l’Unità 9.3.12
Corteo alle 9,30: da piazza Esedra per concludersi in piazza san Giovanni
Polemiche per la partecipazione dei No Tav. Presenti oggi esponenti del Pd
Sciopero generale. Le tute blu della Fiom invadono la capitale
Oggi lo sciopero generale della Fiom, per il contratto, la precarietà, l’art.18 e i diritti, il futuro della Fiat. «Democrazie al lavoro», sarà lo slogan dietro il quale sfileranno con il sindacato studenti e associazioni.
di Giuseppe Vespo
La Fiom torna in piazza, raccolta dietro lo slogan «La democrazia al lavoro». Oggi dalle 9,30 il sindacato della Cgil si ritroverà in piazza Esedra a Roma per un corteo che sfilerà lungo il centro e si concluderà in piazza San Giovanni.
Lo sciopero generale delle tute blu richiamerà nella capitale almeno seicento pullman e un treno speciale: migliaia di operai uniti nella rivendicazione di un nuovo contratto, di maggiori diritti nelle fabbriche Fiat dove la Fiom non è più presente e di una politica più equilibrata, che si discosti dall’intervento del governo sulle pensioni o dalla strada intrapresa sull’articolo 18. Insieme agli operai sfileranno anche gli studenti, che partiranno da piazzale Aldo Moro (dove ha sede la Sapienza) e si riuniranno alla Fiom lungo le vie del centro città.
Ieri fra le denunce di minacce contro chi vuole scioperare, è arrivata anche l’intervista del leader della minoranza Fiom Faustino Durante che ha contestato l’invito ai no Tav: «Un errore contaminare la manifestazione».
Il sindacato guidato da Maurizio Landini prepara questa mobilitazione dall’anno scorso. Ma non c’è solo Fiat nei pensieri dei metalmeccanici. Le vertenze aperte sono molte e le più importanti hanno i nomi della grossa industria made in Italy. Tra queste, Fincantieri e Finmeccanica, delle quali parleranno i lavoratori dal palco di San Giovanni. Gli interventi saranno preceduti dalla proiezione di un video musicale che il gruppo genovese “Zero Plastica” ha dedicato agli operai Fincantieri di Sestri Ponente. Quindi verrà letto un testo inviato dai dipendenti dei treni notte rimasti senza lavoro. Poi sarà la volta delle associazioni: da quelle per l’Acqua come bene comune ad Altragricoltura, fino ai No-Tav. Interverranno anche i familiari delle vittime della strage alla stazione di Viareggio. Parlerà anche l’omologo greco di Landini, Yannis Stefanopoulos, segretario del Poem, sindacato metalmeccanico ellenico. Per la Cgil interverrà il segretario confederale Vincenzo Scudiere; visto che Susanna Camusso è a New York per una iniziativa all’Onu. Infine toccherà al segretario delle tute blu sintetizzare le ragioni della sua organizzazione. Ieri mattina Landini è stato ospite a Youdem de l’Unità, dove ha parlato di lavoro, precarietà, art. 18 e Fiat.
Ci saranno anche i giornalisti di Liberazione riuniti in OccupyLiberazione che distribuiranno un foglio auto prodotto che verrà distribuito in migliaia di copie.
In piazza, dopo le polemiche, anche vari esponenti del Pd. Ai già annunciati Sergio Cofferati, Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi, ieri si sono aggiunti Carlo Ghezzi, Sergio Gentili, Pietro Folena: «Sosteniamo lo sciopero contro l’intollerabile attacco ai diritti e alla dignità dei lavoratori, fuori dal dettato costituzionale. La rimozione dalle bacheche de L’Unità è un altro gravissimo segno di un’idea autoritaria e repressiva», scrivono.
l’Unità 9.3.12
Esserci oggi è un dovere civico di ogni cittadino
Scrive il lavoratore in causa con la Fiat, reintegrato dal giudice. Ma che l’azienda lascia a casa, pagandolo Ricordatelo: se perdono i lavoratori perde il Paese
di Giovanni Barozzino, operaio
Penso che sia molto importante essere a Roma oggi. Lo sciopero della Fiom serve oggi a difendere non soltanto i diritti legati al lavoro, ma la libertà di pensiero e quindi la stessa democrazia. Forse esagero, ma manifestare oggi dovrebbe essere un dovere per ogni cittadino.
Noi operai soprattutto noi ma penso ai lavoratori tutti, di ogni categoria, dalla scuola ai pensionati sappiamo di aver dato già tanto in questi anni. Soprattutto durante e a causa di questa lunga crisi. E quando pensiamo di aver pagato ad di là ogni ragionevole limite, ci rendiamo conto come, ogni giorno che passa, nostro malgrado, assistiamo progressivamente e inesorabilmente un'altra volta e un'altra volta ancora alla riduzione di diritti e di spazi di democrazia. Oggi tra mille problemi vive il nostro Paese con migliaia di posti di lavoro e di licenziamenti individuali e collettivi. Ogni giorno chiusure e difficoltà delle imprese che chiudono e l’ultima offensiva ideologica: il tentativo della cancellazione del famoso art 18 dello statuto dei lavoratori.
L'art 18 è in verità una norma di civiltà e di libertà ma vorrei aggiungere e ricordare al Presidente della Repubblica che molto si è speso su questi temi nella sua prima parte del settennato l'art.18 è una norma e un principio di sicurezza.
Sì, non sembri esagerato, dico proprio di sicurezza. Infatti, cancellando questo articolo, si renderà ancora più debole e precaria la condizione del lavoratore che sarà così più ricattabile. Quello che sta accadendo alla Fiat di Melfi ad esempio rende evidente quali possano essere i comportamenti di cui può rimanere vittima un lavoratore.
Renderlo ulteriormente debole lo esporrà indubitabilmente ad eventuali soprusi che senza l'articolo 18 difficilmente potranno emergere. Il perché è di facile intuizione.
Ma dicevo essere oggi in piazza è un dovere perché si stanno restringendo sempre più gli spazi di democrazia. Quello che stà succedendo in Italia al mondo del lavoro è sotto gli occhi di tutti. Ma quello che accade al Paese più in generale, vedi legge elettorale tradimento dei risultati dei referendum quello sull'acqua e non solo mi preoccupa e non poco. A noi lavoratori metalmeccanici accade invece che nelle fabbriche viene negata la possibilità di potersi scegliere liberamente da chi farsi rappresentare. A noi lavoratori metalmeccanici viene praticamente impedito di essere partecipi del nostro futuro. A noi lavoratori metalmeccanici viene impedito di poterci definire cittadini.
Tutto ciò accade in un silenzio spaventoso di gran parte della politica. A tutti vorrei ricordare che da sempre ad un riduzione dei diritti dei lavoratori è corrisposto un arretramento della società tutta.
Per questo e necessario oggi essere a Roma.
l’Unità 9.3.12
Landini: non faccio partiti. Ma il sindacato può occuparsi di tutto
Il segretario della Fiom: «Abbiamo invitato un sindaco della Val di Susa perché siamo con lui. Ma lo sciopero è in difesa della Costituzione e dei diritti»
di Massimo Franchi
La mattina della vigilia Maurizio Landini la passa nella sede del Pd. Rompe il silenzio che si era imposto per spiegare le sue ragioni nella “tana del lupo”, nella casa del partito i cui vertici hanno deciso di non partecipare alla manifestazione di domani a causa del palco offerto ai No Tav. L’intervista è con l’Unità, anzi con il sito web del nostro giornale, ma si svolge negli studi di YouDem. E l’ospitalità di YouDem è l’occasione di un incontro casuale tra Maurizio Landini e Pier Luigi Bersani. Due emiliani a Roma. Sigaro in bocca e sorriso sulle labbra, il segretario del Pd saluta cordialmente il segretario della Fiom: «Guarda chi c’è, in bocca al lupo per domani». «Crepi il lupo». «Scappo che devo andare in Parlamento a votare la fiducia a Monti, la darò anche a nome tuo». «Va bene, fai pure». Risata e pacche sulle spalle.
Finisce così un confronto, a tratti anche duro, fra il leader della Fiom e il direttore de l’Unità Claudio Sardo. Alle domande, del resto, hanno contributo tanti lettori: e fra i temi toccati nelle decine e decine di messaggi arrivati in redazione tramite i social network spiccava proprio quello più spinoso: l’opportunità dell’invito ai No Tav.
Si parte proprio da qui: «Perché una manifestazione centrata sui diritti del lavoro deve ospitare esponenti No Tav? Non è un segnale di debolezza cercare alleanze politiche esterne al sindacato, quasi a volersi costruire un partito?», ha chiesto Sardo.
Landini difende le sue posizioni e apprezza la decisione del giornale di partecipare alla manifestazione in nome della difesa dei diritti del lavoro. «Abbiamo invitato un ex sindaco, votato da sindaci, rappresentante delle istituzioni (Sandro Plano, presidente della Comunità montana della Val di Susa, ndr). Noi siamo sempre stati No Tav, come siamo stati contro il nucleare, il Ponte di Messina e a favoredell’acqua pubblica: al centro della nostra manifestazione c’è uno sviluppo sostenibile del territorio». Il “no” del Partito democratico «non lo capisco molto: il Pd ha fatto un mescolone mettendo assieme cose diverse. Per me la distinzione è il rispetto dei lavoratori che saranno in piazza rinunciando al salario, è nella richiesta di rispettare la Costituzione alla Fiat, richiesta che abbiamo fatto ad ogni parlamentare: stare in piazza non significherà stare con la Fiom, ma difendere la Carta».
Dire che la Fiom e Landini vorrebbero usare i problemi dei lavoratori per fare altro è «offensivo, io faccio il sindacalista, e chi mi conosce sa che lo farò sempre, e difendo gli interessi dei lavoratori». Poi, ricordando gli insegnamenti di Claudio Sabattini, il leader Fiom spiega: «Che il sindacato debba limitarsi a parlare solo di lavoro non mi convince. Il sindacato ha una sua autonomia e può confrontarsi alla pari, senza escludere argomenti». Landini, insomma, ha respinto l’accusa di essere un No Tav: «Io sono andato in Val di Susa per la prima volta all’ultima manifestazione e solo perché invitato dalle istituzioni. Ma lì sono rimasto colpito dal livello di discussione: non sono solo contro l’Alta velocità, c’è molta più analisi. E noi la apprezziamo perché, tornando al mondo del lavoro, quando Finmeccanica vuole cedere Ansaldo Breda (azienda italiana leader nel comparto treni, ndr) noi siamo preoccupati». E sul capitolo violenza la condanna è senza appello: «Non abbiamo problemi a condannarla perché abbiamo sempre fatto della non violenza la nostra condotta anche quando occupiamo le fabbriche».
Tante domande, comunque, riguardavano la Fiat. «Democrazia al lavoro» è il titolo che oggi campeggerà in piazza. «Perché oggi sui posti di lavoro la democrazia è negata spiega Landini e la Fiat è l’esempio più lampante». Una Fiat che espelle la Fiom e l’Unità dalle fabbriche, non assume i suoi iscritti a Pomigliano (nessuno ha quella tessera su oltre 2mila lavoratori richiamati), tiene fuori i tre operai Fiom di Melfi nonostante la sentenza di reintegra di un giudice. «Un elemento di arroganza, un messaggio intimidatorio: se sei della Fiom rischi guai». Gli 86mila lavoratori del gruppo dal primo gennaio «hanno un contratto che ha costruito sindacati aziendali e corporativi, un accordo senza precedenti in Europa dove la contrattazione sparisce, tutto viene demandato a commissioni paritarie nelle quali, se non c’è l’unanimità, alla fine decide l’azienda». Un accordo «reso possibile dalla richiesta fatta da Marchionne a Berlusconi, al desiderata dell’articolo 8 che permette di derogare dai contratti nazionali, andando contro anche all’accordo del 28 giugno». Un «modello Fiat che un candidato a Confindustria (Bombassei, ndr) vorrebbe estendere a tutti, derogando alle leggi, alla sicurezza sul lavoro». «I problemi della Fiat non sono i 10 minuti di pausa, sono la mancanza di modelli. Quali investimenti fa la Fiat è un problema del Paese». E quasi anticipando la convocazione per il 16 marzo di Monti a palazzo Chigi per Marchionne ed Elkann («ma non vorrei che fosse troppo tardi, negli altri Paesi i suoi concorrenti hanno spiegato gli investimenti ai governi da anni»), Landini accusa «il governo e la politica che per questi due anni sono stati a guardare». Due anni in cui «Marchionne ha chiuso Termini Imerese perché far attraversare l’Adriatico alle macchine costava troppo e ora dice che per salvare due stabilimenti in Italia dovremo vendere macchine negli Stati Uniti: ma l’Atlantico sarà ben più largo dell’Adriatico, no? E noi dovremmo sperare che la massaia dell’Ohio ci salvi gli stabilimenti comprando Fiat?».
La logica del “tanto peggio, tanto meglio”, del boicottaggio alla Fiat, non fa parte della storia del sindacato e Landini lo ribadisce: «Noi siamo più interessati di Marchionne a che la Fiat investa in Italia, perché i lavoratori italiani non hanno alternative, mentre Marchionne può andare all’estero, loro no». Ma nessuno dica che il manager canado-abruzzese «investe»: «In Serbia e negli Stati Uniti i soldi non ce li mette lui, li prende da quegli Stati e poi si fa bello in Italia dicendo che non vuole più soldi pubblici».
Sul rapporto con Fim e Uilm, sulla spinta all’unità sindacale, invocata da alcuni lettori, Landini ha risposto così: «L’unità sindacale è un diritto di chi lavora più che una somma di sigle. È il diritto alla democrazia, il diritto di votare ogni accordo. Se il voto è libero, io sono per seguirne sempre l’esito. Ma sfido gli altri sindacati a fare lo stesso sull’accordo Fiat». Uno sciopero contro Monti? «Se il governo Monti fa cose perfino peggiori del precedente, noi dobbiamo dire che sbaglia. La questione delle pensioni è una gravissima».
La chiusura è sull’assioma sindacato-conservatore: «La Fiom non è il sindacato del “No”: noi vogliamo cambiare le cose, ridurre la precarietà, estendere gli ammortizzatori utilizzando una patrimoniale, dare un reddito di cittadinanza ai giovani».
il Riformista 9.3.12
Fiom: «In piazza per la democrazia»
Fausto Durante. Nella manifestazione di oggi «tutti uniti». Per difendere i lavoratori si segua la linea di «un sindacato europeo delle industrie»
di Salvo Fallica
«La manifestazione della Fiom del 9 marzo è molto importante, ha un ruolo fondamentale per la difesa dei diritti dei lavoratori ma anche per la stessa democrazia nei luoghi di lavoro». Così Fausto Durante inizia il suo dialogo con Il Riformista sulla manifestazione della Fiom-Cgil, ed aggiunge: «Noi dobbiamo riconquistare il contratto nazionale, dobbiamo respingere il tentativo profondamente sbagliato ed antidemocratico di Marchionne di espellere la Fiom dagli stabilimenti della Fiat. E più in generale dobbiamo ripristinare in Italia meccanismi di certezza e democrazia sindacale».
Non vi è alcuna divisione interna?
Sulle ragioni della manifestazione e dello sciopero generale vi è profonda unità. Vi sono state invece alcune polemiche fra di noi su alcune presenze sul palco della manifestazione. Cosa c’entrano i No Tav con i metalmeccanici? È chiaro che non sono favorevole a questa decisione unilaterale della maggioranza della Fiom. Si tratta di un errore strategico e tattico, anzi una di una scelta autolesionista, che ci ha fatto perdere il sostegno della maggioranza del Pd.
Andiamo ai temi della manifestazione, in primis l’articolo 18, Un simbolo, oppure una reale difesa dei lavoratori?
Sull’articolo 18 sono state dette troppo inesattezze. La prima è che in Italia non si possa licenziare. È evidente che questa è solo una leggenda metropolitana, smentita da molti fatti concreti. In Italia negli ultimi due anni si sono perduti un milione e duecento mila posti di lavoro. Altro che difficoltà di licenziare! L’articolo 18 è un principio di civiltà che stabilisce che in aziende con più di 15 dipendenti, non ci possono essere licenziamenti senza giusta causa. Dunque è una garanzia contro le discriminazioni. Non è un privilegio ma un principio di civiltà, che andrebbe esteso a tutti. Non tolto a chi c’è l’ha. Tutti i cittadini debbono essere protetti dalle discriminazioni in un paese democratico.
Qual è la sua opinione sulla riforma del mercato del lavoro?
Nel nostro Paese vi sono troppe tipologie di lavoro che servono a mascherare sfruttamento e bassi salari. Il primo obiettivo di qualunque riforma è riportare alla sua originaria funzione il principio di flessibilità. Flessibilità non deve più essere sinonimo di precarietà. I rapporti di lavoro atipici devono essere ridotti nel numero ed il lavoro flessibile deve costare di più del lavoro standard. Altrimenti le imprese non investono in rapporti di lavoro stabili e duraturi e si fanno prendere dagli appetiti voraci della volontà di risparmio. Ed ancora, bisogna estendere le protezioni e gli ammortizzatori sociali a chi non c’è l’ha. Questa per il governo Monti non è una riforma a costo zero. Si è intervenuto duramente sulle pensioni, ma non vi sono risposte sul piano di un welfare moderno.
