sabato 26 novembre 2005

Corriere della Sera, 26.11.05
Il monito del Pontefice all’inaugurazione dell’anno accademico. «Correnti della filosofia moderna riducono la conoscenza a ciò che è dimostrabile»
Il Papa: «La scienza deve aprirsi a Dio»
Ratzinger all’Università cattolica: «Coniugare fede e ragione»
Luigi Accattoli


ROMA—Le università cattoliche debbono «fare scienza nell’orizzonte di una razionalità vera, diversa da quella oggi ampiamente dominante, secondo una ragione aperta al trascendente, a Dio», perché non si può ridurre l’orizzonte della conoscenza umana al «dimostrabile mediante l’esperimento », come vorrebbero «correnti importanti della filosofia moderna»: lo ha affermato ieri il Papa, aprendo l’anno accademico dell’Università cattolica del Sacro Cuore.
È stato uno dei discorsi di maggiore respiro tra quanti ne abbia tenuti fino a oggi il Papa teologo, paragonabile a quello con cui il 18 aprile, da cardinale decano, puntò il dito contro la «dittatura del relativismo » e all’altro con cui, il 2 ottobre, aprì il Sinodo dei vescovi, affermando che «non è tolleranza ma mistificazione» la pretesa della società secolare di «espellere Dio dalla vita pubblica».
Benedetto XVI, rispondendo al saluto del rettore Lorenzo Ornaghi e del cardinale Dionigi Tettamanzi, è partito dal compito proprio di un’università cattolica, che consisterebbe nell’elaborare «sempre nuovi percorsi di ricerca in un confronto stimolante tra fede e ragione che mira a recuperare la sintesi armonica raggiunta da Tommaso d’Aquino e dagli altri grandi del pensiero cristiano, una sintesi contestata purtroppo da correnti importanti della filosofia moderna ».
Secondo Papa Ratzinger, «la conseguenza di tale contestazione è stata che come criterio di razionalità è venuto affermandosi in modo sempre più esclusivo quello della dimostrabilità mediante l’esperimento: le questioni fondamentali dell’uomo, come vivere e come morire, appaiono così escluse dall’ambito della razionalità e sono lasciate alla sfera della soggettività».
Per Benedetto XVI le conseguenze sono di grande portata: «Scompare, alla fine, la questione che ha dato origine all’università, la questione del vero e del bene, per essere sostituita dalla questione della fattibilità». Ritornare a porre quelle questioni «nel 2000», insistendo, contro corrente, a «coniugare fede e scienza» è «un’avventura entusiasmante perché, muovendosi all’interno di questo orizzonte di senso, si scopre l’intrinseca unità che collega i diversi rami del sapere, perché tutto è collegato». Si tratta di un’argomentazione che il cardinale Ratzinger aveva già abbozzato in una conferenza tenuta a Berlino nel 2000 e in un’altra letta a Roma nel maggio del 2004 su invito del presidente del Senato Marcello Pera. In tali occasioni aveva qualificatocome «secondo illuminismo» la tendenza filosofico-scientifica che riduce la sfera del razionale alle «esperienze della produzione tecnica su basi scientifiche».
Benedetto XVI ha pure accennato alla questione della contraccezione, affermando di avere particolarmente «a cuore» l’Istituto scientifico internazionale Paolo VI di «ricerca sulla fertilità e infertilità umana per una procreazione responsabile» che opera all’interno dell’Università cattolica. Unistituto, ha detto, «nato per rispondere all’appello lanciato dal Papa Paolo VI nell’enciclica Humanae Vitae e che si propone di dare una base scientifica sicura sia alla regolazione naturale della fertilità umana che all’impegno di superare in modo naturale l’eventuale infertilità».
Il Papa ha pure ringraziato con parole commosse il personale del Gemelli (il policlinico dell’Università cattolica) per le cure prestate a Giovanni Paolo II: «In quei giorni verso il Gemelli era rivolto da ogni parte del mondo il pensiero dei cattolici, e non solo. Dalle sue stanze di ospedale il Papa ha impartito a tutti un insegnamento impareggiabile sul senso cristiano della vita e della sofferenza, testimoniando in prima persona la verità del messaggio cristiano».

Repubblica 26.11.05
Il caso
Disaccordo sul Partito democratico
Roma, dirigenti Ds verso Rifondazione

ROMA - La prospettiva del Partito democratico non piace e sei dirigenti ds romani. Appartenenti al correntone, lasciano il partito. Alessandro Bongarzone, Elena Canali, Alessandro Cardulli, Mario De Carolis, Paolo Petri e Enrico Belardinucci hanno infatti deciso di seguire l´esempio di Pino Galeota e navigano verso Rifondazione comunista. La decisione potrebbe essere annunciata già lunedì prossimo, quando i dissidenti diessini avranno un confronto pubblico al teatro Colosseo con Fausto Bertinotti e Pietro Folena. I dirigenti ds hanno comunicato la loro decisione con un lettera in cui si legge: «È stata una scelta di sinistra presa singolarmente, con motivazioni che derivano dalle nostre diverse storie politiche. Ci accomuna una valutazione fortemente critica sulle scelte compiute dal partito in questi anni, fino alla decisione di aprire un percorso per dar vita ad un non meglio identificato partito democratico». Scelta che i dissidenti contestano, perché «in particolare a Roma e nel Lazio comporta l´unificazione dei gruppi consiliari di Ds e Margherita a partire dal comune di Roma. Scompare così dal Campidoglio un pezzo di storia politica, sociale, culturale, della nostra città».

Repubblica 26.11.05
Si è aperto un dibattito dopo il "Libro nero"
Chi accusa la psicoanalisi
gli psichiatri francesi sono circa tredicimila
Il famoso caso di M.lle Anna O. nel 1882
Massimo Ammaniti

Ancora un assalto al Palazzo d´Inverno della Psicoanalisi, a cui i giornali italiani hanno dato grande rilievo. È uscito in Francia un volume corposo di più di 800 pagine Le livre noir de la psychanalyse che avrebbe l´intenzione di liquidare definitivamente il movimento psicoanalitico, ritenuto una leggenda o addirittura una mitologia storica costruita sull´inganno e sulla sistematica contraffazione. Sfogliando il voluminoso atto d´accusa si scopre che il collegio giudicante è quanto mai numeroso, circa 35 autori, costituito da un gruppo eterogeneo e improvvisato di filosofi, storici, epistemologi, psichiatri e psicologi che si sono ritrovati insieme uniti dall´odio verso Freud ed i suoi successori. Nell´introduzione della curatrice si comprende il perché di tanto risentimento, in Francia, come anche in Argentina, la psicoanalisi ha ancora un ruolo dominante, infatti dei 13.000 psichiatri francesi circa il 70 per cento utilizzano la psicoanalisi o terapie di derivazione psicoanalitica.
Ma quali sono i capi d´accusa? Le imputazioni sono le più diverse, da quelle sui comportamenti personali di alcuni psicoanalisti (Freud, Lacan, Bettelheim) ai risultati e all´efficacia dei trattamenti clinici a piani più propriamente teorici. Prendiamo ad esempio il capitolo La vérité sur le cas de Mlle Anna O. il famoso caso di Freud curato nel 1882 e riportato nel libro Studi sull´isteria. Secondo Freud la sua paziente, il cui vero nome era Bertha Pappenheim, avrebbe raggiunto con la fine della terapia «un equilibrio psichico totale», mentre successivamente sarebbe andata incontro a una ricaduta che avrebbe comportato un ricovero psichiatrico. Non è nulla di nuovo, infatti lo stesso biografo di Freud, Ernst Jones, ne aveva parlato nella sua opera e d´altra parte non stupisce che un paziente possa avere una ricaduta dopo la fine della terapia, soprattutto se si considera che si era agli albori della terapia psicoanalitica, quando in campo psichiatrico si ricorreva ai bagni gelati e ai mezzi di contenzione per sedare i pazienti.
Anche le altre accuse non aggiungono nulla di nuovo, a volte si tratta di insinuazioni come quelle rivolte a Bruno Bettelheim accusato di aver avuto comportamenti violenti verso i suoi pazienti autistici. Le contestazioni di ordine teorico, come quella al modello teorico di Freud nel campo dei sogni, sono ben note ed ampiamente condivise.
Se la sopravvivenza della psicoanalisi dovesse essere minacciata da queste accuse gli psicoanalisti potrebbero continuare ad essere tranquilli, mentre forse altre critiche del passato, ad esempio quelle del filosofo della scienza Adolf Grunbaum, erano più consistenti perché richiedevano evidenze e prove per riconoscere la scientificità della psicoanalisi.
Che il libro rifletta uno scontro interno al mondo psichiatrico francese è confermato dal fatto che vengono trattati argomenti indirizzati alla psicoanalisi d´oltrealpe e non viene citato Eric Kandel, Premio Nobel per la fisiologia, che ha scritto a questo proposito un libro rilevante come Psychiatry, Psychoanalysis and the new Biology of Mind di prossima uscita in Italia. Kandel riconosce che molti degli interrogativi della psicoanalisi, come ad esempio il valore della memoria, delle rappresentazioni mentali e del desiderio, sono divenuti rilevanti per la ricerca neurobiologica che sembra ormai aver esaurito la fase di studio del neurone e si confronta con il funzionamento umano nella sua globalità. E il problema della psicoanalisi oggi, e questo è il parere di Kandel ma anche di un numero consistente di psicoanalisti, è quello di indirizzarsi verso la filosofia della scienza avvicinandosi all´area della letteratura e dell´arte oppure accettare la sfida che viene dalla neurobiologia e dagli studi cognitivi. In quest´ultimo caso bisogna fare i conti con i vincoli e le procedure della ricerca scientifica che richiede la raccolta sistematica delle osservazioni, la dimostrazione e la replicabilità delle evidenze.
Vi sono prove ad esempio che i trattamenti psicologici non solo modificano la psiche e i sintomi psichiatrici, ma anche i circuiti cerebrali come, ad esempio, nel trattamento delle fobie.
Si tratta di nuove vie intraprese anche da alcuni gruppi di derivazione psicoanalitica, anche perché la difesa del Palazzo d´Inverno sigillerebbe l´eredità freudiana che non potrebbe confrontarsi con le nuove frontiere della ricerca, sfida, questa, ripetutamente auspicata da Freud.

Repubblica 25.11.05
Esce "La casa di Psiche", un saggio di Umberto Galimberti
Il filosofo e la sofferenza
Si tratta di terapia? Queste nuove pratiche richiedono uno slancio nuovo del pensiero I pensatori scendono in campo in nome di antiche vocazioni garantite dal nome di Socrate - Non ci si può più appigliare alla ciambella del vecchio umanismo - Dobbiamo prendere atto del nostro analfabetismo in materia di "anima"
Pier Aldo Rovatti

Sta prendendo piede, anche in Italia, il fenomeno della «consulenza filosofica». Associazioni di formazione dei cosiddetti consulenti, collane editoriali dedicate alla pratica filosofica, master universitari, ma anche già una prima applicazione con apertura di studi di consulenza rivolti alle istituzioni e al mondo del lavoro e naturalmente al colloquio individuale. Questo fenomeno, per dir così, dei filosofi che scendono in campo nel nome di antichissime vocazioni (Socrate, un capostipite) ma accogliendo attualissimi disagi e dunque una domanda ben piantata nel presente, è già fin d' ora una piccola giungla, rigogliosa e alquanto infida, abitata da intenti seri ma anche da velleità palesi, in via di organizzazione ma ovviamente disordinata, che sta certo sollevando un coacervo di problemi ma anche polarizzando notevole interesse da parte di quei giovani che vi intravedono qualcosa come uno sbocco. E o non è una terapia? Si sovrappone, si contrappone, o solo si affianca alle attività di psicologi e psicoterapeuti? Chi la autorizza e la garantisce? Ce n' è abbastanza per motivare un' attenzione meno distratta cominciando magari a distinguere il grano dal loglio, senza prendere troppo in fretta partito ma senza neppure lanciare anatemi. Vi si gioca, forse, il ruolo della filosofia nella società contemporanea. Il fenomeno è ancora modesto, però promette di crescere. (E già arriva la notizia di una denuncia da parte dell' Ordine degli psicologi per esercizio abusivo della loro professionalità). Credo che Umberto Galimberti, che pubblica adesso da Feltrinelli un libro di peso, per impegno e pagine, dal titolo La casa di psiche, e dal sottotitolo "Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica" (pagg. 460, euro 19,50), converrà con me che questo scenario della consulenza filosofica, che ho appena tratteggiato, è il fondale muto della sua messa a punto. Il libro di Galimberti è tante cose insieme, come dirò in seguito, cioè non è solo questo, ma è poi essenzialmente una risposta al brulicare di domande che ci arrivano dall' interno della nascente pratica filosofica. Non è un mistero che lui stesso abbia fatto da levatrice a tale nascita (per esempio, dirigendo la collana della casa editrice Apogeo di Milano, che ha pubblicato Achenbach, Lahav e il più impegnato degli italiani nel settore, Neri Pollastri). Ho parlato di un fondale muto perché Galimberti vi dedica una nota in tutto, mostrando così di volersi tenere fuori dalle vicende particolari di questo scenario empirico. Quello che, invece, vuol fare è fornire uno strumento di base, un' articolata chiarificazione filosofica che serva a far compiere un salto di qualità e a riempire con un orizzonte solido le esigenze che affiorano un po' dovunque. Cominciando con una riflessione sul presente - un presente ormai attraversato da parte a parte dalla tecnica - da cui risulta che il disagio attuale non può confondersi con una delle tante domande di senso che si sono succedute storicamente, perché siamo di fronte a una perdita radicale di senso rispetto alla quale le risposte tradizionali non bastano più. Occorre, allora, un nuovo slancio di pensiero che sappia misurarsi con la «sofferenza», proveniente da tale insensatezza generalizzata, senza appigliarsi alla ciambella del vecchio umanismo con il suo secolare corredo di valori. In breve: alla perdita di padronanza e di controllo, e all' eclissi di ogni finalità progettabile, non possiamo più rispondere con il desiderio di tornare padroni, controllori, depositari di una finalità generale. Dobbiamo prendere atto del nostro «analfabetismo» in fatto di psiche, cioè di anima nel senso ampio e galimbertiano del termine, e curvare il nostro pensiero su questa constatazione (che era già al centro del suo precedente libro Psiche e techne), cessare di «delirare» nostalgicamente, sostenere fino in fondo il principio di realtà della nostra realtà. Se capisco bene il titolo - che è un titolo molto bello - si tratta di abitare la casa di psiche, sloggiando da essa tanti inquilini che vi si sono addormentati con le loro obsolete masserizie: curatori ormai fuori tempo e cure che al massimo sono dei placebo. La casa resta vuota e un po' desolata? Preferiamo, forse, che sia piena di falsità e illusioni? A partire da tutte le illusioni «scientifiche» che si accompagnano all' idea di curare la psiche. Non è più possibile, secondo Galimberti, continuare a «medicalizzare» la psiche trattandola come un oggetto familiare. Non è un oggetto e non è per niente familiare, e qui effettivamente la filosofia ci aiuta e sembra avere molto da dirci. Galimberti non può certo essere accusato di non sapere di cosa parla quando si rivolge alla psicoanalisi. Deve moltissimo a Freud, ha un debito esplicito con Jung, e in questo libro dichiara anche l' importanza che Lacan ha per lui: tuttavia, non è il pensiero che vi circola (e di cui occorre far tesoro) ma proprio la psicoanalisi come progetto di medicina dell' anima che risulta troppo stretto, troppo impaniato nei propri presupposti, e dunque, per Galimberti, perdente e fuori tempo. Nessuna «cura» per l' angoscia che deriva dal nostro essere mortali. Solo la filosofia sembra poter insegnarci ad abitarla. Ma anche rispetto alla filosofia occorrerebbe un gesto di radicale decostruzione: anche qui bisogna svuotare con dolorosi traslochi l' esigenza teorica che si è accumulata. Certo, tornare agli antichi, alla loro saggezza e alla loro virtù del giusto mezzo, alle loro idee di natura e di mondo, insomma a prima del grande tornante del discorso cristiano in cui saremmo ancora imbottigliati, ed è a questo punto che Galimberti elegge Nietzsche a propria guida filosofica e ci propone di seguirlo fino all' ipotesi di un' «etica del viandante» con cui il libro si conclude. Nietzsche che ci aiuta ad abitare la insensatezza in cui ci troviamo oggi, in un mondo ormai diventato il compiuto mondo della tecnica, e da cui, appunto, possiamo guardare indietro, a quella «saggezza» degli antichi che ci è indispensabile. Credo che sia chiaro il messaggio-risposta che Galimberti invia al brusio di domande del fondale muto delle pratiche filosofiche che oggi stanno proliferando. La necessità, in altre parole, di una chiarificazione filosofica preliminare. Il monito a equipaggiarsi con un bagaglio non leggero, anche se i discorsi da fare saranno poi attraversati dalla leggerezza. E poi che non basta prendere congedo dalla psicoanalisi, di cui in ogni caso occorre valorizzare tutto il patrimonio di pensiero: perché si tratta di raddoppiare questo gesto critico con una presa di posizione filosofica dura e precisa, che smascheri tutti i mercanti di idee e tutti gli spacciatori di verità, pesanti e non. Ne segue, anche, che La casa di psiche, più che una semplice tappa in un percorso filosofico, si presenta come il felice sforzo di Galimberti di produrre una specie di summa del suo pensiero: un libro che raccoglie un lavoro di decenni offrendo al lettore una mappa teorica orientata in cui Freud e Jung, Binswanger e Jaspers vengono riattraversati analiticamente e poi composti in una costellazione in cui figura anche Lacan ma figurano soprattutto i principali operatori filosofici di Galimberti, da Nietzsche alla filosofia antica, e non sono assenti alcuni rimandi significativi allo scenario contemporaneo, da Gehlen a Genther Anders. Emerge, in modo unitario e insieme puntualmente documentato, l' identità filosofica dell' autore, e il libro risulta così uno strumento prezioso per tutti, o almeno per tutti coloro che hanno a cuore il problema di «come pensare», proponendo un esercizio genealogico di costruzione di un itinerario che ciascuno può tentare di ripercorrere ed eventualmente di far suo. Nel senso più ampio e profondo del termine, la pratica filosofica - che ha sempre bisogno di esempi comprensibili e di guide ospitali - è proprio questa.

papisti all'attacco
L'Unita 27.11.05
Chiesa e Stato
Il cardinale Camillo Ruini all'attacco
di Maria Zegarelli

