sabato 16 marzo 2013

l’Unità 16.3.13
Camere bloccate, chiusa
la via del dialogo con il M5S
Nulla di fatto alle prime cinque votazioni per le presidenze di Montecitorio e Palazzo Madama
di Simone Collini


Ipotesi asse tra Pd e Scelta civica per Dellai-Finocchiaro o Franceschini-Mauro
Le fumate nere sia alla Camera che al Senato, con i parlamentari del Movimento 5 Stelle che fin dalla mattina si tirano fuori da ogni trattativa, gli incontri riservati tra le altre forze parlamentari e in particolare tra Pd e Scelta civica, la Lega che si propone come mediatore tra centrodestra e centrosinistra e il Pdl che rinuncia a presentare propri candidati ma chiede un Presidente della Repubblica «di garanzia», fino ad arrivare a metà pomeriggio all’ipotesi Mario Monti presidente del Senato e Dario Franceschini della Camera, che però in un paio d’ore cede il posto a quella che vedrebbe Anna Finocchiaro sullo scranno più alto di Palazzo Madama e Lorenzo Dellai su quello di Montecitorio. Ma poi c’è anche un colloquio al Quirinale tra Giorgio Napolitano e Monti (formalmente per discutere del vertice di giovedì a Bruxelles, ma non è mancata una discussione sulla giornata appena trascorsa e sulle possibili prospettive) e poi ancora una serata e una notte di riunioni di partito e tra i partiti, di telefonate e incontri nell’estremo tentativo di giungere a un’intesa in vista delle votazioni di oggi, che saranno decisive.
FALSA PARTENZA
La prima giornata della diciassettesima legislatura si chiude con un nulla di fatto. Solo i parlamentari di M5S votano i loro candidati, Roberto Fico alla Camera (108 e poi 110 e 113 voti su un totale di 109 grillini) e Luis Alberto Orellana al Senato, mentre tutti gli altri partiti vanno avanti a forza di scheda bianca e in serata non rimane che registrare tre fumate nere a Montecitorio e due a Palazzo Madama.
Per eleggere i presidenti dei due rami del Parlamento, ieri, servivano la maggioranza dei due terzi dei deputati e quella assoluta dei senatori. Non è stato possibile che si determinassero né l’una né l’altra: perché l’offerta di «corresponsabilità e condivisione» del Pd ai Cinquestelle è caduta nel vuoto («al Senato noi voteremo il nostro candidato e se non sarà al ballottaggio non voteremo alcun candidato», ha fatto sapere di primo mattino il capogruppo M5S Vito Crimi) e perché la trattativa tra Pier Luigi Bersani e Mario Monti è andata avanti per tutto il giorno senza che si trovasse un punto d’incontro.
A complicare le cose, di fronte a un Pd che si è mostrato disponibile a «rinunciare a una delle Camere per una convergenza», per dirla con Nicola Latorre, è stata anche la duplice richiesta avanzata dal leader di Scelta civica. La prima: il Professore ha chiesto che fosse lui a ricoprire il ruolo di seconda carica dello Stato. La seconda: nei ragionamenti di Monti le scelte sulle presidenze delle Camere vanno collegate alle prospettive sul governo coinvolgendo anche il Pdl.
Due punti, quelli posti dal premier, che hanno trovato freddo il Colle da un lato (le dimissioni di Monti da presidente del Consiglio aprirebbero uno scenario senza precedenti) e il Pd dall’altro («la nascita di un governo di larghe intese con il dialogo tra Pd e Pdl» di cui parla Andrea Olivero è proprio ciò che non vuole Bersani). I nodi verranno sciolti oggi. Il colloquio serale tra Napolitano e Monti è terminato con la rinuncia del premier a correre per il Senato.
IL PASSO INDIETRO DI MONTI
Ma stamattina il Professore riunirà gli eletti di Scelta civica per decidere se proporre al Pd un altro nome per Palazzo Madama (tra le ipotesi c’è Mario Mauro, inviso al Pdl visto che ha lasciato Berlusconi per passare con Monti ma che essendo stato vicepresidente del Parlamento europeo avrebbe il profilo più adatto, e Linda Lanzillotta) oppure se andare verso lo schema Finocchiaro-Dellai. Quale che sia la discussione maturata nella notte, lo schema che verrà confermato oggi dovrebbe essere quello derivante da un accordo tra Pd e Scelta civica.
OGGI SARANNO ELETTI I PRESIDENTI
Questo pomeriggio, quando non servirà più la maggioranza qualificata per eleggere i presidenti dei due rami del Parlamento (alla Camera basterà la maggioranza semplice, al Senato alla quarta votazione si andrà al ballottaggio tra i due più votati) verranno infatti riempite le due caselle e potrà partire l’attività parlamentare. E a meno di stravolgimenti di strategia nella notte sarà non più, come era nello schema originario di Bersani, sotto il segno di una «corresponsabilità» del Movimento 5 Stelle, rispetto al quale nella giornata di ieri era rimasto soltanto il leader di Sel Nichi Vendola a prospettare un coinvolgimento istituzionale.
Le due presidenze delle Camere assegnate a Pd e Scelta civica farebbero comunque mantenere in campo l’ipotesi a cui Bersani lavora dal giorno dopo le elezioni, e cioè quella che prevede la nascita di un governo di scopo costruito attorno a otto punti qualificati (e sui quali il Pd organizzerà per oggi e domani due giornate di mobilitazione) che potrebbero essere votati anche dai Cinquestelle.
Rimarrebbe il problema di incassare la fiducia al Senato, dove il centrosinistra e Scelta civica partono da 143 voti favorevoli. Come potrebbe partire Bersani? È qui che entrerebbe in gioco la Lega. Anche se Anna Finocchiaro smentisce sue trattative con il Carroccio (anche se Roberto Calderoli ha prospettato la sua elezione al Senato e un esponente Pdl alla Camera) non è un segreto che Roberto Maroni vuole evitare di tornare alle urne in tempi brevi. E che negli incontri che ci sono stati tra leghisti e democratici si è parlato anche dell’ipotesi di una fiducia tecnica. Ci si può fidare della Lega? In parte, si capirà già da come andranno le votazioni di oggi.

l’Unità 16.3.13
Il Pd appeso fino all’ultimo
E ora crescono i dubbi
I renziani critici verso le aperture ai grillini, i giovani turchi chiedono un rinnovamento più netto anche per le candidature dei democratici
di Maria Zegarelli


Una navigazione a vista così spericolata non si era mai vista. E nessuno aveva previsto che a creare l’onda più pericolosa per il segretario Pd Pier Luigi Bersani fosse il premier ancora in carica Mario Monti che ieri ha puntato i piedi sulla presidenza del Senato. Bersani ieri lo ha sentito più volte, ha cercato di spiegare al Professore che la sua elezione a Palazzo Madama comporterebbe le immediate dimissioni da Palazzo Chigi e l’interim sarebbe un’ulteriore complicazione. Un confronto serrato, andato avanti fino a tarda sera, «Mario fai tu dei nomi alternativi al tuo», il messaggio. Sia alla Camera sia al Senato, «noi siamo disponibili», Monti si è riservato la decisione dopo il colloquio con il Colle da cui arriva un deciso alt. «Adesso aspettiamo risposte da parte dell’unica forza politica, Scelta civica, che si è detta disponibile ad una corresponsabilità nei ruoli istituzionali», racconta a fine serata uno dei fedelissimi di Bersani.
Bersani salta da un incontro all’altro, ogni tanto si allontana per concedersi una boccata di sigaro, su twitter posta: «Il problema è fare un governo, ma bisogna anche governare. Ci sono cose urgenti da fare subito e stiamo perdendo settimane».
Oggi ci sarà il primo passo, l’elezione dei due presidenti delle Camere, che sarà anche un primo segnale sul governo che sarà. Schemi che si creano e si sgretolano nel giro di poche ore, con i grillini che si chiamano fuori, un pezzo del Pd (i giovani turchi soprattutto) che cercano fino alla fine di lasciare quella porta aperta, con Pippo Civati che prova pure lui a fare da pontiere, ma alla fine alza le mani, «impossibile parlarci con il M5S, però a questo punto spero che il mio partito mostri coraggio e avanzi candidature nostre nuove», cioè no Finocchiaro e Franceschini.
Mugugni sul nome dell’ex segretario del Pd anche da parte del fronte renziano che nei capannelli reclama un segno «di svecchiamento» concreto. Simona Bonafè dice che la gente «non capisce questa discussione, vuole atti concreti», chiude all’ipotesi della Camera ai grillini «senza avere le garanzie del voto di fiducia». Un tema, quello del M5S che ha agitato non poco i democrat, spaccati tra coloro che sono convinti che si sarebbe dovuto votare uno del Movimento senza chiedere nulla in cambio, e chi è convinto che per inseguire Grillo il Pd abbia già subito troppe umiliazioni.
Bersani sa che sta percorrendo l’ultimo tratto di questo strettissimo vicolo in cui è entrato dal giorno del voto, sa che nel Pd c’è chi lavora a scenari diversi dal suo, chi punta Renzi ad un governo del Presidente che porti ad elezioni a ottobre, non oltre, per rimettersi in gioco. Se andasse in porto un governo Bersani in grado di resistere oltre l’autunno (ipotesi in cui credono in pochi) per Renzi si aprirebbero troppe incognite e nessuna leadership può attraversare indenne un tempo così lungo.
A fine serata i molteplici schemi ipotizzati nell’arco dell’intera giornata si riducono sostanzialmente a due, saldati sull’unico asse che Bersani riesce a formare: Pd-Scelta civica. Se Monti (o uno dei suoi) va al Senato Franceschini resta confermato alla Camera, se invece al Senato va Anna Finocchiaro è probabile che alla Camera il presidente diventi Lorenzo Dellai, neodeputato eletto con Lista Civica. In entrambi i casi Bersani avrà ulteriori fronti interni da gestire e mai come ora il Pd rischia la sua stessa tenuta.
Lo sconcerto che si legge negli occhi di questa enorme pattuglia di neodeputati democratici che arrivano alla Camera per l’insediamento del Parlamento è l’immagine più forte di questo esordio di legislatura. Tre fumate nere a Montecitorio e due a Palazzo Madama e per tutto il giorno il Pd dà l’idea di navigare seguendo una stella non più le cinque del carro grillino che nessuno conosce bene, «noi non sappiamo nulla», assicura Bonafé. Dice una deputata bindiana: «Lo sanno soltanto Pier Luigi Bersani e i suoi più stretti collaboratori cosa sta accadendo, a noi non dicono nulla, la riunione del gruppo l’altro giorno è durata dieci minuti e questo la dice lunga».
Un balletto di supposizioni, fantasmi che aleggiano, come quello di un governo che nasce con il supporto di PdlMontiPd, «e questa sì che sarebbe la fine per noi», riflette Matteo Orfini. Cresce la sofferenza di chi ha già mandato giù a fatica l’apertura ai centristi in campagna elettorale ma Bersani va avanti per la sua strada, «abbiamo provato ad aprire un dialogo con il M5S ma da lì sono venute soltanto chiusure», è il ragionamento.
Quando incontra Enrico Letta e Dario Franceschini, nel suo studio nella Corea, riceve l’ok. «Adesso Monti deve dirci cosa intende fare. Se è disposto a indicare un nome per la Camera noi lo votiamo», assicura Franceschini. Poco dopo arriva anche una delegazione centrista formata da Pier Ferdinando Casini, Lorenzo Cesa e De Poli. Solo un incontro interlocutorio perché l’ultima parola se la riserva Monti.

il Fatto 16.3.13
Bersani, sbiadisce il sogno governo
Pd lacerato, tratta con Prof e Lega
Franceschini vuole Montecitorio
di Wanda Marra


Nico Stumpo e Davide Zoggia, i fedelissimi di Pier Luigi Bersani, si guardano intorno, appollaiati su uno degli scranni di Montecitorio. Entrambi neo deputati hanno l’aria di chi rimpiange i corridoi del Nazareno. Tanto prevedibili nelle loro infinite battaglie all’ultimo sangue. Qui è il Parlamento e ci sono pure gli altri. Mentre finisce la seconda votazione alla Camera, con i Democratici che votano diligentemente scheda bianca (anche se appare qualche Dario Franceschini in mezzo a qualche Andrea Orlando e pure a Enzo Lattuca, il più giovane democratico eletto) tramonta definitivamente l’ipotesi di “corresponsabilità” con i grillini a cui il segretario e i suoi stavano lavorando con tanta pazienza. “Sì, ormai i canali sono aperti con i montiani, dai grillini è no e basta”, conferma Zoggia. Apertura della Camera con lacerazioni, divisioni, incertezze e amarezze per il Pd. E il nuovo perdente di rito. Bersani arriva presto alla buvette, si ferma a scambiare due parole con Bruno Vespa sul Papa, dà una pacca sulla spalla al figlio di un neo onorevole: “Deputato anche tu? ”.
LA FACCIA tirata, lo sguardo scarico, dicono tutto, come fa notare maliziosamente più tardi un renziano. In Transatlantico è il caos più assoluto. Nel gruppo democratico ci sono tantissime facce nuove, ma non c’è traccia d’euforia. “Se non ci mettete pressione, prendiamo una decisione”, prova a sdrammatizzare il giovane turco Andrea Orlando. Per loro la linea la dà Matteo Orfini, neo deputato anche lui: “Siamo per votare alla presidenza della Camera un 5 Stelle anche con atto unilaterale”. Gli ex popolari (e non solo loro) sono tutt’altro che d’accordo. Dario Franceschini che su quella carica ci ha messo gli occhi in un’epoca precedente, non ci rinuncia. Veltroniani ed ex popolari (più o meno) stanno con lui. La trattativa è nelle mani di Bersani, di Migliavacca, di Errani. Nel rumore incessante del Transatlantico sembra quasi impossibile trovare un filo. “Non abbiamo una strategia, che stiamo facendo? ”, commenta una giovane democratica. Mario Monti vuole la presidenza del Senato. Nel Pd per una volta sono tutti contrari. Corre il panico lo stesso: se il Pd non lo vota, casomai lui si va a cercare i voti del Pdl. I Democratici vacillano, oscillano. “Noi non ci stiamo a votare così, per favorire un partito. Vogliamo valutare la persona”, commenta il neo eletto renziano, Carbone. Loro c’hanno l’aria di chi osserva dal di fuori come va a finire. Senza convinzione. “Perdiamo tempo così? ”, si chiede Matteo Richetti. Le trattative proseguono. A Monti arriva lo stop. In pole position per Palazzo Madama c’è Anna Finocchiaro, che sarebbe votata dalla Lega. I bersaniani intravedono una nuova via d’uscita: governo di minoranza con i voti del Carroccio e di Scelta Civica. Un montiano, lo metterebbero sul seggio più alto di Montecitorio. Riappare Bersani. Una passeggiata per il Transatlantico. Una battuta: “Il problema è fare un governo, ma intanto bisogna anche governare. Servono misure urgenti”. Vertice improvvisato con Letta e Franceschini nel tardo pomeriggio. Bisogna far ingoiare a quest’ultimo la non elezione per dare Montecitorio a un centrista. Lui resiste. Intanto l’incontro finale dei gruppi che doveva essere in serata, slitta in nottata. Poi, a stamattina alle 8 e mezza. Vendola che in Senato 7 seggi ce li ha fa sapere che lui vuole dare Montecitorio ai grillini. E poi, vota la Finocchiaro con la Lega?
I GIOVANI turchi buttano la loro bomba: “Né Finocchiaro, né Franceschini. Non li votiamo”. “Non dovevano puntare su due d’apparato”. Parola del vecchio deputato calabrese, Gigi Meduri. “Monti deve dire che vuol fare. Si deciderà in nottata” spiegano dal Pd.

La Stampa 16.3.13
Il Pd tratta con Monti e guarda al Carroccio
Ipotesi Dellai-Finocchiaro e governo con i voti lumbard
I quarantenni: serve un segnale di cambiamento
I giovani turchi pronti al golpe: votiamo la Boldrini
di Carlo Bertini


«Ormai è chiaro che il problema non sono più i grillini, loro hanno detto che se ne fregano e tirano dritti da soli. Quindi con loro il discorso è chiuso, ora il problema è Monti e Scelta Civica, vediamo cosa vogliono fare». Pierluigi Bersani per tutto il giorno tenta l’ultima mediazione, tiene i contatti col Professore per capire se può sacrificare la candidatura di Dario Franceschini alla Camera per far posto a quella di un montiano come Lorenzo Dellai e puntare al Senato su una candidatura forte e gradita anche ad altre forze politiche come Anna Finocchiaro. Anche perché sullo sfondo si affaccia l’ipotesi del tutto nuova di un possibile governo a guida Pd che possa magari incassare non solo i voti dei montiani ma anche un placet della Lega. Ma fino a tarda sera il rebus delle presidenze delle Camere resta aperto e il Pd rischia di implodere sotto una serie di terremoti sotterranei che potrebbero venir fuori allo scoperto stamani alla riunione dei gruppi congiunti Pd-Sel. Perché sull’opzione che tiene banco per ore di procedere con l’accoppiata Franceschini-Monti non solo c’è l’ostilità dei renziani, ma anche una metà del gruppo Pd è pronto alle barricate, con una saldatura tra «giovani turchi», rottamatori e molti dei nuovi arrivati, che chiedono a gran voce un segnale di rinnovamento. E nel caso di rottura di ogni accordo con i montiani, se verrà proposto il tandem Franceschini-Finocchiaro sorgerà un altro problema: i «giovani turchi» sono pronti al «golpe», lanciando candidature alternative e sostenendone altre di Sel come Laura Boldrini, «perché altrimenti daremmo un segnale negativo a chi ci ha votato e senza i voti di Vendola non si elegge nessuno», minaccia Orfini.
E dopo un vertice di un’ora tra Bersani, Letta e Franceschini, allargato a Casini e Cesa e dopo contatti a tutti i livelli tra i leader ecco cosa resta sul campo: «Sembra ferma la candidatura della Finocchiaro, su quella ci sarebbero anche i voti della Lega. Per il resto aspettiamo che Monti ci dia una risposta su altri candidati alla Camera come Dellai», racconta uno dei papabili alla carica di capogruppo del Pd. Perché è nota l’irritazione del Professore per una soluzione diversa da una sua candidatura al Senato, alla quale però difficilmente il Pd potrebbe dire di sì senza rischiare la spaccatura. Ipotesi che perde vigore non solo per le complicazioni istituzionali che comporterebbe, ma per la netta ostilità in seno al partito di affidare una carica del genere a Monti «che potrebbe prefigurare una diversa maggioranza col Pdl per assetti futuri di governo», spiega un bersaniano. Mentre tenere il Senato e concedere la Camera a Scelta Civica sarebbe una soluzione che metterebbe d’accordo anche i pasdaran del Pd, perché, ammette Stefano Fassina, «certo andare su Dellai e Franceschini sarebbe una opzione più accettabile, anche perché vorrebbe dire che Monti sarebbe pronto ad appoggiare un nostro governo». «Tutti mi chiedono se i leghisti sarebbero disposti ad appoggiare anche un governo Bersani e non solo della Finocchiaro», ammette Daniele Marantelli, che vanta i migliori rapporti col Carroccio, dopo esser stato convocato al vertice dei «giovani turchi» con Fassina e Orfini.
Proprio questo è l’elemento di novità di una giornata avvolta nella nebbia: lo stesso Bersani sembra essere ormai conscio che il tentativo di formare un «governo del cambiamento» con il placet dei grillini sia molto in salita e ammette che il Paese ha bisogno di un governo. «Mentre qui discutiamo di cose nobili, l’economia va a rotoli e bisogna prendere in fretta delle decisioni». Anche se i suoi uomini quando si parla della fine di ogni apertura ai grillini in chiave di governo e di un esecutivo del Presidente affidato alla Finocchiaro fanno notare che «la scelta delle presidenze e il tema dell’esecutivo non sono legati per forza tra loro: sul governo te la devi giocare rischiando e non è detto che se cambi uno che ha vinto le primarie con qualcuno che magari prende pure i voti del Pdl diventi tutto più facile, anzi... ».

