l’Unità 10.4.10 L’Ap pubblica una lettera del 1985 firmata dal futuro Papa contrario a rimuovere un sacerdote La Santa Sede smentisce: «Non coprì il caso». Benedetto XVI pronto ad incontrare le vittime Nuove accuse a Ratzinger «Coprì prete pedofilo Usa» Nuova accusa al Papa dall’Associated Press: nell'85 si oppose alla rimozione di un prete pedofilo. La Santa Sede: «Ratzinger non coprì il caso». Padre Lombardi: il pontefice disponibile ad incontrare le vittime. di Roberto Monteforte
«Il Papa è disponibile ad incontrare ancora le vittime degli abusi sessuali. Contro di lui insinuazioni infondate. Benedetto XVI indica rigore, merita rispetto». È la risposta del direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi alla campagna mediatica di questi giorni sullo scandalo dei preti pedofili che chiama in causa direttamente Benedetto XVI. Ma proprio ieri è arrivata un’altra bordata da parte dei media statunitensi. Nel 1985, anni prima di diventare Papa, il cardinale Joseph Ratzinger sconsigliò di ridurre allo stato laicale un sacerdote californiano, Stephen Kiesle, che aveva molestato minori. Lo scrive il Washington Post che riprendendo una notizia dell'Associated Press cita una lettera del 1985, firmata da Ratzinger, in cui si esprimevano preoccupazioni sugli effetti che la rimozione di un prete avrebbe avuto «per il bene della chiesa universale». Secondo l’agenzia Ap, la corrispondenza di cui è in possesso «rappresenta la sfida finora più forte all'insistenza che Ratzinger, l'attuale Papa Benedetto XVI, non giocò alcun ruolo nel blocco della rimozione dei preti pedofili quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede». La lettera citata sarebbe parte di anni di corrispondenza tra la Diocesi di Oakland e il Vaticano sull'opportunità di ridurre allo stato laicale padre Stephen Kiesle. Pronta la replica della Santa Sede: l’allora cardinale Ratzinger «non coprì il caso» del giovane prete, ma chiese solo di studiarlo con «maggiore attenzione» per il «bene di tutte le persone coinvolte», ha detto padre Ciro Benedettini, vicedirettore della Sala Stampa Vaticana, puntualizzando che nell’85 l’eventuale rimozione dall’incarico di un sacerdote era di competenza del vescovo locale e non della Congregazione per la Dottrina della fede. Kiesle, che era già stato condannato da un tribunale Usa nel ‘78 per atti osceni e molestie, fu comunque ridotto allo stato laicale due anni più tardi, nell’87. E nel 2002 venne di nuovo arrestato per molestie sessuali e condannato a sei anni di prigione nel 2004.
PROCESSI AI COLPEVOLI
Nel suo editoriale per Radio Vaticana, padre Lombardi affronta le polemiche di questi giorni, ma non questa ultima critica. Ricorda la pazienza con la quale ha affrontato lo «stillicidio di rivelazioni parziali o presunte». La linea è quella indicata con la lettera ai cattolici d’Irlanda. In primo luogo continuare a «cercare la verità e la pace per gli offesi». Il portavoce vaticano conferma la disponibilità del Papa «a nuovi incontri con le vittime» da tenersi «nel rispetto delle persone e alla ricerca della pace», «in un clima di serenità e riservatezza». Nella sua nota padre Lombardi richiama l’attenzione delle Chiese locali all’esigenza di assicurare giustizia, applicando con rigore, per le parti di loro competenza, le norme di diritto canonico, e collaborando per il resto, per gli aspetti penali e civili, con la magistratura. Quindi annuncia che le «linee guida» della Santa Sede su come affrontare il problema saranno da tutti consultabili sul sito web del Vaticano.
IL CASO CANADESE
Intanto continuano gli attestati di affetto al Pontefice. Dai vescovi scandinavi all’arcivescovo di Perugia, monsignor Bassetti che sottolinea il coraggio del Papa e l’amore della verità che «non teme l’oltraggio e la derisione». Si allunga anche l’elenco dei preti coinvolti in casi di abusi. Ieri si è aggiunto monsignore Bernard Prince, un religioso canadese che ha avuto incarichi in Vaticano che Ratzinger «spretò». Si fanno sentire anche le vittime. Una decina di «abusati» maltesi sarà in piazza il prossimo 16 e 17 aprile in coincidenza con la visita del Papa.
l’Unità 10.4.10 Perizia a pagamento Ecco come Sacred Path ha cercato di «ripulirsi» Agli atti del processo un documento che dimostra come i seguaci di «Arkeon» nel 2006 hanno pagato 30mila euro per uno studio sulla propria associazione con lo scopo di dimostrarsi virtuosi al Centro internazionale studi sulla famiglia di Giovanni Maria Bellu
Trentamila euro. Era la fine di dicembre del 2006. E i seguaci del “metodo Arkeon” decisero di investire la bella cifra per pagare uno studio su “Sacred path” la loro associazione al “Centro internazionale studi sulla famiglia”, il prestigioso istituto di ricerca cattolico dei padri paolini. Un tentativo estremo di riaccreditarsi come organizzazione virtuosa e riconosciuta dalla chiesa quando era già in pieno svolgimento l’inchiesta per associazione a delinquere, truffa, maltrattamenti di minori. I reati dei quali sono accusati il capo di "Sacred path", Vito Carlo Moccia e altri undici imputati nel processo in corso davanti al tribunale di Bari.
L’investimento degli arkeoniani per questo studio su se stessi risulta da un documento agli atti del processo ed è confermato dal fatto che davvero il Cisf, tra il dicembre del 2006 e il febbraio del 2007, condusse un’indagine su “alcuni aspetti dell’esperienza Arkeon”. Elaborò anche un “rapporto finale” cautamente favorevole all’associazione. Si tratta di dieci paginette precedute da un avvertimento che suona come un mettere le mani avanti: «Tutto il materiale è stato fornito da Arkeon o è stato realizzato con il suo supporto tecnico. La disponibilità e l’apertura totale dimostrate da tutte le persone di Arkeon implicate nella ricerca sono state pronte e totali, ed hanno consentito un lavoro rapido e, a noi pare, proficuo». Segue un’esposizione fredda del materiale esaminato e di quanto i ricercatori hanno potuto ricavare dalla partecipazione a due dei “seminari” per i discepoli del “primo livello”. La parte più rilevante (e forse l'unica ragione che spinse “Sacred path” a spendere trentamila euro) è nelle ultime righe. Si danno delle indicazioni su come andare avanti nel “lavoro di revisione”. In definitiva si riapre un credito condizionato. È stata poi la magistratura a impedirne l’utilizzo.
Il rapporto del Cisf conferma che l’associazione di Vito Carlo Moccia ha continuato ad avere protezioni importanti e autorevoli anche quando erano emerse pubblicamente notizie molto gravi. Come se, per i suoi sponsor all’interno della Chiesa, fosse impossibile un distacco netto e definitivo.
Nella lettera che pubblichiamo in questa pagina, padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, conferma integralmente le notizie che abbiamo riportato. Anche il fatto di aver ricevuto la segnalazione di “specifiche tragedie familiari” prodotte dal metodo Arkeon e di averle segnalate a Moccia, cioè al presunto responsabile delle menzionate tragedie. Aggiunge, padre Cantalamessa, di non essersi mai interessato «di quel che accadeva nell’Associazione e intorno all' Associazione». Purtroppo ancora una volta i documenti lo smentiscono.
È una storia e delicata e complicata, converrà ancora una volta andare con ordine.
E prima di tutto bisogna dire che padre Cantalamessa non è l’unico uomo di Chiesa ad aver sostenuto “Sacred path”. Ce n’è almeno un altro. Si chiama Angelo De Simone ed è un sacerdote paolino oltre che un teologo. Fu lui, nel 2004, il primo a dare risalto al metodo Arkeon con un articolo nel quale Vito Carlo Moccia, che tra l’altro è anche accusato di esercizio abusivo della professione, veniva presentato come un genio pluridisciplinare universalmente conosciuto e stimato. Eccone un passo. «Un tempo Vito Carlo era imprenditore nel campo della bioingegneria, realizzato economicamente e riconosciuto nel mondo. Anni fa anch’egli scendeva nel “proprio inferno” prendendo coscienza della solitudine esistenziale che lo investiva. Andò alla ricerca di risposte nelle vie intellettuali, si laureò in antropologia e psicologia, cercò nei percorsi psicanalitici e psicoterapeutici, nelle tradizioni orientali, nella pratica della meditazione, fino a scoprire la via del ritorno al padre».
Un identikit che stride in modo sinistro con quanto si legge nel decreto di rinvio a giudizio: «Il Moccia si presentava come laureato alla Jolla University di San Diego e laureato in psicologia e pedagogia presso l’università statale di Fiume, titoli inesistenti e comunque non validi in Italia».
Don Angelo De Simone partecipava ai sinistri rituali dell’associazione. Celebrava gli strani matrimoni che servivano a sancire la riconciliazione di coppie peraltro già sposate, predicava tra icone di Gesù Cristo e foto di Vito Carlo Moccia. Esiste in merito un’abbondantissima, e francamente penosa, documentazione di video e di foto che lo prova.
Era, don De Simone, molto vicino a “Sacred path”. E quando apparve accanto al capo supremo in una puntata di “Mi manda Rai 3” del dicembre del 2006, i telespettatori, e anche il conduttore, ebbero la netta impressione che ne facesse parte. Per la veemenza con cui ne sosteneva le improbabili ragioni.
Ma era anche molto legato a padre Cantalamessa. Assieme celebrarono, il 20 gennaio del 2006 (cioè dopo che Canale 5, con Maurizio Costanzo, aveva per la prima volta segnalato la pericolosità del metodo Arkeon) una messa nella chiesa milanese di S. Eustorgio (altra circostanza che padre Cantalamessa conferma nella sua lettera e che noi documentiamo con una nuova immagine dove è possibile riconoscere, accanto a Moccia e al predicatore apostolico che si abbracciano, il teologo paolino di Arkeon).
Insomma, è davvero difficile fare stare assieme questo «non interessamento» verso ciò che accadeva «nell’Associazione e intorno all’Associazione», con la frequentazione di don De Simone. A meno che questi non abbia nascosto qualcosa. Chissà, Di sicuro, dai documenti, emerge che padre Cantalamessa era informato proprio da don De Simone dell’attività di Moccia e dei suoi seguaci. Ecco cosa scrisse (il 24 marzo del 2006) nella lettera di risposta a un signore che gli aveva segnalato una di quelle «specifiche tragedie familiari» di cui ora riconosce di aver avuto notizia: «Un sacerdote che li segue da tempo, don Angelo De Simone, paolino, che può contattare se vuole (seguiva il numero di cellulare, nda) può testimoniare di quanti battesimi, prime comunioni e confessioni ha personalmente amministrato nel contesto dei seminari guidati da Vito».❖
l’Unità 10.4.10 Il premier israeliano manda un vice a Washington per il vertice sulla sicurezza atomica Dietro il gesto il timore di critiche sui propri arsenali e il gelo con Barack sugli insediamenti Netanyahu diserta il summit Usa Schiaffo a Obama sul nucleare Aveva il timore di essere messo sul banco degli imputati. Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preferito rinunciare ad essere presente al summit sul nucleare di Washington. Gli Usa ne prendono atto. di Umberto De Giovannangeli
Quella sedia resterà vuota. Ed è un’assenza pesante. Non è stato facile. Ma alla fine il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha deciso che non prenderà parte al vertice per la sicurezza nucleare organizzato a Washington dal presidente Barack Obama nei giorni 12-13 aprile.
SMACCO PER BIBI
La delegazione israeliana sarà guidata dal vicepremier e ministro per le questioni strategiche Dan Meridor (Likud) ed includerà il Consigliere per la sicurezza nazionale Uzi Arad e il direttore generale della Commissione per l'energia atomica Shaul Chorev. Nel tentativo di spiegare i tentennamenti del premier, il quotidiano filo-governativo Israele ha-Yom rileva che da un lato la minaccia del terrorismo nucleare e le misure globali da adottare per sventarlo sono temi a lui molto cari. Ma d'altra parte questi ha temuto che la sua presenza ai lavori avrebbe potuto favorire pressioni da parte di Paesi che da tempo insistono per costringere Israele a sottoporre le proprie installazioni atomiche a controlli internazionali. In un primo momento gli organizzatori americani avevano garantito a Netanyahu che una eventualità del genere non si sarebbe concretizzata. Ma l’altro ieri Arad ha appreso che Paesi come Egitto, Giordania e Turchia vorrebbero distanziarsi dai temi originali della conferenza per avanzare richieste nei confronti di Israele. Uno sviluppo che, secondo il giornale, «ha contrariato» Netanyahu. Da qui la decisione di abbassare il profilo della delegazione israeliana. La decisione è stata presa confermano funzionari citati da Haaretz nel timore che un gruppo di Paesi guidati da Egitto e Turchia chieda che Israele aderisca al Trattato di Non Proliferazione Nucleare. «Negli ultimi giorni aggiungono . siamo stati informati dell'intenzione di diversi stati partecipanti di deviare dal tema principale della lotta al terrorismo e usare l'evento per pungolare Israele sul TNP».
CONTRASTI POLITICI
Sullo sfondo di questi sviluppi ci sono anche i crescenti dissensi politici fra Stati Uniti ed Israele, manifestatisi il mese scorso durante un burrascoso tete-a-tete fra Obama e Netanyahu. Secondo Liz Cheney, la figlia dell'ex vicepresidente Dick Cheney, esponente della opposizione repubblicana, Obama sta giocando «un gioco spericolato» in Medio Oriente «continuando ad indebolire i legami con Israele»; dunque Netanyahu «ha fatto benissimo» ad annullare la visita a Washington. Dove, presumibilmente, sarebbe stato messo sotto pressione dai dirigenti del Dipartimento di Stato. Le richieste politiche di Obama da Israele sono stringenti e il governo Netanyahu ancora non ha elaborato risposte adeguate. Ben Caspit, un analista di Maariv, così sintetizza il dilemma del premier: «Accettarle significa innescare un crisi di governo. Respingerle, vuole dire andare a un confronto con Washigton».
Il nodo principale sono i progetti edili ebraici di Gerusalemme Est che, secondo Obama, vanno congelati. Ma anche la richiesta di includere le questioni chiave del conflitto già in negoziati indiretti con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) mediati dagli Stati Uniti risulta indigesta a Netanyahu. Israele ha peraltro reagito negativamente a fughe di notizie relative a un piano di pace che Obama intenderebbe imporre a israeliani e a palestinesi, in assenza di soluzioni migliori. Tali indiscrezioni peraltro, sono già state smentite dal consigliere per Sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale Jim Jones. Ma il «gelo» persiste tra Usa e Israele.❖
l’Unità 10.4.10 Il dogma e la forza di Moni Ovadia
Itelegiornali di ieri mattina riportavano la notizia che il primo ministro israeliano Nethaniau non parteciperà al prossimo meeting di Washington sul disarmo. La decisione è motivata dall’intenzione dei governi di Egitto e Turchia di mettere in discussione la posizione di Israele in merito al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Nethaniau trova inaccettabile persino che si discuta dell’arsenale atomico di Israele. Perché? Per ribadire il dogma della sicurezza. Questo dogma nato originariamente sul peso delle cinque guerre sostenute in soli sessant’anni di esistenza, sull’orrore attentati terroristici, sulle reiterate minacce di distruzione, ultima delle quali quella del farneticante Ahmadinedjad, è però diventato un manganello ideologico usato per affermare l’eccezione israeliana. Ovvero, in nome della sicurezza, a priori, il governo israeliano rivendica l’indiscutibile diritto ad agire in difformità del diritto internazionale e dei trattati multilaterali. Nethaniau continua a chiedere perentoriamente che all’Iran sia impedito a tutti i costi l’accesso all’arma nucleare ma dal canto suo non è disposto neppure a discutere dell’esistenza e della consistenza dell’arsenale nucleare israeliano. Con la stessa perentorietà dichiara unilateralmente e senza pudore che costruire a Gerusalemme est è come costruire a Tel Aviv in totale spregio delle risoluzioni dell’Onu. Questo atteggiamento arrogante, basato solo sul diritto della forza e sulla moral suasion rappresentata dalle tragedie subite dal popolo ebraico utilizzate come ricatto, è miope e autolesionista. Israele è nato nel seno della legalità internazionale con una memorabile votazione dell’Onu, chiesta e ottenuta, con esito favorevole, dai leader sionisti. Sputare sull’autorità delle Nazioni Unite e sulle sue risoluzioni è come sputare controvento e gettare discredito su se stessi.❖
l’Unità 10.4.10 Fuoco amico contro Darwin Polemiche Stavolta non sono i teorici del creazionismo o qualche esoterico a prendersela con il vecchio Charles: il filosofo Fodor e il neuroscienziato Piattelli Palmarini attaccano il motore stesso dell’evoluzione della specie di Pietro Greco
Idue autori tengono a precisarlo già nell’introduzione: siamo atei senza tentennamenti e il nostro attacco a Darwin o meglio, al neodarwinismo non ha nulla a che fare con il disegno intelligente e il creazionismo. La nostra è una critica naturalistica. Non ha nulla né di religioso né di esoterico. La nostra è una partita giocata tutta all’interno del dibattito scientifico. Inoltre, quello che proprio non ci va giù è che la spiegazione darwiniana, la selezione naturale, venga eletta da alcuni – come il filosofo Daniel Dennett o il biologo Richard Dawkins, a principio universale e applicata anche in campi – come la sociologia o la psicologia – con cui poco o nulla ha a che fare.
Queste sono le due premesse con cui il filosofo Jerry Fodor e il neuroscienziato Massimo Piattelli Palmarini aprono il libro Gli errori di Darwin, che dopo essere apparso negli Stati Uniti con il titolo What Darwin Got Wrong (Quello che Darwin ha sbagliato) viene ora proposto in italiano dall’editore Feltrinelli.
Sono premesse chiare. E largamente condivisibili. La prima perché non c’è alcun neocreazionismo: gli argomenti che Fodor e Piattelli Palmarini adducono non sono né teleologici (non esiste un scopo in natura) né tantomeno teologici (lo scopo non è dato da un dio), ma tutti interni al dibattito scientifico. La seconda perché è condivisa da molti darwiniani convinti: Stephen Jay Gould, per esempio, definiva «ultradarwinisti» coloro che come Dennett o Dawkins – cercano di estendere la teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale del più adatto ad ambiti diversi da quello dell’evoluzione biologica.
Ciò detto, il titolo del libro è inequivocabile e corrisponde al suo contenuto: un attacco a Darwin. Che, secondo Fodor e Piattelli Palmarini, ha commesso degli errori nel formulare la sua teoria dell’evoluzione biologica. Questi errori sono stati fatti propri e, anzi, ampliati dal «neodarwinismo», ovvero dalla riunificazione tra genetica ed evoluzionismo avvenuta intorno agli anni ’30 del secolo scorso. Non si tratta di errori marginali. Riguardano il motore stesso dell’evoluzione delle specie. Charles Darwin e i neodarwinisti individuano il motore principale ma, se badi bene, non l’unico – nella selezione naturale. Ovvero nel fatto che gli organismi più adatti a sopravvivere nell’ambiente hanno, statisticamente, un maggiore successo riproduttivo e trasmettono alla loro prole, con modificazioni, i loro caratteri genetici.
Questo processo individua essenzialmente due stadi: uno quasi tutto interno agli organismi, che consiste nel modo in cui si «genera la diversità» (ogni individuo è diverso da un altro) all’interno di un processo di sostanziale continuità (la trasmissione ereditaria, di padre in figlio, dei caratteri genetici). Per Darwin e i neodarwinisti il generatore di diversità (individuato essenzialmente nelle mutazioni genetiche) è certo influenzato da vincoli ambientali e strutturali, ma nella sua sostanza è casuale.
Il secondo stadio quello della vera e propria selezione naturale del più adatto vede invece il protagonismo assoluto dell’ambiente, che premia in media le capacità riproduttive degli organismi portatori dei caratteri adattativi migliori e punisce i portatori di caratteri adattativi peggiori. Sebbene avvenga su basi statistiche e non deterministiche, si tratta di una selezione necessaria. Non a caso Jacques Monod aveva sintetizzato la spiegazione darwiniana nel combinato disposto di «caso e necessità».
Bene, Fodor e Piattelli Palmarini, confutano le basi di questo processo. Sia perché sostengono che il generatore di diversità degli organismi viventi non è sostanzialmente casuale, ma, al contrario, è sostanzialmente determinato. Da che cosa? Dalle leggi fisiche e chimiche dell’auto-organizzazione della materia, che operano a ogni livello: dal-
la formazione delle galassie alla formazione, appunto, delle cellule e degli organismi. Questa capacità della materia è così forte da annullare o meglio da rendere del tutto marginale anche il secondo stadio del processo darwiniano: la selezione naturale. Ad affermarsi sono gli organismi e le specie dotate di maggiore stabilità intrinseca: l’ambiente non seleziona nulla, o seleziona poco.
La critica al darwinismo e alla moderna teoria sintetica non è nuova. È da almeno un secolo da sir D’Arcy Thompson in poi che molti hanno studiato i fattori morfogenetici e, più in generale, strutturali che condizionano pesantemente che determinano la forma e, dunque, anche le funzioni degli organismi e delle loro singole parti. Negli ultimi anni si è visto come questi vicoli strutturali siano davvero operativi e a ogni livello, da quello macroscopico e quello genetico. È nata persino una nuova disciplina, l’Evo-Devo (evolutionary development, sviluppo evolutivo), che studia come i fattori strutturali concorrano all’evoluzione biologica.
IL RUOLO DELL’AMBIENTE
Concorrano, appunto. Ma non sostituiscono. Perché questo è il punto focale intorno a cui si snoda il ragionamento di Fodor e Piattelli Palmarini: le leggi dell’auto-organizzazione della materia sono così forti e potenti da annullare di fatto il ruolo dell’ambiente e la selezione naturale del più adatto come motore dell’evoluzione? Fodor e Piattelli Palmarini sostengono di sì. Ancora una volta, non sono i primi. In anni recenti hanno cerato di farlo diversi studiosi – da Brian Goodwin a Stuart Kauffman, per citare i più famosi anche al grande pubblico. E tuttavia non ci sono riusciti. Sia Goodwin sia Kauffman hanno tentato di trovare una teoria scientifica alternativa a quella darwiniana. Ma quella teoria, come riconoscono anche Fodor e Piattelli Palmarini, Non c’è. Se gli errori di Darwin esistono, quelli degli altri sono superiori.
Ma esistono questi errori? No. O, in ogni caso, non sono decisivi. Nessuno dubita che il processo che «genera diversità» sia complesso e determinato da molti fattori, inclusi quelli strutturali. Nessuno dubita che dietro il caso si celi non l’alea, ma una serie di meccanismi fisici, chimici e biologici che semplicemente ignoriamo. Nessuno dubita che la selezione non sia solo adattativa. Darwin stesso sosteneva che la selezione naturale è il principale, ma non l’unico meccanismo di selezione. E tuttavia è davvero difficile sostenere che l’ambiente non abbia alcun ruolo nell’evoluzione biologica. Semmai sono da ricostruire le svariate forme con cui l’ambiente opera la selezione.
In altri termini, nessuno dei nuovi processi finora scoperti è in grado di minare il neodarwinismo. Tutti possono essere facilmente integrati nella teoria naturalistica che Charles Darwin ha proposto per spiegare i fatti noti dell’evoluzione biologica.●
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 10 aprile 2010
l’Unità 10.4.10
L’Ap pubblica una lettera del 1985 firmata dal futuro Papa contrario a rimuovere un sacerdote
La Santa Sede smentisce: «Non coprì il caso». Benedetto XVI pronto ad incontrare le vittime
Nuove accuse a Ratzinger
«Coprì prete pedofilo Usa»
Nuova accusa al Papa dall’Associated Press: nell'85 si oppose alla rimozione di un prete pedofilo. La Santa Sede: «Ratzinger non coprì il caso». Padre Lombardi: il pontefice disponibile ad incontrare le vittime.
di Roberto Monteforte
«Il Papa è disponibile ad incontrare ancora le vittime degli abusi sessuali. Contro di lui insinuazioni infondate. Benedetto XVI indica rigore, merita rispetto». È la risposta del direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi alla campagna mediatica di questi giorni sullo scandalo dei preti pedofili che chiama in causa direttamente Benedetto XVI. Ma proprio ieri è arrivata un’altra bordata da parte dei media statunitensi. Nel 1985, anni prima di diventare Papa, il cardinale Joseph Ratzinger sconsigliò di ridurre allo stato laicale un sacerdote californiano, Stephen Kiesle, che aveva molestato minori. Lo scrive il Washington Post che riprendendo una notizia dell'Associated Press cita una lettera del 1985, firmata da Ratzinger, in cui si esprimevano preoccupazioni sugli effetti che la rimozione di un prete avrebbe avuto «per il bene della chiesa universale». Secondo l’agenzia Ap, la corrispondenza di cui è in possesso «rappresenta la sfida finora più forte all'insistenza che Ratzinger, l'attuale Papa Benedetto XVI, non giocò alcun ruolo nel blocco della rimozione dei preti pedofili quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede». La lettera citata sarebbe parte di anni di corrispondenza tra la Diocesi di Oakland e il Vaticano sull'opportunità di ridurre allo stato laicale padre Stephen Kiesle. Pronta la replica della Santa Sede: l’allora cardinale Ratzinger «non coprì il caso» del giovane prete, ma chiese solo di studiarlo con «maggiore attenzione» per il «bene di tutte le persone coinvolte», ha detto padre Ciro Benedettini, vicedirettore della Sala Stampa Vaticana, puntualizzando che nell’85 l’eventuale rimozione dall’incarico di un sacerdote era di competenza del vescovo locale e non della Congregazione per la Dottrina della fede. Kiesle, che era già stato condannato da un tribunale Usa nel ‘78 per atti osceni e molestie, fu comunque ridotto allo stato laicale due anni più tardi, nell’87. E nel 2002 venne di nuovo arrestato per molestie sessuali e condannato a sei anni di prigione nel 2004.
PROCESSI AI COLPEVOLI
Nel suo editoriale per Radio Vaticana, padre Lombardi affronta le polemiche di questi giorni, ma non questa ultima critica. Ricorda la pazienza con la quale ha affrontato lo «stillicidio di rivelazioni parziali o presunte». La linea è quella indicata con la lettera ai cattolici d’Irlanda. In primo luogo continuare a «cercare la verità e la pace per gli offesi». Il portavoce vaticano conferma la disponibilità del Papa «a nuovi incontri con le vittime» da tenersi «nel rispetto delle persone e alla ricerca della pace», «in un clima di serenità e riservatezza». Nella sua nota padre Lombardi richiama l’attenzione delle Chiese locali all’esigenza di assicurare giustizia, applicando con rigore, per le parti di loro competenza, le norme di diritto canonico, e collaborando per il resto, per gli aspetti penali e civili, con la magistratura. Quindi annuncia che le «linee guida» della Santa Sede su come affrontare il problema saranno da tutti consultabili sul sito web del Vaticano.
IL CASO CANADESE
Intanto continuano gli attestati di affetto al Pontefice. Dai vescovi scandinavi all’arcivescovo di Perugia, monsignor Bassetti che sottolinea il coraggio del Papa e l’amore della verità che «non teme l’oltraggio e la derisione». Si allunga anche l’elenco dei preti coinvolti in casi di abusi. Ieri si è aggiunto monsignore Bernard Prince, un religioso canadese che ha avuto incarichi in Vaticano che Ratzinger «spretò». Si fanno sentire anche le vittime. Una decina di «abusati» maltesi sarà in piazza il prossimo 16 e 17 aprile in coincidenza con la visita del Papa.
l’Unità 10.4.10
Perizia a pagamento
Ecco come Sacred Path ha cercato di «ripulirsi»
Agli atti del processo un documento che dimostra come i seguaci di «Arkeon» nel 2006 hanno pagato 30mila euro per uno studio sulla propria associazione con lo scopo di dimostrarsi virtuosi al Centro internazionale studi sulla famiglia
di Giovanni Maria Bellu
Trentamila euro. Era la fine di dicembre del 2006. E i seguaci del “metodo Arkeon” decisero di investire la bella cifra per pagare uno studio su “Sacred path” la loro associazione al “Centro internazionale studi sulla famiglia”, il prestigioso istituto di ricerca cattolico dei padri paolini. Un tentativo estremo di riaccreditarsi come organizzazione virtuosa e riconosciuta dalla chiesa quando era già in pieno svolgimento l’inchiesta per associazione a delinquere, truffa, maltrattamenti di minori. I reati dei quali sono accusati il capo di "Sacred path", Vito Carlo Moccia e altri undici imputati nel processo in corso davanti al tribunale di Bari.
L’investimento degli arkeoniani per questo studio su se stessi risulta da un documento agli atti del processo ed è confermato dal fatto che davvero il Cisf, tra il dicembre del 2006 e il febbraio del 2007, condusse un’indagine su “alcuni aspetti dell’esperienza Arkeon”. Elaborò anche un “rapporto finale” cautamente favorevole all’associazione. Si tratta di dieci paginette precedute da un avvertimento che suona come un mettere le mani avanti: «Tutto il materiale è stato fornito da Arkeon o è stato realizzato con il suo supporto tecnico. La disponibilità e l’apertura totale dimostrate da tutte le persone di Arkeon implicate nella ricerca sono state pronte e totali, ed hanno consentito un lavoro rapido e, a noi pare, proficuo». Segue un’esposizione fredda del materiale esaminato e di quanto i ricercatori hanno potuto ricavare dalla partecipazione a due dei “seminari” per i discepoli del “primo livello”. La parte più rilevante (e forse l'unica ragione che spinse “Sacred path” a spendere trentamila euro) è nelle ultime righe. Si danno delle indicazioni su come andare avanti nel “lavoro di revisione”. In definitiva si riapre un credito condizionato. È stata poi la magistratura a impedirne l’utilizzo.
Il rapporto del Cisf conferma che l’associazione di Vito Carlo Moccia ha continuato ad avere protezioni importanti e autorevoli anche quando erano emerse pubblicamente notizie molto gravi. Come se, per i suoi sponsor all’interno della Chiesa, fosse impossibile un distacco netto e definitivo.
Nella lettera che pubblichiamo in questa pagina, padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, conferma integralmente le notizie che abbiamo riportato. Anche il fatto di aver ricevuto la segnalazione di “specifiche tragedie familiari” prodotte dal metodo Arkeon e di averle segnalate a Moccia, cioè al presunto responsabile delle menzionate tragedie. Aggiunge, padre Cantalamessa, di non essersi mai interessato «di quel che accadeva nell’Associazione e intorno all' Associazione». Purtroppo ancora una volta i documenti lo smentiscono.
È una storia e delicata e complicata, converrà ancora una volta andare con ordine.
E prima di tutto bisogna dire che padre Cantalamessa non è l’unico uomo di Chiesa ad aver sostenuto “Sacred path”. Ce n’è almeno un altro. Si chiama Angelo De Simone ed è un sacerdote paolino oltre che un teologo. Fu lui, nel 2004, il primo a dare risalto al metodo Arkeon con un articolo nel quale Vito Carlo Moccia, che tra l’altro è anche accusato di esercizio abusivo della professione, veniva presentato come un genio pluridisciplinare universalmente conosciuto e stimato. Eccone un passo. «Un tempo Vito Carlo era imprenditore nel campo della bioingegneria, realizzato economicamente e riconosciuto nel mondo. Anni fa anch’egli scendeva nel “proprio inferno” prendendo coscienza della solitudine esistenziale che lo investiva. Andò alla ricerca di risposte nelle vie intellettuali, si laureò in antropologia e psicologia, cercò nei percorsi psicanalitici e psicoterapeutici, nelle tradizioni orientali, nella pratica della meditazione, fino a scoprire la via del ritorno al padre».