Veniamo ai temi della crescita e dello sviluppo. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, tempo fa disse che bisogna tornare a parlare di politica industriale in questo Paese. Come stanno le cose?
In Italia, purtroppo, non si parla più di politica industriale da almeno 15-20 anni, fatta eccezione per la breve parentesi del governo Prodi. Ovvero, quando Bersani fu ministro dello sviluppo economico. Senza una razionale politica industriale, il declino dell’Italia sarà lento e irreversibile.
Emanuele Macaluso ha più volte messo in evidenza che il sindacato deve comprendere il mondo che cambia, non fare solo battaglie difensive.
Raccolgo la sfida. In questa crisi che ha colpito l’Occidente, i Paesi che si stanno difendendo meglio sono quelli dove i lavoratori partecipano alle decisioni delle imprese. Sono i paesi dove vi è il welfare migliore, con i salari più alti: dalla Germania, alla Svezia, dalla Danimarca alla Norvegia. La mia valutazione è che bisogna andare verso un modello di relazioni dove imprese e lavoratori non siano nemici, ma due soggetti che partecipano alla costruzione del lavoro e dello sviluppo. Inoltre, in un mondo che cambia rapidamente, sarebbe necessario un sindacato europeo delle industrie che avesse il potere di contrattare direttamente con i livelli direzionali delle multinazionali. Ed i sindacati nazionali per meglio difendere i lavoratori dovrebbero essere pronti a cedere una quota della loro sovranità nazionale ai sindacati europei. Si rafforzerebbe la difesa dei lavoratori, ma anche la stessa democrazia del Vecchio Continente.
l’Unità 9.3.12
Bersani: vado ai vertici se non ci sono tabù
Pressing Pd sulla Rai
Messaggio del leader dei Democratici a Monti: «Il problema non sono i partiti ma il Pdl, su questo serve chiarezza»
Via parlamentare per non rinnovare il Cda con la Gasparri
di Simone Collini
Un messaggio al Pdl: «Questo non è un governo a sovranità limitata, non possono essere esclusi temi come la giustizia o la riforma della Rai». E uno a Mario Monti: «Il problema non sono i partiti, in generale. C’è un preciso partito, con nome e cognome, che sta creando difficoltà. Su questo bisogna essere chiari». Il giorno dopo il vertice a Palazzo Chigi saltato per il forfait di Angelino Alfano, l’umore di Pier Luigi Bersani non è dei migliori. Il segretario del Pd spiega ai suoi interlocutori che sarebbe voluto andare all’incontro tra Monti e i leader delle forze che lo sostengono in Parlamento per parlare di lavoro, scuola, riforma fiscale, e anche di due argomenti che reputa strettamente connessi alla mission dei “tecnici”. «Il Pdl dice che questo governo deve occuparsi solo di economia? si sfoga con i suoi Ma quanti investimenti, dall’estero e in Italia, non arrivano perché c’è il problema della corruzione? Anche l’Ocse ha ricordato quanto freni lo sviluppo del Paese. E poi vogliamo parlare o no di Rai? Sarà o no un problema economico e industriale se la principale azienda pubblica italiana è allo sbando?».
Bersani insomma non ha intenzione di lasciar passare il diktat del Pdl e fa sapere al governo che è pronto a partecipare a un vertice a Palazzo Chigi con Monti, Alfano e Casini solo se non ci saranno argomenti preclusi in partenza. «Io vado al prossimo incontro con il premier e parlerò di tutto spiega anche ai cronisti che lo interpellano alla Camera sull’annuncio da parte del presidente del Consiglio di un incontro la prossima settimana ma sia chiaro, non accetto esclusione di temi».
Proprio sulle due questioni su cui il Pdl ha posto il veto, cioè giustizia e nuova governance Rai, il Pd sta lavorando per innescare dal Parlamento un’accelerazione della discussione. Se il disegno di legge anticorruzione è da tempo bloccato in commissione alla Camera e ora si attende un’iniziativa del Guardasigilli Paola Severino, la proposta di legge del Pd sulla riforma della Rai, a prima firma Bersani, è ancora in attesa di assegnazione alle commissioni competenti, Cultura e Telecomunicazioni. Il capogruppo del Pd in quest’ultima, Michele Meta, e il portavoce di Articolo 21 Beppe Giulietti, hanno chiesto di calendarizzare tutte le proposte depositate per avviare una discussione prima della scadenza dell’attuale Cda, il 28 marzo. Dario Franceschini, secondo firmatario del testo presentato dal Pd, potrebbe chiederlo formalmente alla prossima riunione dei capigruppo. Il Terzo polo è d’accordo col Pd su questo tema (così come l’Idv) e Gianfranco Fini non avrebbe difficoltà a dare il via libera. «I tempi per approvare una nuova legge prima del 28 ci sono», dice Bersani. Ma i deputati del Pd che stanno lavorando all’operazione sono convinti che basti anche soltanto l’avvio della discussione, senza necessariamente arrivare ora all’obiettivo, per impedire che a fine mese si proceda al rinnovo del Cda sulla base della legge Gasparri. «Il governo potrebbe commissariarlo in attesa di regolarizzazione o definizione di nuove regole viene spiegato così come è già successo per altre aziende partecipate dal Tesoro».
Il Pd è pronto a giocare questa carta se rimarrà il veto del Pdl sulla Rai, ma allo stato Bersani non dà affatto per scontato che nell’agenda di Monti non ci sia la riforma di viale Mazzini, come pure qualcuno sostiene: «Io non gliel’ho mai sentito dire», risponde il leader del Pd a chi lo avvicina alla Camera, senza nascondere di aver trovato «indelicato Confalonieri» che è andato da Monti proprio nel giorno in cui si sarebbe dovuto tenere il vertice. «La Rai sta andando in difficoltà strategica, bisogna smetterla con le logiche spartitorie. Io non partecipo al prossimo Cda nominato con la legge Gasparri, neppure se potessi avere la maggioranza del Cda stesso». Bersani racconta di averlo spiegato direttamente anche a Monti: «Gli ho detto che si può mettere al vertice anche Einstein, ma anche Einstein finisce per perdere la faccia in un meccanismo che non può funzionare. Bisogna capire cosa deve essere la Rai: un’azienda o un luogo di scorribande?».
Ma c’è anche un altro messaggio che Bersani fa arrivare a Monti. Se il presidente del Consiglio fa sapere di auspicare che «non si allarghi lo spread tra i partiti politici che sostengono la maggioranza», il leader del Pd non sorride troppo alla battuta: «Il problema non sono i partiti. C’è un solo partito, con nome e cognome precisi, che con il suo comportamento sta creando una situazione pericolosa. Su questo sarebbe bene essere chiari».
Repubblica 9.3.12
L'intervista a Pier Luigi Bersani
"Non escludo un bis per Monti ma con una maggioranza politica puntiamo a un´intesa con i moderati"
Bersani: nessuno può più mettere in dubbio la Tav
di Paolo Griseri
ROMA - Caro Monti, basta con le espressioni generiche: «Non esistono i partiti, ogni partito ha una sua faccia e le sue responsabilità». A Pierluigi Bersani non è piaciuta la battuta del premier sullo spread in aumento tra i partiti della maggioranza. Il segretario del Pd difende invece il diritto del governo a intervenire su tutto, «giustizia e Rai comprese». Poi sulla Tav presenta la sua proposta e striglia i sindaci del partito che si oppongono al progetto: «Non è più tempo di discutere del "se" ma del come farla».
Segretario, lo spread è sotto i 300 punti. Soddisfatto?
«Naturalmente. Significa che l´Italia ha riacquistato credibilità».
Monti dice che ora dovrebbe diminuire anche lo spread tra i partiti. Concorda?
«Ecco, posso dire? Quella battuta non mi è proprio piaciuta».
Che cosa la irrita?
«Non esistono "i partiti". Non siamo tutti uguali. Ogni forza politica ha una sua faccia. Noi abbiamo la nostra che non è quella di chi vuole stralciare le norme sulla corruzione o regalare le frequenze o far saltare i vertici a Palazzo Chigi».
Nell´emergenza del governo dei tecnici tutti i partiti sono grigi, no?
«Qualcuno lo pensa ma non è così. Quando mi fermano al supermercato - perché io vado al supermercato - le persone si lamentano per la riforma della previdenza. Dicono "Segretario, noi andremo in pensione quattro anni dopo". Io, nel rispondere, ci metto la mia di faccia, e credo di dare così un contributo alla discesa dello spread».
Parliamo di cose concrete all´ordine del giorno: la Tav. Qual è la vostra proposta?
«Tre premesse. Primo: c´è un inequivoco pronunciamento del governo che segue analoghe decisioni prese a livello locale, nazionale e nei trattati internazionali. Dunque la Tav si fa e su questo non si torna indietro. Secondo: la questione si sta trasformando in una battaglia ideologica e sotto quella bandiera trovano riparo posizioni inaccettabili e violente. Terzo: c´è una opposizione radicale in una parte della popolazione della valle».
Ci sono anche sindaci del Pd che vogliono tornare a discutere «se» l´opera s´ha da fare. Che cosa risponde loro?
«Che il se non è più in discussione. Non c´è più spazio per posizioni ambigue che con la scusa del dialogo possano mettere in forse l´opera. Si può invece discutere il come».
Qual è la vostra proposta sul come?
«Le proposte non mancano. C´è un documento del sindaco di sant´Antonino, Antonio Ferrentino, che propone una via d´uscita. Anche qui ci sono tre tappe: garantire a livello locale e nazionale una politica di incentivi al trasferimento dei trasporti da gomma a ferro; studiare insieme gli aspetti dell´impatto ambientale delle opere; preoccuparsi che tutti gli impegni presi vengano rispettati. Non è che una volta fatto il buco ci si dimentica del resto».
Proponete compensazioni?
«Smettiamola di parlare di compensazioni. C´è un piano a livello provinciale che prevede di riqualificare il territorio. Comune, Provincia e Regione Piemonte stanno convocando i sindaci della valle. Anche il governo apra su queste basi un immediato confronto».
Dovevate aderire allo sciopero di oggi della Fiom. Poi hanno aderito i comitati della val di Susa e avete ritirato la partecipazione. Nel Pd è possibile essere No Marchionne ma non No Tav?
«Il Pd non aderisce a scioperi. Non siamo insensibili alla protesta della Fiom quando chiede la democrazia in fabbrica e denuncia discriminazioni inaccettabili contro i sindacati che non firmano gli accordi come a Pomigliano».
Che cosa vi divide da Landini?
«Il giudizio tranchant sul governo Monti e la scelta No Tav. Che mi pare esuli un pò dalle piste sindacali».
Che cosa dovrebbe chiedere Monti a Marchionne?
«Monti ha fatto molto bene a voler incontrare Marchionne. Gli italiani non sono più stupidi degli americani. Il manager ci dica una volta per tutte dove investe per Fabbrica Italia e dia garanzie sugli stabilimenti, senza continuare a scaricare sugli altri la colpa dell´incertezza».
Cicchitto dice che Monti deve occuparsi solo di economia. Che cosa gli risponde?
«Non ci sono governi specializzati che affrontano solo certi argomenti. La corruzione non è un tema economico? Lo dice l´Ocse, posso dirlo anche io? Vendere le frequenze tv invece di regalarle non è una scelta economica? Non accetto che si mettano limiti di questo genere all´azione di governo, come non accetto di non discutere la questione della Rai».
Anche la Rai è economia?
«È un´azienda al 99 per cento pubblica che rischia di andarsi a schiantare. Vogliamo intervenire o vogliamo che faccia la fine dell´Alitalia? Noi vogliamo una radicale trasformazione del sistema di governance. Proponiamo che i partiti siano fuori dalla Rai».
E se non vi ascoltano?
«Noi non nomineremo i consiglieri nel cda».
Quanto durerà questo governo?
«Per quel che ci riguarda questo governo durerà fino al 2013. L´importante è non paralizzarlo mettendo veti come quelli di queste ore. Noi che lo sosteniamo dobbiamo lasciargli un certo grado di autonomia».
D´Alema dice che un governo Monti dopo le elezioni del 2013 sarebbe una resa della politica. Lo pensa anche lei?
«Penso che, finita l´emergenza, si debba tornare a una democrazia riformata, ma che funziona con due polmoni, secondo le regole dell´alternanza».
Dunque, no a un Monti bis?
«Quello che conta è che si determini una maggioranza politica. Il tasso tecnico dei governi non è la questione principale. Prodi era un politico o un tecnico?».
A proposito di premier, nel 2013 lei si candiderà?
«Lo statuto del Pd dice che il segretario è il candidato premier del partito. Ma io non mi appellerò certo a una norma. Per le procedure di decisione bisognerà vedere con quale legge elettorale si andrà al voto».
La stagione delle primarie è finita? Le ultime non sono state un bello spettacolo..
«Negli ultimi due mesi si sono svolte 23 primarie in altrettanti capoluoghi e in 18 ha vinto il candidato del Pd. Non butterei via le primarie: ammetto che hanno bisogno di manutenzione».
Vicende come quella della Tav mettono in soffitta la foto di Vasto, l´alleanza Pd-Idv-Sel?
«Tutti parlano di quella foto ma nessuno ricorda più il sonoro di quell´assemblea. Già allora noi dicemmo che la prospettiva è quella di un´alleanza di governo tra forze progressiste e moderate. E questo è anche oggi il nostro orizzonte».
Lo dica: è una fatica sostenere il governo tecnico?
«È una fatica ma è necessario e noi stiamo facendo la nostra parte mettendoci la nostra faccia. Certo, il giorno che a governare fossimo noi, a quella signora del supermercato saprò forse dare risposte più convincenti».
Corriere della Sera 9.3.12
Il Pd soffre i veti berlusconiani «Sui temi chiave terremo il punto»
di Maria Teresa Meli
ROMA — «Il Pd deve farsi carico del Pdl»: intitolava così Europa di ieri. Secondo il quotidiano del Partito democratico bisogna tenere i nervi saldi, anche se Alfano fa saltare un vertice e Berlusconi oscura la riforma della Rai. Pier Luigi Bersani è d'accordo a metà con questo ragionamento. «Il gioco dei veti — spiega il segretario — non ci porta da nessuna parte. Noi sulla Rai terremo il punto, ma non faremo ritorsioni». Tradotto: il Pd non farà saltare i prossimi vertici, né metterà i bastoni tra le ruote a Mario Monti. Il che non significa che Bersani sia disposto a fare marcia indietro su un punto che ritiene fondamentale: «O si fa la riforma della Rai o il Pd non entrerà nel consiglio d'amministrazione della tv di Stato, né parteciperà ad alcuna trattativa. Noi teniamo il punto».
Il Partito democratico è rimasto spiazzato dall'atteggiamento di Alfano. Il ritornello più ripetuto nelle stanze della sede nazionale del Pd a largo del Nazareno è questo: «Ma come, noi sopportiamo la riforma delle pensioni, la revisione dell'articolo 18 e poi il Pdl, appena si tratta un argomento che non piace a Berlusconi, fa saltare il tavolo?». A Bersani non è piaciuto il comportamento dell'ex ministro della Giustizia. Ma, se è per questo, non ha gradito nemmeno le parole di Monti sullo «spread tra partiti e governo». Il segretario del Pd non ci sta a fare di tutta l'erba un fascio: «Bisogna dire di quali partiti si parla, bisogna dire che si tratta del Pdl».
Secondo Bersani ciò che è accaduto rappresenta l'ulteriore dimostrazione della giustezza della sua teoria: «Superata l'emergenza economica e, quindi, la fase di transizione che finirà alla scadenza naturale della legislatura, il futuro del nostro Paese non passa per le larghe intese. Le nostre idee non sono conciliabili con quelle del Pdl. Serve un'alleanza per la ricostruzione dell'Italia, costituita dai progressisti e dai moderati».
Ma questo vale per il futuro. E per il presente? Il disagio del Partito democratico è evidente. Anche tra i Modem, che sono i più accesi sostenitori del governo. Spiega il segretario del gruppo pd alla Camera Roberto Giachetti: «Io penso che Monti non accetterà il veto impostogli dal Pdl. Se così fosse si indebolirebbe e sarebbe costretto ad assecondare anche altri diktat e richieste». Ma a largo del Nazareno giunge voce in serata che il prossimo vertice tra Monti e i segretari dei partiti che lo sostengono avrà come piatto fotte la riforma del lavoro e quella del fisco. Niente Rai o giustizia. E apparentemente il Partito democratico abbozza. Osserva il responsabile del welfare Beppe Fioroni: «Oggettivamente, la cosa che più ci interessa in questo momento è che si trovi un accordo tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro, il resto viene dopo».
