mondo una versione globalizzata socialmente e culturalmente liberale, politicamente socialdemocratica di capitalismo riformato. Ma in questo anniversario del ´68 vediamo problemi nella sala macchine del capitalismo riformato. E se i problemi si aggravassero il prossimo anno, proprio al momento dell´anniversario dell´89? Quella sì che potrebbe essere una rivoluzione…
www.timothygartonash.com
Traduzione di Emilia Benghi


Corriere della Sera 9.5.08
D'Alema chiede l'autocritica a Veltroni
Boccia «partito leggero, nuovismo e pretesa di autosufficienza». E attacca il «riformismo tecnocratico» di Prodi


«Vigilanza per Orlando»: duello con l'Idv. E nel governo ombra Walter vuole Fioroni e Bersani per toglierli ai suoi rivali

ROMA — Otto cartelle per spiegare le ragioni della sconfitta e bocciare i capisaldi della strategia di Veltroni, dal partito leggero alla vocazione maggio-ritaria, dal nuovismo al bipartitismo. È ancora Massimo D'Alema a far ballare i vertici del Pd, con una lunga intervista anticipata dal Riformista e che mercoledì sarà pubblicata integralmente da Italianieuropei, la rivista della fondazione dalemiana.
Lasciando la Farnesina che lo ha visto ministro, D'Alema dice basta al «riformismo tecnocratico » e elenca «errori politici e deficit di innovazione» del governo Prodi. E il resto è per Veltroni. Gli riconosce di aver limitato la sconfitta, ma chiede autocritica. Vuole che Veltroni ammetta di aver deluso quella maggioranza silenziosa che, «al di là delle piazze gremite e euforiche », invocava una guida forte, «mentre noi abbiamo messo l'accento sul ricambio generazionale, sui volti nuovi della società civile...». D'Alema riconosce che 12 milioni di voti non rappresentano solo una élite, però dichiara «svanita l'illusione del partito leggero» e invoca la selezione di una classe dirigente «la cui qualità non consista esclusivamente nel fatto di essere nuova». Quindi indica la via per riprendere il cammino. Dialogare con la destra «non sarà facile» eppure è necessario, occorre misurarsi con la Lega sul federalismo e, sulle alleanze, non assecondare «l'idea di una brutale riduzione del pluralismo in senso bipartitico». Guai a seguire la tendenza «leaderistica e plebiscitaria» di Berlusconi, guai a voler eliminare le preferenze dal voto europeo e a confondere la vocazione maggioritaria con una «pretesa di autosufficienza».
Insomma, al Loft devono ripartire pressoché da zero. Però l'ex presidente ds giura che non è in corso «uno scontro tra leadership» e assicura che nessuno vuole mettere in discussione il ruolo del segretario. «Nessuno, in questo momento ». La tensione è alta, la dalemiana Velina rossa di Pasquale Laurito adombra la scissione eppure D'Alema, a suo modo, indica le condizioni per una tregua: «Una discussione aperta e meno difensiva».
Ed è scontro con Antonio Di Pietro. Il leader dell'Idv ha parlato con Veltroni e lo ha accusato di volersi accaparrare tutte le cariche dell'opposizione compresa la Vigilanza Rai, dove Di Pietro vuole Leoluca Orlando e Veltroni, invece, Paolo Gentiloni. Rutelli e Parisi, poi, si litigano il Copasir. L'ex ministro della Difesa ci tiene molto e lo dice in privato a Veltroni, sottolineando che «esiste un problema oggettivo di competenza». E ancora. Intervistato da Liberal, Marco Follini suggerisce di rompere con Di Pietro e accorciare le distanze con Casini e intanto Veltroni dimezza l'esecutivo e progetta un ufficio politico ristretto con dentro i «big». Il governo ombra sarà pronto domani e il segretario lavora per coinvolgere nei ruoli chiave Fioroni e Bersani, sganciando il primo da Marini e il secondo da D'Alema. I veltroniani accreditando l'idea che l'ex ministro abbia deciso di ballare da solo, ma Bersani fa sapere che accetterà solo una proposta «seria», qualcosa come responsabile Economico e membro dell'ufficio politico.
Monica Guerzoni Il dubbio sul «manifesto» Il bivio per il Prc è la scelta tra il dialogo con il Pd— auspicato anche da «Liberazione» — o il «modello Tarzan» (il consigliere comunale di Roma, Andrea Alzetta), citato come risposta al disagio sociale da Paolo Ferrero In campo Massimo D'Alema (a destra) ha criticato Walter Veltroni: « È svanita l'illusione del partito leggero»

Corriere della Sera 9.5.08
Lo scontro interno minaccia di segnare le prospettive del Pd
di Massimo Franco


Nelle intenzioni di Walter Veltroni, il «governo- ombra» dovrebbe essere la stanza di compensazione delle tensioni postelettorali. Invece, fra offerte, rifiuti ed autocandidature, si sta trasformando nella metafora un po' caricaturale di un Pd sbandato. Il centrosinistra sembra incapace di sottrarsi ad una guerra interna su cariche istituzionali di secondo piano, o addirittura formali e prive di qualunque peso reale. E questo mentre intorno alla leadership del segretario si intensificano segnali centrifughi, quando non apertamente ostili.
Di certo non aiuta Veltroni il contrasto aspro con l'Idv di Antonio Di Pietro, incline a rompere l'alleanza col Pd. È il sintomo di una resa dei conti in incubazione. E lascia presagire un inasprimento dei rapporti interni; ed una resurrezione delle correnti che non significherebbe solo il tentativo di condizionare il segretario: di fatto, metterebbe in mora la strategia del Pd e perfino la sua esistenza.
Quando Massimo D'Alema avverte che Veltroni non è in discussione, ma lo è il suo progetto, anticipa un braccio di ferro sulle alleanze. Fra l'ex ministro degli Esteri che accarezza l'idea di recuperare l'estrema sinistra, ed il segretario che guarda ai centristi dell'Udc, il fossato si allarga. Si tratta di una divergenza fra ex diessini, di fronte alla quale gli alleati sono spettatori inquieti. La paura che la sconfitta comporti una lunga permanenza all'opposizione moltiplica le sottofamiglie del Pd.
Minaccia di frantumare il progetto originario di una virtuosa mescolanza fra identità. In queste ore si rivendicano ruoli in quanto prodiani, veltroniani, dipietristi, dalemiani, mariniani, rutelliani. Il peso delle sconfitte a livello nazionale e locale non suggerisce passi indietro. Anzi, ognuno cerca risarcimenti ed un supplemento di visibilità. L'estrema sinistra indovina le difficoltà del Pd, e cerca di accentuarle. Veltroni abbozza un'intesa con la maggioranza di centrodestra per cambiare in senso maggioritario la legge elettorale per le Europee: sa che è l'unico modo per non farsi risucchiare dal passato e da illusioni di unità delle sinistre.
Ma gli ex alleati dell'Unione si appellano alla pancia antiberlusconiana del partito per additare il pericolo di un'opposizione ridotta al «cinguettìo», se non al mutismo di fronte al Cavaliere. Ed aggiungono minacce più corpose sul futuro delle giunte locali, dove la ex coalizione prodiana è sopravvissuta al 13 e 14 aprile. Pazienza se le urne hanno dimostrato che a sinistra del Pd ormai c'è il deserto, non miniere di consensi sommersi da riportare in superficie. Il fatto che nelle file veltroniane qualcuno finga di non accorgersene, proietta un'ombra di incertezza sul futuro dell'opposizione.
La lite sulle alleanze è solo il sintomo della disgregazione nata dal 13 aprile

Corriere della Sera 9.5.08
L'auspicio Il maestro israeliano risponde ai boicottatori: «Sono per il dialogo, anche con Hamas»
Yehoshua: Palestina ospite d'onore? Io ci sarò


DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
TORINO — Alla fine quasi si indispettisce Abraham Yehoshua, quando sente ancora parlare del boicottaggio. Presentato dal direttore editoriale Ernesto Ferrero come «una grande voce che appartiene a tutti, così come la cultura di un Paese appartiene a tutti», una voce a cui sarebbe stato assurdo impedire di parlare, nell'incontro che di fatto ha inaugurato gli eventi culturali della Fiera, questo scrittore che ha raccontato il suo Paese in molti romanzi (l'ultimo, Fuoco amico),
docente di letteratura comparata e letteratura ebraica ad Haifa, alza la voce, si scalda e le sue parole sembrano la risposta a chi, come il poeta israeliano Aharon Shabtai, ospite l'altro giorno del convegno organizzato da Free Palestina all'Università, lo ha accusato di rappresentare (insieme ai suoi amici e colleghi David Grossman e Amos Oz che al Salone non ci sono) una sinistra soft che nei fatti è complice della politica aggressiva del governo. «Sono 40 anni che combatto perché la Palestina abbia uno stato, mi sono sempre messo dalla loro parte — ha detto —. Sono stato uno dei primi a firmare petizioni, a fare pressioni perché il mio governo trattasse con l'Olp e ora sostengo il dialogo con Hamas per fermare questo stillicidio di morti da entrambe le parti. Il boicottaggio è stupido, io appoggio coloro che sono per il confronto e il dialogo».
L'arringa di Yehoshua è proseguita nel segno della speranza: «Confido nella realizzazione di uno Stato palestinese entro quest'anno o al massimo il prossimo, così la Fiera del libro potrà invitare la Palestina come Paese ospite d'onore. In quell'occasione anch'io tornerò a Torino per festeggiare l'evento e confrontarmi con gli scrittori palestinesi».
Il riferimento alla questione calda di queste giornate è arrivato quasi alla fine dell'incontro, dopo che Yehoshua aveva parlato, con Alessandro Piperno ed Elena Loewenthal, di letteratura e amore, di colpa e moralità, di umorismo (visto come un modo per difendersi dalla realtà che «in Israele sfonda la finestra») e di sesso, che lo scrittore usa nei suoi romanzi come vera e propria lente di ingrandimento sulla realtà. «La colpa è il carburante della cultura occidentale» ha detto precisando però che l'eccesso può portare «alla morte e alla paralisi ». «Mettete la moralità al centro del vostro scrivere», è stato l'invito ai giovani prima di partire, con Napolitano, verso Roma dove, in serata, ha assistito alla prima dell'opera Viaggio al termine del millennio, di cui ha scritto il libretto. «Non lasciate che se ne occupino solo i media. La letteratura può occuparsene in maniera più profonda».
Cristina Taglietti

Corriere della Sera 9.5.08
Spagna Al via le riforme su libertà religiosa, aborto, legge elettorale
Stretta di Zapatero: «Stato più laico»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MADRID — A 130 giorni esatti dalla «manifestazione per la famiglia» presieduta a Madrid da 40 vescovi e cardinali, contro la politica del governo socialista, José Luis Rodríguez Zapatero presenta il conto: la Spagna diventerà uno Stato laico, sempre più laico. La legge della Libertà religiosa, in vigore dal 1980, sarà rivista. Per il Concordato è probabilmente solo questione di tempo. Poco più di due mesi fa, quando la Conferenza episcopale spagnola aveva invitato a non votare chi facilita aborto, divorzio e matrimoni omosessuali, il segretario del Psoe, José Blanco, aveva avvertito i vescovi: «Se vinciamo le elezioni, nulla potrà più tornare come prima nei rapporti con la gerarchia ecclesiastica ». E il presidente del governo aveva promesso di «mettere i puntini sulle i» con i prelati, partigiani dell'opposizione, non appena riconfermato dagli elettori.
Il momento è arrivato con la presentazione alla Commissione costituzionale del congresso delle principali riforme in programma. C'è da risistemare la legge elettorale, ha spiegato la vice presidente, María Teresa Fernández de la Vega, per tutelare i partiti nazionali minori nella ripartizione dei seggi. C'è da modificare la Costituzione «maschilista », che impedisce attualmente alla piccola Leonor, primogenita del Principe Felipe, di aspirare al trono. Ma c'è anche da rimettere mano alla legge sull'aborto e da incrementare la laicità dello Stato, «riconoscendo i diritti degli agnostici e adeguando la norma al pluralismo religioso che caratterizza la Spagna di oggi».
La pubblica neutralità di fronte alle fedi religiose, o all'ateismo, comporterà inevitabilmente una revisione anche dei finanziamenti che, secondo i calcoli del quotidiano El País, ammontano ora a 4 miliardi di euro all'anno per la Chiesa cattolica e appena 5 milioni per tutte le altre confessioni minoritarie. Ma non è soltanto una questione economica: musulmani, protestanti, ebrei lamentano la mancata applicazione degli accordi del 1992 che consentivano, tra l'altro, l'assistenza religiosa ai rispettivi fedeli nelle caserme, nelle carceri, negli ospedali e riconosceva effetti civili ai matrimoni celebrati secondo quei riti.
Fernández de la Vega non vede di buon occhio la presenza del Servizio di assistenza religiosa cattolica nel comitato etico degli ospedali pubblici, autorizzata dalla Comunità autonoma di Madrid (guidata dal Partito Popolare). Ma se, pochi mesi prima delle elezioni, Zapatero aveva sostenuto di non ritenere necessarie modifiche alla legge sull'aborto, in vigore dal 1985, ora l'orientamento del governo è cambiato.
La vice presidente ha promesso di mettere al lavoro una commissione di esperti per garantire meglio i diritti delle donne che decidono di interrompere la gravidanza, nei termini previsti, proteggendone l'intimità e i dati personali.
Elisabetta Rosaspina Vice presidente Fernández de la Vega