Un identikit che stride in modo sinistro con quanto si legge nel decreto di rinvio a giudizio: «Il Moccia si presentava come laureato alla Jolla University di San Diego e laureato in psicologia e pedagogia presso l’università statale di Fiume, titoli inesistenti e comunque non validi in Italia».
Don Angelo De Simone partecipava ai sinistri rituali dell’associazione. Celebrava gli strani matrimoni che servivano a sancire la riconciliazione di coppie peraltro già sposate, predicava tra icone di Gesù Cristo e foto di Vito Carlo Moccia. Esiste in merito un’abbondantissima, e francamente penosa, documentazione di video e di foto che lo prova.
Era, don De Simone, molto vicino a “Sacred path”. E quando apparve accanto al capo supremo in una puntata di “Mi manda Rai 3” del dicembre del 2006, i telespettatori, e anche il conduttore, ebbero la netta impressione che ne facesse parte. Per la veemenza con cui ne sosteneva le improbabili ragioni.
Ma era anche molto legato a padre Cantalamessa. Assieme celebrarono, il 20 gennaio del 2006 (cioè dopo che Canale 5, con Maurizio Costanzo, aveva per la prima volta segnalato la pericolosità del metodo Arkeon) una messa nella chiesa milanese di S. Eustorgio (altra circostanza che padre Cantalamessa conferma nella sua lettera e che noi documentiamo con una nuova immagine dove è possibile riconoscere, accanto a Moccia e al predicatore apostolico che si abbracciano, il teologo paolino di Arkeon).
Insomma, è davvero difficile fare stare assieme questo «non interessamento» verso ciò che accadeva «nell’Associazione e intorno all’Associazione», con la frequentazione di don De Simone. A meno che questi non abbia nascosto qualcosa. Chissà, Di sicuro, dai documenti, emerge che padre Cantalamessa era informato proprio da don De Simone dell’attività di Moccia e dei suoi seguaci. Ecco cosa scrisse (il 24 marzo del 2006) nella lettera di risposta a un signore che gli aveva segnalato una di quelle «specifiche tragedie familiari» di cui ora riconosce di aver avuto notizia: «Un sacerdote che li segue da tempo, don Angelo De Simone, paolino, che può contattare se vuole (seguiva il numero di cellulare, nda) può testimoniare di quanti battesimi, prime comunioni e confessioni ha personalmente amministrato nel contesto dei seminari guidati da Vito».
il Fatto 10.4.10
Chiesa, silenzio colpevole
Ratzinger e Wojtyla tra reato e peccato
Le gerarchie della Chiesa hanno imposto il segreto ai prelati su tutto ciò che avesse a che fare con casi di pedofilia ecclesiastica
di Paolo Flores d’Arcais
Due Papi sono responsabili per tutti i crimini che non sono stati denunciati: molti non sarebbero stati perpetrati se i precedenti fossero stati sanzionati
CINQUE ANNI FA durante la solenne Via Crucis del venerdì santo al Colosseo, Joseph Ratzinger esclamava: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Cristo!”. In questi giorni ci è stato ripetuto che la “sporcizia” di cui si scandalizzava Ratzinger era proprio quella dei sacerdoti pedofili, a dimostrazione che la Chiesa gerarchica già allora (solo cinque anni fa, comunque) non aveva alcuna intenzione di “insabbiare”. Ma quanta di tale “sporcizia” è stata da Ratzinger realmente denunciata? Denunciata, vogliamo dire, nell’unico modo in cui si denuncia un crimine, perché sia fermato e non possa essere reiterato: ai magistrati dei diversi Paesi. Quanti di quei sacerdoti pedofili? Nessuno e mai. Non nascondiamoci perciò dietro un dito. La copertura che è stata data per anni (anzi decenni) a migliaia di preti pedofili sparsi in tutto il mondo, non denunciandoli alle autorità giudiziarie, garantendo perciò ai colpevoli un’impunità che ha consentito loro di reiterare lo stupro su decine di migliaia di minorenni (talora handicappati), chiama direttamente e personalmente in causa la responsabilità di Joseph Ratzinger e di Karol Wojtyla. Se responsabilità morale o anche giuridica, lo decideranno tra breve alcuni tribunali americani. La responsabilità morale è comunque evidenziata dagli stessi documenti che l’Osservatore Romano (organo della Santa Sede) ha ripubblicato qualche giorno fa.
DECISIONE CONSAPEVOLE
Qui non stiamo infatti considerando i casi singoli di “insabbiamento” anche nell’ambito della “giustizia” ecclesiastica, ormai accertati e riportati dalla stampa soprattutto americana e tedesca, e che vanno moltiplicandosi man mano che si allenta la cappa di omertà, paura e rassegnazione. Ci riferiamo invece alla responsabilità diretta e personale dei due Pontefici per tutti i delitti di pedofilia ecclesiastica che non sono stati denunciati alle autorità civili, molti dei quali, ripetiamolo – mai come in questa circostanza orribile repetita juvant – non sarebbero mai stati perpetrati se casi precedenti fossero stati denunciati e sanzionati nei tribunali statali. La questione cruciale è infatti proprio questa: non la “Chiesa” in astratto, ma le sue gerarchie, e in particolare il Sommo Pontefice e il cardinal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, hanno imposto un obbligo tassativo a tutti i vescovi, sacerdoti, personale ausiliario ecc. sotto solenne giuramento sul Vangelo, di non rivelare se non ai propri superiori, e dunque di non far trapelare minimamente alle autorità civili, tutto ciò che avesse a che fare con casi di pedofilia ecclesiastica.
La confessione viene da loro stessi. L’Osservatore Romano ha ripubblicato il motu proprio di Giovanni Paolo II, che riservava al “Tribunale apostolico della Congregazione... il delitto contro la morale”, cioè“il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età”, e la “Istruzione” attuativa della Congregazione per la Dottrina della Fede, con queste inderogabili disposizioni: “Ogni volta che l’ordinario o il gerarca avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolto un’indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Tutte le “notitiae criminis” devono insomma affluire ai vertici, la Congregazione per la dottrina della Fede (Prefetto il cardinal Ratzinger, segretario monsignor Bertone) e il Papa. Sarà la congregazione a decidere se avocare a sé la causa oppure “comandare all’ordinario o al gerarca, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori accertamenti attraverso il proprio tribunale”. Papa e Prefetto, insomma, sono informati di tutto (sono anzi gli unici a sapere tutto) e sono loro, esclusivamente, ad avere l’ultima e la prima parola sulle procedure da seguire.
Decidano direttamente, per avocazione, o demandino il “processo” al Tribunale ecclesiastico diocesano, ovviamente la “pena” estrema (quasi mai comminata) è solo la riduzione allo stato laicale del sacerdote. In genere si limitato invece a spostare il sacerdote da una parrocchia all’altra. Dove ovviamente reitererà il suo crimine. “Pena” esclusivamente canonica, comunque. Nessuna denuncia deve invece esser fatta alle autorità civili. La Chiesa gerarchica si occuperà insomma del “peccato” (in genere con incredibile indulgenza) ma terrà segreto e coperto il “reato”. Che perciò resterà impunito. E potrà essere reiterato impunemente. Perché l’ordinanza della Congregazione, in ottemperanza al motu proprio del Papa, è imperativa e non lascia margini di scampo: “Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”. Di cosa si tratta? E’ spiegato in un documento vaticano del marzo 1974, una “Istruzione” emanata dall’allora segretario di Stato cardinale Jean Villot, seguendo le volontà espresse da Paolo VI in un’udienza ad hoc. Leggiamone i passi cruciali. “In taluni affari di maggiore importanza si richiede un particolare segreto, che viene chiamato segreto pontificio e che dev’essere custodito con obbligo grave... Sono coperti dal segreto pontificio...” e qui seguono numerosissimi casi, tra i quali due fattispecie in entrambe le quali rientrano i casi di pedofilia ecclesiastica. Il punto 4 (“le denunce extra-giudiziarie di delitti contro la fede e i costumi, e di delitti perpetrati contro il sacramento della penitenza, come pure il processo e la decisione riguardanti tali denunce”) e il punto 10 (“gli affari o le cause che il Sommo Pontefice, il cardinale preposto a un dicastero e i legati della Santa Sede considereranno di importanza tanto grave da richiedere il rispetto del segreto pontificio”).
Ancora più interessante il minuzioso elenco delle persone che “hanno l’obbligo di custodire il segreto pontificio”: “1) I cardinali, i vescovi, i prelati superiori, gli officiali maggiori e minori, i consultori, gli esperti e il personale di rango inferiore, cui compete la trattazione di questioni coperte dal segreto pontificio; 2) I legati della Santa Sede e i loro subalterni che trattano le predette questioni, come pure tutti coloro che sono da essi chiamati per consulenza su tali cause; 3) Tutti coloro ai quali viene imposto di custodire il segreto pontificio in particolari affari; 4) Tutti coloro che in modo colpevole, avranno avuto conoscenza di documenti e affari coperti dal segreto pontificio, o che, pur avendo avuto tale informazione senza colpa da parte loro, sanno con certezza che essi sono ancora coperti dal segreto pontificio”. Insomma, certosinamente tutti. Non c’è persona che possa direttamente o indirettamente entrare in contatto con tale “sporcizia” a cui sia concesso il benché minimo spiraglio per poter far trapelare qualcosa alle autorità civili e quindi fermare il colpevole. La “sporcizia” dovrà restare nelle “segrete del Vaticano”, pastoralmente protetta e resa inavvicinabile dalle curiosità troppo laiche di polizie e magistrati. L’impunità penale dei sacerdoti pedofili sarà di conseguenza assoluta e garantita. Per raggiungere questo obiettivo, che rovinerà la vita a migliaia di bambini e bambine, si esige anzi un giuramento dalla solennità sconvolgente.
IL SEGRETO
Recita l’istruzione: “Coloro che sono ammessi al segreto pontificio in ragione del loro ufficio devono prestar giuramento con la formula seguente: ‘Io... alla presenza di..., toccando con la mia mano i sacrosanti vangeli di Dio, prometto di custodire fedelmente il segreto pontificio nelle cause e negli affari che devono essere trattati sotto tale segreto, cosicché in nessun modo, sotto pretesto alcuno, sia di bene maggiore, sia di causa urgentissima e gravissima, mi sarà lecito violare il predetto segreto. Prometto di custodire il segreto, come sopra, anche dopo la conclusione delle cause e degli affari, per i quali fosse imposto espressamente tale segreto. Qualora in qualche caso mi avvenisse di dubitare dell’obbligo del predetto segreto, mi atterrò all’interpretazione a favore del egreto stesso. Parimenti sono cosciente che il trasgressore di tale segreto commette un peccato grave. Che mi aiuti Dio e mi aiutino questi suoi santi vangeli che tocco di mia mano”. Formula solenne e terribile, che davvero non ha bisogno di commenti. Dalle conseguenze tragiche e devastanti per migliaia di esistenze.
Tutte le Istruzioni di cui sopra sono ancora in vigore. Il giuramento ha funzionato. In questi giorni di aspre polemiche, infatti, la Chiesa gerarchica non ha potuto esibire un solo caso di sua denuncia spontanea alle autorità civili, con il quale avrebbe potuto rivendicare qualche episodio di non omertà e di “buona volontà”.
Il “buon nome” della Chiesa è venuto sempre prima, sulla pelle di migliaia di bambini e infangando e calpestando quel “sinite parvulos venire ad me” (Vulgata, Matteo 19,14) del Vangelo su cui si è fatta giurare questa raccapricciante congiura del silenzio. Sempre più testimonianze confermano anzi di una Chiesa gerarchica indaffarata per decenni a “troncare e sopire”, e anzi a negare l’evidenza (in una corte si chiamerebbe spergiuro) o a intimidire le vittime (in una corte si chiamerebbe ricatto o violenza) se qualche ex bambino ad anni di distanza trovava il coraggio di sporgere denuncia. I casi del genere ormai emersi sono talmente tanti che “il mio nome è Legione”, come dice lo “spirito immondo” di cui Marco, 5,9.
SQUADERNATA RESPONSABILITÀ
Di fronte a documenti ufficiali talmente “parlanti” si resta dunque allibiti che nessuno chieda ai vertici della Chiesa gerarchica, il Papa e il Prefetto della Congregazione per la Fede, ragione di tanta squadernata responsabilità. Monsignor Bertone, all’epoca della “Istruzione” di Ratzinger vescovo di Vercelli e segretario della Congregazione (il vice di Ratzinger, insomma, allora come oggi), in un’intervista del febbraio 2002 al mensile 30Giorni, ispirato da Comunione e Liberazione e diretto da Giulio Andreotti, si stracciava le vesti dall’indignazione all’idea che un vescovo potesse denunciare il sacerdote pedofilo alle autorità giudiziarie: al giornalista che si faceva eco delle ovvie preoccupazioni dei cittadini con un: “eppure si può pensare che tutto ciò che viene detto al di fuori della confessione non rientri nel ‘segreto professionale’ di un sacerdote...” rispondeva a muso duro: “Se un fedele non ha più nemmeno la possibilità di confidarsi liberamente, al di fuori della confessione, con un sacerdote... se un sacerdote non può fare lo stesso con il suo vescovo perché ha paura anche lui di essere denunciato... allora vuol dire che non c’è più libertà di coscienza”.
Libertà di coscienza, proprio così. Quella libertà di coscienza che il mondo moderno, grazie all’eroismo di spiriti eretici mandati puntualmente al rogo, e all’azione del vituperatissimo illuminismo, è riuscito a strappare contro Chiesa (che la giudicava pretesa diabolica), viene ora invocata per garantire l’impunità a migliaia di preti pedofili. Cosa si può dire di fronte a tanta... (lascio in sospeso il vocabolo, non sono riuscito a trovarne uno adeguato alla “cosa” e che rispetti il detto secondo cui “nomina sunt consequentia rerum”)?
Che senso ha, perciò, continuare a parlare di “propaganda grossolana contro il Papa e i cattolici” (l’Osservatore Romano), di “attacchi calunniosi e campagna diffamatoria” (idem), di “eclatante campagna diffamatoria” (Radio vaticana), di “furibonda fobia scatenata contro la Chiesa cattolica” (Joaquìn Navarro Vals), di “menzogna e violenza diabolica” (monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino), di “accuse menzognere” (cardinal Angelo Scola), di “accuse ignobili e false” (cardinal Carlo Maria Martini), e chi più ne ha più ne metta, visto che sono gli stessi documenti vaticani a confessare la linea di catafratto rifiuto della Chiesa gerarchica ad ogni ipotesi di denuncia dei colpevoli alle autorità giudiziarie secolari?
E si badi, il “Motu proprio” e l’“Istruzione” del 2001 segnano un momento considerato di maggiore severità di Santa Madre Chiesa nei confronti dei sacerdoti pedofili. Possiamo immaginarci cosa fosse prima.
LA MIGLIOR DIFESA
Davvero di fronte a questo scandalo la miglior difesa è l’attacco, come sembrano aver deciso i vertici vaticani? Punta di diamante di tale strategia è il cardinal Sodano, decano del Sacro Collegio, che sull’Osservatore Romano del 6-7 aprile tuona: “La comunità cristiana si sente giustamente ferita quando si tenta di coinvolgerla in blocco nelle vicende tanto gravi quanto dolorose di qualche sacerdote, trasformando colpe e responsabilità individuali in colpa collettiva con una forzatura veramente incomprensibile”. No cara eminenza, nessuno si sogna di coinvolgere in blocco la comunità cristiana, nemmeno nel più ristretto senso di comunità cattolica, qui si tratta solo della Chiesa gerarchica e delle sue massime autorità, che hanno imposto il silenzio del “segreto pontificio” e dunque impedito che le autorità statali mettessero i sacerdoti pedofili nella condizione di non nuocere. E poiché nel catechismo è scritto innumerevoli volte che si può peccare in modo equivalente “per atti o per omissioni”, vorrà convenire che attraverso questa omissione resa solenne e inderogabile attraverso il ”segreto pontificio”, il Papa e il cardinal Prefetto si sono resi responsabili (di certo moralmente) delle migliaia di crimini di pedofilia che sollecite denunce alle autorità statali avrebbero invece impedito. E’ purtroppo un dato di fatto acclarato che aver voluto trattare questi crimini semplicemente all’interno del diritto canonico, e nella maggior parte dei casi limitandosi oltretutto a spostare il sacerdote violentatore da una parrocchia all’altra, ha avuto il risultato di diffondere la peste pedofila. Tentare di corresponsabilizzare tutti i fedeli è anzi un “gioco sporco”, cara eminenza. Dubito che la grande maggioranza dei fedeli sapesse del “segreto pontificio” e delle sue implicazioni di dovere insuperabile del silenzio nei confronti di qualsiasi autorità esterna (polizie e magistrati) alle gerarchie ecclesiastiche. Dubito che se ne avesse avuto conoscenza avrebbe approvato l’idea che i nomi dei preti pedofili dovessero restare sepolti nelle “segrete del Vaticano” a tutela del “buon nome” della Chiesa.
QUALE CHIESA
In questa orribile vicenda non è in discussione la Chiesa nell’accezione di “popolo di Dio” o comunità dei fedeli. E’ in discussione, cara eminenza, solo, sempre ed esclusivamente la Chiesa gerarchica e i suoi vertici. Timothy Shriver, figlio di Eunice Kennedy, dunque esponente della più famosa famiglia cattolica d’America, dunque parte della Chiesa in quanto comunità dei credenti, ha pubblicato sul Washington Post un appello – da cattolico – in cui è detto senza mezzi termini: “Se questa Chiesa, con la sua attuale gerarchia, col suo Papa e i suoi vescovi, non saprà confessare la Verità; se continuerà a nascondere le proprie colpe, come Nixon lo scandalo Watergate; se si dimostrerà più votata al potere che a Dio, allora noi cattolici dovremo cercare altrove una guida spirituale”. Solo il 27% dei cattolici americani (la Chiesa nel senso del “popolo di Dio”), interpellati da un sondaggio della Cbs il 2 aprile, ha espresso un giudizio favorevole e di fiducia in Ratzinger e nei suoi vescovi (la Chiesa nel senso della Gerarchia).
Addirittura solo uno su cinque, sulla questione specifica dell’atteggiamento verso lo scandalo dei preti pedofili. Torniamo perciò al punto cruciale. Wojtyla e Ratzinger hanno preteso e imposto che i crimini di pedofilia venissero trattati solo come peccati, anziché come reati, o al massimo come “reati” di diritto canonico anziché reati da denunciare immediatamente alle autorità giudiziarie secolari. Queste omesse denunce sono responsabili di un numero imprecisato ma altissimo di violenze pedofile che altrimenti sarebbero state evitate. Se l’attuale regnante Pontefice ha davvero capito l’enormità della “sporcizia” e la necessità di contrastarla senza tentennamenti anche sul piano della giustizia terrena, può dimostrarlo in un modo assai semplice: abrogando immediatamente con Motu proprio le famigerate “Istruzioni” che fanno riferimento al “segreto pontificio” e sostituendolo con l’obbligo per ogni diocesi e ogni parrocchia di denunciare immediatamente alle autorità giudiziarie ogni caso di cui vengano a conoscenza. E spalancando gli archivi, consegnandoli a tutti i tribunali che ne facciano richiesta, visto che alcuni paesi hanno deciso di aprire per la denuncia del crimine una “finestra” di un anno per sottrarre alla prescrizione anche vicende lontane.
Se non avrà questa elementare coerenza, non si straccino le vesti il cardinal decano e tutti i cardinali del Sacro Collegio nell’anatema contro i credenti e i non credenti che insisteranno nel giudicare corrivo l’atteggiamento attualmente scelto.Tanto più che la Chiesa gerarchica, che in tal modo si rifiuterebbe di ordinare alle proprie diocesi la collaborazione per punire come reato il peccato di pedofilia dei suoi chierici e pastori, è la stessa che pretende di trasformare in reati, sanzionati dalle leggi dello Stato e relative punizioni, quelli che ritiene peccati (aborto, eutanasia, fecondazione eterologa, controllo artificiale delle nascite, ecc.), e che per tanti cittadini sono invece solo dei diritti, ancorché dolorosi o dolorosissimi.
l’Unità 10.4.10
Il premier israeliano manda un vice a Washington per il vertice sulla sicurezza atomica
Dietro il gesto il timore di critiche sui propri arsenali e il gelo con Barack sugli insediamenti
Netanyahu diserta il summit Usa Schiaffo a Obama sul nucleare
Aveva il timore di essere messo sul banco degli imputati. Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preferito rinunciare ad essere presente al summit sul nucleare di Washington. Gli Usa ne prendono atto.
di Umberto De Giovannangeli
Quella sedia resterà vuota. Ed è un’assenza pesante. Non è stato facile. Ma alla fine il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha deciso che non prenderà parte al vertice per la sicurezza nucleare organizzato a Washington dal presidente Barack Obama nei giorni 12-13 aprile.
SMACCO PER BIBI
La delegazione israeliana sarà guidata dal vicepremier e ministro per le questioni strategiche Dan Meridor (Likud) ed includerà il Consigliere per la sicurezza nazionale Uzi Arad e il direttore generale della Commissione per l'energia atomica Shaul Chorev. Nel tentativo di spiegare i tentennamenti del premier, il quotidiano filo-governativo Israele ha-Yom rileva che da un lato la minaccia del terrorismo nucleare e le misure globali da adottare per sventarlo sono temi a lui molto cari. Ma d'altra parte questi ha temuto che la sua presenza ai lavori avrebbe potuto favorire pressioni da parte di Paesi che da tempo insistono per costringere Israele a sottoporre le proprie installazioni atomiche a controlli internazionali. In un primo momento gli organizzatori americani avevano garantito a Netanyahu che una eventualità del genere non si sarebbe concretizzata. Ma l’altro ieri Arad ha appreso che Paesi come Egitto, Giordania e Turchia vorrebbero distanziarsi dai temi originali della conferenza per avanzare richieste nei confronti di Israele. Uno sviluppo che, secondo il giornale, «ha contrariato» Netanyahu. Da qui la decisione di abbassare il profilo della delegazione israeliana. La decisione è stata presa confermano funzionari citati da Haaretz nel timore che un gruppo di Paesi guidati da Egitto e Turchia chieda che Israele aderisca al Trattato di Non Proliferazione Nucleare. «Negli ultimi giorni aggiungono . siamo stati informati dell'intenzione di diversi stati partecipanti di deviare dal tema principale della lotta al terrorismo e usare l'evento per pungolare Israele sul TNP».
CONTRASTI POLITICI
Sullo sfondo di questi sviluppi ci sono anche i crescenti dissensi politici fra Stati Uniti ed Israele, manifestatisi il mese scorso durante un burrascoso tete-a-tete fra Obama e Netanyahu. Secondo Liz Cheney, la figlia dell'ex vicepresidente Dick Cheney, esponente della opposizione repubblicana, Obama sta giocando «un gioco spericolato» in Medio Oriente «continuando ad indebolire i legami con Israele»; dunque Netanyahu «ha fatto benissimo» ad annullare la visita a Washington. Dove, presumibilmente, sarebbe stato messo sotto pressione dai dirigenti del Dipartimento di Stato. Le richieste politiche di Obama da Israele sono stringenti e il governo Netanyahu ancora non ha elaborato risposte adeguate. Ben Caspit, un analista di Maariv, così sintetizza il dilemma del premier: «Accettarle significa innescare un crisi di governo. Respingerle, vuole dire andare a un confronto con Washigton».
Il nodo principale sono i progetti edili ebraici di Gerusalemme Est che, secondo Obama, vanno congelati. Ma anche la richiesta di includere le questioni chiave del conflitto già in negoziati indiretti con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) mediati dagli Stati Uniti risulta indigesta a Netanyahu. Israele ha peraltro reagito negativamente a fughe di notizie relative a un piano di pace che Obama intenderebbe imporre a israeliani e a palestinesi, in assenza di soluzioni migliori. Tali indiscrezioni peraltro, sono già state smentite dal consigliere per Sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale Jim Jones. Ma il «gelo» persiste tra Usa e Israele.❖
l’Unità 10.4.10
Il dogma e la forza
di Moni Ovadia
Itelegiornali di ieri mattina riportavano la notizia che il primo ministro israeliano Nethaniau non parteciperà al prossimo meeting di Washington sul disarmo. La decisione è motivata dall’intenzione dei governi di Egitto e Turchia di mettere in discussione la posizione di Israele in merito al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Nethaniau trova inaccettabile persino che si discuta dell’arsenale atomico di Israele. Perché? Per ribadire il dogma della sicurezza. Questo dogma nato originariamente sul peso delle cinque guerre sostenute in soli sessant’anni di esistenza, sull’orrore attentati terroristici, sulle reiterate minacce di distruzione, ultima delle quali quella del farneticante Ahmadinedjad, è però diventato un manganello ideologico usato per affermare l’eccezione israeliana. Ovvero, in nome della sicurezza, a priori, il governo israeliano rivendica l’indiscutibile diritto ad agire in difformità del diritto internazionale e dei trattati multilaterali. Nethaniau continua a chiedere perentoriamente che all’Iran sia impedito a tutti i costi l’accesso all’arma nucleare ma dal canto suo non è disposto neppure a discutere dell’esistenza e della consistenza dell’arsenale nucleare israeliano. Con la stessa perentorietà dichiara unilateralmente e senza pudore che costruire a Gerusalemme est è come costruire a Tel Aviv in totale spregio delle risoluzioni dell’Onu. Questo atteggiamento arrogante, basato solo sul diritto della forza e sulla moral suasion rappresentata dalle tragedie subite dal popolo ebraico utilizzate come ricatto, è miope e autolesionista. Israele è nato nel seno della legalità internazionale con una memorabile votazione dell’Onu, chiesta e ottenuta, con esito favorevole, dai leader sionisti. Sputare sull’autorità delle Nazioni Unite e sulle sue risoluzioni è come sputare controvento e gettare discredito su se stessi.❖
l’Unità 10.4.10
Fuoco amico contro Darwin
Polemiche Stavolta non sono i teorici del creazionismo o qualche esoterico a prendersela con il vecchio Charles: il filosofo Fodor e il neuroscienziato Piattelli Palmarini attaccano il motore stesso dell’evoluzione della specie
di Pietro Greco
Idue autori tengono a precisarlo già nell’introduzione: siamo atei senza tentennamenti e il nostro attacco a Darwin o meglio, al neodarwinismo non ha nulla a che fare con il disegno intelligente e il creazionismo. La nostra è una critica naturalistica. Non ha nulla né di religioso né di esoterico. La nostra è una partita giocata tutta all’interno del dibattito scientifico. Inoltre, quello che proprio non ci va giù è che la spiegazione darwiniana, la selezione naturale, venga eletta da alcuni – come il filosofo Daniel Dennett o il biologo Richard Dawkins, a principio universale e applicata anche in campi – come la sociologia o la psicologia – con cui poco o nulla ha a che fare.
Queste sono le due premesse con cui il filosofo Jerry Fodor e il neuroscienziato Massimo Piattelli Palmarini aprono il libro Gli errori di Darwin, che dopo essere apparso negli Stati Uniti con il titolo What Darwin Got Wrong (Quello che Darwin ha sbagliato) viene ora proposto in italiano dall’editore Feltrinelli.
Sono premesse chiare. E largamente condivisibili. La prima perché non c’è alcun neocreazionismo: gli argomenti che Fodor e Piattelli Palmarini adducono non sono né teleologici (non esiste un scopo in natura) né tantomeno teologici (lo scopo non è dato da un dio), ma tutti interni al dibattito scientifico. La seconda perché è condivisa da molti darwiniani convinti: Stephen Jay Gould, per esempio, definiva «ultradarwinisti» coloro che come Dennett o Dawkins – cercano di estendere la teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale del più adatto ad ambiti diversi da quello dell’evoluzione biologica.
Ciò detto, il titolo del libro è inequivocabile e corrisponde al suo contenuto: un attacco a Darwin. Che, secondo Fodor e Piattelli Palmarini, ha commesso degli errori nel formulare la sua teoria dell’evoluzione biologica. Questi errori sono stati fatti propri e, anzi, ampliati dal «neodarwinismo», ovvero dalla riunificazione tra genetica ed evoluzionismo avvenuta intorno agli anni ’30 del secolo scorso. Non si tratta di errori marginali. Riguardano il motore stesso dell’evoluzione delle specie. Charles Darwin e i neodarwinisti individuano il motore principale ma, se badi bene, non l’unico – nella selezione naturale. Ovvero nel fatto che gli organismi più adatti a sopravvivere nell’ambiente hanno, statisticamente, un maggiore successo riproduttivo e trasmettono alla loro prole, con modificazioni, i loro caratteri genetici.
Questo processo individua essenzialmente due stadi: uno quasi tutto interno agli organismi, che consiste nel modo in cui si «genera la diversità» (ogni individuo è diverso da un altro) all’interno di un processo di sostanziale continuità (la trasmissione ereditaria, di padre in figlio, dei caratteri genetici). Per Darwin e i neodarwinisti il generatore di diversità (individuato essenzialmente nelle mutazioni genetiche) è certo influenzato da vincoli ambientali e strutturali, ma nella sua sostanza è casuale.
Il secondo stadio quello della vera e propria selezione naturale del più adatto vede invece il protagonismo assoluto dell’ambiente, che premia in media le capacità riproduttive degli organismi portatori dei caratteri adattativi migliori e punisce i portatori di caratteri adattativi peggiori. Sebbene avvenga su basi statistiche e non deterministiche, si tratta di una selezione necessaria. Non a caso Jacques Monod aveva sintetizzato la spiegazione darwiniana nel combinato disposto di «caso e necessità».
Bene, Fodor e Piattelli Palmarini, confutano le basi di questo processo. Sia perché sostengono che il generatore di diversità degli organismi viventi non è sostanzialmente casuale, ma, al contrario, è sostanzialmente determinato. Da che cosa? Dalle leggi fisiche e chimiche dell’auto-organizzazione della materia, che operano a ogni livello: dal-
la formazione delle galassie alla formazione, appunto, delle cellule e degli organismi. Questa capacità della materia è così forte da annullare o meglio da rendere del tutto marginale anche il secondo stadio del processo darwiniano: la selezione naturale. Ad affermarsi sono gli organismi e le specie dotate di maggiore stabilità intrinseca: l’ambiente non seleziona nulla, o seleziona poco.
La critica al darwinismo e alla moderna teoria sintetica non è nuova. È da almeno un secolo da sir D’Arcy Thompson in poi che molti hanno studiato i fattori morfogenetici e, più in generale, strutturali che condizionano pesantemente che determinano la forma e, dunque, anche le funzioni degli organismi e delle loro singole parti. Negli ultimi anni si è visto come questi vicoli strutturali siano davvero operativi e a ogni livello, da quello macroscopico e quello genetico. È nata persino una nuova disciplina, l’Evo-Devo (evolutionary development, sviluppo evolutivo), che studia come i fattori strutturali concorrano all’evoluzione biologica.
IL RUOLO DELL’AMBIENTE
Concorrano, appunto. Ma non sostituiscono. Perché questo è il punto focale intorno a cui si snoda il ragionamento di Fodor e Piattelli Palmarini: le leggi dell’auto-organizzazione della materia sono così forti e potenti da annullare di fatto il ruolo dell’ambiente e la selezione naturale del più adatto come motore dell’evoluzione? Fodor e Piattelli Palmarini sostengono di sì. Ancora una volta, non sono i primi. In anni recenti hanno cerato di farlo diversi studiosi – da Brian Goodwin a Stuart Kauffman, per citare i più famosi anche al grande pubblico. E tuttavia non ci sono riusciti. Sia Goodwin sia Kauffman hanno tentato di trovare una teoria scientifica alternativa a quella darwiniana. Ma quella teoria, come riconoscono anche Fodor e Piattelli Palmarini, Non c’è. Se gli errori di Darwin esistono, quelli degli altri sono superiori.