CHIESA E STATO Il cardinale Camillo Ruini torna all’attacco su procreazione assistita, convivenze e ruolo dei ginecologi nei consultori e nei centri specializzati
per la fecondazione. Nello stesso giorno un altro duro attacco allo Stato laico arriva dal presidente del Senato, Marcello Pera che, parlando a Palermo in un convegno organizzato dalla Cei, ha sostenuto che «eliminare la religione dalla politica, facendo in modo che quest’ultima sia pura e laica, è impossibile. La religione entra nella sfera pubblica e nei nostri Parlamenti, dietro ciascuna delle nostre leggi c’è la scelta di valori che hanno carattere religioso come l’equità e la giustizia». La seconda carica dello Stato guarda alla campagna elettorale che si giocherà all’ultimo voto e lancia segnali. A Roma, intanto, il cardinale vicario, parlando nella giornata di chiusura del congresso internazionale «Scienza ed etica per una procreazione responsabile», ha di nuovo condannato procreazione assistita e coppie di fatto.
Ruini ha evocato «gli inquietanti scenari sulla produzione di esseri umani da usare come cavie o sulla clonazione» aperti dalle possibilità tecnologiche che vanno ben al di là «del legittimo aiuto della procreazione umana». Condanna dunque al «dominio sui processi generativi», appello «agli uomini di scienza responsabili della cosa pubblica, alla necessità di non disgiungere mai una riflessione sull’uomo e sulla sua dignità dalle delicate scelte che si stanno compiendo nel campo della ricerca scientifica». E se la mappatura del genoma umano è ormai in via di «ultimazione e certamente rappresenta una grande acquisizione con conseguenze di estremo interesse per il futuro dell’uomo», proprio ora, si sta «smarrendo la mappa dell’esistere umano», si stanno perdendo le coordinate «della dignità e del destino della vita umana». La prova di questo smarrimento sarebbe la «diffusa tendenza a depotenziare il valore dell’istituto del matrimonio, assimilando ad esso altri tipi di unioni e convivenze, con il risultato che il matrimonio non viene più percepito come espressione e garanzia della natura stessa dell’amore umano, ma come frutto di convenzioni e accordi facilmente modificabili».
Cita papa Benedetto XVI per tornare a ribadire che alla fragilità interna a molte coppie si somma «la tendenza diffusa nella società e nella cultura, a contestare il carattere unico e la missione propria della famiglia fondata sul matrimonio». Un mix pericoloso, questo, e un «pericoloso virus quello dell’autoreferenzialità, dell’esaltazione delle esigenze, dei bisogni o dei diritti individuali». Circostanze che stanno portando l’uomo «contemporaneo verso una deriva pericolosa».
Barbara Pollastrini, coordinatrice Donne della segreteria Ds, si chiede perché «voler alzare steccati e creare contrapposizioni inesistenti? Assegnare responsabilità e diritti alle milioni di coppie di fatto non significa, come è ovvio, mettere in discussione la famiglia». E ribadisce il sostegno alla legge sui Pacs, «una proposta saggia e equilibrata» . Per Enrico Boselli, presidente dello Sdi, «è ricorrente nel cardinale Ruini la volontà di trasformare i valori della morale cattolica in leggi dello Stato». Critiche anche dai Radicali e da Rc. Fausto Bertinotti interpreta così: «I comportamenti della Cei e del cardinale Ruini vanno pensati non come strappi occasionali ma come il tentativo di far fronte alla paura e all’incertezza per una mancanza di risposte che investe anche la Chiesa di fronte a un mondo precario e incerto. Quello che è da evitare sono risposte vetuste di anticlericalismo». Pierluigi Castagnetti della Margherita dice va bene il matrimonio, ma «è necessario pensare a forme di tutela delle nuove convivenze». «Un incoraggiamento, uno sprone e uno stimolo», le parole del cardinale, per Riccardo Pedrizzi di An. Secondo Franco Frattini, Fi, è «molto pericoloso confondere il concetto di convivenza con il concetto di matrimonio».

papisti all'attacco /2
La Stampa 27.11.05
Fede e politica
Incontinenza religiosa
Barbara Spinelli

QUANDO il contrasto tra esigenze e opinioni diverse viene vissuto come sconfitta, quando smette di esser visto come un elemento che feconda le democrazie e si comincia a giudicarlo mortifero, quando lo si vuol sradicare per non averlo saputo governare, fa apparizione nella storia europea quello che Karl Popper ha chiamato - dandogli un colore negativo - mito della cornice. L'incontro con chi la pensa in modo differente dal mio o ha bisogni diversi dai miei diventa impossibile e minaccioso, se tra me e l'altro non pre-esiste una cornice comune di valori che hanno il proprio fondamento non solo nelle leggi, nelle costituzioni, nella politica, ma essenzialmente nella cultura e nella religione. Ma la cornice deve fondarsi su valori non prevaricatori da parte di una maggioranza o una religione. Il rispetto dell'altro non è negoziabile e tuttavia va sempre ridiscusso e riorganizzato, se si vuole che il nemico della società aperta (il cannibale descritto da Popper) sia persuaso. Chi mitizza la cornice vede in essa qualcosa di eternamente statico, fondato esclusivamente sul vocabolario ultimo di Dio (o meglio: sull'idea che ci si fa del vocabolario ultimo di Dio). Per costoro, cultura e religione prevalgono su costituzioni e leggi, come cemento destinato a tenere assieme gli individui, gli Stati, e quell'insieme di nazioni che hanno deciso di fondare un'unità superiore come accade nell'Unione europea.
Va da sé che cultura e religione sono, in simili casi, quelle di chi auspica la cornice intesa come prevaricazione: in Occidente sono la cultura e la religione cristiane, considerate uniche vere garanti delle unità nazionali e sovranazionali. Va da sé che i garanti in questione si sentono chiamati a far politica al posto dei politici classici, e non solo si sentono chiamati ma giustificati: senza la loro continua interferenza, il politico d'oggi non saprebbe che dire, come decidere. È così che le correnti dell'ortodossia radicale cristiana (gli evangelicali da cui sono scaturiti i theo-con) hanno preso il potere negli Stati Uniti, stringendo un'alleanza con Bush e lanciandosi con lui in una guerra mondiale tra culture. Lo stesso accade ultimamente in alcuni paesi dell'Unione europea, specie in Italia e Polonia. In ambedue i casi siamo di fronte a una variante dei fondamentalismi musulmani e anche ebraici. Una variante meno violenta ma che alla lunga può avere effetti nefasti, sulle religiosità individuali e sulla Chiesa stessa. Una variante che s'esprime in forme d'incontinenza patologica, a giudicare dalla sistematicità con cui la religione viene mescolata alla cosa pubblica.
I promotori della cornice prevaricatrice sono in Italia parti importanti del clero, a cominciare dalla Conferenza episcopale e dal suo presidente Ruini. In Polonia è la maggioranza politica guidata dai fratelli Kaczynski a esigere che l'Unione europea accetti l'incontinenza cattolica polacca come comune e uniforme tavola delle leggi. Al patriottismo costituzionale, che l'Europa voleva darsi e che avrebbe fatto fallimento a seguito dei referendum in Francia e Olanda, occorrerebbe ora sostituire un patriottismo cristiano, di carattere culturale. Forse vale la pena ricordare che il patriottismo costituzionale non è un'invenzione delle sinistra e di Habermas. Fu coniato dal filosofo Dolf Sternberger - antinazista, conservatore - in un articolo sulla Frankfurter Allgemeine del 23-5-1979.
In Italia va sempre più crescendo, quest'interferenza di parte del clero nella politica e nelle deliberazioni dei partiti, di governo e d'opposizione. È un immischiarsi ormai quasi quotidiano: nelle leggi e nei referendum sulla fecondazione assistita come sulla devoluzione, nelle procedure che regolano l'interruzione della gravidanza come nelle riforme costituzionali, nelle unioni di fatto come nell'uso giudiziario delle intercettazioni telefoniche e perfino nella scelta di chi dirige la Banca d'Italia. Il giurista Gustavo Zagrebelsky ha descritto con preoccupazione quest'attacco ai fondamenti laici della costituzione italiana, dovuta a due fattori concomitanti: l'indebolirsi della separazione fra politica e religione che il Concilio Vaticano II aveva sancito, e lo svuotarsi del preambolo sulla laicità della costituzione. È per questa via, secondo Zagrebelsky, che alcuni in Vaticano vorrebbero trasformare il cattolicesimo in religione civile, come in America. Costoro si sentono giustificati a intervenire nella politica perché giudicano la politica priva di idee integratrici forti (la Repubblica, 25-11-2005).
La scarsa legittimazione del potere politico e il venir meno di un partito cattolico è all'origine di quest'intromissione di parti consistenti del clero nella politica italiana: un'intromissione che avviene all'insegna della dismisura, che è ormai interferenza diretta perché non più mediata dalla Dc, e che al tempo stesso è profondamente selettiva. Il potere ha bisogno di sentirsi legittimato da autorità religiose perché in fondo si ritiene delegittimato: questo è vero non solo per Berlusconi ma anche per gli eredi del Pci (i Ds), per Rifondazione di Bertinotti, e per quei cattolici che pur essendo minoritari nei due schieramenti aspirano all'egemonia culturale. Ma anche i rappresentanti della Cei credono di avere bisogno della politica, per conquistarsi una legittimazione. L'esasperata ansia di rendere la Chiesa politicamente visibile rivela una condizione di sfinimento, di non-autosufficienza. La Chiesa come la vede Ruini non si sente abbastanza profetica, e per questo si erge a Chiesa del potere quasi senza accorgersi che nello stesso momento in cui ha l'impressione di ergersi, si degrada. È una Chiesa che non riesce a evangelizzare, che cerca le stampelle nei palazzi politici e che si trasforma in lobby, assetata di esenzioni fiscali e privilegi come altre lobby. È una Chiesa che riduce la religione all'etica, ma che nelle stesse battaglie morali si mostra oscuramente selettiva. La lobby ha i suoi rappresentanti nella Conferenza episcopale e in uomini come Lorenzo Ornaghi, già allievo-consigliere dell'ideologo leghista Gianfranco Miglio, oggi consigliere di Benedetto XVI e rettore della Cattolica (un articolo illuminante è apparso ieri su questo giornale, firmato da Giacomo Galeazzi), e l'etica è da essa usata in funzione di quel che si prefigge come lobby. Pronta a battersi su embrioni o aborto, il suo silenzio è totale sulla morale del politico: sulla corruzione, la mafia, il crimine che si mescola al potere, la Conferenza episcopale è muta, abissalmente. Le parole violente di Giovanni Paolo II contro la mafia - il Convertitevi! lanciato nella valle dei templi ad Agrigento dodici anni fa - è da anni introvabile nel sito internet del Vaticano.
Questa debolezza del cristianesimo che si nasconde dietro l'affermazione di un potere politico non unisce la Chiesa ma la lacera, oltre a minare la religiosità delle coscienze. Le iniziative ecumeniche di Assisi sono messe in forse dalla decisione di togliere l'autonomia alla basilica. Esperienze non ortodosse faticano a esistere. Ed è significativo l'allarme accorato, forte, con cui uomini della Chiesa reagiscono alla sua trasformazione in lobby. È il caso di Monsignor Casale, arcivescovo emerito di Foggia. In un'intervista al Corriere del 25 novembre, Casale insorge contro la benedizione impartita dal vescovo Fisichella a Casini: «Torna con insistenza una concezione della cristianità che il Concilio ci aveva fatto superare, l'idea della Chiesa difesa da uno Stato che ne tutela i valori. Ma noi dovremo esser difesi solo dalla parola di Dio».
La Conferenza episcopale che promuove partiti, candidati: secondo Casale, molti tra coloro che guidano la Chiesa «fanno un'opera di supplenza che sta diventando eccessiva e pericolosa», e che provocherà possenti reazioni anticlericali. Tanto più che l'interventismo è, appunto, selettivo: la Chiesa interviene su embrioni «ma non si occupa dei bambini che muoiono di fame o non hanno né casa né scuola, della giustizia sociale, della pace». Così come è concepita da parte dei propri vertici, la Chiesa «si ritira nelle trincee dell'Occidente» e si fa fondamentalista, pur di fuggire i nuovi compiti connessi alla propria debolezza. È una linea di condotta pericolosa: per la religione, la Chiesa, la politica. E lo è anche per l'Europa, perché il mito della cornice prevaricatrice tende a escludere chi la pensa e crede in modo diverso, e rischia di sfociare in guerre tra culture. Guerre tra culture e religioni che l'Europa ha conosciuto in passato, e cui nel secolo scorso ha tentato di rispondere con una Comunità che per definizione è incompatibile con una cultura religiosa omogenea. L'Europa ha certo radici cristiane ma il suo patriottismo difficilmente potrà essere altro che costituzionale, essendo plurale.
Ha detto giustamente lo storico delle religioni Jeffrey Stout, nel suo bel libro su Democrazia e Tradizione, che il problema non è di sapere se le Chiese possono o non possono esprimere con forza le loro opinioni su temi delicati come aborto, fecondazione artificiale, divorzio. La libertà d'opinione e di religione consente a ciascuno di dire la propria convinzione. Viviamo in società dove la politica è stata secolarizzata dal XVII secolo, ma questa secolarizzazione obiettiva non si identifica in alcun modo con le dottrine secolariste che bandiscono la religione dalla conversazione cittadina. Il problema non nasce a causa dei temi di società su cui parte delle gerarchie ecclesiastiche intervengono sistematicamente, e non concerne neppure il loro diritto a parlare. Il problema sono gli interlocutori e gli alleati che tali gerarchie si scelgono: e gli interlocutori non sono le coscienze dei singoli, ma i poteri politici su cui si esercitano pressioni. Il problema è l'aspirazione a imporre una comune cornice basata sulla religione a società obiettivamente plurali, nelle nazioni e anche nell'Unione europea. È un'aspirazione che Stout considera del tutto irrealistica, solo ideologica, a meno di non optare per una coercizione che il cristianesimo ormai da secoli respinge (Jeffrey Stout, Democracy and Tradition, Princeton 2004).
Per una parte della Chiesa - e pensiamo qui al clero polacco - l'Unione europea è invisa proprio per questo: perché con la sua pluralità, con l'indispensabile secolarizzazione della sua politica, l'Europa è incompatibile con il mito di una cornice cristiana imposta a tutti. Il potere di lobby, le Conferenze episcopali locali lo esercitano meglio dentro gli Stati, restando per il resto, come in Polonia, uniche depositarie di un'autorità universalista. La difesa della cultura religiosa rischia di non differenziarsi molto, in simili casi, dalla difesa di un'etnia. Anche questa difficoltà di accettare l'Europa laica e plurale, da parte di alcuni frammenti del cattolicesimo, è un problema per la Chiesa tutta intera. Il pericolo che essa corre è l'affievolirsi delle fedi, l'emergere di un anticlericalismo vero, lo spreco di un patrimonio universalista impareggiabile, e lo stesso vocabolario ultimo delle Sacre Scritture

violenza sulle donne
Il Mattino 26.11.05
L’incontro
Devi, dall’India storie di violenze al femminile
Donatella Trotta

Ha conosciuto il grande poeta indiano Tagore e ne ha assimilato il suo «messaggio di pace e amore per l’universo, non solo per l’India» frequentando da bambina la sua scuola, Shantiniketan, assieme al futuro premio Nobel per l’economia Amartya Sen, di qualche anno più giovane di lei. Ha incontrato e ammirato il Mahatma Gandhi, del quale ancora rimpiange il coraggio, la statura ormai perduti e il «sorriso luminoso», aperto agli ultimi della terra. Ed è cresciuta, durante e dopo la colonizzazione inglese, in un humus fertile di stimoli: «figlia d’arte» di una madre anticonvenzionale, scrittrice e assistente sociale, e di un padre poeta, che l’hanno assecondata nella sua passione per i libri «come finestre aperte sul mondo», lasciandola libera di seguire le sue inclinazioni verso la conoscenza, non soltanto letteraria. Alla vigilia dei suoi 80 anni (che compirà il prossimo 14 gennaio), non è un caso che l’indiana del Bengala orientale Mahasweta Devi sia in odore di premio Nobel per la letteratura, o per la pace: autrice di oltre venti raccolte di racconti, numerose piéces teatrali, libri per bambini e circa cento romanzi, Devi è anche stata docente e soprattutto continua ad essere giornalista e infaticabile viaggiatrice impegnata nell’attivismo politico e sociale in difesa di etnie, tribù nomadi declassificate, donne e bambini oppressi, emarginati, analfabeti, umiliati, ridotti alla subalternità dalla miseria e dall’ignoranza, nel suo Paese e non solo. «Penso che uno scrittore creativo debba avere una coscienza sociale, è un dovere morale verso la società. Che senso ha avere una casa grande, un’auto, una vita agiata se resta separata dagli altri? Ci sono troppo ingiustizie nel mondo della globalizzazione, soprattutto contro le donne, per non fare il possibile per eliminarle, documentandole con coraggio», ti dice pacata ma ferma Mahasweta Devi in un inglese veloce e ibridato come la sua scrittura, che in Italia le è valsa il premio Nonino per le poche opere finora tradotte su interessamento di Anna Nadotti e Italo Spinelli: i racconti de La cattura (Theoria, 1996, introvabile; ma La cattura è anche in India segreta, 18 racconti di donne pubblicati da La Tartaruga nel 1999) e La preda e altri racconti (Einaudi, 2004). Da oggi, la più celebre scrittrice indiana in lingua bengali è per la prima volta a Napoli, dove domani (alle ore 11) parteciperà a un incontro (con interventi di Angela Cortese, Ambra Pirri, Italo Spinelli, Paola Splendore e letture di Giorgia Stendardo) promosso nel Grand Hotel Oriente dall’assessorato alle Pari opportunità della Provincia di Napoli in occasione della pubblicazione del volume di Mahasweta Devi La trilogia del seno (Filema, pagg. 176, euro 12), che inaugura una nuova collana di storia, storie e studi di genere post-coloniali, «Altrimondi», curata da Ambra Pirri, autrice anche dell’ottima presentazione della raccolta nonché della traduzione dall’inglese dei tre racconti della Devi, alternati nel libro - quasi in un gioco di specchi tra letteratura e critica - ad altrettanti densi saggi della sua esegeta dal bengali, Gayatri Chakravorty Spivak, comparatista ed esponente di spicco della critica femminista post-coloniale. Le tre brevi ma incisive breast stories di Devi raccolte nel libro risultano spiazzanti, nei temi e nella forma, per il lettore occidentale, provocato dall’originalità di uno sguardo affilato, sarcastico e impietoso, capace di conferire una fisicità plurisensoriale a storie di altrettante donne (e del loro seno, simbolo potente) accomunate nella tragedia da una catena di violenze maschili (e di retaggio coloniale): l’indomita guerrigliera Draupadi, la grande madre «professionista» Jashoda e la lavoratrice nomade Gangor. Sono racconti scritti - si sente - di getto, perché dettati da un’urgenza interiore più che narrativa, antropologica e sociale: «I miei racconti nascono dalla cronaca vera, dagli orrori ai quali assisto, e che cerco di comunicare anche all’altra parte del mondo», conferma Devi. Che non si rassegna al trionfo della brutalità.