Corriere 16.3.13
Democratici alla conta. Bersani «chiama» la Lega
Il no a Franceschini dei «quarantenni» di Orlando
La strategia del leader per l'esecutivo
di Maria Teresa Meli


ROMA — Le divisioni sono il pane quotidiano del Pd, ma ieri, per la prima volta, una fronda consistente è uscita allo scoperto. È guidata dai cosiddetti «giovani turchi», i quarantenni della sinistra bersaniana che non intendono votare Dario Franceschini alla Camera.
Minaccia Matteo Orfini conversando con i compagni di corrente: «Stiamo preparando un golpe». Spiega Andrea Orlando: «Per carità io non ho niente di personale contro Finocchiaro e Franceschini. Sono due stimabilissime persone, però non ci si può presentare con le loro due candidature: sanno di «vecchio» e invece ci vuole assolutamente un segno di discontinuità, a meno che non vogliamo che Grillo raggiunga l'80 per cento». Chiude il cerchio Stefano Fassina: «Lorenzo Dellai alla Camera e Anna al Senato. Questa è una buona ipotesi, a patto ovviamente che Monti dia il via libera». Il lettiano Francesco Boccia concorda: «Bisogna dare un segnale di rinnovamento: Finocchiaro al Senato è inevitabile perché ha i voti della Lega, mentre alla Camera Dellai sarebbe una soluzione». E sembra una soluzione anche allo stesso segretario e al suo vice Enrico Letta, che parlano con Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa per capire se nel fronte montiano ci sia chi può convincere il premier ad accettare questa soluzione che ieri mattina lo aveva fatto andare su tutte le furie, perché Dellai era stato contattato dal Pd senza interpellare prima lui.
Ma se il presidente del Consiglio dovesse rimanere irremovibile e non dare questo via libera? «Allora — spiega a un capannello di deputati Matteo Orfini — proponiamo qualcun altro, uno nostro o uno di Sel». Così in questa giornata più che convulsa qualcuno fa il nome di Andrea Orlando, ma lui smentisce. Dario Franceschini, però, non è pessimista: ritiene che Monti non darà l'ok all'operazione Dellai e che il golpe contro di lui fallirà. Anche perché difficilmente Bersani potrebbe sbarrargli il passo se l'ipotesi di un montiano alla Camera dovesse tramontare. Del resto, il leader del Partito democratico lo aveva già detto l'altro ieri ad alcuni deputati: «Noi cerchiamo la corresponsabilità, andremo con Franceschini e Finocchiaro solo se saremo costretti perché non vi saranno le condizioni per fare altrimenti». Ecco perché Franceschini non dispera. Tant'è vero che tra il serio e il faceto incrociando un giornalista di un quotidiano di centrodestra gli dice: «Mi tratterete meglio del mio predecessore?».
Ma nei corridoi di Montecitorio non si parla solo delle presidenze delle Camere. Infatti c'è già chi pensa al governo. «Bisogna farlo velocemente perché i problemi sono veramente troppi e urgenti. Occorre governare questo Paese», spiega in Transatlantico Pier Luigi Bersani. Non più con i grillini: quel tentativo è naufragato. «È un discorso chiuso», precisa il leader. E allora? E allora il gruppo dirigente del Partito democratico punta ora ad aprire un canale di comunicazione con la Lega. Nessuno chiede i voti al Carroccio, perché si sa che questo è impossibile, però in cambio di un nono punto nel programma di Bersani (sul federalismo e le macroregioni), i senatori leghisti, con qualche assenza ben calcolata ed evitando di dare la sfiducia, potrebbero consentire al governo di prendere il via. Bersani, che a Montecitorio incontra Umberto Bossi e ha un lungo colloquio con Giancarlo Giorgetti, sgrana gli occhi quando gli si chiede se vuole avviare un dialogo con la Lega. Però non smentisce con particolare fermezza nè con eccessiva veemenza. E infatti i giornalisti non interpretano il suo come un «no».
Dunque la Lega. Che non vuole andare alle elezioni e che ha bisogno di due anni di tranquillità. Nichi Vendola quando sente dell'ultima trattativa non sbarra la porta: «Vediamo», si limita a dire il leader di Sel. In questo clima il deputato più ricercato è Daniele Marantelli, varesotto, grande amico sia di Roberto Maroni che di Umberto Bossi. I «giovani turchi» lo invitano alla loro riunione per capire quali potrebbero essere le vere mosse del Carroccio. La domanda che gli viene rivolta più frequentemente è questa: «Ma la Lega darebbe un via libera solo a un governo Finocchiaro o anche a un governo Bersani». Il nodo non si scioglie. E comunque un po' tutti nel Partito democratico pensano che questa soluzione sia molto complicata da spiegare all'elettorato di centrosinistra.
A questo punto in una parte del Pd aleggia un sospetto: che sotto sotto il segretario abbia in mente quella che è stata ribattezzata scherzosamente la soluzione Zabriskie Point. Il riferimento è alla scena finale del film di Michelangelo Antonioni: quella in cui una villa salta in aria. In questo caso a saltare in aria sarebbero tutte le opzioni diverse dalle elezioni a giugno. C'è chi giura che Bersani in realtà punti a questo, con l'intenzione di guidare il centrosinistra verso nuove elezioni.

Repubblica 16.3.13
Stop di Bersani alle larghe intese ma nel Pd è scontro sull’addio a Grillo
I renziani: era ora. Giovani Turchi: nomi nuovi per le Camere
di Giovanna Casadio


ROMA — Esce per prendere una boccata d’aria fuori dall’aula di Montecitorio, Bersani. I collaboratori lo raggiungono con un pacco di agenzie sulla crisi che morde, sul muratore trapanese suicida... e il leader democratico allontana per l’ennesima volta l’ipotesi di un governo delle larghe intese: «Il problema non è fare un governo, ma governare per fare delle cose subito, noi comunque un po’ il giaguaro l’abbiamo smacchiato...e finché io sto qui non permetterò le larghe intese anche se so che nel mio partito qualcuno ci pensa». Bersani è irritato con D’Alema e con lo “schema B” per uscire dall’impasse politico. Il “lider Maximo” - autorottamato e non più parlamentare - smentisce seccamente con una nota d’agenzia di occuparsi di queste faccende. Sono le 12,30, Bersani ha finalmente un colloquio telefonico con Monti. I renziani parlano di svolta: «Gli è finito il torcicollo verso i grillini», dicono.
Finito davvero? Non ci sarebbe voluto neppure «questo traccheggiare» sulle schede bianche, per i renziani. Ma Matteo Renzi fa da pontiere con i suoi: «Non mi metto a litigare sulle schede bianche, preferisco lavorare sui cantieri bloccati dal patto di stabilità, però così - si sfoga - rischiamo il suicidio». Della fine ormai certa di una possibile alleanza con Grillo, sono contenti il vice segretario, Enrico Letta e Dario Franceschini. Scontenti i “giovani turchi” -Fassina, Orfini, Orlando - che apprezzano invece la dichiarazione di Vendola arrivata come lo squarcio di un fulmine nel pieno della tempesta, del tutto attesa: il centrosinistra dovrebbe votare il grillino Fico. Un manifesto programmatico, non una disobbedienza. Nella giornata più lunga, il Pd finisce sulle montagne russe delle prove di accordo per le presidenze delle Camere. Ma soprattutto Bersani si gioca il tutto per tutto. E nel partito è cominciata la fine della tregua.
«Era in un vicolo cieco, Pierluigi. Con la mossa dell’apertura ai montiani esce dalla trincea, dall’isolamento », ragiona Paolo Gentiloni. Ma per fare cosa? Può ancora andare da Napolitano a chiedere un incarico per un governo di minoranza guidato da lui? I renziani sono sostenitori di un “governo del presidente”. Matteo Richetti, braccio destro di Renzi, lo racconta così: «Bersani è come uno che ha un pezzetto di insalata sul dente a fine pranzo: tutti si danno di gomito indicandolo, ma nessuno ha il coraggio di dirglielo». Avrebbero dovuto essere insomma gli stessi bersaniani ad avvertirlo che la strada era sbagliata.
La partita istituzionale per le presidenze, prima ancora di quella per il governo, si intreccia al destino del leader del Pd. Anche se la resa dei conti sulla leadership - dicono tutti - non è in agenda subito. Tra qualche settimana. C’è molta carne al fuoco democratico. Un giro di riunioni, incontri, colloqui tra leader distanti che si scoprono in sintonia. Scomposizione e nuova composizione delle correnti. Ad esempio, sulla necessità di convincere Franceschini a fare un passo indietro in nome dell’accordo per il montiano Dellai alla Camera e la pd Anna Finocchiaro al Senato il fronte sembra ampio. «Dario fa un passo indietro? Decide l’assemblea di tutto il centrosinistra con Sel e il Centro di Tabacci», si meraviglia Antonello Giacomelli, ex capo della segreteria di Franceschini.
Alle 17,20 Bersani convoca nell’aula della Camera in una pausa delle votazioni, i deputati Orfini, Fassina, Cuperlo e c’è anche il varesino Daniele Marantelli ufficiale di collegamento con la Lega. Dicono al segretario: «Onestamente, non possiamo riproporre i vecchi capigruppo per le massime cariche, Franceschini e Finocchiaro ». Si fa il nome di Andrea Orlando, ligure, responsabile Giustizia del partito. Pippo Civati, che è al primo giorno da deputato ma con un curriculum politico lungo da “rompiscatole” nel partito - come lui stesso ammette - dichiara che piuttosto voterebbe una faccia nuova montiana e non i soliti noti democratici. Scoppia un putiferio di polemiche, copione collaudato. Ma questa volta la posta in gioco è alta: per Bersani, e per il futuro di un Pd
che non ha saputo portare il centrosinistra alla vittoria e arginare lo tsunami grillino. Nella riunione con Letta e Franceschini (Casini passa per un saluto) che alle 20 chiude la giornata politica di Bersani, è il vice segretario a riconoscere: «Dario è chiaro che ci tiene alla presidenza di Montecitorio, è il candidato più accreditato, però se in cambio c’è l’accordo con Monti, sarà pronto ad accettare».

La Stampa 16.3.13
Il capolavoro della confusione
di Marcello Sorgi


Il caos che per tutto il giorno di ieri ha accompagnato l’apertura della legislatura, e la fallita elezione dei due presidenti delle Camere, non deve impressionare: era in qualche modo scontato che le prime votazioni si sarebbero risolte in fumate nere, così come è certo, o almeno molto probabile, che stasera conosceremo i nomi della seconda e della terza carica dello Stato. Quello della seconda, in serata, correva di bocca in bocca nei corridoi del Senato: Anna Finocchiaro. Donna e senatrice di grande esperienza, già capogruppo del Pd, ha trovato il consenso, non solo del suo partito, ma a sorpresa anche della Lega Nord, realizzando un’inedita convergenza bipartizan tra sinistra e destra che è il miglior viatico per l’ascesa a un ruolo istituzionale. E collocandosi, se sarà eletta, in pole position per la guida di un governo di tregua come quello che Napolitano tenterà di formare a partire dalla prossima settimana.
Perché allora, se si era delineata una prospettiva, s’è lasciato che la giornata precipitasse nella confusione più totale, senza un filo di comunicazione, né di interlocuzione, tra le forze politiche che avrebbero dovuto affrontare e risolvere il problema? Una dopo l’altra, tutte le ipotesi messe in campo sono naufragate senza speranza. Bersani, il leader della «vittoria mancata» del Pd, è partito dall’idea di agganciare il Movimento 5 Stelle con l’offerta della presidenza della Camera e coinvolgerlo nell’elezione del presidente del Senato, che nei suoi piani avrebbe dovuto essere un esponente della lista di Monti, possibilmente l’ex capogruppo del Pdl Mario Mauro, passato con il partito del presidente del Consiglio. Ma Grillo non gli ha dato ascolto, ha dato ordine ai suoi di votare per i candidati del M5S e basta. Quanto a Monti, a sorpresa, ha detto che non avrebbe accettato un’intesa solo con il centrosinistra e s’è candidato in prima persona alla presidenza del Senato.
Oltre a preoccupare Napolitano per le conseguenze delicate che provocherebbe (Monti dovrebbe dimettersi da Palazzo Chigi, affidando provvisoriamente la guida del governo a un vicepresidente ad interim da nominare in extremis, forse il ministro dell’Interno), l’imprevista ambizione del premier, manifestata in assenza di un patto politico per realizzarla, ha ulteriormente complicato le cose. Il regolamento del Senato prevede infatti che dalla quarta votazione in poi venga eletto presidente in un ballottaggio il candidato che raccoglie più voti. Teoricamente, se il Pd, per non ritrovarsi a votare insieme con il Pdl, dovesse decidere di votare per un proprio candidato, Monti potrebbe essere eletto lo stesso con i voti dei suoi senatori e di quelli berlusconiani, che scenderebbero in suo appoggio al solo scopo di mettere ancor di più in difficoltà Bersani. Ed é anche per questo che la Lega, in dissenso, s’è detta pronta a confluire sulla Finocchiaro.
Una partita così complicata - una specie di terremoto che prosegue per successivi smottamenti - ha nel Pd il suo epicentro. Il partito che ha la maggioranza assoluta alla Camera (grazie al premio elettorale del Porcellum) e quella relativa al Senato avrebbe potuto agevolmente puntare ad eleggere autonomamente due suoi esponenti, come forse alla fine dovrà fare. Ma forse anche per lasciarsi le mani più libere nella successiva corsa per il Quirinale, ha scelto legittimamente di confrontarsi e di allargare la ricerca di una soluzione condivisa. Puntando tuttavia sull’unico interlocutore - Grillo - che in tutte le salse gli aveva preannunciato un «no» pregiudiziale, e dando per scontato un alleato Monti - che, pur consultato, non aveva dato alcuna disponibilità. Così facendo Bersani è andato a sbattere contro un primo e un secondo muro.
Il terzo lo ha visto alzarsi in nottata all’interno del suo partito. Se voleva a tutti i costi far presiedere la Camera da un grillino - gli é stato fatto notare - non doveva far altro che votare subito per il candidato del M5S. Se invece pensava di approfittare dell’occasione favorevole, e intanto portare a casa le due presidenze per due esponenti del Pd, non avrebbe dovuto perder tempo appresso a Grillo, e una volta incassato il primo «no», ripiegare sui propri candidati, Finocchiaro al Senato e Franceschini alla Camera. Però, a questo punto, dopo aver presentato all’esterno per giorni e giorni la scelta dell’alleanza con Grillo come una ineludibile svolta di rinnovamento imposta dai risultati del voto, la proposta dei due rispettabilissimi ex-capigruppo della scorsa legislatura per la promozione alle presidenze delle Camere rischia di essere attaccata perchè troppo conservatrice, o non necessariamente audace, come appunto il voto degli italiani avrebbe richiesto. Parola più, parola meno, è quel che non pochi parlamentari del Pd hanno fatto notare a Bersani nell’assemblea notturna dei gruppi. Con il risultato finale che a Franceschini è stata opposta la candidatura di Andrea Orlando, e che oggi, nella votazione in cui i 345 deputati del partito dovrebbero eleggersi da soli il loro presidente, basterebbero una trentina di franchi tiratori per impallinarlo.
Si sa, la politica italiana è complicata, e il passaggio dalla logica «militare», si fa per dire, delle coalizioni maggioritarie, a quella più tradizionale del proporzionale e della partitocrazia, non l’ha certo aiutata a migliorare. Ma un simile capolavoro, all’inaugurazione di una legislatura nata già zoppa, va oltre qualsiasi previsione. Comunque vada a finire, una sola cosa è certa: Grillo ringrazia. Alle prossime elezioni - non ci vorrà poi molto - in uno dei suoi spettacoli, gli basterà far rivedere il film di questa giornata per accrescere i suoi voti.

Corriere 16.3.13
I leader di Pd e Pdl e il «punto d'incontro» per tornare al voto
Perché il Cavaliere è pronto a far passare i candidati democratici per le presidenze
di Francesco Verderami


Bersani e Berlusconi vanno dannunzianamente verso le elezioni. Un passo alla volta, perché il tacito patto rimanga al riparo dagli imprevisti, dai giochi di quanti nei rispettivi partiti vorrebbero ribellarsi a un destino che appare già segnato. Per garantire l'accordo serve che ognuno faccia la propria parte, e anche ieri — sulle presidenze delle Camere — i due acerrimi alleati hanno tenuto fede al copione.
Se è vero che i leader del Pd e del Pdl puntano al voto in giugno per garantirsi la rivincita, devono infatti affrettarsi e non perder tempo con un braccio di ferro sulle presidenze delle Camere, che contano poco o nulla in questa legislatura nata moribonda. Così Bersani ha inviato a Berlusconi un messaggio che è stato recepito: per consentire il rapido disbrigo della pratica, l'idea è di affidare gli scranni di palazzo Madama e di Montecitorio a esponenti del Pd, «ma solo per stabilizzare le istituzioni e avviare i lavori parlamentari, pronti a sacrificare le nuove cariche se fosse necessario».
E c'è un motivo se in serata il Cavaliere ha pubblicamente dato il benestare all'operazione, annunciando che il Pdl «si chiama fuori da ogni trattativa di spartizione delle cariche istituzionali». Le sirene montiane — che volevano sparigliare la partita del Senato — stavano tentando di far presa su una parte del Pdl sensibile alle lusinghe del premier, desideroso di restituirsi a un ruolo terzo in vista della corsa al Colle. Palazzo Madama sembrava alla portata del Professore, o almeno così credeva, dato che Bersani gli aveva offerto il posto. Ma si è trattato di un sofisticato gioco politico messo in atto con la (tacita) complicità dell'acerrimo alleato.
Il segretario del Pd, infatti, non poteva non sapere della contrarietà di Napolitano all'idea che Monti abbandonasse Palazzo Chigi, e ha lasciato che il premier ci sbattesse il muso. Perché il capo dello Stato è trasalito quando si è visto produrre dal premier una serie di documenti che — a detta del Professore — consentivano il trasloco, ed ha opposto il veto al termine di un colloquio burrascoso. A quel punto Bersani, che teorizzava l'affidamento di una Camera all'opposizione, ha offerto a Monti un'altra opzione: quella di indicare un esponente di Scelta Civica per lo scranno di Montecitorio, «magari Dellai».
Era una proposta vera o solo una messinscena? Perché il capo dei Democrat non è parso sorpreso al termine dell'ennesimo rendez vous con il premier, che ha dato fumata nera: «Monti — ha commentato — pensa soltanto a se stesso. Doveva essere una risorsa, è diventato invece un ostacolo. Un problema». Ed è un convincimento che si sta facendo strada anche nei gruppi parlamentari centristi, dove cova ormai un certo malcontento verso il leader. Eppoi, il Professore, non si era detto disponibile alla presidenza del Senato «solo» se fosse stato votato anche dal Pdl?
Ma né Berlusconi né Bersani hanno interesse a dare centralità e ruolo politico ai montiani, che il voto ha reso irrilevanti: il loro obiettivo semmai è di spartirsi le spoglie del centro in vista delle urne. È questo il senso dell'offerta per la Camera avanzata dal capo del Pd a Scelta Civica, così da precostituire un accordo politico per le prossime elezioni. D'altronde tutte le mosse di Bersani inducono a prefigurare un repentino finale di legislatura: pur di non fare il governo con l'acerrimo alleato ha tentato il patto coi diavoli, con Grillo e con la Lega, portabandiera dell'antieuropeismo. Due strade senza via d'uscita.
Certo, il Carroccio — pur di non tornare al voto — sarebbe disposto a garantire il numero legale al Senato, ma oltre non potrebbe andare. È vero che nel Palazzo se ne son viste tante, però un governo Bersani-Monti con l'appoggio esterno di Maroni appartiene alla sfera onirica, dato che il leader della Lega è da poco giunto al Pirellone grazie al Cavaliere. Perciò, se ogni variabile è già stata bruciata, se anche «il governo del presidente» per cambiare la legge elettorale «farà la stessa sorte - come anticipa il pdl Rotondi — perché né Bersani nè Berlusconi vogliono cambiare il Porcellum in questa delicata situazione», non restano che le urne. Entrambi hanno già pronta la campagna elettorale. Il leader del Pd accuserà i grillini di irresponsabilità, e così farà Berlusconi, il cui profilo dialogante piace agli elettori: «Lo dicono i miei sondaggi».
Rimane una piccola questione da risolvere: il Quirinale. Scartato Prodi, che — secondo il Cavaliere — «nutre un odio viscerale nei miei confronti», messi da parte Amato e D'Alema, non c'è che Napolitano. È vero che il capo dello Stato ha più volte detto di non volersi ricandidare, «ma se lo votassimo — sostiene Berlusconi — come potrebbe opporsi alla rielezione?». Anche i montiani l'hanno capito, «e a quel punto — spiega un autorevole dirigente centrista — se restasse l'unica opzione, sarebbe lui a portarci tutti al voto in giugno».

l’Unità 16.3.13
Ineleggibilità
In giunta la grillina Fucksia non dice nulla sul Cav


La notizia, in tarda mattinata, è arrivata da alcuni membri della giunta provvisoria: nel corso della riunione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato la rappresentante del M5S, Serenella Fucksia, non ha sollevato la questione dell’ineleggibilità del leader del Pdl, Silvio Berlusconi. In mattinata su Facebook il capogruppo di M5S, Vito Crimi, aveva affermato che avrebbero sollevato la questione, appellandosi alla legge del 1957 sull’ineleggibilità in caso di conflitto di interessi. Nel corso della riunione di giunta si è
invece affrontata solo la questione dei subentri dei senatori. A norma di regolamento la giunta provvisoria non decide della ineleggibilità, «ma lei avrebbe potuto porre il tema, eccome», dicono da Palazzo Madama. La notizia esce sul web e su facebook si punta il dito sulla grillina. Di Pietro rilancia: «Perché oggi in Parlamento nessuno ha sollevato la questione della ineleggibilità di Berlusconi?». Mentre Crimi diffonde una nota: «Lo faremo, oggi la giunta poteva solo valutare le opzioni dei senatori eletti in più di una circoscrizione, nulla di più».