Corriere della Sera 9.5.08
Tra Veltroni e D'Alema un duello déjà vu
di Paolo Franchi


La sconfitta elettorale ha riaperto, nel Pd, la più antica e classica delle contese postcomuniste, quella che tra una tregua d'armi e l'altra da vent'anni e passa vede protagonisti Massimo e Walter

Se è lecito formulare un invito amichevole e disinteressato al Pd e, più in generale, a centrosinistra e sinistra, consiglieremmo di evitare come la peste il rischio di cadere nel ridicolo. Un rischio serio.
Perché non si parla di una possibilità tutto sommato remota, o di qualche smagliatura di troppo, ma di qualcosa che sta già capitando. Come se una sconfitta più grave ancora di quanto dicano i risultati elettorali non avesse insegnato proprio nulla, e tanti, troppi, piuttosto che fermarsi a riflettere con la necessaria umiltà si lasciassero prendere da una coazione a ripetere tanto grottesca quanto, a quel che sembra, irrefrenabile.
Lasciamo pure da parte, dunque, interrogativi epocali come quello avanzato ieri in un titolo del Manifesto, secondo il quale la sinistra radicale dovrebbe finalmente prendere il toro per le corna, risolvendosi una volta per tutte a stabilire se sta con Massimo, inteso come Massimo D'Alema, o con Tarzan, inteso come il protagonista di tante occupazioni di case a Roma («E' vietato, ma Tarzan lo fa» recitava il suo slogan elettorale) che oggi siede solo soletto nell' aula di Giulio Cesare. E lasciamo perdere anche le velenose disfide sotterranee per guadagnarsi una poltrona nel costituendo governo ombra in cui, apprendiamo dalle cronache, sarebbero impegnati molti valorosi esponenti del Pd, a quanto pare immemori del fatto che lo shadow cabinet all'italiana faceva già sorridere quando il Pci se lo inventò sul finire degli anni Ottanta, e del tutto impermeabili all' idea che faccia sorridere ancora di più vent'anni dopo, quando, oltre tutto, il governo vero Silvio Berlusconi lo mette su in una manciata di giorni.
Parliamo, piuttosto, di cose serie: di cose serie che però si presentano in un alone di ridicolo, senza per questo risultare particolarmente divertenti. E cerchiamo di parlarne pacatamente, evitando di rifugiarci nell'antico adagio marxiano secondo il quale nella storia le tragedie si ripresentano sì, ma in forma di farsa. Gli interessati fieramente lo negano, ma non c'è bisogno di attaccarsi ai più scanzonati dei retroscena giornalistici per prendere atto che la sconfitta elettorale ha riaperto, nel Pd, il più antico e classico dei duelli postcomunisti, quello che, tra una tregua d'armi e l'altra, da vent'anni e passa — ma verrebbe da dire: da una vita — vede protagonisti Massimo D'Alema e Walter Veltroni. C'è in proposito una letteratura sconfinata, che scandaglia ogni aspetto, politico e ancor prima umano, della contesa, e minuziosamente ne registra ogni passaggio, talvolta cercando di darle un senso compiuto, più spesso limitandosi alla cronaca, seppure assai particolareggiata. Chi vuole può consultarla. Ma temiamo che la platea degli appassionati all'argomento si sia, con il trascorrere degli anni, vistosamente ridotta, e, soprattutto, che il risultato di queste elezioni non sia il miglior viatico per rimpinguarla. Nemmeno in quel 30% e passa di elettori che hanno votato per il Pd. E che probabilmente non sono proprio entusiasti all' idea di assistere all'ennesima puntata di una storia inutilmente infinita, che si dipana sempre secondo il medesimo copione, con gli stessi primattori e, grosso modo, gli stessi comprimari. Tutti un po' invecchiati e più stanchi, ma non per questo disposti a deporre le armi. Nonostante il Pci non ci sia più, e neanche il Pds e, se è per questo, non ci siano più nemmeno i Ds, e il grosso della famiglia sia trasmigrato in un più ampio partito contenitore guidato da Veltroni.
Colpisce, stavolta, la rapidità inusitata con cui D'Alema ha riaperto ostilità che a dire il vero non si erano mai chiuse, ma soltanto sopite: nemmeno il tempo di leccarsi le ferite, di rincuorare le truppe, di cominciare a guardarsi un po' dentro, di stabilire, tutti insieme e ciascuno per sé, quali siano le origini e le responsabilità della sconfitta. Ma colpisce anche il merito strategico, chiamiamolo così, della contesa: se cioè (tesi D'Alema) si debba ritornare al degasperiano «Mai soli», o alla togliattiana strategia delle alleanze, e quindi aprire tutti i canali possibili, con la sinistra radicale ma pure con l'Udc e anche con la Lega, di nuovo «costola della sinistra », nella speranza che prima o poi il centrodestra ricominci a litigare; o se piuttosto (tesi Veltroni), si debba restare fedeli all'ispirazione originaria del Pd, riassumibile nell'aureo motto «Meglio soli che male accompagnati », senza per questo cedere, ci mancherebbe, alla tentazione dell'autosufficienza. Non è necessario imbarcarsi in ragionamenti particolarmente seriosi per sottolineare che il Pd e soprattutto i suoi elettori — quelli conquistati dalla novità del progetto così come quelli del voto utile — avrebbero diritto, in materia di tattica e di strategia, a un confronto un po' più sostanzioso. Di quelli, per intenderci, che si aprono, dopo una sconfitta, in un partito vero, non liquido e nemmeno gassoso, non plebiscitario e nemmeno oligarchico, ma dotato delle sedi istituzionali per discutere, contarsi e decidere che cosa e chi rinnovare. Confronti duri, talvolta anche drammatici, e non sempre ispirati ai canoni della «bella politica». Ma raramente esposti al rischio del dèjà vu, che in politica, come nella vita, minaccia sempre di trascolorare nel ridicolo.

Corriere della Sera 9.5.08
Difendere la Costituzione non è un'ideologia
di Leopoldo Elia


LA LETTERA
Caro Direttore, ho letto sul Corriere del 3 maggio scorso l'articolo di fondo di Ernesto Galli della Loggia con il titolo molto evocativo «La ribellione delle masse». Non entro nell'esame delle ragioni che secondo Galli spiegano con questo fenomeno, trasferito in Italia, le ragioni della sconfitta elettorale del Pd: mi interessa invece, data l'autorità dell'editorialista, soffermarmi brevemente sopra una affermazione dell'autore, che può apparire marginale nel corso della sua argomentazione, ma pare a me di notevole gravità in sé per sé.
Scrive Galli, per qualificare meglio la grande trasmigrazione a sinistra di molti borghesi italiani dopo il referendum elettorale del '93: l'adeguato «involucro ideologico» di tale trasmigrazione «fu subito... l'ideologia della "difesa della Costituzione", opportunamente messa a punto e diffusa proprio allora dall'ex sinistra democristiana con il potente ausilio strategico del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro». Ebbene, è del tutto improprio, a mio avviso, ridurre a ideologia, a involucro ideologico, la difesa della Costituzione. Chi si è battuto per quella difesa non ha mai ritenuto di fare opera di parte: quando si parla di costruzioni ideologiche ci si riferisce invece, in grande, a quelle estinte con il secolo scorso o, più modestamente, a sovrastrutture strumentali di partiti in debito di ossigeno.
Insomma non si può dimenticare che chi si è impegnato a difesa della Costituzione, specie con i comitati attivi per vincere il referendum del 25 giugno 2006, lo ha fatto per una «tradizione costituzionale», messa in pericolo dalla riforma della Carta oggetto del voto referendario. Quel procedimento di revisione «conteneva più di un aspetto di vera e propria eversione della Costituzione esistente», come afferma in un suo recente saggio («Costituzione e legge fondamentale», in Diritto Pubblico, 2006) Maurizio Fioravanti, profondo studioso di storia di dottrine e istituzioni costituzionalistiche. Su questa linea di «patriottismo costituzionale» si schierarono d'altra parte, in prossimità del voto referendario, l'ex presidente Carlo Azeglio Ciampi e, nel suo discorso in qualità di senatore a vita, Giorgio Napolitano: per chiarirsi le idee converrebbe a molti leggere le critiche pacate ma severe rivolte dal futuro capo dello Stato al progetto di revisione in corso di approvazione alle Camere (Senato, 15/2 novembre 2005). Né si va lontano dal vero se si ravvisa nella generosa partecipazione dell'ex presidente Scalfaro alla campagna per il referendum uno dei motivi per i quali la sua figura è divenuta segno di contraddizioni a fronte di chi avrebbe voluto stravolgere l'ordinamento della Repubblica. Né si dica che «l'ideologia della Costituzione» copre un conservatorismo poco illuminato in tema di revisione e di riforme costituzionali: per parte mia mi sento di sottoscrivere questa rilevante affermazione, che è anche un auspicio, formulato dal nuovo presidente della Camera On. Gianfranco Fini, nel suo discorso di insediamento: «Nella passata legislatura la Commissione Affari costituzionali di questa Camera ha messo a punto una proposta, ampiamente condivisa, per superare il cosiddetto bicameralismo perfetto, per rafforzare con equilibrio il ruolo dell'esecutivo e il potere di indirizzo e di controllo del Parlamento, per realizzare un federalismo unitario e solidale. Mi auguro che da essa si possa ripartire in questa Legislatura per definire una nuova architettura costituzionale che faccia della nostra democrazia una democrazia più rappresentativa e più governante».
So bene che per alcuni editorialisti del Corriere è conservatore, in politica costituzionale, chi rifiuta le soluzioni di fondo del semipresidenzialismo francese: ma è possibile che i travagli attuali dei riformatori della Quinta Repubblica per trovare i freni e contrappesi all'esorbitante potere del capo dello Stato (vero capo del governo), e ridare un po' di fiato a un'Assemblea nazionale fin qui assai emarginata, insegnino qualcosa a chi non intende che il modello di governo De Gaulle-Capitant è stato abbandonato dai successori del Generale-Presidente. Invece che sforzarsi di «depresidenzializzare» è meglio, con le riforme di cui parla il presidente Fini e con una decente legge elettorale, realizzare riforme della premiership secondo moduli tedeschi e ispanici.

giovedì 8 maggio 2008

il Riformista 8.5.078
«PERCHÉ ABBIAMO PERSO»
intervista Massimo D'Alema a colloquio con Italianieuropei
TENERE BOTTA, E CHE BOTTA
«Basta col riformismo tecnocratico». Svanita l'illusione del partito leggero

intervista a Massimo D'Alema



«Adesso basta col riformismo tecnocratico». Dall'analisi degli errori commessi dal governo di centrosinistra nella passata legislatura alla scala di priorità del Pd, passando attraverso i perché della sconfitta elettorale. In una lunga intervista al numero in uscita di Italianieuropei , di cui pubblichiamo ampi stralci, Massimo D'Alema parla di alleanze e della prossima classe dirigente: «Svanita l'illusione del partito leggero, ora serve un'innovazione robusta in grado di farci uscire da una dialettica paralizzante tra "un nuovo" troppo fragile per affermarsi e "un vecchio" troppo pesante per farsi da parte». «Credo che nessuno possa in questo momento mettere in discussione il ruolo di Veltroni come segretario del partito. L'unica cosa che si chiede è una discussione aperta e meno difensiva, a partire da un'analisi vera, che sappia vedere anche i limiti e le insufficienze del progetto così come si è dispiegato fino ad oggi». Alleanze? «Non si può fare l'errore di pensare che se forze della Sinistra non sono rappresentate in Parlamento, esse non esistono più nella società italiana. Ci sono e bisogna tenerne conto. Né, evidentemente, possiamo avere interesse a sospingere l'Udc, di nuovo, sotto l'egemonia di Berlusconi».