Ma esistono questi errori? No. O, in ogni caso, non sono decisivi. Nessuno dubita che il processo che «genera diversità» sia complesso e determinato da molti fattori, inclusi quelli strutturali. Nessuno dubita che dietro il caso si celi non l’alea, ma una serie di meccanismi fisici, chimici e biologici che semplicemente ignoriamo. Nessuno dubita che la selezione non sia solo adattativa. Darwin stesso sosteneva che la selezione naturale è il principale, ma non l’unico meccanismo di selezione. E tuttavia è davvero difficile sostenere che l’ambiente non abbia alcun ruolo nell’evoluzione biologica. Semmai sono da ricostruire le svariate forme con cui l’ambiente opera la selezione.
In altri termini, nessuno dei nuovi processi finora scoperti è in grado di minare il neodarwinismo. Tutti possono essere facilmente integrati nella teoria naturalistica che Charles Darwin ha proposto per spiegare i fatti noti dell’evoluzione biologica.
il Fatto 10.4.10
La sinistra ha finito i soldi e licenzia i lavoratori
La triste storia di Rifondazione e Pdci
di Luca Telese
Da partiti che ambivano a rappresentare i cassintegrati, a partiti che finiscono per essere costituiti “da” cassintegrati. Non c’è, ovviamente, solo la differenza di un articolo, fra queste due condizioni, ma la storia di un passaggio di epoca, la radiografia di un drammatico terremoto politico. Stiamo parlando di Pdci e Rifondazione (ma anche dei Verdi), ovvero dei partiti che dopo le ultime elezioni sono diventati zombie, costretti a demolire il loro apparato, a dismettere i (pochi) gioielli di famiglia rimasti, a chiudere i giornali, ad alienare le sedi, e – soprattutto – a licenziare e prepensionare tutti i loro dipendenti, proprio come nei processi di deindustrializzazione che in questi anni hanno tenacemente combattuto. Colpa degli sbarramenti elettorali, prima di tutto: che colpiscono non solo la rappresentanza, ma solo in Italia anche il diritto a ottenere rimborsi. E colpa anche, come vedremo fra breve, della strategia di Silvio Berlusconi (ma pure del Pd), che ha mirato a fare terra bruciata di tutte le organizzazioni politiche che avevano popolato la Seconda Repubblica. Un fenomeno, quindi, che non può indurre al sorriso, o a facili battute, ma che deve essere anche letto qualunque cosa si pensi di questi partiti come una ulteriore restrizione degli spazi democratici.
NON PIU’ VIRTUOSI. Il nostro viaggio non può che partire dal Pdci di Oliviero Diliberto, che fino alla catastrofe elettorale della lista arcobaleno del 2008 era additato come modello di gestione economica persino da un analista non certo tenero come Gianmaria De Francesco, cronista economico de Il Giornale: apparato ridotto, conti in regola, rapporto virtuoso tra eletti, voti e militanti, che garantiva solidi attivi di bilancio. Ebbene, la notizia che in queste ore, per motivi comprensibili, si prova a mantenere segreta, è che il partito è ormai alla bancarotta. Sul conto corrente ci sono solo 160 mila euro, quelli che bastano a malapena a gestire l’amministrazione ordinaria. Dei 21 dipendenti 17 sono stati posti in cassa integrazione. Ne rimangono solo quattro, di cui uno per motivi legali è l’amministratore, l’altro è un centralinista, l’altro è il segretario del segretario, e l’ultimo un organizzatore, ovvero il presidio minimo per cui il cuore dell’organizzazione non cessi di battere all’istante. Ancora più drammatica la situazione di Rinascita, il settimanale che ai tempi di Armando Cossutta fu oggetto di una contesa per il valore della testata, prestigiosa e direttamente riconducibile alla memoria di Palmiro Togliatti. Ecco, adesso il settimanale del Pdci è tecnicamente fallito, ha cessato le pubblicazioni, e tutti i giornalisti sono stati anche loro cassintegrati. Rinascita, che non aveva mai perso il suo ridotto ma il solido presidio di lettori costava da solo 900 mila euro l’anno, un lusso per un partito che deve tagliare gli stipendi a tutti. Già la storia di questo tracollo economico spiega come ci sia lo zampino del governo. Il settimanale, infatti, era uno dei pochi organi di partito, tra quelli che hanno diritto al sovvenzionamento pubblico, che non copriva in modo surrettizio altri scopi o altri fini. Ma la norma con cui Tremonti ha tolto il cosiddetto “diritto soggettivo” al finanziamento ha di fatto reso discrezionale l’accesso ai fondi dell’editoria: mentre prima le banche anticipavano le cifre a cui il giornale avrebbe avuto in ogni caso diritto in base alla sua tiratura, adesso – non essendoci più nessuna certezza, visto che si combatte ad ogni Finanziaria sulla copertura delle quote – non fanno più nessun credito. Infine il doloroso capitolo del bilancio del partito. Ancora nel 2008 aveva quattro gettiti importanti: il tesseramento, il finanziamento pubblico, i rimborsi elettorali e le rimesse degli eletti locali e nazionali, che devolvevano il 50% del proprio stipendio netto al partito. Nelle ultime politiche e alle europee, il Pdci non ha superato il quorum del 4%. E in questo caso, per via di un liberticida emendamento alla legge voluto in Parlamento dai veltroniani (Berlusconi era incerto), né Rifondazione, né i Verdi, né il Pdci hanno ottenuto un solo centesimo. Un piccolo assurdo democratico: infatti, la quota dei voti che questi partiti ottengono contribuisce a finanziare i loro avversari politici di centrodestra, o i loro concorrenti di sinistra rappresentati. Ma nel caso del Pdci le europee sono state come un tavolo da poker. Oliviero Diliberto ha deciso di puntare le sue residue risorse (quasi tre milioni di euro) per promuovere i propri candidati nell’alleanza con Rifondazione. Risultato paradossale: tutti e quattro i candidati del partito erano arrivati primi nella battaglia delle preferenze, centrando l’obiettivo. Ma, ancora una volta, il risultato elettorale, inferiore di 0.6 decimi di punto al quorum, ha sottratto all’alleanza elettorale quasi sei milioni di euro di finanziamento.
NAPOLI ADDIO. A via del Policlinico la situazione è altrettanto drammatica. “Io, che ho passato una vita a difendere i lavoratori dai licenziamenti – ammette con sofferenza Paolo Ferrero, segretario del partito – mi sono trovato a dover sottoscrivere la drammatica necessità di quaranta licenziamenti”. A cui, per giunta, si aggiungono, anche in questo caso, altri 40 dipendenti messi in cassa integrazione. E a cui si aggiunge la situazione precarissima di Liberazione, che ha già tagliato la foliazione, e ha dovuto mettere in solidarietà tutti i suoi dipendenti. Le vendite sono passate dalle 16 mila copie dell’era Curzi alle 4800 attuali. Ad aprile è prevista una verifica dei conti a cui il giornale potrebbe non sopravvivere. Le ultime elezioni vedevano partire il cartello della federazione da 48 consiglieri regionali, che dal punto di vista finanziario portavano 5 mila euro a testa ogni mese. In queste elezioni i due partiti sono passati a 18. 14 di Rifondazione, solo 4 del Pdci. Ma il quorum è stato mancato in Lombardia, che portava uno dei rimborsi elettorali più cospicui. A via del Policlinico resta (per ora) un apparato di 40 funzionari. Come pagarli? Per ora nell’unico modo possibile: mettendo in vendita un pezzo forte del patrimonio, la sede di Napoli. Ma per resistere fino alle prossime politiche, nella speranza di passare il quorum, ci vorrà altro.
Unica storia controtendenza? Quella di Sinistra e libertà, che ha ottenuto quasi lo stesso numero di eletti della federazione. Il caso virtuoso? Proprio in Puglia, dove Vendola ha trainato la lista al 9%, producendo un rimborso adeguato. Retroscena incredibile: Vendola ha speso solo 400 mila euro (contro sei milioni circa del suo avversario, Rocco Palese) perché il Pd, per via delle note ruggini, aveva trattenuto i 300 mila euro raccolti con le primarie. Vendola otterrà di rimborso molto di più. Li userà per finanziare le primarie nazionali in vista del 2012?
il Fatto 10.4.10
La Costituzione e l’istruzione
di Lorenza Carlassare
L’attuale maggioranza, favorevole alla scuola privata, ha portato a una mortificazione crescente della scuola pubblica che la Repubblica avrebbe il dovere di potenziare
L’art. 33 comma 1 “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” è l’importante premessa alle norme sull’istruzione e sulla scuola. Due garanzie costituzionali distinte vengono qui stabilite, relative l’una alla libertà della cultura, l’altra alla libertà d’insegnamento, condizioni necessarie allo sviluppo e rinnovamento della società. Non una cultura di Stato imposta e ideologicamente orientata, ma la libertà di espressione artistica, di ricerca scientifica e del relativo insegnamento. E’ un preciso divieto di interventi diretti a orientare la cultura o a limitarla: l’arte così come la ricerca scientifica (e qui il discorso porterebbe lontano). Evidente è la connessione con l’art. 21 sulla libertà di manifestazione del pensiero, ma il momento della libertà è ancor più accentuato. Un segno chiaro dell’importanza che la Costituzione annette alla cultura e alla ricerca scientifica è la loro espressa menzione già nei ‘Principi fondamentali’ (art. 9) affinché la Repubblica ne promuova lo sviluppo. All’affermazione di libertà – e dunque al divieto di limitare e interferire – si accompagnano gli obblighi gravanti sulla Repubblica per soddisfare il diritto all’istruzione, che come tutti i ‘diritti sociali’, richiede interventi pubblici per essere realizzato: strutture in grado di prestare i servizi, organizzazione, docenti idonei, mezzi adeguati. I diritti sociali sono i più esposti, i meno facili da garantire perché sono appunto ‘diritti che costano’. La Repubblica “istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi” dispone il comma 2, e “detta le norme generali sull’istruzione” affinché in tutto il territorio sia garantita l’omogeneità necessaria, pur trattandosi di materia di competenza regionale (art. 117). “Soltanto l’ente rappresentativo dell’intera comunità nazionale è in grado di dettare le regole generali volte ad assicurare, senza distinzione di aree geografiche, un trattamento scolastico in condizione di eguaglianza a tutti i cittadini” (Corte costituzionale, sent. n. 290/1994). Il 5 comma prescrive inoltre “un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”, esame, quest’ultimo per garantire la competenza di chi eserciterà le diverse professioni.
Ma lo Stato – obbligato a predisporre strutture adeguate – non ha il monopolio dell’istruzione. Il pluralismo che pervade la Costituzione è anche pluralismo scolastico, libertà di orientamento culturale e d’indirizzo pedagogico-didattico, con diritto alla “parità” e a un “trattamento scolastico equipollente”: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato” precisa il comma 2. Su questa formula, chiara e indiscutibile, si è invece aperto un dibattito che, con sottili ‘distinguo’ e interpretazioni forzate, ha condotto quasi a negarne il senso. L’atteggiamento dell’attuale maggioranza, particolarmente favorevole alla scuola privata, ha portato ad una mortificazione crescente della scuola pubblica che la Repubblica avrebbe il dovere di potenziare al massimo grado. Istruzione e democrazia vanno insieme; solo cittadini coscienti e informati sono in grado di tenerla in vita sottolineavano già i pensatori settecenteschi: “L’ignoranza è l’appannaggio del popolo schiavo: la scienza del libero” scriveva Giuseppe Compagnoni nel 1797. Ma forse l’ignoranza a taluni piace proprio per il suo effetto negativo sulla democrazia.
“La scuola è aperta a tutti”, così inizia l’art. 34 garantendo il diritto allo studio: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. L’obbligatorietà deve necessariamente coniugarsi alla gratuità e, quando l’obbligo finisce, affinché per i capaci e meritevoli il diritto allo studio non resti mera declamazione, “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. L’istruzione è fattore potente di mobilità sociale e di emancipazione della persona come riconosce la Corte costituzionale (sent. n. 219/2002): “Il diritto di studiare nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale o professionale, è d’altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli articoli 2,3 e 4 della Costituzione”. In questo senso l’istruzione è uno dei principali strumenti per realizzare l’eguaglianza fra le persone, per dare a tutti se non la piena parità dei punti di partenza, almeno la possibilità di non partire assolutamente svantaggiati. Il divario culturale e l’inferiorità che ne deriva è il primo degli ostacoli che la Costituzione (art. 3, comma 2) impone alla Repubblica di rimuovere, perché “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione”. “Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno”, sanciscono le norme europee; e “ogni individuo ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale e continua”. L’affermazione solenne dell’art. 34 “La scuola è aperta a tutti” vale, ovviamente, per tutti i bambini anche per i figli degli immigrati che, almeno in questo, non potrebbero subire discriminazioni: ma ai bambini nomadi che vivono in campi continuamente distrutti e spostati, l’allontanamento ripetuto da scuole che avevano iniziato a frequentare, consente un effettivo ‘diritto all’istruzione’?
Repubblica 10.4.10
C’eravamo amati
di Alessandra Longo
È già finito il "comune sentire" tra i radicali e il Pd in salsa laziale? Pare di sì. Registriamo il non affettuoso scambio tra la coppia di neo-eletti consiglieri regionali della Lista Bonino-Pannella, Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita, e il quasi ex vicepresidente del Lazio Esterino Montino (Pd), compagni di lotta fino all´altro ieri. Renata Polverini denuncia presunte «scandalose nomine dell´ultim´ora», ed ecco che i due radicali prendono le distanze al volo: «Se fosse vero, guai ad associare queste modalità partitocratiche, estranee alla nostra cultura, al nome di Emma Bonino». Risposta scritta e furibonda di Montino: «Prima di parlare, e fare da megafono ai vincitori, informatevi. Non ho fatto alcuna nomina. Perciò mi aspetto delle scuse». Avanti così.
Repubblica 10.4.10
L´ultradestra all'assalto dell'Ungheria
Sondaggi trionfali per i partiti xenofobi alle elezioni di domani
Slogan antisemiti e il progetto di cacciare i rom Per i socialisti una disfatta annunciata
di Andrea Tarquini
BUDAPEST - Sventola il tricolore nazionale per Viktor Orban, trionfatore annunciato, leader della Fidesz e ammiratore dichiarato di Silvio Berlusconi, nella splendida ex seconda capitale asburgica sotto il sole di primavera. Sventolano le bandiere di Jobbik, la destra radicale, con triangoli verdi e rossi di bellica memoria. Dei socialisti (postcomunisti) da anni accusati di corruzione e inefficienza al governo, vedi molta meno campagna elettorale, sul web o nelle strade. Ungheria, ventun anni dopo, prova danubiana per l´Europa: per la destra vincente sarà la seconda caduta del Muro, per le sinistre una Stalingrado in più in Europa. Ma qui dove la "Nuova guardia magiara" vicina a Jobbik sfila con uniformi nere o mimetiche che evocano l´Asse e fa paura a stranieri o rivali politici, qui sullo sfondo delle tirades xenofobe, antisemite e antieuropee dell´ultradestra, non solo fai fatica a vedere dove è finita l´Ungheria che nell´‘89 fu a fianco della Polonia di Solidarnosc e di Gorbaciov nella svolta.
Stenti anche a trovare dove e come il Centro, o un conservatorismo normale, possa ricrearsi. Per l´Unione europea e la Nato il voto di Budapest prepara sfide e dure prove, le tensioni sulle condizioni di vita - ritenute qui problematiche - delle minoranze ungheresi, specie in Slovacchia, possono inasprirsi. E in contrasto con il successo delle privatizzazioni, la pioggia d´investimenti e il boom economico a Varsavia, Praga, Lubiana o altrove al centro-est, l´Ungheria - salvata da un destino greco pochi mesi fa da Ue e Fondo monetario - appare ancora a rischio. Il governo uscente si loda ottimista, ma non basta.
«La Patria tornerà a governare», promette Orban. Tornerà, perché nel 1988 lui fu già premier. Come governerà, su questo lui resta nel vago, non concede interviste. Parla intanto di concedere la cittadinanza ungherese ai magiari oltre confine. Liberal o conservatore, pragmatico e aperto come gli ottimisti sperano o protezionista? Fino almeno a lunedì, a dopo il voto, lui - che in otto anni da leader dell´opposizione ha quasi sempre disertato le sedute del Parlamento - tace. I sondaggi danno il suo partito stravincente, tra il 58 e il 60 per cento dei consensi. Potrà quindi governare da solo con una maggioranza blindata, il suo sogno è addirittura una maggioranza di due terzi per avviare riforme costituzionali, e dare al paese una leadership a lungo termine. Jobbik oscilla tra il 12 e il 20 per cento, i socialisti (ex comunisti) temono il sorpasso. Grande incertezza la partecipazione al voto. "Il funambolo di Budapest", l´ha chiamato l´altro giorno Der Spiegel. Orban non deve certo temere i deboli socialisti, ma Jobbik alla sua destra. La destra radicale di Gabor Vona, chiede tolleranza zero contro criminalità di zingari e stranieri, «e vogliamo rinegoziare il Trattato europeo di Lisbona», afferma la bionda Krisztina Morvai. Parlano di «popolo ungherese ridotto in schiavitù», dalle multinazionali, da Israele e dagli ebrei, e di frontiere nazionali ingiuste.
Domani sera avremo i primi risultati. Due settimane dopo, un ballotaggio preciserà i rapporti di forza. Non siamo nella Varsavia che vola nell´export e nel benessere, e fa pace con Mosca sul massacro di Katyn, non siamo nella prospera Praga palcoscenico del disarmo Usa-Russia. Tra i mille lodevoli sforzi dell´Ungheria di guadagnare terreno nella Ue cui appartiene, qui il passato vive ancora nel presente.
Repubblica 10.4.10
Modigliani
Il "maledetto" che sfiorò l´avanguardia inaugura il nuovo museo di Gallarate
Che alle porte di Milano si inauguri un nuovo Museo d´arte, è un evento rilevante: a una preesistenza industriale si aggancia un nuovo corpo semicircolare e, con due telai laterali, si forma così una piazza. I progettisti Provasoli, Miano e Moretti nell´uso del mattone romanico e nelle forme elementari, hanno reso omaggio a Mario Botta. Gli interni luminosi e ampi ospitano la collezione permanente di Silvio Zanella, un raro mecenate, e mostre temporanee. Inaugura Il mistico profano. Omaggio a Modigliani, a cura di Buscaroli, Strinati e Zanella, catalogo Electa, fino al 19 giugno.
Modì, Maudit: facile gioco di parole per un destino ingrato che fa chiudere gli occhi per sempre a Modigliani a soli trentacinque anni. Bello come Gerard Philippe lo si vede nel ritratto di Salvini nel 1909 a Firenze, o nell´atelier di Montparnasse nel ´18: le foto scattate dall´amico Paul Guillaume di cui c´è uno splendido ritratto, ci rendono un uomo elegante, vestito di velluto, dal volto perfetto che smentisce il razzismo sulla fisiognomica degli ebrei e mostra un uomo non minato dall´alcol come vuole la leggenda bohèmienne. Modigliani apparteneva ad una famiglia già benestante della comunità livornese, ma nella città poco aveva potuto apprendere. La mamma, donna colta, gli aveva insegnato ad amare Dante, ma anche i contemporanei Carducci e Pascoli.
Lasciata Livorno si trasferisce per tre anni a Venezia e scrive a Oscar Ghiglia nel 1905: "Da Venezia ho ricevuto gli insegnamenti più preziosi", in una delle Lettere, edite da Abscondita. Per un toscano che si è fatto gli occhi sui Macchiaioli, che a Firenze ha seguito i corsi del vecchio Fattori, che ha vagato per i musei della Toscana, è un´affermazione impegnativa. I suoi nudi sono pronipoti delle Veneri di Tiziano e imparentate alla Danae del Correggio. Ho fisso nel cuore un nudo del ´19: era riprodotto in Sele-arte, la rivista di Ragghianti, che una compagna al liceo mi mostrò. Uno questi nudi, della Fondazione Agnelli, lo trovo in mostra. Mi invaghii di quelle immagini e da allora data la mia passione per Modigliani. Cosa fa amare questo pittore di un amore particolare? Un pittore di ritratti e di nudi, così tradizionali e così italiani, che si trova d´un tratto nel mezzo della tempesta in corso a Parigi. Vi giunge nel 1906 e vi resterà fino alla morte, è sfiorato dal fuoco delle avanguardie che lì divampano, senza che le sue ali d´artista si brucino. Ma la sua vita ne rimase bruciata: tra il Bateau-Lavoir e La Closerie de Lilas, i bistrots di Montmartre e le brasseries di Montparnasse, l´assenzio e qualche droga come molti artisti. Frequenta Picasso e Max Jacob, Matisse e Soutine, sa quel che sta avvenendo in quel crogiolo. Ma passa indenne tra fauves, cubisti, futuristi, e i primi sintomi surrealisti: in effetti la sua maniera precorre il "Ritorno all´ordine", perché lui l´ordine di un´arte classica non l´ha mai trasgredito.
Per questo De Chirico, in un gioco al massacro, è l´unico che salva: ed è davvero una sorpresa perché la pittura di Giorgio nulla ha a che vedere con l´infantilismo sognante di Modì. I suoi volti sono segnati da una ieraticità da icona, da mosaico bizantino, nella tela intride la maestà di Duccio, l´eleganza degli angeli dei Lorenzetti, la dolcezza delle madonne di Simone Martini. Colli lunghi, volti visti come in specchi deformanti, appena deformati dalla scomposizione cubista. La pennellata è morbida, il suo è un cromatismo elementare, una tavolozza in cui i rossi cupi e il rosa carne prevalgono, poi azzurri improvvisi – come nella veste che indossa la sua compagna, Jeanne Hébuterne: da lei ebbe una figlia, il giorno successivo alla morte di Modì, incinta, si lanciò dalla tromba delle scale. Neri sono gli abiti maschili di Léopold Survage e della Fanciulla. Modigliani vede che l´avanguardia ha acceso una miccia, ma mostra per l´esplosione che ne seguirà un´aristocratica indifferenza: attinge da Picasso solo il modo di campire i fondi dei ritratti. A Severini che gli propone di sottoscrivere il manifesto futurista, risponde che non può: l´idea di distruggere i musei non gli piace. Se ne sta in disparte, dipinge furiosamente per cercare di accontentare il mercante e amico russo Zborowski: una rete che Beatrice Buscaroli, in Ricordi via Roma, Il Saggiatore, ha ricostruito con amorevole minuzia.
Accanto ad una selezione di dipinti, ci sono bei disegni in mostra, alcuni appena leggibili, con un tratto di matita sottile come nel bellissimo ritratto dell´amico russo; ci sono poi le cariatidi, un tema che l´affascinano e preludono al suo essere scultore di forme assolute e volti di pietra. Dove la memoria di Tino da Camaino, di Brancusi, di maschere africane o khmer si mescolano. Dal ‘9 al ‘10 fu a Parigi Anna Achmatova, e della grande poetessa russa dipinse almeno tre ritratti, uno di essi, mi dice un´amica slavista, era ancora nel 1952 nella casa di San Pietroburgo. Mi chiedo dove sia finito. Jeanne Modigliani per una vita e ora la fondazione che ne porta il nome si prodigano per mettere ordine al catalogo delle opere e anche i documenti che ci restano, molti dei quali sono in mostra: foto, manoscritti, lettere, cartoline, oggetti.
Repubblica 10.4.10
De Chirico
Le Muse segrete del "pictor" che inventò la metafisica
Bonito Oliva classifica in un ordine inedito tele provenienti da tutto il mondo
"Tutti questi mobili appaiono sotto una luce nuova raccolti in una strana solitudine"
A Palazzo delle Esposizioni, a Roma, 140 quadri distribuiti per temi in sette sezioni: una nuova lettura dell´opera di un maestro finora considerato solo signore dell´artificio
Dal mito, all´ombra agli still life: le sue stanze delle meraviglie hanno segnato il ´900
ROMA. Una cosa è sicura: quella allestita a Palazzo delle Esposizioni non è la solita mostra di Giorgio De Chirico. L´enigmatico, l´inafferrabile, il sorprendente Pictor Optimus, questa volta è guardato e attraversato da un punto di vista davvero inusuale: il suo rapporto con l´elemento naturale.
La natura secondo De Chirico, titolo dell´esposizione curata da Achille Bonito Oliva, è per il pittore, celebre soprattutto per le "piazze d´Italia", quasi un ossimoro ricco di rivelazioni. Sarebbe piaciuto sicuramente all´artista, che detestava i luoghi comuni e si nutriva di cortocircuiti mentali pronti a svelare la vera essenza delle cose, questo sguardo diverso da sempre. E anche la divisione in sezioni, per temi che si aprono come piccole scatole in cui i quadri esposti (140 provenienti dai più importanti musei del mondo e da prestigiose collezioni private) trovano una dimora ideale. Come se la sua stessa pittura fosse una natura da classificare, un giardino da riordinare, per una nuova comprensione del percorso e delle intenzioni di un demiurgo dispettoso che amava nascondersi, travestirsi, giocare e forse anche barare e che, non a caso, intitolava i suoi quadri "enigmi".
Sono passati 100 anni dalla nascita della Metafisica, la grande intuizione di De Chirico afferrata in un "pomeriggio d´autunno" del 1910, complice una piazza di Firenze e una malattia che lo aveva debilitato fisicamente ma gli aveva elargito, come lui stesso racconta, "uno stato di morbosa sensibilità".
Questa stagione, che prosegue con gli anni parigini tra il 1911 e il 1915, è senz´altro la più amata dalla critica. Ma la mostra odierna rovescia il solito ordine cronologico per mescolare, davvero dechirichianamente, le carte. Il filo conduttore è il ‘tema´ ed in ogni sala il curatore e i responsabili delle singole sezioni (Laura Cherubini, Vincenzo Trione, Luca Massimo Barbero, Francesco Poli, Sabina D´Angelosante, Katherine Robinson, Victoria Noel-Johnson) hanno messo insieme le opere per affinità, facendole parlare tra loro.
De Chirico era nato a Volos, in Grecia, nel 1888, a pochi passi da un mare carico di simboli, da cui, secondo la leggenda, era salpata la nave degli Argonauti. E il viaggio tra le scatole segrete di De Chirico comincia in questa esposizione proprio con "La natura del mito", quella abitata da dei ed eroi che gli faranno compagnia tutta la vita. E che spesso sono in partenza. Proprio come lui, che lascia la Grecia, va a Monaco, passa per Firenze e poi Torino, Parigi, Ferrara.
Artista errante come il bellissimo Ulisse qui esposto, nudo, disarmato, eppure sostenuto dalla forza del proprio desiderio, De Chirico trova la sua Itaca a Roma dove finisce per abitare e dove muore nel 1978. In questa "stanza delle meraviglie" ci sono centauri che combattono, Arianne malinconiche, teste di Giove, bizzarre e colorate figlie di Minosse, cavalli in riva al mare e, naturalmente, ci si imbatte negli Argonauti. Non lontani ecco anche Castore e Polluce, evocati tutte le volte che si racconta l´avventura artistica di De Chirico e di suo fratello Alberto Savinio: i Dioscuri-Pittori.
La seconda fermata di questo cammino è quella della "Natura dell´ombra". Qui tutto è architettura, la natura esiste come negazione. Per De Chirico l´ombra ha una vita propria, un suo irrisolvibile mistero: se si guarda con attenzione ognuna di queste opere ci si accorge che le ombre sono sempre proiettate da elementi che non sono visibili all´interno del quadro. Di tutta la mostra, questo luogo è quello in cui si è voluta celebrare la vittoria dell´assenza.
"La natura per De Chirico è materna e matrigna, è mediterranea e filosoficamente nordica" afferma Bonito Oliva. Questo appare evidente nelle successive tappe: la "Natura da camera", l´ "Antinatura" e la "Natura delle cose". I placidi e rassicuranti interni borghesi diventano universi che ospitano mondi infiniti e muse inquietanti. Ecco alberi che fioriscono su parquet, templi che occupano stanze e Ulisse che naviga tra le pareti di un appartamento. Oppure manichini con il corpo posseduto dagli oggetti che formano la loro identità: rovine per gli archeologi, salotti per i nobili e i borghesi, squadre e righelli per gli architetti. E poi oggetti sospesi in spazi inventati e mobili che abitano valli e paesaggi antichi. De Chirico stesso spiega di averli percepiti così in occasione di un trasloco: "Tutti questi mobili – scrive- ci appaiono sotto una luce nuova raccolti in una strana solitudine: una profonda intimità nasce tra loro, e si direbbe che un misterioso senso di felicità serpeggi in questo spazio". Eccola qui questa gioiosa rivelazione, sotto l´aspetto straordinario di un colpo di fulmine che diventa un rapporto indissolubile tra natura e artificio.
C´è poi la "Natura aperta" dove il fuoco dell´Offerta al sole incontra l´acqua dei Bagni misteriosi, un´altra invenzione, in cui il parquet diventa un mare domestico che ospita impossibili natanti tra le palafitte delle cabine, un tema su cui De Chirico ha continuato a creare le sue variazioni tra spiagge trasfigurate e grattacieli di New York. Infine ecco la "Natura viva" che è esattamente il contrario di quella morta. E infatti il grande Metafisico quando inquadrava mele, limoni, melograni, pesci o frammenti di statue pensava alla definizione tedesca Still leben - vita silente - a quadri che rappresentano "la vita silenziosa degli oggetti e delle cose, una vita calma, senza rumori e senza movimenti, un´esistenza che si esprime per mezzo del volume, della forma, della plasticità. In realtà gli oggetti, la frutta e le foglie sono immobili ma potrebbero essere mossi dalla mano umana o dal vento…". La stessa brezza di un´ Ottobrata. Che scuote le foglie degli alberi dei capolavori degli anni Venti, quei paesaggi romani da cui i cavalieri stanno sempre per andar via. Perché i quadri di De Chirico sono l´abbandono di ciò che si conosce, avventure verso un mondo in cui anche quanto è familiare si rivela incomprensibile. E proprio per questo terribilmente attraente.
L’Ap pubblica una lettera del 1985 firmata dal futuro Papa contrario a rimuovere un sacerdote
La Santa Sede smentisce: «Non coprì il caso». Benedetto XVI pronto ad incontrare le vittime
Nuove accuse a Ratzinger
«Coprì prete pedofilo Usa»
Nuova accusa al Papa dall’Associated Press: nell'85 si oppose alla rimozione di un prete pedofilo. La Santa Sede: «Ratzinger non coprì il caso». Padre Lombardi: il pontefice disponibile ad incontrare le vittime.
di Roberto Monteforte
«Il Papa è disponibile ad incontrare ancora le vittime degli abusi sessuali. Contro di lui insinuazioni infondate. Benedetto XVI indica rigore, merita rispetto». È la risposta del direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi alla campagna mediatica di questi giorni sullo scandalo dei preti pedofili che chiama in causa direttamente Benedetto XVI. Ma proprio ieri è arrivata un’altra bordata da parte dei media statunitensi. Nel 1985, anni prima di diventare Papa, il cardinale Joseph Ratzinger sconsigliò di ridurre allo stato laicale un sacerdote californiano, Stephen Kiesle, che aveva molestato minori. Lo scrive il Washington Post che riprendendo una notizia dell'Associated Press cita una lettera del 1985, firmata da Ratzinger, in cui si esprimevano preoccupazioni sugli effetti che la rimozione di un prete avrebbe avuto «per il bene della chiesa universale». Secondo l’agenzia Ap, la corrispondenza di cui è in possesso «rappresenta la sfida finora più forte all'insistenza che Ratzinger, l'attuale Papa Benedetto XVI, non giocò alcun ruolo nel blocco della rimozione dei preti pedofili quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede». La lettera citata sarebbe parte di anni di corrispondenza tra la Diocesi di Oakland e il Vaticano sull'opportunità di ridurre allo stato laicale padre Stephen Kiesle. Pronta la replica della Santa Sede: l’allora cardinale Ratzinger «non coprì il caso» del giovane prete, ma chiese solo di studiarlo con «maggiore attenzione» per il «bene di tutte le persone coinvolte», ha detto padre Ciro Benedettini, vicedirettore della Sala Stampa Vaticana, puntualizzando che nell’85 l’eventuale rimozione dall’incarico di un sacerdote era di competenza del vescovo locale e non della Congregazione per la Dottrina della fede. Kiesle, che era già stato condannato da un tribunale Usa nel ‘78 per atti osceni e molestie, fu comunque ridotto allo stato laicale due anni più tardi, nell’87. E nel 2002 venne di nuovo arrestato per molestie sessuali e condannato a sei anni di prigione nel 2004.