Repubblica 16.3.13
Perché Berlusconi era ed è ineleggibile
di Giovanni Valentini


È RISAPUTO che la legge non è uguale per tutti. Basta disporre di buoni avvocati, molti soldi, e non fai un’ora di galera. Berlusconi è un caso limite ma illuminante.
(da “Il Grillo canta sempre al tramonto” di Dario Fo, Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo – Chiarelettere, 2013)

Da quando viene pubblicata questa rubrica, e cioè ormai da più di dodici anni, avremo detto e ridetto centinaia di volte – qui o anche prima in altre pagine del giornale – che Silvio Berlusconi era ed è ineleggibile, cercando di spiegarne la motivazione giuridica. Ora, con l’avvento dei “grillini” sulla scena politica, la questione è tornata (finalmente) all’ordine del giorno e molti la scoprono soltanto adesso come la classica acqua calda, confondendola con il problema irrisolto del conflitto di interessi. E naturalmente, si riapre anche l’annosa “querelle” sull’opportunità di sconfiggere il Cavaliere sul piano politico piuttosto che per via giudiziaria.
Chiariamo subito che un conto è l’ineleggibilità e un altro conto è il conflitto di interessi. Berlusconi è ineleggibile, a norma della legge n.361 del ’57 tuttora in vigore, non perché sia un imprenditore o comunque un uomo ricco. Ma per la sostanziale ragione che aveva e ha lo status di concessionario pubblico, titolare di un contratto con lo Stato: di conseguenza, non può essere eletto al Parlamento, cioè non può far parte di quel potere legislativo che deve controllare il potere esecutivo, da cui dipende la regolamentazione delle sue aziende private.
Si tratta, dunque, di un principio tanto elementare quanto fondamentale. Non è una legge “ad personam”, contro il Cavaliere. È una legge “erga omnes” che vale per tutti coloro che si trovano nella stessa condizione, sia che si tratti di concessioni televisive sia di concessioni ferroviarie o di qualsiasi altro genere. Ed è stata già applicata in tante altre situazioni minori.
Il fatto è che nel ’94, quando Berlusconi entrò per la prima volta alla Camera, la Giunta per le elezioni di Montecitorio – a maggioranza di centrodestra – decise con un escamotage che a lui la legge del ’57 non si doveva applicare. Per il semplice motivo che formalmente il Cavaliere non risulta titolare delle concessioni tv
“in proprio o in qualità di legale rappresentante della società” di cui è proprietario.
Sarebbe bastato aggiungere una riga per estendere esplicitamente la norma anche all’azionista di riferimento, ma il Parlamento non ritenne di farlo né allora né in seguito. Neppure quando il centrosinistra conquistò la maggioranza, sebbene di poco e per poco, considerando ormai archiviata la pratica. Fu certamente un errore e qui non abbiamo mancato a suo tempo di rilevarlo e di contestarlo.
Poi viene la questione del conflitto di interessi. Ma questo riguarda qualunque imprenditore o finanziere che si trovi ad assumere una carica politica o amministrativa, per cui è opportuno che affidi a un “blind trust” (o fondo cieco, come lo chiamano i capitalisti americani) la gestione del suo patrimonio mobiliare o immobiliare per tutta la durata del mandato, in modo da evitare favoritismi o vantaggi. Per il concessionario pubblico, in particolare in un settore politicamente nevralgico come quello della comunicazione televisiva, il problema non si pone neppure: nel senso che dovrebbe essere risolto alla radice, appunto in forza della normativa sull’ineleggibilità.
E infine, la polemica sulla “via giudiziaria”, già innescata in passato per Bettino Craxi & C. all’epoca di Tangentopoli. Per quante colpe si possano addebitare ai magistrati italiani, o meglio a una parte di loro, la verità è che Berlusconi non è “perseguitato” – come dice lui – dalla magistratura perché è entrato in politica, ma al contrario è entrato in politica proprio per non essere perseguito dalla magistratura: cioè per sottrarsi alle accuse che riguardano la sua attività pregressa di impresario televisivo, a cui si sono aggiunte poi quelle più recenti di corruzione politica. Ed è di tutto ciò, appunto, che deve rispondere ora alla giustizia.

l’Unità 16.3.13
Volantini alla Camera: no al vincolo di mandato
«Art. 67: ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».


Semplici fogli di carta, e a grandi caratteri in grassetto il cuore dell'articolo 67 della Costituzione. Sono i volantini comparsi alla Camera, e lasciati sui divani del Transatlantico. Non si sa chi sia l'autore, ma il destinatario sembra evidente: Beppe Grillo e il suo attacco alla libertà di mandato degli eletti.
Non a caso si sente costretto a intervenire sull’argomento il
capogruppo incaricato del Movimento 5 Stelle al Senato, Vito Crimi, conversando con i giornalisti a Palazzo Madama: «Noi non abbiamo mai parlato di una modifica dell'articolo 67 della Costituzione, il vincolo di mandato è un elemento importante ma, come tutte le cose in Italia, è stato deviato e deformato».
Crimi ha anche ipotizzato un sistema di «recall» per i parlamentari ad opera dei cittadini che li hanno eletti nell’ottica di una maggiore trasparenza dei lavori parlamentari e dell'attività politica.

l’Unità 16.3.13
Dal cappio all’apriscatole
Le provocazioni in Aula
«Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno», scrive Grillo sul web
E l’arnese spunta su uno scranno, insieme alla spilletta dei 5stelle
di Toni Jop


Come in una sorta di sbilenco calendario cinese, eccoci giunti – se i segni del tempo non mentono come gli uomini – nell’era dell’Apriscatole. L’hanno inaugurata ieri sui banchi del Senato i portabandiera della new wave grillina che hanno provveduto a installare con pazienza didascalica un messaggio destinato ai posteri. L’immagine, poi, ha fatto il giro del web e ha certamente superato i confini del piccolo mondo antico che si chiama Italia. Un robusto apriscatole, affidabile, e accanto una spilletta del Movimento Cinque Stelle; il tutto, adagiato sul legno abusato dell’aula di Palazzo Madama; sul fondo, gradinate e figure, ombre di senatori.
Tre i firmatari di questo chiodo simbolico, con nome e cognome: Maurizio Buccarella, Barbara Lezzi e Daniela Donno. Su Facebook, dove hanno postato l’installazione, hanno scritto: «In tre dal Salento, con l’apriscatole in Senato». Una tenera cartolina per parenti e amici e sodali, spedita da un fronte sfavillante dove pare che la guerra non sia, che il Paese non sia in rotta, che chi non ha non sia condannato al sesto grado dell’esistenza. Curioso: in questa «guerra» all’implosione del Paese e alla povertà, il fronte è il luogo più dolce e garantito. L’inferno semmai abita le retrovie, lontano dagli stucchi, dai premurosi commessi, dalle telecamere, dalle interviste negate, dal teatro neoclassico delle verginità negate messo in scena dalle truppe grilline davanti all’allibito pubblico della sinistra.
Per questo, il messaggio Cinque Stelle porta con sé una bella voglia di gioco liceale, la comunicazione di una eccitazione da primo giorno di scuola che surclassa la tensione dei programmi, degli esami, delle lezioni da recuperare. Ci penseranno più avanti, adesso è il momento felice dell’Apriscatole. Nel nome e per conto del Capo. Perché è lui che li ha benedetti al grido: «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno», è lui che li ha messi sulla strada giusta e vien da ridere al pensiero che si stia qui a raccontare e a dare un senso meno scolastico a un evento chiuso in una cartolina spensierata spedita dai banchi della seconda Assemblea del Paese.
Il progetto politico è aprire il Parlamento come una scatola di tonno, il Capo non è lì con loro ma vogliono si sappia che sono con lui e con il suo spirito; sono loro l’anonimo Apriscatole, gli umili servitori della nuova era che cancellerà partiti e sindacati, destra e sinistra, giornali e tv che non si arrendono a questo abbagliante «Sturm und Drang» ornato di nuovi altari, dedito a nuove divinità.
LA RASTRELLIERA DEGLI ARNESI
Tuttavia, il nuovo rappresentato da quel semplice utensile domestico trova immediatamente posto nella sintetica ma significativa rastrelliera di oggetti di consumo chiamati nella prima scena del Paese a nuova soggettività, spinti dal bisogno di marcare altrettanto nuovi valori e nuovi simboli. Oggetti che la storia recente del Parlamento ha provveduto a sistemare in bacheca con infinita pazienza. E questa docilità rispetto alla classificazione del gesto, più che fratture sembra accreditare una fastidiosa circolarità della storia, una lettura della nostra vicenda istituzionale chiusa nella ruota di un irrefrenabile criceto.
Era il 16 marzo 1993, quando un poderoso rappresentante della Lega di Bossi armato di un doppio cognome degno di un re, Luca Leoni Orsenigo, tenne a battesimo sui banchi di Montecitorio l’Era del Cappio. Anche allora pareva si fosse all’alba di un mondo nuovo e al tramonto di una scena decrepita. Stava esplodendo Tangentopoli, un pugno di magistrati stava mettendo a nudo il verminaio custodito dietro le quinte del grande affare e della politica. Leoni Orsenigo, esultante, mostrò il cappio in aula. Uno strumento di morte, la forma di una condanna estrema senza civiltà e senza pietà, testimone, così doveva essere, di una tagliente morale che avrebbe fatto giustizia, finalmente.
IL NODO SCORSOIO
Nel ‘96, l’uomo del cappio si dimise dalla Lega, adesso vive la sua vita lontano dalla politica attiva; la Lega, annega tra gli scandali e le furberie da retrobottega; Bossi, divelto da una manovra degna dei «lunghi coltelli», ora accusa il fido Maroni di avere «un culo troppo grande» per una sola sedia. Ma l’eco di quella immagine tenebrosa e minacciosa tessuta dalla canapa e intrecciata da un nodo scorsoio, tenne a lungo. Finché, il 24 gennaio del 2008, un senatore della destra più severa dal cognome romantico pensò che fosse venuto il suo momento all’alba di un fragoroso tonfo, la caduta del governo Prodi.
Minato da una vigorosa compravendita di parlamentari che ne avevano fracassato l’esile ossatura, quel governo del centrosinistra crollò e Nino Strano, il nostro uomo del destino, tenne a battesimo l’Era della Mortadella. Sui banchi del Senato, stappò spumante e ingollò mortadella a fette intere facendole scendere lentamente nella bocca. Si erano divertiti a ridurre la figura di Romano Prodi, bolognese sorridente ed estimatore della celebre «mortazza», fino ad insaccarla: era Prodi la Mortadella.
Strano, nel 2011, è stato condannato in Appello a due anni e sei mesi per abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale. Sia benedetto il Grande Apriscatole.

l’Unità 16.3.13
Il convegno ANPI a Milano
Fascismi e femminicidio, la storia delle donne


Nel prestigioso Palazzo Marino a Milano col Patrocinio del Comune si tiene oggi un convegno dell’Anpi Nazionale, organizzato dal Coordinamento donne, dalle 10 alle 17 e 30 (sala Alessi). Il tema: «La violenza e il coraggio – donne, fascismo, antifascismo, Resistenza, ieri e oggi». Non si intende, semplicemente, “custodire la memoria”. Benché ricordare cos’è stato effettivamente il fascismo per le donne più esattamente contro le donne in questi tempi di riferimenti a quel regime come fascismo buono, colpevole solo di qualche errore, sia più che necessario. Come è necessario ribellarsi all’assuefazione per cui disordini nelle scuole e negli stadi, scritte violente su molti muri, violenze contro i diversi, frasi orrende sul web, vengono assorbiti come trascurabili scorie marginali. Al centro del convegno c’è, soprattutto, l’attualità: si vogliono analizzare le costanti di una
cultura che, pure avendo compiuto grandi passi avanti, soprattutto nelle leggi, resiste nelle pieghe della società. Dove persiste un’idea della donna che, dopo tutto, se non trova un lavoro, un lavoro comunque ce l’ha ed è la maternità e dunque poco o niente si fa per favorire l’assunzione di responsabilità nel lavoro e nel sociale. Un’idea della donna come proprietà, che giunge persino al femminicidio. Come denunciare e combattere questa vecchia cultura che fa dell’Italia uno dei Paesi più arretrati e non solo d’Europa, è il tema del convegno. Partecipano: Monica Minnozzi, Lidia Menapace, Carlo Smuraglia (tutti Anpi). Le relazioni sono delle storiche Simona Lunadei e Dianella Gagliani, Docente di Storia Contemporanea, e di Raffaele Mantegazza (pedagogia Interculturale). Conclude Marisa Ombra, Vice Presidente Nazionale Anpi.

La Stampa 16.3.13
Quei fantasmi della dittatura che la memoria si porta dietro
L’impegno di alcuni sacerdoti oscurato dall’appoggio ai generali
«Non ti impicciare», era la frase che sintetizzava la paura della gente
Gli oppositori venivano rapiti in auto con i vetri oscurati e fatti sparire
Per molti l’unico modo per continuare a vivere è stato voltare la testa
di Mimmo Càndito


Jorge Videla Al potere dal 1976 al 1983 Dal 2007 sconta una condanna a 50 anni

«No te metás», No, non t’impicciare, dicevano, e scuotevano la testa. Ma anche «Por algo sera», Un motivo ci sarà, e lascia perdere.

C’erano parole che giravano pesanti, in quegli anni, in Argentina. Parole che suonavano come una condanna, parole che spalancavano le porte dell’inferno ma tu te ne lavavi le mani. Si sparava, si ammazzava, sequestravano uomini e donne e anche i ragazzi, ma bastava girare la testa, non guardare, non sapere; non voler sapere. Ed era fatta. La coscienza è un lusso che non sempre ci si può permettere, e quelli erano tempi di un sacco di morti per le strade dell’Argentina, morti ammazzati o morti fattisi fantasmi, come d’una guerra che nessuno aveva dichiarato e che però bruciava la vita della gente qualunque, giorno dopo giorno. Era la paura, il terrore che si faceva scelta di vita.
I preti in quegli anni praticavano il loro mestiere, alcuni; e tentavano aiuto a chi cercava rifugio, in parrocchia, o anche nella casa di Dio. Ma non era facile, per loro, perché la Chiesa - la Chiesa del Papa, del Nunzio, del cardinale, di quelli insomma con tutti i paramenti dorati e l’ufficialità e le sfilate accanto ai generali della Junta - quella Chiesa aveva fa t t o una scelta di campo, e poiché i generali ammazzavano e torturavano e violentavano «in nome di Cristo e dell’Occidente» quella Chiesa ringraziava e benediceva.
Fare il prete «contro» quella Chiesa voleva dire forse disubbidire, o forse scegliere l’Iddio che sta dentro gli uomini e non l’Iddio dei paramenti dorati. E magari non tutti volevano girare la testa.Ma magari la testa invece la giravano, ed erano i più, perché alla fine anche un prete è un uomo, e chi può sapere che cosa è più giusto fare quando la gente s’ammazza e chi può sapere che un giorno uno diventa Papa.
I morti ammazzati li facevano i guerriglieri dell’Erp, e i Montoneros, ma poi anche gli Squadroni della morte e la Triple A. I primi si giocavano la guerra perché volevano la rivoluzione, e Marx e Perón potevano valere allo stesso modo; q u e s t ’a l t r i facevano la guerra invece per conto della Junta, che era la «guerra sucia», la guerra sporca, e andavano in giro con le loro Falcon verdi e i vetri oscurati e con i soldati che chiudevano le strade e facevano la retata. Se eri un «subversivo», t’aspettava l’inferno; ma non l’inferno astratto, di chi muore e finisce lì, no, era l’inferno vero, delle torture e della violenza usati fino a farti pregare di morire subito e che finisca per sempre.
In questo viaggio verso la morte, c’erano preti che davano la benedizione nelle stanze della tortura, perfino l’estrema unzione, come se soltanto d’un dovere d’ufficio si trattasse; e dimenticavano l’agnello di Dio predicato la domenica e davano una mano ancora più sporca agli Squadroni e alle loro Falcon verdi, segnalando, spiando, consegnando i sovversivi.
È stata una guerra bestiale, nella quale il nome di Cristo è stato usato per negare anche la dignità dell’uomo. Non ci sono registri, gli archivi sono spariti; resta la memoria, che talvolta aiuta e talvolta inganna.
Sotto un cielo cupo d’angoscia, in un vivere segnato dal terrore che una Falcon ora s’avvicina a prendere qualcuno da portare all’inferno, l’unica forma di sopravvivenza diventava allora girare la testa da un’altra parte, non guardare, non vedere, non sapere. No te metás, por algo sera. Così finirono per s e m p r e 30.000 uomini donne ragazzi, anche preti; cancellati, desaparecidos. E quasi 10 mila morirono di guerra rivoluzionaria.
Durò 7 anni, il tempo buono per ammazzare una generazione e distruggere le coscienze. Poi le Malvinas cambiarono la storia e venne il tempo della giustizia. I generali finirono dentro, l’amnistia cancellò il passato. Ma non sempre. Il passato torna talvolta, si mostra più forte del perdono, brucia nel sospetto i rimorsi della coscienza. Nunca mas, mai più, hanno detto.
Ma il prete di un tempo che ora è diventato Papa deve farsi carico dei fantasmi che la memoria si porta dentro.

Corriere 16.3.13
Perché il diavolo ritorna nel linguaggio di Francesco
di Paolo Conti


Due volte in due giorni. In quarantotto ore appena di pontificato, papa Francesco ha citato in due riprese lui, il grande nemico, il simbolo ancestrale del Male: il diavolo, il Maligno. La prima volta risale a giovedì 14 marzo, nella Messa alla cappella Sistina, durante l'omelia a braccio: «Chi non prega il Signore prega il diavolo, quando non si confessa Gesù si confessa la mondanità del Demonio», e il riferimento diretto era a «vescovi, preti, cardinali». La seconda risale a ieri, durante il discorso rivolto ai «fratelli cardinali» nella sala Clementina: «Non cediamo mai al pessimismo, all'amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno, e allo scoraggiamento». Per Jorge Bergoglio il richiamo a Satana non è certo una novità. In Argentina si parlò a lungo della sua invettiva contro la legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso: «Segno dell'invidia del diavolo che cerca di distruggere l'immagine di Dio». Dunque per papa Francesco il Maligno è una cupa presenza costante vista esattamente come suggerisce l'etimologia greca («diaballo») cioè di colui che crea divisione, calunnia, fa inciampare e cadere.
Spiega il teologo laico Brunetto Salvarani, critico letterario, docente di Teologia della Missione alla Facoltà teologica dell'Emilia Romagna, direttore di Cem-Mondialità, rivista e movimento dei Padri Saveriani di Brescia, autore di numerosi saggi sul dialogo interreligioso: «Il diavolo è una presenza neotestamentaria molto frequente. E una spiritualità impregnata di Vangelo come quella del nuovo pontefice non può non fare i conti con una costante che però va interpretata». In che senso, Salvarani? «C'è chi vede nel diavolo la personificazione stessa del Male. E chi ne parla come di un'entità simbolica che rappresenta la nostra incapacità di produrre il Bene». Quest'ultima ipotesi calzerebbe alla perfezione rileggendo le parole di papa Francesco.
Il neoeletto papa non è l'unico Pontefice moderno ad aver parlato del Maligno. Disse Benedetto XVI riflettendo sul tempo di Quaresima il 10 febbraio 2008: «Occorre guardare il Male in faccia e lottare contro i suoi effetti, soprattutto contro le sue cause, fino alla causa ultima, che è Satana senza scaricare il problema sugli altri, sulla società o su Dio, ma riconoscere le proprie responsabilità». E anche qui l'interpretazione proposta da Salvarani, il diavolo come proiezione della nostra incapacità di produrre il bene, funzionerebbe benissimo. Giovanni Paolo II, in un'udienza del 28 aprile 2004, a pochi mesi dalla sua morte disse: «C'è, dunque, nel mondo un Male aggressivo, che ha in Satana la guida e l'ispiratore, come ricorda San Pietro: il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare». La citazione apparteneva alla prima lettera di San Pietro Apostolo.
Ma la frase papale riferita a Satana più famosa dei tempi moderni appartiene a Paolo VI. Ed è facilissimo collegarla alla preoccupazione di papa Francesco sulla Chiesa cattolica. Era il 29 giugno 1972, giorno dei Santi Pietro e Paolo: «C'è la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio... Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza». Una angosciata profezia di tempo oscuri, drammatici. Forse l'invito di papa Francesco a «non cedere al pessimismo» suggerito dal diavolo si riferisce anche quel modo di pensare un futuro senza sole. Quel sole, il monogramma dei gesuiti, che invece campeggia nello stemma cardinalizio di Jorge Bergoglio.

Repubblica 16.3.13
Il demonio, un tema ricorrente per gli ultimi pontefici. Molto più che per quelli del Medioevo
Da Paolo VI agli esorcismi di Wojtyla quando i papi evocano il “fumo di Satana”
I precedenti delle omelie di Bergoglio sul diavolo
di Agostino Paravicini Bagliani


IL SUO predecessore, Benedetto XVI, nel ricevere all’inizio del suo pontificato gli esorcisti di tutta Europa li aveva incoraggiati a proseguire nel loro ministero. E ancora recentemente, il 10 giugno 2012, tenne un discorso sulla «cultura dove non conta la verità», soffermandosi sull’origine del termine «pompa del diavolo», sinonimo di «grandi spettacoli cruenti, dove le crudeltà diventano divertimento, uccidere gli uomini diventava una cosa spettacolare», in cui il diavolo si presentava «con apparente bellezza», ma «con tutta la sua crudeltà». Dieci anni prima, il 17 febbraio 2002, Giovanni Paolo II, lui stesso esorcista, all’Angelus disse: «Il demonio, principe di questo mondo, continua anche oggi la sua subdola azione. Ogni uomo, oltre che dalla propria
concupiscenza e dal cattivo esempio degli altri, è tentato anche dal demonio e lo è ancor più quando meno se ne avvede».
Il demonio fu ritenuto responsabile dei mali della Chiesa da Paolo VI in un discorso del 15 novembre 1972: «Uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che si chiama Demonio». Il demonio, continuava il Papa, è «un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore ». È una «realtà terribile, misteriosa e paurosa». E poi: «È il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana». Il Papa lamentava anche il fatto che l’influsso del demonio «è un capitolo molto importante della dottrina cattolica, da ristudiare, mentre oggi lo è poco». Qualche anno prima, però, il Concilio Vaticano II presieduto da Giovanni XXIII aveva abolito la preghiera a San Michele Arcangelo formulata da Leone XIII (1878-1903), chiamato a difenderci «in questa ardente battaglia contro tutte le potenze delle tenebre e la loro spirituale malizia». Anche Pio XI (1929-1939) si riferì all’opera del diavolo, citando Sant’Agostino «che non di rado ricorda con parole mordaci, talvolta con frasi sdegnose tutto ciò che di lussurioso si era infiltrato per opera dei demoni nei costumi degli uomini mediante il falso culto degli dei».
Insomma, i pronunciamenti dei papi di questo ultimo secolo sull’esistenza del demonio e la sua caparbia azione nella società costituiscono una serie quasi continua. E sono forse più numerosi che in qualsiasi altro secolo. Nemmeno nel Medioevo possiamo trovare una serie così frequente di pronunciamenti papali sull’argomento. Certo, il demonio irruppe con forza nella lotta contro gli eretici. Il 13 giugno 1233, Gregorio IX promulgò una decretale, Vox in Roma, in cui si descrivevano per la prima volta conventicole notturne di eretici alle quali avrebbero partecipato, apparendo, uomini misteriosi, rospi e gatti di dimensioni insolite. Ossia démoni. Ritroveremo una descrizione straordinariamente analoga due secoli dopo, quando, intorno al 1427-1428, nascerà la caccia alle streghe, a partire dalla credenza all’esistenza di una setta (che sarà poi definita sabba) con a capo il demonio omaggiato da streghe o stregoni.
Ovviamente creduti tali. Sono concetti e credenze che diventeranno celebri grazie al
Martello delle streghe che due domenicani tedeschi, Jacob Sprenger e Heinrich Institor, dedicheranno a papa Innocenzo VIII (1484-1492).
In questa storia secolare non sono però mancate voci più prudenti se non contrarie all’esistenza al demonio. Proprio in seno alla cultura cattolica. Anche nel Medioevo. Ce lo ricorda un canonico di Bratislava, celebre nella storia della scienza medievale, perché autore di un grande trattato sull’ottica che terminò proprio alla corte papale negli anni 1270. Witelo — questo è il suo nome — scrisse che molte delle apparizioni di démoni sono o creazioni della fantasia di malato o frutto di un’interpretazione erronea di illusioni ottiche da parte di persone sane. Ma anche nel Novecento, uno dei massimi storici di Sant’Agostino, il cattolico francese Henri Marrou (morto nel 1977) sostenne con chiara fermezza che «persino tra quelli che dicono di volere essere fedeli all’insegnamento della Chiesa numerosi sono coloro che, senza alcuna esitazione, ammettono di non credere all’esistenza di Satana».