Bertinotti /1
Agi.it 27.11.05
Sofri: Bertinotti, subito la grazia

Liberta' subito per Adriano Sofri, si augura Fausto Bertinotti che torna a chiedere un provvedimento di grazia a favore dell'ex leader di Lotta Continua. "Per Sofri - afferma Bertinotti in un telegramma inviato ai familiari dopo la delicata operazione chirurgica - questi sono giorni di ulteriore sofferenza. Al dramma del carcere si e' ora aggiunto il ricovero di urgenza, cui ha contribuito non poco uno stato di detenzione che si protrae da anni". Per Bertinotti sarebbe auspicabile "che intervenisse un provvedimento di grazia. In attesa e nella speranza che questo provvedimento giunga quanto prima - ha sottolineato - noi auguriamo ad Adriano Sofri una pronta guarigione e di essere presto libero". (AGI)

Bertinotti /2
Apcom 27.11.05
Movimenti
Negri: Bertinotti si autoproclama leader. Ridicolo
"I partiti devono essere strumenti del movimento"

Roma, 27 nov. (Apcom) - "Ridicolo". Toni Negri irride a Fausto Bertinotti, "autoproclamatosi rappresentante dei movimenti, quando invece i movimenti chiedono ai partiti di essere loro strumenti d'azione". Intervistato da Lucia Annunziata a "Inmezzora", in onda su Raitre, Negri dice invece di "sentirsi parte integrante dei movimenti".

Bertinotti /3
Apcom 27.11.05
Laicità
Bertinotti al partito: evitare l'anticlericalismo
"Non siamo partito della modernizzazione, ma della liberazione"

Roma, 27 nov. (Apcom) - "La critica al neoclericalismo non deve approdare all'anticlericalismo". Nella relazione conclusiva al Cpn Fausto Bertinotti risponde così alle domande sollevate nel partito rispetto al suo atteggiamento nell'attuale dibattito tra fede e laicità. "Noi comunisti - sottolinea il segretario di Rifondazione - dobbiamo essere estranei a due chiavi interpretative del mondo: quella secondo cui l'etica pubblica non può avere un fondamento religioso e quella secondo cui l'etica pubblica debba essere fondata sul primato della scienza. Questi due punti di vista - precisa - devono esserci estranei".
"Non possiamo essere un partito della modernizzazione contro l'antico - sottolinea Bertinotti - ma dobbiamo essere un partito della liberazione e su questo fondare una idea anche etica per la costruzione di un'etica pubblica condivisa".
Non si tratta, dice Bertinotti, di "un atteggiamento di cautela nei confronti della Chiesa, ma di una idea di lavorare diversamente nei confronti di altre culture. Non siamo chiamati a risolvere nella politica la ricerca antropologica di cosa è l'uomo".

Bertinotti /4
Apcom 27.11.05
Prc
Il Cpn approva il documento di Bertinottti sulla sinistra in Italia

Roma, 27 nov. (Apcom) - Con 108 voti a favore, il Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista ha approvato il documento del segretario Fausto Bertinotti il cui nucleo centrale è la costituzione di una sezione italiana della Sinistra europea. L'assemblea ha votato anche sui documenti presentati dalle quattro minoranze interne: l'area 'grassiana' di Essere Comunisti (43 voti), l'area trotzkista guidata da Marco Ferrando (9 voti), Sinistra Critica (12 voti), Falce e Martello (4 voti).
Nel corso della relazione conclusiva al Cpn, Bertinotti ha sferzato le minoranze interne, particolarmente l'area guidata da Claudio Grassi che si è detta vicina alle posizioni dei Comunisti italiani, i quali hanno abbandonato il tavolo dell'Unione sulla politica estera per dissensi sulla strategia di ritiro dall'Iraq. Tornando a definire "positivo" il confronto con l'Unione sul programma, il segretario del Prc ha letto in sala il testo approvato dal tavolo della coalizione sulla politica estera, che prevede un ritiro immediato delle truppe dall'Iraq concordato con le autorità di Baghdad (quest'ultimo punto ha scatenato le polemiche del Pdci e dei grassiani dentro Rifondazione). "Io un ordine del giorno del genere lo voterei", ha sottolineato Bertinotti, difendendo il testo rappresentativo di tutta la coalizione di centrosinistra e che sarà sottoposto all'esame dei leader dell'alleanza al seminario dell'Unione in Umbria ai primi di dicembre.
Più in generale, nel confronto programmatico con gli alleati, Bertinotti esclude "la modalità binaria del sì o del no". E cita vari esempi: "Se nella battaglia contro l'inceneritore ad Acerra fossimo usciti dalle Giunte locali, quale vantaggio avrebbe avuto la popolazione?". E ancora sul caso Bologna, dove, secondo il segretario, "evitando di ridurre tutto a una scelta tra sì e no, abbiamo evitato di fare un regalo ai nostriavversari ed esaltato i contenuti della questione legalità". Resta l'obiettivo del Prc di "spostare l'asse dell'Unione a sinistra, in rapporto con i movimenti", ma evitando "risposte povere rispetto alle domande della gente".
In sostanza, il Prc deve valorizzare i risultati ottenuti nel confronto programmatico con l'Unione, è il ragionamento di Bertinotti, in quanto in questa fase è prioritaria l'alleanza con il centrosinistra per "cacciare Berlusconi dal governo". "Un partito che non ha l'orgoglio di valorizzare questi risultati - dice il segretario alle minoranze - non è un partito".
Quanto alla possibilità di riuscire a "cambiare" modelli economici e l'atteggiamento degli alleati dell'Unione nei loro confronti, questa dipende "da due condizioni", conclude Bertinotti. "Una è lo scenario europeo: se la Germania e la Francia andassero verso il neocentrismo, il nostro esperimento in Italia sarebbe messo a grande rischio - sottolinea - la seconda condizione è la temperatura del conflitto sociale in Italia".
Infine, sulla sezione italiana della Sinistra europea, che serve a dare "un luogo pubblico di discussione e iniziativa" alle soggettività non iscritte al partito ma aderenti alla Sinistra europea anche in vista di future candidature alle Politiche, Bertinotti specifica che "per un lungo periodo la sezione italiana della Sinistra europea farà le sue scelte attraverso il metodo dell'unanimità perché nel primo periodo nessuno può pensare di imporsi sugli altri".

Bertinotti /5
Agi 26.11.05
Bertinotti: via la falce e martello? Non ci penso

(AGI) - Roma, 26 nov. - "Non ci penso". Fausto Bertinotti liquida cosi', ancora una volta, l'ipotesi di cancellare la falce e il martello dal simbolo di Rifondazione Comunista.
Il segretario del Prc, a margine dei lavori del comitato politico nazionale del partito, conferma la volonta' di costruire in tempi brevissimi ("due o tre mesi") la sinistra alternativa in Italia, ovvero la sezione italiana del Partito della Sinistra Europea, che vedra' insieme e con pari dignita', il Prc e altre forze della sinistra radicale. "Sul simbolo - precisa Bertinotti - non ci saranno novita', ma sulle liste si'. Sul simbolo no, perche' pensiamo che il simbolo che questa nuova soggettivita' politica dovra' utilizzare in questa fase sia quello di Rifondazione e di interlocutori a cui ci siamo rivolti danno questo elemento come acquisito. D'altronde nel nostro simbolo gia' c'e' il riferimento alla Sinistra Europea e gia' ci siamo presentati alle europee con questo simbolo.
Naturalmente, questa connotazione potra' essere ulteriormente rafforzata, ma resta il simbolo di Rifondazione Comunista".

venerdì 25 novembre 2005

AprileOnline, 25.11.05
Pier Ferdinando alla ricerca della Verità perduta
Zoom. Toccherà a Casini, ''esempio di forte coscienza cristiana'', traghettare la Chiesa nella politica italiana. Qualche riflessione
Angelo Notarnicola

Sembra proprio che la Chiesa abbia scelto chi la traghetterà nella politica italiana del prossimo decennio: Pier Ferdinando Casini. La notizia è di ieri, ma una riflessione di approfondimento è necessaria.
Il pontificato di Ratzinger è iniziato individuando il nemico da abbattere nei prossimi anni: il relativismo. Per raggiungere questo risultato probabilmente non saranno sufficienti né un solo Ratzinger, nè un solo Ruini, tanto meno un Pierferdinando qualsiasi.
Con ogni probabilità vedremo passare altri protagonisti dopo di loro. Ciò che è certo, comunque, è l’obiettivo da raggiungere. Dopotutto gli uomini di Chiesa sono i primi a relativizzare la loro esperienza terrena a quella celeste, per cui poco importa se qualcuno inizia un percorso e un altro lo porta a termine. Un’organizzazione che sopravvive da due millenni ha tempi di riflessione e di azione diversi da quelli a cui siamo abituati “noi comuni mortali”. Il tempo nelle loro azioni non è dato, in pratica non esiste. Ciò che conta è la missione da compiere in nome della Verità. E il compito di oggi per la stessa sopravvivenza della Chiesa è annientare il relativismo, quel processo culturale del pensiero occidentale che ha trovato nuova linfa all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso con Einstein e le sue scoperte.
Gli sconvolgenti risultati, consegnati alla storia del pensiero occidentale come leggi della relatività, hanno segnato la nascita della fisica moderna, il punto di lancio del relativismo come nuova corrente culturale del pensiero occidentale e contemporaneamente l’entrata in crisi del razionalismo illuminista nonché la messa in discussione del concetto cristiano di Verità assoluta.
Questa minaccia, al suo interno, ne contiene un’altra. La Chiesa cattolica, fondata su una rigida gerarchia verticale, è oltre modo minacciata dalle organizzazioni orizzontali che fanno della rete il proprio riferimento simbolico e operativo. La rete, contrariamente alla piramide, simbolo delle organizzazioni verticali, è pensata dall’uomo occidentale e sostanziata in diverse forme - come ad esempio Internet - proprio in seguito allo sviluppo di un pensiero che fa della “relazione tra gli elementi” il suo punto fondamentale.
La Chiesa cattolica non può aspettare oltre. A rischio c’è, per chi non l’avesse ancora capito, la sua stessa esistenza. Si deve difendere, si chiude in se stessa, riduce le libertà agli ordini più “trasgressivi”, serra le proprie fila prima di andare all’attacco, invadendo ancora più massicciamente il campo della politica italiana, per ovvi motivi, punto di partenza obbligato di ogni azione vaticana. Il contesto, tra l’altro, lo consente. La crisi che attraversa la nostra civiltà e il nostro paese in particolare è portatrice di angosce e paure nelle quali il bisogno religioso risorge inevitabilmente.
E davanti a tutto questo, all’immensa grandezza della sfida che gli uomini di Chiesa hanno davanti, alcuni dei nostri politici di sinistra pensano che sia possibile imbrigliare con annunci di improvvise conversioni le strategie vaticane.
Ve la immaginate la faccia di Ruini quando ascolta questo genere di dichiarazioni? Diventano quindi comprensibili le parole del cardinale quando definisce le critiche ricevute “pallottole di carta”.
Con le prossime elezioni si chiuderà una fase storica. Per i prossimi anni il bel Pierferdinando investito da Mons. Fisichella, alla presenza di Ruini, come “esempio di forte coscienza cristiana” - chiaramente sotto tutela - offrirà il suo piccolo contributo alla riconquista della Verità perduta.

La Stampa, 25.11.05
Donne italiane, specie non protetta
di Stefania Miretti

Elena l’aveva scritto su un biglietto: «Sappiate che se mi succederà qualcosa Mario è il mandante». Ma forse non sapeva a chi spedirlo, così l’ha chiuso in un cassetto dove qualcuno l’ha ritrovato cinque mesi più tardi, quando Mario, suo marito, l’aveva già uccisa - personalmente, senza bisogno di sicari - a coltellate. Più di venti coltellate, il doppio di quelle che si sono rese necessarie per far fuori Fatima, che era di corporatura minuta. Il suo innamorato l’aveva avvertita, le aveva dato tre giorni di tempo, «torna con me altrimenti ti faccio fuori»: una comunicazione via sms che la polizia non aveva ritenuto «una minaccia concreta», benché si sappia che le persone ormai con un sms fanno tutto, si dichiarano, divorziano, esprimono condoglianze.

Rita pensava d’averla sfangata: suo marito Paolo aveva sbagliato la mira, dopotutto non è facile far fuori qualcuno col coltello, ed era stato arrestato; peccato che la pena, arresti domiciliari, gliel’abbiano fatta scontare a casa di mammà, a pochi metri dall’appartamento di Rita, così quando un anno e mezzo dopo ha deciso di riprovarci - cambiando tecnica, con lo strangolamento - ha fatto presto. Marina invece se n’è andata con due stilettate ben assestate al cuore, dopo mesi di pedinamenti e minacce. Perché il suo assassino era così arrabbiato? «Cercava in tutti i modi di riprendere la relazione», ovvio. Marina, accompagnata dal papà, era andata anche alla polizia, ma quando le era stato chiesto se intendesse sporgere denuncia (un semplice esposto non basta per intervenire) contro il suo innamorato, lei non se l’era sentita, e d’altronde nessuno aveva insistito. Storie estreme? Mica tanto. Per le donne in età compresa tra 16 e 44 anni - dopo, pare ci si possa finalmente rilassare - ci sono oggi più probabilità di morire perché picchiate-sparate-accoltellate-strangolate dal partner (in epoca di famiglie allargate meglio specificare: marito, fidanzato, amante stabile od occasionale) che d’incidente stradale o cancro al seno. In Italia, dove circolano più auto che in un villaggio afghano, succede un giorno sì e un giorno no che qualcuna venga accoppata così, da un uomo che sta cercando di lasciare, e con quali buonissime ragioni lo si capirà purtroppo solo a funerali avvenuti. Nella sola Russia vengono fatte secche ogni anno 13 mila donne, e il 75% delle volte è il marito (14 mila sono le vittime del conflitto Urss-Afghanistan nell’arco di dieci anni). Va un po’ meglio alle svedesi: ne viene fatta fuori solo una ogni dieci giorni, si sa che la Svezia è il posto al mondo dove una femmina ha più chance, in generale.

Deborah Rizzato, la venticinquenne di Cossato perseguitata per dodici anni da un uomo che uscito di galera è tornato per farle la festa, e c’è agevolmente riuscito, sta in queste statistiche, di fronte alle quali un poliziotto attento come Sergio Molino, capo della squadra mobile torinese, allarga le braccia: «Le donne non sono sufficientemente tutelate, non c’è modo di farlo. E quelle che si rivolgono alle forze dell’ordine sono comunque poche, una minima parte di quante subiscono maltrattamenti e violenze in casa». Proprio per questo, secondo Anna Ronfani, avvocato e dirigente del Telefono Rosa, le denunce andrebbero sempre prese serissimamente: «Quando una donna si decide a denunciare il partner o una persona con la quale è in relazione, non lo fa mai alla prima sensazione di pericolo, al primo episodio violento. Chi riceve la denuncia dovrebbe sapere che spesso le vittime tendono a minimizzare, a non raccontare tutto, per paura e per vergogna».

Gli strumenti per intervenire, dice l’avvocato Ronfani, ci sarebbero - in particolare la legge 154 del 2001 che ha introdotto la possibilità di misure cautelari o di allontanamento dei sospettati di violenza - «ma la lentezza dell’applicazione, insieme alla non completa capacità di chi riceve la denuncia a fotografare la reale situazione» ne sono i limiti intrinseci. Paradossalmente era più semplice un tempo, quando il carabiniere che in paese conosceva tutti andava a cercare il marito violento al bar e gli faceva una lavata di capo, che adesso, con leggi mirate ma gestite da giudici oberati di pratiche.

Nella Giornata internazionale contro la violenza alle donne, che cade oggi con l’invito a esporre lenzuola bianche alle finestre, il bilancio è amaro un po’ ovunque, come se ogni mattina si contassero i caduti d’una guerra. Dice l’Onu, nel suo rapporto 2005, che nel mondo almeno una donna su tre è stata picchiata, costretta ad avere rapporti sessuali o a subire abusi, e l’aguzzino è quasi sempre un parente. Un nemico in casa, o nel letto, proprio come in un brutto film con Julia Roberts.

AprileOnline, 25.11.05
Il Riformista - 23 novembre 2005
Ipse dixit
I consultori secondo Tonini
Pieffe

"Ai volontari dei centri di aiuto alla vita, che chiedono di collaborare alle attività di prevenzione nei consultori, si deve rispondere non 'vade retro!', ma 'era ora!'.
Si deve piuttosto aprire subito un confronto serio e aperto sul 'come' organizzare questa presenza"
"La presenza del volontariato di aiuto alla vita dovrebbe quindi assumere caratteristiche di discrezione e di rispetto da codificare in un preciso e rigoroso codice di comportamento"
"Il primo elemento di convergenza con ilcentrosinistra, tanto vistoso quanto ignorato, è la vera e propia svolta maturata nella Chiesa italiana, con la rinuncia non solo all'abrogazione, ma perfino alla revisione della legge 194..."
sen. Giorgio Tonini, capogruppo DS Commissione Esteri Senato

Le Scienze, 22.11.2005
Il gene della paura
I topi privati di statmina si comportano in modo eccessivamente audace

In uno studio pubblicato sul numero del 18 novembre della rivista "Cell", alcuni ricercatori riferiscono della scoperta di un gene che controlla la capacità di reagire con la paura appropriata di fronte a un pericolo incombente. Come risultato, i topi privi di questo gene (statmina) diventano eccessivamente audaci e temerari. La scoperta potrebbe avere implicazioni nello studio dei disturbi dovuti all'ansia e nello sviluppo di potenziali farmaci.
Gleb Shumyatsky della Rutgers University e colleghi hanno scoperto che il gene della statmina - normalmente presente ad alti livelli nella regione del cervello chiamata amigdala - controlla sia le paure innate che quelle acquisite. I topi privati di statmina esibiscono livelli di ansia insolitamente bassi anche in situazioni che dovrebbero istintivamente ispirare paura. Gli animali mostrano anche minori reazioni di fronte a condizioni che in precedenza si erano dimostrate poco piacevoli, segno che i topi sono privi della normale memoria per la paura.
"Anche se uno dei circuiti neurali meglio conosciuti nel cervello dei mammiferi è proprio quello che controlla il condizionamento alla paura, - commenta Shumyatsky - si sa ben poco dei meccanismi molecolari alla base di queste reazioni. Ora abbiamo scoperto che il gene della statmina ha un compito fondamentale nel controllo delle paure innate e di quelle acquisite. Va ricordato che la paura svolge un ruolo essenziale per la sopravvivenza".

Shumyatsky, et al.: “Stathmin, a Gene Enriched in Lateral Nucleus of Amygdala and in the CS and US Pathways, Controls both Learned and Innate Fear”. Cell, Vol. 123, 697–709 (18 novembre 2005), DOI 10.1016/j.cell.2005.08.038.
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.