PROCESSI AI COLPEVOLI
Nel suo editoriale per Radio Vaticana, padre Lombardi affronta le polemiche di questi giorni, ma non questa ultima critica. Ricorda la pazienza con la quale ha affrontato lo «stillicidio di rivelazioni parziali o presunte». La linea è quella indicata con la lettera ai cattolici d’Irlanda. In primo luogo continuare a «cercare la verità e la pace per gli offesi». Il portavoce vaticano conferma la disponibilità del Papa «a nuovi incontri con le vittime» da tenersi «nel rispetto delle persone e alla ricerca della pace», «in un clima di serenità e riservatezza». Nella sua nota padre Lombardi richiama l’attenzione delle Chiese locali all’esigenza di assicurare giustizia, applicando con rigore, per le parti di loro competenza, le norme di diritto canonico, e collaborando per il resto, per gli aspetti penali e civili, con la magistratura. Quindi annuncia che le «linee guida» della Santa Sede su come affrontare il problema saranno da tutti consultabili sul sito web del Vaticano.
IL CASO CANADESE
Intanto continuano gli attestati di affetto al Pontefice. Dai vescovi scandinavi all’arcivescovo di Perugia, monsignor Bassetti che sottolinea il coraggio del Papa e l’amore della verità che «non teme l’oltraggio e la derisione». Si allunga anche l’elenco dei preti coinvolti in casi di abusi. Ieri si è aggiunto monsignore Bernard Prince, un religioso canadese che ha avuto incarichi in Vaticano che Ratzinger «spretò». Si fanno sentire anche le vittime. Una decina di «abusati» maltesi sarà in piazza il prossimo 16 e 17 aprile in coincidenza con la visita del Papa.
l’Unità 10.4.10
Perizia a pagamento
Ecco come Sacred Path ha cercato di «ripulirsi»
Agli atti del processo un documento che dimostra come i seguaci di «Arkeon» nel 2006 hanno pagato 30mila euro per uno studio sulla propria associazione con lo scopo di dimostrarsi virtuosi al Centro internazionale studi sulla famiglia
di Giovanni Maria Bellu
Trentamila euro. Era la fine di dicembre del 2006. E i seguaci del “metodo Arkeon” decisero di investire la bella cifra per pagare uno studio su “Sacred path” la loro associazione al “Centro internazionale studi sulla famiglia”, il prestigioso istituto di ricerca cattolico dei padri paolini. Un tentativo estremo di riaccreditarsi come organizzazione virtuosa e riconosciuta dalla chiesa quando era già in pieno svolgimento l’inchiesta per associazione a delinquere, truffa, maltrattamenti di minori. I reati dei quali sono accusati il capo di "Sacred path", Vito Carlo Moccia e altri undici imputati nel processo in corso davanti al tribunale di Bari.
L’investimento degli arkeoniani per questo studio su se stessi risulta da un documento agli atti del processo ed è confermato dal fatto che davvero il Cisf, tra il dicembre del 2006 e il febbraio del 2007, condusse un’indagine su “alcuni aspetti dell’esperienza Arkeon”. Elaborò anche un “rapporto finale” cautamente favorevole all’associazione. Si tratta di dieci paginette precedute da un avvertimento che suona come un mettere le mani avanti: «Tutto il materiale è stato fornito da Arkeon o è stato realizzato con il suo supporto tecnico. La disponibilità e l’apertura totale dimostrate da tutte le persone di Arkeon implicate nella ricerca sono state pronte e totali, ed hanno consentito un lavoro rapido e, a noi pare, proficuo». Segue un’esposizione fredda del materiale esaminato e di quanto i ricercatori hanno potuto ricavare dalla partecipazione a due dei “seminari” per i discepoli del “primo livello”. La parte più rilevante (e forse l'unica ragione che spinse “Sacred path” a spendere trentamila euro) è nelle ultime righe. Si danno delle indicazioni su come andare avanti nel “lavoro di revisione”. In definitiva si riapre un credito condizionato. È stata poi la magistratura a impedirne l’utilizzo.
Il rapporto del Cisf conferma che l’associazione di Vito Carlo Moccia ha continuato ad avere protezioni importanti e autorevoli anche quando erano emerse pubblicamente notizie molto gravi. Come se, per i suoi sponsor all’interno della Chiesa, fosse impossibile un distacco netto e definitivo.
Nella lettera che pubblichiamo in questa pagina, padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, conferma integralmente le notizie che abbiamo riportato. Anche il fatto di aver ricevuto la segnalazione di “specifiche tragedie familiari” prodotte dal metodo Arkeon e di averle segnalate a Moccia, cioè al presunto responsabile delle menzionate tragedie. Aggiunge, padre Cantalamessa, di non essersi mai interessato «di quel che accadeva nell’Associazione e intorno all' Associazione». Purtroppo ancora una volta i documenti lo smentiscono.
È una storia e delicata e complicata, converrà ancora una volta andare con ordine.
E prima di tutto bisogna dire che padre Cantalamessa non è l’unico uomo di Chiesa ad aver sostenuto “Sacred path”. Ce n’è almeno un altro. Si chiama Angelo De Simone ed è un sacerdote paolino oltre che un teologo. Fu lui, nel 2004, il primo a dare risalto al metodo Arkeon con un articolo nel quale Vito Carlo Moccia, che tra l’altro è anche accusato di esercizio abusivo della professione, veniva presentato come un genio pluridisciplinare universalmente conosciuto e stimato. Eccone un passo. «Un tempo Vito Carlo era imprenditore nel campo della bioingegneria, realizzato economicamente e riconosciuto nel mondo. Anni fa anch’egli scendeva nel “proprio inferno” prendendo coscienza della solitudine esistenziale che lo investiva. Andò alla ricerca di risposte nelle vie intellettuali, si laureò in antropologia e psicologia, cercò nei percorsi psicanalitici e psicoterapeutici, nelle tradizioni orientali, nella pratica della meditazione, fino a scoprire la via del ritorno al padre».
Un identikit che stride in modo sinistro con quanto si legge nel decreto di rinvio a giudizio: «Il Moccia si presentava come laureato alla Jolla University di San Diego e laureato in psicologia e pedagogia presso l’università statale di Fiume, titoli inesistenti e comunque non validi in Italia».
Don Angelo De Simone partecipava ai sinistri rituali dell’associazione. Celebrava gli strani matrimoni che servivano a sancire la riconciliazione di coppie peraltro già sposate, predicava tra icone di Gesù Cristo e foto di Vito Carlo Moccia. Esiste in merito un’abbondantissima, e francamente penosa, documentazione di video e di foto che lo prova.
Era, don De Simone, molto vicino a “Sacred path”. E quando apparve accanto al capo supremo in una puntata di “Mi manda Rai 3” del dicembre del 2006, i telespettatori, e anche il conduttore, ebbero la netta impressione che ne facesse parte. Per la veemenza con cui ne sosteneva le improbabili ragioni.
Ma era anche molto legato a padre Cantalamessa. Assieme celebrarono, il 20 gennaio del 2006 (cioè dopo che Canale 5, con Maurizio Costanzo, aveva per la prima volta segnalato la pericolosità del metodo Arkeon) una messa nella chiesa milanese di S. Eustorgio (altra circostanza che padre Cantalamessa conferma nella sua lettera e che noi documentiamo con una nuova immagine dove è possibile riconoscere, accanto a Moccia e al predicatore apostolico che si abbracciano, il teologo paolino di Arkeon).
Insomma, è davvero difficile fare stare assieme questo «non interessamento» verso ciò che accadeva «nell’Associazione e intorno all’Associazione», con la frequentazione di don De Simone. A meno che questi non abbia nascosto qualcosa. Chissà, Di sicuro, dai documenti, emerge che padre Cantalamessa era informato proprio da don De Simone dell’attività di Moccia e dei suoi seguaci. Ecco cosa scrisse (il 24 marzo del 2006) nella lettera di risposta a un signore che gli aveva segnalato una di quelle «specifiche tragedie familiari» di cui ora riconosce di aver avuto notizia: «Un sacerdote che li segue da tempo, don Angelo De Simone, paolino, che può contattare se vuole (seguiva il numero di cellulare, nda) può testimoniare di quanti battesimi, prime comunioni e confessioni ha personalmente amministrato nel contesto dei seminari guidati da Vito».
il Fatto 10.4.10
Chiesa, silenzio colpevole
Ratzinger e Wojtyla tra reato e peccato
Le gerarchie della Chiesa hanno imposto il segreto ai prelati su tutto ciò che avesse a che fare con casi di pedofilia ecclesiastica
di Paolo Flores d’Arcais
Due Papi sono responsabili per tutti i crimini che non sono stati denunciati: molti non sarebbero stati perpetrati se i precedenti fossero stati sanzionati
CINQUE ANNI FA durante la solenne Via Crucis del venerdì santo al Colosseo, Joseph Ratzinger esclamava: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Cristo!”. In questi giorni ci è stato ripetuto che la “sporcizia” di cui si scandalizzava Ratzinger era proprio quella dei sacerdoti pedofili, a dimostrazione che la Chiesa gerarchica già allora (solo cinque anni fa, comunque) non aveva alcuna intenzione di “insabbiare”. Ma quanta di tale “sporcizia” è stata da Ratzinger realmente denunciata? Denunciata, vogliamo dire, nell’unico modo in cui si denuncia un crimine, perché sia fermato e non possa essere reiterato: ai magistrati dei diversi Paesi. Quanti di quei sacerdoti pedofili? Nessuno e mai. Non nascondiamoci perciò dietro un dito. La copertura che è stata data per anni (anzi decenni) a migliaia di preti pedofili sparsi in tutto il mondo, non denunciandoli alle autorità giudiziarie, garantendo perciò ai colpevoli un’impunità che ha consentito loro di reiterare lo stupro su decine di migliaia di minorenni (talora handicappati), chiama direttamente e personalmente in causa la responsabilità di Joseph Ratzinger e di Karol Wojtyla. Se responsabilità morale o anche giuridica, lo decideranno tra breve alcuni tribunali americani. La responsabilità morale è comunque evidenziata dagli stessi documenti che l’Osservatore Romano (organo della Santa Sede) ha ripubblicato qualche giorno fa.
DECISIONE CONSAPEVOLE
Qui non stiamo infatti considerando i casi singoli di “insabbiamento” anche nell’ambito della “giustizia” ecclesiastica, ormai accertati e riportati dalla stampa soprattutto americana e tedesca, e che vanno moltiplicandosi man mano che si allenta la cappa di omertà, paura e rassegnazione. Ci riferiamo invece alla responsabilità diretta e personale dei due Pontefici per tutti i delitti di pedofilia ecclesiastica che non sono stati denunciati alle autorità civili, molti dei quali, ripetiamolo – mai come in questa circostanza orribile repetita juvant – non sarebbero mai stati perpetrati se casi precedenti fossero stati denunciati e sanzionati nei tribunali statali. La questione cruciale è infatti proprio questa: non la “Chiesa” in astratto, ma le sue gerarchie, e in particolare il Sommo Pontefice e il cardinal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, hanno imposto un obbligo tassativo a tutti i vescovi, sacerdoti, personale ausiliario ecc. sotto solenne giuramento sul Vangelo, di non rivelare se non ai propri superiori, e dunque di non far trapelare minimamente alle autorità civili, tutto ciò che avesse a che fare con casi di pedofilia ecclesiastica.
La confessione viene da loro stessi. L’Osservatore Romano ha ripubblicato il motu proprio di Giovanni Paolo II, che riservava al “Tribunale apostolico della Congregazione... il delitto contro la morale”, cioè“il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età”, e la “Istruzione” attuativa della Congregazione per la Dottrina della Fede, con queste inderogabili disposizioni: “Ogni volta che l’ordinario o il gerarca avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolto un’indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Tutte le “notitiae criminis” devono insomma affluire ai vertici, la Congregazione per la dottrina della Fede (Prefetto il cardinal Ratzinger, segretario monsignor Bertone) e il Papa. Sarà la congregazione a decidere se avocare a sé la causa oppure “comandare all’ordinario o al gerarca, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori accertamenti attraverso il proprio tribunale”. Papa e Prefetto, insomma, sono informati di tutto (sono anzi gli unici a sapere tutto) e sono loro, esclusivamente, ad avere l’ultima e la prima parola sulle procedure da seguire.
Decidano direttamente, per avocazione, o demandino il “processo” al Tribunale ecclesiastico diocesano, ovviamente la “pena” estrema (quasi mai comminata) è solo la riduzione allo stato laicale del sacerdote. In genere si limitato invece a spostare il sacerdote da una parrocchia all’altra. Dove ovviamente reitererà il suo crimine. “Pena” esclusivamente canonica, comunque. Nessuna denuncia deve invece esser fatta alle autorità civili. La Chiesa gerarchica si occuperà insomma del “peccato” (in genere con incredibile indulgenza) ma terrà segreto e coperto il “reato”. Che perciò resterà impunito. E potrà essere reiterato impunemente. Perché l’ordinanza della Congregazione, in ottemperanza al motu proprio del Papa, è imperativa e non lascia margini di scampo: “Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”. Di cosa si tratta? E’ spiegato in un documento vaticano del marzo 1974, una “Istruzione” emanata dall’allora segretario di Stato cardinale Jean Villot, seguendo le volontà espresse da Paolo VI in un’udienza ad hoc. Leggiamone i passi cruciali. “In taluni affari di maggiore importanza si richiede un particolare segreto, che viene chiamato segreto pontificio e che dev’essere custodito con obbligo grave... Sono coperti dal segreto pontificio...” e qui seguono numerosissimi casi, tra i quali due fattispecie in entrambe le quali rientrano i casi di pedofilia ecclesiastica. Il punto 4 (“le denunce extra-giudiziarie di delitti contro la fede e i costumi, e di delitti perpetrati contro il sacramento della penitenza, come pure il processo e la decisione riguardanti tali denunce”) e il punto 10 (“gli affari o le cause che il Sommo Pontefice, il cardinale preposto a un dicastero e i legati della Santa Sede considereranno di importanza tanto grave da richiedere il rispetto del segreto pontificio”).
Ancora più interessante il minuzioso elenco delle persone che “hanno l’obbligo di custodire il segreto pontificio”: “1) I cardinali, i vescovi, i prelati superiori, gli officiali maggiori e minori, i consultori, gli esperti e il personale di rango inferiore, cui compete la trattazione di questioni coperte dal segreto pontificio; 2) I legati della Santa Sede e i loro subalterni che trattano le predette questioni, come pure tutti coloro che sono da essi chiamati per consulenza su tali cause; 3) Tutti coloro ai quali viene imposto di custodire il segreto pontificio in particolari affari; 4) Tutti coloro che in modo colpevole, avranno avuto conoscenza di documenti e affari coperti dal segreto pontificio, o che, pur avendo avuto tale informazione senza colpa da parte loro, sanno con certezza che essi sono ancora coperti dal segreto pontificio”. Insomma, certosinamente tutti. Non c’è persona che possa direttamente o indirettamente entrare in contatto con tale “sporcizia” a cui sia concesso il benché minimo spiraglio per poter far trapelare qualcosa alle autorità civili e quindi fermare il colpevole. La “sporcizia” dovrà restare nelle “segrete del Vaticano”, pastoralmente protetta e resa inavvicinabile dalle curiosità troppo laiche di polizie e magistrati. L’impunità penale dei sacerdoti pedofili sarà di conseguenza assoluta e garantita. Per raggiungere questo obiettivo, che rovinerà la vita a migliaia di bambini e bambine, si esige anzi un giuramento dalla solennità sconvolgente.
IL SEGRETO
Recita l’istruzione: “Coloro che sono ammessi al segreto pontificio in ragione del loro ufficio devono prestar giuramento con la formula seguente: ‘Io... alla presenza di..., toccando con la mia mano i sacrosanti vangeli di Dio, prometto di custodire fedelmente il segreto pontificio nelle cause e negli affari che devono essere trattati sotto tale segreto, cosicché in nessun modo, sotto pretesto alcuno, sia di bene maggiore, sia di causa urgentissima e gravissima, mi sarà lecito violare il predetto segreto. Prometto di custodire il segreto, come sopra, anche dopo la conclusione delle cause e degli affari, per i quali fosse imposto espressamente tale segreto. Qualora in qualche caso mi avvenisse di dubitare dell’obbligo del predetto segreto, mi atterrò all’interpretazione a favore del egreto stesso. Parimenti sono cosciente che il trasgressore di tale segreto commette un peccato grave. Che mi aiuti Dio e mi aiutino questi suoi santi vangeli che tocco di mia mano”. Formula solenne e terribile, che davvero non ha bisogno di commenti. Dalle conseguenze tragiche e devastanti per migliaia di esistenze.
Tutte le Istruzioni di cui sopra sono ancora in vigore. Il giuramento ha funzionato. In questi giorni di aspre polemiche, infatti, la Chiesa gerarchica non ha potuto esibire un solo caso di sua denuncia spontanea alle autorità civili, con il quale avrebbe potuto rivendicare qualche episodio di non omertà e di “buona volontà”.
Il “buon nome” della Chiesa è venuto sempre prima, sulla pelle di migliaia di bambini e infangando e calpestando quel “sinite parvulos venire ad me” (Vulgata, Matteo 19,14) del Vangelo su cui si è fatta giurare questa raccapricciante congiura del silenzio. Sempre più testimonianze confermano anzi di una Chiesa gerarchica indaffarata per decenni a “troncare e sopire”, e anzi a negare l’evidenza (in una corte si chiamerebbe spergiuro) o a intimidire le vittime (in una corte si chiamerebbe ricatto o violenza) se qualche ex bambino ad anni di distanza trovava il coraggio di sporgere denuncia. I casi del genere ormai emersi sono talmente tanti che “il mio nome è Legione”, come dice lo “spirito immondo” di cui Marco, 5,9.
SQUADERNATA RESPONSABILITÀ
Di fronte a documenti ufficiali talmente “parlanti” si resta dunque allibiti che nessuno chieda ai vertici della Chiesa gerarchica, il Papa e il Prefetto della Congregazione per la Fede, ragione di tanta squadernata responsabilità. Monsignor Bertone, all’epoca della “Istruzione” di Ratzinger vescovo di Vercelli e segretario della Congregazione (il vice di Ratzinger, insomma, allora come oggi), in un’intervista del febbraio 2002 al mensile 30Giorni, ispirato da Comunione e Liberazione e diretto da Giulio Andreotti, si stracciava le vesti dall’indignazione all’idea che un vescovo potesse denunciare il sacerdote pedofilo alle autorità giudiziarie: al giornalista che si faceva eco delle ovvie preoccupazioni dei cittadini con un: “eppure si può pensare che tutto ciò che viene detto al di fuori della confessione non rientri nel ‘segreto professionale’ di un sacerdote...” rispondeva a muso duro: “Se un fedele non ha più nemmeno la possibilità di confidarsi liberamente, al di fuori della confessione, con un sacerdote... se un sacerdote non può fare lo stesso con il suo vescovo perché ha paura anche lui di essere denunciato... allora vuol dire che non c’è più libertà di coscienza”.
Libertà di coscienza, proprio così. Quella libertà di coscienza che il mondo moderno, grazie all’eroismo di spiriti eretici mandati puntualmente al rogo, e all’azione del vituperatissimo illuminismo, è riuscito a strappare contro Chiesa (che la giudicava pretesa diabolica), viene ora invocata per garantire l’impunità a migliaia di preti pedofili. Cosa si può dire di fronte a tanta... (lascio in sospeso il vocabolo, non sono riuscito a trovarne uno adeguato alla “cosa” e che rispetti il detto secondo cui “nomina sunt consequentia rerum”)?
Che senso ha, perciò, continuare a parlare di “propaganda grossolana contro il Papa e i cattolici” (l’Osservatore Romano), di “attacchi calunniosi e campagna diffamatoria” (idem), di “eclatante campagna diffamatoria” (Radio vaticana), di “furibonda fobia scatenata contro la Chiesa cattolica” (Joaquìn Navarro Vals), di “menzogna e violenza diabolica” (monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino), di “accuse menzognere” (cardinal Angelo Scola), di “accuse ignobili e false” (cardinal Carlo Maria Martini), e chi più ne ha più ne metta, visto che sono gli stessi documenti vaticani a confessare la linea di catafratto rifiuto della Chiesa gerarchica ad ogni ipotesi di denuncia dei colpevoli alle autorità giudiziarie secolari?
E si badi, il “Motu proprio” e l’“Istruzione” del 2001 segnano un momento considerato di maggiore severità di Santa Madre Chiesa nei confronti dei sacerdoti pedofili. Possiamo immaginarci cosa fosse prima.
LA MIGLIOR DIFESA
Davvero di fronte a questo scandalo la miglior difesa è l’attacco, come sembrano aver deciso i vertici vaticani? Punta di diamante di tale strategia è il cardinal Sodano, decano del Sacro Collegio, che sull’Osservatore Romano del 6-7 aprile tuona: “La comunità cristiana si sente giustamente ferita quando si tenta di coinvolgerla in blocco nelle vicende tanto gravi quanto dolorose di qualche sacerdote, trasformando colpe e responsabilità individuali in colpa collettiva con una forzatura veramente incomprensibile”. No cara eminenza, nessuno si sogna di coinvolgere in blocco la comunità cristiana, nemmeno nel più ristretto senso di comunità cattolica, qui si tratta solo della Chiesa gerarchica e delle sue massime autorità, che hanno imposto il silenzio del “segreto pontificio” e dunque impedito che le autorità statali mettessero i sacerdoti pedofili nella condizione di non nuocere. E poiché nel catechismo è scritto innumerevoli volte che si può peccare in modo equivalente “per atti o per omissioni”, vorrà convenire che attraverso questa omissione resa solenne e inderogabile attraverso il ”segreto pontificio”, il Papa e il cardinal Prefetto si sono resi responsabili (di certo moralmente) delle migliaia di crimini di pedofilia che sollecite denunce alle autorità statali avrebbero invece impedito. E’ purtroppo un dato di fatto acclarato che aver voluto trattare questi crimini semplicemente all’interno del diritto canonico, e nella maggior parte dei casi limitandosi oltretutto a spostare il sacerdote violentatore da una parrocchia all’altra, ha avuto il risultato di diffondere la peste pedofila. Tentare di corresponsabilizzare tutti i fedeli è anzi un “gioco sporco”, cara eminenza. Dubito che la grande maggioranza dei fedeli sapesse del “segreto pontificio” e delle sue implicazioni di dovere insuperabile del silenzio nei confronti di qualsiasi autorità esterna (polizie e magistrati) alle gerarchie ecclesiastiche. Dubito che se ne avesse avuto conoscenza avrebbe approvato l’idea che i nomi dei preti pedofili dovessero restare sepolti nelle “segrete del Vaticano” a tutela del “buon nome” della Chiesa.
QUALE CHIESA
In questa orribile vicenda non è in discussione la Chiesa nell’accezione di “popolo di Dio” o comunità dei fedeli. E’ in discussione, cara eminenza, solo, sempre ed esclusivamente la Chiesa gerarchica e i suoi vertici. Timothy Shriver, figlio di Eunice Kennedy, dunque esponente della più famosa famiglia cattolica d’America, dunque parte della Chiesa in quanto comunità dei credenti, ha pubblicato sul Washington Post un appello – da cattolico – in cui è detto senza mezzi termini: “Se questa Chiesa, con la sua attuale gerarchia, col suo Papa e i suoi vescovi, non saprà confessare la Verità; se continuerà a nascondere le proprie colpe, come Nixon lo scandalo Watergate; se si dimostrerà più votata al potere che a Dio, allora noi cattolici dovremo cercare altrove una guida spirituale”. Solo il 27% dei cattolici americani (la Chiesa nel senso del “popolo di Dio”), interpellati da un sondaggio della Cbs il 2 aprile, ha espresso un giudizio favorevole e di fiducia in Ratzinger e nei suoi vescovi (la Chiesa nel senso della Gerarchia).
Addirittura solo uno su cinque, sulla questione specifica dell’atteggiamento verso lo scandalo dei preti pedofili. Torniamo perciò al punto cruciale. Wojtyla e Ratzinger hanno preteso e imposto che i crimini di pedofilia venissero trattati solo come peccati, anziché come reati, o al massimo come “reati” di diritto canonico anziché reati da denunciare immediatamente alle autorità giudiziarie secolari. Queste omesse denunce sono responsabili di un numero imprecisato ma altissimo di violenze pedofile che altrimenti sarebbero state evitate. Se l’attuale regnante Pontefice ha davvero capito l’enormità della “sporcizia” e la necessità di contrastarla senza tentennamenti anche sul piano della giustizia terrena, può dimostrarlo in un modo assai semplice: abrogando immediatamente con Motu proprio le famigerate “Istruzioni” che fanno riferimento al “segreto pontificio” e sostituendolo con l’obbligo per ogni diocesi e ogni parrocchia di denunciare immediatamente alle autorità giudiziarie ogni caso di cui vengano a conoscenza. E spalancando gli archivi, consegnandoli a tutti i tribunali che ne facciano richiesta, visto che alcuni paesi hanno deciso di aprire per la denuncia del crimine una “finestra” di un anno per sottrarre alla prescrizione anche vicende lontane.
Se non avrà questa elementare coerenza, non si straccino le vesti il cardinal decano e tutti i cardinali del Sacro Collegio nell’anatema contro i credenti e i non credenti che insisteranno nel giudicare corrivo l’atteggiamento attualmente scelto.Tanto più che la Chiesa gerarchica, che in tal modo si rifiuterebbe di ordinare alle proprie diocesi la collaborazione per punire come reato il peccato di pedofilia dei suoi chierici e pastori, è la stessa che pretende di trasformare in reati, sanzionati dalle leggi dello Stato e relative punizioni, quelli che ritiene peccati (aborto, eutanasia, fecondazione eterologa, controllo artificiale delle nascite, ecc.), e che per tanti cittadini sono invece solo dei diritti, ancorché dolorosi o dolorosissimi.
l’Unità 10.4.10
Il premier israeliano manda un vice a Washington per il vertice sulla sicurezza atomica
Dietro il gesto il timore di critiche sui propri arsenali e il gelo con Barack sugli insediamenti
Netanyahu diserta il summit Usa Schiaffo a Obama sul nucleare
Aveva il timore di essere messo sul banco degli imputati. Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preferito rinunciare ad essere presente al summit sul nucleare di Washington. Gli Usa ne prendono atto.
di Umberto De Giovannangeli
Quella sedia resterà vuota. Ed è un’assenza pesante. Non è stato facile. Ma alla fine il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha deciso che non prenderà parte al vertice per la sicurezza nucleare organizzato a Washington dal presidente Barack Obama nei giorni 12-13 aprile.
SMACCO PER BIBI
La delegazione israeliana sarà guidata dal vicepremier e ministro per le questioni strategiche Dan Meridor (Likud) ed includerà il Consigliere per la sicurezza nazionale Uzi Arad e il direttore generale della Commissione per l'energia atomica Shaul Chorev. Nel tentativo di spiegare i tentennamenti del premier, il quotidiano filo-governativo Israele ha-Yom rileva che da un lato la minaccia del terrorismo nucleare e le misure globali da adottare per sventarlo sono temi a lui molto cari. Ma d'altra parte questi ha temuto che la sua presenza ai lavori avrebbe potuto favorire pressioni da parte di Paesi che da tempo insistono per costringere Israele a sottoporre le proprie installazioni atomiche a controlli internazionali. In un primo momento gli organizzatori americani avevano garantito a Netanyahu che una eventualità del genere non si sarebbe concretizzata. Ma l’altro ieri Arad ha appreso che Paesi come Egitto, Giordania e Turchia vorrebbero distanziarsi dai temi originali della conferenza per avanzare richieste nei confronti di Israele. Uno sviluppo che, secondo il giornale, «ha contrariato» Netanyahu. Da qui la decisione di abbassare il profilo della delegazione israeliana. La decisione è stata presa confermano funzionari citati da Haaretz nel timore che un gruppo di Paesi guidati da Egitto e Turchia chieda che Israele aderisca al Trattato di Non Proliferazione Nucleare. «Negli ultimi giorni aggiungono . siamo stati informati dell'intenzione di diversi stati partecipanti di deviare dal tema principale della lotta al terrorismo e usare l'evento per pungolare Israele sul TNP».
CONTRASTI POLITICI
Sullo sfondo di questi sviluppi ci sono anche i crescenti dissensi politici fra Stati Uniti ed Israele, manifestatisi il mese scorso durante un burrascoso tete-a-tete fra Obama e Netanyahu. Secondo Liz Cheney, la figlia dell'ex vicepresidente Dick Cheney, esponente della opposizione repubblicana, Obama sta giocando «un gioco spericolato» in Medio Oriente «continuando ad indebolire i legami con Israele»; dunque Netanyahu «ha fatto benissimo» ad annullare la visita a Washington. Dove, presumibilmente, sarebbe stato messo sotto pressione dai dirigenti del Dipartimento di Stato. Le richieste politiche di Obama da Israele sono stringenti e il governo Netanyahu ancora non ha elaborato risposte adeguate. Ben Caspit, un analista di Maariv, così sintetizza il dilemma del premier: «Accettarle significa innescare un crisi di governo. Respingerle, vuole dire andare a un confronto con Washigton».
Il nodo principale sono i progetti edili ebraici di Gerusalemme Est che, secondo Obama, vanno congelati. Ma anche la richiesta di includere le questioni chiave del conflitto già in negoziati indiretti con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) mediati dagli Stati Uniti risulta indigesta a Netanyahu. Israele ha peraltro reagito negativamente a fughe di notizie relative a un piano di pace che Obama intenderebbe imporre a israeliani e a palestinesi, in assenza di soluzioni migliori. Tali indiscrezioni peraltro, sono già state smentite dal consigliere per Sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale Jim Jones. Ma il «gelo» persiste tra Usa e Israele.❖
l’Unità 10.4.10
Il dogma e la forza
di Moni Ovadia
Itelegiornali di ieri mattina riportavano la notizia che il primo ministro israeliano Nethaniau non parteciperà al prossimo meeting di Washington sul disarmo. La decisione è motivata dall’intenzione dei governi di Egitto e Turchia di mettere in discussione la posizione di Israele in merito al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Nethaniau trova inaccettabile persino che si discuta dell’arsenale atomico di Israele. Perché? Per ribadire il dogma della sicurezza. Questo dogma nato originariamente sul peso delle cinque guerre sostenute in soli sessant’anni di esistenza, sull’orrore attentati terroristici, sulle reiterate minacce di distruzione, ultima delle quali quella del farneticante Ahmadinedjad, è però diventato un manganello ideologico usato per affermare l’eccezione israeliana. Ovvero, in nome della sicurezza, a priori, il governo israeliano rivendica l’indiscutibile diritto ad agire in difformità del diritto internazionale e dei trattati multilaterali. Nethaniau continua a chiedere perentoriamente che all’Iran sia impedito a tutti i costi l’accesso all’arma nucleare ma dal canto suo non è disposto neppure a discutere dell’esistenza e della consistenza dell’arsenale nucleare israeliano. Con la stessa perentorietà dichiara unilateralmente e senza pudore che costruire a Gerusalemme est è come costruire a Tel Aviv in totale spregio delle risoluzioni dell’Onu. Questo atteggiamento arrogante, basato solo sul diritto della forza e sulla moral suasion rappresentata dalle tragedie subite dal popolo ebraico utilizzate come ricatto, è miope e autolesionista. Israele è nato nel seno della legalità internazionale con una memorabile votazione dell’Onu, chiesta e ottenuta, con esito favorevole, dai leader sionisti. Sputare sull’autorità delle Nazioni Unite e sulle sue risoluzioni è come sputare controvento e gettare discredito su se stessi.❖
l’Unità 10.4.10
Fuoco amico contro Darwin
Polemiche Stavolta non sono i teorici del creazionismo o qualche esoterico a prendersela con il vecchio Charles: il filosofo Fodor e il neuroscienziato Piattelli Palmarini attaccano il motore stesso dell’evoluzione della specie
di Pietro Greco
Idue autori tengono a precisarlo già nell’introduzione: siamo atei senza tentennamenti e il nostro attacco a Darwin o meglio, al neodarwinismo non ha nulla a che fare con il disegno intelligente e il creazionismo. La nostra è una critica naturalistica. Non ha nulla né di religioso né di esoterico. La nostra è una partita giocata tutta all’interno del dibattito scientifico. Inoltre, quello che proprio non ci va giù è che la spiegazione darwiniana, la selezione naturale, venga eletta da alcuni – come il filosofo Daniel Dennett o il biologo Richard Dawkins, a principio universale e applicata anche in campi – come la sociologia o la psicologia – con cui poco o nulla ha a che fare.