Repubblica 16.3.13
Padre Bergoglio e i due preti di strada nell’Argentina prigioniera del passato
Baires in festa. I parenti delle vittime: “Non si oppose a Videla”
di Omero Ciai


BUENOS AIRES — La chiesa di San José, nel quartiere Flores, è diventata in questi giorni il luogo principe di Buenos Aires. È qui, in un quartiere di classe media non lontanissimo dal centro, che Papa Bergoglio è cresciuto. Sulla scalinata della chiesa un reporter Cnn filma dichiarazioni dei fedeli. Molti si schermiscono, molti altri rispondono. Una signora di mezza età si aggiusta delicatamente i capelli, si mette gli occhiali
e fissa la telecamera: «Bergoglio? Fantastico, io venivo in questa chiesa quando c’era lui. Lo conosco benissimo, è un uomo dolcissimo». Tutti entusiasti, tutti si lasciano andare ai ricordi. Ma c’è un’altra Argentina che condivide meno l’emozione per il nuovo Papa.
L’ultimo colpo lo ha sparato Estela Carlotto, la moderata Estela, presidente delle Abuelas de Plaza Mayo, le famose cacciatrici di bambini sottratti dai militari alle famiglie dei desaparecidos. Una piaga infinita d’Argentina. «Bergoglio rappresenta la Chiesa che oscurò la storia di questo paese — ha detto — . E lui, in particolare, non si avvicinò mai a noi per aiutarci». È una ferita profonda, lacerante, quella delle vittime della dittatura con la Chiesa argentina. Difficile da rimarginare anche dopo i mea culpa della Chiesa e i numerosi processi degli ultimi anni nei quali sono stati condannati i militari responsabili dei crimini della dittatura. Così mentre il paese festeggia il suo Papa, le “Madri” non riescono a dimenticare quando pregavano davanti alla cattedrale nella Plaza de Mayo per i loro figli scomparsi e nessuno le credeva. La Chiesa allora era divisa. Molti collaborarono con i generali perché “combattevano i comunisti” e il “Proceso”, così si chiamò la liquidazione sistematica degli oppositori, aveva il compito di liberare il paese dai “senza Dio”. L’ultima Inquisizione. Ma Bergoglio? Papa Francesco che a quell’epoca aveva quarant’anni ha davvero qualche responsabilità diretta?.
Il caso che chiama in causa Bergoglio è quello di due sacerdoti gesuiti che vennero arrestati e torturati dai militari nel 1976. Orlando Yorio, morto qualche anno fa, e Franz Jalics, che da molti anni vive in Germania. Nella ricostruzione della vicenda che fece, raccogliendo testimonianze dell’epoca, il giornalista Horacio Verbintsky, Bergoglio emerge tra le ombre come il responsabile della Congregazione dei gesuiti che consegnò o che comunque non difese i due sacerdoti dai militari. Paura o complicità? Qui le posizioni si dividono. Perez Esquivel dice: «Non ho mai creduto che Bergoglio fosse complice della dittatura, ma penso che nei momenti più difficili gli sia mancato il coraggio di accompagnare la nostra lotta per i diritti umani». Altri invece non concedono indulgenza e mettono tutta la Chiesa nello stesso sacco, quello delle fotografie con Pio Laghi, l’allora criticatissimo nunzio apostolico in Argentina, che stringeva la mano al dittatore Videla. Bergoglio ha sempre sostenuto di aver aiutato i due sacerdoti accusati di essere vicini alla guerriglia e, anzi, di aver incontrato i vertici militari più volte per intercedere e ottenerne l’immediata liberazione. Chi lo accusa invece sostiene il contrario. Ne fu complice per liberarsi di due gesuiti vicini alla Teologia della Liberazione. Prove certe però non c’è ne sono, si tratta nel migliore dei casi di illazioni. L’unico dei due sacerdoti ancora in vita, Franz Jalics, ha detto di essere “in pace” con Papa Bergoglio, di averlo incontrato anni fa a Buenos Aires, quando era vescovo della capitale, e di aver celebrato Messa con lui e di averlo “abbracciato solennemente”. Jalics e Yorio, erano due preti di frontiera, impegnati in una delle tante favelas — si chiamano “villas” — del Gran Buenos Aires. Vennero arrestati e interrogati con l’accusa di collaborare con la guerriglia. Dopo il primo interrogatorio, sostiene Jalics, avrebbero dovuto essere rilasciati subito, invece rimasero cinque mesi bendati e con le mani e i piedi legati nel lager dell’Esma, la scuola ufficiali della Marina nel centro di Buenos Aires. Storia chiusa? Nemmeno per sogno. L’elezione del Papa ha diviso l’Argentina. Chi lo difende accusa il governo di Cristina Kirchner di comprometterlo con la dittatura perché non voleva che fosse eletto avendo sempre avuto rapporti freddissimi con l’arcivescovo della capitale. E temendo che ora, da Pontefice, possa avere più forza contro il suo governo. “Pagina 12”, che è ormai il giornale ufficiale della Kirchner, ha titolato la copertina con l’esclamazione “Mio Dio” quando è arrivata la notizia del risultato del conclave. E nonostante dalla Casa Rosada, la sede della presidenza, siano giunte raccomandazioni di moderare i termini, perché ora è meglio fare buon viso a cattivo gioco, i leader peronisti non nascondono il loro disappunto per la nomina di Bergoglio. C’è l’Argentina che piange le sue vittime, accusa e non perdona. E quella che guarda avanti emozionata di aver finalmente tra i suoi figli addirittura un Papa.

Corriere 16.3.13
Le tensioni nell'Europa dell'Est colpa della transizione bloccata
di Luigi Ippolito


Uno spettro si aggira per l'Europa orientale: lo spettro del post comunismo (fallito). Dalla Romania alla Bulgaria all'Ungheria, i Paesi dell'Est sono attraversati da tensioni sociali e politiche che sono state frettolosamente attribuite agli effetti della recente crisi economica e delle politiche di austerità.
A Sofia il mese scorso il governo «tecnico» di Boyko Borisov è stato travolto dalle proteste di centinaia di migliaia di persone scese in piazza in decine di città per le più grandi manifestazioni dalla caduta del regime comunista nel 1989. A Bucarest l'anno scorso era toccata la stessa sorte all'esecutivo di centrodestra, mentre il premier successivo di centrosinistra si è scontrato con il presidente in una faida che ha messo a rischio la tenuta costituzionale. A Budapest il premier conservatore Viktor Orban ha invece deciso di cavalcare il malcontento prendendosela con Bruxelles, con gli investitori stranieri e con le privatizzazioni dei governi precedenti, riecheggiando gli slogan uditi nelle piazze dei Paesi confinanti.
Ma per comprendere cosa sta veramente accadendo occorre allargare lo sguardo a un arco di tempo più ampio: perché in realtà sono i venti anni di transizione dal comunismo alla democrazia a essere rimessi in questione.
In questi due decenni ai cittadini di quei Paesi era stato promesso che alla fine di un doloroso processo di trasformazione avrebbero raggiunto a pieno titolo la famiglia europea e il loro standard di vita. Ma tutto ciò si è rivelato un'illusione: il loro benessere materiale è rimasto ben sotto la media e anche i diritti politici sono messi in questione, come la libertà di circolazione nell'Unione Europea.
Se non è una transizione fallita in tutto e per tutto, si può certamente parlare di una «transizione bloccata» che minaccia la stessa stabilità democratica dell'Europa orientale. È dunque un compito precipuo dell'Europa «storica» di impegnarsi in un processo di stabilizzazione istituzionale dell'altra metà del Continente, per rimettere in moto un processo di integrazione che rischia oggi di sgretolarsi.

La Stampa 16.3.13
Per avere successo, i social media cinesi devono far felici tutti
di Katrina Hamlin


Le aziende cinesi nel settore dei social media stanno camminando su un campo minato. Lasciare troppa libertà d’espressione agli utenti potrebbe essere una scelta piuttosto invisa al governo, mentre eccessive restrizioni potrebbero avere come effetto la perdita di un importante numero di iscritti. Da qualche parte, a metà tra questi due scenari, si trova il compromesso. Il servizio di microblogging Sina Weibo usa un sistema di censura che fino ad oggi è stato abbastanza efficiente da soddisfare i parametri del governo. I post più sensibili spesso vengono rimossi nel giro di pochi minuti. I controlli, tuttavia, sono abbastanza discreti. Alcuni post sensibili, infatti, vengono lasciati online il tempo necessario per essere visualizzati e condivisi.
Dal canto suo, Sina sostiene che conformarsi completamente alle regole che vorrebbe imporre Beijing sia impossibile, sia per la natura del prodotto trattato dall’azienda sia per la “mancanza di chiarezza su procedure di attuazione specifiche”. Poi ci sono gli investitori. A chi ha investito del denaro non dispiacerebbe vedere anche qualche profitto, cosa che Weibo per ora non è ancora riuscita a garantire. Il 14 marzo, il prezzo delle azioni Sina è crollato del 66% rispetto al suo picco dell’aprile 2011, raggiungendo i 48 dollari. Per rimediare, l’azienda dovrà riuscire a far contento un quarto gruppo di attori: gli inserzionisti. Sina sta correndo per accaparrarsi dai 94 ai 96 milioni di dollari di profitti per il primo trimestre dell’anno. E molte di queste entrate arriveranno dalla vendita di spazi pubblicitari. Il problema è che gli utenti più benestanti e istruiti, i più importanti per gli inserzionisti, sono anche quelli che più probabilmente lasceranno il social media se la censura o la sponsorizzazione diventeranno troppo ovvie. Secondo uno studio dell’Università di Hong Kong, dei quasi 503 milioni di iscritti che può vantare Weibo, quasi il 43% è rimasto inattivo nel periodo preso in considerazione dalla ricerca. E, con l’aumentare della pressione su Weibo affinché generi qualche profitto, l’equilibrio si fa sempre più instabile.

Corriere 16.3.13
Lo scandalo dei manicomi giudiziari
di Fulvio Scaparo


Tra pochi giorni, entro il 31 marzo 2013 gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) dovranno essere definitivamente chiusi. Gli Opg hanno sostituito a metà degli anni Settanta del secolo scorso i manicomi giudiziari. L'internamento in Opg è una misura di sicurezza comminabile ai soggetti non imputabili per vizio totale di mente ed è regolato dall'art. 222 c.p., che ne fissa una durata minima ma non una durata massima: la misura è passibile di proroga. Di ragioni per chiudere gli Opg ce ne sono in abbondanza, visto il gran numero di indagini, inchieste e testimonianze che hanno denunciato le condizioni di degrado, abbandono e umiliazione in cui versa gran parte delle persone ospiti di queste strutture «senza fine pena certa».
Purtroppo, non c'è da gioire per la chiusura degli Opg perché, come spesso accade, non è chiaro cosa accadrà subito dopo e i rischi di proroga in mancanza di alternative chiare e praticabili e di scaricabarile tra governo e Regioni sono molto alti. C'è il rischio di creare mini Opg regionali o, fuori da ogni eufemismo, mini manicomi, senza prestare attenzione alla necessità di assicurare ogni volta che è possibile assistenza alternativa all'internamento in piccole strutture (non i mini Opg); si rischia inoltre di non rispettare nemmeno l'invito solenne della legge 9/2012 alle dimissioni «senza indugio» delle persone per le quali è cessata la pericolosità sociale.
E ancora, dove verranno eseguite le misure di sicurezza dopo il 31 marzo? La collettività ha diritto a essere messa al riparo da comportamenti pericolosi ma questo diritto non deve portare a violare quello costituzionale alla cura, a ricevere trattamenti non discriminatori, alla libertà a fine pena e a un equo processo. Il pericolo che gli internati in Opg o in strutture consimili siano di fatto privati delle loro garanzie istituzionali non cesserà finché non si darà vita alla richiesta di costituire un'autorità Stato-Regioni ad hoc sugli Opg con gli stessi poteri riconosciuti per la chiusura dei manicomi. Qualcosa del genere il presidente della commissione d'inchiesta sul Sistema sanitario nazionale ha chiesto al presidente del Consiglio: si nomini una figura che abbia pieni poteri per applicare la legge votata dal Parlamento e che possa gestire il percorso di chiusura e le risorse economiche messe a disposizione. Gli è stato risposto che la situazione attuale, immagino quella politica, non consentiva di accogliere la proposta. E siamo arrivati a meno di un mese dalla prevista chiusura degli Opg senza un minimo di progetto sul che fare.
Il finanziamento legato alla legge 9 è stato approvato e non mancano in Italia e all'estero esperienze positive di alternative ai maxi e mini manicomi giudiziari, iniziative che potrebbero essere attuate assicurando sicurezza ai cittadini nel rispetto dell'articolo 22 della Costituzione che vieta ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Il disinteresse delle istituzioni per le persone internate e abbandonate a se stesse, talvolta per sempre, nei manicomi giudiziari fa parte delle pagine più impresentabili della nostra storia. Dipende anche da noi cittadini scrivere pagine migliori sollecitando e pressando da vicino i nostri rappresentanti affinché non nascondano la polvere sotto il comodo tappeto delle proroghe.

Repubblica 16.3.13
I bambini drogati ai tempi di Dickens
Il lato oscuro della rivoluzione industriale nei rapporti dei medici inglesi
di Lucio Villari


Leggiamo le seguenti parole non con lo spirito e l’assuefazione di oggi, ma con i sentimenti di un attento viaggiatore straniero nell’Inghilterra del 1845: «Una volta feci il viaggio per Manchester in compagnia di un borghese e gli parlai delle pessime e malsane costruzioni, delle condizioni orribili dei quartieri operai, dichiarando di non aver mai visto una città costruita peggio. Quell’uomo ascoltò tutto ciò tranquillamente, poi mi salutò dicendo: «And yet, there is a great deal of money made here» cioè «eppure qui si guadagna una gran quantità di soldi, buon giorno, signore». Sembra una pagina di Dickens (in quell’anno in vacanza in Italia). L’autore era in realtà un ventiquattrenne industriale tedesco, Friedrich Engels, che nel 1845 pubblicò a Lipsia una inchiesta condotta nelle città, nelle grandi fabbriche, nelle campagne, nelle piccole imprese artigiane, nelle miniere inglesi. Quell’inchiesta diventerà un classico della storia del pensiero politico (Le condizioni della classe operaia in Inghilterra. In base a osservazioni dirette e fonti autentiche) e il titolo richiama le “osservazioni dirette” necessarie a conoscere la verità. A quel tempo, “vedere” le cose non era semplice perché a molti mancavano precisi riferimenti ideologici e politici, era diffuso però un disagio morale di fronte a quell’evidente situazione sociale, e in particolare gli scrittori e i romanzieri non potevano far finta di nulla. Quattro anni dopo, infatti, nel 1849, Charlotte Brontë con il romanzo Shirley toccherà il punto dolente della diffusa disoccupazione dei tessitori («la miseria genera odio», diceva la intelligente borghese Brontë), e nel 1854 Dickens, dopo la colorita descrizione letteraria dei bassifondi di Londra dell’Oliver Twist, affronterà in Tempi difficiliil problema studiato da Engels. Ma ventidue anni passeranno prima che Marx dilati il quadro di quelle condizioni di vita dei lavoratori e del loro ambiente sociale nello scenario scientifico più ampio del Capitale. Tuttavia, Engels, Marx, Brontë, Dickens non erano soli. C’erano anche i medici, e altri scrittori, da Thomas Carlyle (con Past and Present del 1843) a Thomas de Quincey (con The Logic of Political Economydel 1844) che “osservavano” da tempo il degrado incredibile e in particolare certi aspetti di quello sviluppo economico che ormai restano soltanto tra le pagine della storia Uno di questi era il lavoro delle donne e dei bambini, la cui immissione nella produzione sostituiva gradualmente il lavoro maschile, molto più costoso. «Tre fanciulle di tredici anni — scriveva de Quincey — con salari dai sei agli otto scellini la settimana, hanno preso il posto di un solo uomo maturo con un salario dai diciotto ai quarantacinque scellini». La conseguenza di questa sostituzione di soggetti fu la progressiva disarticolazione della struttura familiare degli operai inglesi, la diffusione eccezionale dell’alcolismo (nel 1844 a Glasgow la domenica si contavano trentamila operai ubriachi e a Manchester fiorivano un migliaia di jerry shops e di taverne), l’introduzione delle droghe tra gli adulti e, con la complicità delle madri lavoratrici, tra i bambini.
La droga: fu questa l’agghiacciante scoperta dei medici. L’oppio e il laudano si spacciavano in dosi massicce ma non clandestinamente. Gli stupefacenti facevano parte dei prodotti del mercato dal quale gli operai si rifornivano normalmente. Meglio dell’alcol, l’oppio dava un sostegno all’organismo simulando uno stato di efficienza fisica. Ma lo sfruttamento eccessivo del lavoro delle donne spingeva molte operaie non solo a occuparsi sempre meno dei loro neonati (che venivano lasciati, nel corso della giornata, a se stessi o a vicini di casa), ma a stordirli con droghe speciali per renderli inerti e controllabili. Queste droghe speciali per lattanti si trovavano in confezioni normali presso i negozianti. Il maggior successo lo ebbe uno sciroppo dal nome Godfrey’s cordial, a base di oppio. Fu l’inizio di un infanticidio di massa e la mortalità infantile tra i figli degli operai crebbe a livelli altissimi. I medici, insospettiti, scoprirono una relazione tra l’alta mortalità e l’uso dello sciroppo. Nel 1861 a Londra un’inchiesta sanitaria ufficiale attribuì la mortalità allo stato di denutrizione e di abbandono affettivo dei bambini, e a un «intenzionale avvelenamento da oppiacei» da parte delle madri. «L’inchiesta ha mostrato che, mentre nelle circostanze descritte i bambini muoiono per la negligenza e la sregolatezza dovuta alle occupazioni delle loro madri, le madri divengono snaturate verso i loro figli non preoccupandosi molto per la loro morte e perfino prendendo misure dirette per provocarla». In una successiva inchiesta del dottor Henry Hunter (Sixth Report on Public Health) pubblicata a Londra nel 1864, era detto: «Il grande fine di alcuni intraprendenti mercanti all’ingrosso è di promuovere la vendita degli oppiacei. I droghieri li considerano infatti l’articolo di più facile smercio». L’esempio veniva dall’alto: l’oppio era divenuto una voce della produzione industriale inglese così redditizia che in quegli anni con un atto di violenza imperiale l’Inghilterra aveva imposto con le cannoniere all’India e soprattutto alla immensa Cina di acquistare tonnellate di oppio. L’opposizione della Cina aveva provocato, appunto, la “guerra dell’oppio”. Ma le vittime interne inglesi erano soprattutto tra i più innocenti. Al quadro estremo delle condizioni di “atrofia morale”, di squilibrio individuale e sociale provocato dal modo come veniva gestito il lavoro nelle fabbriche il rapporto del dottor Hunter diede il tocco finale. I lattanti ai quali si somministravano oppiacei «si accartocciavano come piccoli vecchietti, o raggrinzivano come scimmiette».