AprileOnline, 25.11.05
Berlinguer: ''La 194 ha dato i suoi frutti. La proposta dell'Udc è furba e demagogica''
Interventi. L'eurodeputato Ds: ''Per una commissione d'inchiesta non ci sono i tempi necessari. Si pensa molto più alle elezioni che ha risolvere i problemi''
Alice Frei

Giovanni Berlinguer, oggi europarlamantare Ds, fu nel 1978, il relatore alla Camera dei deputati della legge 194. Nei giorni in cui la polemica sulla tutela dell’interruzione volontaria di gravidanza torna ad essere incandescente, gli chiediamo una breve opinione. "L'idea forte della legge - sostiene Berlinguer - era quella di affidare a persone competenti il compito di consigliare e di cercare le soluzioni che possano evitare l'aborto. Perché questo è scritto chiaramente nelle legge. Se poi nei consultori si mandano dei propagandisti per i quali l'aborto è un omicidio a confrontarsi con donne che soffrono, violandone la loro privacy ed esacerbando stati d'animo angosciati, questo potrebbe essere solo un grave danno e non contribuirebbe alla pace sociale né alla decisione responsabile che devono prendere le donne".
A proposito delle nuove critiche da parte del fronte antiabortista, Berlinguer ribatte con convinzione: "Le legge ha dato due frutti. Intanto, ha fatto emergere questo fenomeno dalla clandestinità, diminuendo le ingiustizie sociali, visto che le donne ricche prendevano i voli charter per andare ad abortire a Londra e le donne povere lo facevano con le mammane nei sottoscala, senza garanzie igieniche e alcune morivano. L'altro risultato è che la 194 ha contribuito a ridurre notevolmente il numero stesso degli aborti" .
L'europarlamentare è infine nettamente contrario all'idea avanzata dall'Udc di una commissione d'inchiesta sulla 194. Per Berlinguer si tratta di "una proposta furba e demagogica. Perché non ci sono i tempi necessari e nell'ultimo scorcio di legislatura non sarebbe una commissione serena. In questo periodo i politici pensano molto più alle elezioni che a risolvere i problemi".

AprileOnline, 25.11.05
Lettere al direttore
Su Livia Turco, aborti consultori et similia
Marialaura Galante, Unione Comunale


cari compagni,
cosa si può fare per evitare che, dopo aver perso il referendum per aver scelto una linea da basso illuminismo, si continui lasciando parlare di aborto consultori et similia una donna come Livia Turco che ha come unico riferimento politico e culturale il cristianesimo? che per rispondere a Cofferati cita l'esempio di Torino in cui è stato fatto fare agli immigrati buoni il lavoro sporco contro quelli cattivi insieme alle comunità religiose? che rivendica i CPT nei pubblici dibattiti e che chiede soldi per mamme e figli continuando a separare i bisogni tra quelli che piacciono a lei e quelli che lei non pratica?
Io sono iscritta ai DS ma credo seriamente di non rinnovare la tessera e di non votare questo partito alle elezioni. darò solo il
voto alla coalizione e penso che tutti dovrebbero fare così perchè si capisca che il voto per abbattere la destra non sia un voto di condivisione di una terribile politica che no ha nè idee, nè si sforza di pensare e cercare riferimenti. Ognuno per legittimare il proprio pensiero parla delle scuole che ha fatto o si riferisce solo a sè stesso. una strana forma di autobiografia, laddove l'autobiografia dovrebbe insegnare la ricchezza delle esperienze e non la povertà di pensiero e l'autoreferenzialità.
I nostri dirigenti hanno fondato un altro partito ma non hanno avuto mai il coraggio di farlo da soli e fino in fondo. E si sono portati dietro il peggio: paternalismo,
dirigismo, attaccamento alla strategia per la conquista del potere, lotta per il potere.
Tutto questo non ci porterà da nessuna parte, forse al baratro delle coscienze.

Liberazione, 25.11.05
A colloquio con Rosaria Canciano, avvocata, del movimento delle donne di Milano. «Il problema è la consapevolezza della propria volontà. Quando la mettiamo nel piatto gli uomini vanno in bestia»
Violenza contro le donne: «Gli strumenti ci sono, manca la volontà»
di Laura Eduati

Il caso di Debora Rizzato, la ventiquattrenne di Biella accoltellata a morte dall’uomo che l’aveva violentata dieci anni prima, segna con una tremenda coincidenza la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Su quale tutela possono contare le italiane che subiscono abusi da parte degli uomini? E le cose sono cambiate negli ultimi decenni?
L’abbiamo chiesto a Rosaria Canciano, avvocata penalista specializzata in diritto di famiglia, da sempre attiva nel movimento delle donne di Milano.
Che idea si è fatta del caso di Biella? E’ utile dire che,come in molte vicende di violenza maschile sulle donne che conoscono, si tratta di una concezione distorta dell’amore?
Credo che in primo luogo si tratti di una vendetta atroce contro la ragazzina che lo mandò in carcere per stupro. Il fatto che si tratti anche di una pulsione amorosa sbagliata lo si può applicare in molti storie che coinvolgono uomini apparentemente normali, senza cioé la patologia psichiatrica di cui soffre l’omicida di Debora.
Come ci si protegge?
Denunciando i fatti alla polizia. E’ possibile anche ottenere una guardia del corpo, ma in pratica le forze di sicurezza sono talmente poche che è praticamente impossibile. E poi non sempre si può contare su poliziotti o carabinieri sensibili al problema e preparati per affrontarlo. Mi è capitato di imbattermi in un comandante dei carabinieri che consigliò a una donna picchiata dal marito di tornarsene a casa, che insomma se le aveva buscate qualcosa doveva aver fatto di male. Ciò accade
più spesso in provincia, dove manca nei tribunali una sezione speciale per i reati in famiglia contro donne e minori.
Il passo successivo alla denuncia?
Il procuratore può ordinare il divieto di dimora. In quel caso il marito deve andarsene e non farsi più rivedere. Naturalmente se a molestare è il convivente, il fidanzato o un ammiratore respinto il divieto non ha alcuna validità. E si riproprone il problema. A quanto pare, la ragazza di Biella aveva presentato varie denunce ma non si era rivolta ad un avvocato che la consigliasse. Un avvocato può chiedere un provvedimento urgente, magari di allontanamento.
Zapatero ha introdotto la legge contro la violenza domestica. A che punto è l’Italia?
In Italia non esiste una legge che porti un nome specifico, ma ciò non significa che non abbia strumenti legislativi. Tutto sta nell’interpretazione delle norme, che deve essere fantasiosa e adeguarsi al caso specifico. Spesso però il giudice istruttore è costretto a delegare tutto alla polizia giudiziaria.
Lei dice che il fenomeno della violenza contro le donne è rilevante.Perché?
Non mi baso su statistiche, ma a parer mio è un fenomeno crescente. Mi si presentano in studio donne che spesso non hanno nemmeno la coscienza di subire un abuso.
D’altra parte però registro un maggiore coraggio, derivante da una serie di conquiste personali delle donne, che quindi sono maggiormente in grado di conoscere la propria volontà, i propri diritti e la capacità di utilizzare gli strumenti della legge. Purtroppo saper usare questi strumenti non significa automaticamente avere dei vantaggi. E i tempi della giustizia sono biblici. L’altro lato della medaglia è
dare alle donne maltrattate la possibilità concreta di voltare pagina. E qui l’Italia fa difetto. L’inserimento lavorativo avviene a carico dei collettivi femminili che decenni fa costituirono in varie città le case delle donne. Qui chi subisce abusi trova una sistemazione temporanea. Ma lo Stato non contribuisce, se non con sovvenzioni minime.
La violenza maschile è diversa rispetto al passato?
Sì, è più feroce perché spesso è subdola. Nelle classi culturali più alte si giunge ad un mobbing che si nutre di ricatti e minacce, spesso di togliere l’affidamento dei figli o di negare il pagamento degli alimenti. Quando la violenza è psicologica le perizie sono inutili.
Quanto è un discorso culturale?
Credo che il concetto fondamentale sia quello della consapevolezza della propria volontà. Più una donna è consapevole, più l’uomo si imbestialisce. Meno la donna ci sta ai discorsi che la vogliono insicura e volubile, più l’uomo reagisce con violenza. Quando il confronto diventa logico e razionale spesso l’uomo perde le staffe, perché è un terreno che non conosce.
E’ una mera questione di potere?
Certo. E poi vorrei sottolineare il fatto che quando le donne menano le mani il loro gesto è bollato come isterico, come perdita di controllo. Quando a picchiare è invece un uomo, il discorso cambia: è un gesto vigliacco ma comunque di dominio, di controllo.

Liberazione, 25.11.05
Studio dell’Oms in dieci paesi
Colpita almeno una donna su tre

Almeno un terzo, ma spesso molte di più (le percentuali oscillano tra il 35 e il 76 per cento) hanno subito un qualche tipo di violenza fisica o sessuale, oltre la metà non ha ricevuto aiuti da strutture di supporto o autorità. Così 24mila donne di dieci paesi hanno risposto alla ricercatrice Claudia Garcia-Moreno che ha curato uno studio per l’Organizzazione mondiale della Sanità discusso sulla rivista Science. Le intervistate sono donne dai 15 ai 49 anni che vivono in 15 siti urbani e rurali in Bangladesh, Brasile, Etiopia, Giappone, Perù, Namibia, Samoa, Serbia, Montenegro, Tailandia, Tanzania. La metà delle donne che hanno ammesso di conoscere per esperienza diretta la violenza di genere ha anche affermato di subirla ancora al momento del colloquio. Una percentuale compresa tra il 21 e il 66 per cento non aveva mai confessato prima a nessuno le violenze subite.
Circa la metà delle donne che hanno subito violenza dai mariti e dai partners hanno riportato ferite fisiche sul momento, ma soprattutto risentono dell’evento a livello psicologico e fisico per il resto della loro vita. Non di rado manifestano volontà suicide e soffrono di problemi psichici anche dopo anni dalla violenza subita. Inoltre, come hanno rilevato alcuni dei curatori dello studio, la violenza domestica incide sulla salute riproduttiva della donna e può contribuire al rischio di infezioni sessualmente trasmesse, compreso il virus Hiv. Non solo, una percentuale fra il 4 e il 12 per cento delle intervistate ha rivelato di essere stata picchiata anche durante la gravidanza: molte hanno perso il bambino.
Confermando la classica spirale vittima-carnefice, in almeno la metà dei siti di ricerca la maggioranza delle donne si è detta d’accordo sul fatto che è accettabile che un uomo sia violento con la moglie in determinate circostanze.
In alcuni paesi, segnala infine la ricerca Oms, dipende dalla violenza del partner il 40-60 per cento delle morti femminili. «Questo studio indica che le donne corrono più rischi fra le pareti domestiche che per la strada», ha detto Lee Jongwook, direttore generale dell’Oms, presentando l’indagine a Ginevra, «e dimostra che questa problematica va affrontata come serio problema di salute pubblica».
Uno studio Unicef richiama invece l’attenzione sulla piaga delle mutilazioni sessuali. Sono tre milioni le bambine che subiscono ogni anno l’escissione genitale femminile nell'Africa sub-Sahariana e nel Medio Oriente. Il dato, che supera di un milione la cifra nota fino a oggi, dipende non tanto da un aumento del numero di bambine mutilate quanto da una più attenta rilevazione dei dati. Lo studio conferma quanto la pratica sia radicata nelle comunità ma accredita l’ipotesi di una sua possibile eliminazione nell’arco di una generazione «quando le comunità saranno messe nella condizione di compiere scelte non dannose che emancipino gli individui e la società».

Liberazione, 25.11.05
Uno sguardo sul “prima”, quando le aggredite non sono ancora morte
Ciò che conta è riuscire a portare le donne lontano da quell’onda e da lontano guardare il mare
di Marisa Guarneri

Ho letto con interesse il dibattito su Liberazione “Maschi, perché uccidete le donne”, ma vorrei spostare un poco lo sguardo sul.... prima. Quando le donne non sono ancora morte, ma ci sono tutte le condizioni perché la situazione possa precipitare.
La violenza che incontro tutti i giorni, di cui le donne giovani o meno mi parlano come un’onda che si abbatte su di loro giornalmente, a volte un’onda che riescono ad evitare, a volte che le coglie di sorpresa e non sono abbastanza veloci per scostarsi, a volte un’onda anomala che le travolge del tutto.
Ciò che conta veramente è riuscire a portare le donne lontano da quell’onda pericolosa insieme ai loro bambini e da lontano guardare il mare e cominciare a capire come si formano le onde, quando, e perché si scelto proprio quel mare.
Le vittime di violenza fisica e psicologica in genere sanno perché le cose accadono, e descrivono con precisione l’escalation del maltrattamento, le condizioni in cui avviene e la periodicità con cui avviene: dicono che lui è sempre stato molto nervoso, ossessivo, geloso, immaturo e tutto è peggiorato quando è nato il bambino. Ci parlano di uomini che le offendono, umiliano, isolano, ma che sembra non possano fare a meno della loro presenza in casa... Hanno bisogno di lei per sfogare le loro frustrazioni, per esercitare potere, per potersi sentire “qualcuno”, per esorcizzare il loro passato, per non affrontare i problemi del futuro. Quando lei scappa via, o semplicemente si allontana, si sottrae, inizia un processo che se non interrotto in tempo può portare anche all’omicidio.
La depressione e le lacrime dei maltrattanti, spesso insospettabili brave persone, le sentiamo spesso al telefono... e diventano minacciose se non riescono ad ottenere informazioni, a riavere ciò che ritengono appartenga a loro. Per non parlare dei silenzi e segreti familiari che nascondo abusi sessuali, fisici e psicologici sui bimbi e bambine che riescono a parlarne solo dopo molti anni, non soltanto per paura, ma per le ragnatele ed i ricatti dei legami affettivi, per non fare soffrire..., per non accusare chi amano di più, perché in fondo si sentono colpevoli e complici della violenza subita. Ed allora questi sentimenti complessi, queste confusioni di ruoli, questa lunga e silenziosa sequenza di vite disperate non ci assomigliano? Ci sono poi così lontane? Mi chiedo perché gli uomini e a volte le donne lasciano
che altre/altri muoiano dentro prima che fuori.
Non si tratta di parlare di un fenomeno che si sa esteso e può anche far crollare alcune nostre flebili certezze. Si tratta di parlare di noi stesse e di noi stessi, di analizzare la relazione uomo donna e la differenza maschile quanto quella femminile. A volte possono bastare poche parole per descriverci: spaventati ed impotenti. Attenzione, comprensione e forza possono impedire che il peggio accada, ma è necessario avere l’intenzione di vedere, anche se questo ci tira in gioco...
*presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano

Liberazione, 25.11.05
La sopraffazione che torna a insinuarsi nelle pieghe delle vite femminili ha mille facce
I centri antiviolenza, un oblò sul lato oscuro delle nostre società
di Emanuela Moroli

Maschi, perché uccidete le donne? Non c’è domanda di più stretta attualità. Tra ieri e l’altro ieri ne hanno uccise altre tre e in modo brutale, con odio, con furia. Non è una novità. Chi affronta dall’interno l’universo della violenza maschile perché ha scelto di operare nei Centriantiviolenza (in Italia ce ne sono più di cento un vero
movimento di donne che non accettano l’inevitabilità della sopraffazione) guarda il mondo da un oblò che si affaccia sul lato nascosto e oscuro delle nostre società, è un oblò sull’universo culturale degli uomini, dei tanti uomini che ancora ritengono di avere avuto mandato dalla Storia per addomesticare, segregare, sopraffare, le donne che a vario titolo entrano nella loro vita.
E’ un oblò straordinario e terrorizzante. Vi si scorge l’inferno di famiglie costruite sulla minaccia e la paura; ci si rende conto che ovunque si volga lo sguardo, nelle piccole comunità come nelle metropoli, nelle ville dei benestanti come nelle case popolari, nelle città italiane come nei villaggi del Magreb
o nei territori del Medio oriente, lo scenario è simile: mariti, conviventi, padri, fratelli, parenti che con la violenza deturpano l’esistenza di donne che, a loro volta, ritengono di essere predestinate dalla propria condizione femminile al ruolo di vittime.
Cerine Hebadi, l’avvocata iraniana premio Nobel per i diritti umani ripete che le donne «sono un solo popolo, sparso ovunque nel mondo e hanno un problema che le accomuna e le collega le una alle altre, questo problema è la violenza che devono affrontare».
La prima ragione di morte per le donne dai 16 ai 44 anni - ci comunica la ricerca del Consiglio d’Europa - non è il cancro, non sono gli incidenti, è la violenza dei famigliari più prossimi. Chi opera nei Centri antiviolenza conosce da oltre 10 anni questo dato e lo va ripetendo da convegno a tavola rotonda, da seminario a workshop e a tutti appare un dato ininfluente, da non inserire nella agenda politica, sul quale non soffermarsi. Poi un giorno per l’ennesima volta il dato emerge da una ricerca della Commissione europea e come in un corto circuito, improvvisamente questa realtà terribile e in penombra si illumina di un lampo e uomini di buona volontà si impegnano a scrivere qualcosa di intelligente, di civile, di emozionale su questo genocidio tollerato.
Poi, inevitabilmente, torna il buio e gli uomini di buona volontà riprendono le loro attività convinti di aver fatto il proprio dovere di maschio evoluto. E la palla torna alle donne, per fortuna che hanno imparato a giocare. Ogni epoca - secondo Heidegger, ha una sola cosa cui pensare. Una soltanto.
La differenza sessuale - aggiunge Luce Irigaray - è quella del nostro tempo. Era 18 anni fa quando lo scriveva, ma era il ’900, il secolo delle donne. Oggi è in corso una controffensiva micidiale, ogni giorno un nuovo più preoccupante segnale: è di ieri “l’innovazione” dei militanti del movimento per la vita sguinzagliati nei consultori per tormentare donne già colpite da una scelta che è sempre lacerante. E’ in corso una marcia per la riappropriazione del corpo delle donne, quel corpo che ha imparato a sottrarsi e a dire basta. Chi pensava di aver superato per sempre i confini della segregazione e dell’arbitrio oggi si ritrova a dover fare i conti con una violenza che torna ad insinuarsi in ogni piega della propria esistenza, perché è violenza la Commissione parlamentare d’inchiesta che vuole indagare sul dolore delle donne attraverso la vivisezione della legge 194, è violenza la campagna scatenata
contro la procreazione assistita, è violenza l’ostracismo dichiarato contro la presenza delle donne in politica, è violenza il tetto di vetro che non si riesce a sfondare; e queste violenze le incontriamo sulla stessa strada sulla quale via via incontriamo i datori di lavoro che molestano, i clienti delle prostitute, i padri stupratori, i fratelli segreganti, e gli assassini. Ma non prendiamocela con loro. Sono solo i terminali di una società organizzata per minimizzare, occultare, segregare la violenza contro le donne. Ogni anno in Italia vengono uccise dalle 90 alle 100 donne per mano di un famigliare. Tutte ma proprio tutte, prima di essere uccise si sono rivolte a polizia, carabinieri, assistenti sociali, tribunali;
ma le loro parole non hanno peso, le loro denunce vengono archiviate, si minimizza, si incoraggia la vittima a tornare dal carnefice, a sopportare, a “capire”. E muoiono. E i titoli dei quotidiani del giorno dopo si interrogano sul perché non è stata fermata in tempo la mano dell’assassino. E’ un copione senza senso che si ripete come in un incubo. Oggi, 25 novembre è stata dichiarata la giornata mondiale contro la violenza nei confronti delle donne. E’ importante. Si alza il sipario su uno scenario di solito avvolto dal buio.
Uomini perché uccidete le donne? Chi incontra ogni giorno le vittime sopravvissute ad anni di violenze, al rischio di perdere la vita, e si confronta con loro, può rispondere riassumendo: perché è la massima espressione della libido del dominio su un altro essere umano, perché è un dominio facile da raggiungere poiché di fronte non hai il nemico, ma una donna che accoglie, che è dialogante, che spera. Ma è una risposta insufficiente, non può bastare. Serve uno sguardo che guarda insieme al futuro e al passato. Le donne come soggetto dotato di corpo, pensiero e diritti loro propri per millenni non sono esistite: lo hanno decretato i Codici, da Hamurabi al ’900. Unico protagonista della Storia il genere maschile, che ha creato Il linguaggio, il pensiero, la cultura che lo rappresenta e che ha definito universale. Così si dice: gli uomini sono tutti uguali e si sottintende anche le donne, che in questa affermazione vengono inglobate. Le donne con le loro specificità e differenza di genere non sono tenute presenti, sono semplicemente inserite in un universale neutro, che però non le descrive. La Politica, la Religione, le Leggi sono rivolte alle persone intese come neutro universale: ma se c’è qualcosa di assolutamente falso è proprio la persona neutra, quella che non ha sesso. In realtà Politica, Religione, Leggi un sesso ce l’hanno, è quello maschile che le ha concepite e modellate su i propri bisogni e immaginari. L’esclusione dal mondo della cultura/culture ha fatto delle donne vittime predestinate dell’arbitrio maschile che si è manifestato a volte con immagini d’amore a volte con la lama dell’assassino.
Ma sempre di più le donne che hanno attraversato il ’900, e che si sono dotate di una propria ottica, rifiutano di farsi raccontare dal pensiero e dal linguaggio degli uomini che hanno riservato loro solo ruoli nati dai propri personali bisogni. Ci sarà da attraversare il tempo di una recrudescenza di delitti di genere, perché le donne hanno imparato a rifiutarsi con determinazione ai ruoli imposti, a queste gabbie anguste e preconfezionate dentro le quale non intendono restare oltre.
Oggi 25 novembre, giornata per sanzionare la violenza contro le donne, ma anche giornata di sciopero generale, le donne, quelle ammazzate, quelle a rischio, quelle che dicono basta, quelle che lottano contro, quelle che hanno gli strumenti per non essere mai più vittime, tutte avrebbero molto gradito che fra i contenuti dello sciopero ci fosse anche una presa d’atto e una promessa di lotta contro questo genocidio diffuso. La sinistra avrebbe detto qualcosa di Sinistra. Peccato.
*presidente dell’associazione Differenza Donna