Partiamo da alcune considerazioni sul risultato elettorale e sul modo di leggerlo. Da più parti si è sottolineato il forte cambiamento nelle tendenze dell'elettorato, altri hanno ricordato che solo due anni fa la sinistra non era minoritaria.
In realtà il risultato elettorale non segna una svolta improvvisa, né rivela un improvviso cambiamento dell'Italia. Si limita ad accentuare tendenze che si sono manifestate costantemente negli ultimi quindici anni, a partire dalle elezioni del 1994. Anche quando vincemmo nel 1996 si trattò di un successo politico nato dal fatto che la Lega Nord e il Polo delle Libertà erano divisi. Ma nel voto popolare, cioè nella società, anche allora la destra era in maggioranza...
Quale tipo di lettura ha provato a dare? E che lettura si diede allora dell'affermazione della Lega?
Allora ci furono molte riflessioni. Ricordo la ricerca di Itanes pubblicata dal Mulino, da cui risultava che un terzo del voti leghisti erano voti operai, compresi quelli di lavoratori iscritti alla Cgil. Commentando questa ricerca, dissi allora che la Lega nasceva da «una costola del movimento operaio». Ciò dette luogo a molte polemiche inutili da parte di chi non capì o, forse, non volle capire...
La lettura che si è data del risultato elettorale è che in questi quindici anni, attraverso le televisioni, Berlusconi ha diffuso il suo modo di intendere la società, di seguire i suoi bisogni e i suoi "istinti", e dopo quindici anni ne ha saputo raccogliere i frutti.
Non possiamo ridurre Berlusconi alla televisione. Certamente questo elemento ha avuto un peso e non solo per la forza condizionante che egli ha sull'informazione, il che gli consente di dettare l'agenda politica... C'è di più: attraverso la televisione egli ha concorso, in oltre trent'anni, a formare il senso comune e i modelli di vita degli italiani. E questo sicuramente ha preparato il terreno a quella sintonia con il paese di cui abbiamo parlato... Ci sono, poi, le paure di un paese messo di fronte alle sfide della globalizzazione, al mutamento accelerato dello scenario internazionale e dei rapporti di forza...
Tremonti no global. Il colbertismo del prossimo ministro dell'economia è di gran moda e lo dimostra il numero di copie vendute dal suo libro. Non pensa che tale suggestione scatti in Italia anche a causa di debolezze strutturali e organizzative gravissime?...
Anche in questo caso direi che il fenomeno non interessa solo l'Italia... Il problema vero, dal nostro punto di vista, è come mai - non solo ora - abbiamo avuto tanta difficoltà a fronteggiare questo fenomeno, pur avendolo affrontato politicamente. Abbiamo avuto periodi importanti di governo, avendo costruito un nostro sistema di alleanze in risposta al berlusconismo. Siamo passati dai progressisti al centrosinistra, abbiamo cercato di creare un rapporto con una parte importante della borghesia italiana, in una prospettiva europeista. Eppure questo sistema di alleanze, che abbiamo costruito con difficoltà, non è mai riuscito a realizzare attorno a sé il consenso di una maggioranza chiara e vasta degli italiani.
Quale può essere la lettura di questo ritardo, di questa scarsa sintonia con una parte importante della società?
Certamente hanno pesato limiti di analisi e di elaborazione programmatica. Non c'è dubbio, però, che la sconfitta elettorale sia figlia anche di ritardi ed errori politici, per i quali mi sento, anche io, per la mia parte, responsabile. Pur avendo compreso che si doveva profondamente rinnovare la nostra proposta politica, facendo perno intorno al progetto del Pd non solo come innovazione del sistema partitico, ma anche come occasione per un radicale ripensamento programmatico e culturale, noi abbiamo tardato. E nel 2006 abbiamo sostanzialmente riproposto il vecchio centrosinistra, in una condizione in cui la frammentazione partitica e la sensazione di fragilità erano enormemente accentuate dalla legge elettorale imposta da Berlusconi.
La sinistra è apparsa più volta a conservare... Non vede il rischio che una identità di sinistra di questo tipo sia riassumibile nella capacità di guardare al passato, ma non di disegnare scenari futuri?
In realtà la nostra proposta era quella già vista e sperimentata nel 1996: un insieme di partiti e partitini, di personale politico già conosciuto... Il secondo errore è stato quello di pensare di aver vinto le elezioni. In verità il risultato elettorale era un sostanziale pareggio e ciò richiedeva una diversa iniziativa politica, anziché dare la sensazione di un arroccamento nei confini di una maggioranza risicata e - almeno al Senato - perennemente in bilico, esposta al condizionamento di partiti minimi o persino di singoli parlamentari. Si doveva puntare ad una comune assunzione di responsabilità con la destra, aprendo una fase, secondo una terminologia gramsciana, di "reciproco assedio". Non necessariamente formando un governo insieme - cosa che non parve neppure a me realistica in quel momento - ma individuando le forme di corresponsabilità istituzionale e le possibili convergenze intorno alle grandi riforme di natura istituzionale necessarie per il paese... Non è facile parlare di comune assunzione di responsabilità con questa destra, ma noi dovevamo provarci. Quella doveva essere la nostra politica e così non è stato. Infine, ha pesato negativamente l'esperienza del governo. Non mi riferisco soltanto alla confusione e alle divisioni della maggioranza, che spesso hanno finito per oscurare i risultati dell'azione di governo. Mi riferisco anche al contrasto che si è manifestato subito e in modo drammatico tra la sofferenza sociale del paese, il voto di quegli italiani che non arrivavano alla fine del mese ed erano tornati a rivolgersi alla sinistra, e la priorità, apparsa quasi tecnocratica, che il governo ha attribuito al tema del riassetto dei conti pubblici.
Errori di comunicazione, come ha scritto qualcuno, o errori politici?
Errori politici e deficit di innovazione. Naturalmente al fondo c'è quel rapporto di forze nella società di cui abbiamo parlato all'inizio. Ma, certamente, sembra difficile riuscire a scalfire le basi di massa della destra con un riformismo tecnocratico che è apparso lontano dalla realtà sociale del paese e figlio di quel minoritarismo illuministico che ha rappresentato a lungo un limite storico dei riformatori italiani...
Si è detto prima, a proposito del Pd, di una casa che ha oggi le mura e deve procedere a costruire il resto...
Adesso abbiamo davanti una grande sfida: quella di costruire il Pd. Svanita l'illusione del partito leggero, senza strutture e senza iscritti, c'è il problema di costruire un partito moderno in grado di mettere radici nella società contemporanea... Un grande partito ha il compito di formare e selezionare una classe dirigente la cui qualità non consista esclusivamente nel fatto di essere nuova. Classe dirigente in quanto capace di rappresentare interessi diffusi e bisogni concreti presenti nella società. Insomma, se dovessi dirlo con uno slogan, abbiamo bisogno di innovazione robusta, in grado di farci uscire da una dialettica paralizzante tra "un nuovo" troppo fragile per affermarsi e "un vecchio" troppo pesante per farsi da parte...
Anche a Roma non ha giovato non invogliare ad andare a votare una parte dell'elettorato che era necessaria per arrivare al 51%, mentre si poteva quasi avere l'impressione che se ne festeggiasse l'esclusione dal Parlamento?
I leader della Sinistra Arcobaleno sono i responsabili della loro sconfitta elettorale, non certo la "cattiveria" del Pd. Ma non si può fare l'errore di pensare che se quelle forze non sono rappresentate in Parlamento, esse non esistono più nella società italiana. Ci sono e bisogna tenerne conto. Il che non vuol dire che noi dobbiamo farci condizionare snaturando la nostra impronta riformista, ma il più grande partito dell'opposizione deve avere la forza di rappresentare quella maggioranza di cittadini che non ha votato per la destra e non solo quel 33% che ha votato per noi. In questa mia posizione non c'è contrasto tra l'idea di allargare i confini del Pd e la ricerca di una politica di alleanze. Così pure penso che il risultato ottenuto dall'Udc in una posizione di autonomia dalla destra non possa essere sottovalutato, né, evidentemente, noi possiamo avere interesse a sospingere l'Udc, di nuovo, sotto l'egemonia di Berlusconi. In ogni caso, faccio notare che all'origine del Pd c'è la consapevolezza che senza un rapporto con la tradizione popolare e cattolico-democratica non sarebbe stato possibile creare in Italia una forza riformista adeguata. Se avessimo teorizzato allora l'autosufficienza dei progressisti non avremmo fatto nessun passo in avanti. Dunque, all'origine del Pd c'è stata una scelta di politica di alleanze. In questo senso, se i processi vengono visti nel loro sviluppo storico, non ha significato la contrapposizione schematica tra vocazione maggioritaria e alleanze.
Quali sono, in definitiva, le priorità del Pd?
Discuteremo nei prossimi giorni del programma di lavoro del Pd. Un programma impegnativo, in cui analisi della società, elaborazione, sfida di un'opposizione che deve avere una visione riformatrice e di governo del paese debbono andare di pari passo. Questa deve essere la priorità: riempire di contenuti il lavoro dell'opposizione, trovare il modo di collaborare a fare le riforme necessarie e non rinviabili per l'Italia. Non trovo utile il dibattito sugli aggettivi da dare all'opposizione o sul grado di disponibilità al dialogo con la maggioranza. L'opposizione si misura sulle scelte concrete. Innanzitutto su quelle del governo. E per quanto riguarda il dialogo con la destra, nessuno più di me lo ha cercato per fare insieme le riforme costituzionali necessarie. Nello stesso tempo, ho potuto sperimentare che non è facile. Ma questo, naturalmente, non cambia la necessità di provarci. Nel contempo, abbiamo un problema di costruzione del partito, del suo radicamento. Serve uno sforzo di invenzione organizzativa. Tutto questo sfida le forze migliori del Pd, non in uno scontro sulla leadership, di cui nessuno avverte il bisogno, ma in una ricerca comune, in un confronto di idee e proposte. Credo che nessuno possa in questo momento ragionevolmente mettere in discussione il ruolo di Veltroni come segretario del partito. L'unica cosa che si chiede è una discussione aperta e meno difensiva, a partire da un'analisi vera, che sappia vedere anche i limiti e le insufficienze del progetto così come si è dispiegato fino ad oggi. Penso che in un partito moderno istituti come la Fondazione Italianieuropei possano svolgere un ruolo importante. Non come organo di partito, ma come strumento di ricerca, di dialogo con la società e la cultura, di formazione della classe dirigente. Se penso ai democratici americani o ai momenti migliori del Partito socialista francese, penso - appunto - ad una pluralità di club, fondazioni, centri di ricerca e di riflessione. Il problema è mettere in rete queste esperienze, evitare che le diverse realtà diventino monadi o partiti paralleli. Il problema è la fluidità e la libertà di accesso e di discussione. Ma le fondazioni non sono il partito. Voglio essere chiaro. Ci vuole un partito con i circoli, gli iscritti, i gruppi dirigenti, le persone che si riuniscono, che discutono. Un partito radicato che costruisce la sua battaglia quotidiana nel rapporto con i cittadini. Questa è la condizione affinché abbiano un senso i centri di ricerca. Ciò che nel passato apparteneva al partito con la "p" maiuscola oggi sarà una rete di istituzioni e di organismi che si formeranno in modo più libero e autonomo, e che dovremo cercare di legare ad un'agenda comune, ad uno spirito di collaborazione e non di contrapposizione. Tutto ciò che cresce sotto l'ombrello del Pd deve essere visto come un'opportunità, non come un pericolo, e bisogna fare in modo che tutte queste esperienze non siano tra di loro conflittuali, contraddittorie.
Viviamo in un'epoca che qualcuno ha definito delle «passioni tristi». Non crede che un altro sforzo che il Pd dovrebbe compiere è quello di ricreare una passione verso la politica da parte dei cittadini, da parte dei tanti giovani che preferiscono restarne lontani?
Si è scritto delle «passioni tristi» dei giovani d'oggi parlando di società come le nostre, dominate dalla paura anziché dalla speranza... C'è moltissimo da cambiare, compresi i riferimenti simbolici e ideali. Con il Pd abbiamo cominciato a farlo. Bisogna, forse, guardare al nostro patrimonio non tanto come a un insieme di privilegi da difendere, quanto piuttosto di valori e diritti da affermare. Insomma, un'Europa più orgogliosa e meno impaurita di fronte al mondo globale potrebbe riscoprire la passione politica. E restituire una missione a una sinistra moderna.
a cura di Massimo Bray
Questo testo è un anticipazione dell'intervista che comparirà mercoledì prossimo sul nuovo numero della rivista "Italianieuropei"


l'Unità 8.5.08
Veltroni prepara il governo ombra
È scontro con D’Alema sulle correnti. Il ministro degli Esteri: non le ho inventate io, ci sono già
di Bruno Miserendino