Queste sono le due premesse con cui il filosofo Jerry Fodor e il neuroscienziato Massimo Piattelli Palmarini aprono il libro Gli errori di Darwin, che dopo essere apparso negli Stati Uniti con il titolo What Darwin Got Wrong (Quello che Darwin ha sbagliato) viene ora proposto in italiano dall’editore Feltrinelli.
Sono premesse chiare. E largamente condivisibili. La prima perché non c’è alcun neocreazionismo: gli argomenti che Fodor e Piattelli Palmarini adducono non sono né teleologici (non esiste un scopo in natura) né tantomeno teologici (lo scopo non è dato da un dio), ma tutti interni al dibattito scientifico. La seconda perché è condivisa da molti darwiniani convinti: Stephen Jay Gould, per esempio, definiva «ultradarwinisti» coloro che come Dennett o Dawkins – cercano di estendere la teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale del più adatto ad ambiti diversi da quello dell’evoluzione biologica.
Ciò detto, il titolo del libro è inequivocabile e corrisponde al suo contenuto: un attacco a Darwin. Che, secondo Fodor e Piattelli Palmarini, ha commesso degli errori nel formulare la sua teoria dell’evoluzione biologica. Questi errori sono stati fatti propri e, anzi, ampliati dal «neodarwinismo», ovvero dalla riunificazione tra genetica ed evoluzionismo avvenuta intorno agli anni ’30 del secolo scorso. Non si tratta di errori marginali. Riguardano il motore stesso dell’evoluzione delle specie. Charles Darwin e i neodarwinisti individuano il motore principale ma, se badi bene, non l’unico – nella selezione naturale. Ovvero nel fatto che gli organismi più adatti a sopravvivere nell’ambiente hanno, statisticamente, un maggiore successo riproduttivo e trasmettono alla loro prole, con modificazioni, i loro caratteri genetici.
Questo processo individua essenzialmente due stadi: uno quasi tutto interno agli organismi, che consiste nel modo in cui si «genera la diversità» (ogni individuo è diverso da un altro) all’interno di un processo di sostanziale continuità (la trasmissione ereditaria, di padre in figlio, dei caratteri genetici). Per Darwin e i neodarwinisti il generatore di diversità (individuato essenzialmente nelle mutazioni genetiche) è certo influenzato da vincoli ambientali e strutturali, ma nella sua sostanza è casuale.
Il secondo stadio quello della vera e propria selezione naturale del più adatto vede invece il protagonismo assoluto dell’ambiente, che premia in media le capacità riproduttive degli organismi portatori dei caratteri adattativi migliori e punisce i portatori di caratteri adattativi peggiori. Sebbene avvenga su basi statistiche e non deterministiche, si tratta di una selezione necessaria. Non a caso Jacques Monod aveva sintetizzato la spiegazione darwiniana nel combinato disposto di «caso e necessità».
Bene, Fodor e Piattelli Palmarini, confutano le basi di questo processo. Sia perché sostengono che il generatore di diversità degli organismi viventi non è sostanzialmente casuale, ma, al contrario, è sostanzialmente determinato. Da che cosa? Dalle leggi fisiche e chimiche dell’auto-organizzazione della materia, che operano a ogni livello: dal-
la formazione delle galassie alla formazione, appunto, delle cellule e degli organismi. Questa capacità della materia è così forte da annullare o meglio da rendere del tutto marginale anche il secondo stadio del processo darwiniano: la selezione naturale. Ad affermarsi sono gli organismi e le specie dotate di maggiore stabilità intrinseca: l’ambiente non seleziona nulla, o seleziona poco.
La critica al darwinismo e alla moderna teoria sintetica non è nuova. È da almeno un secolo da sir D’Arcy Thompson in poi che molti hanno studiato i fattori morfogenetici e, più in generale, strutturali che condizionano pesantemente che determinano la forma e, dunque, anche le funzioni degli organismi e delle loro singole parti. Negli ultimi anni si è visto come questi vicoli strutturali siano davvero operativi e a ogni livello, da quello macroscopico e quello genetico. È nata persino una nuova disciplina, l’Evo-Devo (evolutionary development, sviluppo evolutivo), che studia come i fattori strutturali concorrano all’evoluzione biologica.
IL RUOLO DELL’AMBIENTE
Concorrano, appunto. Ma non sostituiscono. Perché questo è il punto focale intorno a cui si snoda il ragionamento di Fodor e Piattelli Palmarini: le leggi dell’auto-organizzazione della materia sono così forti e potenti da annullare di fatto il ruolo dell’ambiente e la selezione naturale del più adatto come motore dell’evoluzione? Fodor e Piattelli Palmarini sostengono di sì. Ancora una volta, non sono i primi. In anni recenti hanno cerato di farlo diversi studiosi – da Brian Goodwin a Stuart Kauffman, per citare i più famosi anche al grande pubblico. E tuttavia non ci sono riusciti. Sia Goodwin sia Kauffman hanno tentato di trovare una teoria scientifica alternativa a quella darwiniana. Ma quella teoria, come riconoscono anche Fodor e Piattelli Palmarini, Non c’è. Se gli errori di Darwin esistono, quelli degli altri sono superiori.
Ma esistono questi errori? No. O, in ogni caso, non sono decisivi. Nessuno dubita che il processo che «genera diversità» sia complesso e determinato da molti fattori, inclusi quelli strutturali. Nessuno dubita che dietro il caso si celi non l’alea, ma una serie di meccanismi fisici, chimici e biologici che semplicemente ignoriamo. Nessuno dubita che la selezione non sia solo adattativa. Darwin stesso sosteneva che la selezione naturale è il principale, ma non l’unico meccanismo di selezione. E tuttavia è davvero difficile sostenere che l’ambiente non abbia alcun ruolo nell’evoluzione biologica. Semmai sono da ricostruire le svariate forme con cui l’ambiente opera la selezione.
In altri termini, nessuno dei nuovi processi finora scoperti è in grado di minare il neodarwinismo. Tutti possono essere facilmente integrati nella teoria naturalistica che Charles Darwin ha proposto per spiegare i fatti noti dell’evoluzione biologica.
il Fatto 10.4.10
La sinistra ha finito i soldi e licenzia i lavoratori
La triste storia di Rifondazione e Pdci
di Luca Telese
Da partiti che ambivano a rappresentare i cassintegrati, a partiti che finiscono per essere costituiti “da” cassintegrati. Non c’è, ovviamente, solo la differenza di un articolo, fra queste due condizioni, ma la storia di un passaggio di epoca, la radiografia di un drammatico terremoto politico. Stiamo parlando di Pdci e Rifondazione (ma anche dei Verdi), ovvero dei partiti che dopo le ultime elezioni sono diventati zombie, costretti a demolire il loro apparato, a dismettere i (pochi) gioielli di famiglia rimasti, a chiudere i giornali, ad alienare le sedi, e – soprattutto – a licenziare e prepensionare tutti i loro dipendenti, proprio come nei processi di deindustrializzazione che in questi anni hanno tenacemente combattuto. Colpa degli sbarramenti elettorali, prima di tutto: che colpiscono non solo la rappresentanza, ma solo in Italia anche il diritto a ottenere rimborsi. E colpa anche, come vedremo fra breve, della strategia di Silvio Berlusconi (ma pure del Pd), che ha mirato a fare terra bruciata di tutte le organizzazioni politiche che avevano popolato la Seconda Repubblica. Un fenomeno, quindi, che non può indurre al sorriso, o a facili battute, ma che deve essere anche letto qualunque cosa si pensi di questi partiti come una ulteriore restrizione degli spazi democratici.
NON PIU’ VIRTUOSI. Il nostro viaggio non può che partire dal Pdci di Oliviero Diliberto, che fino alla catastrofe elettorale della lista arcobaleno del 2008 era additato come modello di gestione economica persino da un analista non certo tenero come Gianmaria De Francesco, cronista economico de Il Giornale: apparato ridotto, conti in regola, rapporto virtuoso tra eletti, voti e militanti, che garantiva solidi attivi di bilancio. Ebbene, la notizia che in queste ore, per motivi comprensibili, si prova a mantenere segreta, è che il partito è ormai alla bancarotta. Sul conto corrente ci sono solo 160 mila euro, quelli che bastano a malapena a gestire l’amministrazione ordinaria. Dei 21 dipendenti 17 sono stati posti in cassa integrazione. Ne rimangono solo quattro, di cui uno per motivi legali è l’amministratore, l’altro è un centralinista, l’altro è il segretario del segretario, e l’ultimo un organizzatore, ovvero il presidio minimo per cui il cuore dell’organizzazione non cessi di battere all’istante. Ancora più drammatica la situazione di Rinascita, il settimanale che ai tempi di Armando Cossutta fu oggetto di una contesa per il valore della testata, prestigiosa e direttamente riconducibile alla memoria di Palmiro Togliatti. Ecco, adesso il settimanale del Pdci è tecnicamente fallito, ha cessato le pubblicazioni, e tutti i giornalisti sono stati anche loro cassintegrati. Rinascita, che non aveva mai perso il suo ridotto ma il solido presidio di lettori costava da solo 900 mila euro l’anno, un lusso per un partito che deve tagliare gli stipendi a tutti. Già la storia di questo tracollo economico spiega come ci sia lo zampino del governo. Il settimanale, infatti, era uno dei pochi organi di partito, tra quelli che hanno diritto al sovvenzionamento pubblico, che non copriva in modo surrettizio altri scopi o altri fini. Ma la norma con cui Tremonti ha tolto il cosiddetto “diritto soggettivo” al finanziamento ha di fatto reso discrezionale l’accesso ai fondi dell’editoria: mentre prima le banche anticipavano le cifre a cui il giornale avrebbe avuto in ogni caso diritto in base alla sua tiratura, adesso – non essendoci più nessuna certezza, visto che si combatte ad ogni Finanziaria sulla copertura delle quote – non fanno più nessun credito. Infine il doloroso capitolo del bilancio del partito. Ancora nel 2008 aveva quattro gettiti importanti: il tesseramento, il finanziamento pubblico, i rimborsi elettorali e le rimesse degli eletti locali e nazionali, che devolvevano il 50% del proprio stipendio netto al partito. Nelle ultime politiche e alle europee, il Pdci non ha superato il quorum del 4%. E in questo caso, per via di un liberticida emendamento alla legge voluto in Parlamento dai veltroniani (Berlusconi era incerto), né Rifondazione, né i Verdi, né il Pdci hanno ottenuto un solo centesimo. Un piccolo assurdo democratico: infatti, la quota dei voti che questi partiti ottengono contribuisce a finanziare i loro avversari politici di centrodestra, o i loro concorrenti di sinistra rappresentati. Ma nel caso del Pdci le europee sono state come un tavolo da poker. Oliviero Diliberto ha deciso di puntare le sue residue risorse (quasi tre milioni di euro) per promuovere i propri candidati nell’alleanza con Rifondazione. Risultato paradossale: tutti e quattro i candidati del partito erano arrivati primi nella battaglia delle preferenze, centrando l’obiettivo. Ma, ancora una volta, il risultato elettorale, inferiore di 0.6 decimi di punto al quorum, ha sottratto all’alleanza elettorale quasi sei milioni di euro di finanziamento.
NAPOLI ADDIO. A via del Policlinico la situazione è altrettanto drammatica. “Io, che ho passato una vita a difendere i lavoratori dai licenziamenti – ammette con sofferenza Paolo Ferrero, segretario del partito – mi sono trovato a dover sottoscrivere la drammatica necessità di quaranta licenziamenti”. A cui, per giunta, si aggiungono, anche in questo caso, altri 40 dipendenti messi in cassa integrazione. E a cui si aggiunge la situazione precarissima di Liberazione, che ha già tagliato la foliazione, e ha dovuto mettere in solidarietà tutti i suoi dipendenti. Le vendite sono passate dalle 16 mila copie dell’era Curzi alle 4800 attuali. Ad aprile è prevista una verifica dei conti a cui il giornale potrebbe non sopravvivere. Le ultime elezioni vedevano partire il cartello della federazione da 48 consiglieri regionali, che dal punto di vista finanziario portavano 5 mila euro a testa ogni mese. In queste elezioni i due partiti sono passati a 18. 14 di Rifondazione, solo 4 del Pdci. Ma il quorum è stato mancato in Lombardia, che portava uno dei rimborsi elettorali più cospicui. A via del Policlinico resta (per ora) un apparato di 40 funzionari. Come pagarli? Per ora nell’unico modo possibile: mettendo in vendita un pezzo forte del patrimonio, la sede di Napoli. Ma per resistere fino alle prossime politiche, nella speranza di passare il quorum, ci vorrà altro.
Unica storia controtendenza? Quella di Sinistra e libertà, che ha ottenuto quasi lo stesso numero di eletti della federazione. Il caso virtuoso? Proprio in Puglia, dove Vendola ha trainato la lista al 9%, producendo un rimborso adeguato. Retroscena incredibile: Vendola ha speso solo 400 mila euro (contro sei milioni circa del suo avversario, Rocco Palese) perché il Pd, per via delle note ruggini, aveva trattenuto i 300 mila euro raccolti con le primarie. Vendola otterrà di rimborso molto di più. Li userà per finanziare le primarie nazionali in vista del 2012?
il Fatto 10.4.10
La Costituzione e l’istruzione
di Lorenza Carlassare
L’attuale maggioranza, favorevole alla scuola privata, ha portato a una mortificazione crescente della scuola pubblica che la Repubblica avrebbe il dovere di potenziare
L’art. 33 comma 1 “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” è l’importante premessa alle norme sull’istruzione e sulla scuola. Due garanzie costituzionali distinte vengono qui stabilite, relative l’una alla libertà della cultura, l’altra alla libertà d’insegnamento, condizioni necessarie allo sviluppo e rinnovamento della società. Non una cultura di Stato imposta e ideologicamente orientata, ma la libertà di espressione artistica, di ricerca scientifica e del relativo insegnamento. E’ un preciso divieto di interventi diretti a orientare la cultura o a limitarla: l’arte così come la ricerca scientifica (e qui il discorso porterebbe lontano). Evidente è la connessione con l’art. 21 sulla libertà di manifestazione del pensiero, ma il momento della libertà è ancor più accentuato. Un segno chiaro dell’importanza che la Costituzione annette alla cultura e alla ricerca scientifica è la loro espressa menzione già nei ‘Principi fondamentali’ (art. 9) affinché la Repubblica ne promuova lo sviluppo. All’affermazione di libertà – e dunque al divieto di limitare e interferire – si accompagnano gli obblighi gravanti sulla Repubblica per soddisfare il diritto all’istruzione, che come tutti i ‘diritti sociali’, richiede interventi pubblici per essere realizzato: strutture in grado di prestare i servizi, organizzazione, docenti idonei, mezzi adeguati. I diritti sociali sono i più esposti, i meno facili da garantire perché sono appunto ‘diritti che costano’. La Repubblica “istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi” dispone il comma 2, e “detta le norme generali sull’istruzione” affinché in tutto il territorio sia garantita l’omogeneità necessaria, pur trattandosi di materia di competenza regionale (art. 117). “Soltanto l’ente rappresentativo dell’intera comunità nazionale è in grado di dettare le regole generali volte ad assicurare, senza distinzione di aree geografiche, un trattamento scolastico in condizione di eguaglianza a tutti i cittadini” (Corte costituzionale, sent. n. 290/1994). Il 5 comma prescrive inoltre “un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”, esame, quest’ultimo per garantire la competenza di chi eserciterà le diverse professioni.
Ma lo Stato – obbligato a predisporre strutture adeguate – non ha il monopolio dell’istruzione. Il pluralismo che pervade la Costituzione è anche pluralismo scolastico, libertà di orientamento culturale e d’indirizzo pedagogico-didattico, con diritto alla “parità” e a un “trattamento scolastico equipollente”: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato” precisa il comma 2. Su questa formula, chiara e indiscutibile, si è invece aperto un dibattito che, con sottili ‘distinguo’ e interpretazioni forzate, ha condotto quasi a negarne il senso. L’atteggiamento dell’attuale maggioranza, particolarmente favorevole alla scuola privata, ha portato ad una mortificazione crescente della scuola pubblica che la Repubblica avrebbe il dovere di potenziare al massimo grado. Istruzione e democrazia vanno insieme; solo cittadini coscienti e informati sono in grado di tenerla in vita sottolineavano già i pensatori settecenteschi: “L’ignoranza è l’appannaggio del popolo schiavo: la scienza del libero” scriveva Giuseppe Compagnoni nel 1797. Ma forse l’ignoranza a taluni piace proprio per il suo effetto negativo sulla democrazia.
“La scuola è aperta a tutti”, così inizia l’art. 34 garantendo il diritto allo studio: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. L’obbligatorietà deve necessariamente coniugarsi alla gratuità e, quando l’obbligo finisce, affinché per i capaci e meritevoli il diritto allo studio non resti mera declamazione, “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. L’istruzione è fattore potente di mobilità sociale e di emancipazione della persona come riconosce la Corte costituzionale (sent. n. 219/2002): “Il diritto di studiare nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale o professionale, è d’altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli articoli 2,3 e 4 della Costituzione”. In questo senso l’istruzione è uno dei principali strumenti per realizzare l’eguaglianza fra le persone, per dare a tutti se non la piena parità dei punti di partenza, almeno la possibilità di non partire assolutamente svantaggiati. Il divario culturale e l’inferiorità che ne deriva è il primo degli ostacoli che la Costituzione (art. 3, comma 2) impone alla Repubblica di rimuovere, perché “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione”. “Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno”, sanciscono le norme europee; e “ogni individuo ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale e continua”. L’affermazione solenne dell’art. 34 “La scuola è aperta a tutti” vale, ovviamente, per tutti i bambini anche per i figli degli immigrati che, almeno in questo, non potrebbero subire discriminazioni: ma ai bambini nomadi che vivono in campi continuamente distrutti e spostati, l’allontanamento ripetuto da scuole che avevano iniziato a frequentare, consente un effettivo ‘diritto all’istruzione’?
Repubblica 10.4.10
C’eravamo amati
di Alessandra Longo
È già finito il "comune sentire" tra i radicali e il Pd in salsa laziale? Pare di sì. Registriamo il non affettuoso scambio tra la coppia di neo-eletti consiglieri regionali della Lista Bonino-Pannella, Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita, e il quasi ex vicepresidente del Lazio Esterino Montino (Pd), compagni di lotta fino all´altro ieri. Renata Polverini denuncia presunte «scandalose nomine dell´ultim´ora», ed ecco che i due radicali prendono le distanze al volo: «Se fosse vero, guai ad associare queste modalità partitocratiche, estranee alla nostra cultura, al nome di Emma Bonino». Risposta scritta e furibonda di Montino: «Prima di parlare, e fare da megafono ai vincitori, informatevi. Non ho fatto alcuna nomina. Perciò mi aspetto delle scuse». Avanti così.
Repubblica 10.4.10
L´ultradestra all'assalto dell'Ungheria
Sondaggi trionfali per i partiti xenofobi alle elezioni di domani
Slogan antisemiti e il progetto di cacciare i rom Per i socialisti una disfatta annunciata
di Andrea Tarquini
BUDAPEST - Sventola il tricolore nazionale per Viktor Orban, trionfatore annunciato, leader della Fidesz e ammiratore dichiarato di Silvio Berlusconi, nella splendida ex seconda capitale asburgica sotto il sole di primavera. Sventolano le bandiere di Jobbik, la destra radicale, con triangoli verdi e rossi di bellica memoria. Dei socialisti (postcomunisti) da anni accusati di corruzione e inefficienza al governo, vedi molta meno campagna elettorale, sul web o nelle strade. Ungheria, ventun anni dopo, prova danubiana per l´Europa: per la destra vincente sarà la seconda caduta del Muro, per le sinistre una Stalingrado in più in Europa. Ma qui dove la "Nuova guardia magiara" vicina a Jobbik sfila con uniformi nere o mimetiche che evocano l´Asse e fa paura a stranieri o rivali politici, qui sullo sfondo delle tirades xenofobe, antisemite e antieuropee dell´ultradestra, non solo fai fatica a vedere dove è finita l´Ungheria che nell´‘89 fu a fianco della Polonia di Solidarnosc e di Gorbaciov nella svolta.
Stenti anche a trovare dove e come il Centro, o un conservatorismo normale, possa ricrearsi. Per l´Unione europea e la Nato il voto di Budapest prepara sfide e dure prove, le tensioni sulle condizioni di vita - ritenute qui problematiche - delle minoranze ungheresi, specie in Slovacchia, possono inasprirsi. E in contrasto con il successo delle privatizzazioni, la pioggia d´investimenti e il boom economico a Varsavia, Praga, Lubiana o altrove al centro-est, l´Ungheria - salvata da un destino greco pochi mesi fa da Ue e Fondo monetario - appare ancora a rischio. Il governo uscente si loda ottimista, ma non basta.
«La Patria tornerà a governare», promette Orban. Tornerà, perché nel 1988 lui fu già premier. Come governerà, su questo lui resta nel vago, non concede interviste. Parla intanto di concedere la cittadinanza ungherese ai magiari oltre confine. Liberal o conservatore, pragmatico e aperto come gli ottimisti sperano o protezionista? Fino almeno a lunedì, a dopo il voto, lui - che in otto anni da leader dell´opposizione ha quasi sempre disertato le sedute del Parlamento - tace. I sondaggi danno il suo partito stravincente, tra il 58 e il 60 per cento dei consensi. Potrà quindi governare da solo con una maggioranza blindata, il suo sogno è addirittura una maggioranza di due terzi per avviare riforme costituzionali, e dare al paese una leadership a lungo termine. Jobbik oscilla tra il 12 e il 20 per cento, i socialisti (ex comunisti) temono il sorpasso. Grande incertezza la partecipazione al voto. "Il funambolo di Budapest", l´ha chiamato l´altro giorno Der Spiegel. Orban non deve certo temere i deboli socialisti, ma Jobbik alla sua destra. La destra radicale di Gabor Vona, chiede tolleranza zero contro criminalità di zingari e stranieri, «e vogliamo rinegoziare il Trattato europeo di Lisbona», afferma la bionda Krisztina Morvai. Parlano di «popolo ungherese ridotto in schiavitù», dalle multinazionali, da Israele e dagli ebrei, e di frontiere nazionali ingiuste.
Domani sera avremo i primi risultati. Due settimane dopo, un ballotaggio preciserà i rapporti di forza. Non siamo nella Varsavia che vola nell´export e nel benessere, e fa pace con Mosca sul massacro di Katyn, non siamo nella prospera Praga palcoscenico del disarmo Usa-Russia. Tra i mille lodevoli sforzi dell´Ungheria di guadagnare terreno nella Ue cui appartiene, qui il passato vive ancora nel presente.
Repubblica 10.4.10
Modigliani
Il "maledetto" che sfiorò l´avanguardia inaugura il nuovo museo di Gallarate
Che alle porte di Milano si inauguri un nuovo Museo d´arte, è un evento rilevante: a una preesistenza industriale si aggancia un nuovo corpo semicircolare e, con due telai laterali, si forma così una piazza. I progettisti Provasoli, Miano e Moretti nell´uso del mattone romanico e nelle forme elementari, hanno reso omaggio a Mario Botta. Gli interni luminosi e ampi ospitano la collezione permanente di Silvio Zanella, un raro mecenate, e mostre temporanee. Inaugura Il mistico profano. Omaggio a Modigliani, a cura di Buscaroli, Strinati e Zanella, catalogo Electa, fino al 19 giugno.
Modì, Maudit: facile gioco di parole per un destino ingrato che fa chiudere gli occhi per sempre a Modigliani a soli trentacinque anni. Bello come Gerard Philippe lo si vede nel ritratto di Salvini nel 1909 a Firenze, o nell´atelier di Montparnasse nel ´18: le foto scattate dall´amico Paul Guillaume di cui c´è uno splendido ritratto, ci rendono un uomo elegante, vestito di velluto, dal volto perfetto che smentisce il razzismo sulla fisiognomica degli ebrei e mostra un uomo non minato dall´alcol come vuole la leggenda bohèmienne. Modigliani apparteneva ad una famiglia già benestante della comunità livornese, ma nella città poco aveva potuto apprendere. La mamma, donna colta, gli aveva insegnato ad amare Dante, ma anche i contemporanei Carducci e Pascoli.
Lasciata Livorno si trasferisce per tre anni a Venezia e scrive a Oscar Ghiglia nel 1905: "Da Venezia ho ricevuto gli insegnamenti più preziosi", in una delle Lettere, edite da Abscondita. Per un toscano che si è fatto gli occhi sui Macchiaioli, che a Firenze ha seguito i corsi del vecchio Fattori, che ha vagato per i musei della Toscana, è un´affermazione impegnativa. I suoi nudi sono pronipoti delle Veneri di Tiziano e imparentate alla Danae del Correggio. Ho fisso nel cuore un nudo del ´19: era riprodotto in Sele-arte, la rivista di Ragghianti, che una compagna al liceo mi mostrò. Uno questi nudi, della Fondazione Agnelli, lo trovo in mostra. Mi invaghii di quelle immagini e da allora data la mia passione per Modigliani. Cosa fa amare questo pittore di un amore particolare? Un pittore di ritratti e di nudi, così tradizionali e così italiani, che si trova d´un tratto nel mezzo della tempesta in corso a Parigi. Vi giunge nel 1906 e vi resterà fino alla morte, è sfiorato dal fuoco delle avanguardie che lì divampano, senza che le sue ali d´artista si brucino. Ma la sua vita ne rimase bruciata: tra il Bateau-Lavoir e La Closerie de Lilas, i bistrots di Montmartre e le brasseries di Montparnasse, l´assenzio e qualche droga come molti artisti. Frequenta Picasso e Max Jacob, Matisse e Soutine, sa quel che sta avvenendo in quel crogiolo. Ma passa indenne tra fauves, cubisti, futuristi, e i primi sintomi surrealisti: in effetti la sua maniera precorre il "Ritorno all´ordine", perché lui l´ordine di un´arte classica non l´ha mai trasgredito.
Per questo De Chirico, in un gioco al massacro, è l´unico che salva: ed è davvero una sorpresa perché la pittura di Giorgio nulla ha a che vedere con l´infantilismo sognante di Modì. I suoi volti sono segnati da una ieraticità da icona, da mosaico bizantino, nella tela intride la maestà di Duccio, l´eleganza degli angeli dei Lorenzetti, la dolcezza delle madonne di Simone Martini. Colli lunghi, volti visti come in specchi deformanti, appena deformati dalla scomposizione cubista. La pennellata è morbida, il suo è un cromatismo elementare, una tavolozza in cui i rossi cupi e il rosa carne prevalgono, poi azzurri improvvisi – come nella veste che indossa la sua compagna, Jeanne Hébuterne: da lei ebbe una figlia, il giorno successivo alla morte di Modì, incinta, si lanciò dalla tromba delle scale. Neri sono gli abiti maschili di Léopold Survage e della Fanciulla. Modigliani vede che l´avanguardia ha acceso una miccia, ma mostra per l´esplosione che ne seguirà un´aristocratica indifferenza: attinge da Picasso solo il modo di campire i fondi dei ritratti. A Severini che gli propone di sottoscrivere il manifesto futurista, risponde che non può: l´idea di distruggere i musei non gli piace. Se ne sta in disparte, dipinge furiosamente per cercare di accontentare il mercante e amico russo Zborowski: una rete che Beatrice Buscaroli, in Ricordi via Roma, Il Saggiatore, ha ricostruito con amorevole minuzia.
Accanto ad una selezione di dipinti, ci sono bei disegni in mostra, alcuni appena leggibili, con un tratto di matita sottile come nel bellissimo ritratto dell´amico russo; ci sono poi le cariatidi, un tema che l´affascinano e preludono al suo essere scultore di forme assolute e volti di pietra. Dove la memoria di Tino da Camaino, di Brancusi, di maschere africane o khmer si mescolano. Dal ‘9 al ‘10 fu a Parigi Anna Achmatova, e della grande poetessa russa dipinse almeno tre ritratti, uno di essi, mi dice un´amica slavista, era ancora nel 1952 nella casa di San Pietroburgo. Mi chiedo dove sia finito. Jeanne Modigliani per una vita e ora la fondazione che ne porta il nome si prodigano per mettere ordine al catalogo delle opere e anche i documenti che ci restano, molti dei quali sono in mostra: foto, manoscritti, lettere, cartoline, oggetti.
Repubblica 10.4.10
De Chirico
Le Muse segrete del "pictor" che inventò la metafisica
Bonito Oliva classifica in un ordine inedito tele provenienti da tutto il mondo
"Tutti questi mobili appaiono sotto una luce nuova raccolti in una strana solitudine"
A Palazzo delle Esposizioni, a Roma, 140 quadri distribuiti per temi in sette sezioni: una nuova lettura dell´opera di un maestro finora considerato solo signore dell´artificio
Dal mito, all´ombra agli still life: le sue stanze delle meraviglie hanno segnato il ´900
ROMA. Una cosa è sicura: quella allestita a Palazzo delle Esposizioni non è la solita mostra di Giorgio De Chirico. L´enigmatico, l´inafferrabile, il sorprendente Pictor Optimus, questa volta è guardato e attraversato da un punto di vista davvero inusuale: il suo rapporto con l´elemento naturale.
La natura secondo De Chirico, titolo dell´esposizione curata da Achille Bonito Oliva, è per il pittore, celebre soprattutto per le "piazze d´Italia", quasi un ossimoro ricco di rivelazioni. Sarebbe piaciuto sicuramente all´artista, che detestava i luoghi comuni e si nutriva di cortocircuiti mentali pronti a svelare la vera essenza delle cose, questo sguardo diverso da sempre. E anche la divisione in sezioni, per temi che si aprono come piccole scatole in cui i quadri esposti (140 provenienti dai più importanti musei del mondo e da prestigiose collezioni private) trovano una dimora ideale. Come se la sua stessa pittura fosse una natura da classificare, un giardino da riordinare, per una nuova comprensione del percorso e delle intenzioni di un demiurgo dispettoso che amava nascondersi, travestirsi, giocare e forse anche barare e che, non a caso, intitolava i suoi quadri "enigmi".
Sono passati 100 anni dalla nascita della Metafisica, la grande intuizione di De Chirico afferrata in un "pomeriggio d´autunno" del 1910, complice una piazza di Firenze e una malattia che lo aveva debilitato fisicamente ma gli aveva elargito, come lui stesso racconta, "uno stato di morbosa sensibilità".