Dopodiché, nonostante i mal di pancia, nel Pd c'è la certezza che il governo andrà avanti e che nessuna delle forze politiche che lo sostiene proverà a metterlo in crisi. Sottolinea Fioroni: «Monti non è sotto scacco, l'esecutivo viaggerà spedito. Le fibrillazioni riguarderanno i partiti. È accaduto con il nostro, dopo la storia delle primarie di Palermo, accade con il Pdl appena si parla di Rai». Aggiunge Giachetti, sicuro: «Sono convinto che se Monti va avanti e fa una radicale riforma della Rai Berlusconi è costretto ad abbozzare. Voglio vedere la scena del Cavaliere che fa cadere il governo».
Ma in questa situazione in cui il Pd non si trova perfettamente a suo agio c'è chi, nel partito, pensa che una via d'uscita possa essere quella di pungolare il governo. Non di farlo cadere, ovviamente, e, tanto meno di metterlo in difficoltà. L'idea, piuttosto, è quella di avanzare delle richieste a Monti per non fare la parte di chi dice sempre e solo di sì. La prima di queste richieste? La nomina di un ministro dell'Economia.
Corriere della Sera 9.3.12
Alleanze dopo le urne, tanti sì a D'Alema Aperture anche dal Pdl
Ma tra i democratici restano dubbi. Parisi: errore
di Alessandro Trocino
ROMA — «Chi vince alle urne crei la maggioranza». Massimo D'Alema, nell'intervista di ieri al Corriere, seppellisce il bipolarismo coatto e ritiene giunto il momento che i partiti si presentino «chiedendo il voto per sé» e cercando, solo dopo il voto, le alleanze necessarie per governare. Proposta — non lontana da quella che sembra prevalere al tavolo delle trattative — che piace molto all'Udc e non dispiace né alla maggioranza del Pd né al Pdl. Tra i pochi contrari, Arturo Parisi: «Sarebbe la restaurazione».
Ferdinando Adornato — già referendario e ora esponente udc — accoglie con soddisfazione la posizione dalemiana: «L'Udc è stato il primo partito, nel 2008, a uscire dal sistema delle coalizioni, rischiando l'osso del collo. Tutti in questi anni siamo stati contagiati dalla febbre del referendum e del bipolarismo. Volevamo andare a Parigi e a Washington e ci siamo ritrovati a Beirut, con la libanizzazione della politica e il ricatto delle forze piccole ed estreme. Le parole di D'Alema sono la presa d'atto inevitabile del fallimento della seconda Repubblica».
Con il ritorno sgradito, sostiene Parisi, alla Prima Repubblica: «D'Alema parla in nome della democrazia della delega ai partiti. Ai cittadini dice: "Con chi ci alleiamo ve lo faremo sapere dopo il voto, intanto votateci". Noi vorremmo che fosse rispettato il diritto degli elettori di conoscere prima del voto la proposta di governo».
Nello stesso partito, ma con opinione decisamente opposta, ecco Luciano Violante, ovvero uno degli uomini chiave della trattativa tra i partiti. Respinge qualunque collegamento con la Prima Repubblica: «In nessun Paese europeo c'è una dichiarazione preventiva di alleanze. E comunque nell'attuale rapporto con i media, è inevitabile che un leader dica con chi vuole governare, qualunque sia la legge elettorale». Quanto alle coalizioni che si formavano prima del voto, si trattava di «coalizioni elettorali, non di governo: alleanze tra partiti che avevano in comune non il programma ma l'avversario. Si è visto come è finita».
Il pdl Gaetano Quagliariello concorda con D'Alema. Ma solo a patto che «il sistema istituzionale e la legge elettorale orientino a indicare un vincitore». Come in Gran Bretagna: «È vero che, come dice D'Alema, gli elettori inglesi non si sono trovati sulla scheda la coalizione Cameron-Clegg, ma la fisiologia lì è che chi vince governa. Che il vincitore debba trovarsi un alleato è condizione storicamente rara».
Nel Pd, il costituzionalista Stefano Ceccanti plaude: «D'Alema riprende l'idea veltroniana del partito a vocazione maggioritaria. Teorizza quello che scrivemmo nella bozza Vassallo-Ceccanti nel 2007, su invito di Veltroni. Semplicemente si tratta di passare dal maggioritario di coalizione a quello di partito. Con una legge elettorale tedesca ma con correttivi, come dice D'Alema». In parziale disaccordo è però proprio Vassallo: «Se si vogliono superare le coalizioni forzose senza abbandonare il bipolarismo, bisogna spagnolizzare il sistema tedesco. E D'Alema sbaglia, perché vorrebbe un sistema proporzionale con correttivi non adeguati: serve un elemento maggioritario che eviti un sistema iperframmentato e che faccia capire bene chi ha vinto».
Tesi non dissimile da quella del costituzionalista Augusto Barbera: «Do ragione a D'Alema a metà. Con il maggioritario qualche risultato si è ottenuto. Ma i partiti principali ora hanno molti problemi con gli alleati e dobbiamo prendere atto, con rincrescimento ma con realismo, della necessità di superare il bipolarismo coatto. Ma il sistema tedesco puro non va bene, perché fotografa la realtà: in Germania immortala un sistema bipolare che c'è già; in Italia, un sistema frammentato. Per questo serve un correttivo spagnolo, con un sistema a collegi piccoli, senza recupero di voti, che premi i partiti maggiori. Altrimenti, dopo aver dato un potere di condizionamento decisivo alle ali estreme, ora lo daremmo all'Udc».
il Fatto 9.3.12
L’ex tesoriere della Margherita accusa i colleghi di partito: “Sapevano tutti”
“Se parlo io salta il centrosinistra”
“In cassa c’erano 214 milioni Ora 20. Se io ne ho presi 13, dove sono finiti gli altri 181?”
Lusi “Erano tutti d’accordo, se parlo succede un casino”
Ecco le accuse dell’ex tesoriere della Margherita
di Luca Bertazzoni
Di seguito l’intervista a Luigi Lusi, trasmessa ieri sera da Servizio Pubblico.
Lei adesso ha attraversato un corridoio e ha scelto di entrare in questa stanza perché ha un appuntamento con me. Ma ci sono tante altre stanze prima della mia. E io mi domando: perché non è andato a vedere in tutte le altre stanze? O meglio, perché ha scelto solo la mia e non le altre? ”. Inizia così, nel suo ufficio del Senato, l’incontro con Luigi Lusi, l’ex tesoriere della Margherita sotto inchiesta per appropriazione indebita. La Procura sta indagando su 13 milioni di euro che Lusi avrebbe sottratto al partito. “Io ho gestito 214 milioni di euro del partito, e ne ho lasciati 20 in cassa. Facciamo finta che ne abbia presi 7, poi ho pagato 6 milioni di tasse e arriviamo a questi famosi 13 milioni. Ne rimangono altri 181”.
Dove sono finiti?
Secondo lei questi 181 milioni di euro li abbiamo usati tutti per pagare il personale e i telefonini? Nessuno si fa questa domanda?
Sarebbe lecito se lei avesse finanziato la campagna elettorale di Franceschini piuttosto che di qualcun altro del Pd?
Non c’è niente di illecito nella gestione di 214 milioni di euro.
Sarebbe illecito, invece, se lei avesse finanziato Rutelli da quando è andato all’Api.
Questo lo dice lei. Non è cattolico lei, eh? Ma certo, è così. La cosa incredibile è che se tu hai raccolto 100 lire per strada e te le tieni in tasca, poi ti metti pure a dire che è giusto restituire i soldi che trovi per terra e che non sono tuoi? Ti stai zitto, no? E invece lui parla. Perché non sta zitto?
Me lo dica lei.
Perché questa partita è molto più grande, questa partita fa saltare il centrosinistra. E quando su di me uscirà fuori ulteriore merda, che servirà a screditarmi definitivamente, vedrà che non ci sarà più una domanda da porsi.
Più persone dell’ex Margherita mi hanno fatto capire che sospettavano di lei.
Ma dove stavano questi dal 2002 in poi? Perché i revisori dei conti e il comitato di tesoreria hanno sempre fatto relazioni positive sui miei bilanci? Io ho sempre avuto uno scontro a viso aperto con Parisi, perché lui diceva che io facevo le cose sporche per Rutelli. Se uno pensa che ha un tesoriere furbetto prende le contromisure, no?
Mi sta dicendo che per loro andava tutto bene?
Sì, è così perché è evidente che andavano bene altre cose, no? Se ti va bene quel divano su cui sei sdraiato anche se ti fa male la schiena, le cose sono due: o ti sei bevuto il cervello, oppure hai uno scambio. Soffro un po’ per avere altro, mi spiego?.
Sostanzialmente mi sta facendo capire che...
Io non le voglio far capire niente. E non voglio entrare in questa brutta cosa che qualcuno ha tirato fuori di Renzi e di Bianco .
É uscito che lei teoricamente avrebbe finanziato Renzi anni fa.
Sì, ma cancellerei il termine teoricamente perché se uno domani me lo chiede, io dovrò rispondere. Il punto è che dicono che le ho tirate fuori io queste cose, ma io non ho niente in mano di tutto ciò. É evidente che queste informazioni sono uscite da chi sta facendo le indagini o, più probabilmente, dalla guerra interna al Partito democratico.
Ho l’impressione che se lei parla succede un casino.
É così, punto. C’è poco da discutere. Nessuno è interessato a che io parli.
La definiscono un “rutelliano” di ferro. E alcuni suoi colleghi mi hanno fatto capire che quando Rutelli ha fondato l’Api, lei sarebbe rimasto nel Pd per tenere la cassa.
Ma non l’ho certo mantenuta perché c’è un contratto scritto che dice che se non vai all’Api mantieni la cassa.
Mi sta dicendo che gliel’hanno fatta mantenere.
E perché secondo lei me l’hanno fatta mantenere?
Perché elargiva...
Mica sono un benefattore. Io eseguivo ciò che mi veniva detto di fare, ed evidentemente per loro ero affidabile.
E queste cose che le dicevano di fare rientrano nel lecito o nell’illecito?
Rientrano nel border line del finanziamento alla politica. Formalmente è tutto lecito. Tutti i partiti gestiscono il contributo pubblico in modo privatistico, perché questo la legge impone. Quando i soldi pubblici dei rimborsi elettorali entrano dentro un partito diventano soldi privati. E non c’è nessuna legge che dice come li devi gestire. Ecco perché parlo di border line.
Questi 13 milioni di euro che lei avrebbe sottratto al partito rientrano nell’illecito.
Questo lo devono decidere i magistrati, non io. Io ho fatto tutto quello che mi è stato detto di fare. Chi è che ha firmato i bonifici? Io. Chi è che ha dato le autorizzazioni? Io. Sono responsabile di tutto quello che è stato fatto dal 3 agosto 2001 al 16 agosto 2012. Altro discorso, però, sono i processi decisionali interni al partito, sui quali non entro perché è la sfera di cui nessuno vuole parlare.
Il magistrato che si occupa del suo caso mi ha fatto una domanda interessante: “Perché secondo lei nessuno nella Margherita ha chiesto il pignoramento dei beni di Lusi?
Uno che fa questa domanda vuol dire che usa il cervello. E se lo usa perché massacra me?
Lei se l’è fatta questa domanda?
Io ho la risposta! Ma veramente pensa che sia un cretino? Rutelli ha mandato una lettera vergata di suo pugno in cui scrive che è d’accordo con il patteggiamento e con la fideiussione. E nessuno si domanda niente? Facciamo finta che lei lavora per Santoro da 13 anni, e che per tutti questi anni ha cavalcato una zona d’ombra perché era leale al suo capo. E poi le succede una cosa, una qualsiasi cosa per cui Santoro dice: “Io? Non so un cazzo!! Faceva tutto Luca”. Lei come si sentirebbe?
Chiarissimo. Però questo succede perché esce fuori la storia dei 13 milioni di euro che lei si sarebbe intascato.
E secondo lei questa storia come è uscita? Lei pensa veramente che questo casino succede perché la Banca d'Italia manda un warning? Ma di che cazzo stiamo parlando? Noi abbiamo risposto sempre alle segnalazioni di Unicredit. E Unicredit ha rimandato indietro le nostre risposte per tre volte, perché in realtà inciuciava. Ma perché inciuciava? Perché qualcuno gli ha detto di inciuciare.
E secondo lei questo è stato un fuoco amico?
Non è propriamente mio amico, ma è un fuoco amico. É figlio di una guerra vecchia, prima contro Rutelli e poi contro il Pd. Ma siccome lei mi prude e mi fa male quando parla dei 13 milioni di euro, io le rispondo. Uno che prende 13 milioni e che ne paga 7 di tasse, accende due mutui? Puoi essere ingenuo, scemo, un ladruncolo di periferia, ma sei così coglione che prendi tutti 'sti soldi e ti accendi due mutui? Se devi giocarti la partita, lo fai bene fino in fondo, no?.
Lei avrebbe usato un milione e 900.000 euro della Margherita per l’acquisto del suo appartamento di via Monserrato a Roma.
Su quale cazzo di carta è scritto che avrei pagato un milione e 900.000 euro per la casa di via Monserrato? Mi dice dove cazzo è scritto? É una delle cose che io ho contestato ai magistrati, è falsa. Ci sono circa 500 mila euro pagati alla firma del contratto di acquisto, più un mutuo di 1 milione e 700.000 euro. Sti cazzo di mutui uno perché li accende se ha tutti quei soldi liquidi?
I 500 mila euro vengono dalla Margherita o sono suoi?
Vengono dalla società che l’ha acquistata.
Parla della TTT, una società riconducibile a lei.
Mi creda. Non c’è niente che non si sappia.
Mi sta dicendo che all’interno del partito tutti sapevano dell’esistenza di questa società?
Chi lo doveva sapere lo sapeva, certo. É un reato costituire una società? No. Ho fatto consulenze finalizzate alla verifica del funzionamento contabile del processo di liquidazione degli organi territoriali della Margherita e ho scoperto l’ira di Dio. Se poi mi chiedi di produrre quei documenti, io ti dico che li ho distrutti perché parlavano delle mignottate che hanno fatto in tanti. E che faccio? Me li tengo? Se sono un tesoriere serio li distruggo, perché quello è il mio ruolo. Non sono un santo. Ho fatto il tesoriere, e il tesoriere si sporca le mani con la merda, c’è poco da fare.
Corriere della Sera 9.3.12
Il Vaticano «a rischio riciclaggio»
di G. G. V.
CITTÀ DEL VATICANO — Il nome compare a pagina 23 come l'unica nuova entrata nel rapporto 2012, e non è una buona notizia. «Per la prima volta» la Santa Sede è stata inserita dal Dipartimento di Stato Usa nell'elenco dei Paesi che destano «preoccupazione» quanto al rischio di riciclaggio di denaro sporco. L'«International Narcotics Control Strategy Report» elenca nella categoria «Jurisdiction of Concern» 68 Paesi, dall'Albania allo Yemen, e in mezzo la Santa Sede. C'è da dire, peraltro, che nella lista dei 66 Paesi che stanno peggio («Primary Concern»), a più alto rischio riciclaggio, compaiono gli stessi Usa e l'Italia. Il rapporto prende infatti in considerazione vari parametri, a cominciare dalle economie dove circolano i maggiori flussi di denaro sporco. Ma certo non è un buon segnale, proprio mentre la Santa Sede, approvata la legge antiriciclaggio, attende che il comitato Moneyval del Consiglio d'Europa si pronunci a giugno sulla richiesta vaticana di ingresso nella lista dei Paesi virtuosi, la «white list» dell'Ocse. Oltretevere non mostrano preoccupazione: l'«operazione trasparenza», dicono, è stata voluta proprio perché consapevoli di una legislazione inadeguata. Una fonte del Dipartimento di Stato Usa ha detto che l'efficacia della nuova legge vaticana è tuttora «sotto osservazione». Certo all'immagine vaticana non hanno giovato «corvi» e veleni degli ultimi tempi, come le voci di destituzione del presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi. Proprio ieri il cardinale Giovanni Lajolo, presidente emerito del Governatorato, è tornato in un'intervista a TGcom 24 a difendere la gestione del Governatorato. Il suo ex vice, monsignor Carlo Maria Viganò, aveva denunciato «corruzione» interna in una lettera riservata e resa pubblica dai «corvi», e fu poi trasferito come nunzio negli Usa. «Rimase profondamente ferito» da articoli anonimi che lo mettevano «ingiustamente in cattiva luce», ha detto Lajolo, e «nel cercare i responsabili, egli partì da sospetti, rivelatisi infondati, e si mise su una pista sbagliata».
Corriere della Sera 9.3.12
La trattativa, il pianto. Così Borsellino diventò un ostacolo
Borsellino pianse: tradito da un amico
di Giovanni Bianconi
Secondo l'ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta, la fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il giudice era venuto a sapere dei contatti tra lo Stato e la mafia. Due magistrati a lui vicini lo videro piangere poche settimane prima dell'attentato. «Non posso pensare che un amico mi abbia tradito», disse Borsellino.