Liberazione, 25.11.05
La “riforma” del Forum famiglie e del Movimento per la vita. Pressioni sulla linea di Storace ed oltre. Non bastano i volontari pro-life, chiedono di convertire le strutture pubbliche Il consultorio ti bussa alla porta: «Ci hanno detto che vuoi abortire»
di Fulvio Fania

Nelle mani dello spione. Una donna sta decidendo di abortire. Non è certo questo uno dei momenti più sereni della sua vita. Ma ecco che le arriva una telefonata o trova una lettera in cassetta. Chi parla? E’ il consultorio, quello “riformato”, quello che non sta ad aspettare, quello «che si attiva». La rintraccia per dissuaderla dall’intento o, come spiegano gli antiabortisti, per «condividere» le sue difficoltà e «aiutarla». Consulenza imposta. Se proprio non vuole saperne, infatti, deve dirlo espressamente; l’unica libertà che le rimane è respingere il “consultorio” alla porta e, leggendo bene i testi, le è negata pure quella. Ma chi sarà stato a informare gli zelanti operatori? Chi avrà fatto la spia? Carlo Casini ha in mente quel che accade oggi nei Cav, i 278 centri di aiuto gestiti dal Movimento per la vita di cui è presidente; perciò risponde con una lunga esperienza: i casi variano, può trattarsi di un marito, un padre, una madre, una compagna di scuola, amici, parenti, insomma chiunque abbia saputo che quella donna è incinta e voglia “meritoriamente” mettere il naso nella faccenda. Durante la sua conferenza stampa a Montecitorio, il leader del Mpv tralascia un dato: nel 12% dei casi a spedire la gestante al Cav è stato il parroco.
Non dimentica invece quel 4,8% di donne che si rivolge ai Centri su indicazione della stessa azienda sanitaria. Accade già adesso, prima ancora che Storace metta in opera il suo disegno di inserire i “volontari” antiaborto nei consultori. Il Mpv ha firmato infatti una trentina di convenzioni locali con le strutture pubbliche, dalla diffusione di materiale propagandistico a vere e proprie intese per dirottare le donne al Centro di aiuto. Casini in realtà precorre un po’ gli effetti. Nel progetto di legge elaborato dal cattolicissimo Forum delle famiglie e da lui sostenuto, il compito di «informare immediatamente» il consultorio viene attribuito precisamente al medico, il quale con una mano potrà perfino rilasciare alla donna il certificato per l’aborto ma con l’altra dovrà prendere il telefono e allertare subito la più vicina squadra di dissuasori, richiamando la malcapitata «al dovere morale di collaborare» con loro.
La chiamano “riforma” dei consultori e dicono che si tratta di applicare il vero spirito della legge 194, cioè «il dovere dello Stato di proteggere il diritto dei nascituri». Ma per prima cosa escludono il consultorio «dall’iter abortivo». Gli operatori devono solo «tutelare la vita fin dal concepimento», non servono ad accompagnare la donna in una scelta comunque dolorosa ma a farle cambiare strada. Inoltre devono provvedere al «valore primario della famiglia fondata sul matrimonio», «preparare la coppia» alla vita coniugale e stipulare – per l’appunto - convenzioni con organizzazioni di volontariato.
Credete forse che non si intrufolino anche tra moglie e marito? Di fronte alla minaccia di un divorzio dovranno metter pace tra i coniugi mentre il giudice aspetterà che abbiano esperito sei mesi di tentativi.
Non occorre nemmeno che siano consultori pubblici: la legge del Forum prevede anche quelli privati, “volontari” oppure a fini di lucro. Né Carlo Casini né la deputata Udc Olimpia Tarzia, segretaria del Movimento, se la sentono di prevedere l’approvazione della “riforma” entro questo scorcio di legislatura ma l’appoggio ai 34 articoli del progetto del Forum familiare spiega bene dove vadano a parare le intenzioni del ministro Storace. «Senza escludere l’ipotesi - precisa Casini -, la presenza del Movimento vuole significare che il consultorio stesso diventa strumento accanto alle madri per difendere il figlio».
Il vecchio alfiere del referendum contro la legge mette tutta la sua buona volontà per contenersi entro la linea tattica che i vertici della Cei hanno suggerito e incoraggiato da tempo, con la preziosa mediazione di Luisa Santolini, presidente del Forum: la 194 va svuotata, non cancellata d’un colpo. Domandiamo: visto che considerate «ingiusta» la legge, che secondo voi la diminuzione degli aborti non è merito suo, e che nel frattempo è «mutato l’atteggiamento della società rispetto alla nascita», che cosa ne direste di una netta abrogazione? Casini si mostra accorto: «Non saremmo contenti - dichiara - se si tornasse alla repressione penale, ma la rinuncia - e qui aggiunge “rinuncia convinta” - al penale deve essere accompagnata ad un ripensamento complessivo».
E se poi, extrema ratio, la donna ricorresse all’aborto, non sarebbe pur sempre meglio la pillola? Tarzia ritiene che provochi maggior disagio psicologico assumere un farmaco in solitudine piuttosto che affidarsi ad un chirurgo. Il ginecologo Romano, vicepresidente dei pro-life, replica invece con dati allarmistici sulla Ru-486: iI 70% delle donne, dopo averla assunta, si rivolgerebbe al medico per un raschiamento. Davvero? Incalzato da una giornalista, Romano corregge: il 70% si sottopone ad un controllo, per il resto «i dati sono fluttuanti».



Liberazione 13.11.05
editoriale
Difendiamo il patriarcato

per un solo motivo: paura
Il dibattito sulla violenza dei maschi
Franco Giordano

E' onestamente impossibile sfuggire alla stringente e ragionata verità che ci ha proposto ieri su Liberazione Angela Azzaro. Le vie di fuga alla domanda secca e drammaticamente certificata "maschi, perché uccidete le donne"? possono infatti essere molteplici, quasi tutte condivisibili. Ma sempre di via di fuga si tratta. Il liberismo, la globalizzazione, la precarizzazione dei rapporti interpersonali, la violenza diffusa come effetti di una crisi delle forme di socialità. Sì, certo, ma questi contesti appaiono, per l'appunto, "neutrali", a fronte della cruenta cronaca di una guerra annunciata di uomini contro donne. Non spiegano questi contesti, peraltro, la preesistenza di un fenomeno diffuso anche in tempi non recenti. Innanzitutto, credo, che sia giusto mettere in rilievo che il luogo in cui le donne subiscono le violenze più crudeli sia quello che per secoli è stato sacralizzato e nel quale si è tentato di murare la soggettività femminile: la famiglia. E fa un certo effetto scoprire che la "normalità" della coppia eterosessuale, brandita contro ogni forma di relazione celi una consolidata aggressività maschile che le caste (siano esse politiche o sacerdotali) tendono a difendere e a preservare.

Ma queste violenze oggi esplodono come una reazione ad una forte soggettività ed emancipazione femminile. Non solo perché le donne tendono a competere con gli uomini in ogni campo, ma perché smettono giustamente di svolgere una funzione rassicurante e rinforzante della nostra immagine. La proprietà di correzione dello specchio dello sguardo femminile comincia infatti ad agire in senso contrario amplificando limiti e difetti degli uomini. Tutto ciò produce un diffuso senso di inquietudine e disorientamento. Diciamo la verità: vengono feriti il nostro egocentrismo e narcisismo essendo stati abituati sin da piccoli a riceverne in dosi massicce attraverso conferme permanenti da figure femminili come le madri. Quando viene negato quello che a torto appariva un diritto naturale, l'aggressività diventa il bisogno rabbioso di un ripristino della cultura proprietaria sul corpo delle donne. E' il disperato e disperante tentativo di ripristinare un segno gerarchico. E' una violenza fisica, ma si esprime nella politica, nella cultura, nella costruzione della Norma.

Noi uomini non possiamo deragliare dall'obbligo di riconoscere la nostra parzialità. Tanto più rimuoveremo questa assoluta necessità di rimessa in discussione della nostra identità sessuata (anche schermandoci dietro le quinte di ragionamenti sociologicamente e culturalmente ineccepibili) tanto più contribuiremo colpevolmente alla diffusione delle violenze contro le donne e al mantenimento in vita di una società maschilista e patriarcale. Il riconoscimento della contraddizione di genere, la sua autonomia e centralità, sono la leva su cui investire per rovesciare una consolidata gerarchia di poteri e culture.

Per parte mia voglio qui solo sollecitare un tema di riflessione su cui mi interrogo da tempo: il tentativo di ricostruzione di un contatto di noi uomini con la sfera del nostro mondo interiore. Per troppo tempo infatti questa dimensione è stata sostituita da un bisogno estetizzante di conferme esterne, di ricerca di verifiche mediate da figure femminili. È un percorso che porta ad imparare a prescindere dal consenso a tutti i costi, che porta a fare a meno della ricerca esasperata dell'apprezzamento e della stima degli altri come forma sostitutiva della propria autostima. È il tentativo di abbandono dei nostri bisogni infantili o adolescienziali che ci rendono così emotivamente e pericolosamente condizionati dalla immagine riflessa degli occhi altrui, degli occhi delle donne.
È la riscoperta delle passioni attraverso l'abbandono delle paure ancestrali per una possibile esposizione a rischio di sofferenza. Quando la vita si spettacolarizza la passione si svuota nella cerimonia mondana o si spegne nell'esibizione del ccontrollo e della formalità. Senza questo sforzo di ricostruzione tdentitaria noi uomini cercheremo sempre, consciamente o inconsciamente, la scorciatoia del tentativo di ripristino dei privilegi materiali ed emotivi che oggi ci appaiono sottratti o negati. Occorre pensare dunque una trama di relazioni, nuove culture un'alterità di progetti di vita per contrastare le resistenze maschili alla definizione dela nostra parzialità e alla narisistica perdita di centralità
Cominciassero ad avere paura...?
Corriere della Sera 25.11.05
«Fisichella inopportuno su Casini Così si legittima l’anticlericalismo»
«Il centro cattolico? Per carità, l’unità è sui valori, evitiamo di ripetere un errore già vissuto»
Gian Guido Vecchi

«Torna con insistenza una concezione della cristianità che il Concilio ci aveva fatto superare, l’idea della Chiesa difesa da uno Stato che ne tutela i valori. Ma noi dovremmo essere difesi solo dalla parola di Dio...». Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia, considera la «benedizione» del vescovo Rino Fisichella a Pier Ferdinando Casini e sospira:
«Mi pare un’uscita assai discutibile e inopportuna, specie perché fatta da un vescovo autorevole, in una sede come l’Università Lateranense, alla presenza del cardinale Ruini...».
Ma perché monsignor Fisichella non potrebbe dire la sua?
«Credo che un vescovo possa e debba dire la sua sui grandi principi, sugli orientamenti che seguono la dottrina, ci mancherebbe. Ma se diciamo che la Chiesa è fuori dalla contesa politica dobbiamo essere coerenti, non possiamo fare panegirici pubblici di un esponente di parte. Tra l’altro non era il momento, il presidente Casini ha appena lasciato il gruppo misto per tornare al suo partito e indicarlo a modello è strano. Così sembra la presentazione di un eventuale leader cattolico che appartiene all’Udc ed è alleato con la destra».
C’è chi pensa invece a una nostalgia per il centro cattolico, che ne dice?
«Per carità, i cattolici devono essere sì uniti, ma sui valori. Si è scelto il bipolarismo, evitiamo di ripetere i guai compromissori del centro, gli equilibrismi, la politica dei due forni, è un errore che per ragioni storiche abbiamo già vissuto, ora basta».
Ma lei, eccellenza, come si spiega l’«interventismo» dei vescovi?
«Secondo me, nasce dalla fine della Dc e dalla debolezza del laicato cattolico, con le associazioni ridotte a un’obbedienza ossequiosa alle gerarchie, senza libertà di parola. Così i vescovi tendono a colmare il vuoto in modo indebito e fanno un’opera di supplenza che sta diventando eccessiva e pericolosa».
E dove sta il pericolo?
«Nasce l’intesa fra socialisti e radicali, vengono messi in discussione il Concordato e l’otto per mille, non è evidente? L’interventismo dei vescovi riaccende e legittima un anticlericalismo che ora è minoritario ma potrebbe accrescersi e diventare minaccioso. Tra l’altro è un interventismo limitato ad alcuni valori e non ad altri».
Tipo?
«Se è importante difendere la vita nascente, lo è altrettanto occuparsi dei bimbi che muoiono di fame o non hanno casa né scuola, della giustizia sociale, della pace...».
Che cosa dovrebbe fare, la Chiesa?
«Recuperare il suo ruolo profetico. L’intervento dei vescovi è paterno, misericordioso, in nessun modo può tentare di imporre orientamenti o scelte politiche concrete. Io imploro una Chiesa che aiuti la coscienza delle persone a decidere nella serenità di un esame illuminato dalla parola di Dio. La Chiesa, insomma, dovrebbe preoccuparsi meno delle leggi, la vita o la salvezza del matrimonio non possono essere affidate a delle leggi».
Ma non è che la Chiesa si fa sentire perché teme che il cristianesimo, oggi, possa essere ridotto all’insignificanza?
«Sì, c’è una sorta di ritirata nelle trincee dell’Occidente, la paura di qualcosa di nuovo che scompigli l’ordine costituito. Peccato che quell’ordine sia andato all’aria da tempo: non dobbiamo chiuderci in una cittadella cristiana, ma metterci nelle vie del mondo a proclamare il Vangelo».

cominciassero...?
Corriere della Sera 25.11.05
Cei e partiti, la difficoltà di trovare la misura giusta
Si parla di imbarazzo di Ruini dopo i complimenti di mons. Fisichella a Casini
Massimo Franco

Di reazioni ufficiali non c’è nemmeno l’ombra. E, ieri, i due interlocutori principali dei vescovi nel centrodestra, Silvio Berlusconi e Pier Ferdinando Casini, si sono incontrati alla Camera. Ma l’eco dei complimenti, tributati al presidente dell’assemblea di Montecitorio da monsignor Rino Fisichella, è rimbalzata nei palazzi della Cei. E non sarebbe stata un’eco di plauso per il Rettore dell’Università Lateranense: tutt’altro. Raccontano che il presidente della Conferenza episcopale abbia assistito alla cerimonia di mercoledì con un’aria lievemente distaccata. Niente di polemico, anche perché Ruini era stato informato ed era d’accordo sull’invito a Casini. Ma sembra che alla fine il capo della Cei abbia colto, nei discorsi che sono stati fatti, toni un po’ sopra le righe. Come se nell’offerta del leader dell’Udc di essere il referente-principe della Chiesa italiana, e nella legittimazione datagli da Fisichella, fosse affiorato qualcosa di eccessivo; e, comunque, di troppo coinvolgente per una Cei che formalmente rifiuta qualsiasi scelta fra gli schieramenti politici: tanto più alla vigilia di una campagna elettorale che, nelle parole dette ieri da Berlusconi, «si deciderà per un pugno di voti». Non solo. L’idea di vescovi, che danno investiture a un partito e a un leader, contraddice la strategia perseguita in modo pignolo negli ultimi anni.
Il peana di Fisichella ha dato implicitamente ragione alle componenti dell’Unione, socialisti e radicali in testa, che accusano la Cei di ingerenza. E ha creato imbarazzo in un episcopato che sta cercando di non farsi schiacciare sul fronte berlusconiano; e non ha risparmiato critiche alla riforma costituzionale federalista: un attacco che ieri il settimanale Famiglia Cristiana ha rilanciato e fatto proprio. «E’ triste che Famiglia Cristiana disinformi i suoi lettori» ha reagito stizzito Carlo Giovanardi, ministro dell’Udc, il partito di Casini. Ma si tratta di una polemica significativa dopo l’incontro dell’altroieri.
Dice che sulle scelte politiche non c’è compattezza nel mondo cattolico; e neppure su alcuni temi-chiave. Oltre tutto, in questa fase, la Cei sta registrando con prudenza ma con soddisfazione i toni più distesi usati dai Ds verso la Chiesa: come se a sinistra si cominciasse a valutare più a fondo il significato della sconfitta nel referendum di giugno sulla fecondazione assistita. Lo stesso segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, attacca Ruini ma nega di essere mai stato anticlericale. E la polemica sull’abolizione del Concordato, riproposta a freddo dal socialista Enrico Boselli, è stata lasciata cadere dal resto dell’opposizione. Sembra un inizio di tregua che si vorrebbe far durare fino a primavera.
Se è vero che, come sostiene Berlusconi, maggioranza e centrosinistra sarebbero più o meno intorno al 48 per cento, un interventismo della Cei verrebbe considerato particolarmente inopportuno. Ma la sensazione è che i vescovi tendano non tanto a porsi il problema di come parlare con il sistema politico italiano, ma di come quest’ultimo percepisce la Cei: se un’«alleata etica», che su certi temi interviene come un gruppo di pressione con interessi dichiarati; oppure un interlocutore che proprio per questo risulta scomodo, e viene tacciato di interferenza nelle questioni politiche. Non è un dosaggio facile: né per i partiti, né per l’organizzazione di Ruini. In fondo, l’episodio della Lateranense conferma che tutti faticano a trovare la misura giusta.