Questa stagione, che prosegue con gli anni parigini tra il 1911 e il 1915, è senz´altro la più amata dalla critica. Ma la mostra odierna rovescia il solito ordine cronologico per mescolare, davvero dechirichianamente, le carte. Il filo conduttore è il ‘tema´ ed in ogni sala il curatore e i responsabili delle singole sezioni (Laura Cherubini, Vincenzo Trione, Luca Massimo Barbero, Francesco Poli, Sabina D´Angelosante, Katherine Robinson, Victoria Noel-Johnson) hanno messo insieme le opere per affinità, facendole parlare tra loro.
De Chirico era nato a Volos, in Grecia, nel 1888, a pochi passi da un mare carico di simboli, da cui, secondo la leggenda, era salpata la nave degli Argonauti. E il viaggio tra le scatole segrete di De Chirico comincia in questa esposizione proprio con "La natura del mito", quella abitata da dei ed eroi che gli faranno compagnia tutta la vita. E che spesso sono in partenza. Proprio come lui, che lascia la Grecia, va a Monaco, passa per Firenze e poi Torino, Parigi, Ferrara.
Artista errante come il bellissimo Ulisse qui esposto, nudo, disarmato, eppure sostenuto dalla forza del proprio desiderio, De Chirico trova la sua Itaca a Roma dove finisce per abitare e dove muore nel 1978. In questa "stanza delle meraviglie" ci sono centauri che combattono, Arianne malinconiche, teste di Giove, bizzarre e colorate figlie di Minosse, cavalli in riva al mare e, naturalmente, ci si imbatte negli Argonauti. Non lontani ecco anche Castore e Polluce, evocati tutte le volte che si racconta l´avventura artistica di De Chirico e di suo fratello Alberto Savinio: i Dioscuri-Pittori.
La seconda fermata di questo cammino è quella della "Natura dell´ombra". Qui tutto è architettura, la natura esiste come negazione. Per De Chirico l´ombra ha una vita propria, un suo irrisolvibile mistero: se si guarda con attenzione ognuna di queste opere ci si accorge che le ombre sono sempre proiettate da elementi che non sono visibili all´interno del quadro. Di tutta la mostra, questo luogo è quello in cui si è voluta celebrare la vittoria dell´assenza.
"La natura per De Chirico è materna e matrigna, è mediterranea e filosoficamente nordica" afferma Bonito Oliva. Questo appare evidente nelle successive tappe: la "Natura da camera", l´ "Antinatura" e la "Natura delle cose". I placidi e rassicuranti interni borghesi diventano universi che ospitano mondi infiniti e muse inquietanti. Ecco alberi che fioriscono su parquet, templi che occupano stanze e Ulisse che naviga tra le pareti di un appartamento. Oppure manichini con il corpo posseduto dagli oggetti che formano la loro identità: rovine per gli archeologi, salotti per i nobili e i borghesi, squadre e righelli per gli architetti. E poi oggetti sospesi in spazi inventati e mobili che abitano valli e paesaggi antichi. De Chirico stesso spiega di averli percepiti così in occasione di un trasloco: "Tutti questi mobili – scrive- ci appaiono sotto una luce nuova raccolti in una strana solitudine: una profonda intimità nasce tra loro, e si direbbe che un misterioso senso di felicità serpeggi in questo spazio". Eccola qui questa gioiosa rivelazione, sotto l´aspetto straordinario di un colpo di fulmine che diventa un rapporto indissolubile tra natura e artificio.
C´è poi la "Natura aperta" dove il fuoco dell´Offerta al sole incontra l´acqua dei Bagni misteriosi, un´altra invenzione, in cui il parquet diventa un mare domestico che ospita impossibili natanti tra le palafitte delle cabine, un tema su cui De Chirico ha continuato a creare le sue variazioni tra spiagge trasfigurate e grattacieli di New York. Infine ecco la "Natura viva" che è esattamente il contrario di quella morta. E infatti il grande Metafisico quando inquadrava mele, limoni, melograni, pesci o frammenti di statue pensava alla definizione tedesca Still leben - vita silente - a quadri che rappresentano "la vita silenziosa degli oggetti e delle cose, una vita calma, senza rumori e senza movimenti, un´esistenza che si esprime per mezzo del volume, della forma, della plasticità. In realtà gli oggetti, la frutta e le foglie sono immobili ma potrebbero essere mossi dalla mano umana o dal vento…". La stessa brezza di un´ Ottobrata. Che scuote le foglie degli alberi dei capolavori degli anni Venti, quei paesaggi romani da cui i cavalieri stanno sempre per andar via. Perché i quadri di De Chirico sono l´abbandono di ciò che si conosce, avventure verso un mondo in cui anche quanto è familiare si rivela incomprensibile. E proprio per questo terribilmente attraente.
venerdì 9 aprile 2010
l’Unità 9.4.10
Primo Piano. La Chiesa nella bufera
Da predicatore vaticano a supporter di Arkeon l’associazione accusata di violenze sui minori
Padre Cantalamessa, il frate che ha accostato lo scandalo pedofilia con l’antisemitismo, è tra i sostenitori del leader del gruppo Sacred Path, Vito Carlo Moccia, a giudizio a Bari per associazione a delinquere. E non solo
di Giovanni Maria Bellu
l processo è in corso a Bari. Gli imputati sono undici, accusati di reati quali associazione a delinquere, truffa, violenza privata, maltrattamento di minori. Il decreto che dispone il giudizio di Vito Carlo Moccia, inventore del metodo Arkeon, e presidente dell’associazione “Sacred Path”, è un repertorio di violenze psicologiche atroci. La più perfida consisteva nel fare credere agli adepti di aver subito nell’infanzia una violenza sessuale. Per questo si resta di stucco quando, nel leggere l’enorme materiale di documentazione sul “caso Arkeon”, si scopre che il più autorevole sostenitore di questa organizzazione è stato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, il frate cappuccino che lo scorso 2 aprile, parlando in presenza di Benedetto XVI, ha scatenato uno scandalo planetario paragonando la campagna di stampa sulla pedofilia nella Chiesa con «gli aspetti più vergognosi dell’antisemitismo».
È una storia complicata che si sviluppa in un lungo arco di tempo. Conviene, dunque, andare con ordine. Fondata da Vito Carlo Moccia nel 1999, l’associazione “Sacred Path” (cioè “il sentiero sacro”) nel Duemila, con l’invenzione del metodo Arkeon, assume la natura che l’ha portata in tribunale. Ma in quei primi anni opera con discrezione, aumentando proseliti e profitti attraverso un discreto passaparola. Ha anche una buona stampa. La popolarità televisiva arriva l’11 settembre del 2004. E quel giorno che il nome di padre Raniero Cantalamessa compare per la prima volta accanto a quello di Vito Carlo Moccia. Il predicatore dedica una puntata della sua rubrica televisiva “A sua immagine, le ragioni della speranza”, che va in onda tutti i pomeriggi del sabato su RaiUno, al metodo Arkeon e conduce un'intervista encomiastica a Moccia sul rapporto padre-figlio.
Ancora del lato oscuro di Arkeon non si è parlato. Cantalamessa, dunque, potrebbe essere ignaro di tutto. Deve infatti passare un altro anno e mezzo prima che lo scandalo esploda. Il 20 gennaio del 2006, Maurizio Costanzo ospita nel suo “Tutte le mattine”, che va in onda su Canale5, la psicologa Lorita Tinelli, presidente del Cesap (Centro studi sugli abusi psicologici) e due ex adepti di Arkeon: un “maestro” e una “allieva”. La denuncia dei metodi di Moccia è precisa e circostanziata: le accuse che sono alla base del processo in corso a Bari per la prima volta diventano pubbliche.
Ma Padre Cantalamessa non cambia idea. Al contrario. Un mese dopo a Milano, nella chiesa di S. Eustorgio, celebra una messa alla quale assistono Vito Carlo Moccia e centinaia di suoi discepoli. La cosa colpisce e sorprende quelli che già nutrono molti dubbi sulla vera natura di “Sacred path”. Perché il presentarsi come associazione non solo tollerata ma addirittura approvata dalla Chiesa è uno degli argomenti più forti di una campagna di proselitismo sempre più intensa: il numero degli adepti arriverà a sfiorare la ragguardevole cifra di ventimila.
L'Unità è in grado di raccontare quale fu il comportamento di padre Cantalamessa quando alcune persone si rivolsero a lui per segnalargli specifiche tragedie familiari prodotte dal metodo Arkeon. L’autenticità di questi documenti che aiutano a ricostruire quale retroterra culturale e anche spirituale ci sia dietro la clamorosa gaffe su pedofilia e antisemiti-
smo è certificata. Sono stati, infatti, prodotti dai legali di Vito Carlo Moccia a sostegno di un atto di citazione contro il Centro studi sugli abusi psicologici. In sostanza Moccia, per difendersi, ha chiamato in causa e difficilmente può averlo fatto senza esserne stato autorizzato il predicatore della Casa pontificia.
«Reverendo Padre», comincia così la lettera di un “musicista e studioso cattolico” di Rovereto (abbiamo i nomi degli autori di tutte le missive citate, ma li omettiamo per evidenti ragioni di discrezione, nda), il quale segnala a Cantalamessa il caso di una sua conoscente madre di un ragazzo che «da qualche tempo frequenta il movimento». «È preoccupata scrive perché il figlio «crede ciecamente ai poteri di Moccia, è aggressivo, ha abbandonato la fede e la parrocchia, sostiene la non divinità di Cristo e la sua equiparabilità ai vari profeti e santoni della storia. Sostiene, e qui sta il problema, che il movimento e il Moccia sono “benedetti” da lei padre Cantalamessa che di recente avrebbe celebrato una Santa messa con i diaconi di S. Eustorgio in Milano con il gruppo condividendone gli intenti». Quindi l’autore della lettera chiede al predicatore della Casa pontificia «il giusto consiglio da dare a quella mamma che da poco ha perso il marito e che, da buona cristiana, vorrebbe aiutare il figlio a recuperare la Verità e la Vita».
La risposta arriva poco più di due settimane dopo, il 24 marzo 2006. È una difesa accorata di Moccia e dei suoi metodi. C’è solo una vaghissima, e reticente, presa di distanze; «Non ho celebrato la messa per loro. Hanno chiesto di partecipare a una messa da me celebrata per la parrocchia di S. Eustorgio e sono stati accolti da me e dal parroco. Erano in 400 e hanno edificato tutti: molti si sono confessati e moltissimi hanno fatto la comunione». È vero. Cantalamessa, però, non dice che l’incontro con Moccia si protrasse oltre la celebrazione, proseguì nella sacrestia. Forse non sapeva, né immaginava, che quei momenti erano stati filmati e trasferiti in un Cd promozionale poi diffuso da “Sacred path”.
Il successivo capoverso della lettera è significativo per le analogie che presenta con gli argomenti utilizzati da chi, all’interno della Chiesa, vorrebbe negare il problema della pedofilia. È la tesi del “caso singolo”. «Il campo in cui opera Vito scrive Cantalamessa chiamando confidenzialmente per nome il capo di Arkeon è delicato e non meraviglia che ogni tanto ci sia qualcuno che, per motivi umani spesso complessi e talvolta inconfessati, sparga sul suo conto le voci più allarmanti, giudicando da un caso singolo tutto il complesso dell’opera». Ma la vera sorpresa è alla fine: il predicatore della Casa pontificia non si limita a difendere il capo di “Sacred path” ma si premura di informarlo della denuncia che gli è stata confidenzialmente rivolta. In calce alla lettera c’è, infatti, una nota manoscritta: «Caro Vito, ti invio una lettera che ho ricevuto e la mia risposta, perché, penso, è giusto che sia informato. Con affetto ti abbraccio e ti benedico. P. Raniero».
Qualche tempo dopo, a Cantalamessa giunge un’altra segnalazione allarmata. A inviargliela, il 5 aprile del 2006, è una signora di Magenta: «Molto reverendo padre, mi rivolgo a lei per chiederle aiuto. Una mia cara amica è disperata perché i suoi due figli, entrambi laureati e coniugati, con le loro rispettive famiglia hanno da tempo aderito ad una organizzazione che ha completamente stravolto in senso negativo la loro mente, il loro comportamento e il loro modo di vivere. Essi dicono di dover obbedire ad un certo “maestro”, fondatore e capo, rifiutano i contatti con la loro madre, non le lasciano avvicinare i nipoti. Seguono riti strani e pericolosi ... L’organizzazione si chiama Arkeon».
Il comportamento di padre Cantalamessa è sbalorditivo. Nella documentazione non c’è, come ci si aspetterebbe, la sua risposta. C’è invece (datata 19 aprile 2006) una lettera, scritta dalla stessa città, di un signore che poi è il marito dell’amica disperata della signora di Magenta. Questo signore, al pari dei due figli, ha aderito ad Arkeon o, almeno, ce l’ha in grande simpatia. E fa riferimento al contenuto della lettera inviata a Cantalamessa dall’amica della moglie. Come è potuto succedere? L’unica spiegazione è che anche questa volta Moccia sia stato informato e che abbia chiesto all’adepto di Magenta di scrivere qualcosa di rassicurante all’autorevole sponsor cattolico.
Nel giugno del 2006 viene avviata l’inchiesta giudiziaria. E a ottobre di quello stesso anno, il “caso Arkeon”, come ormai si chiama, riesplode sugli schermi. Questa volta in una puntata di “Mi manda Rai 3” dove sono presenti gli accusatori (tra i quali la psicologa Lorita Tinelli) e il leader degli accusati, Vito Carlo Moccia. C’è anche un ragazzo che racconta di essere stato obbligato a chiedere l’elemosina con appeso al collo un cartello con su scritto «sono schizofrenico». Sua madre in seguito racconterà di aver segnalato il dramma del figlio a padre Cantalamessa fin dal 2004, dopo aver assistito sgomenta all’intervista di Moccia nella rubrica del predicatore, e di non aver mai avuto risposta. L’immagine dell’associazione ne esce a pezzi davanti all’opinione pubblica. Ma, ancora una volta non davanti al predicatore della Casa pontificia.
Ecco come risponde a una lettera inviatagli qualche giorno dopo da un’aderente al Cesap: «Ho visto la trasmissione e mi ha dato l’impressione di un penoso linciaggio. Agli accusati non è stato permesso di terminare una sola frase. C’è stato, mi sembra di capire, un caso di un operatore che ha effettivamente abusato della propria posizione che, però, è stato per questo sospeso (...) Non si dovrebbe fare di ogni erba un fascio. Chi si sognerebbe di voler mettere fuori legge la Chiesa cattolica o l’associazione degli psichiatri perché qualche loro membro ha abusato del suo ufficio?».
Due mesi dopo, il 30 dicembre 2006, si verifica l’evento televisivo più importante. E anche più significativo rispetto ai rapporti tra Cantalamessa e “Sacred path”. Nella settimanale puntata della sua rubrica, il predicatore pontificio manda in onda la registrazione di un’intervista. Nello schermo appare una giovane coppia con un bambino di circa tre anni tenuto in braccio dal padre. Il padre dice di chiamarsi Luca, afferma di «essere stato» omosessuale e di essere «guarito» grazie ad Arkeon. Curiosamente, nel presentare il filmato, Cantalamessa non nomina l’organizzazione ma la definisce semplicemente «gruppo di sostegno». Né, naturalmente, dice chi ha realizzato il filmato, né di chi è la voce fuori campo che pone a Luca domande sul suo percorso. Eppure lo conosce benissimo: è, infatti, Vito Carlo Moccia.
La puntata non passa inosservata. E non solo perché, in seguito, molti riconosceranno in quel Luca il «Luca era gay» della canzone di Povia. Interviene il garante della privacy che rivolge alla Rai e al conduttore un ammonimento per aver violato le regole deontologiche che tutelano i minori. Il bambino di Luca non solo era perfettamente riconoscibile ma, osserva il garante, ha dovuto assistere a un’intervista che riguardava «anche aspetti estremamente delicati relativi a vissuti dolorosi di uno dei genitori: gli abusi sessuali subiti da parte di un familiare».
Se potevano esserci ancora dei dubbi sulla gravità e sulla serietà delle accuse a “Sacred path”, essi vengono a cadere il 10 ottobre del 2007 quando a Moccia e agli altri dirigenti vengono notificati gli avvisi di garanzia. La notizia fa clamore e la tv torna ad occuparsene. Questa volta è Striscia la notizia che scopre e manda in onda spezzoni dell’intervista-spot a Moccia andata in onda nel 2004. L’effetto è sconvolgente per il contrasto tra la figura del predicatore e i fatti raccontati dai testimoni. Cantalamessa è costretto a intervenire.
È una presa di distanze imbarazzata e tardiva, come le scuse alla comunità ebraiche dopo la gaffe sull’antisemitismo. Scrive il predicatore: «Personalmente io non sono venuto a conoscenza di nessun abuso, che altrimenti sarei stato il primo a denunciare e condannare».
È falso. Padre Raniero Cantalamessa fu informato dei comportamenti di “Sacred path” sicuramente nelle due lettere che abbiamo riportato. Non solo non fece alcuna denuncia ma, come abbiamo visto, informò il capo dell’organizzazione. Proprio come quei prelati che, davanti alle denunce di casi di pedofilia, non si rivolsero alla magistratura ma alle autorità ecclesiastiche gerarchicamente superiori.
l’Unità 9.4.10
Il ruolo di Cantalamessa. È stato affidato fin dal 1743 ai frati dell’ordine dei cappuccini
Le funzioni solenni Tra gli altri, il compito di tenere l’omelia in occasione del venerdì santo
«Predicatore apostolico»: il frate che “parla” ai papi
Un ruolo chiave per la Chiesa quello ricoperto da Raniero Cantalamessa. Il «predicatore della Casa pontificia» è un interlocutore della curia e del papa, è il frate che stimola l’esame di coscienza sulla coerenza col Vangelo.
di Roberto Monteforte
Quella del predicatore della Casa pontificia è una funzione di grande prestigio e delicatezza. Egli è il frate che, proprio per la forza e la condizione del monaco, “parla” alla Curia e al Papa. Che aiuta il pontefice, i cardinali e i superiori degli ordini religiosi a meditare il Vangelo, sollecitando e stimolando la riflessione personale, l’esame di coscienza sulla coerenza con le verità evangeliche. È dal 1743, per volontà di Papa Benedetto XIV, che questo compito è assegnato ai padri cappuccini. In precedenza veniva svolto a turno dai Procuratori generali dei quattro ordini mendicanti (i Predicatori ossia i Domenicani, i Minori ossia i
Francescani, gli Eremitani di Sant’Agostino e i Carmelitani).
Le meditazioni del predicatore si tengono nella Cappella Redemptoris Mater nel Palazzo apostolico e avvengono in due momenti particolari dell’anno liturgico: tutti i venerdì di Quaresima e in quelli di Avvento. Spetta al predicatore della Casa pontificia tenere l’omelia il giorno del venerdì santo. Le riflessioni del predicatore apostolico sono le parole della Chiesa che giungono ai fedeli. Vengono, infatti, rilanciate dai media cattolici. Sono rivolte al Papa e alla curia, ma che hanno anche un preciso intento divulgativo.
L’esperienza di divulgatore della Parola padre Raniero Cantalamessa (che è predicatore apostolico dal 1980) l’ha maturata anche come conduttore televisivo. Per una decina d’anni, sino alla fine dello scorso anno, con la trasmissione di RaiUno “A sua immagine. Le ragioni della speranza” ogni sabato pomeriggio ha spiegato al grande pubblico il Vangelo della domenica.
Padre Cantalamessa è figura autorevole e stimata non solo Oltretevere. Non fu certo un caso se la congregazione generale dei cardinali, in occasione del conclave dell’aprile 2005 che portò all’elezione di Benedetto XVI come successore di Giovanni Paolo II, chiese a lui, oltre che al cardinale Špidlíkdi, di svolgere le «esortazioni» al collegio cardinalizio. ❖
l’Unità 9.4.10
I legali delle vittime di pedofilia chiamano in causa AgostinoVallini
La difesa: «Ho agito con rigore». L’Economist: Chiesa medievale
Roma, vittime accusano il cardinal vicario: non agì contro gli abusi
Vittime di un prete pedofilo morto suicida accusano il cardinale vicario del Papa, Vallini: quando era vescovo di Albano non intervenne. La replica: quel prete è stato subito sospeso a divinis. Si è scelto il rigore.
di Roberto Monteforte
Lo scandalo pedofilia rischia di colpire anche il vicario del Papa per la diocesi di Roma, cardinale Agostino Vallini. L’accusa è pesante. Riguarda il periodo in cui il porporato era vescovo di Albano. Nel 2006 avrebbe «coperto» un prete pedofilo, don Marco Agostini, ex parroco a Pomezia (Roma), poi arrestato e morto suicida. Nega ogni responsabilà o sottovalutazione il porporato, che anzi, sottolinea: «Ho agito con rigore».
«Quando alcuni anni fa ci rivolgemmo al vescovo di Albano di allora, ora cardinale vicario Agostino Vallini, per denunciare gli atti di pedofilia di don Marco, il vescovo ci disse che “al momento erano solo chiacchiere”. Poi ci spiegò che avrebbe preso provvedimenti, ma don Marco non fu denunciato alla polizia nè interdetto dal sacerdozio, fu solo trasferito ad Assisi, dove vedeva altri giovani». Parla così una delle presunte vittime dell'ex parroco coinvolto nell'aprile 2006 in un'indagine sulla pedofilia condotta dagli agenti della squadra mobile di Roma. Don Marco è morto suicida a Roma nell'agosto 2006 mentre era agli arresti domiciliari. Era stato arrestato il 5 aprile dello stesso anno dagli agenti che avevano fatto luce su una brutta storia di violenze e soprusi a danno di minori. L’arresto è avvenuto ad Assisi, dove il religioso era stato trasferito nel 2002. «Stiamo valutando un’azione civile autonoma nei confronti della curia di Albano afferma l’avvocato Romano, legale delle vittime perché all’epoca dei fatti non avrebbe fatto nulla per impedire gli abusi per cui è responsabile civile». La richiesta è di risarcimento dei danni morali.
LA VERITÀ DEL CARDINALE
Completamente diversa è la ricostruzione dei fatti fornita dal cardinale Vallini. Intanto si chiarisce che don Marco non era un prete della diocesi, ma apparteneva all’Ordine degli Oblati di San Francesco di Sales e che svolgeva il ministero pastorale nella parrocchia di San Benedetto a Pomezia affidata a quei religiosi. Quindi non dipendeva «direttamente» dal vescovo. Il quale però, informato dei fatti, intervenne tempestivamente. Il prete fu immediatamente sospeso «a divinis» e che ne fu chiesto al legittimo superiore (quindi al superiore del suo Ordine) «l’immediato trasferimento ad altra sede, senza l'esercizio del ministero». Nei fatti don Marco non avrebbe potuto più svolgere attività da sacerdote. Comunque non sarebbe stato l’allora monsignor Vallini a trasferirlo ad Assisi. In conclusione si sarebbe praticata la via del rigore e questo malgrado «le forti reazioni al trasferimento dell’ex parroco da parte della popolazione di Pomezia». Questo, ribadisce in una nota Vallini, ancora prima che venisse appurata la «veridicità dei fatti». Nessuna sottovalutazione, quindi. Due verità a confronto. Andrebbero meglio chiarite date e circostanze, azione canonica e collaborazione con la magistratura. Quello che emerge è che il bubbone pedofilia rischia di esplodere anche in Italia, anche nella diocesi del Papa. Proprio nel giorno in cui il segretario di Stato, cardinale Bertone parla del «profondo dolore di Papa» per «i sacerdoti infedeli» e rilancia la teoria del «complotto» evocata dal decano del collegio, cardinalizio Angelo Sodano. La curia fa muro proprio mentre lo scandalo cresce. Ieri vi è stato
il «mea culpa» dei vescovi di Malta.
IL COMPLOTTO TEORIA SBAGLIATA
Il gridare al «complotto», alla «cospirazione» e al «chiacchiericcio» danneggia, anziché aiutare, l'immagine del Vaticano. Lo scrive l’Economist che parla di Chiesa medievale. Mentre si hanno argomenti robusti da utilizzare, si preferisce seguire lo stile usato con successo da Berlusconi: «Gli accusati nei vari scandali che adottano il ruolo delle vittime». Sui buoni argomenti del Papa e della Chiesa, interviene anche Famiglia Cristiana. Titola: «Il Papa agisce, gli Stati no».
l’Unità 9.4.10
Le Iene mostrano in tv il «prete molestatore» durante ma anche dopo...
di Marzio Cencioni
Mercoledì la trasmissione di Italia1 ha mandato in onda un servizio realizzato con telecamera nascosta e audio alterato. Un sacerdote del Nord approfitta della confessione di un ragazzo per baciare, palpare ed essere toccato.
«Il Signore ci perdona». Così dice il sacerdote «X» al suo giovane interlocutore. Il programma è «Le Iene», Italia1, ore 23,30 di mercoledì, a metà tra l’informazione e lo spettacolo, infoentertainment dicono gli esperti. Un ragazzo in studio si rivolge a Matteo Viviani, una delle Iene, per rivelare che qualche tempo fa era stato baciato da un prete durante la
confessione. La «molla» che aveva scatenato le pulsioni del sacerdote era stata la frase: «Padre, sono omosessuale».
Le Iene decidono di tendere una trappola allo stesso sacerdote per vedere se a distanza di tempo i suoi comportamenti siano cambiati. Un giovane attore maggiorenne («ma dimostra molti anni di meno» specifica la voce fuori campo) si presenta dal prete e, fingendo di attraversare un momento di grande confusione, confessa di sentirsi attratto sessualmente da un amico. A questo punto il prete cambia strategia. Da una parte tenta di tranquillizzare il ragazzo («Non ti devi vergognare. La Chiesa accoglie gli omosessuali, gli vuole bene, non è che li condanna... È chiaro che se io e te facciamo del sesso facciamo peccato però se c’è un affetto che nasce... »), dall’altra cerca un contatto fisico. E lo ottiene. Più volte il sacerdote bacia il ragazzo, lo tocca, l’accarezza e chiede di essere toccato. Arriva persino a farlo accomodare sulle sue gambe e a sussurrargli una richiesta in un orecchio, a cui il giovane reagisce: «Veramente no, grazie».
Nella scena successiva è lo steso Viviani a recarsi dal sacerdote per metterlo di fronte alle proprie responsabilità. «Forse ho esagerato e chiedo scusa» dice, messo alle strette. Ma poi se la cava con un «io ormai ho rimosso la cosa, ho chiesto perdono al Signore, mi sono confessato... ».
il Fatto 9.4.10
Quando l’aborto è una scelta di sopravvivenza
Viaggio al San Camillo di Roma nel reparto che aiuta le donne
di Silvia D’Onghia e Valeria Fabbrini
Il reparto dell'ospedale romano San Camillo in cui si pratica l'interruzione di gravidanza è un padiglione a sé rispetto a quello maternità: si trova al piano meno uno, vi si accede senza ascensore, attraverso una scaletta di emergenza di ferro che porta in un sotterraneo, un posto da nascondere, squallido e che da fuori a malapena si vede. Non ha l’aria di un centro di eccellenza, eppure è un vero punto di riferimento, poiché è il reparto più grande d’Italia. Ogni mattina 12 donne – italiane e straniere, minorenni e avanti negli anni – arrivano qui per compiere un gesto dolorosissimo. Quella di Bianca è solo una storia come tante, inverosimile ma normale all’interno di questo reparto. A soli 17 anni rimane incinta. E’ spaventata, non può parlare con i genitori, anzi, ha paura soprattutto di loro. Senza soldi, si rivolge alla struttura ospedaliera per sentirsi più sicura e tutelata. “Ho effettuato l’interruzione di gravidanza di lunedì, da sola e saltando un giorno di scuola. Tutto è avvenuto in silenzio come in una catena di montaggio. Ricordo le scale del seminterrato, eravamo tantissime ragazze, circa 20, ci chiamavano a turno. Quel giorno, però, l’ecografista era un obiettore; così mi chiesero di tornare un altro giorno per il controllo, ma neanche loro potevano sapere quando ci sarebbe stato uno specialista disponibile. L'aspirazione del feto non riuscì. Oggi il mio bambino ha tre anni e non saprò mai cosa è successo quel giorno, ma ogni volta che ci penso mi sento male”. Irina invece, ragazza moldava, ha dovuto subire un aborto terapeutico al quinto mese a causa di una grave malformazione del feto: “Ero nel lettino nel reparto dell’interruzione di gravidanza, non c’era l’anestesista, ricordo le urla della dottoressa alla ricerca dell’unico anestesista non obiettore. Alla fine mi fecero l’epidurale, ma dopo moltissime ore di attesa”.
Storie così Giovanna Scassellati, direttrice del Reparto Day Hospital del San Camillo, potrebbe raccontarne a centinaia.Lei fa parte di quella classe di medici in via di estinzione: i ginecologi non obiettori. “Siamo soltanto sette, una minoranza. Lo scorso anno abbiamo fatto 2400 interventi. Qui arrivano da ogni parte d’Italia, perché intorno a noi c’è il ‘deserto dei Tartari’: pensi che a Frosinone, per esempio, c’è un unico medico non obiettore”. La dottoressa Scassellati parla con una grande determinazione, con la tenacia di chi è consapevole di fare un lavoro di frontiera: “Sembra sempre che uno debba andare controcorrente, ma noi non è che ci divertiamo a fare un lavoro così”. Le donne che arrivano al San Camillo ricevono innanzitutto assistenza psicologica: “Che non si pensi che una arriva qui e in cinque minuti abortisce! Capita spesso che le donne, grazie ad un’adeguata assistenza, decidano di portare avanti la gravidanza. A quel punto noi le seguiamo gratuitamente”. Assistenza significa anche mediazione culturale: “Moltissime pazienti sono straniere, soprattutto rumene e moldave, ma anche filippine, sudamericane. L’ex sindaco Veltroni ci aveva finanziato un progetto che prevedeva dei mediatori culturali. Poi, col cambio di giunta, quel servizio è rimasto sospeso per cinque mesi, durante i quali c’è stato un drammatico calo di richieste di inserimento di spirali. Anche questo è un segnale. Poi, grazie anche al coinvolgimento della popolazione, siamo riusciti ad ottenere nuovi fondi”.
Il problema, come sempre, è culturale e investe soprattutto la prevenzione. “Che non esiste quasi più – prosegue la direttrice – A scuola non si fa educazione sanitaria, per esempio. Lo scorso anno sono arrivate da noi una novantina di minorenni senza alcuna informazione sessuale”.
Al San Camillo si arriva di mattina, ci si prenota e si fanno tutti gli accertamenti, dall’ecografia all’elettrocardiogramma. Ci sono 12 letti, quindi massimo 12 aborti al giorno. “Quando non si allaga tutto, come è accaduto mercoledì mattina”,
sorride amaramente la Scassellati. Qui la pillola RU486 non è ancora arrivata: “Non abbiamo la struttura, un intero reparto è in fase di ristrutturazione. E non si possono mettere insieme le donne che scelgono di abortire a quelle che partoriscono. Ma è solo una questione organizzativa. Quando avremo la possibilità lo faremo, attenendoci ai protocolli ministeriali e regionali”.
A Giovanna Scassellati non piace lo “sgradevole polverone” che si è alzato intorno alla pillola abortiva: “A crearlo sono anche molti colleghi, che si vogliono mettere in mostra. Invece bisogna mantenere un basso profilo, e rispettare le scelte dell’elettorato”. E continuare a lavorare, in questo sottoscala di sofferenza,
il Fatto 9.4.10
La legge 194 è legge, ma quasi nessuno la applica
di Chiara Paolin
Nel 2005 il 59% dei ginecologi non praticava l’aborto: secondo il ministero per la Salute la media nazionale supera oggi il 70%. Il che significa che, fuori dalle grandi città, si arriva al 100%, con l’onere di vagare da una struttura all’altra alla ricerca di un centro in grado di applicare la legge italiana. Si supera l’85% in Sicilia, Campania e Basilicata, il 90% a Bolzano, l’86% nel Lazio, solo a Trento e in Toscana si sta sul 30%. Mauro Buscaglia, primario al San Carlo di Milano, spiega che spesso i medici diventano obiettori per carriera: “Chi accetta di fare interruzioni di gravidanza rischia di essere penalizzato nella professione. Così in molti rinunciano, almeno dentro l’ospedale”. In Lombardia l’obiezione supera il 70% e regala casi clamorosi. Come quello di Leandro Aletti: sospeso dal servizio nel 1987, quando lavorava alla clinica Mangiagalli di Milano, e denunciato all'Ordine dei Medici nonché condannato per aver reso pubblico il nome di una donna a cui era stato praticato un aborto terapeutico, è stato promosso primario nell’ospedale di Melzo. Qualche mese fa ha urlato ‘assassine’ a tre donne che compilavano i moduli per l'interruzione. A Milano l'Ordine non può giudicarlo: è un consigliere.