Repubblica 16.3.13
In Turchia
Gli archeologi italiani scoprono la porta dell’Ade


ISTANBUL — Il mistero della Porta dell’Ade di Hierapolis, descritta anche da Cicerone e raccontata da Strabone, che gli archeologi cercavano da oltre mezzo secolo è stato svelato. E a farlo è stato l’archeologo italiano Francesco D’Andria, dell’Università del Salento, che è arrivato fino al mitico Plutonium, come lo chiamavano i romani. La scoperta è avvenuta vicino al Comune di Pamukkale e l’annuncio è stato dato ieri al convegno sugli scavi archeologici italiani in Turchia.

l’Unità 16.3.13
A caccia del bosone
Il libro di Bassoli racconta come si è sviluppata la ricerca
Da AdA a Lhc: come si è arrivati alla macchina per rilevare
la «particella di Dio». 60 anni di scienza e tecnologia italiana
di Pietro Greco


È VERO, A BRUNO TOUSCHEK, FISICO AUSTRIACO TRAPIANTATO A ROMA, NON PIACEVA QUELLA «TEPPAGLIA ADRONICA». Lui preferiva l’elegante scherma dei leptoni. Tuttavia l’Lhc, il Large Hadron Collider, il grande collisore di adroni, che ha consentito la recente rilevazione del «bosone di Higgs» è anche figlio suo. Perché è lui che nel 1960 diceva e nei mesi successivi dimostrava a Frascati che: «treno contro treno» è meglio di «treno contro muro».
La storia dell’anello di collisione Lhc, la più grande macchina del mondo che, con la rilevazione del bosone di Higgs ha dimostrato la solidità del Modello Standard delle Alte Energie, il modello fisico che ci spiega com’è fatto il mondo a una scala più piccola di quella degli atomi, nasce infatti dal piccolo AdA, l’anello di accumulazione che Touschek immaginò e che un gruppo di giovani fisici con luì costruì nei Laboratori che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) possedeva (possiede) a Frascati.
È una grande storia quella di Lhc. Che vale la pena conoscere, perché vi si intrecciano scienza, tecnologia e politica. È una storia che da sessant’anni parla largamente (anche se certo non solo) italiano. È una storia che ora è stata ricostruita in tutte le sue dimensioni da uno dei protagonisti, il fisico Luciano Maiani, insieme a un giornalista ben noto ai lettori dell’«Unità», Romeo Bassoli, in un libro, A caccia del bosone di Higgs, appena uscito per i tipi della Mondadori Università (200 pagine, euro 17,00) e che è stato presentato lo scorso giovedì all’Auditorium di Roma, alla presenza degli autori da altri due protagonisti della vicenda, Fabiola Gianotti (l’italiana che a fine dicembre scorso ha meritato la copertina di «Time») e Guido Tonelli. Coordinatore dei lavori Marco Cattaneo, direttore di «Le Scienze», l’edizione italiana dello «Scientific American».
La scienza che sta dietro Lhc è quella che lo storico Gerald Holton considera felicemente affetta dalla «sindrome ionica», ovvero quella «strana malattia» che induceva i primi filosofi greci a ritenere che non solo intorno a noi c’è il cosmo, il tutto armoniosamente ordinato, ma anche che questo cosmo fosse fondato su pochi elementi e poche leggi semplici attingibili alla ragione umana.
La fisica moderna ha capito che ad altissime energie questi elementi e queste leggi semplici posso emergere. Bruno Touschek ha inventato la «via italiana alle alte energie», ovvero il modo più economico per fare emergere le particelle fondamentali e le leggi che le governano. Questo modo consiste nel far sbattere tra loro due treni (di particelle) lanciati alla velocità della luce, o giù di lì, piuttosto che lanciare (come facevano gli americani) un treno (di particelle) contro un muro (un bersaglio). Fuor di metafora, Touschek immagina e contribuisce a realizzare un anello di accumulazione: un anello in cui vengono fatti girare e, al momento giusto, impattare due fasci di particelle. Lo scontro è tremendo. Le particelle si annichiliscono. Lasciando un vuoto creativo. Un vuoto carico di energia che consente la creazione di altre particelle, più fondamentali.
AdA, la madre degli anelli di accumulazione, aveva una circonferenza di circa 4 metri e raggiungeva un’energia di 0,25 GeV (0,25 milioni di elettronvolt). Lhc, il figlio più grosso, ha una circonferenza di 27 chilometri e ha raggiunto per ora un’energia di 4 TeV (4.000 miliardi di elettronvolt). Tra le dimensioni della piccola madre e del grosso figlio c’è tutta una lunga storia scientifica, tecnologica e politica che parla, largamente, italiano. A iniziare da Edoardo Amaldi, che all’inizio degli anni ’50 ha voluto la costruzione del CERN (Consiglio europeo per la ricerca nucleare) a Ginevra: il primo esempio di collaborazione tra stati europei dopo la seconda guerra mondiale, il laboratorio dove oggi lavora più della metà dei fisici delle particelle di tutto il mondo. E che ha voluto l’Infn, i Laboratori Nazionali a Frascati e Touschek a Roma.
Tra gli italiani protagonisti c’è Carlo Rubbia, che con un anello di accumulazione ha scoperto al Cern i bosoni che mediano l’interazione elettrodebole e ha vinto il Premio Nobel. Divenuto direttore generale del Cern, Rubbia è riuscito a imporre la costruzione di Lhc.
C’è lo stesso Luciano Maiani, che diventato a sua volta direttore generale del Cern è riuscito a continuare i lavori per la realizzazione della grande macchina. E ci sono Fabiola Gianotti e Guido Tonelli che, l’una con l’esperimento Atlas, l’altro con l’esperimento Cms, hanno contribuito a trovare il «bosone di Higgs». E a realizzare quella che Maiani e Bassoli definiscono «l’impresa scientifica del secolo».

venerdì 15 marzo 2013

l’Unità 15.3.13
Pd, la prima è scheda bianca «Cerchiamo ancora l’intesa»
Giornata di incontri con gli altri partiti. Il leader dei democratici: «Non hanno raccolto l’appello alla corresponsabilità»
E ai suoi dice: «Faremo da soli solo se costretti, ma non lo vogliamo»
di Simone Collini


ROMA Troppe le incognite ancora in campo, troppe le ambiguità registrate negli incontri di questi giorni e troppe, anche, le divisioni interne al partito, le perplessità su un «governo di cambiamento» che necessiterebbe dei voti Cinquestelle, le contrarietà a cedere alle altre forze politiche i vertici istituzionali. Per questo oggi, quando ci saranno le elezioni dei presidenti di Camera e Senato, i deputati e i senatori del Pd voteranno scheda bianca.
«Finora la nostra proposta di corresponsabilità non è stata raccolta dalle altre forze», dice ai parlamentari democratici Pier Luigi Bersani alla fine di una lunga giornata fatta di incontri con gli altri partiti chiusi senza arrivare a un accordo, telefonate inconcludenti e, per restare dentro al Pd, riunioni d’area (Matteo Renzi ha convocato i parlamentari a lui più vicini in un hotel romano) che fanno emergere i dubbi di una fetta del partito sia per quel che riguarda il tentativo di istituzionalizzare il Movimento 5 Stelle che per quello, ad esso connesso, di puntare al «governo di cambiamento» costruito attorno agli otto punti presentati da Bersani.
Il leader del Pd registra la situazione ma non intende darsi per vinto e se nelle riunioni serali con i gruppi democratici di Camera e Senato propone di votare oggi scheda bianca è perché vuole «continuare a lavorare fino all’ultimo a un accordo» e utilizzare questa giornata per «far maturare la condivisione con le altre forze politiche». Gli ostacoli da superare, a questo punto, sono sia la volontà dei Cinquestelle di «fare da soli» che le perplessità di Mario Monti a dar vita a un governo che dovrebbe poi procedere grazie ai voti dei parlamentari M5S. «Collega le scelte sulle presidenze delle Camere a prospettive sul governo anche con il Pdl», spiega Bersani ai senatori Pd che incontra in serata a Palazzo Madama. Ma un ostacolo, sulla via già stretta che ha di fronte, Bersani lo sta trovando anche all’interno del suo stesso partito. Se lo schema prospettato da leader del Pd prevede l’offerta della «corresponsabilità» ai Cinquestelle e Scelta civica, cioè in concreto l’offerta della presidenza della Camera ai primi e del Senato alla seconda, nel partito c’è chi ritiene invece un errore rinunciare in una situazione di crisi come questa ai vertici istituzionali.
A Montecitorio il Pd avrebbe i numeri per eleggere il presidente, e il nome che da giorni circola per questo ruolo è quello di Dario Franceschini. Che parlando ai neoeletti ha già avuto modo di giocare la carta dell’orgoglio («andate a testa alta, accettate la sfida con i grillini, siate più preparati e trasparenti di loro»). E la contrarietà a lasciare la terza carica dello Stato ai Cinquestelle è stata espressa anche nella riunione di Renzi con i parlamentari a lui più vicini e pure tra deputati e senatori vicini al vicesegretario Enrico Letta.
Bersani, intervenendo alle assemblee dei gruppi parlamentari, ribadisce la linea del dialogo e chiude con queste parole: «Noi non vogliamo far da soli, lo faremo solo se costretti, per questo domani voteremo bianca e proviamo fino in fondo». Un modo per dire ai suoi che per ancora ventiquattr’ore non si può dar per morto il tentativo di agganciare il M5S e provare a dar vita al «governo di cambiamento». Ma anche un modo per dire a Monti, con il quale i contatti non sono mancati, che il Pd è pronto a giocare la partita in proprio e non accetterà ricatti.
OCCHI PUNTATI SU MONTI
Il timore sviluppato in queste ore tra i democratici è infatti che Scelta civica stia lavorando a un accordo con il Pdl: nell’immediato, per eleggere un presidente condiviso al Senato (il nome che circola è quello di Linda Lanzillotta) e, poi, per dar vita a un governo costruito sulla falsariga dell’esecutivo Monti. Bersani ha detto che da lui verrà soltanto il no a un governo sostenuto da Pd e Pdl, quale che sia la forma, ma i numeri di Palazzo Madama non giocano a suo favore. Anche l’ipotesi, ventilata nei giorni scorsi, di lasciare la presidenza della Camera ai Cinquestelle e di tener per il Pd la presidenza del Senato, con Anna Finocchiaro, rischia a questo punto di scontrarsi con un eventuale accordo tra Monti e Pdl.
E in tutto questo, non è chiaro a che gioco stia giocando la Lega, che con i suoi 17 senatori può essere determinante a Palazzo Madama. Una delegazione del Carroccio in mattinata incontra gli emissari del Pd Luigi Zanda, Rosa Calipari e Davide Zoggia. E sebbene non siano mancate delle aperture incoraggianti (addirittura i leghisti avrebbero lasciato intendere che pur di non tornare in tempi rapidi al voto potrebbero consentire a Bersani di incassare la fiducia al Senato) Roberto Calderoli nel pomeriggio scompagina di nuovo le carte, proponendo la presidenza della Camera al Pdl e quella del Senato (facendo il nome di Finocchiaro) al Pd.
Il rebus si potrà sciogliere soltanto nelle prossime ventiquattr’ore. Nelle votazioni di oggi servirà la maggioranza qualificata per eleggere il presidente delle Camere. Cosa che non ci sarà. Domani si andrà invece al voto con altre regole: basterà la maggioranza semplice alla Camera e, alla quarta votazione, verrà eletto presidente del Senato chi incasserà più consensi tra i due più votati al giro precedente. Per domani pomeriggio avremo insomma la seconda e terza carica dello Stato. E in base a chi avrà vinto e chi perso si capirà anche che tipo di governo potrebbe insediarsi tra una decina di giorni. Sempre che si trovi il bandolo della matassa di questa crisi. Perché, stando a quanto riferito in queste ore dai vertici del Pd, di fronte a un fallimento del tentativo di Bersani il piano B sarebbe soltanto uno: nuove elezioni.

il Fatto 15.3.13
Bersani alza scheda bianca
In stallo la trattativa con M5S e Monti
La Lega sosterrebbe la nascita di un governo Pd
di Wanda Marra


Nessun accordo, nessuna intesa, nessun nome comune: le trattative che Bersani ha provato a portare avanti con una pazienza che a molti è sembrata umiliazione, hanno prodotto solo uno stallo. Dichiarato: il Pd sceglie di votare scheda bianca nelle prime due votazioni per l’elezione dei presidenti del Senato e della Camera. Per perseguire il “coinvolgimento” delle diverse forze politiche “nell’avviare la macchina democratica”, per spiegarla con Davide Zoggia, uno dei tre pontieri che in questi giorni hanno avuto l’incarico di cercare di portare a casa un accordo (gli altri due sono Luigi Zanda e Rosa Calipari). O per dirla con lo stesso Bersani, negli incontri con senatori e deputati: “A ora, la nostra proposta di corresponsabilità non è stata raccolta dalle altre forze politiche”. Ma lui non ci sta a dichiararsi vinto, continua a provarci fino all’ultimo secondo utile. Perché sa che trovare un punto d’incontro sulle presidenze è cruciale per il suo progetto di governo. La volontà è una cosa, la realtà un’altra. Ancora Bersani: “Le conclusioni di M5S paiono dire ‘noi facciamo da soli’. Propongo, quindi, per le votazioni di domani (oggi, ndr.) di astenerci per continuare a lavorare a un accordo che coinvolga tutti”. Nessun dibattito è stato aperto nelle riunioni dei gruppi, che infatti sono durate l’arco di una mezz’oretta: volenti o nolenti nel Pd la linea la detta il segretario. Con buona pace dei molti che non sono d’accordo con lui, che guardano con sufficienza il tentativo di agganciare Grillo. E che per cominciare vorrebbero votare i propri candidati e punto e basta. Dunque, Grillo ha detto di no a qualsiasi trattativa, e alla fine voterà i propri nomi dall’inizio, tant’è vero che è saltato l’incontro supplementare con il Pd che si doveva tenere prima ieri sera, poi stamattina. E Mario Monti ha chiarito di non essere d’accordo con il tentativo di governo con i 5 Stelle. E così i primi non hanno raccolto l’offerta di guidare Montecitorio, i secondi la possibile apertura su Palazzo Madama (anche se la cosa alletta Monti).
L’INCONTRO che è andato meglio alla fine è stato quello con la Lega. Non a caso Roberto Calderoli ha annunciato in un’intervista alla “Padania” che la Lega è pronta a votare Anna Finocchiaro alla presidenza del Senato. Spiegando che il Carroccio è disponibile a “un confronto per un governo che realizzi tutto quello che tutte le coalizioni hanno inserito nel loro programma elettorale”. La Lega non vuole tornare a votare e per questo ha fatto ieri capire ai pontieri Democratici di non essere contraria ad aiutare la nascita di un governo Pd. Parla di dialogo sulle riforme istituzionali, gli ammortizzatori sociali, la sanità. Ancora non è chiaro come ciò si tradurrebbe in termini concreti: una non sfiducia? Un voto su alcune misure? Tutto questo, però, com’è stato spiegato al Pd passa per una disponibilità Democratica a non “infilare” una dopo l’altra le varie cariche istituzionali. La Lega, dunque, vorrebbe un Pdl per la Camera e voterebbe un democratico al Senato. Ma nella sua strategia deve fare i conti con un Pdl che ha una strategia opposta (le elezioni) e che è determinante per governare la Lombardia. Senza contare che mentre i bersaniani non disdegnano l’idea di poter contare su una sorta di sostegno leghista, fonti vicine alla Finocchiaro mostrano indignazione: “Non c’è nessun accordo. Se vogliono votare un nostro candidato, possono farlo, ma non vuol dire niente”. Non a caso la Finocchiaro è in pole position tra i candidati “interni” del Pd.
DOPO le prime due votazioni, il Pd dovrà decidere se continuare a inseguire grillini e montiani, o mettersi d’accordo su un proprio candidato su cui far convergere i voti. Alla Camera dalla quarta votazione basta la maggioranza assoluta. Il Pd può decidere da solo e l’unico nome in lizza è quello di Franceschini. In Senato dalla quarta votazione si va al ballottaggio tra i primi due nomi usciti dagli scrutini precedenti. Anche qui, il nome più quotato è quello di Anna Finocchiaro. Ma probabilmente per oggi la fumata sarà nera. Si deciderà domani.

Corriere 15.3.13
Bersani gioca l'ultima carta Ma nel Pd si rischia la fronda
«Da soli se costretti». Alla Camera 100 voti in bilico
di Monica Guerzoni


ROMA — Nel chiuso della prima assemblea del gruppo di Montecitorio Pier Luigi Bersani prova a rimotivare i suoi: «Oh ragazzi, avremo tutti i nostri problemi, ma sapete che siete tantissimi?». Per un attimo l'applauso stempera il clima, spazza via l'agitazione e gli umori inquieti che accompagnano l'elezione, tra oggi e domani, dei presidenti delle Camere. La linea del segretario è scheda bianca, a Montecitorio come a Palazzo Madama: e l'astensione è l'ultimo, esile filo di speranza per un accordo con i Cinque Stelle.
Lo annuncia Enrico Letta con un tweet, spiegando che il Pd vuole «dimostrare fino all'ultimo disponibilità a intese», perché le istituzioni sono di tutti. E Bersani, parlando ai suoi deputati, la mette così: «Noi non vogliamo far da soli, voteremo un nostro presidente solo se costretti». Anche ai senatori dice che continuerà a lavorare per trovare un'intesa, nonostante gli inseguimenti degli ultimi giorni si siano rivelati vani. Il leader del Pd si è preso un'altra manciata di ore nel tentativo disperato di agguantare i Cinque Stelle e convincerli ad accogliere la «proposta di corresponsabilità» sulle cariche istituzionali. Proposta che sin qui, ammette il leader del Pd, non è stata accolta.
La faccia del segretario è scurissima. Negli stessi minuti, da un albergo romano, Matteo Renzi dichiara aperte le danze elettorali e, come se non bastasse, i gruppi parlamentari sono in grande agitazione. L'idea di turarsi il naso e votare il grillino Roberto Fico non va giù a tanti, da Letta a Franceschini, da Fioroni alla Bindi passando, naturalmente, per Renzi. Tanto che a metà pomeriggio il Nazareno stoppa con una nota il tam tam che vorrebbe i democratici pronti a tenersi strette le due Camere: «Fino all'ultimo il Pd lavorerà non per l'autosufficienza, ma per una larga assunzione di responsabilità».
Il timore dei bersaniani, che pure sono la grande maggioranza, è che a Montecitorio si stia saldando una corposa «fronda» di democratici pronti a smarcarsi, nel caso in cui Bersani dovesse decidere — senza garanzia alcuna — di immolare Dario Franceschini sull'altare di una futuribile intesa con Grillo per un governo di minoranza. I fedelissimi del capogruppo uscente, che da tempo aveva «prenotato» per sé lo scranno più alto della Camera, giurano che l'ex segretario del Pd ha chiesto loro di non dare battaglia in suo nome. Ma intanto al vertice del Pd si fa di conto e si scopre che un centinaio di deputati, a scrutinio segreto, potrebbero votare per Franceschini anche a dispetto degli ordini di scuderia.
Voci, suggestioni, tensioni. Amplificate dal no dei grillini, che si dicono «indisponibili alla trattativa» e dalle parole del comico sull'Italia «già fuori dall'euro». Parole che Bersani respinge con forza: «Se diciamo "andiamo via dall'euro" andiamo nel Mediterraneo con carta straccia in tasca e un disastro di proporzioni cosmiche». Eppure nel pomeriggio sembrava che qualcosa di concreto si fosse messo in moto. Luigi Zanda, il pontiere capo, aveva ottenuto dal capogruppo Vito Crimi la promessa di un incontro tra la delegazione del Pd e quella dei Cinque Stelle. Ma la riunione è saltata e non certo per gli orari troppo stretti, o perché i grillini volevano la diretta streaming...
E ora a preoccupare Bersani sono anche le mosse di Monti, il rischio che il premier si accordi con il Pdl al Senato per eleggere un presidente gradito sia al centrodestra che a Scelta civica. Nel caos generale Zanda, Davide Zoggia e Rosa Calipari hanno incontrato i capigruppo della Lega, Giorgetti e Bitonci. I quali si sarebbero mostrati disponibili a un'intesa ad ampio raggio, così ampio da includere anche la scelta del nuovo capo dello Stato. Tra i democratici c'è chi si spinge a ipotizzare il via libera di Maroni a un governo Bersani, ma dalla segreteria del Pd invitano a stare con i piedi per terra: il massimo di cui si sarebbe ragionato è la disponibilità dei senatori leghisti a non uscire dall'Aula al momento del ballottaggio sul presidente, garantendo così il numero legale. Anna Finocchiaro parte favorita, ma come dice il senatore Nicola Latorre, di scontato non c'è nulla: «Non sappiamo nemmeno se ci terremo Montecitorio, Palazzo Madama o entrambi». Il gioco è nelle mani dei Cinque Stelle e il senatore Mario Giarrusso si diverte a spargere ottimismo: «Il Pd che vota scheda bianca è una buona notizia». Scherza o fa bene Bersani a insistere? «La democrazia richiede tempo. È sempre positivo che qualcuno voglia accordarsi...».