DISPONIBILI sulle riforme, ma opposizione vigile su tutti i punti che riguardano la vita dei cittadini: salari, sicurezza, precarietà, unità del paese, disuguaglianza. Walter Veltroni spiega al presidente Napolitano come si comporterà il Pd nella «traversata del deserto» che l’attende e nel frattempo lavora al grande puzzle delle nomine interne. Giornata impegnativa, quella del segretario: intanto perchè trovare la quadra degli incarichi tra governo ombra, Camere e partito è difficile soprattutto stando all’opposizione, e poi perchè nel Pd sembra affiorare quella logica correntizia che è proprio l’opposto di quel che vorrebbe Veltroni. Nel partito è tutto un fiorire d’iniziative: gli ex popolari si riuniranno nuovamente ad Assisi, anche la componente ecodem si organizza, così come i liberal, ma ovviamente gli occhi sono puntati sulle mosse di Massimo D’Alema, che l’altro giorno ha riunito la sua Fondazione Italiani Europei invitando decine di parlamentari. Dopo l’inevitabile strascico di sospetti, in un’intervista al Tg3 ha detto che le correnti nel Pd già esistono e quindi non si possono esorcizzare. Anzi, D’Alema ha spiegato che lui in questa logica si muoverà. «Non è la mia riunione che ha creato le correnti - afferma - il Pd è un partito fatto di molte componenti, ed è una cosa visibile a cominciare da come si distribuiscono gli incarichi parlamentari...». Il riferimento è alla mancata nomina di Bersani a capogruppo. Il ministro degli esteri l’aveva sponsorizzato ma alla fine ha prevalso l’accordo del segretario con la componente cattolica per un congelamento degli incarichi. D’Alema spiega che ovviamente non parteciperà al governo ombra ma che farà battaglia nel Pd: «Dualismo con Veltroni? Non devo scrollarmi di dosso nessun sospetto - risponde D’Alema - io ho le mie opinioni politiche, le ho espresse e le porto nel confronto che si è aperto».
Da Veltroni nessun commento ma l’impressione non deve essere stata buona. L’altra sera Andrea Orlando, alla fine della riunione dei segretari regionali, aveva avvertito: «Le Fondazioni sono utili, ma il ritorno alle parrocchiette e le correnti no». Nicola Latorre, ieri aveva tentato di gettare acqua sul fuoco: «Nessuna parrocchia ma un’iniziativa che fa solo bene al partito». Quanto a Enrico Letta, che insieme a Boccia e De Castro era alla riunione di ItalianiEuropei, i suoi negano che ci sia un «asse» con D’Alema. La realtà, sostengono nel Pd, è che c’è «un eccesso di posizionamento» in vista di una improbabile resa dei conti. Perchè nessuno può mettere seriamente in discussione la leadership e perchè l’analisi del voto troverà più convergenze che differenze.
Veltroni ha incassato il sostegno dei segretari regionali su tutta la linea e ora si appresta ad affrontare la direzione e l’assemblea costituente: il confronto ampio che è stato richiesto da tutti sarà lì, ma da lì dovrebbe partire anche l’operazione radicamento del Pd, con tesseramento, campagna di ascolto nel paese, e alla fine congresso tematico in autunno. Nel frattempo si tratterà di fare opposizione, e per questo gli incarichi di partito, nelle commissioni e nel governo-ombra sono intrecciate. Veltroni ha promesso che i nomi di questa struttura a cui lui tiene molto, perchè renderà evidente il profilo riformista del Pd, arriveranno nel giro di 48 ore. Nomi ne circolano molti, pochi quelli certi. Il più accreditato è quello di Piero Fassino per gli esteri. Per l’economia il dilemma è tra Bersani e Morando. Il primo non ha detto di no, ma nemmeno sì. In realtà il ministro dello sviluppo, stoppato nella sua corsa alla presidenza del gruppo, e critico su diversi aspetti, sembra aver apprezzato che alcune sue osservazioni, come la «messa a terra» del Pd o l’importanza del tesseramento, sono state raccolte. Per il resto si fanno i nomi di Minniti o di Achille Serra agli interni, Maria Pia Garavaglia al Welfare, di Roberta Pinotti alla Difesa, di Salvatore Vassallo alle riforme, di Giorgio Tonini alla scuola, di Anna Maria Merloni, Calearo o Colaninno allo sviluppo. C’è poi l’autocandidatura di Di Pietro per la giustizia, anche se in corsa c’è Giuseppe Lumia. Linda Lanzillotta e Arturo Parisi, assegnati dai boatos alla «semplificazione» e alla Difesa, hanno smentito di essere coinvolti. Il puzzle si comporrà oggi ma le sorprese importanti, nelle intenzioni del segretario, dovrebbero venire nella formazione dei nuovi gruppi dirigenti. A parte il ruolo del presidente, che sembra destinato a Marini, prende corpo l’ipotesi di affiancare nel ruolo di coordinatore nazionale Giuseppe Fioroni a Goffredo Bettini.
Inizia la traversata, e non sarà facile. Il Pd dirà dei sì motivati su tutte le misure presenti nel suo programma (ad esempio Ici e salari), convergerà se si vorranno davvero fare le riforme istituzionali (a cominciare da federalismo e legge elettorale) e cambiare i regolamenti parlamentari, vigilerà sul tema sicurezza e unità del paese. «Non mi piacciono le ronde», afferma Veltroni e alla Lega dice: «Il giuramento non è un atto formale, sancisce unità e indivisibilità della nostra nazione».


l'Unità 8.5.08
«Lealtà non è assenza di critiche, altrimenti saremo circondati da yesmen...»
di Michele Ventura


Michele Ventura, parlamentare Pd, all’incontro di Italianieuropei c’era. «Nessuna intenzione di creare correnti». Noi, aggiunge, siamo leali al leader del partito, «ma lealtà non vuole dire assenza di critica», perché altrimenti «c’è il rischio di circondarsi di tanti yesmen».
Malgrado tutti dicano che si tratta soltanto di dialogo e confronto la parola «correnti» la fa da regina. Come mai se ne parla tanto se il rischio non c’è?
«In quella riunione si è parlato molto del contributo che le fondazioni possono dare al partito. Non aveva niente a che fare con la dimensione correntizia anche per le presenze che c’erano. Si tratta della stessa cosa che avviene negli altri partiti riformisti, nel partito democratico americano».
Nel Pd c’è chi legge in questa iniziativa, soprattutto dopo la partita dell’elezione dei capigruppo di Camera e Senato, il tentativo di riorganizzarsi. Sono solo illazioni?
«Credo che noi dobbiamo contribuire a irrobustire e far crescere il progetto del Pd e dobbiamo farlo sapendo che questo può avvenire se siamo in grado di apportare un contributo sul piano culturale, programmatico e politico e non su logiche di gruppi di appartenenza. D’altra parte mi sembra che lo spirito dell’iniziativa di Italianieuropei non sia quello di mettersi a discutere di posti e organigrammi, meccanismo che di solito regola la vita delle correnti in un partito».
Fioroni annuncia una riunione dei cattolici democratici...
«Incontri ce ne sono stati diversi e di vari gruppi. La riunione annunciata da Fioroni non è una risposta a Italianieuropei. Noi siamo una fondazione alla quale i parlamentari possono aderire e che ha un percorso lungo decenni: si sa bene di cosa stiamo parlando. Anche io riterrei un errore il frantumarsi in gruppi, lo sforzo che dobbiamo fare è che il dibattito politico vero si svolga nel Pd, globalmente. Ho apprezzato molto quelle cinque ore di discussione del gruppo alla Camera perché si avverte la necessità di un dibattito approfondito».
È per questo che i parlamentari del Pd saranno invitati alle prossime iniziative?
«Essendo cambiato il percorso di formazione dei grandi partiti, che pure erano dotati di istituti specializzati su singoli argomenti, è fondamentale avere sedi, che raccolgono intellettuali e esperti, sulle quali poter contare. Sarebbe sbagliato giudicare burocraticamente, come ha fatto qualcuno, l’incontro dell’altro ieri».
Il sospetto è che si voglia mettere in discussione la leadership. C’è o no questo tema?
«Nessuno ha voglia di mettere in discussione questa leadership. Qui c’è da intendersi su un punto: nella fase in cui è iniziato il percorso di formazione del Pd il partito è stato investito dalla campagna elettorale, che ha avuto questi esiti. Una riflessione sul radicamento del Pd non può essere letta contro qualcuno. Penso che dovrebbero essere superate tutte quelle letture che sanno molto di dietrologia. Bisogna dare più importanza alla lealtà e alla schiettezza rispetto alla fedeltà che a volte non fa avanzare neppure una critica che sarebbe giusto fare per l’interesse di tutti e anche di chi esercita la leadership». m.ze.


l'Unità 8.5.08
La Cgil approva la linea Epifani
L’ala sinistra della confederazione contro la piattaforma licenziata dalla segreteria
di Felicia Masocco


Il direttivo della Cgil ha approvato a larghissima maggioranza il documento unitario sulla riforma della contrattazione. Il voto è arrivato a tarda sera: la piattaforma presentata da Guglielmo Epifani ha raccolto 105 voti, circa l’80%, 2 gli astenuti, 28 i contrari.
Com’era nelle previsioni la riunione è stata piuttosto tesa. È iniziata con le dimissioni di Paola Agnello Modica, ma subito dopo ha dovuto registrare lo strappo del leader della Fiom Gianni Rinaldini che in un breve intervento ha comunicato che non avrebbe partecipato al dibattito. Non per il dissenso - peraltro confermato - dalla linea assunta da Guglielmo Epifani, quanto perché qualche ora prima era venuto a conoscenza della sospensione dalla Cgil di quattro dirigenti Fiom di Milano. «Non condivido il documento sui contratti - ha spiegato - ma, avendo ricevuto un dispositivo assunto dal comitato di garanzia della Cgil lombarda che ha sospeso quattro dirigenti dichiaro che mi assumo la totale responsabilità del comportamento di Elvira Sciancati», segretario generale della Fiom di Milano, «il mio iter sarà lo stesso», ha poi concluso lasciando intravedere un’autosospensione dalla Cgil fino a quando il procedimento disciplinare si sarà concluso. I dirigenti Fiom sono stati sospesi perché l’anno scorso, in occasione di un dibattito sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici, avevano consentito l’intervento di Massimiliano Murgo già espulso dalla Cgil.
Il «caso» Fiom ha dunque fatto irruzione nella riunione del parlamentino, accendendo una polemica che oltre al segretario generale dei metalmeccanici, ha coinvolto la segreteria Fiom. Rinaldini non ha preso parte neanche al voto, mentre i segretari Fiom si sono limitati a non intervenire al dibattito «per rispetto a Rinaldini» ma non hanno fatto mancare le loro dichiarazioni di voto: Giorgio Cremaschi ha presentato un documento alternativo per Rete 28 aprile, Fausto Durante si è detto invece favorevole alla linea Epifani, mentre Francesca Redavid ha dato l’appoggio al documento di Lavoro e società (alla fine appoggiato anche da Cremaschi) pur non condividendolo totalmente, ma apprezzando la riscrittura della parte relativa al contratto nazionale.
La querelle Fiom si è infatti aggiunta a quella che ha visto tutta l’ala sinistra Cgil schierarsi contro la piattaforma che Guglielmo Epifani e la segreteria avevano «licenziato» poche ore prima con Cisl e Uil. E che ha portato Paola Agnello Modica a rimettere il suo mandato. «Credo nella democrazia - ha detto la segretaria confederale al direttivo - avevo annunciato la mia astensione sul documento unitario, l’area che rappresento ha però deciso per un voto contrario con un documento alternativo e per questo mi dimetto».
Una nuova spaccatura all’interno del maggiore sindacato, molto simile a quella che si registrò sul protocollo sul Welfare. Alla fine sono stati presentati tre documenti oltre quello di Epifani contestato soprattutto per l’impostazione e il ruolo dato al primo livello. Il primo è stato presentato da Nicola Nicolosi di Lavoro società, un altro (poi ritirato) da Cremaschi che ha anche chiesto un congresso straordinario. Il terzo da alcuni componenti di sinistra che fanno capo a Ferruccio Danini. Piuttosto duro nel presentare la proposta della segreteria, Guglielmo Epifani si è detto tuttavia dispiaciuto delle dimissioni di Agnello Modica, «le vorrei respingere», ha dichiarato, aggiungendo che se ne discuterà in una sede ad hoc. Quanto a Rinaldini «spero che ci ripensi», è stato l’auspicio del segretario generale, ma non ha taciuto che la magistratura interna assume le proprie decisioni in autonomia.


l'Unità 8.5.08
Alla sinistra del Pd
di Achille Occhetto


Chi darà voce al mondo dei salariati, dei precari, ai nuovi soggetti figli dei drammi del nostro tempo?
C’è da rappresentare un universo in movimento