CALTANISSETTA — La fine adesso è nota: «Sia nel luglio del 1992, sia nell'anno 1993, la strategia di Cosa nostra è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l'esecuzione di plurime stragi che hanno trasformato la trattativa in un vero e proprio ricatto alle istituzioni». Ricatto che ha prodotto i suoi effetti: «Alcuni significativi risultati Cosa nostra li ha ottenuti se si considera che l'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario (il carcere duro per i mafiosi, ndr) è stato di fatto depotenziato». I detenuti sottoposti al regime restrittivo si ridussero, in poco più di un anno, di circa due terzi. Poi è cominciata una nuova stagione politica.
La premura
Dall'ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta sulla bomba che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, emerge in maniera nitida come gli attentati mafiosi abbiano accompagnato — parallelamente all'inchiesta milanese Mani Pulite — il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. Attraverso un ricatto che prese le mosse quando si decise di eliminare il nemico giurato Giovanni Falcone non a Roma, con qualche colpo di pistola, ma facendo saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci, in Sicilia, nel regno di Cosa nostra.
Nemmeno due mesi dopo l'altro attentato, oggi catalogato come «terroristico»: la morte di Paolo Borsellino che trasforma Palermo in un quartiere di Beirut al tempo della guerra. Eliminazione programmata da tempo, ma anticipata con una «premura incredibile», hanno rivelato alcuni pentiti. Perché erano in gioco altri interessi: «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall'esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra», scrivono i pubblici ministeri nell'atto d'accusa che conclude quasi quattro anni di indagini nate dalle rilevazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Le istituzioni coinvolte
La fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il magistrato, procuratore aggiunto di Palermo, era venuto a sapere dei contatti tra i carabinieri del Ros, guidati dall'allora colonnello Mario Mori, e l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Contatti diretti alla cattura dei latitanti, secondo gli investigatori dell'Arma, che però Cosa nostra percepì come occasione per imporre patti e condizioni: «Nella ricostruzione del generale Mori non convince l'ostinata negazione di una trattativa che invece è nelle stesse sue parole descrittive degli incontri con Ciancimino. Per Cosa nostra era certamente una trattativa», accusano i pm nisseni per i quali Mori, il suo superiore generale Subranni e il capitano De Donno che l'accompagnava negli incontri con l'ex sindaco «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992. Questa trattativa si svolse a più riprese e iniziò prima della strage di via D'Amelio».
È il punto di svolta della nuova indagine. Borsellino scoprì i contatti tra la mafia e altri rappresentanti dello Stato, schierati ufficialmente al suo fianco.
«Tradito da un amico»
Due magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, un giorno di fine giugno lo videro piangere. «Essendo un uomo all'antica non l'aveva mai fatto — ha testimoniato Camassa —. Ricordo che Paolo, anche questo era insolito, si distese sul divano, e mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi disse: "Non posso pensare che un amico mi abbia tradito"». Non disse chi fosse quell'amico, né accennò a trattative. Ma la vedova del giudice ha raccontato che il marito, legato al generale Subranni, le confidò di essere sconvolto dopo aver saputo di sue presunte collusioni con la mafia. E le aveva testualmente riferito che «c'era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato».
Borsellino venne a sapere dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino il 28 giugno '92. Glielo disse la sua amica magistrata Liliana Ferraro, non gli ufficiali coi quali stava collaborando. Tre giorni dopo, al Viminale, vide il neo-ministro dell'Interno Nicola Mancino, in un fugace incontro che Mancino continua a non ricordare. Ma quanto riferito dall'ex ministro, secondo la Procura di Caltanissetta, «appare illogico e non verosimile... V'è da chiedersi se il senatore Mancino sia vittima di una grave amnesia, ovvero sia stato indotto a negare un banale scambio di convenevoli per il timore di essere coinvolto, a suo avviso ingiustamente, nelle indagini. Non si può tuttavia negare che residua la possibilità teorica che egli possa aver mentito "perché ha qualcosa da nascondere"».
Ostacolo da eliminare
La conclusione è che pur essendosi raccolti nuovi e importanti elementi circa ombre inquietanti di apparati infedeli dello Stato», non sono state individuate ipotetiche «responsabilità penali». Tuttavia, «in quel momento storico ben era possibile una trattativa con Cosa nostra, e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocavano partite complesse e spregiudicate con incursioni anche nel campo avverso».
In ogni caso, «si è raggiunta la certezza che Borsellino sapesse delle trattative in corso, e che la sua posizione era, chiaramente, negativa». Di qui la «premura» con cui Totò Riina decise di farlo fuori, giacché «era d'ostacolo alla loro riuscita». L'attentato all'ex ministro democristiano Calogero Mannino fu rinviato, e accelerato quello contro il giudice. Conclusione: «È possibile sia che la decisione di anticipare l'uccisione di Borsellino avesse, da parte di Cosa nostra, lo scopo di punire chi si opponeva alla trattativa, sia anche di riprendere la stessa da posizioni di maggiore vigore».
Dopo la strage di via D'Amelio si apre una nuova fase della trattativa, «in cui a poco a poco Riina da soggetto diventa oggetto della stessa». E si arriva alla cattura del boss, nel gennaio 1993. Da quel momento comincia un tira-e-molla sul 41 bis, inframmezzato dalle stragi sul continente: a Firenze e contro Maurizio Costanzo a maggio, a Roma e Milano a luglio. Proprio mentre i rinnovati vertici dell'amministrazione penitenziaria discutevano su come lanciare «segnali di distensione» sul «carcere duro».
Emergono «riserve» e prese di distanza che, accusano i procuratori, «offrono un quadro desolante del fronte antimafia a meno di un anno dalle stragi del '92 e contemporaneamente alle nuove stragi continentali». E ancora: «Rimane accertato un quadro certamente fosco di quel periodo della vita democratica di questo Paese... Che poi vi fosse una diffusa "stanchezza" della politica per le iniziative legislative antimafia adottate negli anni 1990-92, purtroppo è parimenti certo. Stanchezza che lambirà, nei mesi successivi, anche il ministero retto dal senatore Mancino». Senza che ciò comporti, ribadiscono i pm fin quasi alla noia, «alcun tipo di responsabilità personale».
Il «frutto avvelenato»
In questo quadro si arriva alla decisione dell'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, tra ottobre e novembre 1993, di non rinnovare oltre 300 decreti di «carcere duro». Decisione presa nel tentativo di «fermare le stragi», che il ministro dice di aver adottato «in assoluta solitudine»: affermazione «in contrasto con tutti gli altri elementi documentali acquisiti al procedimento», visti i documenti dell'amministrazione penitenziaria che da mesi suggerivano scelte di quel tipo.
«C'è da chiedersi se non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato», sottolinea la Procura, e alla domanda «può rispondersi positivamente... La cosiddetta trattativa, iniziata nel 1992, trova compimento e dà il suo frutto avvelenato nel 1993». Ma tutto questo, con la strage di via D'Amelio, non c'entra più. È solo l'estensione di un possibile movente, che continuerà a produrre i suoi effetti anche nei mesi successivi. Quando il giudice Borsellino è morto da tempo. Celebrato e tradito al tempo stesso, accusano i magistrati che a vent'anni dall'eccidio ritengono di aver scoperto un altro pezzo di verità nascosta.
Giovanni Bianconi
Corriere della Sera 9.3.12
Macaluso: su queste indagini c'è una guerriglia tra poteri
di Dino Martirano
ROMA — Il direttore del Riformista Emanuele Macaluso — già parlamentare siciliano del Pci che si è sempre occupato, da politico e da giornalista, di fatti di Cosa nostra — maneggia con le pinze «l'ipotesi di un inserimento di forze esterne alla mafia "a monte" dell'attentato di via d'Amelio». Perché, spiega l'ex direttore dell'Unità, «credo al procuratore di Caltanissetta, Lari, quando dice che le forze esterne alla mafia si sono inserite dopo l'attentato in questa vicenda che ha segnato la storia della Repubblica al pari del sequestro Moro».
Perché teme che l'inchiesta sulla morte del giudice Paolo Borsellino possa essere ancor una volta strumentalizzata?
«Qui stiamo ricostruendo uno snodo fondamentale della nostra storia con il passaggio, negli anni '92-'93, dalla prima alla seconda Repubblica. Dunque, a me sembra che ancora oggi sia in atto su queste indagini una guerriglia tra poteri dello Stato, tra apparati investigativi e tra pezzi di magistratura. Guerriglia che continua e che fa delle vittime tra le quali non ho alcuna difficoltà ad inserire l'ex generale dei carabinieri Mario Mori che è attualmente sotto processo a Palermo proprio perché accusato di aver condotto questa trattativa».
Scusi, Macaluso, ma qui il movente della strage sembra ormai chiaro: Borsellino è stato assassinato perché ritenuto un ostacolo sulla strada della trattativa tra mafia e Stato. Lei ci crede?
«Può anche darsi. Io dico che questo è il tema ma a certe domande ancora non è stata data una risposta».
La procura di Caltanissetta, tuttavia, ha fatto passi in avanti. Non crede?
«La procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di valore come Grasso, dovrebbe prendere in mano questa situazione. Qui si chiamano in causa Scalfaro, Amato, Martelli, Mancino e ora anche Mannino viene indagato su questo versante mentre a Palermo sono sotto processo il generale Mori e il colonnello De Donno. Da Caltanissetta ci dicono che della trattativa erano informati i vertici dello Stato mentre i magistrati di Palermo accusano due ufficiali dei carabinieri di aver condotto quella trattativa. Delle due l'una. Ci vorrebbe infatti un punto di chiarezza e solo la procura nazionale può farlo».
Così, magari, ripartono anche i veleni sulla superprocura che tanti guasti hanno provocato negli anni 90.
«Ma qui siamo di fronte a fatti inquietanti. Già è stato grave il depistaggio del primo processo per la strage di via D'Amelio, con la patente di credibilità affibbiata al pentito Scarantino che dicono fosse sponsorizzata dal questore Arnaldo La Barbera. Poi c'è stato il colonnello Riccio, condannato per traffico di droga, che è il grande accusatore di Mori e di Di Donno. E non è mancato in questa vicenda il contributo del figlio del sindaco Ciancimino che, finalmente, non viene più ritenuto attendibile dai magistrati visto che il suo unico interesse è quello di tutelare l'immagine del padre, il consigliere dei corleonesi, e salvare il patrimonio di famiglia...».
Per cui, lei non crede a questa svolta nelle indagini?
«Io dico, attenzione! La materia è incandescente. Per questo, ci vorrebbe un procuratore nazionale per fare un punto di sintesi».
La Stampa 9.3.12
Tra mafia e politica un progetto segreto
di Francesco La Licata
La nostra storia recente si caratterizza per l’assoluto deficit di verità nelle indagini sui più eclatanti e dolorosi lutti nazionali. Una procura non ha ancora finito di indagare (addirittura con la riesumazione del cadavere) sulla controversa morte (1950) di Salvatore Giuliano, la stessa ha riaperto - dopo averla chiusa con scarsi risultati - l’inchiesta sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (1970). Ben due uffici giudiziari importanti - Palermo e Caltanissetta - puntano da anni le rispettive lenti di ingrandimento su quel «quadro certamente fosco», per usare le parole degli stessi magistrati indagatori, che è venuto fuori nell’ambito delle vicende dello stragismo mafioso dipanatesi tra il 1989 e il 1994: dall’attentato fallito all’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone alle «mattanze» di Roma, Firenze e Milano (1993), passando per gli eccidi di Capaci e via D’Amelio e il torbido assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima.
Ieri sono stati inchiodati alle loro responsabilità alcuni dei protagonisti dell’enorme depistaggio costruito per sabotare le inchieste sulla strage che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque poliziotti che lo scortavano. Un successo reso possibile dal non preventivato pentimento di Gaspare Spatuzza, inaspettatamente disponibile a rispondere alle domande del procuratore Piero Grasso. Non si potrebbe che essere soddisfatti di un tal traguardo, se non fosse arrivato a vent’anni dalla strage e non si avesse la certezza che tutto quel tempo è stato sprecato ad inseguire false verità e falsi pentiti per precise responsabilità istituzionali degli apparati preposti alle indagini.
Davvero per vent’anni non è stato possibile disvelare la tragica «truffa» inscenata dai falsi collaboratori Scarantino e Candura? Davvero in vent’anni non è venuto in mente a nessuno di verificare le deposizioni dei due che si accusavano del furto della «126 bomba»? E soprattutto: se Spatuzza non si fosse deciso a parlare a che punto sarebbe la «verità» sulle stragi?
Ma queste potrebbero esser considerate recriminazioni sterili e persino ingenerose, specialmente nei confronti di chi ha lavorato per recuperare sul passato. Partiamo, dunque, dalle «novità confortanti», ma ancora debilitate dalle precisazioni dei magistrati che le inquadrano non come un punto d’arrivo ma come un punto di partenza, proprio alla vigilia della sentenza della Cassazione sul sen. Marcello Dell’Utri, coprotagonista del possibile seguito della storia, quella che riguarda le indagini sulla nascita del berlusconismo e della «Seconda Repubblica».
L’inizio, insomma, di una ennesima «telenovela» che si appalesa tra le diversità di vedute di due procure. Da un lato Caltanissetta, più propensa a «chiudere» l’inchiesta nell’ambito di responsabilità criminali dove si intravede la presenza politico-istituzionale ma senza il coinvolgimento e la collusione. Come dire: la politica ha favorito la cosiddetta trattativa ma senza sporcarsi le mani. Dall’altro Palermo che, invece, ha già indagato più di un parlamentare, nella ipotesi accusatoria che descrive la classe dirigente impegnata a fermare l’aggressione di Cosa nostra «in ogni modo» e con l’obiettivo di salvare la pelle a quei politici entrati nel mirino di Totò Riina dopo l’assassinio di Salvo Lima.
E, dunque, sembra trovare credito l’interpretazione che a suo tempo costò, invece, al procuratore Grasso più di una critica, quando sottolineò la coincidenza temporale fra l’inizio della «trattativa» e la sospensione dei progetti omicidiari in danno di alcuni uomini politici, siciliani e non. E sembra sensata l’interpretazione che, ancora Grasso, offre della trattativa tra Stato e mafia. Dice il magistrato che l’elemento di novità della nuove indagini sta nella possibilità di inquadrare i contatti tra politici e mafia non più nella ricerca del semplice scambio di favori per i detenuti, ma in un vero e proprio progetto tenuto in vita per impedire un traumatico cambio epocale negli assetti politico finanziari del Paese, già messi a dura prova dallo tsunami provocato dalle inchieste di Milano sulla corruzione.
Grasso parla di una vera e propria «strategia della tensione che non ha mai abbandonato l’Italia, una sorta di estorsione nei confronti delle istituzioni», perché «in quegli anni c’era il pericolo di mutamenti politici non graditi». Parole gravi, anche per la competenza e la riconosciuta serietà di chi le ha pronunciate. Per questo sarebbe utile che, per una volta, si rinunciasse alle reazioni esagitate, buone solo a confondere perché tutto rimanga immutato, per inaugurare un percorso di serena collaborazione alla ricerca di una verità passata, senza la quale il futuro potrebbe restare incompiuto. E se la magistratura dovesse esser costretta a fermarsi per inadeguatezza della via giudiziaria, dovrebbe essere il Parlamento ad intestarsi il proseguimento della ricerca di ricostruzione di un contesto che fu anche di natura politica.
Corriere della Sera 9.3.12
Se un commesso di Palazzo Madama guadagna 4 volte chi dirige gli Uffizi
L'outing dei vertici dei musei sugli stipendi. «Meno di 2.000 al mese»
di Gian Antonio Stella
Se il guadagno misura il merito, dirigere gli Uffizi è un lavoro da 1.780 euro? Lette le denunce dei redditi dei ministri e degli alti burocrati di Stato, i direttori di alcuni dei musei più importanti d'Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.
A uscire allo scoperto, in calce a una lettera pubblica, sono Anna Lo Bianco, direttore della Galleria nazionale d'Arte antica di Palazzo Barberini, Maria Grazia Bernardini, del Museo di Castel Sant'Angelo, Anna Coliva, della Galleria Borghese, Antonio Natali, della Galleria degli Uffizi, Andreina Draghi, del Museo di Palazzo di Venezia, Serena Dainotto, della Biblioteca dell'Archivio di Stato di Roma e tanti altri funzionari alla guida di biblioteche e archivi e istituzioni museali che fanno grande il nostro Paese.