Repubblica 15.3.13
E il leader democratico finisce in trincea “Tra di noi c’è chi mi taglia la strada”
Rivolta dei fedelissimi del rottamatore: folle non avere ancora un nome
di Goffredo De Marchis


ROMA — «È evidente che c’è chi lavora in una direzione diversa. Anche nel Pd». Pier Luigi Bersani è consapevole delle crepe che si aprono nel suo partito, delle mille riunioni di corrente che esprimono ciascuna una linea diversa, di una tensione crescente, di un passaggio cruciale per la stessa sopravvivenza dei democratici. Il tutto complicato dall’ingorgo istituzionale, che comprende anche l’elezione del capo dello Stato. Ma tiene il punto, con una certa determinazione. «Non possiamo partire da uno schema Pd-Pdl-Monti. Il voto ha detto un altro cosa. Questo schema è stato bocciato dagli elettori. Punto e basta».
Chi lavora in una «direzione diversa », allora? Matteo Renzi sicuramente, e lo testimonia la riunione dei suoi 51 parlamentari dove esplode la rabbia contro il segretario. «Votare scheda bianca è pazzesco, lunare. Come l’idea di dare una Camera a Grillo», urlano i renziani nella saletta dell’Hotel Cavour. Per una volta il rottamatore, che condivide il grido di dolore, s’incarica di non sfasciare tutto: «Attenetevi alle decisioni dei gruppi», dice. Ma allo “schema bocciato dalle urne” lavora anche Massimo D’Alema. Non lo nasconde e conta sulla sponda di Napolitano.
I bersaniani garantiscono: «Massimo è d’accordissimo con Pierluigi». La partita per il Quirinale però s’intreccia con i voti delle presidenze delle Camere, con il governo, con i rapporti tra le «forze europeiste» che D’Alema vorrebbe unire e i 5stelle. È il
Colle il traguardo dell’ex premier? A chi glielo chiede risponde a modo suo: «Minchiate. Se non altro perché non ricasco nella trappola. Ho già dato la volta scorsa». Ma se cerca delle carte da giocare, già adesso bisogna puntare qualche fiche.
Ieri tutte le correnti di Largo del Nazareno hanno tenuto riunioni. In alberghi, salette volanti, nei capannelli di un Transatlantico ancora non operativo ma per nulla deserto. Tenere insieme il Pd appare un’impresa quasi più ardua dell’aggancio dei grillini. Una posizione oltranzista non aiuta. Per questo Bersani ha dovuto ammorbidire i toni con Scelta civica. Si è sentito al telefono con Monti. Gli ha ribadito: «Se volete un accordo col Pdl, non fate l’accordo con noi». L’offerta è quella della presidenza del Senato allo stesso Professore. «Però chiediamo la reciprocità». Monti cioè deve abbandonare l’idea delle larghe intese. Mollare Berlusconi e il centrodestra.
La scheda bianca, più che una disponibilità verso il Movimento, sembra perciò una porta aperta per i montiani e un modo per non rompere con Dario Franceschini, il candidato che vuole fermamente lo scranno più alto di Montecitorio. Bersani ammette: «I nostri colloqui con gli altri partiti non hanno dato alcun esito. Solo i centristi hanno risposto». Questa presa d’atto serve a ricucire il rapporto con Franceschini. «Solo se saremo costretti, voteremo il candidato del Pd», dice il segretario. Visto l’atteggiamento di totale chiusura dei grillini, lo sbocco appare scontato. Ma i “giovani turchi” di Matteo Orfini e Stefano Fassina, che in Parlamento hanno portato più dei 50 rappresentanti renziani, sono sulla linea del Piave. Vogliono dare le Camere unilateralmente a Monti e 5stelle, senza la «reciprocità » bersaniana. Se si fosse obbligati a votare due del Pd chiedono a Franceschini e Anna Finocchiaro di passare la mano. «Il ricambio della classe dirigente deve avvenire adesso», dicono. Sono i pasdaran del “mai con Berlusconi, mai col Pdl”. È evidente che Bersani non è lontano da questa posizione, ma ha un altro ruolo.
Sa che una larga fetta del partito comincia a essere stanca del feeling non ricambiato con Grillo. Da Enrico Letta a Walter Veltroni, da Franceschini ai dalemiani. Tutti hanno suggerito in queste ore al segretario di non tirare troppo la corda. Con Franceschini ci sono stati momenti di gelo assoluto. «Visto il no di Grillo, avere la presidenza della Camera può aiutare anche te. E il partito», ha spiegato il capogruppo uscente a Bersani. Messaggio recepito, come dimostra la scelta dell’astensione nelle prime votazioni e l’ammissione di un dialogo che non nasce. Eppure il leader di Largo del Nazareno coltiva ancora una speranza. La affida al giorno inaugurale della legislatura. «Il nostro problema non è avere le presidenze della Camere. Semmai il contrario, vogliamo lasciarle entrambe. Quello che non accettiamo — è il ragionamento di Bersani — è votare in Parlamento con una maggioranza che prefigura un assetto di governo in cui c’è il Pdl. Questo non succederà ». Ma che un evento simile si avvicini, nel Pd in tanti non se la sentono di escluderlo. Berlusconi aspetta quel momento.

il Fatto 15.3.13
Renzi furioso: “Scegliamo un candidato e basta”
Il sindaco ha riunito i suoi parlamentari
Richetti: “Ci stanno facendo perdere solo tempo”
di Caterina Perniconi


Ma quale prassi e prassi, non se ne può più! Dobbiamo scegliere un nostro candidato forte, crederci e andare avanti, altro che schede bianche”. Sbotta a metà riunione Matteo Renzi, chiuso per tre ore con i suoi eletti in un centro congressi vicino alla stazione Termini.  I senatori se ne vanno prima per raggiungere l’incontro del gruppo parlamentare Pd con Pier Luigi Bersani. Dopo le 18 arrivano gli sms: “La proposta è di votare scheda bianca per i presidenti Camera e Senato”. Renzi non ci sta, tocca ai “decani” Roberto Giachetti e Paolo Gentiloni alzarsi e andare a sedersi vicino a lui per spiegargli che quella è una prassi quando si cercano alleanze. Non basta, Renzi è furioso. Non ha nessuna fiducia nel progetto di governo politico portato avanti dal leader democratico e preferisce “candidature significative” per le Camere. Soprattutto per il presidente del Senato al quale Napolitano potrebbe affidare un incarico se Bersani fallisse la sua missione. “Ci troviamo in una situazione di non protagonismo, tocca a loro dipanare la matassa, noi dobbiamo restare leali e aspettare” aveva esordito il sindaco di Firenze nell’introduzione prima di parlare di lavoro, disoccupazione, allentamento del patto di stabilità. Ma di certo la linea di aprire ai 5 stelle non passa tra i 50 deputati e senatori renziani. Il più duro è Matteo Richetti da Reggio Emilia: “Piuttosto che votare scheda bianca non mi presento, Bersani non ha fatto ancora un mea culpa per la sconfitta e ora prova a mettere in piedi un governo che non esisterà mai facendo perdere solo tempo a un Paese in crisi”.  SONO TUTTI SEDUTI in cerchio, alla maniera grillina (ma sulle sedie non per terra). L’intervento più lungo è quello di Paolo Gentiloni, l’unico ad alzarsi in piedi per parlare, che continua a sostenere la sintonia con la linea montiana piuttosto che con Bersani: “Ora dobbiamo stare alla larga da tutte queste trattative – spiega l’ex ministro – c’è chi le sta seguendo, il segretario e il gruppo dirigente, non vanno assaltati né criticati, ma nemmeno possiamo fornire noi la soluzione”. Insomma, Renzi per ora non si sporca le mani. Tutto dipende dai tempi con cui si tornerà al voto e la fronda “rottamatrice” dei democratici dovrà fare i conti con l’organizzazione di primarie e congresso. Al sindaco non interessa la segreteria del partito ma la premiership e lo ribadisce davanti ai suoi che ora la priorità è “parlare con la gente, a cui non frega nulla chi fa il presidente della Camera o del Senato”. Renzi sa che una parte dei sostenitori di Bersani nel partito ce l’ha già in pugno, mentre un’altra non ce l’avrà mai. E non ha intenzione di conquistarla. “Il problema però è questa legge elettorale – dice Renzi ai suoi – è fatta apposta per non avere un vincitore”. Quindi o si vota o si fa un governo del presidente per una nuova legge e poi le urne. C’è tempo solo per un paio di battute: “I nuovi arrivati che hanno dubbi sull’organizzazione possono rivolgersi al deputato anziano Giachetti” dice Renzi andando via e si prende gli insulti del diretto interessato per l’aggettivo che lo classifica tra i rottamabili. Poi ai giornalisti uscendo: “É stata una riunione per mettersi un microchip sotto pelle... ”. Scherza, ma fino a un certo punto. Ora i suoi gli servono tutti: in platea gli “uomini macchina”, il presidente dell’Anci Graziano Del Rio e l’ex sindaco di Piacenza Roberto Reggi. Passa dal centro congressi anche Luigi De Siervo, direttore commerciale della Rai, ma non entra nella riunione. Manca solo Giorgio Gori per ricostruire la squadra del camper, che è già pronto a ripartire.

Corriere 15.3.13
Renzi riunisce i «suoi»: basta con i tatticismi, così destinati all'insuccesso
di Maria Teresa Meli


ROMA — Parola di Matteo Renzi prima, durante e dopo la riunione con i «suoi» parlamentari: «Noi non cerchiamo rese dei conti interne, ma non ci si chieda nemmeno di condividere un'impostazione destinata all'insuccesso». Per farla breve, il sindaco di Firenze è già in campagna elettorale, perché non crede che questa legislatura sia destinata a durare molto. «Se la sbrogliassero loro», dice un parlamentare renziano per semplificare il quadro. Il sindaco non si esprime così, ma nell'incontro dice: «Non cogestiamo questa linea e non vogliamo partecipare a logiche di potere interne».
Insomma, ripete il primo cittadino rottamatore, «niente tatticismi», perché «non vogliamo parlare di presidenze, vogliamo parlare alla gente, vogliamo parlare agli italiani dei problemi che hanno». Per la verità Renzi vorrebbe parlare pure dei tanti giovani parlamentari, suoi ma anche bersaniani, che il Pd ha portato alla Camera e al Senato. «E invece — confessa amareggiato a un amico — si finisce per discutere solo dei grillini perché il Pd si concentra esclusivamente su Bersani, Franceschini, Finocchiaro, e non si dà spazio ai nostri tanti nuovi parlamentari, non li si valorizza e questo è un peccato».
Non piacciono a Renzi (ma pure a tanti deputati e senatori che si rifanno alle sue posizioni) né i compagni di partito che ora inneggiano alle manette per Berlusconi, né quelli che inseguono Beppe Grillo e i suoi seguaci. «Il problema — dice il sindaco di Firenze — non è quello di mandare il Cavaliere in galera, ma di mandarlo in pensione». Quanto alla rincorsa al Movimento 5 Stelle, anche su questo fronte il primo cittadino di Firenze è netto nello spiegare le sue idee: «Stiamo chiedendo a Grillo: "cosa vuoi fare?" E invece dovremmo dirgli noi quello che vogliamo fare». Per Renzi è assurdo «continuare a inseguirlo mentre lui ci sputa in faccia, senza nemmeno metterlo in difficoltà rilanciando sul finanziamento pubblico ai partiti e sui costi della politica». Perché, ricorda il sindaco rottamatore, il rinnovamento non può essere una rappresentazione ma deve essere reale. L'idea che il grillino sia «offerto à la carte» fa sorridere il sindaco di Firenze. Il quale non si spinge a dire, come alcuni parlamentari renziani, «lasciamo che Bersani vada a sbattere contro un muro», ma appare evidente in ogni suo gesto e in ogni sua parola che questo è quello che pensa.
Il primo cittadino del capoluogo toscano non sembra apprezzare nemmeno le trattative sotto banco che qualcuno nel Pd (non Bersani, ovviamente) sta facendo con Scelta Civica e con il Pdl. Renzi, infatti, ritiene superato il governo Monti: per lui non può esserci un «sequel». E per questo elenca i punti deboli di quell'esperienza. Sarà su questo terreno che darà battaglia. In Parlamento, se non si andrà alle elezioni. Nella campagna elettorale per le primarie e in quella per le elezioni vere e proprie se la situazione precipiterà. Il patto di stabilità dei Comuni, innanzitutto. È un problema che va affrontato una volta per tutte. Renzi ne ha parlato anche prima della riunione con il presidente dell'Anci Graziano Delrio, e ne discute durante l'incontro a cui è presente pure il sindaco di Reggio Emilia. Quindi la semplificazione della burocrazia amministrativa. L'ultima questione (non certo per importanza, perché anzi da questo punto di vista è la prima) riguarda il lavoro: «Elsa Fornero sbagliava perché insisteva sulla libertà di licenziare, invece noi dobbiamo puntare sulla libertà di assumere». Su lavoro si incentrerà la sua campagna elettorale contro Grillo, quando sarà.
Sono discorsi, quelli di Renzi, che convincono soprattutto i giovani parlamentari, i quali non si stancano mai di ripetere: «Siamo qui perché vogliamo fare qualcosa di utile, non perché intendiamo occuparci delle beghe di partito». Il sindaco ascolta e parla quel che basta. Quel che serve a capire che lui vuole passare per le «primarie». Anche «a maggio, se il voto sarà a giugno». Non vuole farsi cooptare dai maggiorenti del partito, che già sono tutti in processione da lui: chi si limita a una telefonata, chi chiede un colloquio a tu per tu. Servono le primarie per legittimare il nuovo leader e per far ripartire il centrosinistra. Dicono che Mario Monti sia d'accordo con questa impostazione e che tra Bersani e Renzi abbia scelto il secondo.
Ma non è a questo che punta il sindaco rottamatore. Lui è più ambizioso e vorrebbe «cambiare la politica». Intanto non potendo rivoltare il Pd «come un calzino» ha cambiato il modo di riunirsi dei suoi parlamentari: all'uscita della riunione ogni partecipante ha dovuto sborsare dieci euro per pagare la sala.

Repubblica 15.3.13
Renzi riunisce i suoi 50 onorevoli “Non si gioca con le istituzioni”
di Simona Poli


ROMA — Renzi prepara la scalata alla leadership mentre è ancora in corso il tentativo di Bersani di trovare un accordo sulle presidenze di Camera e Senato. Ufficialmente il primo incontro organizzato ieri dal sindaco di Firenze con i “suoi” quarantasette parlamentari all’hotel Universo avrebbe dovuto rappresentare l’avvio di un sodalizio tra persone accomunate dallo spirito rottamatore ma che solo adesso si conoscono e si vedono in faccia. In realtà Renzi ha cominciato a rimotivare le truppe in vista di nuove primarie, a suo parere molto vicine nel tempo. «Qui si discutono problemi reali del paese, non questioni di poltrone», assicura il senatore Andrea Marcucci. Nel dibattito si parla di patto di stabilità, pubblica amministrazione, occupazione giovanile. Nessuna critica esplicita ai vertici e nemmeno prove generali di corrente, un termine che Renzi
detesta. «Questa riunione non è una prova tecnica di scissione», dice la fiorentina Rosa Maria Di Giorgi, ex assessore di Palazzo Vecchio. In realtà ci sono forti perplessità sull’attuale conduzione del partito. Paolo Gentiloni si affretta a precisare che i renziani «staranno alla larga da tutte le trattative» sulle cariche e sul governo. E il presidente dell’Anci Graziano Del Rio prende parte all’incontro e avverte: «Non si gioca con le istituzioni, comprese le presidenze di Camera e Senato. Tutti i parlamentari sono molto consapevoli di voler aiutare la decisione, rispettando però le istituzioni, senza fare scambi. Servono presidenti autorevoli e rappresentativi». Alla riunione partecipavano tra gli altri Ermete Realacci, Roberto Giachetti, Matteo Richetti e Roberto Reggi, che non è parlamentare.

Corriere 15.3.13
Lapo Pistelli: «Matteo stia attento a non bruciarsi»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — «Se Matteo mi chiedesse un consiglio...».
Cosa gli direbbe, onorevole Lapo Pistelli?
«Di stare attento ai tempi. Questo Paese divora le leadership e trasforma troppo rapidamente le risorse in panchine permanenti. Vogliamo parlare di Alfano o Di Pietro?». Per il responsabile Esteri del Pd, il sindaco di Firenze rischia di bruciarsi: «Basta guardarsi indietro. Tre mesi fa Monti era il salvatore dell'Europa, adesso sembra già dimenticato e questo rivela lo sbandamento in cui siamo».
Riunire la propria area mentre Bersani cerca il dialogo con i grillini è un ulteriore ostacolo per il segretario?
«Il mio dubbio è che alla fine, dopo aver agitato tutta questa maionese impazzita, ci sia qualcuno capace di governarla».
Renzi non lo sarebbe?
«La rapidità è una dote, ma a stargli dietro viene il mal di testa. Mi piacerebbe discutere tante cose con lui, anche il ruolo dei partiti e del Pd».
Non ha ragione sulla rinuncia al finanziamento?
«Non si può applaudire Napolitano che invoca partiti a dimensione europea per rilanciare l'Unione, cercare di costruire piattaforme e alleanze con altre forze oltre l'Italia, guardare ammirati il funzionamento del Labour o dell'Spd e poi tornare qui e rinunciare alle risorse».
Ma la politica divora i soldi dei cittadini...
«Dobbiamo stare attenti, altrimenti resteranno solo partiti posseduti da miliardari, liste personali, piattaforme web. Questo non ha niente a che fare con l'Europa. E anche in America si critica pesantemente il condizionamento della politica da parte dei fondi privati».
Bersani ce la può fare?
«Lo spero. La palla è al 90% nelle mani di Napolitano. Se il segretario riceve un mandato pieno forma un governo, va in Parlamento e può fare cose buone. Se non riceve la fiducia, gestisce un esecutivo di minoranza che ci porterà al voto».
E se invece ricevesse un semplice incarico esplorativo?
«Saremmo punto e a capo».

Corriere 15.3.13
Partiti senza uscita Anche tornare al voto è un'impresa difficile
Soluzione lontana per le faide interne
di Francesco Verderami


ROMA — La scheda bianca somiglia tanto alla bandiera bianca, è la plastica rappresentazione di un sistema che è imploso e che arranca verso nuove elezioni. Il punto è che persino arrivare alle urne sembra impresa difficile, siccome prima andrebbero eletti i presidenti delle Camere, formato un governo e votato il successore di Napolitano. Ma se il partito di maggioranza relativa non riesce nemmeno a esprimere candidati di bandiera per i vertici del Parlamento, ed è costretto a prendere tempo per le faide interne che lo stanno dilaniando, allora non si capisce come si procederà di qui al 15 aprile, quando inizierà la corsa per il Quirinale. Lo stallo delle Camere prende corpo nelle riunioni inconcludenti del Pd che già si divide su Renzi e Bersani per le prossime elezioni, nei vertici ospedalieri di un Pdl che teme la decapitazione del proprio leader per via giudiziaria, nei minuetti di un centro montiano che ha perso rilevanza e per di più è spaccato in tre fazioni, ognuna con una linea diversa.
Paradossalmente, l'impasse in Parlamento è solo la punta dell'iceberg nella crisi di sistema. Perché in soli due giorni ben altro è andato in frantumi. Prima per mano dell'ala intransigente delle toghe, che ha vanificato la tregua faticosamente costruita da Napolitano per scongiurare il conflitto tra politica e magistratura. Poi con l'inopinato endorsement a favore di Grillo dell'ambasciatore americano, che sottovoce i vertici di Pd e Pdl definiscono «unfit». E ancora con lo «schiaffo» dato ieri al governo italiano dal commissario europeo Rehn, secondo cui «alcuni Paesi» hanno esagerato con l'aumento delle tasse per risanare i conti pubblici. Così, quando da Bruxelles è giunta la notizia che il vertice del Ppe ha «deplorato» il Pd per non aver raccolto l'offerta di un governo di larghe intese avanzata dal Pdl, persino un berlusconiano solitamente mite come Quagliariello non si è trattenuto: «Proprio loro parlano, che ci volevano ostracizzare. Ma vaff...».
È stato il «vaffa-voto» a mandare in frantumi ciò che restava della Seconda Repubblica, non a caso solo i grillini voteranno oggi in Parlamento i loro candidati, mentre il capo di M5S già evoca un ritorno rapido alle urne. Sarà, ma bisogna arrivarci, cosa niente affatto facile. Il Pd è paralizzato e non sembra in grado di trovare vie d'uscita. Perché è vero che dentro il partito sale la rivolta contro Bersani, la cui linea d'intesa con Grillo è giunta al capolinea. Ma quanti lo avversano, da Letta a Franceschini, passando per D'Alema e Fioroni, non sono in grado di uscire allo scoperto, almeno non adesso. Finora non sono valse le obiezioni politiche avanzate al segretario, e cioè che «cercando l'accordo con Cinquestelle noi spingiamo Monti a destra e ci isoliamo sempre più a sinistra».
Se poi davvero si andasse alle elezioni in giugno, anche per Renzi la strada sarebbe in salita: alle primarie, che il sindaco di Firenze chiede per competere con Bersani, con quali voti vincerebbe visto che la nomenklatura del Pd — temendo di finire rottamata — si stringerebbe attorno all'attuale capo della «ditta»? Dall'altro lato della barricata democratica, chi non vuole morire grillino prefigura un'alleanza con Monti e confida che Casini — lasciato ormai di fatto l'Udc — detti la linea dei centristi e li porti a un accordo con il Pd. Peccato che Scelta civica sia a sua volta divisa, se è vero che — mentre l'ex presidente della Camera prova sotto sotto a rientrare in gioco — Montezemolo è fermo sull'idea che in caso di elezioni il centro non deve allearsi con nessuno, e intanto il Professore vede Gianni Letta per parlare di larghe intese e di Quirinale...
D'altronde è solo sulla presidenza della Repubblica che tutti stanno facendo il loro gioco, è quella la vera unica posta in una legislatura nata moribonda. Chissà se il fixing di Parisi è ancora valido, se Prodi è ancora oggi «il più accreditato» per il Colle. Perché se davvero il Pd pensa di poter far da solo, c'è chi ipotizza persino la corsa di Bersani. Quanto a Napolitano, Berlusconi l'altro ieri lo avrebbe ricandidato subito, sebbene più volte il capo dello Stato si sia chiamato pubblicamente fuori. «Ma se venisse votato dal Parlamento, come farebbe a dire di no?», obiettava il Cavaliere. Il virtuale girotondo attorno al Colle inscenato dalle toghe, ha però messo in difficoltà l'unico punto di riferimento istituzionale in questa crisi di sistema, lo ha «indebolito» per dirla con il pdl Bondi. E il leader del centrodestra — incerto se condurre la battaglia finale nelle Camere o nelle piazze — è a dir poco scettico sulla possibilità che si possa arrivare con il Pd a qualsivoglia intesa. Perciò si predispone anch'egli al voto.
Tutti (tranne la Lega) si dichiarano pronti alle elezioni. Il problema è che non sembrano aver nemmeno la forza di arrivarci. Oggi alle Camere sventoleranno la scheda bianca.