Repubblica 9.4.10
Ru486, la Santa Sede attacca "Più obiezioni di coscienza"
Sacconi: vigiliamo sui ricoveri. Fazio: abbassiamo i toni
Per Roccella le dimissioni delle pazienti dovrebbero essere scoraggiate
di Paola Coppola
ROMA - Stop alle polemiche: la legge sull´aborto deve essere rispettata come le donne che decidono di interrompere la gravidanza. All´indomani dell´annuncio del primo aborto farmacologico, con la RU486 commercializzata in Italia, e della decisione della donna che l´ha assunta di lasciare il Policlinico di Bari e tornare a casa, rifiutando il ricovero di tre giorni, è intervenuto il ministro della Salute. «La scelta della paziente e la libertà della donna non possono essere messe in discussione», ha detto Ferruccio Fazio. «In ogni caso la mia considerazione personale - ha aggiunto - è che tutte queste cose non fanno certo bene a chi si trova in una situazione come quella capitata a questa donna». E se per il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, le dimissioni anticipate delle pazienti dovrebbero essere scoraggiate, un avvertimento è arrivato dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: «Se non dovesse avvenire da parte delle Regioni il rispetto effettivo della norma di legge, magari perché alcune amministrazioni incoraggiano le dimissioni volontarie, il governo interverrà».
La polemica continua. La Santa Sede ha chiesto di estendere il diritto all´obiezione di coscienza attraverso la voce del cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia: «Bisogna rivendicare fermamente sia per le persone sia per le istituzioni il diritto all´obiezione di coscienza contro l´aborto e l´eutanasia, diritto non ancora riconosciuto in molti Paesi». Rivolgendosi ai delegati delle associazioni pro life il porporato ha spiegato che bisogna «inserire i delitti di aborto e di eutanasia nel più ampio contesto dei molteplici delitti contro tutti i diritti fondamentali dell´uomo». All´attacco anche il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri che ha accusato alcune regioni di una «scandalosa campagna di disinformazione sull´uso della pillola chimica». La presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro ha risposto al governo: sono «minacce davvero fuori luogo per le donne, per i medici e per le strutture ospedaliere», e ha ipotizzato che dietro le polemiche scatenate dal primo caso di somministrazione della RU486 commercializzata in Italia ci sia l´obiettivo di colpire la legge 194.
«Le donne che effettuano interventi di interruzione della gravidanza hanno diritto alla piena tutela dell´anonimato e della loro intimità»: con queste parole anche il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto dopo l´attenzione sollevata dal caso della donna di Bari. Che oggi tornerà di nuovo in ospedale per sottoporsi alla seconda fase del trattamento con la pillola abortiva. «Tantissime richieste di informazioni stanno giungendo al nostro assessorato», ha confermato l´assessore alle Politiche della Salute della Regione Puglia, Tommaso Fiore, mentre nella struttura ospedaliera otto donne sono già in attesa di essere sottoposte allo stesso trattamento. Vista la richiesta il servizio potrebbe essere potenziato: oggi o al massimo lunedì ci sarà una riunione della direzione sanitaria dell´ospedale per discutere di questo.
Repubblica 9.4.10
Il medioevo che ci attende
La profezia di Jacques Attali
Sono le classi dirigenti ad alimentare l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere
Nel suo ultimo libro l´economista francese fornisce alcune ricette contro la crisi
L´impossibilità dell´Occidente di mantenere questo tenore di vita senza indebitarsi
Dovremo adattarci alla mancanza di solidarietà e alla necessità di cavarcela da soli
PARIGI. Dopo la crisi, le crisi. «Nel prossimo decennio il mondo attraverserà cambiamenti radicali, solo in parte collegati all´attuale situazione finanziaria. Ciascuno di noi sarà minacciato e dovrà trovare gli strumenti per salvarsi». Nel suo ultimo libro (Sopravvivere alle crisi, Fazi Editore), Jacques Attali profetizza un mondo sempre più precario e ostile, nel quale le classi dirigenti sono incapaci di pensare nel lungo periodo e anzi alimentano l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere. «Dovremo abituarci a cavarcela da soli, come le avanguardie del passato» spiega l´economista, ex consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Attali è uno degli intellettuali francesi più eclettici, capace di pubblicare opere su Karl Marx o sull´amore, ed è uno scrittore seriale. Si vanta di avere decine di libri già pronti nel cassetto, firma rubriche su molti giornali, colleziona consulenze e si occupa di Planet Finance, una Ong specializzata in progetti di microcredito. Instancabile, sempre di corsa. Come il mondo che prefigura.
Quali altre crisi ci aspettano?
«La crisi finanziaria del 2008 non è affatto terminata, nonostante i proclami trionfanti di qualche politico e banchiere. Quelli che gli anglosassoni definiscono "germogli" di ripresa sono, a mio avviso, soltanto segnali passeggeri. Molte banche continuano a essere insolventi, i prodotti speculativi più rischiosi si accumulano come e più di prima, i disavanzi pubblici sono ormai fuori controllo, il livello della produzione e il valore dei patrimoni restano in grandissima parte inferiori a quelli precedenti la crisi. La causa più profonda di questa crisi è l´impossibilità per l´Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi: su questo non è stata avviata un´adeguata riflessione».
Il peggio deve ancora venire?
«Nel 2020 la popolazione mondiale passerà da 7 a 8 miliardi e la classe media mondiale rappresenterà circa la metà degli individui che vorranno allinearsi al modello occidentale. Questo comporterà nuovi punti di criticità a livello ecologico. Nello stesso periodo assisteremo a progressi scientifici considerevoli, come le nanotecnologie, le neuroscienze, le biotecnologie. Ogni nuova scoperta scatenerà problemi etici e di possibili utilizzi secondari per scopi criminali o militari».
Tornando all´economia, dove finisce il tunnel?
«La congiuntura economica ci riserverà altre brutte sorprese. Personalmente, temo il ritorno dell´iperinflazione scatenata all´enorme liquidità creata dalle Banche centrali, la possibile esplosione della "bolla cinese" per colpa degli eccessivi crediti concessi e della sovraccapacità produttiva della Repubblica Popolare. Il sistema pubblico della sanità e dell´istruzione, per come l´abbiamo conosciuto finora, diventerà insostenibile per gli Stati. Il nostro stile di vita, sempre più precario e meno solidale. Chi vorrà sopravvivere dovrà accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno. Andiamo verso un mondo che assomiglia al Medioevo».
Non le sembra esagerato parlare di un ritorno al passato remoto?
«Come nel Quattrocento, il potere sarà concentrato in alcune città e alcune corporazioni. Già oggi 40 città-regioni producono due terzi della ricchezza del mondo e sono il luogo dove si realizza il 90 per cento delle innovazioni. In mancanza di una vera organizzazione globale, si diffonderanno epidemie e catastrofi naturali climatiche ed ecologiche. Ci saranno sempre più zone "fuori controllo", dove imperverseranno organizzazioni criminali e bande armate. I ricchi dovranno rifugiarsi in moderne fortezze».
E tutto questo sarebbe dovuto anche all´incapacità delle classi dirigenti e al fallimento del sistema di governance mondiale?
«Di fronte a una crisi, qualunque essa sia, la maggioranza degli individui comincia con il negare la realtà. Purtroppo questo meccanismo si applica perfettamente anche alle imprese e alle nazioni. Finora i governi hanno adottato una strategia che fa finanziare dai futuri contribuenti gli errori dei banchieri di ieri e i bonus di quelli di oggi».
Lei ha presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal governo Sarkozy, ma le riforme che aveva proposto sono state disattese. Anche nel caso della Francia manca il coraggio di preparare il futuro?
«Quello che più mi colpisce è che molti potenti vorrebbero tornare rapidamente al vecchio ordine, anche se è quello che ha scatenato la crisi finanziaria. Nell´attuale modello economico l´impresa è passata al servizio del capitale, a sua volta manipolato dalle leggi della Borsa. Le cose stanno così dal 1975, data dell´invenzione delle stock-options negli Stati Uniti».
Non è una visione troppo apocalittica?
«Non bisogna farsi prendere né dall´ottimismo né dal pessimismo. Negli ultimi 650 milioni di anni, la vita è praticamente scomparsa sette volte dalla superficie della Terra. Oggi rischiamo che succeda un´altra volta. Ma qualsiasi minaccia è anche un´opportunità. Quando si arriva a un punto di rottura siamo costretti a riconsiderare il nostro posto nel mondo e a cercare un´etica dei comportamenti completamente nuova. Sopravviverà di noi solo chi avrà fiducia in se stesso, chi non si rassegnerà. Ho affrontato parecchie crisi. E per questo ho pensato anche di raccogliere le mie lezioni di sopravvivenza».
Lei suggerisce il dono dell´ubiquità: cosa significa?
«I miei principi sono sette, da attuare nell´ordine. Innanzitutto bisogna partire dal rispetto di sé, e quindi prendere consapevolezza della propria persona, e dall´intensità, ovvero vivere pienamente sapendo proiettarsi nel lungo periodo. Ci sono poi l´empatia, indispensabile per capire gli altri, avversari o potenziali alleati, la resilienza che ci permette di costruire le nostre difese e la creatività per trasformare le minacce e gli attacchi in opportunità. Se questi cinque principi non funzionano bisogna cambiare radicalmente, coltivando l´ambiguità o persino l´ubiquità, imparando a essere mobili nella propria identità».
Ci lascia insomma un po´ di speranza…
«L´ultima lezione riguarda il pensiero rivoluzionario. In condizioni estreme, bisogna osare fino anche a violare le regole del gioco. Nessun organismo può sopravvivere senza operare una rivoluzione al suo interno. Ma tutto dovrà sempre partire dall´individuo. Come diceva Mahatma Gandhi: "Siate voi stessi il cambiamento che volete realizzare nel mondo"».
Ha appena pubblicato il primo "iperlibro", un volume cartaceo integrato da contributi audio e video. È questo il futuro della lettura?
«Non credo alla morte dei libri tradizionali. Ma è evidente che i giovani crescono imparando a leggere su uno schermo. Per loro sarà normale sfogliare una tavoletta elettronica come noi sfogliamo un libro. Anche quella dell´editoria è una crisi che si supera solo con il cambiamento».
Repubblica 9.4.10
Esce il memoir di Julie Myerson che ha scandalizzato l´Inghilterra
Quella rabbia materna per un figlio sballato
di Luciana Sica
Butta fuori di casa il suo "ragazzo" di 17 anni e cambia la serratura Una "storia vera" che restituisce il sentimento dell´impotenza e del fallimento come genitore
Una madre esasperata, ma sconcertante: butta fuori di casa il figlio di 17 anni e cambia la serratura. In Gran Bretagna si scatena il putiferio prima ancora dell´uscita del tragico memoir di Julie Myerson intitolato Il figlio perduto, ora anche nelle nostre librerie (Einaudi Stile libero, traduzione di Monica Capuani, pagg. 312, euro 18). Tanto che l´editore Bloomsbury ne anticipa la pubblicazione - è il marzo di un anno fa. Le accuse riguardano quel "solo" elemento della costruzione letteraria - piuttosto complessa - della Myerson: la sua scelta di "liberarsi" di un figlio insopportabile (è un eufemismo), dipendente da una droga più forte dell´erba (lo skunk).
Un reporter del Daily Mail non esita a rintracciare Jake Myerson, che intanto ha vent´anni. Gli offre un mucchio di soldi per "sparare" su una vicenda al centro di tavole rotonde in tivù, di blog e forum su internet. Ma anche di commenti autorevoli, anche sul domenicale del Times. L´eroe mediatico incassa il gruzzolo e liquida sua madre come "una fuori di testa" (insane), una dal comportamento "disgustoso" (obscene).
Qualche mese dopo esce anche l´edizione americana del Figlio perduto, sempre col sottotitolo A True Story, una storia vera, che da noi diventa "Storia di una madre". Ma negli Stati Uniti le polemiche non sono così accese, forse perché - si legge su The New York Times - lì gli scrittori sono avvezzi a confessioni personali su «dipendenze, incesti, tradimenti, follie, pedofilie, abusi, crimini, violenze».
Si vedrà l´accoglienza di questo libro in un paese "mammone" e "bamboccione" come l´Italia, che tende a ignorare i genitori derubati e picchiati dai loro ex adorabili bambini. Chi è infatti Jake Myerson? Il ritratto che ne fa la madre è disperante: il "ragazzo" (lo chiama sempre così) ha la fobia della scuola, non fa che rubare e sbraitare e sfasciare tutto, è sempre ringhioso e arriva a menare le mani - anche perforando, con un colpo, il timpano dell´autrice. In compenso scrive versi (bruttissimi, ma la mamma ne è incantata) e strimpella una chitarra, mendicando per strada. Altro che poeta maledetto, somiglia a un barbone.
A un certo punto, la scelta più drastica. È proprio lei, Julie, a gettare la spugna: lo mette alla porta, sperando in un´improbabile redenzione on the road. Il marito è d´accordo. Lo fanno perché - scrive lei - hanno il dovere di proteggere gli altri due figli più piccoli, sconvolti dalle malefatte di quel guastatore ad oltranza: uno che rifila lo spinello al fratellino tredicenne. I Myerson le hanno già provate tutte, più con le buone che con le cattive, parlano con insegnanti, terapeuti, frequentano associazioni di famiglie disastrate, come e (addirittura) peggio della loro. Alla fine lei lo caccia via, anche se poi sta malissimo, lo chiama di nascosto manco fosse un amante, lo riprende in casa, lo ributta fuori. Lo ama follemente (dalla prima all´ultima pagina), ma è piena di sensi di colpa, di sentimenti d´inadeguatezza, sempre a caccia di una qualche buona ragione che spieghi l´inspiegabile, visto che il "ragazzo" ha una famiglia rarissima del tipo Mulino bianco.
La Myerson si ostina allora a scavare nella sua infanzia, nella sua stessa adolescenza, nell´abbandono e poi nel suicidio del padre: qualcosa di quel terribile lutto avrà reso mortifero e distruttivo suo figlio? Forse sì, forse no. Poi vira su un´altra possibilità comunque autoaccusatoria: non sarà che il "ragazzo" ha cominciato a fumare, nella preadolescenza, quando c´è stata una breve crisi coniugale? Sarà cominciata così la discesa negli inferi? Accidenti, è così. Lo dice proprio lui alla mamma che alla fine gli confessa tremebonda di aver scritto della loro tristissima vicenda, con l´angoscia di essere investita da una sfilza d´insulti, secondo il consueto eloquio del giovanotto.
Già nel libro, la Myerson riporta le molte riserve che parenti (una nonna) e amici mostrano verso una decisione a dir poco radicale. Un libro parecchio strano, che denuncia un´altra ossessione dell´autrice: per certa Mary Yelloly, una pittrice vittoriana morta a ventun anni di tubercolosi. Ci sarà anche qualche specularità tra la misteriosa biografia dell´artista e quella del "ragazzo", ma il lettore tenderà a concentrarsi unicamente sull´autobiografismo agghiacciante di una madre che non sembra cattiva, anzi fin troppo devota - senz´altro una donna che porta alle conseguenze estreme la sensazione dell´impotenza e del fallimento come genitore.
Repubblica 9.4.10
Ipazia
La donna che sfidò la Chiesa
di Roberta De Monticelli
Film, convegni, spettacoli teatrali dedicati alla figura femminile dell´antichità che in difesa della scienza e della filosofia affrontò la persecuzione fino alla morte
Fu Cirillo, vescovo cristiano di Alessandria, a eccitare la folla che la uccise
La lezione della ricerca della verità contro tutti i fondamentalismi religiosi
"Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora della sua febbre fina/ e anche del suo un po´ frenetico deliquio…". Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l´inizio del V, nell´incendio della più grande biblioteca dell´Antichità, l´ultimo "sogno della ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell´astrolabio - secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c´è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l´ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia.
La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell´impero romano, resta "una macchia indelebile" sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava, con l´epoca cristiana, l´orrore della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l´editto di Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.
Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell´antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso di un´epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città davvero mutata, talvolta cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si rimescola una nuova vita/o soltanto la dissipazione di tutto./E non trovo risposta". E´ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione sull´impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche per l´azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare la mente" e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato amico - "l´intimazione della verità è un´arte di oggi,/come la persuasione lo fu di ieri". "Agora", appunto, si intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi. Si dice che sia "un duro atto d´accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione. "Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui".
Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell´armonia fra la ragione che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece - proprio come nel nostro - "la sorte della città è precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare all´istante./Occorrono idee brevi e decise - oppure cinismo".
Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia ebraico cristiana", come scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po´ incongrue, difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre parrebbe difficile dare un sesso alla geometria euclidea).
Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza notturna di Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al punto che "una luce d´aurora" promana da "quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima conversazione con Dio. "Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E´ colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: "Non lo sei ancora. C´è tutta l´enorme distesa del diverso,/del brutale, del violento/contrario alla geometria del tuo pensiero/che devi veramente intendere". Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia alla cui parola "si addice la temperatura del fuoco" si avvia verso quello che già intravede come l´estremo sacrificio. "Non c´è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto/nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione./Dobbiamo deflettere a lasciarli al loro disinganno?". E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: "La nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del poi?/Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani."
Ma non c´è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. "Così finisce il sogno della ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo".
Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità intellettuale e spirituale, e di un modo d´essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento dell´assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza di "Sinesio". Cioè di Luzi.
Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l´urto dei mondi, la trasvalutazione dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso me lo ripeto:/ senza un´idea di sé/ da dare o da difendere/non si regna, si scivola a intrighi di taverna".
Primo Piano. La Chiesa nella bufera
Da predicatore vaticano a supporter di Arkeon l’associazione accusata di violenze sui minori
Padre Cantalamessa, il frate che ha accostato lo scandalo pedofilia con l’antisemitismo, è tra i sostenitori del leader del gruppo Sacred Path, Vito Carlo Moccia, a giudizio a Bari per associazione a delinquere. E non solo
di Giovanni Maria Bellu
l processo è in corso a Bari. Gli imputati sono undici, accusati di reati quali associazione a delinquere, truffa, violenza privata, maltrattamento di minori. Il decreto che dispone il giudizio di Vito Carlo Moccia, inventore del metodo Arkeon, e presidente dell’associazione “Sacred Path”, è un repertorio di violenze psicologiche atroci. La più perfida consisteva nel fare credere agli adepti di aver subito nell’infanzia una violenza sessuale. Per questo si resta di stucco quando, nel leggere l’enorme materiale di documentazione sul “caso Arkeon”, si scopre che il più autorevole sostenitore di questa organizzazione è stato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, il frate cappuccino che lo scorso 2 aprile, parlando in presenza di Benedetto XVI, ha scatenato uno scandalo planetario paragonando la campagna di stampa sulla pedofilia nella Chiesa con «gli aspetti più vergognosi dell’antisemitismo».
È una storia complicata che si sviluppa in un lungo arco di tempo. Conviene, dunque, andare con ordine. Fondata da Vito Carlo Moccia nel 1999, l’associazione “Sacred Path” (cioè “il sentiero sacro”) nel Duemila, con l’invenzione del metodo Arkeon, assume la natura che l’ha portata in tribunale. Ma in quei primi anni opera con discrezione, aumentando proseliti e profitti attraverso un discreto passaparola. Ha anche una buona stampa. La popolarità televisiva arriva l’11 settembre del 2004. E quel giorno che il nome di padre Raniero Cantalamessa compare per la prima volta accanto a quello di Vito Carlo Moccia. Il predicatore dedica una puntata della sua rubrica televisiva “A sua immagine, le ragioni della speranza”, che va in onda tutti i pomeriggi del sabato su RaiUno, al metodo Arkeon e conduce un'intervista encomiastica a Moccia sul rapporto padre-figlio.
Ancora del lato oscuro di Arkeon non si è parlato. Cantalamessa, dunque, potrebbe essere ignaro di tutto. Deve infatti passare un altro anno e mezzo prima che lo scandalo esploda. Il 20 gennaio del 2006, Maurizio Costanzo ospita nel suo “Tutte le mattine”, che va in onda su Canale5, la psicologa Lorita Tinelli, presidente del Cesap (Centro studi sugli abusi psicologici) e due ex adepti di Arkeon: un “maestro” e una “allieva”. La denuncia dei metodi di Moccia è precisa e circostanziata: le accuse che sono alla base del processo in corso a Bari per la prima volta diventano pubbliche.
Ma Padre Cantalamessa non cambia idea. Al contrario. Un mese dopo a Milano, nella chiesa di S. Eustorgio, celebra una messa alla quale assistono Vito Carlo Moccia e centinaia di suoi discepoli. La cosa colpisce e sorprende quelli che già nutrono molti dubbi sulla vera natura di “Sacred path”. Perché il presentarsi come associazione non solo tollerata ma addirittura approvata dalla Chiesa è uno degli argomenti più forti di una campagna di proselitismo sempre più intensa: il numero degli adepti arriverà a sfiorare la ragguardevole cifra di ventimila.
L'Unità è in grado di raccontare quale fu il comportamento di padre Cantalamessa quando alcune persone si rivolsero a lui per segnalargli specifiche tragedie familiari prodotte dal metodo Arkeon. L’autenticità di questi documenti che aiutano a ricostruire quale retroterra culturale e anche spirituale ci sia dietro la clamorosa gaffe su pedofilia e antisemiti-
smo è certificata. Sono stati, infatti, prodotti dai legali di Vito Carlo Moccia a sostegno di un atto di citazione contro il Centro studi sugli abusi psicologici. In sostanza Moccia, per difendersi, ha chiamato in causa e difficilmente può averlo fatto senza esserne stato autorizzato il predicatore della Casa pontificia.
«Reverendo Padre», comincia così la lettera di un “musicista e studioso cattolico” di Rovereto (abbiamo i nomi degli autori di tutte le missive citate, ma li omettiamo per evidenti ragioni di discrezione, nda), il quale segnala a Cantalamessa il caso di una sua conoscente madre di un ragazzo che «da qualche tempo frequenta il movimento». «È preoccupata scrive perché il figlio «crede ciecamente ai poteri di Moccia, è aggressivo, ha abbandonato la fede e la parrocchia, sostiene la non divinità di Cristo e la sua equiparabilità ai vari profeti e santoni della storia. Sostiene, e qui sta il problema, che il movimento e il Moccia sono “benedetti” da lei padre Cantalamessa che di recente avrebbe celebrato una Santa messa con i diaconi di S. Eustorgio in Milano con il gruppo condividendone gli intenti». Quindi l’autore della lettera chiede al predicatore della Casa pontificia «il giusto consiglio da dare a quella mamma che da poco ha perso il marito e che, da buona cristiana, vorrebbe aiutare il figlio a recuperare la Verità e la Vita».
La risposta arriva poco più di due settimane dopo, il 24 marzo 2006. È una difesa accorata di Moccia e dei suoi metodi. C’è solo una vaghissima, e reticente, presa di distanze; «Non ho celebrato la messa per loro. Hanno chiesto di partecipare a una messa da me celebrata per la parrocchia di S. Eustorgio e sono stati accolti da me e dal parroco. Erano in 400 e hanno edificato tutti: molti si sono confessati e moltissimi hanno fatto la comunione». È vero. Cantalamessa, però, non dice che l’incontro con Moccia si protrasse oltre la celebrazione, proseguì nella sacrestia. Forse non sapeva, né immaginava, che quei momenti erano stati filmati e trasferiti in un Cd promozionale poi diffuso da “Sacred path”.
Il successivo capoverso della lettera è significativo per le analogie che presenta con gli argomenti utilizzati da chi, all’interno della Chiesa, vorrebbe negare il problema della pedofilia. È la tesi del “caso singolo”. «Il campo in cui opera Vito scrive Cantalamessa chiamando confidenzialmente per nome il capo di Arkeon è delicato e non meraviglia che ogni tanto ci sia qualcuno che, per motivi umani spesso complessi e talvolta inconfessati, sparga sul suo conto le voci più allarmanti, giudicando da un caso singolo tutto il complesso dell’opera». Ma la vera sorpresa è alla fine: il predicatore della Casa pontificia non si limita a difendere il capo di “Sacred path” ma si premura di informarlo della denuncia che gli è stata confidenzialmente rivolta. In calce alla lettera c’è, infatti, una nota manoscritta: «Caro Vito, ti invio una lettera che ho ricevuto e la mia risposta, perché, penso, è giusto che sia informato. Con affetto ti abbraccio e ti benedico. P. Raniero».
Qualche tempo dopo, a Cantalamessa giunge un’altra segnalazione allarmata. A inviargliela, il 5 aprile del 2006, è una signora di Magenta: «Molto reverendo padre, mi rivolgo a lei per chiederle aiuto. Una mia cara amica è disperata perché i suoi due figli, entrambi laureati e coniugati, con le loro rispettive famiglia hanno da tempo aderito ad una organizzazione che ha completamente stravolto in senso negativo la loro mente, il loro comportamento e il loro modo di vivere. Essi dicono di dover obbedire ad un certo “maestro”, fondatore e capo, rifiutano i contatti con la loro madre, non le lasciano avvicinare i nipoti. Seguono riti strani e pericolosi ... L’organizzazione si chiama Arkeon».
Il comportamento di padre Cantalamessa è sbalorditivo. Nella documentazione non c’è, come ci si aspetterebbe, la sua risposta. C’è invece (datata 19 aprile 2006) una lettera, scritta dalla stessa città, di un signore che poi è il marito dell’amica disperata della signora di Magenta. Questo signore, al pari dei due figli, ha aderito ad Arkeon o, almeno, ce l’ha in grande simpatia. E fa riferimento al contenuto della lettera inviata a Cantalamessa dall’amica della moglie. Come è potuto succedere? L’unica spiegazione è che anche questa volta Moccia sia stato informato e che abbia chiesto all’adepto di Magenta di scrivere qualcosa di rassicurante all’autorevole sponsor cattolico.
Nel giugno del 2006 viene avviata l’inchiesta giudiziaria. E a ottobre di quello stesso anno, il “caso Arkeon”, come ormai si chiama, riesplode sugli schermi. Questa volta in una puntata di “Mi manda Rai 3” dove sono presenti gli accusatori (tra i quali la psicologa Lorita Tinelli) e il leader degli accusati, Vito Carlo Moccia. C’è anche un ragazzo che racconta di essere stato obbligato a chiedere l’elemosina con appeso al collo un cartello con su scritto «sono schizofrenico». Sua madre in seguito racconterà di aver segnalato il dramma del figlio a padre Cantalamessa fin dal 2004, dopo aver assistito sgomenta all’intervista di Moccia nella rubrica del predicatore, e di non aver mai avuto risposta. L’immagine dell’associazione ne esce a pezzi davanti all’opinione pubblica. Ma, ancora una volta non davanti al predicatore della Casa pontificia.
Ecco come risponde a una lettera inviatagli qualche giorno dopo da un’aderente al Cesap: «Ho visto la trasmissione e mi ha dato l’impressione di un penoso linciaggio. Agli accusati non è stato permesso di terminare una sola frase. C’è stato, mi sembra di capire, un caso di un operatore che ha effettivamente abusato della propria posizione che, però, è stato per questo sospeso (...) Non si dovrebbe fare di ogni erba un fascio. Chi si sognerebbe di voler mettere fuori legge la Chiesa cattolica o l’associazione degli psichiatri perché qualche loro membro ha abusato del suo ufficio?».
Due mesi dopo, il 30 dicembre 2006, si verifica l’evento televisivo più importante. E anche più significativo rispetto ai rapporti tra Cantalamessa e “Sacred path”. Nella settimanale puntata della sua rubrica, il predicatore pontificio manda in onda la registrazione di un’intervista. Nello schermo appare una giovane coppia con un bambino di circa tre anni tenuto in braccio dal padre. Il padre dice di chiamarsi Luca, afferma di «essere stato» omosessuale e di essere «guarito» grazie ad Arkeon. Curiosamente, nel presentare il filmato, Cantalamessa non nomina l’organizzazione ma la definisce semplicemente «gruppo di sostegno». Né, naturalmente, dice chi ha realizzato il filmato, né di chi è la voce fuori campo che pone a Luca domande sul suo percorso. Eppure lo conosce benissimo: è, infatti, Vito Carlo Moccia.
La puntata non passa inosservata. E non solo perché, in seguito, molti riconosceranno in quel Luca il «Luca era gay» della canzone di Povia. Interviene il garante della privacy che rivolge alla Rai e al conduttore un ammonimento per aver violato le regole deontologiche che tutelano i minori. Il bambino di Luca non solo era perfettamente riconoscibile ma, osserva il garante, ha dovuto assistere a un’intervista che riguardava «anche aspetti estremamente delicati relativi a vissuti dolorosi di uno dei genitori: gli abusi sessuali subiti da parte di un familiare».
Se potevano esserci ancora dei dubbi sulla gravità e sulla serietà delle accuse a “Sacred path”, essi vengono a cadere il 10 ottobre del 2007 quando a Moccia e agli altri dirigenti vengono notificati gli avvisi di garanzia. La notizia fa clamore e la tv torna ad occuparsene. Questa volta è Striscia la notizia che scopre e manda in onda spezzoni dell’intervista-spot a Moccia andata in onda nel 2004. L’effetto è sconvolgente per il contrasto tra la figura del predicatore e i fatti raccontati dai testimoni. Cantalamessa è costretto a intervenire.
È una presa di distanze imbarazzata e tardiva, come le scuse alla comunità ebraiche dopo la gaffe sull’antisemitismo. Scrive il predicatore: «Personalmente io non sono venuto a conoscenza di nessun abuso, che altrimenti sarei stato il primo a denunciare e condannare».
È falso. Padre Raniero Cantalamessa fu informato dei comportamenti di “Sacred path” sicuramente nelle due lettere che abbiamo riportato. Non solo non fece alcuna denuncia ma, come abbiamo visto, informò il capo dell’organizzazione. Proprio come quei prelati che, davanti alle denunce di casi di pedofilia, non si rivolsero alla magistratura ma alle autorità ecclesiastiche gerarchicamente superiori.
l’Unità 9.4.10
Il ruolo di Cantalamessa. È stato affidato fin dal 1743 ai frati dell’ordine dei cappuccini
Le funzioni solenni Tra gli altri, il compito di tenere l’omelia in occasione del venerdì santo
«Predicatore apostolico»: il frate che “parla” ai papi
Un ruolo chiave per la Chiesa quello ricoperto da Raniero Cantalamessa. Il «predicatore della Casa pontificia» è un interlocutore della curia e del papa, è il frate che stimola l’esame di coscienza sulla coerenza col Vangelo.
di Roberto Monteforte
Quella del predicatore della Casa pontificia è una funzione di grande prestigio e delicatezza. Egli è il frate che, proprio per la forza e la condizione del monaco, “parla” alla Curia e al Papa. Che aiuta il pontefice, i cardinali e i superiori degli ordini religiosi a meditare il Vangelo, sollecitando e stimolando la riflessione personale, l’esame di coscienza sulla coerenza con le verità evangeliche. È dal 1743, per volontà di Papa Benedetto XIV, che questo compito è assegnato ai padri cappuccini. In precedenza veniva svolto a turno dai Procuratori generali dei quattro ordini mendicanti (i Predicatori ossia i Domenicani, i Minori ossia i
Francescani, gli Eremitani di Sant’Agostino e i Carmelitani).