Il punto di partenza, come dicevamo, è la tesi espressa da alcuni esponenti del governo e altissimi grand commis di Stato dopo la (meritoria) scelta di trasparenza fatta giorni fa con la pubblicazione sul Web dei redditi e dei patrimoni. Tesi sintetizzabile così: tanta responsabilità, tanto guadagno. Con parallela citazione dell'America e delle società calviniste dove il reddito non solo non viene pudicamente nascosto come da noi (il denaro è stato a lungo «lo sterco del diavolo» sia per i comunisti sia per i cattolici) ma al contrario esibito, a riprova della affermazione professionale.
Un po' quello che ha detto Paola Severino. La quale, a Liana Milella che le chiedeva se non fosse imbarazzata per i sette milioni di euro denunciati, ha risposto: «No, perché guadagnare non è un peccato se lo si fa lecitamente producendo altra ricchezza e pagando le tasse. A questi redditi sono arrivata solo dopo anni di duro lavoro, supportato da tanta passione».
Fin qua, par di capire, i direttori dei musei ci stanno: è il mercato, bellezza. E le alternative inventate finora, vedi socialismo reale, non hanno dato risultati incoraggianti… Ma perché lo Stato dovrebbe dare 395 mila euro lorde al direttore generale della Consob (che poi ne prende altri 95 mila da membro della Commissione di garanzia per gli scioperi) e undici volte di meno al direttore del museo fiorentino che ospita la «Nascita di Venere» di Botticelli e la «Maestà di Santa Trinità» del Cimabue, «l'Annunciazione» di Leonardo da Vinci e la «Maestà di Ognissanti» di Giotto?
Perché 519.015 euro lorde di pensione all'ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini e 32.535 (cioè 16 volte di meno: sedici volte!) ad Anna Lo Bianco che guida la Galleria nazionale d'Arte antica e per 1.765 euro netti al mese (un quarto di quanto prende un commesso di Palazzo Madama di pari anzianità) porta il peso di custodire e valorizzare la Fornarina di Raffaello, il ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni e quello di Enrico VIII di Hans Holbein e «Giuditta che taglia la testa ad Oloferne» di Caravaggio? Che senso ha che lo Stato tratti con tanta disparità, a capocchia, figli e figliastri?
All'estero non va così. I «pari grado» dei nostri dirigenti, in Francia, Gran Bretagna o Australia, guadagnano il doppio se non il triplo. La stessa Spagna, per dire, nonostante sia in crisi quanto e più di noi, paga i direttori dei più importanti musei dai 50 ai 60 mila euro. Questione di rispetto. Questione di «merito».
Da qui la lettera di «outing», che val la pena di riportare parola per parola: «Tra tanti che sentono il dovere della trasparenza a proposito dei propri redditi, vogliamo ora proporci anche noi, archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari, funzionari con compiti complessi che spaziano dalla gestione del personale al fund raising, alla direzione di musei, fino a incarichi altamente specialistici come la cura di mostre, grandi restauri o la redazione di pubblicazioni scientifiche».
Ebbene, proseguono con amara ironia i firmatari della protesta, «non raggiungiamo i duemila euro al mese; ed è lo stipendio vero, che non prevede nessuna indennità, nessun altro tipo di compensazione. A noi il merito quindi di bilanciare la media europea contro l'eccesso di compensi dei parlamentari, dei manager di Stato e non, di professori universitari. Nel nostro caso gli stipendi si collocano molto al di sotto».
Peggio, insistono: «Un bel giorno, ormai alcuni anni fa, la riforma Bassanini stabilì fortissimi aumenti di stipendio solo per i dirigenti del ministero dei Beni culturali con contratti di tipo privatistico, allargando a dismisura la differenza tra i prescelti e non, con una conseguente e inevitabile soggezione dei primi nei confronti della politica. Saremmo curiosi di sapere come ci apostroferebbe il giornalista Vittorio Feltri che nel corso di una trasmissione televisiva definiva "scherzosamente" barboni i parlamentari per i loro compensi, in fondo di modesta entità se confrontati a tanti altri. E vorremmo anche sapere cosa pensano il presidente del Consiglio Monti e il ministro Severino che con rigore ritengono il denaro il giusto compenso al merito».
Ed ecco la conclusione: «I nostri meriti — spiace dircelo da soli — sono elencati in densi curricula e in un'altissima specializzazione che ci viene a parole continuamente riconosciuta. Ma allora come la mettiamo visto che anche il nostro ministero, pur avendone la possibilità, non ci ha riconosciuto nessuna progressione dimostrando così di non conoscerci e chiedendoci ancora oggi, la fotocopia del diploma di laurea e di perfezionamento?»
È stata questa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il dicastero dei Beni culturali ha appena avviato una specie di concorso che dovrebbe portare a una modesta (cento o centocinquanta euro) progressione meritocratica degli emolumenti. Ma per farlo ha chiesto ai suoi stessi direttori, archivisti, funzionari, archeologi, storici dell'arte, architetti e bibliotecari di fornire un incartamento con dentro non solo tutti gli incarichi di lavoro effettuati ma addirittura il certificato di laurea che, ovviamente, già possiede in qualche cassetto. Una piccola, stupida, crudele umiliazione burocratica supplementare.
Repubblica 9.3.12
Un saggio di Chiara Valentini sulla storia del rapporto tra donne e lavoro
Benvenuti nel paese dove fare figli è un lusso
Nell’Italia senza welfare la maternità è inconciliabile con una occupazione
L’Istat testimonia come 800mila sono state licenziate dopo la gravidanza
di Simonetta Fiori
tutta colpa delle donne? Lo sentiamo ripetere sempre più spesso. Sono le donne ad aver smesso di fare figli una quarantina di anni fa. Se oggi siamo un paese di vecchi, condannato al declino e demograficamente dipendente da "mamma Africa", è perché nella stagione aurea delle "leggi delle donne" - dal divorzio al nuovo diritto di famiglia - le italiane al biberon preferirono il lavoro. Questa delle culle vuote è un´analisi ricorrente. Non sono pochi gli studiosi che al calo della natalità cominciata negli anni Settanta fanno risalire moltissimi dei mali presenti. Magari senza intento colpevolizzante verso il femminile, ma il risultato cambia poco. Da allora è cominciata la nostra crisi, fino agli effetti nefasti di oggi. Ma la responsabilità è delle donne?
Ci aiuta a far chiarezza un documentato saggio di Chiara Valentini, O i figli o il lavoro, che ci mostra come in Italia - da noi e in nessun altro paese europeo - lavoro e maternità siano (e siano state) realtà inconciliabili, scelte esistenziali difficilmente compatibili, mondi che si escludono vicendevolmente (Feltrinelli, pagg. 220, euro 16, prefazione di Susanna Camusso). Oggi come quarant´anni fa, seppure con un rapporto tra le due entità molto diverso. Negli anni Ottanta c´era il lavoro, ma non le condizioni per coniugarlo con i figli. Oggi il lavoro manca del tutto - o meglio c´è quello precario, a scadenza, la peggiore soluzione per chi voglia programmare una nuova vita - e, quanto alle condizioni, tra "dimissioni in bianco" e "mobbing strategico", l´Italia del XXI secolo appare una galleria degli orrori. Grazie alla sua lunga esperienza giornalistica - prima a Panorama poi all´Espresso - e grazie ai suoi tanti libri sulla condizione femminile, l´autrice è molto abile nel comporre un diario di viaggio attraverso un paese dichiaratamente ostile alle mamme che lavorano. Una "guerra silenziosa" che contagia aziende insospettabili (il caso più recente è quello della Rai) e personalità di diverso rango, mietendo un numero di vittime inaspettato. È stato l´Istat a calcolare che più di ottocentomila donne sono state licenziate o costrette alle dimissioni dopo una gravidanza. E per chi impavidamente resiste, uffici e fabbriche possono anche trasformarsi in luoghi di tortura. Contro i quali lottano solo poche sentinelle disarmate, le cosiddette "consigliere di Parità", figure generalmente sconosciute su cui il saggio ha il merito di far luce, mostrando anche le pressioni ostili del precedente governo.
Oggi le donne non fanno figli perché non hanno lavoro stabile (e, quando lo trovano, spesso sono messe nelle condizioni di doverlo lasciare). Trent´anni fa non li facevano perché entrare nel recinto maschile del lavoro era una sfida importante, che non si poteva perdere. Il journal di Valentini non è meno interessante quando l´autrice diventa testimone del suo tempo. In quegli anni «non si usava lamentarsi né tantomeno protestare», perché lavorare era «l´assicurazione che non avremmo ripetuto la vita delle nostre madri, troppo spesso vissute all´ombra di un marito». Conquistare un ruolo impegnativo significava accettare una vita a dir poco stressante. E anche in quella stagione piena di speranze, non esistevano certo le discriminazioni di oggi ma certo ci si imbatteva in resistenze tenaci. Un´indagine dei primi anni Ottanta sugli imprenditori lombardi sottolinea che solo il 9 per cento era indifferente al sesso del lavoratore, mentre il 73 per cento ammetteva tranquillamente di preferire i maschi. La ragione? Le lavoratrici costavano troppo perché andavano in maternità o si assentavano per curare i figli piccoli. «L´arrivo di tante donne al lavoro avrebbe richiesto politiche sociali attente». Qualche tentativo fu fatto, ma sappiamo come è finita.
E allora non è vero che le donne non vollero più fare figli, più semplicemente non erano sostenute nel doppio lavoro. Per demolire un luogo comune radicato, basta scorrere le ricerche degli anni Ottanta sui desideri delle italiane. L´autrice cita l´Indagine nazionale sulla fecondità, dalla quale risulta che le donne nella grande maggioranza erano propense a fare due figli, ma poi dovettero rinunciarvi. Si trattava dunque di una "rinuncia", non di una "conquista". Una privazione rimasta per decenni nell´ombra - come tante altre rinunce delle donne - fino a quando ci si è accorti che aveva segnato il destino del paese. Ma era troppo tardi. E successivamente le cose sono andate anche peggio.
l’Unità 9.3.12
Due popoli due Stati
di Vannino Chiti
Sono ancora molti gli ostacoli che continuano a impedire la nascita, accanto allo Stato di Israele il cui diritto di esistere in piena sicurezza deve essere garantito anche dalla comunità internazionale di uno Stato autonomo palestinese.
Questo mio sentimento di preoccupazione esprime il bilancio di una serie di incontri che una delegazione del Senato ha tenuto a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah con rappresentanti della Knesset, dell’Autorità nazionale palestinese, con esponenti religiosi e della società civile.
Anzi, dirò di più: vi è l’impressione che la realizzazione di uno Stato palestinese non rappresenti più una priorità né per l’attuale governo israeliano, né per la comunità internazionale. L’attenzione è volta ad altre crisi, come le scelte dell’Iran per il nucleare, le persistenti difficoltà economiche-finanziarie, l’evoluzione della primavera araba. L’Unione europea viene avvertita come troppo assente, presa come è dalla necessità di far fronte alla crisi economica che la colpisce. Per di più il 2012 è l’anno delle elezioni presidenziali negli Usa: questa circostanza non fa certo essere ottimisti rispetto ad un ruolo statunitense per superare lo stallo nei negoziati. Riguardo all’amministrazione Obama, si registra anzi una delusione per lo scarto, divenuto troppo sensibile negli ultimi mesi, tra annunci e comportamenti concreti.
Questi ostacoli, come la ripresa di insediamenti in territori nei quali dovrebbe esercitare una sovranità lo Stato palestinese, stanno logorando credibilità e fiducia. Invece, la nascita di uno Stato per il popolo arabo di Palestina è l’altra faccia della medaglia del diritto di Israele a vivere in pace e in sicurezza: questo obiettivo non può essere all’infinito garantito dalla supremazia militare. Il diritto di Israele ad esistere in quelle terre non trova la sua giustificazione nella tragedia della Shoah, ma corre lungo i secoli della storia dell’umanità. Su questo aspetto non si può transigere: si tratta di un principio irrinunciabile, che ho voluto richiamare anche nella recente riunione dei presidenti dei Parlamenti dei Paesi del G20 a Riyad. Ho già detto dell’assenza di un ruolo forte dell’Unione europea: anche per questo vi è la necessità di un contributo e di un’azione dell’Italia. Gli esponenti politici palestinesi ce lo hanno chiesto con convinzione. Non si vuole né si potrebbe ottenere che l’Italia non sia amica di Israele: ci si domanda che sia «amica della pace», di svolgere un ruolo perché l’Unione sia maggiormente presente, non deleghi ad altri ma si impegni direttamente per raggiungere l’obiettivo dei due Stati per i due popoli.
Nel corso di questi colloqui, sono stati affrontati anche altri temi caldi dell’area, come il percorso di ricostruzione dell’unità nell’organizzazione palestinese, l’allarme non solo per Israele ma per tutto il Medio Oriente determinato dalle posizioni assunte dall’Iran a proposito delle armi nucleari, la situazione in Siria. Il veto posto da Russia e Cina sulla risoluzione Onu di condanna per il regime di Assad ha provocato incomprensioni e malessere nel mondo arabo.
Di queste giornate, mi resteranno forti impressioni anche personali: la visita al centro Mehwar di Betlemme, che opera contro la violenza sulle donne e sui bambini, realizzato e sostenuto dalla cooperazione italiana; la consegna degli attestati ai partecipanti ai corsi di formazione per operatori sociali, gestiti da Acli e Fondazione Giovanni Paolo II; la posa della prima pietra, sempre ad opera della Fondazione Giovanni Paolo II, per un centro sportivo, dopo aver costruito strutture socio-sanitarie; la possibilità che mi è stata data di discutere dei temi contenuti nel mio libro «Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo» proprio a Gerusalemme, casa di preghiera per tutti i popoli, come è scritto nella Bibbia.
Infine, l’ultimo atto del viaggio in Medio Oriente, l’omaggio allo Yad Vashem, memoriale della Shoah: la cerimonia di ravvivare la fiaccola e di porre una corona di fiori del Senato, non è stata formale. La commozione prende il cuore. L’impegno dello Yad Vashem è quello di restituire una identità personale alle vittime dell’Olocausto. È un atto di giustizia nei confronti di tanti innocenti brutalmente assassinati e una vittoria sull’ideologia nazista che voleva disumanizzare la persona. La memoria come fondamento della libertà e della pace, perché la barbarie non ritorni.
Corriere della Sera 9.3.12
Rinvio sull'Iran in cambio di armi, l'accordo segreto Netanyahu-Obama
di Francesco Battistini
Armarsi di pazienza. A tornare sui retroscena del lunedì scorso alla Casa Bianca, dove Netanyahu è andato per sapere se ci sarà semaforo verde a un attacco sull'Iran, una cosa si capisce: più che il rosso, Obama ha fatto scattare il giallo. Il premier israeliano lo considera un mezzo successo, ma forse è l'incasso minimo. Non potendo indovinare se Barack sarà rieletto, non potendolo convincere dell'inevitabilità d'uno strike preventivo, s'accontenta per ora d'averlo costretto a un segreto accordo armi-in-cambio-di-pazienza: se a Gerusalemme accettano di non bombardare prima del 2013, il presidente che verrà s'impegna a garantire gli eventuali rifornimenti in volo e soprattutto le Big Blue, le più potenti delle bombe antibunker, le sole capaci di colpire i siti atomici che gli iraniani hanno scavato nelle montagne.
La guerra s'è allontanata? Bibi è tornato dall'America con un dossier arricchito delle foto satellitari che, un giorno, potrebbero mostrare al mondo la «pistola fumante»: gli ayatollah stavolta hanno fatto un errore, dice Israele, e per la prima volta un occhio elettronico avrebbe scattato da lassù immagini d'attrezzature militari che, col nucleare civile, c'entrano punto. Per fortuna, l'autismo politico dei leader israeliani deve fare i conti con altri fattori. Uno è il parere dei loro governati, che nei sondaggi sono per la maggioranza contrari a blitz senza il consenso americano. Un altro, più cogente, è la situazione siriana: nessuno vuole aprire un fronte con l'Iran, finché la piccola Volpe di Damasco non finisce in pellicceria e le sue armi biologiche non finiscono in mani sicure. Per paura del dopo Assad, Netanyahu il temporeggiatore sta cercando un'intesa perfino col turco Erdogan, l'unico leader occidentale che detesta forse più di Obama. Questo weekend, Bibi passeggerà inquieto nella sua villa di Cesarea, le finestrate sugli scavi, l'occhio a cascare dove fu trovata una celebre lapide col nome di Ponzio Pilato. Gli pruderanno le mani, di certo. E dovrà tenerle in tasca. Ma non vorrà passare alla storia come il premier che se le lavò.
Corriere della Sera 9.3.12
L'«editto di Kabul» contro le donne E Karzai approva
Sessi separati, sempre accompagnate
di Davide Frattini
In famiglia il presidente Hamid Karzai segue già il codice di condotta promulgato dai religiosi afghani. La moglie Zinat non appare da anni in pubblico («Preferisce restare a casa con nostro figlio», spiega lui) proprio come ordina il documento stilato dal Consiglio degli Ulema: le donne non devono mai viaggiare senza che un parente maschio le accompagni ed è proibito per loro entrare in contatto con sconosciuti al mercato, a scuola, negli uffici.