Repubblica 15.3.13
il retroscena
Montecitorio, la mossa di D’Alema
di Francesco Bei


È ENTRATO in campo Massimo D’Alema. La notizia non è ufficiale, ma molti ne parlano sottovoce.
È ARRIVATO l’uomo della trattativa impossibile, quella che dovrebbe mettere insieme le tre forze politiche «responsabili » per arrivare a un accordo senza il M5S. Anzitutto sulle presidenze di Camera e Senato, ma a seguire anche su un governo «istituzionale». E tra un mese, ovviamente, sul Quirinale.
Mentre Pierluigi Bersani ancora tesse la tela di un dialogo sempre più difficile con i cinquestelle e tiene aperta la porta a Mario Monti per la presidenza del Senato, D’Alema si muove ormai su un’altra scacchiera. Quella, appunto,
di una trattativa che salti del tutto i grillini e punti soltanto su Pdl e Scelta civica. Una prospettiva che trova concorde Giorgio Napolitano, da sempre scettico sul tentativo in solitaria di Bersani.
Il presidente del Copasir avrebbe lanciato segnali precisi, suggerendo la candidatura alla presidenza della Camera di due montiani di area centrosinistra: Lorenzo Dellai e Renato Balduzzi. Un “consiglio” che è arrivato ai diretti interessati passando sopra la testa di Monti, il quale infatti ha denunciato con i suoi le «pressioni improprie» di queste ore verso alcuni esponenti di Scelta Civica perché accettino l’offerta. L’irritazione del premier non è dovuta soltanto al fatto di essere stato scavalcato dalla diplomazia parallela dalemiana. Il problema vero è che Monti, nonostante Napolitano abbia bisogno di lui a palazzo Chigi finché il rebus istituzionale non sia sciolto, vedrebbe bene se stesso sullo scranno più alto di palazzo Madama.
Lo schema di gioco di D’Alema, che riguarda soprattutto il governo futuro di larghe intese, prevede invece che al Senato venga eletta Anna Finocchiaro con una larga maggioranza di Pd-Pdl-Lega e Scelta Civica. Dopo l’eventuale fallimento di Bersani, sarebbe proprio Finocchiaro — a quel punto presidente di palazzo Madama — ad essere chiamata da Napolitano al Quirinale per ricevere l’incarico di formare un «governo istituzionale». Al suo posto verrebbe eletto al Senato un presidente del Pdl, magari ancora Renato Schifani. A chiudere il cerchio dell’accordo, la casella più importante, quella del Quirinale. Che, nello schema D’Alema, andrebbe ovviamente al Pd e non è difficile immaginare quale candidato potrebbe andarci.
Anche Berlusconi, chiuso ieri per tutto il giorno con i fedelissimi nella suite del San Raffaele, è stato messo al corrente dell’offerta. Tanto che Denis Verdini con una telefonata a Roma ha dato ordine di bloccare la manifestazione del Pdl che si sarebbe dovuta tenere oggi. «C’è aria di accordo», si è limitato a dire a chi gli chiedeva lumi. Ma il Cavaliere non accetta la tattica del carciofo, non vuole sfogliare un petalo alla volta, pretende da subito un patto esplicito che riguardi anche il Quirinale e il governo. «Altrimenti — ha spiegato ancora ieri — per noi è meglio andare al voto a giugno. Renzi si è sgonfiato e, anche se il Pd dovesse candidare lui, saremmo noi stavolta a vincere il premio di maggioranza ». Berlusconi nell’intesa vorrebbe anche farci entrare una qualche forma di salvacondotto giudiziario, non soltanto il riconoscimento politico di un ruolo da kingmaker. Quanto meno la garanzia di un voto contrario del Pd se mai dovesse davvero arrivare una richiesta di arresto. Sul Quirinale poi, ed è qui forse l’incaglio maggiore, Berlusconi non ha dato (ancora) via libera a una candidatura di area democratica. Né D’Alema ma nemmeno Giuliano Amato. «Stavolta tocca a noi».
Intanto sulla trattativa-ombra un primo passo avanti è stato fatto ieri. Dopo un colloquio segreto tra Finocchiaro e Calderoli, e una triangolazione con Bobo Maroni a Milano, è arrivato il via libera del Carroccio. Tanto che Calderoli, che dovrebbe diventare vicepresidente vicario del Senato, è uscito allo scoperto mettendo per primo il cappello sulla possibile intesa con un’intervista alla Padania.
Bersani ovviamente è consapevole di quanto sia sottile il ghiaccio sul quale sta pattinando e ha avuto sentore di cosa si muove sotto la superficie. Benché i suoi assicurino che la sintonia con D’Alema sia totale, è evidente che i due schemi di gioco sono molto diversi. Sembra infatti che il segretario Pd, conscio del pericolo, abbia chiesto una sponda a Mario Monti. E un altro sicuro alleato è Dario Franceschini, che vedrebbe sfumare le sue ambizioni sulla presidenza della Camera se andasse in porto l’ipotesi D’Alema di metterci un Dellai o un Balduzzi. Così, tra queste manovre, si apre la diciassettesima legislatura. E le speranze di sbloccare lo stallo e i veti incrociati sono davvero al lumicino. Beppe Fioroni racconta di essere andato a trovare un affranto Bersani per tirarlo un po’ su di morale: «Vedrai Pierluigi che adesso, dopo aver finito il lavoro con il Conclave, lo Spirito santo avrà un po’ di tempo per concentrarsi su di noi».

l’Unità 15.3.13
E dopo le lodi, lo Spiegel avverte: pericolo per l’Europa
In un editoriale on line si attribuisce la forza di Grillo al risentimento contro la classe politica, il sistema parlamentare, Bruxelles e la Germania
di Paolo Soldini

Bisognerebbe augurarsi che Steinbrück abbia avuto ragione quando ha affermato che gli italiani hanno eletto due buffoni. Ma purtroppo sembra proprio che su uno dei due si sia sbagliato». Jan Fleischhauer, editorialista abbastanza noto e alquanto controverso, conclude così un commento su Beppe Grillo comparso sullo «Spiegel on line» richiamando la gaffe in cui il candidato socialdemocratico alla cancelleria si era prodotto all’indomani dell’apertura delle urne in Italia. E il senso della frase è chiaro: Berlusconi sarà pure un clown, ma Grillo non lo è affatto. È, come recita il titolo del commento, «l’uomo più pericoloso d’Europa».
L’INTERVISTA
Fleischhauer prende spunto dall’intervista che il leader del movimento Cinque Stelle ha rilasciato giorni fa al quotidiano economico «Handelsblatt», nella quale sostiene (fra l’altro) che «de facto» l’Italia è già fuori dell’euro e che in capo a sei mesi i partiti rappresentati nel parlamento italiano saranno morti.
Per l’editorialista dello «Spiegel» si tratta di affermazioni che mettono a nudo il carattere antidemocratico di Grillo, che invece sostiene in Germania viene visto con una certa simpatia perché qua si ritiene, a torto, che le sue idee siano vicine a quelle dei Verdi e della sinistra. Ma si tratta di un pericoloso fraintendimento: la proposizione di contenuti ecologici e di rinnovamento della politica, come il sostegno alle energie alternative, una maggiore partecipazione dei cittadini, la protesta contro i politici disonesti e ingordi sono, secondo Fleischhauer soltanto la superficie. In realtà la forza del leader italiano è nel risentimento non solo contro la classe politica, ma contro il sistema parlamentare in sé, contro i burocrati di Bruxelles e, last not least, i tedeschi. Questa è la chiave del suo successo e con la democrazia ha poco a che vedere.
Il commentatore tedesco dice di condividere la tesi dello storico britannico Nicholas Farrell autore di una biografia di Mussolini al quale, recentemente, ha paragonato Grillo. Ambedue hanno tratto spunto per la loro avventura politica dalla sinistra e sono rimasti, in fondo all’anima, uomini di sinistra. Mussolini era nero, Grillo pare verde, ma tutti e due, secondo l’opinione di Farrell che Fleischhauer condivide a pieno, «hanno il cuore rosso».
ANTI-SINISTRA
Si capisce, insomma, che ciò che turba particolarmente il commentatore dello «Spiegel» è la contezza, più che il sospetto, che dietro le istanze antisistema del leader italiano si nasconda una propensione all’eversione di sinistra. In questo Fleischhauer si mostra coerente con la sua concezione del mondo. L’editorialista, in Germania, è conosciuto per le sue posizioni fortemente contrarie alla sinistra. Qualche anno fa scrisse un libro, «Unter Linken» in cui spiegava la propria adesione alla destra conservatrice con il disprezzo che aveva maturato verso il dogmatismo sinistrorso dei propri genitori. Molti allora interpretarono la polemica dell’autore in una chiave molto personale, come una forma di ribellione psicologica contro la madre. Qualche altra polemica Fleischhauer la sollevò quando, in un commento, scrisse che Schettino, il capitano che fece naufragare la «Costa Concordia» non poteva che essere italiano, perché un comandante tedesco o inglese mai si sarebbe comportato in quel modo.
Va detto comunque che le opinioni di Fleischhauer (e di Farrell) non sono molto condivise in Germania. Nei confronti di Grillo c’è una certa preoccupazione, soprattutto per le sue ambiguità sull’Europa e sull’instabilità che può indurre in Italia, ma nessuno ritiene di doverlo accostare a Mussolini. Qui, come altrove, il problema è semmai quello di analizzare le ragioni che stanno alla base del suo successo.

il Fatto 15.3.13
Fiom: “Il contratto Fiat? Una beffa”
Per il sindacato la busta paga degli operai sarà alleggerita di 164 euro all’anno
di Salvatore Cannavò


Rischia di essere una beffa con danno incorporato il nuovo contratto della Fiat. Secondo la Fiom, infatti, sarebbe peggiorativo rispetto a quello precedente permettendo così a Sergio Marchionne di ottenere dai sindacati per la prima volta un “contratto del gambero”, in grado di consentire un'effettiva diminuzione del salario in busta paga piuttosto che un suo aumento.
“Sempre peggio” è il documento che il sindacato di Maurizio Landini volantinerà in tutte le fabbriche del gruppo e in cui sono riportate tre tabelle, da cui si evince che il rinnovo contrattuale, siglato l'8 marzo del 2013, produrrà, per un lavoratore di 5° livello e di prima fascia, il più basso della scala aziendale, una riduzione di 164,89 euro annui in busta paga. Ma la perdita si limiterà a questa cifra solo se quegli operai non si assenteranno mai, non faranno mai cassa integrazione oppure un fermo produttivo o un'ora di malattia. In tal caso la perdita potrebbe essere molto più consistente.
Il conteggio della Fiom è molto preciso e si basa su una serie di tabelle che il Fatto ha potuto consultare. Nella tabella 1 viene riepilogato il premio di produzione che gli operai della Fiat ricevevano sulla base del primo contratto separato del gruppo, siglato il 13 dicembre 2011. Fu quello il primo accordo senza la Fiom, tenuta fuori dalle trattative. In quel caso, sempre per un operaio di 5° livello e di prima fascia, il premio si suddivideva in un “premio di produttività” del valore di 1.343,03 euro e di un premio straordinario annuo di 600 euro. Totale: 1.943,03 euro. Con l'intesa dell'8 marzo il premio di competitività e quello straordinario sono stati sostituiti da “l'incentivo di produttività” pari a 0.82 euro per ora “effettivamente lavorata in regime di lavoro ordinario”. Qui scattano i conti della Fiom che ha ipotizzato l'orario mensile di un lavoratore sempre presente, basando i propri calcoli, quindi, sull'orario completo. Viene fuori che, accanto all'aumento di 393,24 euro in busta paga, pari a 32,77 euro lordi in più al mese si sommano il residuo del vecchio “premio di competitività” che scade a marzo (309,93 euro) e il nuovo “incentivo di produttività” (da aprile a dicembre) pari a 1.074,97.
IL TOTALE è di 1.778,14 inferiore, appunto, di 164 euro rispetto al premio precedente. Come si nota, nel conteggio è inserito anche il vero e proprio aumento contrattuale, quello di 40 euro lordi al mese per il terzo livello presentato dai sindacati firmatari, Fim, Uilm, Fismic e Ugl, come un successo dei lavoratori. La riduzione non riguarda, però, solo gli operai di 5° livello e di prima fascia, ma anche gli altri livelli seppur di proporzioni minori. Un terzo livello di seconda fascia, ad esempio, ci rimette 136,06 euro mentre un operaio di primo livello perde 88 euro. Si tratta di cifre annue ma comunque, per la prima volta, il trattamento salariale va all'indietro e non, sia pure di poco, in avanti. “Il contratto – spiega il responsabile Fiom per l'Auto, Michele De Palma – colpisce in primo luogo turnisti e cassintegrati ed è stato imposto dalla Fiat, accettato dalle organizzazioni sindacali firmatarie senza alcun coinvolgimento dei lavoratori. Ecco a cosa serviva tenere la Fiom fuori dalle trattative”. “La fiom fa dei calcoli indebiti - spiega Ferdinando Uliano responsabile Auto della Fim-Cisl - perché calcola anche 600 euro del premio straordinario che era previsto solo per l'anno scorso. Inoltre - aggiunge - l'incentivo variabile rapportato alle ore lavorate permette di beneficiare della defiscalizzazione". Anche sulla penalizzazione per chi sta in cassa integrazione la Fim sostiene che è un effetto spiacevole di tutti gli aumenti. "Se non avessimo f irmato il contratto- conclude Uliano - s i lavoratori avrebbero 80 euro in meno al mese".

Marò
il Fatto 15.3.13
Le parole del Presidente
di Antonio Padellaro


Come si sono permessi di gettare alle ortiche la parola d’onore dell’Italia e degli italiani? Con quale diritto? E a quale prezzo visto che oltre agli incalcolabili danni sulla nostra immagine internazionale già malconcia di suo adesso ci va di mezzo l’ambasciatore italiano a New Delhi che risulta praticamente sequestrato dalle autorità indiane? C’erano tanti modi per affrontare la controversia sui due marò accusati dell’assassinio di due pescatori del Kerala: il governo Monti ha scelto la strada peggiore e quella più disonorevole. Che comincia alla vigilia del Natale 2012 quando il governo indiano concede a Girone e Latorre una licenza di due settimane per trascorrere le feste in famiglia. Come garanzia per il ritorno dei militari, il governo italiano offre 800 mila euro di cauzione, più l’impegno esplicito dell’ambasciatore d’Italia e dello stesso ministro degli Esteri Terzi, più una dichiarazione d’onore dei marò, ci mancherebbe altro. Ma l’atto più solenne viene dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che dichiara: “Rispetteremo gli impegni”. E ciò che avviene la prima volta, ma non la seconda quando, siamo a febbraio, gli ufficiali ottengono dagli indiani un secondo permesso e ritornano in Italia per votare alle elezioni. Poi l’improvviso voltafaccia italiano, il “colpo gobbo” come è stato allegramente definito da alcuni giornali: i militari restano a casa e tanti saluti alla nostra parola d’onore. Solo che a Delhi la prendono malissimo e l’inevitabile ritorsione colpisce l’ambasciatore Mancini che non può più muoversi dalla sede diplomatica, tanto che neppure i familiari riescono a contattarlo. Altro che colpo gobbo, una vera idiozia non considerare che la firma di un impegno scritto avrebbe trasformato l’ambasciatore Mancini in una sorta di ostaggio da tenere sotto chiave per ogni evenienza. Ma è la parola d’onore violata che resta un atto vergognoso perché è anche la parola d’onore di tutti gli italiani. Possibile che il capo dello Stato abbia avallato l’inaccettabile dietrofront del governo Monti? E quella frase: “Rispetteremo gli impegni” è da considerarsi anch’essa una finzione? Sarebbe gravissimo, non possiamo crederlo. Presidente, dica qualcosa per favore.

Francesco contro il diavolo: “Chi non prega Gesù Cristo prega il diavolo, quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del demonio”
il Fatto 15.3.13
“Non voglio più vedere il cardinale dei pedofili”
A Santa Maria Maggiore, Bergoglio incontra Law, accusato di aver coperto gli abusi a Boston e chiede di allontanarlo
di Carlo Tecce


A un certo punto, varcato il portale di Santa Maria Maggiore, lo sguardo di Papa Francesco s’è fatto cupo. Non s’aspettava di incontrare il cardinale messicano Bernard Francis Law, un grosso uomo di 82 anni, ormai in pensione senza aver mai scontato l’accusa di aver coperto i preti pedo-fili nella diocesi di Boston. L’associazione statunitense Snap (la rete delle vittime degli abusi) ha elencato più di cinquemila episodi: undici anni fa, nel 2002, il cardinale Law fu costretto a dimettersi, chiese perdono e annunciò un ritiro spirituale mai avvenuto. Al contrario, fu promesso proprio arciprete di Santa Maria Maggiore. Il pontefice non voleva condividere le prime fotografie e le prime immagini pubbliche con un principe vaticano macchiatosi di enormi peccati, e non ha trattenuto il pensiero, anzi il desiderio: “Non voglio che frequenti ancora questa basilica”. Anche se privato di qualsiasi carica, Law risiede ancora nel palazzo di Santa Maria Maggiore. Al Fatto risulta che il pontefice argentino, come primo atto di pulizia, sia intenzionato a far trasferire il prelato: in clausura sarebbe perfetto. E sarebbe una rivoluzione per il Vaticano che ha protetto Law sottraendolo al percorso giudiziario americano. Perché nel 2004, mentre negli Stati Uniti cominciavano i processi e la diocesi di Boston pagava risarcimenti milionari, il cardinale di Torreòn fu elevato ad arciprete di Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche patriarcali, cioè papali, assieme a San Pietro, San Giovanni in Laterano e San Paolo fuori le mura.
NESSUNO ha mai punito o messo in discussione la posizione di Law, reggente a Santa Maria Maggiore per sette anni, che ha persino celebrato il funerale di Giovanni Paolo II e che ebbe una parte determinante nel Conclave che elesse Benedetto XVI. Ma non passò inosservato. Furono proprio i gesuiti, l’istituto religioso cui appartiene Jorge Mario Bergoglio, a polemizzare con la Santa Sede: “È un altro esempio delle opposte visioni fra il Vaticano e la Chiesa americana. É una scelta che può riaprire ferite che avevano appena cominciato a rimarginarsi”, disse al New York Times, Keith Pecklers, docente all’Università Gregoriana di Roma. Non senza imbarazzi, padre Federico Lombardi, il portavoce gesuita del Vaticano, ha comunicato la presenza di Law con una formula particolarmente abile per far capire che si trattava di un’iniziativa personale dell’anziano prelato. Tradotto: nessuno l’aveva invitato. “Il cardinale Law – ha spiegato Lombardi – era stato informato dell’arrivo del Papa e ha voluto essere presente a questo momento”. Forse l’ultimo. Perché il Papa argentino farà spesso visita in basilica per pregare la Madonna, ma non vuole più rivedere Law.
IL PRIMO giorno da vicario di Cristo di Bergoglio è trascorso con le prime (e indirette) conferme. Il Papa vuole sfruttare il tramite di padre Georg Ganswein per avere un buon rapporto e un costante dialogo con Joseph Ratzinger: l’arcivescovo tedesco abiterà nell’ex monastero adibito a nuova casa di Benedetto XVI, ma resterà anche prefetto per la Casa Pontificia. Avranno un ruolo rilevante anche i cardinali Claudio Hummes (Montenegro) e Franc Rodé (Slovenia), da sempre vicini all’ex arcivescovo di Buenos Aires. Papa Francesco dovrà ancora riformare la Curia: si prevedono poteri minori per il segretario di Stato; Tarcisio Bertone dovrebbe lasciare entro dicembre (quando compirà 79 anni) ; il governo vaticano spetterebbe a un italiano. In corsa ci sono i monsignori Luigi Ventura, Angelo Becciu, Lorenzo Baldissera e il cardinale Mauro Piacenza.
Non è ancora iniziato il pontificato di Papa Francesco, l’uomo che viene dalla fine del mondo, ma per molti sembra già finito.

il Fatto 15.3.13
“Le due guance del cardinale”
Horacio Verbitsky

tratto da “L’isola del silenzio”, ed. Fandango, 2006

ORLANDO YORIO non si ristabilì mai pienamente. Lavorò nel Vicariato di Quilmes, ma sentendosi minacciato si stabilì in Uruguay, dove morì nel 2000. Tempo prima rievocò la sua relazione con Bergoglio. “Non ho alcun motivo per pensare che fece qualcosa per la nostra libertà, bensì il contrario”. I due sacerdoti “furono liberati grazie all’intervento di Emilio Mignone e all’intercessione del Vaticano, e non per la condotta di Bergoglio, che al contrario fu colui che li consegnò”, sostiene Angélica Sosa de Mignone. Secondo la moglie di un altro desaparecido, che si attivò presso il nunzio, Laghi gli riferì che era stato lui a “tirar fuori dalla Esma” i due sacerdoti.
(...) Secondo Yorio, “il pericolo era evidente a tutti. Non era necessario alcun avvertimento. Nel maggio 1974 avevano falcidiato a colpi di mitra Carlos Mugica, poco tempo dopo uccisero altri due sacerdoti. Ai primi del 1975 io fui rimosso dalla cattedra di Teologia alla facoltà dei gesuiti di San Miguel senza formale procedimento e senza motivazioni accademiche, solo per aver aderito alla teologia della liberazione. Mi venne solamente sottoposto un mandato di obbedienza, quando Bergoglio era il padre provinciale. Lo stesso Bergoglio riconobbe in seguito che fu molto ingiusto, ma lo diceva come se lui fosse stato assolutamente estraneo ai fatti”.
(...) A suo giudizio, Bergoglio “era in contatto con Massera, lo avranno informato che io ero il capo dei guerriglieri ed è per questo che se ne lavò le mani ed ebbe questo atteggiamento ambiguo. Non si aspettavano che ne uscissi vivo”. Anzi, sospetta che Bergoglio fosse presente nella sede operativa della Marina dove passarono diversi mesi. “Una volta ci dissero che avevamo una visita importante. Arrivò un gruppo di persone. Jalics sentì che uno era Bergoglio”, dice. “In che modo lo sentì? ”. “In circostanze come quelle uno riconosce il proprio carceriere anche dai battiti del cuore”. Il 16 luglio 1985, quando giurò come testimone dinanzi alla Camera federale che processò Videla, Massera e compagni, Yorio disse che quando riacquistò la libertà si nascose in una chiesa e prese contatto con Bergoglio, che allora non considerava corresponsabile dell’accaduto. Dinanzi ai giudici, Yorio disse anche che Bergoglio si era attivato presso Massera per la sua liberazione.