C’è qualcosa di inquietante nel panorama politico che è apparso ai nostri occhi dopo che i fumi dei fuochi d’artificio della campagna elettorale si sono depositati sul terreno. Lo spettacolo a sinistra è desolante. La duplice sconfitta della cosiddetta “area radicale” e del progetto riformista moderato del Pd, ci consegna una lacerante divaricazione tra una sinistra che perde se stessa lungo la strada del moderatismo e una che si abbarbica alle antiche radici intese non già come linfa vitale di una rigenerazione ma come feticcio o, ancor peggio, come mera difesa di piccole rendite di posizione.
Tra questi due poli divaricanti dovrebbe collocarsi una nuova sinistra. Ma chiediamoci: esiste lo spazio politico ideale per questa nuova sinistra?
Una cosa è certa: la sinistra arcobaleno non è riuscita a rappresentare tale esigenza. In verità, non ci ha nemmeno provato. Sono venuti meno alcuni presupposti - una cultura di governo e l’accettazione dell’orizzonte ideale del socialismo europeo - che potevano rendere credibile quel tentativo. L’anelito verso la ricerca di una nuova frontiera, che ha contraddistinto l’impegno di Sinistra democratica e di un parte di Rifondazione, è stato contraddetto dai ritardi e dalle resistenze che di fatto hanno ridotto l’insieme dell'iniziativa a un mero cartello elettorale. Lo stesso vagheggiamento dell’opposizione per l’opposizione ha favorito la macchina micidiale del “voto utile” che ha spinto gran parte degli stessi elettori di Rifondazione comunista a votare per il Partito democratico.
In questa commedia degli equivoci è rimasto sconfitto tutto il centrosinistra, vittima delle reiterate azioni autolesioniste con le quali i vecchi gruppi dirigenti partitici hanno, in vari momenti e in vari modi, affossato il “Grande Ulivo”. Ora, cosa possiamo fare?
Per debellare il male oscuro che ha paralizzato le diverse coalizioni di centrosinistra occorrerebbe superare alla radice l’idea nefasta delle due sinistre, una di governo e l’altra di opposizione. I due capisaldi - cultura di governo e identità socialista - chiamano in causa una sinistra che sappia superare la divisione tra riformisti e sinistra radicale, che sia ferma nei principi, ma di governo. Una simile sinistra non sta al governo ad ogni costo, ma non sta nemmeno ad ogni costo all’opposizione. Svolge il proprio ruolo - quello che le è stato affidato dai cittadini - con la medesima cultura di governo.
Tuttavia qualcuno potrebbe ancora obbiettare: al di là delle ragioni della politica, quali sono le ansie, i problemi, le rivendicazioni che potrebbero definire, sia pure a grandi linee, lo spazio di una nuova formazione politica?
Credo che per rispondere in modo compiuto - e non solo politicistico - a questi interrogativi, occorrerebbe ridefinire il terreno sociale ed economico sul quale si manifestano le contraddizioni del nuovo millennio. Ciò richiederebbe, come ciascuno può ben comprendere, una ricerca di ampio respiro. Tuttavia non intendo esimermi dal sottolineare alcuni temi di scottante attualità che contraddicono la cultura dominante neoliberista. Quella cultura che è la matrice di tutte le teorie tendenti a dichiarare morto e sepolto il mondo del lavoro salariato, inesistenti le contraddizioni - vecchie e nuove - interne al modello di sviluppo capitalistico, assurdamente palingenetiche le richieste di un rinnovamento radicale delle società attuali, al punto tale da rendere obsoleta, se non risibile, l’esistenza stessa di una sinistra alternativa.
In realtà tutto ci dice che siamo di fronte a una nuova fase critica del capitalismo su scala mondiale. Mutano i soggetti e la forma delle contraddizioni, ma rimane la sostanza della critica.
Prima considerazione. Il mondo del lavoro.
I dati parlano chiaro e in modo agghiacciante. Quando Marx era celebrato, copiato, vezzeggiato e usato da quasi tutta la cultura mondiale, i lavoratori salariati erano solo cento milioni. Adesso che l’intellettualità, cosiddetta moderna, si fa beffe dell’idea stessa dell’estensione del lavoro salariato, i lavoratori salariati sono passati da cento milioni a due miliardi.
Seconda considerazione. Di questi due miliardi una parte rilevante è costituita da un miliardo e mezzo di nuovi lavoratori globali aventi diritti e salari minimi e mezzo miliardo di lavoratori dei paesi sviluppati aventi diritti e salari elevati.
Terza considerazione. Si ripropone in una forma nuova la tesi di Marx sulla funzione dell’“esercito industriale di riserva” (i disoccupati) nel determinare contraddizioni interne al mondo del lavoro e indebolire l’azione degli occupati per più alti salari e per la difesa dei diritti sindacali.
In tale contesto, la stessa flessibilità, oltre a trasformare la precarietà nel lavoro in precarietà di vita, contribuisce alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative.
Questa immane lotta tra i poveri su scala planetaria reca con sé nuovi conflitti sociali all’interno del popolo, determina una concorrenza cieca e senza esclusione di colpi di cui si alimentano tutte le nuove contraddizioni: da quelle legate agli attuali biblici movimenti migratori, ai temi stessi della sicurezza, su cui si fonda la scissione, anche nel voto, dello stesso operaio, tra la sua figura di produttore (che risponde ai sindacati) e quella di cittadino (che sente il richiamo della destra sui temi dell’immigrazione e della sicurezza).
Un altro terreno su cui mutano i soggetti e la forma delle contraddizioni, ma non la sostanza della critica all’attuale stato di cose, è quello ecologico. Anche questo è un tema che è diventato banale, fino a sfumare in un conformismo riformistico che si infrange impotente contro le alte scogliere delle cittadelle fortificate dell'attuale modello di sviluppo. Ciò avviene perché non si è ancora compreso che occorre ripensare la nozione stessa di progresso, dal momento che viviamo le laceranti contraddizioni tra la necessità di uno sviluppo allargato all’intera umanità e l’esigenza della difesa della natura e dell’equilibrio ecologico del pianeta; tra tecnologia e occupazione; tra internazionalizzazione dei processi produttivi e accentramento delle sedi di decisione e di controllo; tra sovranazionalità e particolarismi e conflittualità etniche e religiose.
E che dire del tema capitale su cui è nata la sinistra mondiale, quello della giustizia? Ormai tutti possono vedere che la più grande ingiustizia che sconvolge la comunità umana è il divario pauroso tra la ricchezza di pochi e l'abissale povertà della maggioranza degli uomini. Come non cogliere che tutto ciò non lo si risolve con la carità redistributiva - che pure è insufficiente - ma chiama in causa l’organizzazione economica e sociale, i modelli produttivi, di vita e di consumo, dei paesi più ricchi?
Chi rappresenta tutto questo? Chi darà voce al mondo dei salariati, dei precari, ai nuovi soggetti figli dei drammi del nostro tempo?
Ho visto che alla notizia della scomparsa della sinistra “radicale” dal Parlamento, alcuni commentatori si sono chiesti attoniti: ma ora chi rappresenterà le tensioni sociali? Correremo il rischio di manifestazioni violente? Il problema è ben più ampio.
C’è da rappresentare un universo in movimento. Questo universo plurale e articolato non può essere compiutamente espresso né dalla sinistra radicale né da un riformismo pallido e appannato. Ci vuole una forza animata da una effettiva cultura di governo. Ma che abbia nello stesso tempo il senso e la dignità di un progetto autonomo.
Ho più volte affermato di non avere alcuna nostalgia conservatrice per la vecchia sinistra e di non avere nemmeno alcuna prevenzione verso la formazione di un nuovo partito democratico, che si inscrivesse nell’area della sinistra, capace di fondere, attraverso una effettiva contaminazione ideale e politica i diversi riformismi della tradizione politica italiana. Ma a mio avviso si è scelta una scorciatoia sbagliata. Sarebbe stato meglio meno ma meglio.
Quella ipotesi infatti, a mio parere, doveva essere favorita dal formarsi di una grande coalizione - soggetto politico - nella quale ogni componente, pur mantenendo, almeno all’inizio, la propria identità di partenza, fosse tuttavia ispirata dalla medesima tensione ideale e morale verso una politica profondamente rinnovata.
Era l’idea della Carovana. Il “Grande Ulivo” incominciò a incarnare quella idea. In quella occasione uomini e donne che il muro ideologico della guerra fredda aveva divisi si ritrovarono dalla stessa parte, dando vita ad una effettiva esperienza unitaria di base.
La rottura di quella esperienza perpetrata nel nome del primato dei vecchi partiti è stata un vero e proprio delitto politico. La formazione di un partito democratico che è rimasto isolato nel campo, ormai deserto, del vecchio centrosinistra ha fatto il resto. Rimane tutto intero il problema della rappresentanza politica di grandissima parte delle tensioni e delle aspirazioni che attraversano la nostra società.
In questa situazione abbiamo davanti a noi due strade da percorrere. La prima è quella di dar vita, tra il Pd e le componenti residuali di una vecchia sinistra radicale, ad una nuova formazione politica che, muovendosi all’interno dell’orizzonte ideale del socialismo europeo, vada oltre le antiche appartenenze. Si tratterebbe di un’opera immane, che oltretutto sarebbe costretta a muoversi contro il senso comune semplificatorio che sta infuriando alla cieca sul sistema politico italiano. La semplificazione - da me più volte invocata - rispetto al proliferare di partitini che non hanno alcuna ragione storica al di fuori dell’autovalorizzazione dei loro apparati, è un conto; altro conto è l’autentica rappresentanza di un imperativo di riscatto morale e ideale che sale da una parte rilevante delle moderne società sviluppate. Se non ci poniamo il problema di questa ineludibile “rappresentanza”, tutto il sistema politico italiano rischia di precipitare in una crisi irreversibile e la stessa gigantesca opera compiuta dopo la Liberazione da Togliatti e da De Gasperi per far uscire le masse popolari italiane dal sovversivismo endemico di cui erano ancora prigioniere, verrebbe vanificata.
Queste osservazioni mi suggeriscono l’ipotesi di un modello flessibile, insieme unitario e articolato. Un modello che si proponga l’obiettivo di costruire un nuovo centrosinistra.
Qualcuno ha anche suggerito di riorganizzare la sinistra di cui sto parlando all’interno del Pd.
Non mi faccio il segno della croce: anche questa seconda ipotesi potrebbe essere presa in considerazione. Tuttavia è da escludere un innesto di sinistra all’interno dell’attuale impostazione organizzativa, oltre che ideale e politica, del Pd. Anche in questo caso occorrerebbe un modello flessibile, insieme unitario e articolato. Qualcosa che sia una sintesi più alta tra l’attuale Partito democratico e l’esperienza del “Grande Ulivo”. Ma anche tale ipotesi richiederebbe un ripensamento collettivo delle prospettive strategiche dell’insieme dell’area di centrosinistra.
Lo stesso Pd, o ha un’ipotesi che riguarda l’insieme delle forze di centrosinistra, oppure da solo, come si è visto, non va da alcuna parte. Il gruppo dirigente del Pd, invece di pensare di reclutare, dopo la comune sconfitta di tutto il centrosinistra, piccole pattuglie di sbandati, dovrebbe avere la forza politica e morale dei momenti storici cruciali. Una forza che non si affida alle rese dei conti dentro la nomenclatura, che lasciano il tempo che trovano, ma che si pone il problema effettivo di un ripensamento generale.
Ciò comporterebbe la decisione di dar vita a una seconda costituente del Partito democratico e del nuovo centrosinistra.
Tuttavia in entrambi i casi, sia in quello dell’immediata formazione di un nuovo partito di sinistra, sia in quello di una flessibile e articolata ricostruzione del “Grande Ulivo”, non si potrà prescindere dalla presenza di una grande sinistra democratica e popolare.


Repubblica 8.5.08
D'Alema: non entro nel governo ombra
di Goffredo de Marchis


ROMA - Dopo la consultazione al Quirinale Walter Veltroni parla di «opposizione netta. Ma siamo pronti al dialogo - aggiunge - sulle riforme e sulla Finanziaria». Vista la squadra di Berlusconi il vicesegretario Dario Franceschini commenta: «Una delusione totale». E ora il Pd si prepara, oggi o domani, a presentare il suo governo ombra. Ma i vertici Democratici devono preoccuparsi degli equilibri interni.
Una tregua di due anni. «Per costruire insieme il Partito democratico». Poi ognuno per la sua strada, anche su fronti opposti. Veltroni reagisce così alla prima mossa della corrente di Massimo D´Alema (riunione di quaranta parlamentari martedì). E lo scavalca, cerca di uscire dalla logica del vecchio dualismo, si rivolge direttamente a Pierluigi Bersani ed Enrico Letta. È Franceschini ad attivare il "canale diplomatico". Ieri mattina è andato a trovare Letta a Palazzo Chigi, poi ha incontrato l´ex ministro delle Attività produttive al loft. A entrambi ha portato la proposta sua e di Veltroni: una moratoria al gioco delle correnti, un cessate il fuoco per il tempo necessario a stabilizzare il Pd («lasciamolo almeno crescere questo partito»), a dargli una forma compiuta. Dopo, amici come prima, ma liberi di giocarsi le rispettive carte.
La risposta a Franceschini è stata per il momento interlocutoria. Più scettico Bersani, più interessato Letta che però aspetta segnali concreti da parte di Veltroni. «La situazione è fluida, c´è ancora molta confusione», ha spiegato il sottosegretario uscente a Franceschini. Un fatto è certo: dopo aver forzato la mano nella sfida dei capigruppo, adesso Veltroni scopre una vena manovriera. Continua a considerare la sua sponda privilegiata il nucleo dei segretari regionali e i sindaci come Cofferati, Cacciari e Chiamparino. Ma non può non prendere atto del fermento correntizio che si sta consolidando. D´Alema ieri con tono perentorio ha rivendicato l´organizzazione di una sua area: «Le componenti ci sono sempre state, non le ho inventate io. Basta vedere come stati distribuiti gli incarichi parlamentari». Un riferimento alla scelta, da lui contrastata, di Soro e Finocchiaro. Il ministro uscente avverte: «Non rinuncio a dire la mia sul partito. Non devo allontanare alcun sospetto, non c´è un dualismo. Ma ho delle opinioni politiche e le esprimo». Secco anche il commento sulla sua presenza nel governo ombra: «Non credo».
Il rapporto tra D´Alema e Veltroni è decisamente logorato. Le correnti proliferano e Beppe Fioroni annuncia un prossimo appuntamento degli ex popolari. Ma il segretario va avanti con la formazione del gabinetto ombra. Vuole presentarlo entro domani. ha chiesto a Bersani (Economia) e Letta (Attività produttive) di entrare. Ha incassato il no di Linda Lanzillotta alla Delegificazione e di Arturo Parisi che è in pole position per la presidenza del Comitato parlamentare sui servizi in ossequio alla regola per cui su quella poltrona viene preferita la competenza di ex ministri di Interno o Difesa. Veltroni punta a coinvolgere anche Pietro Ichino (Lavoro), Salvatore Vassallo (Riforme), Giorgio Tonini (Istruzione), Marco Minniti o il prefetto De Sena (Interno), Maria Paola Merloni (Beni culturali), Ermete Realacci (Ambiente), Enrico Morando (Infrastrutture).