Le regole ricordano l'Afghanistan dei talebani, che nei cinque anni al potere, fino al 2001, avevano imposto il burqa (un velo che copre dalla testa ai piedi) e impedito alle ragazze di ricevere un'educazione. Da allora gli attivisti locali e le organizzazioni internazionali hanno pressato il parlamento perché votasse leggi che garantissero i diritti delle donne. Leggi che lo stesso Karzai ha sostenuto e controfirmato.
Adesso il leader afghano appoggia il documento degli Ulema. Lo considera rispettoso della Sharia, le norme islamiche: «Non pone alcun limite alle donne. Sono regole valide per tutti i musulmani». I capi religiosi scrivono che «l'uomo è fondamentale e la donna secondaria». Ricordano che picchiare la moglie è proibito, «a meno che non ci sia una ragione ammissibile secondo i dettami islamici». Concedono che le donne hanno diritto «alla dignità e all'onore», «alla proprietà, al commercio, all'eredità».
E di scegliersi il marito. L'87 per cento delle afghane — rivela l'organizzazione Oxfam — racconta di aver subito violenze fisiche o psicologiche, di essere state forzate a un matrimonio che non volevano. Come le ragazze vendute ai trafficanti di droga per pagare i debiti dei padri, contadini che hanno cercato di arricchirsi con il traffico di oppio e hanno perso tutto. Nel 2011 ottantatre spose adolescenti si sono date fuoco nella provincia di Herat. Lo scorso novembre un rapporto delle Nazioni Unite denunciava che la legge contro la violenza in famiglia, adottata nel 2009, restava ancora poco implementata dalla polizia e dai magistrati.
«Il codice degli Ulema è contro le leggi afghane — commenta la parlamentare Shukria Barizkai all'Associated Press —. Karzai deve rispettare la Costituzione». Gli attivisti attaccano «il gioco politico cinico», che appoggia «la causa delle donne per continuare a ricevere i finanziamenti internazionali» e poi cede «agli elementi ultraconservatori dentro al palazzo presidenziale».
Il leader afghano aveva promesso di voler riformare il diritto di famiglia per dare più tutela alle mogli durante i divorzi. «Invece adesso le donne hanno paura di venire svendute», dice Heather Barr di Human Rights Watch. Svendute nelle trattative con i talebani, quel dialogo che Karzai (e ormai anche gli americani) considerano l'unica via di uscita dalla guerra. I diplomatici occidentali e il presidente hanno fissato le linee rosse per i fondamentalisti: devono, tra l'altro, accettare la Costituzione e dichiarare di essere pronti a rispettare i diritti civili. Fatana Ishaq Gailani, che ha fondato il Consiglio delle donne afghane, sostiene i negoziati: «Ma non possiamo essere sacrificate in nome di un accordo».
Gulnaz ha passato in carcere due dei dodici anni di condanna per aver denunciato il cugino del marito che l'aveva violentata. Karzai l'ha graziata lo scorso dicembre, i giudici le hanno consigliato (e il clan le sta imponendo) di sposare lo stupratore.
l’Unità 9.3.12
In arrivo lettere inedite tra Gramsci e la moglie
Caro Nino...siamo stati così poco insieme..». «Carissimo Antonio, oggi Delio ha compiuto dieci anni, si è svegliato e ha lanciato addosso al fratellino i cioccolatini...ti abbraccio forte forte». Sono piccoli frammenti di un carteggio inedito: circa 30 lettere segretissime che Julca Schucht, moglie russa di origini tedesche, ha inviato ad Antonio Gramsci durante la sua detenzione nelle carceri fasciste. Presto vedranno la luce. Antonio Gramsci junior, nipote del fondatore del Partito comunista, figlio del secondo genito, Giuliano, ha deciso di darle alle stampe. Lo annuncia a Cagliari, dove in occasione dell’Al Ard Doc Film, festival internazionale del cinema documentario palestinese e arabo, è stato protagonista di un progetto musicale legato all’influenza della musica araba sulla cultura europea. «Per ora l’idea della pubblicazione del carteggio è solo un progetto, ma sta per prendere corpo racconta il musicista, 46 anni, che vive a Mosca ho già scelto il titolo: “Siamo stati così poco insieme”. Una frase ricorrente nella loro corrispondenza, che ben rappresenta l’angoscia della separazione forzata».
UN RAPPORTO INTENSO
Le missive svelano un intenso rapporto tra loro e sfatano un falso costruito attorno alla vita coniugale: non è vero che lei non gli scrivesse. «Il rapporto epistolare tra mio nonno e mia nonna spiega il nipote era costante nel tempo». Racconta ancora che «alcune missive sono un capolavoro di spontaneità e poesia, sequenze che trasmettevano al politico imprigionato immagini di quella vita familiare che gli era stata negata dalla carcerazione». Attraverso poche frasi riusciva a veder crescere i suoi figli, sentirli vicini. «Dolce, ingenua, forte, dalla spiccata sensibilità artistica descrive Julca Antonio jr era una brillante violinista. Se una piccola tiratina d’orecchi posso fare a Gramsci, è di aver visto in lei solo una compagna di lotta e non piuttosto una sensibilità artistica». Ora Antonio Gramsci junior vuol portare in giro per il mondo il suo progetto musicale legato alla cultura araba.
Corriere della Sera 9.3.12
I «fagioli» in movimento che conservano i ricordi
Le nuove scoperte sull'architettura dei neuroni
di Massimo Piattelli Palmarini
Andiamo per un attimo con il pensiero a una vicenda che ben ricordiamo e che è vecchia di cinque o dieci anni o ancor più. Come fa il nostro cervello a ricordare quanto ci è successo tanto tempo fa? Se è per questo, come fa perfino a ricordare qualcosa che risale a poche ore addietro? Le neuroscienze hanno a lungo studiato i processi della memoria, mietendo una mole impressionante di eccellenti risultati. Restano, però, molti problemi di fondo ancora aperti e perfino dei paradossi. L'articolo oggi pubblicato sulla rivista scientifica internazionale «PLoS Computational Biology» da due fisici canadesi, Travis Craddock e Jack Tuszynski (Università di Alberta) e da un neuroscienziato e anestesiologo americano, Stuart Hameroff (Università dell'Arizona), promette di aprire una nuova frontiera in questo settore.
Detto molto semplicemente, questi studiosi offrono un modello teorico e sperimentale di quello che succede dentro i neuroni. Sì, abbiamo capito bene, hanno sondato quello che succede all'interno dei singoli neuroni responsabili della fissazione e della successiva salvaguardia delle tracce mnemoniche. Occorre, qui, forse, fare un passo indietro. Nel lontano 1949, uno dei padri delle moderne neuroscienze, il canadese Donald Olding Hebb, aveva individuato l'autografo cerebrale della memoria: la fissazione stabile dei ponti che si creano incessantemente tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. Il motto che lo ha reso famoso è «i neuroni che sparano insieme si sposano insieme» (in inglese è più grazioso: «neurons that fire together wire together»). In altre parole, due neuroni che si attivano allo stesso tempo, in uno stesso preciso momento, stabiliscono tra di loro un'alleanza stabile per il futuro. Attivate uno di questi, e anche l'altro risponderà prontamente all'appello.
Questo tipo di sinapsi si chiama, da allora, una sinapsi hebbiana. Ne è passata, da allora, di acqua sotto i ponti. Nel 1966, all'Università di Oslo, Terje Lomo e Timothy Bliss, studiando il consolidamento della memoria nell'ippocampo del coniglio, scoprirono il fondamentale meccanismo chiamato potenziamento a lungo termine (in gergo internazionale Ltp). Lo sposalizio tra i neuroni veniva da loro certificato su precise basi molecolari. Il problema, però, mi spiega Stuart Hameroff, è che molte di queste molecole della memoria (delle speciali proteine) vivono solo pochi minuti o poche ore, mentre i ricordi vivono molto più a lungo. Un paradosso, questo, che il lavoro oggi pubblicato conta di poter risolvere.
Entriamo, allora, con Hameroff e collaboratori dentro questi benedetti neuroni e dentro queste benedette sinapsi. Scopriamo un'architettura di grande complessità e di grande bellezza: i cosiddetti microtubuli, parte dello scheletro delle cellule, ma che, nei neuroni, assumono proprietà particolari. Sono colonne di forma esagonale, formate da moltissime molecole, le tubuline, che hanno ciascuna all'incirca la forma di un fagiolo. Questi fagioli possono essere ripiegati su se stessi o invece aprirsi. E lo fanno in modo contagioso, facendo aprire o chiudere altre tubuline lungo tutto il tubulo. Il loro passaggio dalla forma aperta a quella chiusa racchiude informazione e questa informazione si propaga lungo l'intero tubulo e può poi trasmettersi a un neurone successivo. Il processo è assai simile a quanto avviene in un microcalcolatore. È così che l'immagazzinamento e la trasmissione di informazione possono restare stabili anche su lunghi periodi, in certi neuroni anche lungo molti anni. La quantità di energia consumata è bassissima. L'articolo oggi pubblicato spiega tutto ciò in grande dettaglio, con illustrazioni degne di un grande disegnatore. Ecco quindi trovata, secondo questi scienziati, la soluzione del paradosso della memoria. Lascio la parola a Hameroff: «Abbiamo scoperto quello che sembra proprio essere il sito della memoria, il codice del ricordare, all'interno dei neuroni. Abbiamo scoperto la memoria, senza alcun paradosso». Poi aggiunge: «È forse solo un primo passo, ma le conseguenze possono essere molto importanti per capire il funzionamento del cervello, perfino per capire i fondamenti del linguaggio e della coscienza». Mi descrive anche le possibili applicazioni pratiche: «Il trattamento dell'Alzheimer e di altri disturbi del sistema nervoso, compresi i disturbi da stress post-traumatico. Diventerà forse possibile in futuro potenziare la memoria o, all'opposto, eliminare ricordi traumatici». Hameroff è autore di numerosi articoli e libri scientifici su quello che succede all'interno dei neuroni, uno di questi scritto a quattro mani con il noto fisico e matematico inglese Sir Roger Penrose (autore del discusso saggio La mente nuova dell'imperatore).
Nel comunicato stampa rilasciato ieri congiuntamente dall'Università dell'Arizona e dall'Università di Alberta, Hameroff non ha peli sulla lingua: «Molti articoli tecnici di neuroscienze concludono promettendo cure per l'Alzheimer e altri disturbi. Anche noi ora lo facciamo, ma questa volta potrebbe essere vero».
Tronchiamo di colpo l'intervista, perché deve andare in sala operatoria ad amministrare l'anestesia. Il camice che indossa e la mascherina che ora si porta davanti a bocca e naso sono verdi, un colore che ben si addice alle sue speranze.
Corriere della Sera 9.3.12
Epicuro, filosofo della serenità
Insegnava il piacere di esistere come assenza di affanni Accoglieva nella sua scuola anche le donne e gli schiavi
di Stefano Gattei
«N on esiti il giovane a filosofare, né il vecchio se ne stanchi. Nessuno, infatti, è mai troppo giovane o troppo vecchio per ricercare la salute dell'anima»: si apre così la Lettera a Meneceo, forse la più famosa di Epicuro. L'esercizio fondamentale cui egli invita i suoi seguaci consiste nel cercare distensione e serenità, nello sviluppare l'arte di godere dei piaceri, dell'anima e del corpo. Piacere della discussione, dell'amicizia, di una vita in comune anche con donne e schiavi (una vera rivoluzione, questa, rispetto alla scuola di Platone). Ma prima di tutto piacere della conoscenza, dell'esercizio della saggezza. La ricerca della salute dell'anima coincide con la presa di coscienza di ciò che di straordinario c'è in un'esistenza frutto del caso, che deve essere vissuta come una meraviglia che si realizza una volta sola, e va dunque accolta e festeggiata per quello che ha di unico e di insostituibile.
Non si trova, in Epicuro, l'esaltazione del piacere sfrenato, fine a se stesso, che volgarmente gli si attribuisce. Tutt'altro: proprio perché il piacere è principio e fine del vivere felice, non dobbiamo ricercare qualunque tipo di piacere, ma valutare ciascuno in base alle sue conseguenze, positive o negative. Il piacere, scrive il filosofo di Samo, «è quel sobrio modo di ragionare che esamina le cause di ogni scelta e di ogni rifiuto, e che scaccia le false opinioni per effetto delle quali le anime sono attanagliate dal più grande turbamento». Ma il travisamento è deliberato, e ha radici profonde. La filosofia epicurea, infatti, stride con la religione che si va affermando negli ultimi secoli dell'Impero romano, e va pertanto disinnescata: Lattanzio racconta di un Epicuro dedito al vizio e all'eccesso, e Girolamo accusa Lucrezio, suo principale discepolo nel mondo romano, di pazzia. Se Platone e Aristotele, pagani che credevano nell'immortalità dell'anima, possono essere «corretti» e accomodati dal cristianesimo trionfante, non così l'epicureismo. I suoi sostenitori non negano l'esistenza degli dèi, ma affermano la loro distanza dal mondo, condizione anzi della loro perfezione. Epicuro non rappresenta la divinità come potere creatore, dominatore, impositore della propria volontà sugli uomini, ma piuttosto come perfezione dell'essere supremo, felicità, incorruttibilità, bellezza, tranquillità. Il filosofo, ai suoi occhi, contempla gli dèi perché vi trova il piacere che si prova ammirando la bellezza, e il conforto che suscita la visione di un modello di saggezza.
Per Epicuro, a differenza che per Platone, la scelta socratica dell'amore e del bene è un'illusione: in realtà, l'uomo ricerca soltanto il proprio piacere e il proprio interesse. Da qui il ruolo della filosofia, che consiste nel saper ricercare il piacere in modo ragionevole, ovvero nel ricercare l'unico vero piacere, quello di esistere. L'uomo è infelice perché si affanna a cercare ciò che non ha o desidera ciò che è al di là della sua portata. O perché rovina il piacere di cui gode con il timore di perderlo. La filosofia ha una missione terapeutica: curare la malattia dell'anima e insegnare all'uomo il piacere di vivere.
Occorre distinguere — e qui sta il nocciolo dell'etica epicurea, in cui si avverte l'eco delle discussioni in seno all'Accademia platonica — tra i piaceri «in movimento», violenti ed effimeri, la cui ricerca porta solo insoddisfazione e dolore, e il piacere stabile, inteso come «stato di equilibrio», annientamento della sofferenza. Questo è per Epicuro un bene assoluto, che non può accrescersi né sommarsi a un altro piacere, «come un cielo sereno non può dare una luce più viva» (Seneca). Tale piacere si oppone agli altri come l'essere al divenire, il determinato all'indeterminato e all'infinito, il riposo al movimento; e corrisponde a uno stato di tranquillità dell'anima.
La minaccia maggiore alla felicità dell'uomo è un duplice timore — della morte, innanzitutto, ma anche delle decisioni divine. Per guarire l'uomo da questi terrori Epicuro elabora la propria teoria fisica, che non si propone dunque di rispondere a interrogativi oggettivi e disinteressati, ma costituisce il fondamento dell'etica. Riprendendo le idee dei Presocratici e in particolare di Democrito, Epicuro concepisce il mondo come un Tutto che non ha bisogno di essere creato, essendo infatti eterno, e che è costituito da infiniti atomi in moto in uno spazio vuoto. Nuovi corpi e nuovi mondi nascono dall'aggregazione accidentale degli atomi che, cadendo in linea retta per effetto del loro peso, deviano casualmente scontrandosi fra loro. E per lo stesso motivo continuamente si disgregano: nel vuoto e nel tempo, infiniti mondi appaiono e scompaiono, e il nostro universo non è che uno di questi. La deviazione dal moto rettilineo — che Lucrezio avrebbe chiamato clinamen — è introdotta al fine di spiegare la formazione dei corpi e di introdurre il caso nella necessità, fornendo così la base per la libertà umana.
La comprensione della natura consente all'uomo di liberarsi dal timore della morte, poiché l'anima, composta di atomi, al momento della morte si disgrega proprio come il corpo, perdendo ogni sensibilità: «La morte non è dunque nulla per noi, poiché quando noi ci siamo, la morte non c'è, e quando essa arriva, noi non siamo più». È la stessa teoria fisica ad annullare il timore degli dèi: essi non agiscono in alcun modo sul mondo, governato dal caso e in perpetuo divenire. La ragione conduce così alla pace dell'anima e alla gioia di essere associati agli dèi, che nella loro capacità di godere senza turbamento della propria perfezione realizzano l'ideale di vita epicureo. In questo modo, ha osservato il grande storico del pensiero antico Pierre Hadot, «il saggio, come gli dèi, affonda lo sguardo nell'infinità dei mondi innumerevoli; l'universo chiuso si dilata all'infinito».