scienza e stregoneria
ricevuto da Barbara De Luca
Repubblica 25.11.05
L'appello del Papa agli studenti dell'Università Cattolica. "Proseguire nell'impegno per superare in modo naturale l'infertilità umana"
"Tenere insieme fede e scienza
un'avventura entusiasmante"

Città del Vaticano - Le università cattoliche debbono "fare scienza nell'orizzonte di una razionalità vera, diversa da quella oggi ampiamente dominante, secondo una ragione aperta al trascendente, a Dio". E' l'invito di Benedetto XVI, che in occasione dell'apertura dell'anno accademico dell'università Cattolica ha detto che "nel 2000" è "un'avventura entusiasmante" quella di "coniugare fede e scienza".
Il Papa è arrivato al Policlinico Gemelli di Roma accolto da una folla di giovani che lo ha lungamente applaudito all'ingresso nell'auditorium.
Il Papa ha spiegato che "è venuto affermandosi in modo sempre più esclusivo quello della dimostrabilità mediante l'esperimento. Le questioni fondamentali dell'uomo, come vivere e come morire, appaiono così escluse dall'ambito della razionalità e sono lasciate alla sfera della soggettività". "Di conseguenza - ha aggiunto Ratzinger - scompare, alla fine, la questione che ha dato origine all'università, la questione del vero e del bene, per essere sostituita dalla questione della fattibilità. Ecco allora la grande sfida delle Università cattoliche: fare scienza nell'orizzonte di una razionalità diversa da quella oggi ampiamente dominante, secondo una ragione aperta al trascendente, a Dio.
Benedetto XVI ha poi detto di avere particolarmente "a cuore" l'Istituto Scientifico Internazionale Paolo VI di ricerca sulla fertilità e infertilità umana per una procreazione responsabile. "L'istituto - ha aggiunto - nato per rispondere all'appello lanciato da Paolo VI nell'enciclica Humanae vitae, si propone di dare una base scientifica sicura sia alla regolazione naturale della fertilità umana che all'impegno di superare in modo naturale l'eventuale infertilità".

postdemocristiani
Corriere della Sera 25.11.05
Finanziamenti, in rivolta i «cespugli» del centrosinistra
Programma della lista unitaria
Rispunta l’asse Fassino-Rutelli
Intesa su liberalizzazioni e soggetto unitario
R. Zuc.

ROMA - L’intesa. È partita dal faccia a faccia Fassino-Rutelli di mercoledì scorso, ma ora procede con un’accelerazione che potrebbe portare a un vero asse ulivista all’interno dell’Unione, targato Ds e Margherita. La controprova sta nell’irritazione crescente dei partiti minori del centrosinistra, ieri quasi in rivolta sul problema dei finanziamenti della campagna prodiana e, soprattutto, sulla loro sorte al Senato. Là dove la riforma elettorale rischia di penalizzarli seriamente.
PROGRAMMA RIFORMISTA - Fatto sta che, per la prima volta in modo esplicito, la sintonia si basa su alcuni contenuti del programma, per lo più riformista, con il quale la lista unitaria vuole andare alle prossime Politiche. E che quindi rappresentano un forte messaggio, diretto in primo luogo a Romano Prodi, che il programma dovrà scriverlo. I punti di accordo emergono in modo chiaro dal Forum con il leader diessino, apparso su Europa , il quotidiano della Margherita. Fassino afferma che l’Italia ha «bisogno di forti processi di liberalizzazione» e sottolinea che «si tratta di uno dei punti di reale condivisione tra Ds e Margherita, fra i più importanti in termini strategici e una delle cose che rendono plausibile l’idea che possiamo costruire un soggetto politico insieme». Idea che, tradotta, vuol dire soprattutto due battaglie: «L’Italia ha bisogno contemporaneamente di più Stato e più mercato, due dimensioni storicamente conflittuali nella sinistra, ma che ora dobbiamo invece pensare come complementari».
Tutti temi cari anche alla Margherita. E a Francesco Rutelli, che domani aprirà, alla presenza dello stesso Fassino, il Big Talk programmatico della Margherita a Milano, una due giorni con la partecipazione di politici, imprenditori, rappresentanti del mondo accademico e dei sindacati. Fra i temi in discussione: ricerca, «convergenza tra Nord e Sud», famiglia e welfare.
Per ribadire che con i diellini i Ds intendono andare al di là della lista unitaria, Piero Fassino sceglie di rilanciare l’Ulivo anche in una riunione interna del partito, all’hotel Minerva: «Serve a risolvere la mancanza di una forza che dia la solidità necessaria alla coalizione». Si tratta «di un problema politico, non organizzativo». E Rutelli, da Bologna, avverte tutta l’Unione: «A me sta a cuore che la coalizione sia di centro-sinistra e non di sinistra-centro».
RIVOLTA DEI «CESPUGLI» - L’asse tra Ds e Margherita crea però fibrillazione nei partiti minori che la compongono. L’Udeur, forza concentrata in alcune Regioni, annuncia che al Senato si presenterà da sola in alcune circoscrizioni (certamente in Campania) e all’estero. Ma ieri l’incontro dell’Unione non è riuscito a trovare un accordo globale ed è stato aggiornato alla prossima settimana. Proprio perché partiti come il Pdci, i Verdi e lo Sdi hanno contestato a Ds e Margherita una posizione «troppo trionfalistica». L’obiettivo è quello di non disperdere i voti. Si pensa quindi, per il Senato, a soluzioni differenziate a seconda delle Regioni. Con il Prc che potrebbe anche presentarsi da solo in Toscana, dove sta sopra l’8% (tetto minimo per i non coalizzati). Senza contare le contestazioni sull’uso dei simboli dell’Unione e dell’Ulivo. Ma la protesta dei «cespugli» riguarda anche il finanziamento della campagna di Prodi. Perché, si fa notare, una cosa sono Ds e Margherita, un’altra i partiti più piccoli «che non possono sobbarcarsi anche questo sacrificio».

postedemocristiani
Corriere della Sera 25.11.05
Partito democratico, arriva il tandem di Francesco e Walter

ROMA - (fra. ver.) Il 30 novembre Francesco Rutelli e Walter Veltroni si ritroveranno l’uno accanto all’altro a parlare dell’Italia che verrà. Non è la prima volta che partecipano insieme a un convegno, e dunque l’evento non rappresenterebbe una novità, se non fosse che a organizzare l’incontro è stato il centro studi «Idee», f ondato e guidato da Roberto Cassola, ex senatore socialista oggi vicino alla Margherita. E teorico del partito democratico in Italia. E il partito democratico è proprio l’obiettivo che unisce il leader dei Dl e il sindaco di Roma, impegnati in una battaglia tanto suggestiva quanto difficile. Accanto a loro prenderanno posto il presidente delle Acli Luigi Bobba e Carlo De Benedetti, a cui stanno a cuore il progetto della nuova forza politica e i due leader. Per Rutelli si spese addirittura di persona, quando nei mesi scorsi il capo della Margherita attraversò l’Atlantico per incontrare i Democratici americani e George Soros. Il finanziere americano ricevette una lettera di presentazione dall’imprenditore italiano, che accreditava l’ex sindaco della Capitale come «un giovane politico di sicuro avvenire». Su cui puntare. Il dibattito colpisce dunque per il parterre degli invitati. E anche per le assenze. Nel programma non è previsto un intervento di Romano Prodi, manca Piero Fassino, non si ha notizia della presenza di Massimo D’Alema. Tutto ciò è quanto meno strano, visto che proprio in questi giorni si parla di un riavvicinamento tra Ds e Margherita, e sembra che tra le due forze politiche sia «scoppiata la pace». A discutere sulle sfide da affrontare nel XXI secolo, sulla capacità di saper costruire un’Italia nuova, in grado di coniugare competitività e solidarietà, sono stati chiamati l’editorialista del Corriere Ernesto Galli della Loggia e il direttore del Riformista Antonio Polito. L’iniziativa ha un obiettivo manifesto: produrre «idee per il partito democratico», ed è perciò proiettata nel futuro, come a prefigurare una stagione successiva all’attuale. Rutelli e Veltroni, guarda caso, sono considerati come i possibili protagonisti del ricambio generazionale, insieme guardano a un modello politico nuovo, a un partito nuovo, che non sia la sommatoria delle forze esistenti. È tutto da vedere se riusciranno nell’impresa, ma è tale la loro determinazione che, tempo fa, Rutelli smentì così una presunta polemica con il suo successore al Campidoglio: «Nessuno riuscirà a farmi litigare con Walter. Insieme costruiremo il partito democratico». Sarà solo un convegno, ma per come è stato organizzato è già un evento.

scuola e papisti
Corriere della Sera 24.11.05
Istituti secondari
Decreto sull’ora di religione La Cgil diffida il governo

ROMA - La Flc-Cgil ha dato mandato al proprio studio legale di diffidare il Consiglio dei ministri, perché modifichi con urgenza la parte del Decreto legislativo sulla scuola secondaria nella quale si rende, di fatto, obbligatoria la scelta fra l’insegnamento della religione cattolica o di un'attività alternativa. Secondo il sindacato, l’ora di religione (o di attività alternativa) viene collocata nel decreto fra gli «insegnamenti obbligatori». In questo modo, secondo la Cgil, si nega la possibilità di non scegliere una delle due opzioni.

cocaina eccetera
Corriere della Sera 25.11.05
Il rapporto europeo: allarme tra i giovani
Consumo di spinelli e cocaina L’Italia ha superato l’Olanda
Alessandra Arachi

ROMA - Ci crederete? Ci fumiamo più spinelli noi qui in Italia che in Olanda. Davvero: si arrotolano più cartine con dentro marijuana all’ombra del Cupolone che tra i fumi dei coffee shop di Amsterdam. Ebbene sì: è crollata la leggenda della trasgressione olandese. Lo svela, semplicemente, la relazione annuale dell’Agenzia europea per le droghe di Lisbona. È stata presentata ieri a Bruxelles. E ci dice che con circa il 13% di persone che fumano spinelli l’Italia si è piazzata al settimo posto per il consumo degli spinelli tra i giovani (intendendo un’età compresa tra i 15 e i 34 anni) superando il consumo di cannabis in Olanda e arrivando quasi a pari merito con quello della Danimarca. Non era mai successo.
Bisogna capire: quando si intende consumo di cannabis si intende, per la maggior parte, un consumo occasionale. Basta guardare i dati contenuti nella relazione europea: ci dicono che la cannabis è la sostanza stupefacente più diffusa in Europa, visto che oltre il 20% dichiara di averne fatto uso almeno una volta nella vita. Ma se si calcola il consumo nell’ultimo anno, la percentuale crolla al 6% e diminuisce ancora fino al 4% se si calcola chi abbia fumato una canna soltanto nell’ultimo mese.
«La nostra popolazione giovanile è particolarmente vulnerabile agli effetti negativi della cannabis», sostiene Andrea Fantoma, dirigente del Dipartimento nazionale antidroga. E aggiunge: «Da qui si vede tanto più rafforzata l’urgenza di perseguire politiche che tengano conto dei danni alla salute che provocano queste sostanza».
Opposto il parere di Guido Blumir, sociologo esperto in materia e autore di molti saggi sulla cannabis. Dice, infatti: «Questo consumo è il risultato del proibizionismo dilagante. Infatti in Olanda dove si può trovare la marijuana negli Internet point l’uso continua progressivamente a diminuire».
Ma non ci siamo limitati agli spinelli. La relazione dell’Agenzia di Lisbona segnala che quest’anno l’Italia ha superato l’Olanda anche nel consumo della cocaina, piazzandosi a un drammatico terzo posto per la polvere bianca, subito dopo la Gran Bretagna e la Spagna. Un allarme vero e proprio, quello della cocaina per il nostro Paese: a «tirare» sono più di due giovani su 100 in età compresa tra i 15 e i 34 anni.
«Perché oggi in Italia il prezzo della cocaina si è abbassato in maniera drastica, arrivando tranquillamente alle tasche dei più giovani», sostiene Guido Blumir. E garantisce: «Fino a poco fa il costo della cocaina si aggirava tra i 100 e 150 euro al grammo. Oggi è arrivato sotto gli 80 euro. Ma di più: oggi è possibile trovare piccole dosi, anche frazioni di grammo, così che un giovane può mettersi in tasca della polvere bianca con appena 20-30 euro».

fame nel mondo
Corriere della Sera 25.11.05
Geldof: «Italia ultima negli aiuti all’Africa»
Roma, l’organizzatore di Live 8 davanti ai premi Nobel. Il governo: il G7 ci ha affidato il dossier povertà
Andrea Garibaldi

ROMA - Il cantante e il sindaco contro Berlusconi, Letta, Tremonti. Tema: gli aiuti italiani all’Africa. Dice il primo cittadino di Roma Walter Veltroni che l'Africa morente dovrebbe stare tutti i giorni sulle prime pagine di tutti i giornali e ieri in Campidoglio Bob Geldof, rockstar e organizzatore di Live Aid e di Live 8 ha detto che «l'Italia è il Paese meno generoso con quel continente e questa è una vergogna». Geldof, in un vistoso gessato grigio, ha proseguito: «Chiedo alla classe politica italiana di destra e di sinistra e a Berlusconi, Letta e Tremonti di cambiare questa situazione». A Geldof risponde a distanza Alberto Michelini, celebre giornalista Rai, da quattro anni «rappresentante personale del presidente del Consiglio per l'Africa nel G8»: «Geldof è mio amico, ma semplifica, come molti altri. Certo, l'Italia è ultima o penultima come percentuale di versamenti, ma nessun presidente del Consiglio potrebbe oggi togliere al Sud per dare aiuti allo sviluppo del mondo. Il problema però è mettere l'Africa nelle condizioni di autosvilupparsi. E noi facciamo moltissimo: joint venture s fra imprenditori italiani e africani, addestramento delle forze di sicurezza, informatizzazione, nuovi ospedali. A Geldof direi: entra in un governo e lavora davvero per l'Africa. E a Veltroni, che è pure mio amico, direi che non basta aprire quattro pozzi o una scuola....». Il ministro Tremonti, dalla Slovacchia, aggiunge: «Se fosse vero ciò che dice Geldof non mi avrebbero affidato per il prossimo G7 di Londra il settore vaccini e povertà nel mondo».
Geldof, assieme al premier britannico Tony Blair, è l'uomo della «Commission for Africa», che ha premuto sull'ultimo G8 di Gleneagles. Risultato, 25 miliardi di dollari l'anno in aiuti dall'Occidente verso l'Africa, più 55 miliardi di dollari di sgravio del debito. E ieri è stato nominato «Man for Peace 2005», davanti a una platea di premi Nobel per la pace, riuniti nella sala della Protomoteca del Comune di Roma per il loro sesto summit. Accanto a Geldof silente e con una nuvola di capelli rossi oltre la stempiatura c'era il collega Sting.
Perché l'Africa dovrebbe avere spazio ogni giorno in prima pagina? Il sindaco Veltroni ha fornito alcune cifre: nel 2005 un milione di africani morti in conflitti dimenticati, 120 milioni di bambini che non sanno cosa sia un’aula scolastica, 5 milioni di nuovi casi di Aids. Le ricette, dice, sono ormai chiare. Ad esempio, nuove regole negli scambi commerciali, abbattimento delle barriere doganali: «Un aumento della quota africana del commercio mondiale produrrebbe un vantaggio di oltre 70 miliardi di dollari, tre volte l'aumento degli aiuti concordati a Gleneagles». Per quanto riguarda gli aiuti allo sviluppo, l'Italia, dice Veltroni, era già in fondo alla classifica con lo 0,17% del Prodotto interno lordo e ora rischia, con i tagli di questa finanziaria, di precipitare allo 0,12%. «La conferenza di Monterrey - ribatte Alberto Michelini - fissò l'obiettivo dello 0,7% del Pil entro il 2015. Io spero che arriveremo allo 0,51 entro il 2010. Ricordo sempre, tuttavia, le parole che mi ha detto il presidente sudafricano Mbeki: il nostro problema è imparare a spendere i soldi». E Tremonti: «Cifre non ne so, sono qui in mezzo alla neve. Ricordo solo che, durante un seminario Aspen, Geldof diede un’intervista contro il governo italiano. Poi gli chiesi un autografo per i miei figli e lui scrisse: avete un padre fantastico con una cravatta bellissima...».
Il summit dei Nobel quest’anno è dedicato interamente all’Africa. Gorbaciov, Walesa, Rigoberta Menchú, Pérez Esquivel possono soltanto gridare appelli. Ma il momento è importante, perché arrivano segnali di inversione: nell'ultimo decennio sedici Paesi sub-sahariani sono cresciuti più del 4%.

Bertinotti /1
Apcom 25.11.05
Quirinale
Bertinotti: sul Colle un pacifista
Prc: "il desiderio di D'Alema è logico, anche se non piace a Prodi e Ds"

Roma, 25 nov. (Apcom) - Il successore di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale deve essere un pacifista. Lo sostiene il segretario del Prc Fausto Bertinotti in una conversazione con Rina Gagliardi riportata in un commento della giornalista sulla prima pagina di Liberazione. Sul Colle, "una volta si doveva alternare un laico e un cattolico, e non si trattava di una idea così peregrina - dice Bertinotti - Oggi però la discriminante vera non passa più tra mondo cattolico e mondo laico: passa principalmente tra pace e guerra. Perciò la nomina di un presidente disponibile a non consentire che il nostro paese sia di nuovo trascinato in avventure belliche o in aggressioni ad altri paesi sarebbe una vera svolta".
Nell'articolo, Gagliardi passa in rassegna i nomi che circolano sul dopo-Ciampi, sostenendo innanzitutto che "il primo candidato effettivo" alla successione di Ciampi rimane "Ciampi", dopo che Fini ha aperto il dibattito e nonostante che lo stesso Capo dello Stato abbia cercato di chiudere la discussione.
Ma un altro nome cui Gagliardi dedica spazio (oltre ad Amato e Mancino, soltanto accennati) è quello di Massimo D'Alema, definito "candidabile" al Colle dallo stesso Bertinotti nei giorni scorsi. "A dire il vero" D'Alema "è candidato a molte cose - puntualizza Gagliardi - il Quirinale, la presidenza della Camera, un ministero di serie A (la politica estera)".
Comunque, il "desiderio" del presidente della Quercia di finire al Colle "appare molto logico", si legge. "D'Alema ha ormai alle spalle un cursus honorum di prima grandezza, compresa la presidenza del Consiglio: è logico che preferisca un ruolo istituzionale a uno di governo". Anche se questa opzione, conclude, potrebbe non piacere "né a Romano Prodi né a Piero Fassino".