Repubblica 8.5.08
Lo sfogo della ex first-lady : che vergogna dipingerci come salottieri, siamo stati una vita davanti alle fabbriche
Lella Bertinotti e la sinistra cancellata "Fausto ha sbagliato, ma per generosità"
"Poteva restare alla Camera, invece ci ha messo la faccia. E in campagna elettorale a dargli una mano non s'è visto nessuno, tranne Mussi"
di Alessandra Longo


ROMA - Lui non parla, ha deciso così, non ne ha voglia. Fausto Bertinotti si è immerso nel suo mondo di letture, cura la sua rivista «Alternative per il socialismo», sta lavorando alla sua Fondazione, forse a settembre insegnerà all´università, forse dirigerà una casa editrice. E´ Lella, la moglie, estroversa, naturalmente protettiva, che fa fatica a tenersi dentro l´amarezza, la delusione, la rabbia di queste settimane post-elettorali, lo stupore per una storia politica interrotta così brutalmente: «Siamo finiti in una notte».
No, lei non ha mai creduto alla Sinistra Arcobaleno, perlomeno così com´è venuta fuori, fusione fredda, «all´ultimo momento, con un simbolo che la nostra gente più semplice manco conosceva, con dei compagni di viaggio, Mussi escluso, che non si sono mai visti in campagna elettorale, cui interessava solo portare a casa voti»: «Ne sono convinta: fossimo andati da soli, noi, come Rifondazione, avremmo preso sicuramente il 4 per cento». Non lo dice adesso, l´ha sempre detto, anche al marito: «Fausto ha fatto, per troppa generosità, l´errore della sua vita. Doveva dire: "Basta, chiudo qui, finisco il mio lavoro alla presidenza della Camera"e invece ha messo la sua storia, la sua bella faccia pulita, a disposizione della Sinistra Arcobaleno. Non ha voluto nemmeno scegliere lui le liste e in certi casi si è visto...».
Adesso dell´ex presidente della Camera scrivono tante cose che la signora Lella conosce e smentisce con rabbia. Per esempio, la storia dei salotti: «Una vergogna. Abbiamo fatto una vita davanti alle fabbriche, io e lui, allora sindacalista, gli anni di Torino, duri, tosti. E c´è chi ci dipinge, anche tra i nostri, come modaioli, festaioli, narcisi. In 23 anni che sono a Roma, ho accettato due volte, per gentilezza, un invito dalla signora Angiolillo e tre volte dalla signora Verusio. Altro che salotti. La verità è che Fausto ha lavorato tutta la vita come una bestia. Ed è per questo che lo fermano per la strada, gli stringono le mani, qualcuno piange, altri lo pregano: "Ritorna, per favore". A Torino, il primo maggio, è andata così, al netto di 20 ragazzi, sempre quelli, sempre gli stessi, che lo hanno fischiato. La stampa ha parlato solo della "contestazione", dando un´immagine opposta alla realtà. Siamo tornati commossi per l´affetto, il calore, che abbiamo sentito intorno a noi».
La sconfitta è come un vento che pulisce l´aria, rende netti i contorni. Si fanno anche belle scoperte: «Una delle prime telefonate l´ho ricevuta da Donna Assunta Almirante che incontro spesso a teatro. Mi ha detto: "Non ci posso credere che sia andata così. Non è possibile, non è possibile. Suo marito meritava davvero, un uomo di quella levatura...». E ora? «Ora bisogna ricominciare dalle Europee, darsi da fare, lavorare tanto sul territorio». Ripartire «non dalla Sinistra Arcobaleno, ma da Rifondazione. Sono convinta che ce la possiamo fare». Ripartire con chi? «Questo è un punto importante. Non è facile stare al timone di un partito, ci vuole autorevolezza, esperienza, carisma». Lella Bertinotti è una donna tendenzialmente allegra, ironica. Non sembra aver rimpianti per il suo vecchio ruolo di first-lady. «La coppia Bertinotti va forte! Riceviamo quattro inviti per sera. Ahimé sono persino ingrassata...». Amici: tanti. Nessuna sensazione di solitudine, di emarginazione, assicura la moglie del lider maximo. Rifondaroli pentiti: un esercito. «Ricevo pacchi di lettere di compagni che hanno votato Pd e che mi scrivono: "Ho sbagliato, se solo potessi tornare indietro"». Indietro, però, non si torna. E allora è meglio investire sul futuro. Lella Bertinotti ha una certezza: «La storia di un partito, i bisogni e i sogni della gente che rappresenta», non possono finire inghiottiti nel nulla: «Rifondazione c´è, guardiamo alle Europee».

Repubblica 8.5.08
Educazione di un neonazista
Raffaele e le anime nere di Verona
di Giuseppe D’Avanzo

Nell´antica scuola della città, dove studiavano la vittima e il carnefice, i compagni e i professori si interrogano sui tanti perché del pestaggio mortale Da qui parte il viaggio dentro una comunità che si specchia nei suoi giovani. Per provare a capire dove c´è stata la frattura ideologica che ha portato all´odio verso il diverso Il preside: "Avremmo potuto fare di più nel dialogo con i ragazzi" La compagna: "Qui non c´è spazio per l´ignoranza e l´ottusa violenza" Il compagno: "Dovete chiamare le cose con il proprio nome: xenofobia"

Nicola e Raffaele - Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele - hanno studiato nello stesso liceo, lo «Scipione Maffei», fiero di essere il più antico liceo d´Italia. Nato nel 1804, promosso da Bonaparte, il «Maffei» è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora «lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l´assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri». È un impegno che si respira nelle aule dell´antico convento domenicano annesso alla Chiesa di Santa Anastasia, a due passi da Piazza Erbe, da Piazza dei Signori, dal cuore storico di Verona. Il liceo non è un luogo abitato da svuotati, sprecati. Né è attraversato dall´«analfabetismo emotivo», dalla «follia morale», dall´«ospite inquietante» del nichilismo, o come più vi piace definire l´infelice condizione giovanile del nostro Paese. Al «Maffei» si discute molto. Si lavora molto. Si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee. Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia "ars dubiae". Si ha fiducia «nella tolleranza, nel rispetto, in una solidarietà generosamente disponibile, in un reale e radicale rispetto di se stessi e degli altri». Sono pratiche quotidiane e non predicazione (gli studenti, per dire, si tassano ogni anno di 250 euro e quest´anno hanno deciso spontaneamente di aumentare l´obolo di solidarietà). E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?

«Ce lo siamo chiesti - dice con «doloroso stupore» il preside Francesco Butturini - e ancora ci interrogheremo con i docenti, gli studenti, i genitori. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza. Noi crediamo di aver sempre cercato attraverso l´insegnamento quotidiano e le attività educative complementari, che qui non sono poche, di inculcare negli allievi i principi della civile convivenza. Non è stato sufficiente per insegnare a Raffaele ciò che è lecito, ciò che non lo è, ciò che non è nemmeno pensabile o ipotizzabile. Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti. Quando Raffaele si rifiutò di entrare in sinagoga durante un viaggio di studio; quando affrontò il presidente dell´associazione vittime della strage di Bologna rivendicando l´innocenza di Luigi Ciavardini, segnalammo quell´atteggiamento alla famiglia. Al contrario, la questura non ci informò che Raffaele era indagato da un anno. Avremmo potuto fare di più e continueremo a farlo nel dialogo e nel confronto con i ragazzi. Senza dimenticare Raffaele. Non intendiamo abbandonarlo in questo momento e speriamo che Raffaele accolga il nostro invito; comprenda il suo tragico errore; accetti di incamminarsi su una strada radicalmente differente da quella finora seguita».
* * *
Il preside non vuole e forse non può dire di più. Il deficit del circuito istituzionale e mediatico (perché la Digos non allertò la scuola? perché i giornali cittadini non diedero conto, come d´abitudine, dei nomi degli indagati?) descrive un´occasione perduta di "recupero", di disvelamento, ma non spiega le ragioni della "caduta" di Raffaele in un «rito della crudeltà», per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro «i negri»; i capelluti "comunisti" dei centri sociali; tre paracadutisti delle Folgore nati al Sud; un povero cristo con la maglia del Lecce; un tipo che mangiava un kebab; un ragazzino maldestro nell´usare lo skateboard. Pedina, "soldatino" - Raffaele - di una cerchia che, visitata dai poliziotti, disponeva di manganelli, pugnali, coltelli, un´accetta e di libri che negavano l´Olocausto, di bandiere con la croce uncinata, di foto di Hitler e Mussolini. L´aula della II E, che Raffaele frequenta (o frequentava), è al di là dell´antico chiostro in fondo al corridoio. I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. In questi giorni i giornalisti, protestano, hanno manipolato le loro opinioni, le hanno rimaneggiate per creare uno sciocco sensazionalismo. Non vogliamo difendere Raffaele, dicono, perché quel che ha fatto è gravissimo e se ne deve assumere tutto il peso, ma se ci chiedete se fosse un mostro, allora no, noi dobbiamo rispondere che non lo era, che non si è mai comportato da mostro. Era in modo radicale di destra e discuteva con chi non lo era, o era di sinistra, senza aggressività. Si è rifiutato di entrare in sinagoga, ma siamo abbastanza certi che, se avesse avuto un compagno di banco ebreo, non lo avrebbe maltrattato o deriso a scuola, dove il suo comportamento è stato sempre corretto. Questo vuol dire, chiedono, assolvere Raffaele? Vuol dire raccontare, dicono, quel che sappiamo di lui. Che non era tutto. Purtroppo.
* * *
Accanto alla fontana senz´acqua del chiostro, Giulia Tombari e Simone D´Ascola provano a ragionare - ancora una volta, in questi giorni - su quei perché. Come è potuto accadere a un loro compagno di scuola? Giulia è minuta, nervosa, stanca. Dice parole secche e sincere. Le accompagna con un gesto. Indica il grande arco che dà sulla strada. «Qui non c´è spazio per l´ignoranza che produce l´ottusa violenza senza scopo di Raffaele. Raffaele è stato travolto da quel che c´è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare - e capita spesso - che si senta dire in autobus "non siedo qui, accanto a questo negro" e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole… Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica». Simone è alto, allampanato, meno disinvolto di Giulia. Come Giulia, ha idee lucide e asciutte. «In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo. Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario. Si dice: la politica non c´entra. E invece, c´entra, eccome, se politica è l´odio per il diverso, se politica è un´ideologia diffusa là fuori - anche Simone indica l´arco, il cancello, la strada - che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli. Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia. Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola - e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici - saranno evidenti. È quel che dovreste fare: chiamare le cose con il proprio nome».
* * *
Chiamare le cose con il loro nome. È naturale pensare che sia un buon consiglio mentre si risale via Massalongo e poi corso Santa Anastasia verso Piazza Erbe. Come appare necessario rimettere insieme la realtà di un corpo sociale che solitamente si offre frammentata, sconnessa, quasi in penombra, occultata da parole accortamente ambigue. Chiamare le cose con il loro nome, dunque. Le violenze e i pestaggi nel cuore di Verona sono comuni e ritualizzati. Piazza Viviani, via Mazzini, Veronetta, Volto San Luca, Corso Cavour, piazza Erbe ne sono state le scene negli ultimi mesi. Puoi essere picchiato per un nonnulla. Puoi prendere una bottigliata in testa per un amen. Non importa la ragione occasionale. Non è quello che conta. Non è per lo spino rifiutato che muore Nicola. Nicola muore, dicono, «perché ha il codino», perché dunque è diverso, perché «non è conforme» e gli (improvvisati o professionali) addetti al futuro della città e alla custodia del suo passato e delle sue risorse escludono i diversi: «diverso - dice il procuratore Guido Papalia - è non solo il diverso per razza, ma diverso perché si comporta il mondo diverso; pensa diversamente; ha un atteggiamento diverso; si veste in modo diverso e quindi non può convivere nel centro della città che i razzisti vogliono chiusa ai diversi». In uno stato di smarrimento sociale, si radunano per difendersi le persone spaventate - la paura è coltivata con sapienza a Verona che molto ha faticato per raggiungere il benessere di oggi. Passano all´azione in nome di «un´identità minacciata». Identità, insegna Zygmunt Bauman, è un concetto agonistico. È come un grido di battaglia. Fragile e perversamente "coraggioso", Raffaele sente quel grido, lasciata l´aula del "Maffei" e le fatiche democratiche di "maffeiano". Lo sente allo stadio dove impiccano il fantoccio di un calciatore "negro". Lo ascolta forte nella propaganda dei «nazistoni» del "Blocco studentesco". Lo intende nello stile di vita dei suoi compagni di bevute e di scorribande notturne tra le stradine della città. Afferra quel sentimento nella pianificazione del prossimo pestaggio, nelle risate, nella soddisfazione che segue. Raffaele avverte soprattutto che quel che fa, quel che pensa è condiviso perché in città c´è un sentimento che non lo biasima e non lo biasimerà. Hanno ragione Giulia e Simone. È "politico" tutto questo? Quale ipocrita può negarlo: certo che lo è. E non vuol dire che ci sia un partito politico, una fazione di un partito politico, un gruppuscolo che organizza o programma quelle violenze. Vuol dire che c´è a Verona una «cultura» dell´esclusione che irrigidisce e sorveglia il confine tra «noi» e «loro» e «loro» diventano anche quei veronesi - moltissimi, e tra i moltissimi Nicola - che rifiutano o non avvertono il «potere seduttivo» di quell´«appartenenza». Chiamare le cose con il loro nome. È difficile contestare che il sindaco di Verona, Fulvio Tosi, alimenti la «naturalezza» di quel grido di battaglia «identitario». Che diffonda il presupposto che «si appartiene per effetto della nascita». Non per altro, qualsiasi cosa tu sia e faccia. Fulvio Tosi non è un fascista. È un leghista che ama i fascisti, li coccola, li asseconda, forse cinicamente se ne serve. Oggi che la tragedia si è consumata, è evasivo, a volte frivolo, a volte ringhioso quando gli si ricorda che appena in dicembre ha sfilato accanto a nazisti del Veneto Fronte Skinheads; che appena qualche anno fa (11 settembre 2005) offrì le sue parole solidali - con una visita in carcere - a cinque giovani fascisti che avevano massacrato e accoltellato due ragazzi di sinistra, frequentatori di un centro sociale. Tosi ha grandi ambizioni politiche (sarà il nuovo governatore del Veneto nel 2010?) e questa storia tragica, da cui non riesce a uscire senza danno pubblico o con un alleato in meno, può azzopparlo. L´opposizione gli ha chiesto che si scusi di quelle spensieratezze. Tosi non ha trovato ancora la forza di farlo. Chiamare le cose con il proprio nome. Verona - città straordinariamente generosa nella solidarietà e nel volontariato - assiste al suo incrudelimento distratta, indifferente, senza rimorso o colpa. Guarda da un´altra parte per non vedere, per non vedersi, per non interrogarsi. Come il vescovo, monsignor Giuseppe Zenti. Scrive ai giovani della città. Immagina di inviare sms per conto di Nicola. Scrive: «Abbiate fiducia nelle grandi vette. Valorizzate i giorni della giovinezza. Fatevi onore. Fateci vedere quanto valete. Realizzate una vita di grande qualità, degna dell´essere giovani». Come se esistessero soltanto le scelte personali e non anche le responsabilità collettive, i modelli culturali, i quadri pubblici, l´assenza della benché minima opera di manutenzione sociale (senso civico, legalità). Come se Nicola e Raffaele non fossero caduti su quella «trincea profonda e invalicabile scavata in città tra il "fuori" e il "dentro" di un territorio e di una comunità». Al portone del Bra, ricorda Francesco Butturini, è scolpita una frase dell´Amleto: «Non c´è mondo, fuori di questa città». C´è a Verona chi sembra crederlo per davvero. Raffaele lo ha creduto. Troppo facile ora dirlo solo un delinquente. Troppo ingiusto dire, la morte di Nicola, «un caso isolato».