Corriere della sera 9.3.12
Per lui l'universo era composto di infiniti atomi
Il quarto volume della collana «I classici del pensiero libero. Greci e latini», dedicata ai testi fondamentali del mondo antico, sarà in edicola con il «Corriere della Sera» il 10 marzo (al costo di un euro più il prezzo del quotidiano) e proporrà le Lettere sulla fisica, sul cielo e sulla felicità del filosofo ellenistico Epicuro (341-271 a.C.), con l'introduzione inedita dell'epistemologo Giulio Giorello. Proprio Giorello spiega il valore rappresentato dall'epicureismo per la scienza, a partire dalla constatazione che il filosofo «non è tanto un metafisico quanto un fisico». Erede della tradizione democritea, che interpreta però con fondamentale originalità, nelle sue Lettere Epicuro espone il proprio sistema di pensiero: la realtà è composta da atomi, gli dèi esistono ma sono indifferenti alle vicende umane, il mondo così come lo conosciamo è solo uno degli infiniti mondi possibili, e infine «bene è il piacere, ma non tutti i piaceri si devono scegliere», mentre il piacere supremo sta nell'atarassia, cioè l'assenza di turbamento, quel làthe biòsas, il «vivi nascosto» che è una delle massime più celebri del filosofo. Maestro per gli antichi, ispiratore del poeta latino Lucrezio, fu eclissato dalla cultura occidentale finché tornò a ottenere fortuna a partire da Spinoza. Una fortuna che continua ancor oggi, per la modernità e la sottigliezza di alcuni aspetti della sua teoria: ad esempio, come ricorda Giorello, nella originale tesi del cosiddetto clinamen, ripresa da Lucrezio (cioè la «deviazione» degli atomi che consente l'aggregarsi di differenti composti come criterio di combinazione del mondo), «qualche entusiasta ha letto un'anticipazione della interpretazione quantistica». Epicuro è un filosofo fondamentale per comprendere la tradizione del pensiero materialista e razionalista, ma è anche, più in generale, un campione antico dell'osservazione scientifica della realtà. Il prossimo volume in edicola sarà L'amicizia di Cicerone, giovedì 15 marzo, con prefazione inedita di Giorgio Montefoschi. (i.b.)
La Stampa 9.3.12
Charles Kupchan
Come sopravvivere nel mondo di nessuno
La globalizzazione ha consentito ai continenti rimasti indietro di recuperare il terreno perduto
La Cina non ha la forza economica, militare e culturale, e da sempre proietta le sue ambizioni in Asia
Nel suo nuovo saggio spiega che il XXI secolo non avrà padroni: un’idea che affascina e preoccupa
di Paolo Mastrolilli
Il secolo che stiamo vivendo non apparterrà a nessuno. Non sarà degli americani o degli europei, perché l’Occidente attraversa un declino economico e politico che lo priverà della preminenza di cui gode dal Rinascimento. Ma non sarà neppure dei cinesi, dei russi, degli indiani o dei brasiliani, perché nessuno dei Paesi emergenti ha i numeri per imporsi come nuova potenza dominante. Sarà più libero, nel senso che ognuno potrà svilupparsi secondo il modello che preferisce, ma anche più complicato, perché non esisterà un centro capace di garantire la stabilità, e i vari attori protagonisti sul palcoscenico non parleranno la stessa lingua in termini di valori universali condivisi.
È la visione, insieme affascinante e preoccupante, che domina l’ultimo libro di Charles Kupchan, studioso del Council on Foreign Relations e professore alla Georgetown University. Il saggio si intitola No One’s World, Il mondo di nessuno (Oxford University Press), ed è già diventato una lettura obbligata negli ambienti che fanno la politica estera americana.
Professor Kupchan, cosa aveva consentito all’Occidente di dominare il mondo?
«La supremazia occidentale, paradossalmente, era nata dalla debolezza politica. La borghesia nascente aveva rifiutato i poteri forti tradizionali, come la Chiesa, la monarchia, la nobiltà, e aveva limitato la loro influenza. Questo aveva consentito di creare una struttura moderna basata sul pluralismo religioso, le costituzioni, l’istruzione secolare, la ricerca scientifica, il sistema bancario che aveva finanziato la crescita del continente. Tutto ciò ha posto le basi per la rivoluzione industriale, che col colonialismo ha dato all’Europa il potere su scala mondiale».
Perché, dopo tanti secoli, questo modello non funziona più?
«Principalmente per la globalizzazione, che ha consentito ai continenti rimasti indietro di recuperare il terreno perso. Ora che questi paesi emergenti si sono ripresi sul piano economico, non seguono più necessariamente il nostro modello della democrazia liberale e del capitalismo. Nel Medio Oriente gli islamisti stanno traendo quasi ovunque i benefici della primavera araba, dall’Egitto alla Tunisia, passando per l’Iran, l’Iraq e persino la Turchia, che era un baluardo del secolarismo. In Cina c’è un regime autocratico con economia di mercato, mentre l’India e il Brasile, condizionati dalle grandi masse povere che li abitano, scivolano verso un populismo di sinistra spesso in contrasto con le posizioni occidentali. Trovare alleati è sempre più difficile».
Noi ci eravamo convinti che la democrazia e i diritti umani fossero valori universali, destinati ad affermarsi ovunque.
«Era la visione di Fukuyama e della fine della storia, ma si sta dimostrando un’illusione pericolosa. Se continueremo a credere che gli altri si allineeranno alla nostra idea di ordine internazionale, perderemo anche la possibilità di gestire questa transizione inevitabile del potere verso i paesi emergenti».
Eppure il presidente Obama tiene sul comodino il libro del neocon Robert Kagan «The World America Made », che nega il declino degli Stati Uniti, mentre il dibattito in corso tra i candidati presidenziali repubblicani non lascia spazio alle ipotesi di un ridimensionamento di Washington.
«Durante le campagne elettorali prevale inevitabilmente la retorica. Poi bisognerà fare i conti con la realtà».
I cittadini cinesi non finiranno col pretendere le nostre stesse libertà?
«Anche ammesso che questo avvenga, i tempi saranno estremamente lunghi. La transizione del potere verso i Paesi emergenti si completerà molto prima dell’evoluzione democratica delle loro società».
E cosa garantisce che la Cina, ad esempio, non cercherà di imporsi come potenza dominante?
«Non ha la forza economica, militare e culturale per riuscirci, e storicamente ha sempre proiettato le sue ambizioni nella regione asiatica, anche se giocherà come noi sulla scena globale».
Questo mondo di nessuno non sarà pericolosamente instabile?
«Di certo non è una buona notizia, per l’Occidente. Sarà sempre più difficile trovare intese e alleanze: basti pensare che negli Anni Settanta il G7 dominava l’economia mondiale, mentre adesso non basta il G20 a controllarla. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu verrà allargato, ma acquisteranno sempre più peso gli organismi regionali, come l’Asean, l’Apec, il Consiglio di cooperazione del Golfo, il Mercosur, l’Unione africana».
Cosa deve fare l’Occidente, per sopravvivere nel mondo di nessuno?
«Prima di tutto ricostruire la nostra forza economica e la nostra unità politica. La crisi degli ultimi anni ha provocato un pericoloso ritorno al nazionalismo e al populismo di destra, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Movimenti come la Lega Nord in Italia e il Tea Party in America si assomigliano molto, perché sono frutto dell’angoscia della classe media che vede sfumare le sue certezze economiche e sociali. Questa deriva però va rifiutata, perché indebolisce ancora di più l’Occidente».
Quale sarebbe invece la risposta giusta?
«I governi devono impegnarsi a realizzare politiche di crescita che rimettano al centro dell’attenzione il benessere della classe media, invece degli special interests di piccoli gruppi detentori di grande potere. Una ripresa economica equilibrata è il primo passo per ritrovare stabilità e forza politica. L’Europa, poi, ha bisogno di leadership capaci di rilanciare il progetto unitario, anche perché nessun paese del vostro continente è in grado di competere e vincere da solo sul palcoscenico globale».
Ammesso che l’Occidente riesca a rimettere in piedi la sua economia e la sua unità politica, come si difenderà poi nel mondo di nessuno?
«Gestendo la transizione. Una volta recuperata la forza perduta, potremo assumere la leadership del dialogo con le potenze emergenti, per definire i nuovi valori su cui basare gli equilibri globali. Non potremo pretendere l’adesione al modello della democrazia liberale come test di legittimità e inclusione nella comunità internazionale, o il concetto di responsabilità di proteggere che tanto preoccupa Russia e Cina. Però possiamo avere una definizione tradizionale di sovranità e la responsible governance, cioè l’impegno ad agire in favore della stabilità, che si può richiedere anche ai Paesi non democratici. Questo, almeno, ci restituirà un mondo gestibile».
il Fatto 9.3.12
Festival di Roma
Camerata con vista
In arrivo nel Cda l’ex missino Ronghi
di Malcom Pagani
Camerata Salvatore Ronghi? Presente. Dal 2010 nella Regione governata da Renata Polverini dove da segretario generale, in omaggio all’antica militanza nel Msi e nella Ugl, Ronghi percepisce 190.000 euro lordi l’anno. E ora, grazie all’amica di una vita, anche nel Cda della “Fondazione Cinema per Roma” dove, si intuisce dalla nomina, la competenza è tutto. Dal curriculum di Ronghi “non disponibile” sul sito istituzionale, ma comunque “pubblico” per aver attraversato lungo l’arco di un trentennio la politica napoletana (fu anche vicepresidente regionale) non emergono particolari afflati verso Kubrick o Scorsese. Semplicemente, Ronghi non si è mai occupato di cinema. Nelle recenti sortite elettorali nell’Agro Pontino a favore del candidato Sindaco di Minturno però, arringava idealista: “Non è più tempo di guardare a destra sinistra o centro, ma al bene della propria terra”. Parlava di se stesso. Di una logica mutuata nel tempo. Di un sistema. La manifestazione nata per essere stendardo elettorale di Veltroni e ora passata nelle mani della destra, corre infatti sdraiandosi su logiche uguali e contrarie a quelle già esplorate dal Centrosinistra.
COSÌ NEL PRIMO Cda convocato dal neopresidente Paolo Ferrari per lunedì prossimo, al punto numero tre dell’ordine del giorno spicca, anche per il linguaggio usato, la totale abdicazione del consesso alle cambiali pretese dalla coppia Alemanno-Polverini. “Presa d’atto della nomina da parte della regione del Consigliere Salvatore Ronghi”. Nero su bianco. Comune e Regione infatti finanziano un circo costosissimo (circa 15 milioni, molto più dell’omologo veneziano), fornendo circa un quinto della cifra complessiva. Però la memoria del Governatore laziale va a corrente alternata. Non dimentica di aiutare economicamente i sodali (Emiliano Fittipaldi dell’Espresso scoprì che anche la moglie di Ronghi, Gabriella Peluso, dirigente capo per la “Verifica e l'attuazione delle politiche regionali e del programma di governo” venne assunta in Regione sette mesi fa strappando il consorte – con “soli” 122.000 euro di soldi pubblici – allo strazio della solitudine), ma smarrisce rapidità, zelo e prontezza, quando si tratta di erogare denaro in presenza di patti scritti e controfirmati. Così da circa due anni la Regione La-zio non versa nelle casse del Festival un solo euro. Oltre al credito vantato nei confronti della Polverini (per ora l’insolvenza è coperta dalle banche) la rassegna romana piange per un non precisato buco di bilancio che alcuni definiscono “voragine”. Un milione e trecentomila euro. Esiste comunque un urgente problema di liquidità. Lo stesso che spinge Ferrari, prudentemente, ad apporre nell’Odg del 12 marzo la parola “rinvio” alla voce “bilancio previsionale”. Dopo aver minacciato disimpegno e taglio dei fondi se la soluzione Müller non fosse stata adottata, Renata Polverini ha per ora cambiato solo due consonanti. Da Rondi a Ronghi, senza percepibili esborsi. In attesa che la falla milionaria venga riempita, all’ex presidente Rondi 91enne (comunque consolato dall’incredibile incarico di “Commissario straordinario della Siae” gentile dono di Gianni Letta) viene riservato l’ultimo affronto.
Rondi lasciò a fatica la poltrona il 24 febbraio, nell’imminenza del Cda, parlando a titolo personale e dimettendosi senza nessuna ratifica ufficiale e senza che (forma e sostanza coincidono) il Consiglio si aprisse per ratificarne l’addio. Ferrari lo ignora e nella sua prima convocazione mette in discussione l’approvazione del “verbale n. 32”. Verbale che non c’è e se fosse stato trascritto integralmente racconterebbe con graffi inauditi le verità raccontate quel giorno da un Rondi improvvisamente consapevole.
“Il ricatto”legato al mancato stanziamento del denaro che il critico sostenne di aver subito dal Presidente della Bnl Luigi Abete, main sponsor della non memorabile reunion d’ottobre all’Auditorium e la brusca, contestuale, convocazione nelle stesse ore da parte di Gianni Alemanno. Il sindaco lo invitò a farsi da parte, Rondi corse inutilmente a cercar protezione da Ornaghi e infine, si “sacrificò” a suo dire “per salvare la festa”.
IN ATTESA di risolvere il giallo, si conosce già il nome dell’assassino. La politica in fila, oggi come ieri, per occupare un angolo di tappeto rosso. Se Alemanno e Polverini esultano e Muller, comunque abile, manovriero e competente, regalerà loro un’imitazione di veltronismo fuori tempo massimo, uno specchio elettorale in cui rimirarsi e l’illusione di aver contribuito a portare mercato e stelle a Roma (Tarantino avrebbe già dato il suo ok), altri sperano in queste ore. Lamberto Mancini, il direttore generale di Cinecittà Studios, ad esempio. Alemanno e Abete (che sogna di candidarsi a sindaco ma intanto, silente, nel ruolo di addetto stampa di Cine-città Studios fa lavorare spesso e volentieri anche la sua compagna Desireé Colapietro Petrini) gli hanno assicurato il via libera. Pare che Aurelio De Laurentiis (socio di Cinecittà insieme a Diego Della Valle) non sopporti Mancini e non ne piangerebbe l’esodo. L’interessato è pronto. Il conflitto d’interessi servito. Nuovo cinema Roma. Le mani sulla città. Dietro il sipario, le stesse logiche di ieri, riunite in assise plenaria, lunedì mattina, in Viale de Coubertin. Come diceva il barone: “L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi”.
Corriere della Sera 9.3.12
L'assalto, le violenze e la ferita del G8 «Il film sulla Diaz in risposta ai silenzi»
Il produttore Procacci: siamo fermi al «sorry» che pronunciò il vicequestore
di Aldo Cazzullo
Diaz, il film sul G8 di Genova, comincia con i black bloc. L'auto ribaltata, fracassata, incendiata. La fuga di un gruppo di ragazzi, tra cui un francese di colore. «È un personaggio reale — racconta il produttore, Domenico Procacci —. Abbiamo parlato con lui, ci ha spiegato molte cose su quelle giornate. Così come abbiamo parlato con i ragazzi della Diaz. E con alcuni tra gli agenti che fecero irruzione nella scuola. No, i nomi non li posso fare».
Il primo reparto di celerini che avanza verso la Diaz trova sulla sua strada un giornalista inglese. Viene colpito con violenza. Poi arriva il reparto successivo, e ogni agente si sfoga sul corpo riverso a terra. «Anche il giornalista è un personaggio reale, Mark Covell. Ha già visto il film. Ha pianto. Ma non abbiamo calcato la mano, anzi. Perché Covell subì, inerme, un terzo pestaggio, che nel film non c'è. Non ci sono neppure le scene più cruente di Bolzaneto, come i piercing strappati e le altre offese al corpo dei ragazzi fermati».
L'esito è comunque molto duro, destinato a suscitare discussioni, forse anche polemiche, quando il film — presentato al festival di Berlino, dove ha vinto il premio del pubblico — uscirà nelle sale, il prossimo 13 aprile. Anche se la notte della Diaz è raccontata da diversi punti di vista, sia da quello dei no global, sia da quello dei poliziotti. A cominciare da Michelangelo Fournier, il vicequestore che trovò il coraggio di raccontare, sino a parlare di «macelleria messicana».
Dice Procacci che «fin dall'inizio abbiamo cercato il dialogo con la polizia. E questo ci è costato l'attacco del comitato "Verità e giustizia per Genova". Quando hanno saputo che avevamo mandato il copione al capo della polizia Manganelli, hanno chiesto di poterlo vedere anche loro. Ho risposto di no, perché a quel punto avremmo dovuto sottoporre il lavoro a molte altre persone, che avrebbero finito inevitabilmente per condizionarci. Così ci hanno accusato di voler fare un film dalla parte della polizia. Ovviamente, non era così. Speravamo però di avere da parte della polizia una reazione. Invece nulla.