Bertinotti /2
l'Unità 25.11.05
Fassino- Bertinotti:
su Israele la sinistra ha due anime

ROMA «In Medio Oriente non sono in conflitto un torto e una ragione, ma due ragioni: quella di Israele a vivere sicuro e quella Palestinese di veder riconosciuto il suo diritto ad avere una patria...Per una parte della sinistra c’è invece una ragione, quella palestinese, e un torto, quello israeliano». Piero Fassino, segretario dei Ds, non pecca certo di reticenza nel suo intervento a un dibattito su Israele, organizzato al palazzo dell’Informazione dell’Adn Kronos dall’associazione «Amici di Israele». Un confronto serrato tra le varie anime della sinistra è quello che si sviluppa nella tavola rotonda che vede come maggiori protagonisti Fassini e il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti. Il leader della Quercia sottolinea come alla formula «due popli, due Stati», vada aggiunta la postilla «democratici», spiega Fassino: «è una questione preioritaria. Si tratta di un tema che non può essere subordinato al relativismo culturale, a ragioni etniche o religiose. Io penso che la democrazia non si esporta con le armi, per questo sono contrario alla guerra in Iraq, ma serve una strategia per la democrazia e i diritti». Bertinotti lo interrompe: «se la dittatura è in uno Stato grande (la Cina, ndr.) il problema non si pone...». Fassino non ci sta: «per me è lo stesso, e penso che la questione non sia più eludibile. Democrazia e diritti devono essere riconosciuti in tutto il mondo». «Con lo Stato di Israele - insiste Bertinotti - si è creata uan simmetria, per cui a un popolo si è dato uno Stato e un altro si è trovato privato della possibilità di costruirlo». Queste osservazioni non piacciono a una parte del pubblico e il leader di Rifondazione replica così: «non nego l’emergere di pericolose pulsioni antisemite, ma quello che nego è che criticare le posizioni del governo di Israele sia antisemita».

Bertinotti /3
Adnkronos 25.11.05
Medio Oriente
Bertinotti: l'Europa non ha una soggettività politica propria

Roma, 24 nov. (Adnkronos) - ''Nel processo di pace in Medio Oriente l'Europa politica ha assunto posizioni eque ma prive di forza e di iniziativa politica non solo perche' non e' autorevole per una delle parti in causa, come ha sottolineato anche Fassino, ma anche perche' e' priva di soggettivita' politica propria''. Lo afferma Fausto Bertinotti, segretario di Prc, durante la tavola rotonda del seminario 'La sinistra e Israele' in corso al Palazzo dell'Informazione dell'ADNKRONOS

Bertinotti /4
Agi 24.11.05
Stato-Chiesa
Bertinotti: mai stato anticlericale

"Io non sono mai stato anticlericale, appartengo ad una generazione che ha sempre avuto altre priorità nella sua vita politica". A ribadirlo è stato il segretario del Prc Fausto Bertinotti ai margini di un convegno promosso dalla 'Sinistra per Israele'. "Vedo - ha proseguito l'esponente comunista - qualche propensione clericale e qualche contropiede anticlericale: proporrei di cominciare a rimuovere le cause per affrontare serenamente le discussioni sul futuro del paese in una convivenza laica di tutte le fedi religiose e non religiose". (AGI)

i cassaniani
il manifesto 25.11.05
TOPAMAX
Condannata psichiatra
t.t.

Si è chiuso con una condanna a sei mesi di reclusione per lesioni volontarie, commutata poi dal giudice Andrea Buzzegoli in una pena pecuniaria di 6.840 euro, il procedimento ai danni della psichiatra Donatella Marazziti in corso presso il tribunale di Monsummano Terme (Pt). La psichiatra, braccio destro dei medici Cassano (il «padre» dell'elettroshock) e Masi (direttore dell'istituto neuropsichiatrico infantile Stella Maris), era finita sul banco degli imputati per aver prescritto nel 1999, ad una bambina obesa 12enne, un farmaco antiepilettico allora sperimentale (il Topamax). Le indagini erano partite cinque anni fa da una precisa accusa della madre, che denunciò come il farmaco in questione avesse procurato alla figlia (che anziché dimagrire ha continuato ad ingrassare) gravi danni di natura fisica e psicologica. «C'è una giustizia anche per i più deboli», ha dichiarato dopo la sentenza la madre della bambina, che ha dedicato la vittoria a Chiara Baldassarri di Report, che aveva scoperto il caso. «Spero che nessuna mamma debba più assistere a sperimentazioni sui propri figli».

Gazzetta del Sud 25.11.05
Psichiatra condannata per antiepilettico a obesa minorenne

PISTOIA – Con una sentenza che ha pochi precedenti in Italia, un magistrato ha dichiarato la responsabilità penale di un medico non per un comportamento colposo riconducibile a imprudenza, imperizia o negligenza, ma ravvisando gli estremi del dolo. È accaduto al Tribunale di Pistoia, dove il giudice Alessandro Buzzegoli ha condannato a sei mesi di reclusione (con i benefici di legge) Donatella Marazziti, nota neuropsichiatra dell'Università di Pisa, dichiarandola colpevole di lesioni personali volontarie nei riguardi di una minorenne. La vicenda giudiziaria risale alla seconda metà del 1999, quando la neuropsichiatra prescrisse alla ragazza, che allora aveva 13 anni, per la cura dell'obesità, un farmaco antiepilettico che avrebbe dovuto far calare di peso la paziente. Secondo l'accusa, la terapia fu avviata senza adeguata informazione e senza espresso consenso dei genitori; ebbe, inoltre – sempre secondo l'imputazione – carattere sperimentale, con dosaggi superiori a quelli consentiti. Avviata la terapia, la giovane paziente ebbe uno stato di malattia caratterizzato da sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità e anche un episodio di allucinazione. (l.g.)

Crepet il pettinato
Aprileonline.info
Lo psichiatra diventa un gadget

Paolo Crepet, il volto televisivo della psichiatria, ha un curriculum di tutto rispetto. E' stato allievo, tra i prediletti, di Franco Basaglia, il padre della psichiatria italiana che ha legato il suo nome alla battaglia per la chiusura dei manicomi e all'antipsichiatria tradizionale. Ha pure una lunga esperienza all'estero alle spalle, oltre a vari volumi pubblicati su temi assai interessanti come l'adolescenza o il mestiere di genitore. Infine, fino a poco tempo fa, eravamo soliti ascoltarlo con interesse in convegni e tavole rotonde.
Da qualche tempo, però, Crepet sembra recitare il suo ruolo a soggetto. Complice Bruno Vespa e il suo "Porta a Porta", che concorre con il "Maurizio Costanzo Show" in quanto a lancio di nuovi talenti, il professor Crepet è diventato ospite fisso – come l'opinionista Barbara Palombelli – della seconda serata televisiva. La consacrazione, se la memoria non c'inganna, è venuta con il "delitto di Cogne", quando Crepet è stato invitato per un innumerevole numero di puntate che hanno contribuito a risvegliare la morbosità popolare intorno a un drammatico fatto di cronaca (puntate tuttora in corso, grazie al processo d'appello iniziato da qualche giorno e per il quale c'è gente che fa tardi la notte per riscuotere il ticket che dà diritto a entrare l'indomani nell'aula del tribunale). Ma non c'è evento – dall'Isola dei famosi di Simona Ventura ad altri – dove il nostro professore non assolva al ruolo dell'ospite di riguardo e un po' intellettuale.
Ora c'è una nuova consacrazione. "Donna Moderna", settimanale femminile, ha deciso di offrire come gadget alle proprie lettrici alcuni libri di Crepet. Per reclamizzare l'offerta, davanti a molte edicole ci sono dei manifesti-giganti che ritraggono il professore in varie pose: da quelle pensose e intellettuali, a quelle più ammiccanti da bel tenebroso che ormai – dopo aver domato l'occhio delle telecamere – sa impadronirsi anche dell'obbiettivo facendo sfoggio delle sue qualità telegeniche.
Ci sarebbe poi qualcosa da aggiungere anche sul vezzo di Crepet di non indossare quasi mai delle giacche, preferendo maglioni colorati e di cachemire. Ma qui entreremmo nella vanità del personaggio che è libero di vestirsi come gli pare, anche se questo vezzo ha contribuito astutamente a farne un personaggio televisivo (le stucchevoli battutine di Vespa a proposito fanno scuola).
Che bisogna fare qualcosa di particolare per bucare lo schermo, Crepet deve inoltre averlo imparato non solo sui manuali di psichiatria ma osservando attentamente il comportamento di Vittorio Sgarbi. Come altro spiegare quel passarsi continuamente la mano tra i capelli, quasi a voler imitare il gesto abituale che proprio Sgarbi compie appena gliene viene data l'occasione? A tutto merito dello psichiatra, a differenza di quanto fa il critico d'arte prestato alla Camera dei deputati, va però il fatto che lui non urla mai, non è mai sopra le righe: preferisce ragionare e, qualche volta, dire delle banalità con l'aria assorta di chi dice cose fondamentali.
Il successo, come dice l'antico detto, può dare alla testa. Forse questo è il caso. Non sappiamo cosa può trasformare uno stimato e autorevole psichiatria in un gadget di "Porta a Porta" o "Donna Moderna"? Denaro, fama, riconoscibilità per strada o dal fruttivendolo come capita agli anchorman? Un po' tutte queste cose insieme.

depressione e delfini
Adnkronos 25.11.05
Dopo il 'trial' alcuni volontari hanno persino interrotto l'assunzione di antidepressivi
'Delfino-terapia' contro la depressione
Studio dell'Università di Leicester: nuotare con questi mammiferi produce effetti benefici per le emozioni che suscitano negli esseri umani

Roma, 25 nov. (Adnkronos /Ign) - Una vasca piena di delfini pronti a giocare e nuotare con il paziente? Un nuovo metodo alternativo per combattere la depressione. Non piu' solo farmaci e sedute dallo psicologo quindi, da oggi la 'delfino-terapia' viene sempre più utilizzata contro il 'male oscuro' e nuotare con i mammiferi si è dimostrato un rimedio quasi infallibile nel trattamento della malattia.
Lo dimostra un recente studio promosso dai ricercatori dell'università di Leicester (Gb) in Honduras, pubblicato sul British Medical Journal. Durante il trial sono state esaminate 15 persone depresse che si sottoponevano a regolari sessioni di 'delfino-terapia', confrontate con altre 15 che nuotavano nella stessa vasca, ma non interagivano con gli animali. Nel primo gruppo è stata riscontrata una sensibile diminuzione dei sintomi di depressione e, per almeno quattro settimane dopo il trattamento, i volontari hanno persino interrotto l'assunzione di antidepressivi e le sedute di psicoterapia.
Per due settimane - si legge nel report dello studio - metà dei volontari ha nuotato con i delfini per un'ora al giorno. L'altra metà invece nuotava senza interagire con gli animali. Sono stati i primi, al termine dello studio, a riportare i benefici maggiori. Il miglioramento, secondo i ricercatori è dovuto alle emozioni che i mammiferi suscitano nelle persone con cui interagiscono. Anche gli ultrasuoni che i delfini emettono nell'acqua probabilmente hanno un ruolo benefico sull'umore. ''I delfini sono estremamente intelligenti - ha spiegato il ricercatore inglese Michael Reveley - e sono capaci di interazioni complesse, in più sono molto curiosi nei confronti degli umani".
Molti pazienti che hanno problemi nei rapporti sociali trovano giovamento nel contatto con altri esseri viventi. ''Il cervello di uomini e delfini ha lo stesso sistema di funzionamento - sottolinea Lain Ryrie, ricercatore del Mental Health Foundation - e questo gioca un ruolo chiave nella regolazione dei processi fisiologici e psicologici del corpo. Il contatto emozionale e fisico, inoltre, è una necessità per i mammiferi, poichè stimola proprio questo sistema. Tutti i generi di 'pet-therapy' - conclude quindi Ryrie - si sono dimostrati un aiuto concreto contro i sintomi della depressione, ma anche contro l'iperattività nei bambini e le demenze negli anziani''.

mamma
Il Gazzettino 25.11.05
Il folle omicida chiede della madre

«Se è vero che l'ho fatto, anche se non credo di esserne capace, chiedo scusa ai familiari della ragazza e a mia madre»: lo ha detto Emiliano Santangelo nel corso dell'interrogatorio di garanzia di ieri.Il 32enne di Torino è in carcere per aver accoltellato a morte la giovane operaia di Cossato, Deborah Rizzato.
I legali chiederanno una perizia psichiatrica.
Ieri, nel corso dell'incontro con gli avvocati, è parso molto agitato, lo sguardo perso nel vuoto. Ha raccontato di essere malato e del suo ricovero al reparto psichiatrico dell'ospedale di San Maurizio Canavese per un problema di personalità multipla e stato depressivo. Lo stesso problema per il quale, dal 1997, è tato in cura presso il Centro di igiene mentale di Ivrea.
Anche il referto medico dopo l'omicidio e il verbale degli agenti della polizia municipale parlano di crisi delirante.
Dopo l'incidente è stato fermato nella sua fuga senza una meta e ha detto agli agenti di essere nato a Cogne: «Sono il cugino di Annamaria Franzoni» ha continuato a ripetere in preda al delirio.
Intanto l'autopsia ha stabilito la morte da choc emorragico causato da più colpi d'arma bianca, quella usata da Emiliano Santangelo.

varesenews.it 25.11.05
Varese - Al De Filippi un incontro per affrontare il delicato tema del suicidio
Allarme suicidi, il Centro Gulliver si mobilita

A parlare è uno studio dell'Azienda sanitaria locale: tra il 1996 e il 2003 nella Provincia di Varese si sono verificati 445 suicidi. Tanti, troppi per una provincia di 814.055 abitanti: un dato allarmante che ha spinto don Michele Barban, presidente del Centro Gulliver (il centro che da anni si impegna nel recupero dei tossicodipendenti), a organizzare per la giornata di domani, 15 novembre il convegno "Suicidio: imputabilità, rischio e prevenzione", al centro congressi De Filippi.
Una giornata intensa, che si aprirà alle 9 e si concluderà alle 17.30, cui parteciperanno numerosi esperti per discutere del drammatico problema, analizzandone cause e proponendo soluzioni: tra i relatori psichiatri come Claudio Mencacci, Fabio Banfi (direttore sanitario dell'Asl di Varese) e Giovanni Fusco, ma anche avvocati e magistrati. Sarà presente anche Attilio Fontana, presidente del Consiglio regionale della Lombardia. Un incontro per muoversi insieme nel delicato cammino della prevenzione, che non può assolutamente prescindere da un'analisi seria del disagio sociale, soprattutto legato all'assunzione di stupefacenti tra i giovani.
http://www.gulliver-va.it/convegno1.htm

Yahoo!salute 25.11.05
Violenza domestica sulle donne, come un'epidemia
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Per le violenze subite tra le mura domestiche dalle donne non vi sono confini geografici, né distinzioni di censo, educazione e razza. In questo campo le donne hanno pari "diritti". I risultati di uno studio su scala globale mostrano come la violenza domestica sia diffusa equamente in tutto il mondo, con implicazioni serie per salute delle donne. Ma nonostante ciò resta un fenomeno sommerso. Sono numerose le evidenze provenienti dagli Stati Uniti e dal Canada che mostrano come la violenza da parte dei partner sia un importante fattore di rischio per determinati problemi di salute.
Il World Health Organisation Study on Women’s Health and Domestic Violence against Women, uno studio su scala globale condotto in collaborazione con la London School of Hygiene & Tropical Medicine, il Program for Appropriate Technology in Health (PATH) e le ONG e le organizzazioni per i diritti delle donne, estende al resto del mondo il problema dimostrando che le violenze subite all'interno della mura domestiche hanno un pattern e una diffusione simile nei paesi industrializzati e non.
Lo studio ha intervistato 24.000 donne in età riproduttiva in 15 città di 10 Paesi: Bangladesh, Brasile, Etiopia, Giappone, Perù, Namibia, Samoa, Serbia e Montenegro, Tailandia e Repubblica Unita di Tanzania. Ha rilevato che una quota tra il 15 e il 71 per cento delle donne che hanno avuto una relazione nella vita ha subito maltrattamenti fisici e psichici da parte del partner. Più della metà delle violenze fisiche documentate sono state qualificate come "gravi". Per circa la metà delle intervistate le violenze erano ancora in atto negli ultimi 12 mesi. La violenza subita dal partner è risultata la forma più comune di violenza subita dalle donne nella loro vita. "Si dimostra come la violenza domestica sia diffusa ovunque, sebbene con percentuali variabili tra i diversi ambienti", dichiara Mary Robinson, della United Nations High Commissioner for Human Rights. La variabilità dimostra chiaramente che qualcosa può cambiare e questi dati dovrebbero servire da monito all'azione per i decisori politici che si occupano della questione. Lo studio mostra chiaramente una significativa associazione fra le esperienze di violenza inflitte dal partner nel corso della vita e una gamma di problemi di salute che includono ferite, stress emotivo, tentativi di suicidio, sintomi fisici di malattia. Inoltre, anche se la gravidanza è considerata un periodo protetto per le donne, tra l'1 e il 28 per cento delle donne con una gravidanza alle spalle hanno dichiarato di essere state picchiate anche durante la gestazione. In più del 90 per cento dei casi dal padre del nascituro; per un tasso variabile tra un quarto e la metà di queste donne si è trattato di calci e pugni sulla pancia. Naturalmente al confronto con le altre donne la percentuale di aborti è risultata molto più alta tra queste.
Le ripercussioni sulla salute della violenza da parte dei partner sono risultate costanti attraverso i luoghi, con effetti analoghi sulla salute e sul benessere della donna indipendentemente da dove vive, dalla sua estrazione economica e dal livello culturale, come spiega Charlotte Watts, della London School of Hygiene and Tropical Medicine. Un dato allarmante, fornito dallo studio, è il fatto che molte donne tendono ad interiorizzare le norme sociali che giustificano gli abusi. In circa la metà dei luoghi, fra il 50 e oltre il 90 per cento delle donne era d'accordo nel giustificare il compagno per la violenza subita in determinate circostanze – se la donna disobbedisce, se si rifiuta di avere rapporti sessuali, se non svolge i lavori domestici in tempo, se fa troppe domande sulla presenza di altre donne, o se sospetta infedeltà. In molte situazioni le donne si dichiarano incapaci di rifiutarsi di avere rapporti sessuali; in tre delle città rurali di provincia, dal 44 al 51 per cento delle donne non si sente in grado di rifiutarsi di fare sesso anche quando maltrattate dai compagni. Tra 1/5 e 2/3 delle intervistate (21 e 66 per cento) non ha mai parlato con nessuno degli abusi subiti da parte del compagno prima di questa intervista. Tra il 55 e il 95 per cento non si è mai rivolta alla polizia, ai servizi sociali e o alle associazioni. Ha cercato un aiuto solo chi ha subito le violenza peggiori.
L'auspicio a livello politico è di far emergere il problema e permettere alle donne di denunciare il problema e chiedere aiuto. Teresa Parker, portavoce della Women’s Aid, ha dichiarato che nel Regno Unito si riscontra un pattern simile con "una 1 donna su 4 che subisce violenza all'interno delle mura domestiche"; il 30 per cento di queste violenze cominciano proprio durante la gravidanza. In molti casi i servizi di assistenza sociale sono il primo punto di contatto per le donne che vivono con uomini violenti e il servizio sanitario deve avere un ruolo centrale nel fronteggiare la violenza subita dalle donne. Il rapporto propone una gamma di interventi sulle ingiustizie e sulle norme sociali che rafforzano gli abusi, fornendo supporto psicologico e materiale alle vittime. "Affrontare la violenza richiederà l'azione coordinata e continua a tutti i livelli della società: la famiglia, la comunità (a tutti i livelli salute, formazione, giustizia) ed i servizi sociali', conclude il Garcia-Moreno, coordinatore di studio del WHO; "gli operatori dei servizi sanitari devono essere formati per essere in grado di riconoscere le donne che subiscono la violenza e per supportare in maniera opportuna a coloro arrivano a denunciare".
Fonte: The WHO Multi-Country Study on Women’s Health and Domestic Violence Against Women.