Repubblica 8.5.08
Rossanda: così ho elaborato i lutti della mia vita
di Simonetta Fiori

In un dialogo con la psicoanalista Manuela Fraire, la protagonista della sinistra italiana si misura con il tema della perdita: di sé e delle persone amate, ma anche del senso implicito nella politica "Il dolore ti fa capire di più, ahimé ti concima"

Ci vogliono coraggio e generosità per pensare "l´impensabile", soprattutto scriverne, riflettere in pubblico sulla perdita: di sé e dei propri affetti, delle persone amate ma anche del "senso" implicito nell´impegno politico. Qualità che non mancano alle tre donne di questo prezioso volumetto – Rossana Rossanda, Manuela Fraire e Lea Melandri – protagoniste di passioni distinte e incrociate quali la politica, la psicoanalisi e il femminismo (La perdita, Bollati Boringhieri, pagg. 104, euro 6,50: in pagina un´anticipazione di alcuni brani). La vita come una fila di candele, cosa succede quando le fiammelle spente sono più numerose – assai più affollate – di quelle ancora accese? Cos´è l´elaborazione del lutto se non l´accettazione d´una mutilazione, "trascinarsi questi morti dietro, un pezzo di noi, abituandoci..."? Ma ci si abitua alla morte?
Il libro parte da un dialogo tra Rossanda e Fraire, ospitato inizialmente sulla Rivista di psicologia analitica. Un confronto dolorosamente autentico, che si sottrae a tentazioni libresche o ad analisi freddamente cerebrali, mettendo in gioco il vissuto delle due protagoniste. Ci si accosta con discrezione, come accanto a due amiche che si confidano, lasciando liberi pensieri ed emozioni solitamente trattenuti: la morte è argomento rimosso, raro aprirgli un varco nel vortice degli impegni quotidiani. Di fianco alle due dialoganti si pone in intelligente ascolto anche Melandri, che interagisce con Rossanda e Fraire in una lunga postfazione, autobiografia e insieme commiato dalla madre appena scomparsa. «Perdere e perdersi», scrive Melandri, «sono meno lontani di quel che si creda. Accompagnare qualcuno verso la morte vuol dire in qualche modo addomesticare il pensiero della propria fine».
La vita come "una goccia di miele sempre suggiata ma soltanto da un ramo di rovi": un verso di Joachim du Bellay in cui Rossanda confessa di ritrovarsi. La "ragazza del secolo scorso" racconta di sé e del suo declino fisico con un disincanto che non è mai disperazione o resa. Immagina il suo commiato con uno sguardo affettuoso per chi rimane. La sua esistenza ha incrociato le tragedie del Novecento, ma la vita è essa stessa tragedia, sintesi di opposti e "incomponibili". «O vivi evitando di pensare alla morte o vivi una finitezza che ti nega. Se questo non è tragico...». La perdita è lo spaesamento che scaturisce dalla scomparsa degli affetti – emozionate le pagine dedicate all´amico d´una vita, Luigi Pintor, mai nominato – ma anche la perdita della politica, del "senso" connaturato alla passione politica, che è cosa ben diversa dalla perdita di un partito o di un luogo di identificazione forte. La storia del comunismo è "una storia mal finita, per molta debolezza ed errore". Lei però non ha pentimenti né risentimenti. «La morte ti fa capire di più. Ti matura. Ahimé, ti concima»: vale per la vita personale e per quella pubblica.

Corriere della Sera 8.5.08
D'Alema sfida Veltroni: le correnti esistono
«Dualismo con Walter? Esprimo le mie idee». Il no all'ingresso nel «governo ombra»
di Roberto Zuccolini

«Dualismo con Walter? Esprimo le mie idee». Il no all'ingresso nel «governo ombra» Duello Parisi-Rutelli per il Copasi. Gentiloni verso la Vigilanza Rai: malumore Idv. E Fioroni prepara la riunione dei popolari
ROMA — Poteva fare finta di niente, ignorare le polemiche che hanno accompagnato la riunione dei «suoi» cinquanta parlamentari. E invece Massimo D'Alema si è fatto intervistare dal Tg3 e ha detto tranquillamente la sua: «Correnti? Esistono. Non è certo la mia riunione che le ha create. Il Pd è un partito composto da molte componenti ben visibili nella vita del partito. Basta pensare a come si distribuiscono gli incarichi». Certo, le correnti non sono un'invenzione di D'Alema. O, almeno, non solo di D'Alema. Fatto sta che dopo la sconfitta elettorale del 13 aprile la situazione si è complicata all'interno del Pd e torna d'obbligo la domanda sull'eterno dualismo con Walter Veltroni.
Gli chiedono perché non si scrolla di dosso il perenne sospetto. E lui: «Io non devo scrollarmi nulla. Ho delle idee politiche che esprimo. Dico la mia in un lavoro di riflessione, sul risultato elettorale, sulle prospettive del Pd». Perché, insiste, «un grande partito si interroga sul suo futuro, dopo una sconfitta elettorale che è stata seria, e riflette sulle potenzialità di un rilancio». In altre parole: «Io partecipo e dico la mia». Però non nel costituendo governo ombra: «Non credo ne farò parte». Dirà la sua in Parlamento giudicando l'azione del governo Berlusconi: «Faremo opposizione sulla base del programma presentato in campagna elettorale. E se il governo aiuterà le famiglie italiane più povere lo apprezzeremo. Altrimenti, lo contrasteremo ». Nel frattempo Veltroni va avanti con il suo governo ombra. Arturo Parisi, come D'Alema, si dichiara indisponibile a farne parte. Ma per l'ormai ex ministro della Difesa si profila un braccio di ferro con Francesco Rutelli per la presidenza del Copasi (ex Copaco), cioè i servizi segreti. Mentre per la Vigilanza Rai è in pole position Paolo Gentiloni, evento che sancirebbe l'esclusione dell'Italia dei Valori dalle cariche più importanti per l'opposizione.
Ma, soprattutto, continua il riaggiustamento interno della macchina del Pd, dopo la sconfitta elettorale. Ieri Veltroni si è visto a pranzo con Romano Prodi e ha ottenuto che, nonostante le dimissioni da presidente, continui a dare un autorevole contributo al partito. È circolata anche l'idea di un affiancamento di Giuseppe Fioroni a Goffredo Bettini, nella carica di coordinatore del partito (smentita però dai veltroniani). E proprio l'ex ministro dell'Istruzione fa presente che esistono anche i popolari. E che faranno, al pari dei dalemiani, le loro riunioni: «Stiamo preparando una nuova iniziativa: una Assisi 2», dalla città dove si è già vista questa componente cattolica del Pd.

Corriere della Sera 8.5.08
Battaglia nell'Egeo «Lesa l'identità della comunità»
Grecia, l'isola di Lesbo fa causa ai gay
La protesta degli abitanti: ci hanno rubato il nome e un pezzo della nostra storia
di Maria Serena Natale


Sulle sponde dell'Egeo conoscono il potere della parola e nell'isola di Lesbo, che secondo il mito accolse il capo di Orfeo straziato dalle donne tracie e dove tra il VII e il VI secolo a. C. una donna, Saffo, trovò al tormento d'amore parole mai tentate, un nome chiama vendetta.
Comincia tutto lo scorso aprile quando, stanco di sentirsi chiamare «lesbico», il combattivo editore della rivista culturale Davlos, Dimitris Lambrou, decide di porre fine a una situazione che «per un'intera comunità equivale a subire violenza psicologica e morale », citando in giudizio la maggiore organizzazione nazionale per i diritti degli omosessuali, «Olke-Unione Greca Gay e Lesbiche», rea di essersi appropriata del nome che spetterebbe «di diritto» ai soli abitanti dell'isola di Saffo. Da «saffico» a «lesbico», nei secoli gli aggettivi legati alla figlia di Lesbo sono entrati a far parte del vocabolario gay; in particolare «lesbico », negli anni Settanta del Novecento, è passato a denotare quel movimento femminile (e femminista) che rivendicava alla cultura omosessuale la responsabilità di oltrepassare il dato puramente sessuale, sul quale le società patriarcali tendono ad appiattire la più articolata sfera affettiva.
«"Loro" si chiamano lesbiche da qualche decennio appena, noi siamo lesbici da migliaia di anni, queste signore non hanno nulla in comune con Lesbo» rivendica Lambrou, che aggiunge: «All'estero mia sorella non può neanche dire di essere lesbica», tanto è disdicevole l'accostamento alla comunità gay, causa di «quotidiani problemi» e lesivo dell'identità storica dei 100 mila nativi, nonché dei 250 mila espatriati. Precisa: «La nostra non è un'aggressione. Vengano a Lesbo, si sposino (è di attualità nell'ortodossa Grecia il dibattito sul riconoscimento delle unioni gay, ndr), facciano quello che credono. Chiediamo solo che il gruppo rimuova la parola "lesbiche" dal proprio nome». E conclude: «Saffo non era neanche omosessuale. Ebbe un marito e una figlia». Oltre a diverse amanti.
Il prossimo 10 giugno il caso sarà esaminato dal tribunale di Atene. «Se non ci fosse in gioco un'ingiustificabile violazione della libertà d'espressione la faccenda avrebbe del ridicolo — commenta la portavoce di Olke, Evangelia Vlami —. Il termine "lesbica" è stato accettato dalla società, dalla scienza, dalla storia, dalle Nazioni Unite. In aula ci sarà da ridere, ci faremo sentire».
In rete parte il toto- nome. La rivista lesbo El Reg propone che le lesbiche greche comincino a chiamarsi «saffiste», gli abitanti dell'isola «mitileni » dal nome della città capoluogo, e le lesbiche non greche restino tali, ma non durante eventuali vacanze sull'isola. Su tutto, il sorriso di Saffo, perché «a noi il pianto non si addice», piuttosto, le dolcezze di Afrodite «tessitrice d'inganni ».

Corriere della Sera 8.5.08
«Gli amori di Saffo? Diversi da quelli omosessuali di oggi»
di Eva Cantarella


Attide, Gongila, Anactoria, le fanciulle oggetto di quell'«amore che squassa l'anima» come «vento sulle querce», nella poesia di Saffo sono presenze vive e sensuali, l'una «piccola e senza grazia», l'altra «circonfusa di desiderio» nella «tunica bianchissima». Questa concretezza e precisione nel dire il sentimento autorizzano più di tante analisi a credere che la poetessa e le sue allieve fossero legate da rapporti d'amore, comunanza di ideali ma anche «eros che scioglie le membra».
Professoressa Eva Cantarella, Saffo era lesbica?
«Prima occorre precisare: il termine "lesbismo", che oggi denota l'omosessualità femminile, deriva dalla fama della quale godevano nell'antichità le donne dell'isola di Lesbo, mentre si ricorreva al verbo "lesbiazein" per indicare la pratica del sesso orale. Quanto all'amore gay come noi lo intendiamo, il concetto era del tutto estraneo alla cultura greca. In particolare il mondo dei tiasoi, le comunità femminili di carattere religioso-iniziatico dove le ragazze ricevevano un'educazione in vista del matrimonio, appartiene a una società precivica che ancora ammette l'amore tra donne, come quello che senz'altro esisteva tra Saffo e le sue allieve. Sarà la polis a bandirlo».
E l'amore tra uomini?
«Sopravviverà, anche alla polis».