«Sulla mia scrivania tengo la lettera che il dottor Manganelli scrisse a Repubblica il 16 novembre 2008: "Credo che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L'istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva, non attraverso proclami via stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali". Purtroppo questo non è accaduto. La polizia ha lasciato che i reati andassero in prescrizione, senza dire una parola su quel che è accaduto davvero a Genova. In un'altra lettera, stavolta indirizzata a Beppe Grillo, il dottor Manganelli scrive: "Vi sono certamente responsabilità riconducibili ad appartenenti alla polizia". Però non è stato fatto nulla per chiarirle e riconoscerle, queste responsabilità. A oggi, l'unica parola di scuse resta il sorry che Fournier sussurra alla ragazza che soccorre Melanie Jonash a terra con la testa fracassata, un'immagine terribile che lo induce a fermare il massacro. E quel "sorry" nel film c'è, lo si ascolta, lo si vede. Anche se Diaz non arriva sino ai processi, è basato sulle risultanze processuali. Con il regista, Daniele Vicari, non abbiamo fatto un'opera a tesi, condizionata dai pregiudizi».
È vero che avrebbe voluto fare anche un film su Carlo Giuliani? «Abbiamo sviluppato un copione teso a raccontare come i suoi genitori (che avrei voluto vedere interpretati da Toni Servillo e Margherita Buy) abbiano lottato per anni nel tentativo, vano, di avere un processo per la morte di Carlo. Ma alla Rai non è piaciuto e quel progetto si è fermato lì».
«Non è un film contro la polizia, ma contro l'operato violento e criminale della polizia in quelle e, purtroppo, in altre circostanze. Proprio per lavorare in modo che episodi come la Diaz non si ripetano. Vorrei che il ministro Cancellieri vedesse questo film. Si possono fare delle cose concrete, a partire dall'adottare dei codici identificativi che permettano di riconoscere i poliziotti. C'è una frattura tra le forze dell'ordine e una parte del Paese e i fatti di Genova sono una delle cause di questa frattura. Bisogna lavorare per ricomporla, e non lo si fa col silenzio o la rimozione».
Fournier è impersonato da Claudio Santamaria, «che ha lavorato moltissimo per calarsi nella parte, anche fisicamente, è andato in palestra per irrobustirsi». Elio Germano invece è Lorenzo Guadagnucci, il giornalista del Resto del Carlino che prende un giorno di vacanza per andare al G8 e resta coinvolto nel pestaggio. Il film è girato quasi per intero in Romania, tranne qualche scena che non si poteva non fare a Genova. «Abbiamo avuto modo di verificare che la ferita in città è ancora aperta, la nostra presenza avrebbe creato tensioni che abbiamo preferito evitare — dice Procacci —. E poi uno dei due soci che hanno affiancato la Fandango è romeno. L'altro è francese. Rai e Mediaset o La7 finora non si sono fatte avanti, ma spero ancora di vendere i diritti televisivi. Abbiamo investito tanto, il film è costato più di 7 milioni di euro: di sicuro non ci guadagneremo. Ma sentivo di doverlo fare».
il Fatto Saturno 9.3.12
Sociologia politica
Fenomenologia del veltronismo
La biografia del fondatore del Pd come specchio per un bilancio, finora fallimentare, della “stagione democratica”
di Luca Telese
QUANDO Marco Filoni, con un sorriso eloquente, mi ha messo in mano la “biografia sociologica” scritta da Francesco Marchianò su Walter Veltroni perché ne scrivessi una recensione, sono rimasto interdetto e intrigato. Interdetto perché quel sottotitolo mi sembrava terribilmente ambizioso. Intrigato perché mi rendevo subito conto che Marchianò coglieva un tratto esemplare e rappresentativo che la storia politica di Veltroni e la sua ricchissima carriera indubbiamente hanno: se non è la storia di un popolo, infatti, si può senza dubbio dire che la storia politica del fondatore del Pd sia la biografia più adatta per raccontare la parabola di un gruppo dirigente tra la fine del comunismo e la breve (e per ora fallimentare) “stagione democratica”.
Marchianò disegna bene il profilo di questa vicenda, colleziona fonti e interviste importanti, ed è sobriamente simpatetico con il suo biografato. Il che non limita assolutamente la sua indagine ma, forse, la rende più interessante. Il libro inizia con i primi passi nella Fgci, ripercorre l’interessantissima vicenda (mai abbastanza approfondita) di “Net”, il consorzio di tv private vicine al Pci che Veltroni si trovò a dirigere (a 25 anni!), ripercorre l’ascesa folgorante nel gruppo dirigente berlingueriano, il ruolo nella Svolta, la prima (e le successive) “guerre veltrodalemiane”, la brillante direzione de «l’Unità», il governo dell’Ulivo (vicepremier), la segreteria dei Ds, la conquista di Roma, la fondazione del Pd. Che cosa suggerisce Marchianò con discrezione e regolarità, ripercorrendo queste tappe? Che in tutti questi passaggi importantissimi Veltroni ha sempre mantenuto un tratto eclettico, creativo e un filo di continuità “Nuovista” e “Oltrista” (oltre il Pci, oltre i Ds, oltre il giornale di partito, oltre il partito). Verissimo. Che cosa non dice? Un fatto che salta all’occhio in maniera lampante. E cioè che la sua stessa ricerca dimostra – con le importanti eccezioni della sindacatura capitolina e del lavoro a «l’Unità» – che tutte queste esperienze, malgrado un filo di continuità fortissimo e il grande sforzo inventivo, sono tutti fallimenti o opere incompiute.
Veltroni sa parlare, pubblica libri di successo, sa creare un immaginario come pochi altri, è di certo onesto e limpido, ma non mette radici. Veltroni è un geniale uomo di stampa e propaganda, per esempio, ma il consorzio delle tv private che avrebbe potuto essere una contro-Mediaset rossa fallisce. La lettura veltroniana della Svolta resta minoritoria e muore con quella occhettiana. La sua poco convinta sfida a d’Alema (lo dice lui stesso intervistato dall’autore) si risolve con una bella sconfitta e con un “patteggiamento” con il suo avversario. Esattamente come si riveleranno idee luminose ma incompiute: la “bella politica”, l’Ulivo dei cittadini, il secondo patteggiamento con D’Alema (tu vai a Palazzo Chigi, io vado a Botteghe Oscure), il sogno africano mai realizzato (che adesso lo insegue come una maledizione in qualsiasi invettiva internet) e, da ultimo, la costruzione ambiziosa e salvifica del partito democratico, prima vagheggiato, e poi inspiegabilmente abbandonato dopo la sconfitta delle regionali sarde: a metà strada, come un figlio negletto e con un vice che lo tradisce.
Siccome la storia non si può ridurre a macchietta, il libro di Marchianò illumina bene cosa è andato storto in tutti questi passaggi. Ma la risposta che a me viene in mente dopo aver compulsato l’ultimo capitolo è politicamente scorretta. E cioè che Veltroni sia uno di quei personaggi anche importanti, nella storia, che restano stritolati dalla sfortuna e da un difetto fatale. O, peggio, affondati a metà del guado mentre si cimentano in grandi imprese.
Si potrebbe obiettare che lo stesso destino è spettato al suo fratello-coltello Massimo D’Alema, ma questa non è certo un’attenuante, quanto piuttosto un’aggravante e una conferma del tratto “sociologico” (e io direi anche generazionale) di un fallimento: quello degli ex quarantenni e dei post comunisti. Sia D’Alema che Veltroni sono figli dell’apparato comunista, con la sua grandezza e i suoi limiti: entrambi sono figli parricidi del berlinguerismo (che orrore quelle parole semi-smentite di Veltroni sulla “maggiore modernità” di Craxi rispetto al segretario del Pci). Entrambi sono post comunisti che hanno cercato una nuova identità senza riuscire a trovarla e smarrendo se stessi nella ricerca. Veltroni nel suo kennedismo nazional-popolar-disneyano (definizione non dispregiativa ma elogiativa, per me). D’Alema nel suo socialdemocratismo posticcio, politicista e ultratattico (definizione oggettiva). Entrambi hanno giocato e hanno perso. Entrambi non hanno ancora capito la portata della loro sconfitta, e nessuno dei due si preoccupa del fatto che insieme a loro abbiamo perso tutti quanti. Veltroni (e D’Alema) sono stati dei modernizzatori mancati proprio perché non si sono accorti di aver fondato la loro politica su una identità abiurata (non ha spiegazioni logiche il “Non sono mai stato comunista” di Walter) e poi perché hanno cercato di costruire una nuova visione con vecchi metodi. Veltroni e D’Alema si sono combattuti con brillanti procedure da Comintern – sorrisi e pugnali – non hanno mai dato battaglia in campo aperto, non hanno mai capito fino in fondo che il fondamento delle leadership moderne sono il consenso, il coraggio, il rischio di perdere che comporta la rinuncia al ripescaggio “patteggiato”. Sono degli innovatori che hanno pensato di poter conquistare il centro con abiti postmoderni e modi di fare veterocomunisti. Un paradosso che se volete ha una sua grandezza, ma anche una sua miseria. L’Italia è cambiata mentre loro si ingrigivano. La prossima “biografia sociologica” da compilare, va detto all’ottimo Marchianò, è quella dei tecnocrati che stanno provando a estinguere la ricchezza della politica e la difficoltà della democrazia. Quando questa missione sarà compiuta, finirà che lo rimpiangeremo, Veltroni.
Francesco Marchianò. Walter Veltroni. Una biografia sociologica, Ediesse, pagg. 232, • 14,00
il Fatto Saturno 9.3.12
La stampa italiana tra fascismo e antifascismo
Giornalisati, questi smemorati
di Raffaele Liucci
SCHOPENHAUER DISSE che, se mai avesse dovuto armonizzare la propria filosofia con le direttive del governo, si sarebbe sparato un colpo in testa. Uno scrupolo quasi mai adottato, invece, dai giornalisti di casa nostra, sempre ben felici d’innalzare altarini ai papaveri di turno. Ce lo rammenta questo libro di Pierluigi Allotti su stampa e potere tra fascismo e antifascismo (1922-1948). Un lavoro tanto diligente nella ricerca archivistica e bibliografica quanto inequivocabile nelle conclusioni: i giornalisti italiani hanno sempre avuto «paura della libertà», preferendole il calduccio umido delle anticamere ministeriali. Del resto, come dichiarò nel ’28 l’ex giornalista Mussolini, «la stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime». È forse cambiato qualcosa da allora, in un paese che scorge nell’ossequio all’autorità la via migliore per scansare ogni responsabilità?
È una mappa del conformismo, della viltà e della piccineria, quella tracciata da Allotti, riesumando articoli dimenticati e disseppellendo imbarazzanti epistolari. Suo principale merito è aver messo ordine in una materia sinora dispersa in mille rivoli. Il nostro giornalismo ne esce davvero a pezzi. Prendiamo la vecchia guardia, che aveva esordito in età liberale. Mostri sacri del calibro di Mario Missiroli, Giovanni Ansaldo, Paolo Monelli, Augusto Guerriero. Di fronte alla dittatura fascista, quasi tutti «si compiacquero di perdere la propria indipendenza», ricorderà Aldo Valori, altro esponente di spicco di quella generazione (ma neppure il suo curriculum era immacolato). Alla faccia di chi, come Ma-rio Borsa, nel ’25 aveva ammonito che la libertà di stampa costituisce «la condizione prima ed essenziale per la purezza della vita pubblica». Quanto l’anglofilo e antifascista Borsa fosse considerato un alieno lo si vedrà nel 1945-46, durante la sua tormentatissima direzione al «Corriere della Sera», presto liquidata dai gattopardi dell’epoca.
Pure la nuova guardia (Vittorio Gorresio, Indro Montanelli, Virginio Lilli, Luigi Barzini junior, Orio Vergani e Dino Buzzati) non brillò per audacia e libero pensiero. Anzi, proprio perché troppo giovani per serbare il ricordo dell’Italia prefascista, costoro troveranno ancor più naturale vivere il giornalismo non come «quarto potere», bensì come «quarta arma» al servizio dello Stato littorio. Dalla guerra d’Africa a quella di Spagna, dalla campagna razziale al secondo conflitto mondiale, che molti seguiranno da inviati nei vari fronti, il catalogo dei servizi zelanti è davvero imbarazzante.
Le pagine più avvilenti del lavoro di Allotti restano quelle finali. Passata la buriana resistenziale, quasi tutte le penne compromesse con il trascorso regime saranno reintegrate nel giro di qualche anno. Le strategie difensive sfoggiate dinnanzi alle varie commissioni epurative furono talmente lambiccate e stravaganti da rasentare il ridicolo. Fu la vittoria dell’«Italia profonda», impegnata sin d’allora a coltivare una memoria indulgente e autoassolutoria del ventennio nero, ridotto alla farsa d’un uomo solo, di cui gli italiani erano stati vittime, mai complici. E poi, meglio «scurdarse ’o passato». Come scrisse Antonio Baldini sul «Tempo», era giunto il momento «di accendere un lumino ad olio davanti alla dolce immagine cristiana della Beata Dimenticanza». Amen.
Pierluigi Allotti, La stampa italiana tra fascismo e antifascismo (1922-1948), Carocci, pagg. 278, • 23,00
il Fatto Saturno 9.3.12
L’uomo che spara
di Alessandro Leogrande
NELLA PLACIDA STOCCOLMA di vent’anni fa, tra il 1991 e il 1992, un uomo armato di fucile laser inizia a sparare contro cittadini di origine straniera individuati a caso. Settimana dopo settimana gli attentati si susseguono. Il paese è sconvolto, la polizia è impreparata ad affrontare una minaccia del genere, dai contorni nebulosi. Solo a fatica prende il via “la più grande caccia all’uomo dall’omicidio di Olof Palme”. Ma chi è l’uomo laser? Perché spara? E perché contro gli immigrati? A queste domande il giornalista Gellert Tamas risponde con un romanzo-inchiesta di 500 pagine, L’uomo laser. C’era una volta in Svezia, best-seller in patria (dove ha venduto oltre 250 mila copie) e ora meritoriamente tradotto da Renato Zatti per Iperborea. Il killer si chiama John Wolfgang Alexander Ausonius e la violenza di stampo chiaramente xenofobo da lui scatenata ci dice qualcosa del cuore nero della società scandinava. Il pensiero corre immediatamente alla strage di Breivik dell’anno scorso, a quell’impasto di odio per il diverso, miti fascisti, paura dell’assedio o di qualcosa che viene percepito come degrado. Ma Tamas sposta l’asticella del racconto molto al di là della semplice ricostruzione cronachistica, intuendo subito che solo una dimensione meta-giornalistica, eminentemente letteraria, seppure ancorata alla realtà, può provare ad aggredire un tema così complesso. L’uomo laser è innanzitutto un viaggio nella biografia e nella psicosi di Ausonius, meticolosamente ricostruite senza aggiungere alcun artificio, senza concedere nulla alla fiction. Non è semplicemente “un pazzo”, l’uomo laser: ciò che l’ha spinto a fare ciò che ha fatto nutre gli istinti peggiori di un numero molto più vasto di persone, trova linfa in sub-idee, pregiudizi, isterie divenute spesso mainstream. A inquietare maggiormente è proprio l’aspetto di “uomo qualunque” di Ausonius. Il fatto che come lui potrebbero essercene, e ce ne sono, dalla Svezia all’Italia, dalla Francia all’Ungheria molti altri, in una Europa non sempre attrezzata a combattere il virus dell’odio etnico, religioso, razziale.
Ciononostante, c’è un momento in cui Ausonius, a differenza di (quasi) tutti gli altri, inizia a sparare. E Tamas sembra interessato a spiegare proprio il superamento di quella soglia. Perché un razzista diventa un assassino seriale? Quando avviene il salto? Senza cadere nella demonizzazione del “mostro”, Tamas ci restituisce la sua vita, scandaglia la sua biografia, fin dall’infanzia. E lo fa incredibilmente bene. La storia di Ausonius è la storia di una caduta verso la solitudine, la frustrazione, l’incapacità di stare al mondo, l’esplosione di una violenza irreprimibile e mal gestita. Ma, colpo di scena, è anche la storia di chi a sua volta è stato immigrato tedesco in Svezia, e apostrofato fin da bambino come “negro” per i suoi capelli scuri.
A volte la foggia dei capelli spiega tantissime cose, come intuì Pasolini nelle Lettere luterane. Quella di Ausonius per il colore dei propri è una vera e propria ossessione, cui prova a dar pace tingendosi di biondo: un biondo che sulle sue ciocche diventa carota, e quindi mai pienamente svedese. Sono proprio i penultimi a scagliarsi con odio contro gli ultimi? L’odio per altri immigrati più recenti è solo una risposta al proprio fallimento personale? Tamas non teorizza e non generalizza, racconta e basta. Ma, nel raccontare, suscita nei lettori molteplici interrogativi.
Gellert Tamas, L’uomo laser. C’era una volta in Svezia, Iperborea, pagg. 498, euro 19,50
L’autore presenterà il libro a Roma, con Goffredo Fofi, ospite del festival “Libri Come” domani alle 12 presso l’Auditorium Parco della Musica.