tempomedico.it 25.11.05
Diagnosi di depressione semplificata
Tre sole domande per discriminare i pazienti a rischio
di Monica Oldani - Tempo Medico n. 802

Nell'ambulatorio di medicina generale la depressione è di casa, ma per il medico la sua gestione continua a essere un osso duro. La prima sfida è senz'altro quella diagnostica e gli sforzi in questo senso vanno sempre più verso l'individuazione di metodi di screening sufficientemente agili da essere praticabili anche nel contesto delle cure primarie.
In questo filone si colloca il lavoro di un gruppo di ricercatori dell'Università di Auckland, in Nuova Zelanda, che da alcuni anni stanno sperimentando un test rapido, composto di sole tre domande, che potrebbe servire per una prima scrematura dei pazienti a rischio di ricevere una diagnosi di depressione maggiore.
"La conferma spetta a un successivo approfondimento con metodi di indagine più articolati e accurati" precisano gli autori. "Tuttavia, il nostro test ha dimostrato, già in due diversi studi, di possedere una notevole sensibilità, cioè di non lasciarsi sfuggire casi potenzialmente eleggibili a una terapia antidepressiva".
Il test è stato messo alla prova presso una ventina di ambulatori di medicina generale in pazienti non selezionati purché non in cura con psicofarmaci, in prima istanza in una formulazione a due domande da presentare verbalmente ("nell'ultimo mese si mai è sentito giù di morale o depresso?" e "nell'ultimo mese si è mai sentito poco attratto o gratificato dalle cose che fa?"); successivamente si è invece optato per una formulazione scritta nella quale, ai due quesiti, è stata aggiunta una domanda sulla disposizione a ricevere un trattamento antidepressivo ("questo stato d'animo è tale per cui gradirebbe essere aiutato?").
"La seconda sperimentazione ha dato i risultati più soddisfacenti, perché il quesito sulla necessità di trattamento avvertita dai pazienti ha consentito di migliorare la specificità della diagnosi" affermano i ricercatori neozelandesi. "Il numero di falsi positivi, piuttosto alto nel primo studio, si è infatti sensibilmente ridotto, anche se il principale pregio del test è la percentuale ridotta di falsi negativi: uno su oltre 1.000 pazienti esaminati".
In effetti, i valori di sensibilità e specificità non si sono discostati molto da quelli di altri metodi di screening - una recente metanalisi condotta dalla US Preventive Services Task Force su 41 studi ne ha privilegiati due, composti da nove e sette domande - ma in più il test di Bruce Arroll e collaboratori offrirebbe una maggiore rapidità e semplicità di applicazione. "La depressione non è più confinabile nell'ambito specialistico, anche perché spesso si presenta mascherata da disturbi prettamente somatici" concludono gli autori. "Pertanto, un test che permette di sospettare la malattia anche nel corso di una visita di routine potrebbe essere un valido aiuto per i medici".
Lo strumento sembra promettente e, al contrario di altri, non si candida a essere per il medico l'ennesimo lavoro extra, che sottrae tempo ed energie a un'attività quotidiana già percepita come logorante. La sua applicazione, peraltro, non deve prescindere da alcune abilità specifiche, per esempio quella di presentare le domande e interpretarne le risposte con la giusta sensibilità.

vita.it 25.11.05
Legge Basaglia: al via un'indagine conoscitiva sulla sua attuazione
Proposta dalla Commissione Sanità, attende il via libero di Palazzo Madama

La Commissione Sanita' ha deciso di avviare una indagine conoscitiva sullo stato dell'assistenza psichiatrica in Italia e sull'attuazione dei progetti obiettivo per la tutela della salute mentale. E' stato affidato al senatore Paolo Danieli (AN) l'incarico di relatore sulla procedura informativa, cioe' la serie di audizioni di rappresentanti dell'Esecutivo, delle organizzazioni che operano in questo campo e di esperti in grado di approfondire tutti gli aspetti di questa complessa questione. Fin dai primi mesi della quattordicesima legislatura erano state presentate alla Camera proposte di legge per rivedere la legge Basaglia e determinare nuove modalita' di concorso delle strutture pubbliche al grave disagio delle famiglie che devono affrontare i problemi della malattia mentale, ma il relativo iter non ha registrato concreti sviluppi. L'indagine conoscitiva proposta dalla Commissione Sanita' entrera' nel vivo dopo il via libera della Presidenza di Palazzo Madama, ma avra' poco tempo per approfondire il problema prima della conclusione della legislatura.

Repubblica Salute 24.11.05
segnalato da Franco Pantalei
Storace, un ministro tenace
di Guglielmo Pepe

Storace è tenace. Non si arrende davanti all'evidenza e con immarcescibile determinazione continua la sua battaglia frontale. Contro le donne e contro i ginecologi, gli assessori e i direttori sanitari che hanno deciso di ricorrere alla Ru486. Ma le ultime dichiarazioni del ministro della Salute contro la Toscana - che ha dato via libera all'uso della pillola richiesto dall'ospedale di Pontedera - e le altre Regioni che seguono lo stesso percorso, oltrepassano il segno della polemica. L'accusa di "fomentare una corsa barbara all'aborto", non appartiene alla dialettica: è voler indicare i medici che applicano la legge 194 come irresponsabili. È mortificante per i ginecologi che esercitano con serietà, essere indicati una volta come "assassini", un'altra come "barbari". La prossima diventeranno vittime di qualche esaltato?
La tenacia di Storace viene confermata dalla richiesta di aprire le porte dei consultori ai volontari anti-abortisti che, secondo il ministro, dovrebbero verificare la corretta applicazione della legge. Si dia allora il benvenuto al "Movimento per la vita" se si impegnerà per le donne. Ma nei consultori c'è già un sostegno psicologico a chi vuole interrompere la gravidanza. E poi, se va incrementato questo aiuto, perché non affidarlo a più soggetti esterni alle strutture pubbliche? Oppure, perché non rafforzare e preparare meglio il personale dei consultori?
L'impressione è che il ministro - il quale ha tutto il diritto di dichiararsi contro l'aborto - abbia l'intenzione di rendere molto difficile la vita a chi vuole soltanto applicare una legge dello Stato. La prima mossa l'ha fatta con l'ospedale Sant'Anna di Torino che, dopo anni dall'inizio dell'apertura della "pratica", lo scorso settembre ha cominciato a sperimentare la pillola abortiva. Era seguito il blocco della sperimentazione e l'invio degli ispettori ministeriali. Poi il 7 novembre è ripreso il ricorso alla Ru486 all'interno del nosocomio torinese. Adesso si apre il capitolo della "corsa barbara" (secondo Storace) che, in effetti, vedrà un numero crescente di ospedali italiani applicare in via sperimentale l'aborto chimico oppure richiedere il farmaco direttamente all'azienda che lo produce. Come già avviene in vari paesi: Inghilterra, Germania, Austria, Finlandia, Svezia e Francia (dove si può acquistare in farmacia). Ma se finora milioni di donne hanno abortito con questo metodo, se altrove si utilizza da anni la pillola senza drammi, perché da noi tanto furore? Perché l'ideologismo antiabortista rifiuta di misurarsi con i problemi di migliaia di persone?
Se c'è qualche donna che ritiene la Ru486 un metodo anticoncezionale, bisogna agire con intelligenza e misura per convincerla che è in errore. Verso le altre - la stragrande maggioranza - che decidono, con profonda sofferenza, di intraprendere l'interruzione di gravidanza, quale che sia il metodo (chirurgico o chimico), serve una politica della maternità. A 360 gradi. Che non si limiti ad intervenire quando si entra nel consultorio, bensì prima, con una politica di sostegno per chi non riesce a mantenere un figlio, una casa, ad avere una vita dignitosa. Se in Italia siamo a poco più della crescita zero, non è certo dovuto al fatto che oggi si abortisce più di prima (perché è vero l'esatto contrario). Le cause sono diverse e tra queste c'è anche l'assenza di attenzione verso le famiglie italiane. Alle quali il bonus di 1000 euro per i nuovi bebè, sembrerà poco più di una mancia.
Tornando alla pillola, quello che sta accadendo fa pensare, ancora una volta, che una parte del Paese non abbia accettato che l'aborto sia legale e che le donne possano ricorrervi scegliendo - con il consiglio dei medici - il metodo che ritengono migliore. Ma questa è la realtà. Il ministro più tenace di tutti dovrebbe tenerne conto, senza considerare "barbaro" chi vuole applicare una legge dello Stato.

Liberazione 18.9.05
«Perché la Cina vincerà la sfida con il pensiero occidentale»
di Tonino Bucci

Modena. Secondo il filosofo e sinologo francese François Jullien, i cinesi concepiscono il reale «come un processo in continuo mutamento. Ciò che per noi sono gli eventi, per loro altro non sono che piccole, sottili pellicole alla superficie del continuo lavoro di trasformazione. Questo è all'origine della grande efficacia della politica internazionale di Pechino»

La Cina è destinata ad essere oggetto di controversie: a volte lontana, dipinta come un paese esotico; altre volte così vicina da rappresentare la minaccia del XXI secolo. Chi ne elogia i ritmi di crescita economica e tecnologica, superiori a quelli di tutte le altre nazioni, chi punta il dito sullo smantellamento del comunismo. Eppure, nonostante gli scenari geopolitici ne accrescano l'importanza, la realtà cinese rimane un oggetto poco studiato. Poco indagata è anche la cultura di questo paese, forse per effetto dello stereotipo che qui da noi ha sempre considerato lo spirito orientale come incapace di pensare filosoficamente.

L'occasione inconsueta d'ascoltare una voce d'eccezione l'ha data il Festival di filosofia - in chiusura oggi a Modena, Carpi e Sassuolo - con la presenza di François Jullien, filosofo e sinologo, autore di Elogio dell'insapore, Trattato dell'efficacia e Il saggio è senza idee pubblicati in Italia da Einaudi.

L'idea fondamentale è che lo studio dell'Altro, della cultura cinese, possa meglio far conoscere la strada intrapresa dalla filosofia occidentale e le possibilità che sono state escluse dalla nostra storia. Agli antipodi del nostro modo di pensare si staglia il modello alternativo della saggezza cinese, fondata non sulla divisione e il primato dell'intelletto sui sensi, ma sulla non-esclusione, sul lasciare tutte le possibilità aperte.

In Occidente la filosofia nasce nel momento in cui stabilisce una differenza tra il mondo dei sensi e l'intelletto. Qual è invece la via della saggezza cinese?
Il "senso" è, da un lato, pura percezione e, dall'altra, al singolare, senso intellettuale, significazione. L'Occidente ha finito per pensare questi due aspetti distinti e contraddittori tra loro. Noi diciamo, ad esempio, che qualcosa ha un "sapore pronunciato", è un modo di dire. Nella cultura cinese, invece, non ci si deve mai pronunciare, l'arte e la saggezza cinese evitano di "pronunciare con forza". Al senso pronunciato dell'Occidente si contrappone un senso che resta sulla soglia, che non esce ma resta nell'indifferenziato. Un senso "insipido", senza sapore, senza una caratteristica marcata e predominante rispetto alle altre, che si tiene distante dai sapori pronunciati come il dolce e il salato. E' non solo un fatto gastronomico, è anche un rituale culturale, anche il Thao è insipido. E' un'esperienza globale, un sapore che non esclude, che non è pronunciato e mantiene tutti i sapori disponibili. Entriamo in un sistema di percezioni e idee che privilegia non la distinzione, bensì l'allusione, l'elusione, la compossibilità. Se scelgo uno, perdo il due, questa è la cifra della cultura cinese. Ed ecco perché, a differenza della cultura occidentale dove tra sensi e significato c'è opposizione e contraddizione (A non è B), in quella cinese c'è invece congiunzione. Come si può pensare senza le categorie della tradizione occidentale? Non voglio dare un'immagine esotica e irrazionale della Cina, voglio soltanto dire che questo paese ha sviluppato una forma di saggezza alternativa al nostro pensiero e che consiste nella scelta di non scegliere, di tenersi in bilico tra le esperienze senza separare il vero da ciò che si ritiene falso. Per lo stesso motivo, il pensiero cinese ha lasciato nell'ombra il politico. La politica è un luogo di opposizione e di conflitto dove non c'è spazio per la compossibilità.

Qual è la differenza più rilevante tra l'idea cinese di politica e la politica così come la intendiamo noi?
Noi europei abbiamo costruito la politica sulla categoria di efficacia, sulla ricerca dei modi in cui una singola azione può inserirsi nella realtà e realizzare il fine. Le scelte e le azioni sono pensate a partire dal risultato. In Cina è completamente diverso: l'inserzione della mia azione nella realtà deve cogliere e seguire gli eventi fin dalla loro origine, deve appoggiarsi e assecondarli, farli crescere finché la situazione non diventa matura e precipita. Il momento più importante non è il risultato finale, ma l'inizio. Semmai l'efficacia cinese consiste nel cogliere al momento della nascita il percorso che poi condurrà la realtà alla maturazione. Nella mentalità cinese non troveremo mai l'elogio del soggetto, del "principe" per dirla con Machiavelli: quando un processo arriva a maturazione scompare anche lo stratega. Il soggetto non si vede. Stratega è colui che ha saputo tanto bene utilizzare la situazione e farla crescere, da scomparire egli stesso. E' la situazione in quanto tale a maturare, che va da sé. Ecco perché la Cina è l'unica grande civiltà che non ha sviluppato l'epopea e non ha il concetto di eroe. Prendiamo il caso di Deng-Xiao Ping: è chiamato il "piccolo timoniere" anche se in trent'anni ha portato la Cina a un regime di mercato capitalistico.

Ma così l'individuo è relegato a un ruolo marginale?
Intanto bisogna distinguere tra soggetto e individuo. Il pensiero del soggetto è stato lento anche in Occidente, è arrivato con la svolta del Cristianesimo, attraverso Agostino, fino alla psicoanalisi. In Cina, il soggetto non è pensato. Nella lingua cinese manca il soggetto, è solo implicito. E nel pensiero cinese non c'è la riflessività che, passando per Kant, ha portato in Occidente alla scissione tra soggetto e oggetto e da qui alla costituzione della scienza. In Cina, questa opposizione tra soggetto e oggetto non è stata sviluppata. Ma è stato pensato l'individuale e, soprattutto, il rapporto tra individuale e collettivo.

Lei vede nella cultura cinese un modello di saggezza alternativa alla filosofia occidentale. Eppure oggi tutto lascia pensare che sia la Cina ad avvicinarsi all'Occidente e all'economia capitalistica. Cosa resta di quella saggezza alternativa?
Fino al XIV secolo le tecniche erano più sviluppate in Cina che in Occidente. A partire dalla rivoluzione scientifica l'Europa decolla sulla spinta dell'innovazione galileiana. La possibilità di applicare la matematica alla natura apre la strada alla scienza. E' un'idea folle e feconda che ha divaricato lo sviluppo dell'Occidente rispetto a quello della Cina. Tutto il linguaggio della scienza da quel momento in poi sarà europeo e la Cina continuerà con uno scarto notevole a rimanere ferma per secoli e sarà lei a dover imparare dall'Occidente e a prendere le due cose che le mancavano: la scienza e la politica. Oggi siamo in un momento in cui la Cina sta superando l'Occidente. Ma il capitalismo importato non è l'unica cultura alla quale tutte le altre devono uniformarsi. Come diceva Mao, la Cina deve camminare su due gambe: il linguaggio della scienza e del capitalismo, e la tradizione cinese, una saggezza elusiva depositata in una cultura letteraria, molto più complessa da accostare di quanto si pensi. Deng-Xiao Ping, di nuovo, rappresenta questa compossibilità. Era stato in Europa ma continuava ad agire alla cinese, non si è mai opposto a Mao, in altri momenti si ritirava prima di farsi avanti, agiva come uno stratega cinese con le proprie risorse.

Qual è, allora, il ruolo specifico che spetta alla Cina nello scenario mondiale?
La Cina partecipa a tutti i dibattiti internazionali, siede in tutti i tavoli e cerca di trarre profitto in ogni situazione. Come? Per propria cultura la Cina dissolve ogni nozione di evento. Mi spiego. Per la mentalità cinese non potrebbe esistere qualcosa come l'11 settembre che per noi è diventata una data simbolica che sdoppia la storia in un prima e in un dopo. In Cina non ci sono eventi, la realtà è fatta piuttosto di una sottile, silenziosa trasformazione continua. Ciò che per noi sono gli eventi, per la cultura cinese altro non sono che piccole, sottili pellicole alla superficie di questo continuo lavoro di trasformazione. Il reale è concepito come processo in continuo mutamento. Questo è all'origine della grande efficacia della politica internazionale della Cina. Ad esempio, i cinesi si installano a Parigi, aprono i negozi, ma è un'emigrazione silenziosa, graduale, non spettacolare e non suscita, perciò, reazioni contrarie. La Cina non viene intercettata perché sfugge ai nostri riferimenti concettuali che sono quelli di "evento" e "fine". La cultura cinese dissolve l'evento e la finalità in una processualità continua che le dà la chance d'imporsi senza trovare alcuna reazione. Non ci si può opporre a qualcosa che non ha forma d'evento.