Corriere della Sera 8.5.08
L'intervista Il giornalista-scrittore in un volume evoca la repressione sovietica della Primavera
Bettiza: il vero '68 fu a Praga
di Aldo Cazzullo


L' ossatura de La primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata
(Mondadori), da ieri in libreria, sono i reportage che Enzo Bettiza scrisse per il Corriere della Sera. «Quell'anno lo passai all'estero. Prima una lunga inchiesta sulla cultura francese al crepuscolo del gollismo. Poi Spadolini mi mandò a Berlino per il ferimento di Dutschke. Quindi fui richiamato a Parigi per il Maggio. Finalmente, a Praga ebbi sotto gli occhi una rivoluzione vera».
Lei nega una continuità tra il '68 in Occidente e la rivolta di Praga.
«Assolutamente. Mi lasciavo alle spalle giovani che scrivevano sui muri "l'immaginazione al potere", ignorando di riproporre quasi testualmente uno slogan di Charles Maurras, l'agitatore di destra dell'Action Française; e trovavo giovani come Jan Palach — ma non fu il solo — che si davano fuoco con l'etere, per protestare contro una repressione reale e non immaginaria come quella denunciata da Marcuse».
I veri rivoluzionari, lei sostiene, erano i cecoslovacchi.
«Una rivoluzione bianca. E una rivoluzione dimenticata. Al più, si ricordano gli aggressori: l'occupazione sovietica, i carri armati. Ma ci si scorda del popolo insorto. Mentre in Occidente la classe operaia restava a guardare, a Praga era protagonista, si univa agli studenti. Se a Milano si apriva una stagione che da lì a qualche anno sarebbe degenerata nel conformismo gauchiste, i giornalisti cechi insorgevano contro la censura. Mentre a Parigi Sartre, relegato ai margini dalla moda dello strutturalismo, tentava di recuperare la scena vendendo La Cause du Peuple all'angolo della Sorbona, a Praga gli Havel e i Pelikan, con le armi della commedia e della televisione, e in genere l'intellighenzia, dirigevano davvero l'insurrezione. Il mio libro è un atto di memoria e di riconoscenza all'autentica dignità sessantottesca di quegli uomini».
Qual era la strategia degli intellettuali praghesi?
«Diversa da quella degli ungheresi di dodici anni prima, che avevano soffiato sul fuoco. Memori di quell'esperienza, i praghesi tentarono di canalizzare la rivolta e di guidarla verso il compromesso, per evitare spargimenti di sangue ».
Lei non ha il mito di Dubcek.
«No. Faccio mio il giudizio che mi confidò Pelikan a Vienna, dove mi raccontò i retroscena della settimana decisiva; quando Dubcek e il gruppo dirigente della Primavera viene arrestato e trasferito a Mosca. In quei sette giorni in cui passò dalle lusinghe alle torture psicologiche, dai banchetti con vodka e caviale alle minacce di distruzione di Praga e smembramento del Paese, Dubcek mostrò i suoi limiti. Diede l'impressione di collaborare in buonafede alla propria graduale esautorazione. I sovietici cercavano un Kadar, un normalizzatore. Non trovandolo, incaricano proprio Dubcek di porre fine alla Primavera, e in sostanza a se stesso, per poi degradarlo prima a inutile ambasciatore in Turchia e quindi a idraulico».
Lei, da «anticomunista competente» come si è definito, non ha mai nascosto una certa ammirazione per Tito. Da questo libro, però, il leader jugoslavo esce male.
«Accolto dalla folla come un eroe con quindici minuti di applausi, quel che seppe dire ai praghesi fu una vaga formula di amicizia durata pochi secondi. Del resto, Tito era colui che conosceva meglio i russi. Vecchio cominternista, arruolatore di volontari per la Spagna, comandante dell'esercito partigiano, contestatore di Stalin, sapeva come sarebbe andata a finire».
A un tratto, con Ulbricht, compare sulla scena praghese il pericolo tedesco.
«Arrivò a Karlovy Vary, che poi sarebbe Karlsbad, antica località termale. Un posto bellissimo, da principi russi dell'800. Ulbricht era il più odiato tra i cinque del Patto di Varsavia. Mentre Ceausescu in quella circostanza si comportò bene, rifiutando di schierarsi con Mosca».
Nel «Provinciale», Giorgio Bocca scrive che lei telefonava a Bucarest avvertendo che i russi stavano arrivando, anzi erano già arrivati...
«Non ero io, erano i sovietici a minacciare di intervenire anche in Romania. Ma Ceausescu, a differenza di Dubcek che lasciò i suoi soldati nelle caserme, aveva schierato l'esercito e si sarebbe difeso. Quanto a Bocca, ho sempre avuto simpatia per lui. Lavorammo insieme a Vienna. Lo ritrovai a Macao, e gli diedi una mano, lo portai in giro con me. Poi lessi il suo articolo: "C'è qui anche il decadente Bettiza...". Lui è fatto così».
Chi c'era a Praga per i giornali italiani?
« La Stampa aveva Igor Man, terrorizzato dal suo direttore Giulio De Benedetti. Il Giorno mandò Bernardo Valli, uomo di sinistra che però anteponeva la cronaca all'ideologia, felpato, inafferrabile: si diceva che avesse combattuto nella Legione straniera a Dien Bien Phu, ma non ne parlava mai. L'Espresso aveva Lino Jannuzzi. Quando, scontenti per i miei servizi, i russi mi fecero cacciare dall'albergo, fui ospitato da Lino nella sua suite in stile Impero. Dormivamo insieme in un letto a baldacchino. Lui però, rilassato ed elegante di giorno, la notte si alzava di continuo, prendeva un whisky, faceva vibrare la caviglia in un vortice rotante, nervoso, intensissimo...».
Come si comportò il Pci?
«Longo non brindò, come aveva fatto Togliatti nel '56, ma neppure condannò. Si limitò a "deplorare". Quando poi Pelikan venne in Italia, Berlinguer si rifiutò anche solo di riceverlo. Craxi lo fece eleggere per due volte a Strasburgo ».
Nella prefazione, lei indica in Tangentopoli un colpo di coda del '68. Perché?
«Per le biografie di alcuni protagonisti, come Gherardo Colombo. Più ancora, per quella medesima ansia di palingenesi, quello stesso nichilismo piccolo-borghese che animò entrambe le stagioni. La stessa Italia zodiacale, l'oleografia da calendario, l'utopia del disastro colorato. Non vere tragedie; piuttosto, psicodrammi ».

«La Primavera di Praga» è edito da Mondadori, pp. 154, e 17,50


Corriere della Sera 8.5.08
Un saggio di Giacomo Marramao
L'arcipelago della modernità
di Nuccio Ordine


Una bussola per orientarsi nelle contraddizioni del pensiero contemporaneo

Proviamo a immaginare l'arcipelago della modernità costituito da una serie di parole- chiave: mondo, identità, libertà, humanitas, differenza, cosmopolitismo, civitas, evento, esperienza, morte. Si tratta di singole «isole», è vero. Ma nello stesso tempo una fitta rete di scambi e di interferenze crea solidi collegamenti tra loro. Stiamo parlando di un arcipelago particolare in cui possiamo muoverci liberamente, senza itinerari predeterminati. Così nel corso della navigazione finiremo per scoprire, in forme e in contesti diversi, una realtà caratterizzata da una serie di opposizioni: individuo-comunità, uomo-donna, locale-globale, nazione-mondo, confronto- conflitto, particolare- universale, identico-differente, dentro-fuori. E ancora: Oriente-Occidente, assolutismo- relativismo, società secolare- religione, filosofia analitica- filosofia continentale.
Come orientarsi in un arcipelago così complesso? A questa domanda cerca di rispondere il recente lavoro di Giacomo Marramao, La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo (Bollati Boringhieri, pp. 291, e 10, sarà presentato alla Fiera del Libro di Torino domani alle 12.30 da Giulio Giorello con Armando Massarenti).
Spetta soprattutto alla filosofia — sostiene l'illustre studioso, direttore della Fondazione Basso e membro del Collège internationale de philosophie di Parigi — lo sforzo di comprendere il presente, tracciando nuovi percorsi, nuovi metodi, un modo nuovo di interrogare in grado di sfuggire al paralizzante contrasto degli opposti. Marramao, infatti, analizza alcune parole-chiave della modernità, mostrando come le opposizioni che le caratterizzano vadano rivisitate alla luce di una diversa prospettiva. La contrapposizione può condurre in un vicolo cieco, ma può anche sprigionare forze antitetiche capaci di convivere proficuamente. Proprio nella tensione tra i poli è possibile ritrovare nuovi equilibri più funzionali alle complesse esigenze del presente.
Che fare, insomma, in un tempo sospeso tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora di un nuovo ordine sovranazionale? Come conciliare il localismo e l'universalismo? Come tenere assieme il feticismo identitario e l'omologazione neutralizzante? Per Marramao, la filosofia deve ripensare la nozione di universale. E deve farlo attraverso il criterio della differenza. L'universalismo moderno non si può più fondare sulla logica dell'identità, ma deve far leva su ciò che è differente operando una «sintesi disgiuntiva».
Fare i conti con un presente sospeso e con gli ossimori che lo caratterizzano significa anche predisporsi a «saggiare le imprevedibili virtù del "doppio"». Forse, suggerisce Marramao, ci toccherà ancora per lungo tempo scrivere «con una mano la parola "universalità" e con l'altra la parola "differenza"». Vergarle entrambe con la stessa mano sarebbe, allo stato attuale delle cose, un tragico errore. Non si può uscire dalla catastrofica palude degli antagonismi, senza uno sforzo in grado di superare i conflitti, senza l'impegno a favorire nuovi esperimenti di «traduzione » tra le diverse esperienze culturali.
Marramao nel suo lessico ci parla del presente e delle sue contraddizioni, tracciando una mappa delle fratture e delle interdipendenze. E ce ne parla con la passione (nella duplice accezione di partecipazione e di patimento) che la filosofia richiede. Dietro ogni singola parola si nascondono i grandi temi del dibattito contemporaneo: il ruolo della religione, la funzione della politica, i pericoli del fanatismo, i rigurgiti del razzismo, la differenza tra i sessi, l'autodeterminazione della donna, il rapporto tra l'«io» e l'«altro». Ma il lettore più attento, percorrendo liberamente le varie voci, non troverà né soluzioni, né risposte definitive. Troverà, invece, una serie di interrogativi in cui le questioni saranno riformulate secondo nuovi parametri. Alla fine del viaggio, in questo lessico-arcipelago della modernità conteranno molto di più i dialoghi-conflitti intrecciati con altri libri, con altri filosofi, con altre culture. E, soprattutto, ci si renderà conto che il presente, una volta liberato dai rumori di fondo, è sempre «inattuale».

Repubblica Bologna 8.5.08
"Sono qui a dirvi la mia battaglia con l'anoressia"
di Erika


Questo testo è stato letto ieri allo Studay08 da una ragazza di 18 anni in cura per l’anoressia

MI CHIAMO Erika, ho 18 anni, ho frequentato il Liceo Socio-psico-pedagogico di Enna fino al quarto anno e l´8 febbraio del 2007 sono partita per Bologna. Partire è stata una mia scelta, mi sono resa conto che avevo bisogno d´aiuto. Lì a Bologna ci sono medici, psicologi, ma soprattutto una decina di ragazze arrivate da tutta Italia che seguono il mio stesso percorso. Le nostre storie sono simili, si sentono anche loro come me, hanno addosso le tracce del mio stesso male. (...) Adesso ho una consapevolezza diversa della malattia. Quando sono partita per curarmi ero determinata a farcela, agguerrita, ma nel tempo mi sono adagiata, abituata al malessere. Per questo sono tornata nella mia casa di Enna per qualche giorno, per rendermi conto che i miei compagni stanno andando avanti con gli studi, che si stanno diplomando, che la vita non si è fermata. Io invece da giugno a dicembre 2007 sono stata ricoverata e sono rimasta in ospedale 24 ore su 24, mi sono bloccata mentre tutto intorno a me ha continuato a scorrere. Ho paura di non riuscire a recuperare il tempo perduto…
La malattia mi ha colpita per la prima volta nel 2001. Per un po´ di tempo, tra il 2004 e il 2006, mi sono ripresa. Poi sono ricaduta. La prima volta ho nascosto la malattia, la seconda non riuscivo ad ammettere a me stessa di esservi precipitata di nuovo dentro. Se ne sono accorti gli altri prima di me. Cosa ci sta alla base di tutto? La mia insicurezza, il mio voler essere troppo perfezionista. Chi cerca di stare sempre al meglio e fare il meglio, a un certo punto si perde, e la sua vita si riduce a niente, ci si sente la causa diretta di tutto quello che avviene intorno. E´ quello che è successo a me.
L´anoressia afferra quelle persone che si caricano sulle spalle tutte le responsabilità del mondo. Inizia così la presa di coscienza della propria estrema fragilità , poi iniziano le ossessioni , ci si vede grasse. Scattano anche meccanismi distruttivi: il desiderio più forte diventa volersi annullare, scomparire, morire. (...)
Quali sono i miei desideri oggi? Ho voglia di fare nuove esperienze, di volare libera sopra ogni schema, di riuscire finalmente a godermi le cose semplici della vita. Un fidanzato? Mhhh, certo mi piacerebbe trovare una persona che mi possa far innamorare della vita, ma non è ancora una priorità. Ma sono troppo stanca. Ho paura di arrendermi.
Mi sento divisa in due: una parte di me vuole andare avanti e un´altra le rema contro. E´ una lotta continua. Nei momenti peggiori cerco di far affiorare alla mente le cose semplici della mia vita, creandomi un habitat favorevole per non crollare. Dico a me stessa: "Combatti, abbi il coraggio di combattere!". Ma questa volta la battaglia è più dura della prima volta. Vivo in uno stato di frustrazione logorante, sono io la causa di questo male. Il mio rapporto con il cibo è sempre conflittuale, tant´è che i dottori sono molto arrabbiati con me, a volte mi minacciano, provano a mettermi in tensione. Io non so spiegare bene cosa succede in me… sono scattati dei meccanismi, mi sento come dentro un vortice, vivo una dipendenza. No, non c´è qualcosa che mi piacerebbe mangiare. Niente, niente di niente. Non riesco più a gioire del cibo. Tutti gli alimenti mi fanno paura. Perché?...Non lo so…(...)
A chi sta per entrare nel tunnel dell´anoressia vorrei dire di non perdere tempo, di chiedere subito aiuto agli insegnanti, agli amici, ai genitori. Per non soccombere è necessario guardare il proprio male dritto in faccia, senza nasconderlo, senza vergognarsi.