Le meditazioni del predicatore si tengono nella Cappella Redemptoris Mater nel Palazzo apostolico e avvengono in due momenti particolari dell’anno liturgico: tutti i venerdì di Quaresima e in quelli di Avvento. Spetta al predicatore della Casa pontificia tenere l’omelia il giorno del venerdì santo. Le riflessioni del predicatore apostolico sono le parole della Chiesa che giungono ai fedeli. Vengono, infatti, rilanciate dai media cattolici. Sono rivolte al Papa e alla curia, ma che hanno anche un preciso intento divulgativo.
L’esperienza di divulgatore della Parola padre Raniero Cantalamessa (che è predicatore apostolico dal 1980) l’ha maturata anche come conduttore televisivo. Per una decina d’anni, sino alla fine dello scorso anno, con la trasmissione di RaiUno “A sua immagine. Le ragioni della speranza” ogni sabato pomeriggio ha spiegato al grande pubblico il Vangelo della domenica.
Padre Cantalamessa è figura autorevole e stimata non solo Oltretevere. Non fu certo un caso se la congregazione generale dei cardinali, in occasione del conclave dell’aprile 2005 che portò all’elezione di Benedetto XVI come successore di Giovanni Paolo II, chiese a lui, oltre che al cardinale Špidlíkdi, di svolgere le «esortazioni» al collegio cardinalizio. ❖
l’Unità 9.4.10
I legali delle vittime di pedofilia chiamano in causa AgostinoVallini
La difesa: «Ho agito con rigore». L’Economist: Chiesa medievale
Roma, vittime accusano il cardinal vicario: non agì contro gli abusi
Vittime di un prete pedofilo morto suicida accusano il cardinale vicario del Papa, Vallini: quando era vescovo di Albano non intervenne. La replica: quel prete è stato subito sospeso a divinis. Si è scelto il rigore.
di Roberto Monteforte
Lo scandalo pedofilia rischia di colpire anche il vicario del Papa per la diocesi di Roma, cardinale Agostino Vallini. L’accusa è pesante. Riguarda il periodo in cui il porporato era vescovo di Albano. Nel 2006 avrebbe «coperto» un prete pedofilo, don Marco Agostini, ex parroco a Pomezia (Roma), poi arrestato e morto suicida. Nega ogni responsabilà o sottovalutazione il porporato, che anzi, sottolinea: «Ho agito con rigore».
«Quando alcuni anni fa ci rivolgemmo al vescovo di Albano di allora, ora cardinale vicario Agostino Vallini, per denunciare gli atti di pedofilia di don Marco, il vescovo ci disse che “al momento erano solo chiacchiere”. Poi ci spiegò che avrebbe preso provvedimenti, ma don Marco non fu denunciato alla polizia nè interdetto dal sacerdozio, fu solo trasferito ad Assisi, dove vedeva altri giovani». Parla così una delle presunte vittime dell'ex parroco coinvolto nell'aprile 2006 in un'indagine sulla pedofilia condotta dagli agenti della squadra mobile di Roma. Don Marco è morto suicida a Roma nell'agosto 2006 mentre era agli arresti domiciliari. Era stato arrestato il 5 aprile dello stesso anno dagli agenti che avevano fatto luce su una brutta storia di violenze e soprusi a danno di minori. L’arresto è avvenuto ad Assisi, dove il religioso era stato trasferito nel 2002. «Stiamo valutando un’azione civile autonoma nei confronti della curia di Albano afferma l’avvocato Romano, legale delle vittime perché all’epoca dei fatti non avrebbe fatto nulla per impedire gli abusi per cui è responsabile civile». La richiesta è di risarcimento dei danni morali.
LA VERITÀ DEL CARDINALE
Completamente diversa è la ricostruzione dei fatti fornita dal cardinale Vallini. Intanto si chiarisce che don Marco non era un prete della diocesi, ma apparteneva all’Ordine degli Oblati di San Francesco di Sales e che svolgeva il ministero pastorale nella parrocchia di San Benedetto a Pomezia affidata a quei religiosi. Quindi non dipendeva «direttamente» dal vescovo. Il quale però, informato dei fatti, intervenne tempestivamente. Il prete fu immediatamente sospeso «a divinis» e che ne fu chiesto al legittimo superiore (quindi al superiore del suo Ordine) «l’immediato trasferimento ad altra sede, senza l'esercizio del ministero». Nei fatti don Marco non avrebbe potuto più svolgere attività da sacerdote. Comunque non sarebbe stato l’allora monsignor Vallini a trasferirlo ad Assisi. In conclusione si sarebbe praticata la via del rigore e questo malgrado «le forti reazioni al trasferimento dell’ex parroco da parte della popolazione di Pomezia». Questo, ribadisce in una nota Vallini, ancora prima che venisse appurata la «veridicità dei fatti». Nessuna sottovalutazione, quindi. Due verità a confronto. Andrebbero meglio chiarite date e circostanze, azione canonica e collaborazione con la magistratura. Quello che emerge è che il bubbone pedofilia rischia di esplodere anche in Italia, anche nella diocesi del Papa. Proprio nel giorno in cui il segretario di Stato, cardinale Bertone parla del «profondo dolore di Papa» per «i sacerdoti infedeli» e rilancia la teoria del «complotto» evocata dal decano del collegio, cardinalizio Angelo Sodano. La curia fa muro proprio mentre lo scandalo cresce. Ieri vi è stato
il «mea culpa» dei vescovi di Malta.
IL COMPLOTTO TEORIA SBAGLIATA
Il gridare al «complotto», alla «cospirazione» e al «chiacchiericcio» danneggia, anziché aiutare, l'immagine del Vaticano. Lo scrive l’Economist che parla di Chiesa medievale. Mentre si hanno argomenti robusti da utilizzare, si preferisce seguire lo stile usato con successo da Berlusconi: «Gli accusati nei vari scandali che adottano il ruolo delle vittime». Sui buoni argomenti del Papa e della Chiesa, interviene anche Famiglia Cristiana. Titola: «Il Papa agisce, gli Stati no».
l’Unità 9.4.10
Le Iene mostrano in tv il «prete molestatore» durante ma anche dopo...
di Marzio Cencioni
Mercoledì la trasmissione di Italia1 ha mandato in onda un servizio realizzato con telecamera nascosta e audio alterato. Un sacerdote del Nord approfitta della confessione di un ragazzo per baciare, palpare ed essere toccato.
«Il Signore ci perdona». Così dice il sacerdote «X» al suo giovane interlocutore. Il programma è «Le Iene», Italia1, ore 23,30 di mercoledì, a metà tra l’informazione e lo spettacolo, infoentertainment dicono gli esperti. Un ragazzo in studio si rivolge a Matteo Viviani, una delle Iene, per rivelare che qualche tempo fa era stato baciato da un prete durante la
confessione. La «molla» che aveva scatenato le pulsioni del sacerdote era stata la frase: «Padre, sono omosessuale».
Le Iene decidono di tendere una trappola allo stesso sacerdote per vedere se a distanza di tempo i suoi comportamenti siano cambiati. Un giovane attore maggiorenne («ma dimostra molti anni di meno» specifica la voce fuori campo) si presenta dal prete e, fingendo di attraversare un momento di grande confusione, confessa di sentirsi attratto sessualmente da un amico. A questo punto il prete cambia strategia. Da una parte tenta di tranquillizzare il ragazzo («Non ti devi vergognare. La Chiesa accoglie gli omosessuali, gli vuole bene, non è che li condanna... È chiaro che se io e te facciamo del sesso facciamo peccato però se c’è un affetto che nasce... »), dall’altra cerca un contatto fisico. E lo ottiene. Più volte il sacerdote bacia il ragazzo, lo tocca, l’accarezza e chiede di essere toccato. Arriva persino a farlo accomodare sulle sue gambe e a sussurrargli una richiesta in un orecchio, a cui il giovane reagisce: «Veramente no, grazie».
Nella scena successiva è lo steso Viviani a recarsi dal sacerdote per metterlo di fronte alle proprie responsabilità. «Forse ho esagerato e chiedo scusa» dice, messo alle strette. Ma poi se la cava con un «io ormai ho rimosso la cosa, ho chiesto perdono al Signore, mi sono confessato... ».
il Fatto 9.4.10
Quando l’aborto è una scelta di sopravvivenza
Viaggio al San Camillo di Roma nel reparto che aiuta le donne
di Silvia D’Onghia e Valeria Fabbrini
Il reparto dell'ospedale romano San Camillo in cui si pratica l'interruzione di gravidanza è un padiglione a sé rispetto a quello maternità: si trova al piano meno uno, vi si accede senza ascensore, attraverso una scaletta di emergenza di ferro che porta in un sotterraneo, un posto da nascondere, squallido e che da fuori a malapena si vede. Non ha l’aria di un centro di eccellenza, eppure è un vero punto di riferimento, poiché è il reparto più grande d’Italia. Ogni mattina 12 donne – italiane e straniere, minorenni e avanti negli anni – arrivano qui per compiere un gesto dolorosissimo. Quella di Bianca è solo una storia come tante, inverosimile ma normale all’interno di questo reparto. A soli 17 anni rimane incinta. E’ spaventata, non può parlare con i genitori, anzi, ha paura soprattutto di loro. Senza soldi, si rivolge alla struttura ospedaliera per sentirsi più sicura e tutelata. “Ho effettuato l’interruzione di gravidanza di lunedì, da sola e saltando un giorno di scuola. Tutto è avvenuto in silenzio come in una catena di montaggio. Ricordo le scale del seminterrato, eravamo tantissime ragazze, circa 20, ci chiamavano a turno. Quel giorno, però, l’ecografista era un obiettore; così mi chiesero di tornare un altro giorno per il controllo, ma neanche loro potevano sapere quando ci sarebbe stato uno specialista disponibile. L'aspirazione del feto non riuscì. Oggi il mio bambino ha tre anni e non saprò mai cosa è successo quel giorno, ma ogni volta che ci penso mi sento male”. Irina invece, ragazza moldava, ha dovuto subire un aborto terapeutico al quinto mese a causa di una grave malformazione del feto: “Ero nel lettino nel reparto dell’interruzione di gravidanza, non c’era l’anestesista, ricordo le urla della dottoressa alla ricerca dell’unico anestesista non obiettore. Alla fine mi fecero l’epidurale, ma dopo moltissime ore di attesa”.
Storie così Giovanna Scassellati, direttrice del Reparto Day Hospital del San Camillo, potrebbe raccontarne a centinaia.Lei fa parte di quella classe di medici in via di estinzione: i ginecologi non obiettori. “Siamo soltanto sette, una minoranza. Lo scorso anno abbiamo fatto 2400 interventi. Qui arrivano da ogni parte d’Italia, perché intorno a noi c’è il ‘deserto dei Tartari’: pensi che a Frosinone, per esempio, c’è un unico medico non obiettore”. La dottoressa Scassellati parla con una grande determinazione, con la tenacia di chi è consapevole di fare un lavoro di frontiera: “Sembra sempre che uno debba andare controcorrente, ma noi non è che ci divertiamo a fare un lavoro così”. Le donne che arrivano al San Camillo ricevono innanzitutto assistenza psicologica: “Che non si pensi che una arriva qui e in cinque minuti abortisce! Capita spesso che le donne, grazie ad un’adeguata assistenza, decidano di portare avanti la gravidanza. A quel punto noi le seguiamo gratuitamente”. Assistenza significa anche mediazione culturale: “Moltissime pazienti sono straniere, soprattutto rumene e moldave, ma anche filippine, sudamericane. L’ex sindaco Veltroni ci aveva finanziato un progetto che prevedeva dei mediatori culturali. Poi, col cambio di giunta, quel servizio è rimasto sospeso per cinque mesi, durante i quali c’è stato un drammatico calo di richieste di inserimento di spirali. Anche questo è un segnale. Poi, grazie anche al coinvolgimento della popolazione, siamo riusciti ad ottenere nuovi fondi”.
Il problema, come sempre, è culturale e investe soprattutto la prevenzione. “Che non esiste quasi più – prosegue la direttrice – A scuola non si fa educazione sanitaria, per esempio. Lo scorso anno sono arrivate da noi una novantina di minorenni senza alcuna informazione sessuale”.
Al San Camillo si arriva di mattina, ci si prenota e si fanno tutti gli accertamenti, dall’ecografia all’elettrocardiogramma. Ci sono 12 letti, quindi massimo 12 aborti al giorno. “Quando non si allaga tutto, come è accaduto mercoledì mattina”,
sorride amaramente la Scassellati. Qui la pillola RU486 non è ancora arrivata: “Non abbiamo la struttura, un intero reparto è in fase di ristrutturazione. E non si possono mettere insieme le donne che scelgono di abortire a quelle che partoriscono. Ma è solo una questione organizzativa. Quando avremo la possibilità lo faremo, attenendoci ai protocolli ministeriali e regionali”.
A Giovanna Scassellati non piace lo “sgradevole polverone” che si è alzato intorno alla pillola abortiva: “A crearlo sono anche molti colleghi, che si vogliono mettere in mostra. Invece bisogna mantenere un basso profilo, e rispettare le scelte dell’elettorato”. E continuare a lavorare, in questo sottoscala di sofferenza,
il Fatto 9.4.10
La legge 194 è legge, ma quasi nessuno la applica
di Chiara Paolin
Nel 2005 il 59% dei ginecologi non praticava l’aborto: secondo il ministero per la Salute la media nazionale supera oggi il 70%. Il che significa che, fuori dalle grandi città, si arriva al 100%, con l’onere di vagare da una struttura all’altra alla ricerca di un centro in grado di applicare la legge italiana. Si supera l’85% in Sicilia, Campania e Basilicata, il 90% a Bolzano, l’86% nel Lazio, solo a Trento e in Toscana si sta sul 30%. Mauro Buscaglia, primario al San Carlo di Milano, spiega che spesso i medici diventano obiettori per carriera: “Chi accetta di fare interruzioni di gravidanza rischia di essere penalizzato nella professione. Così in molti rinunciano, almeno dentro l’ospedale”. In Lombardia l’obiezione supera il 70% e regala casi clamorosi. Come quello di Leandro Aletti: sospeso dal servizio nel 1987, quando lavorava alla clinica Mangiagalli di Milano, e denunciato all'Ordine dei Medici nonché condannato per aver reso pubblico il nome di una donna a cui era stato praticato un aborto terapeutico, è stato promosso primario nell’ospedale di Melzo. Qualche mese fa ha urlato ‘assassine’ a tre donne che compilavano i moduli per l'interruzione. A Milano l'Ordine non può giudicarlo: è un consigliere.
Repubblica 9.4.10
Ru486, la Santa Sede attacca "Più obiezioni di coscienza"
Sacconi: vigiliamo sui ricoveri. Fazio: abbassiamo i toni
Per Roccella le dimissioni delle pazienti dovrebbero essere scoraggiate
di Paola Coppola
ROMA - Stop alle polemiche: la legge sull´aborto deve essere rispettata come le donne che decidono di interrompere la gravidanza. All´indomani dell´annuncio del primo aborto farmacologico, con la RU486 commercializzata in Italia, e della decisione della donna che l´ha assunta di lasciare il Policlinico di Bari e tornare a casa, rifiutando il ricovero di tre giorni, è intervenuto il ministro della Salute. «La scelta della paziente e la libertà della donna non possono essere messe in discussione», ha detto Ferruccio Fazio. «In ogni caso la mia considerazione personale - ha aggiunto - è che tutte queste cose non fanno certo bene a chi si trova in una situazione come quella capitata a questa donna». E se per il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, le dimissioni anticipate delle pazienti dovrebbero essere scoraggiate, un avvertimento è arrivato dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: «Se non dovesse avvenire da parte delle Regioni il rispetto effettivo della norma di legge, magari perché alcune amministrazioni incoraggiano le dimissioni volontarie, il governo interverrà».
La polemica continua. La Santa Sede ha chiesto di estendere il diritto all´obiezione di coscienza attraverso la voce del cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia: «Bisogna rivendicare fermamente sia per le persone sia per le istituzioni il diritto all´obiezione di coscienza contro l´aborto e l´eutanasia, diritto non ancora riconosciuto in molti Paesi». Rivolgendosi ai delegati delle associazioni pro life il porporato ha spiegato che bisogna «inserire i delitti di aborto e di eutanasia nel più ampio contesto dei molteplici delitti contro tutti i diritti fondamentali dell´uomo». All´attacco anche il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri che ha accusato alcune regioni di una «scandalosa campagna di disinformazione sull´uso della pillola chimica». La presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro ha risposto al governo: sono «minacce davvero fuori luogo per le donne, per i medici e per le strutture ospedaliere», e ha ipotizzato che dietro le polemiche scatenate dal primo caso di somministrazione della RU486 commercializzata in Italia ci sia l´obiettivo di colpire la legge 194.
«Le donne che effettuano interventi di interruzione della gravidanza hanno diritto alla piena tutela dell´anonimato e della loro intimità»: con queste parole anche il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto dopo l´attenzione sollevata dal caso della donna di Bari. Che oggi tornerà di nuovo in ospedale per sottoporsi alla seconda fase del trattamento con la pillola abortiva. «Tantissime richieste di informazioni stanno giungendo al nostro assessorato», ha confermato l´assessore alle Politiche della Salute della Regione Puglia, Tommaso Fiore, mentre nella struttura ospedaliera otto donne sono già in attesa di essere sottoposte allo stesso trattamento. Vista la richiesta il servizio potrebbe essere potenziato: oggi o al massimo lunedì ci sarà una riunione della direzione sanitaria dell´ospedale per discutere di questo.
Repubblica 9.4.10
Il medioevo che ci attende
La profezia di Jacques Attali
Sono le classi dirigenti ad alimentare l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere
Nel suo ultimo libro l´economista francese fornisce alcune ricette contro la crisi
L´impossibilità dell´Occidente di mantenere questo tenore di vita senza indebitarsi
Dovremo adattarci alla mancanza di solidarietà e alla necessità di cavarcela da soli
PARIGI. Dopo la crisi, le crisi. «Nel prossimo decennio il mondo attraverserà cambiamenti radicali, solo in parte collegati all´attuale situazione finanziaria. Ciascuno di noi sarà minacciato e dovrà trovare gli strumenti per salvarsi». Nel suo ultimo libro (Sopravvivere alle crisi, Fazi Editore), Jacques Attali profetizza un mondo sempre più precario e ostile, nel quale le classi dirigenti sono incapaci di pensare nel lungo periodo e anzi alimentano l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere. «Dovremo abituarci a cavarcela da soli, come le avanguardie del passato» spiega l´economista, ex consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Attali è uno degli intellettuali francesi più eclettici, capace di pubblicare opere su Karl Marx o sull´amore, ed è uno scrittore seriale. Si vanta di avere decine di libri già pronti nel cassetto, firma rubriche su molti giornali, colleziona consulenze e si occupa di Planet Finance, una Ong specializzata in progetti di microcredito. Instancabile, sempre di corsa. Come il mondo che prefigura.
Quali altre crisi ci aspettano?
«La crisi finanziaria del 2008 non è affatto terminata, nonostante i proclami trionfanti di qualche politico e banchiere. Quelli che gli anglosassoni definiscono "germogli" di ripresa sono, a mio avviso, soltanto segnali passeggeri. Molte banche continuano a essere insolventi, i prodotti speculativi più rischiosi si accumulano come e più di prima, i disavanzi pubblici sono ormai fuori controllo, il livello della produzione e il valore dei patrimoni restano in grandissima parte inferiori a quelli precedenti la crisi. La causa più profonda di questa crisi è l´impossibilità per l´Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi: su questo non è stata avviata un´adeguata riflessione».
Il peggio deve ancora venire?
«Nel 2020 la popolazione mondiale passerà da 7 a 8 miliardi e la classe media mondiale rappresenterà circa la metà degli individui che vorranno allinearsi al modello occidentale. Questo comporterà nuovi punti di criticità a livello ecologico. Nello stesso periodo assisteremo a progressi scientifici considerevoli, come le nanotecnologie, le neuroscienze, le biotecnologie. Ogni nuova scoperta scatenerà problemi etici e di possibili utilizzi secondari per scopi criminali o militari».
Tornando all´economia, dove finisce il tunnel?
«La congiuntura economica ci riserverà altre brutte sorprese. Personalmente, temo il ritorno dell´iperinflazione scatenata all´enorme liquidità creata dalle Banche centrali, la possibile esplosione della "bolla cinese" per colpa degli eccessivi crediti concessi e della sovraccapacità produttiva della Repubblica Popolare. Il sistema pubblico della sanità e dell´istruzione, per come l´abbiamo conosciuto finora, diventerà insostenibile per gli Stati. Il nostro stile di vita, sempre più precario e meno solidale. Chi vorrà sopravvivere dovrà accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno. Andiamo verso un mondo che assomiglia al Medioevo».
Non le sembra esagerato parlare di un ritorno al passato remoto?
«Come nel Quattrocento, il potere sarà concentrato in alcune città e alcune corporazioni. Già oggi 40 città-regioni producono due terzi della ricchezza del mondo e sono il luogo dove si realizza il 90 per cento delle innovazioni. In mancanza di una vera organizzazione globale, si diffonderanno epidemie e catastrofi naturali climatiche ed ecologiche. Ci saranno sempre più zone "fuori controllo", dove imperverseranno organizzazioni criminali e bande armate. I ricchi dovranno rifugiarsi in moderne fortezze».
E tutto questo sarebbe dovuto anche all´incapacità delle classi dirigenti e al fallimento del sistema di governance mondiale?
«Di fronte a una crisi, qualunque essa sia, la maggioranza degli individui comincia con il negare la realtà. Purtroppo questo meccanismo si applica perfettamente anche alle imprese e alle nazioni. Finora i governi hanno adottato una strategia che fa finanziare dai futuri contribuenti gli errori dei banchieri di ieri e i bonus di quelli di oggi».
Lei ha presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal governo Sarkozy, ma le riforme che aveva proposto sono state disattese. Anche nel caso della Francia manca il coraggio di preparare il futuro?
«Quello che più mi colpisce è che molti potenti vorrebbero tornare rapidamente al vecchio ordine, anche se è quello che ha scatenato la crisi finanziaria. Nell´attuale modello economico l´impresa è passata al servizio del capitale, a sua volta manipolato dalle leggi della Borsa. Le cose stanno così dal 1975, data dell´invenzione delle stock-options negli Stati Uniti».
Non è una visione troppo apocalittica?
«Non bisogna farsi prendere né dall´ottimismo né dal pessimismo. Negli ultimi 650 milioni di anni, la vita è praticamente scomparsa sette volte dalla superficie della Terra. Oggi rischiamo che succeda un´altra volta. Ma qualsiasi minaccia è anche un´opportunità. Quando si arriva a un punto di rottura siamo costretti a riconsiderare il nostro posto nel mondo e a cercare un´etica dei comportamenti completamente nuova. Sopravviverà di noi solo chi avrà fiducia in se stesso, chi non si rassegnerà. Ho affrontato parecchie crisi. E per questo ho pensato anche di raccogliere le mie lezioni di sopravvivenza».
Lei suggerisce il dono dell´ubiquità: cosa significa?
«I miei principi sono sette, da attuare nell´ordine. Innanzitutto bisogna partire dal rispetto di sé, e quindi prendere consapevolezza della propria persona, e dall´intensità, ovvero vivere pienamente sapendo proiettarsi nel lungo periodo. Ci sono poi l´empatia, indispensabile per capire gli altri, avversari o potenziali alleati, la resilienza che ci permette di costruire le nostre difese e la creatività per trasformare le minacce e gli attacchi in opportunità. Se questi cinque principi non funzionano bisogna cambiare radicalmente, coltivando l´ambiguità o persino l´ubiquità, imparando a essere mobili nella propria identità».
Ci lascia insomma un po´ di speranza…
«L´ultima lezione riguarda il pensiero rivoluzionario. In condizioni estreme, bisogna osare fino anche a violare le regole del gioco. Nessun organismo può sopravvivere senza operare una rivoluzione al suo interno. Ma tutto dovrà sempre partire dall´individuo. Come diceva Mahatma Gandhi: "Siate voi stessi il cambiamento che volete realizzare nel mondo"».
Ha appena pubblicato il primo "iperlibro", un volume cartaceo integrato da contributi audio e video. È questo il futuro della lettura?
«Non credo alla morte dei libri tradizionali. Ma è evidente che i giovani crescono imparando a leggere su uno schermo. Per loro sarà normale sfogliare una tavoletta elettronica come noi sfogliamo un libro. Anche quella dell´editoria è una crisi che si supera solo con il cambiamento».
Repubblica 9.4.10
Esce il memoir di Julie Myerson che ha scandalizzato l´Inghilterra
Quella rabbia materna per un figlio sballato
di Luciana Sica
Butta fuori di casa il suo "ragazzo" di 17 anni e cambia la serratura Una "storia vera" che restituisce il sentimento dell´impotenza e del fallimento come genitore
Una madre esasperata, ma sconcertante: butta fuori di casa il figlio di 17 anni e cambia la serratura. In Gran Bretagna si scatena il putiferio prima ancora dell´uscita del tragico memoir di Julie Myerson intitolato Il figlio perduto, ora anche nelle nostre librerie (Einaudi Stile libero, traduzione di Monica Capuani, pagg. 312, euro 18). Tanto che l´editore Bloomsbury ne anticipa la pubblicazione - è il marzo di un anno fa. Le accuse riguardano quel "solo" elemento della costruzione letteraria - piuttosto complessa - della Myerson: la sua scelta di "liberarsi" di un figlio insopportabile (è un eufemismo), dipendente da una droga più forte dell´erba (lo skunk).
Un reporter del Daily Mail non esita a rintracciare Jake Myerson, che intanto ha vent´anni. Gli offre un mucchio di soldi per "sparare" su una vicenda al centro di tavole rotonde in tivù, di blog e forum su internet. Ma anche di commenti autorevoli, anche sul domenicale del Times. L´eroe mediatico incassa il gruzzolo e liquida sua madre come "una fuori di testa" (insane), una dal comportamento "disgustoso" (obscene).
Qualche mese dopo esce anche l´edizione americana del Figlio perduto, sempre col sottotitolo A True Story, una storia vera, che da noi diventa "Storia di una madre". Ma negli Stati Uniti le polemiche non sono così accese, forse perché - si legge su The New York Times - lì gli scrittori sono avvezzi a confessioni personali su «dipendenze, incesti, tradimenti, follie, pedofilie, abusi, crimini, violenze».
Si vedrà l´accoglienza di questo libro in un paese "mammone" e "bamboccione" come l´Italia, che tende a ignorare i genitori derubati e picchiati dai loro ex adorabili bambini. Chi è infatti Jake Myerson? Il ritratto che ne fa la madre è disperante: il "ragazzo" (lo chiama sempre così) ha la fobia della scuola, non fa che rubare e sbraitare e sfasciare tutto, è sempre ringhioso e arriva a menare le mani - anche perforando, con un colpo, il timpano dell´autrice. In compenso scrive versi (bruttissimi, ma la mamma ne è incantata) e strimpella una chitarra, mendicando per strada. Altro che poeta maledetto, somiglia a un barbone.
A un certo punto, la scelta più drastica. È proprio lei, Julie, a gettare la spugna: lo mette alla porta, sperando in un´improbabile redenzione on the road. Il marito è d´accordo. Lo fanno perché - scrive lei - hanno il dovere di proteggere gli altri due figli più piccoli, sconvolti dalle malefatte di quel guastatore ad oltranza: uno che rifila lo spinello al fratellino tredicenne. I Myerson le hanno già provate tutte, più con le buone che con le cattive, parlano con insegnanti, terapeuti, frequentano associazioni di famiglie disastrate, come e (addirittura) peggio della loro. Alla fine lei lo caccia via, anche se poi sta malissimo, lo chiama di nascosto manco fosse un amante, lo riprende in casa, lo ributta fuori. Lo ama follemente (dalla prima all´ultima pagina), ma è piena di sensi di colpa, di sentimenti d´inadeguatezza, sempre a caccia di una qualche buona ragione che spieghi l´inspiegabile, visto che il "ragazzo" ha una famiglia rarissima del tipo Mulino bianco.
La Myerson si ostina allora a scavare nella sua infanzia, nella sua stessa adolescenza, nell´abbandono e poi nel suicidio del padre: qualcosa di quel terribile lutto avrà reso mortifero e distruttivo suo figlio? Forse sì, forse no. Poi vira su un´altra possibilità comunque autoaccusatoria: non sarà che il "ragazzo" ha cominciato a fumare, nella preadolescenza, quando c´è stata una breve crisi coniugale? Sarà cominciata così la discesa negli inferi? Accidenti, è così. Lo dice proprio lui alla mamma che alla fine gli confessa tremebonda di aver scritto della loro tristissima vicenda, con l´angoscia di essere investita da una sfilza d´insulti, secondo il consueto eloquio del giovanotto.
Già nel libro, la Myerson riporta le molte riserve che parenti (una nonna) e amici mostrano verso una decisione a dir poco radicale. Un libro parecchio strano, che denuncia un´altra ossessione dell´autrice: per certa Mary Yelloly, una pittrice vittoriana morta a ventun anni di tubercolosi. Ci sarà anche qualche specularità tra la misteriosa biografia dell´artista e quella del "ragazzo", ma il lettore tenderà a concentrarsi unicamente sull´autobiografismo agghiacciante di una madre che non sembra cattiva, anzi fin troppo devota - senz´altro una donna che porta alle conseguenze estreme la sensazione dell´impotenza e del fallimento come genitore.
Repubblica 9.4.10
Ipazia
La donna che sfidò la Chiesa
di Roberta De Monticelli
Film, convegni, spettacoli teatrali dedicati alla figura femminile dell´antichità che in difesa della scienza e della filosofia affrontò la persecuzione fino alla morte
Fu Cirillo, vescovo cristiano di Alessandria, a eccitare la folla che la uccise
La lezione della ricerca della verità contro tutti i fondamentalismi religiosi
"Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora della sua febbre fina/ e anche del suo un po´ frenetico deliquio…". Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l´inizio del V, nell´incendio della più grande biblioteca dell´Antichità, l´ultimo "sogno della ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell´astrolabio - secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c´è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l´ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia.
La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell´impero romano, resta "una macchia indelebile" sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava, con l´epoca cristiana, l´orrore della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l´editto di Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.
Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell´antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso di un´epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città davvero mutata, talvolta cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si rimescola una nuova vita/o soltanto la dissipazione di tutto./E non trovo risposta". E´ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione sull´impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche per l´azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare la mente" e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato amico - "l´intimazione della verità è un´arte di oggi,/come la persuasione lo fu di ieri". "Agora", appunto, si intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi. Si dice che sia "un duro atto d´accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione. "Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui".
Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell´armonia fra la ragione che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece - proprio come nel nostro - "la sorte della città è precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare all´istante./Occorrono idee brevi e decise - oppure cinismo".
Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia ebraico cristiana", come scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po´ incongrue, difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre parrebbe difficile dare un sesso alla geometria euclidea).
Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza notturna di Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al punto che "una luce d´aurora" promana da "quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima conversazione con Dio. "Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E´ colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: "Non lo sei ancora. C´è tutta l´enorme distesa del diverso,/del brutale, del violento/contrario alla geometria del tuo pensiero/che devi veramente intendere". Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia alla cui parola "si addice la temperatura del fuoco" si avvia verso quello che già intravede come l´estremo sacrificio. "Non c´è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto/nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione./Dobbiamo deflettere a lasciarli al loro disinganno?". E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: "La nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del poi?/Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani."
Ma non c´è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. "Così finisce il sogno della ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo".
Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità intellettuale e spirituale, e di un modo d´essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento dell´assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza di "Sinesio". Cioè di Luzi.
Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l´urto dei mondi, la trasvalutazione dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso me lo ripeto:/ senza un´idea di sé/ da dare o da difendere/non si regna, si scivola a intrighi di taverna".