il Fatto 15.3.13
L’accusatore, Horacio Verbitsky
“Documenti e testimoni: collaborò con i dittatori”
di Giampiero Calapà


“Una disgrazia, per l’Argentina e per il Sudamerica”. È feroce il giudizio di Horacio Verbitsky, intellettuale, scrittore e giornalista di Bue-nos Aires, su Jorge Mario Bergoglio eletto papa della Chiesa cattolica. Verbitsky – autore di venti libri tra cui Il Volo (che riporta la confessione del capitano Scilingo sui voli della morte) – è il principale accusatore di Bergoglio: il neo pontefice, per lo scrittore – come ricostruito e documentato nel capitolo “Le due guance del cardinale” del suo libro L’isola del silenzio – “è stato collaborazionista della dittatura argentina dei generali”.
Verbitsky, Bergoglio papa è “una disgrazia per l’Argentina e il Sudamerica”. Perché?
Perché il suo populismo di destra è l’unico che può competere con il populismo di sinistra. Immagino che il suo ruolo nei confronti del nostro continente sarà simile a quello di Wojtyla verso il blocco sovietico del suo tempo, sebbene ci siano differenze fra le due epoche e i due uomini. Bergoglio combina il tocco populista di Giovanni Paolo II con la sottigliezza intellettuale di Ratzinger. Ed è più politico di entrambi.
Che cosa facevano i due gesuiti Yorio e Jalics nella baraccopoli di Bajo Flores?
I gesuiti vivevano in comunità ed evangelizzavano gli abitanti dei quartieri marginali, come parte dell’impegno “terzomondista” della Compagnia di Gesù.
Per quale motivo Bergoglio avrebbe dovuto denunciarli?
Con l’avvicinarsi del golpe, Bergoglio chiese loro di andarsene, a quanto racconta lui allo scopo di proteggerli. Secondo loro, per smantellare quell’impegno sociale che disapprovava. Venne nominato superiore provinciale della Compagnia all’inusuale età di 36 anni e da quando arrivò, iniziò a svolgere un compito di sottomissione alla disciplina, a uno spiritualismo astratto. Un documento di un servizio di intelligence che ho trovato nell’archivio della Cancelleria si intitola “Nuovo esproprio dei gesuiti argentini” e afferma che, “nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la compagnia in Argentina non si è ripulita. I gesuiti di sinistra, dopo un breve periodo, con grande appoggio dell’estero e di certi vescovi terzomondisti, hanno intrapreso subito una nuova fase”. Si tratta della Nota-Culto, cassa 9, bibliorato b2b, Arcivescovado di Buenos Aires, documento 9.
I documenti che ha trovato, nella sua lunga indagine, negli archivi del ministero degli Esteri di Buenos Aires, per lei sono la prova definitiva del collaborazionismo di Bergoglio con il regime di Videla?
Sì. Ho trovato una serie di documenti che non lasciano dubbi. In uno, Bergoglio firma la richiesta di rinnovo del passaporto di Jalics senza necessità che venisse dalla Germania. In un altro, il funzionario che riceve la richiesta consiglia al ministro di rifiutarla. In un altro ancora, lo stesso funzionario spiega e firma che Jalics, sospettato di contatti con i guerriglieri, ebbe conflitti con la gerarchia, problemi con le congregazioni femminili (la qual cosa è molto suggestiva), che fu detenuto nella Esma, la Escuela de Mecánica de la Armada (non dice sequestrato ma detenuto) e che si rifiutò di obbedire agli ordini. Finisce dicendo che queste informazioni gli vennero fornite proprio da Bergoglio, oggi papa Francesco.
Da Bergoglio arrivarono le scuse per gli anni della dittatura, nel 2000, quando la chiesa argentina “indossò” le vesti della pubblica penitenza. Crede che non basti?
Non c’è mai stata una vera richiesta di perdono, sempre ambiguità. Non è la Chiesa, ma sono alcuni dei suoi figli ad aver peccato e per loro chiedono il perdono.
Personaggi molto popolari come Maradona o Messi hanno espresso felicità per l’elezione di Bergoglio al Pontificato. La cosa le ha dato fastidio?
No. Aspetto di vedere cosa diranno Pirlo e Balotelli. È ovvio che c’è un trionfalismo generalizzato: il papa è argentino, la regina d’Olanda è argentina, Maradona e Messi sono argentini. Ma questo non dice nulla su Bergoglio e sui suoi meriti.
La Kirchner non lo ama, ha avuto degli scontri su temi come le nozze gay con Bergoglio. Crede che ci sarà mai un incontro tra la presidenta e il papa argentino?
Suppongo di sì, lei è molto conciliante con la Chiesa. Non nasconde mai quello che pensa, ma cerca di mantenere buoni rapporti ed è contraria all’aborto. Il matrimonio omosessuale fu un’iniziativa di Néstor Kirchner, il marito, ex presidente.
Bergoglio ha scelto il nome di Francesco. Molti lo apprezzano per uno stile di vita umile.
Naturalmente, è uno tra mille simboli. Il papa austero, come il poverello di Assisi, che viaggia in bus e metropolitana, che usa scarpe consunte, che celebra messa nella stazione ferroviaria per i più poveri, dei quali ha pietà tra l’indifferenza dei soddisfatti e dei corrotti. Populismo conservatore, imprescindibile per sbiancare i sepolcri vaticani, aperti per il riciclaggio del denaro, la pedofilia e la lotta tra fazioni. Sarà semplice come Giovanni, severo come Paolo, sorridente come Giovanni Paolo I, iperattivo e populista come Giovanni Paolo II e sottile come Benedetto.
Bergoglio disse di aver molta stima di lei, ma che il suo libro è “un’infamia”. Non ha mai avuto modo di incontrarlo? Lo farebbe adesso che è papa?
Quando pubblicai L’isola del silenzio inviò un sacerdote a chiedermi perché lo avessi fatto, nonostante avessimo un bel rapporto e amici in comune che ci presentarono. Replicai con un’altra domanda: che avrei dovuto fare con i documenti che avevo trovato? Bruciarli? Fingere di non averli visti? Questa sì che sarebbe stata un’infamia.

il Fatto 15.3.13
Martiri e silenzio. Così la Chiesa si strinse ai golpisti
Negli anni di Videla e Massera furono torturati e uccisi anche preti e vescovi, ma i principali esponenti vaticani scelsero di non denunciare
di Maurizio Chierici


L’America Latina è il continente dove la religione è vissuta in pubblico: chiese, radio, tv. Accompagna e determina la politica in uno spazio aperto alla folla dei cristiani più grande del mondo. Chiesa cattolica che sta con la gente, ma quale tipo di gente?
Le analisi divergono anche se la scelta in apparenza sembra semplice. Se i governi sono l’espressione dei popoli, la stessa folla si affida alla Chiesa, ma se i governi soffocano la gente dovrebbero soffocare anche la Chiesa il cui annuncio accompagna l’impegno alla solidarietà. Tocca ai governi decidere quale ruolo scegliere e alla Chiesa quale solidarietà esercitare. La pratica si sforza di non isolare le buone relazioni fra Roma e il Vaticano. Scelta non semplice nel continente spagnolo sospeso tra il passato della Teologia della Liberazione non gradita alla Roma di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e la realpolitik di tanti governi.
Cronaca degli ultimi anni nel-l’Argentina in transito dai militari alla democrazia dei Kirchner. Nella Buenos Aires 1976, giorno prima del golpe, la conferenza episcopale incontra il generale Videla e l’ammiraglio Massera, affiliato alla loggia di Licio Gelli. Si formalizza l’accordo per una “serena convivenza”. Garantisce monsignor Tortolo, vescovo militare. Gran parte dei vescovi e il nunzio apostolico Pio Laghi assistono all’insediamento di dittatore accanto all’ammiraglio Massera.
LAGHI È IL SOLO diplomatico presente. Manca il vescovo Angelelli ucciso poco dopo. Non c’è il vescovo Carlos Ponce assassinato in un finto incidente stradale. Ma il primo a morire è don Carlos Mungica fondatore del movimento sacerdoti terzomondisti. Poi tocca a padre José Tedeschi e all’intera comunità dei pallottiniani: 3 preti, 2 seminaristi. Mentre altri preti si nascondono o finiscono nelle prigioni segrete, l’omelia del nunzio Pio Laghi rasserena gli animi. “L’Argentina ha un’ideologia tradizionale e quando qualcuno impone idee estranee, la nazione reagisce. I soldati adempiono al loro dovere primario di amare Dio e la Patria”. Laghi è un tennista disinvolto. Due volte la settimana sfida l’ammiraglio Massera. Quando torna a Roma diventa cardinale. Paolo VI, stanco e malato, viene tenuto all’oscuro e solo un anno dopo si rivolge alla commissione episcopale con una lettera insolitamente arcigna: perché tacete? La commissione risponde condannando i delitti senza parlare del governo. Il Vaticano non viene informato dei ragazzi che spariscono: migliaia. E se qualcuno sa, tace per non turbare il pontefice. Tina Boitano, e altre madri di Piazza di Maggio decidono di arrivare a Roma per informare il nuovo papa Giovanni Paolo II dei figli che militari in borghese hanno portato via mentre uscivano dalla messa o dall’università. Del nunzio e dei vescovi ormai non si fidano. Risposte vuote. Per sopravvivere in Italia fanno le perpetue. Qualcuno le infila in un’udienza e la Boitano allunga un foglio al Wojtyla che la sfiora. E nell’Angelus della domenica Giovanni Paolo II pronuncia per la prima volta la parola “desaparecidos” e chiede spiegazioni al cardinale Aramburu. Chiesa divisa: la paura e l’obbedienza dovuta al primate argentino non sdegnoso verso i militari, frena chi si ribella alla violenza.
Non tutti hanno il coraggio della protesta. E quando i golpisti perdono il potere, la reticenza della Chiesa continua. Parlo col vescovo Laguna, portavoce della commissione episcopale, mentre il default inginocchia l’Argentina. Prima del colloquio fa sapere: “Appartengono all’ Opus Dei”. 2001: due vescovi chiedono perdono. Il vecchio Karlik e Novak ormai sul letto di morte. Hanno aiutato nell’ombra le vittime impaurite ma riconoscono di aver taciuto quando “dovevamo parlare”. Monsignor Laguna non è d’accordo sulla forma della confessione. “ Potevano invocare perdono per la loro diocesi, non nel nome della Chiesa. La Chiesa è stata chiara con la dovuta cautela. Bisogna riconoscere che certe complicità hanno aiutato il silenzio: piccoli preti ma anche membri della gerarchia frequentavano i comandanti con amicizia”.
RIFIUTA L’AMBIGUITÀ di Pio Laghi: “So quanto si è prodigato per salvare chi poteva salvare... ”. E l’opacità continua fino ai nostri giorni. Christian von Wermich, sacerdote che “consolava” nella confessione gli studenti destinati a sparire nei sotterranei della tortura, Scuola Meccanica della Marina (oggi museo Nunca Mas), sta scontando l’ergastolo per aver ingannato con trappole sacrileghe 34 ragazzi. Sette non sono mai tornati. Usava la confessione per sapere i nomi degli amici nascosti. Subito li faceva arrestare. Accompagnava le “sue” vittime a morire invitando alla serenità: “Volontà del Signore”. Un anno fa scrive una lettera ai giornali: lamenta la costrizione di non celebrare messa davanti ai carcerati. “La Chiesa conferma la mia piena dignità sacerdotale, perché il Direttore dell’Istituto mi impedisce di esercitarla? ”. Ancora un anno fa sopravviveva la curiosità senza risposta: come mai non è stato sospeso a divinis come è successo a ogni teologo della liberazione?

il Fatto 15.3.13
L’avvocato delle vittime
“Anche sui desaparecidos italiani quella Chiesa fu responsabile”
di Anna Vullo


Milano L’ombra dei desaparecidos argentini s’allunga sull’esordio del papato di Francesco. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio aveva quarant’anni durante l’epoca buia della dittatura. È stato provinciale gesuita tra il 1973 e il 1979, in un periodo in cui era difficile non essere a conoscenza dei crimini perpetrati dalla giunta militare, dei sequestri e delle sparizioni, delle torture e del rapimento di centinaia di bambini partoriti in clandestinità. L’avvocato Giancarlo Maniga, origini sarde e studio a Milano, è stato legale di parte civile nel processo sui casi di sei desaparecidos di origine italiana, che si è concluso a Roma nel 2004 con la condanna all’ergastolo dei generali Guillermo Suàrez Mason e Santiago Omar Riveros e di altri ufficiali argentini. Maniga ha seguito anche le sorti di tre cittadini di origine italiana nel-l’ambito del processo Esma, con cui sono stati condannati all’ergastolo, tra gli altri, l’ex capitano di corvetta Alfredo Astiz e il “Tigre” Jorge Acosta, uno dei più efferati torturatori dei tempi della dittatura. L’avvocato conosce a fondo quell’epoca oscura: ha ascoltato le testimonianze di decine di familiari di desaparecidos ma anche di studenti, sindacalisti, professori universitari, persone comuni sopravvissute alla crudeltà dei centri clandestini. “In quel momento storico drammatico, la Chiesa argentina ha brillato per la sua assenza”, commenta oggi Maniga dal suo studio di fronte al tribunale di Milano: “Un’assenza così marcata da sconfinare nella complicità. A Buenos Aires, ma anche a Rosario o Cordoba, ogni giorno spariva qualcuno. La Chiesa non poteva non sapere”, continua il legale. “Tanto più che vi sono testimonianze secondo cui ai desaparecidos, prima di venire lanciati in mare dai famigerati voli della morte, veniva data l’estrema unzione da sacerdoti convocati ad hoc”. Quello che alcuni definiscono un silenzio prudente si traduce, nei ricordi dell’avvocato sardo, in colpevole omertà. Sino al mea culpa in occasione del 30° anniversario del golpe, quando papa Francesco , allora arcivescovo di Bue-nos Aires, incoraggiò la Chiesa a pubblicare un documento in cui ammetteva in parte le proprie responsabilità. Secondo Maniga non è sufficiente: “I credenti di allora avevano diritto a una posizione più netta e più attiva. Ad esporsi furono solo sconosciuti sacerdoti e parroci di provincia. Rappresentanti del basso clero. Che in molti casi hanno pagato con la vita il loro coraggio”. Una macchia, quella dei desaparecidos, che rischia di compromettere la popolarità del nuovo papa? L’avvocato Maniga non ci crede più di tanto: “Bergoglio è un politico molto abile”.

il Fatto 15.3.13
Argentino a Roma
Papa Francesco, una partita ad alto rischio
di Paolo Flores d’Arcais


Un ateo quale io sono non è la persona più indicata per esprimere auspici su quanto potrebbe/dovrebbe fare il nuovo Papa. Il “bene della Chiesa” non rientra tra le mie preoccupazioni, fingerlo sarebbe pura ipocrisia. Del resto il “bene della Chiesa” significa anche per i credenti le cose più diverse e financo opposte: quello che con tale espressione intendono le eminenze Bertone e Bagnasco credo sia inconciliabile con quanto vorrebbero don Gallo e don Ciotti, esattamente come alternativo era “il bene della Chiesa” versione cardinal Siri e don Gianni Baget Bozzo con quello di Dom. Giovanni Franzoni e di don Mazzi dell’Isolotto. Ma anche “ateo” nasconde le scelte di valore più variopinte. Ateo era il mio maestro Lucio Colletti, finito malinconicamente parlamentare di Berlusconi, e ateo clericalissimo, ratzingeriano devoto, è Giuliano Ferrara.
UN ATEO “auspica” secondo i propri valori, nella convinzione (opposta a quella del Papa e di ogni autentico credente) che tutto si giochi nella breve durata dell’esistenza, perché con la morte tutto si conclude e ogni aldilà di riscatto, premio, punizione, è pura illusione, pura superstizione. Dunque, anche rispetto a quanto potrebbe fare Papa Francesco, io posso solo ragionare a partire dai valori che sono la mia bussola, Giustizia e Libertà.
Sotto il profilo delle libertà dal nuovo Papa non mi aspetto nulla. Potrei aggiungere un “quasi”, ma credo che in campo etico le “aperture” di Jorge Mario Bergoglio al massimo riguarderanno i fedeli prati-canti e il loro accesso ai sacramenti (ad esempio la comunione ai divorziati). Per il resto Francesco continuerà a confondere peccato e reato, e a opporsi con ferocia, come ha fatto anche recentissimamente da primate dell’Argentina, a una legislazione liberale e democratica in fatto di matrimonio egualitario (cioè anche tra omosessuali), di pro choice della donna rispetto alla propria gravidanza, di libertà di decidere sul proprio fine vita. Per il matrimonio omosessuale ha tirato in ballo Satana che aggredisce Dio, e sarebbe ancora il meno, se avesse con ciò voluto ricordare al gregge che un omosessuale finisce all’inferno (del resto anche il sesso eterosessuale fuori del matrimonio è peccato mortale). Il fatto è che si è scagliato contro le autorità politiche e i cittadini che una legge per il matrimonio egualitario vorrebbero introdurla. Insomma, inutile illudersi che Papa Francesco possa prendere sul serio il principio di laicità che è a fondamento delle democrazie liberali.
Diverso, invece, il discorso in tema di giustizia. Molto diverso, probabilmente. Un Papa che osa scegliere il nome del poverello di Assisi, violando un timore e tremore di secoli, pronuncia con questo gesto un giuramento solenne al miliardo e duecento milioni di credenti, e a tutti “gli uomini di buona volontà” a cui fin dalla sua apparizione al balcone di san Pietro ha voluto rivolgersi. Testimonia e promette di voler prendere sul serio il vangelo, quando dice che non si può servire a due padroni, a Dio e a Mammona (Matteo, 6,24), cioè oggi allo Ior e alle “opere di religione”. Aut, aut: o le speculazioni dei banchieri e la copertura a corruzione e riciclaggio, o l’elemosina ai poveri, la metà del proprio mantello agli ultimi.
L’auspicio è perciò che in tema di giustizia Francesco abbia la forza di “implementare” il programma di autentica rivoluzione che è già contenuto nelle prime e incredibilmente impegnative scelte simboliche compiute. La volontà è esplicita, la capacità la misureremo con le prime decisioni di “governance”.
LA NOMINA del Segretario di Stato, in primo luogo. Da cui capiremo se in conclave il partito della curia è stato davvero sbaragliato, o se per piegarsi ha ottenuto “l’onore delle armi” di un “primo ministro” non troppo inviso (come sarebbe, invece, un non-italiano non-curiale o un italiano come mons. Viganò, esiliato a Washington per la sua azione anti-corruzione). Il controllo dello Ior, subito dopo: blindato da Bertone con uno spudorato blitz nelle ultime ore del papato di Ratzinger (cacciando l’unico oppositore, il cardinal Nicora), ma che il nuovo Papa può spazzar via nel fiat di un motu proprio. E infine un atteggiamento pastorale capace di imporre lo standard della povertà e dell’impegno accanto agli “ultimi”, oggi praticato esclusivamente dai “preti di strada”, come la normalità della vocazione ecclesiastica.
Come la metterà però con i potentissimi e opulentissimi “Cavalieri di Colombo” assai cari a molti cardinali statunitensi che figurano tra i suoi grandi elettori? E con le altre mondanissime organizzazioni cui andavano i favori di Wojtyla e Ratzinger, che ne hanno canonizzato i fondatori, l’O-pus Dei e Comunione e Liberazione? Un Papa gesuita è nelle migliori condizioni per ridimensionare queste vere e proprie “Chiese nella Chiesa”, ma avrà il coraggio delle rotture necessarie? E al rilancio di una Chiesa assai più “spirituale” e assai meno “mondana” saprà associare la necessaria attenzione per gli apparati di sicurezza del Vaticano, che quanto a “deviazione” talvolta fanno concorrenza a quelli italiani? Perché sarà blasfemo anche il solo pensarlo, ma un Papa che nella Curia e in Vaticano faccia la terribile pulizia che il nome di Francesco evoca, apre una partita ad altissimo rischio.

da La Stampa di oggi:
Nel 1976 Bergoglio, quarantenne, era Superiore provinciale della Compagnia in Argentina. Un mese prima che i militari prendessero il potere, Bergoglio chiese a due sacerdoti, Orlando Yorio e Francisco Yalics, di abbandonare il lavoro che stavano compiendo nelle «Comunità di base» dei barrios. Di fronte al loro rifiuto, li espulse dalla Compagnia, e chiese all’arcivescovo di adottare provvedimenti canonici nei loro confronti. I due religiosi furono arrestati poco dopo il Golpe, e restarono cinque mesi prigionieri nella famigerata Scuola di Meccanica dell’Esercito (Esma), un luogo di torture, e da cui i prigionieri politici venivano caricati su elicotteri, narcotizzati, e gettati in mare. I due religiosi scamparono a quella sorte; dopo cinque mesi furono trovati legati e narcotizzati in un campo; ma vivi.

dal Corsera di oggi:
Pagina 12, vicino al governo, ha titolato l'elezione di papa Francesco con un polemico «Dios Mio!», che equivale assai probabilmente alla reazione della Kirchner. Titolo dell'articolo principale: «Errare è divino». L'editoriale è affidato a Horacio Verbitsky, il grande accusatore di Bergoglio. È un giornalista e scrittore di valore, ha il merito di aver rivelato molte atrocità dei militari. Da tempo è considerato l'eminenza grigia dei governi K: se con Nestor era soprattutto un consigliere sul tema dei diritti umani, con la vedova Cristina si dice sia stato promosso a consigliere su tutto. Ieri Verbitsky ha scritto che il papato del suo connazionale sarà un Ersatz, parola tedesca che significa più o meno pappetta.
La presunte rivelazioni di Verbitsky nascono dal libro chiamato El Silencio, uscito nel 2005, pochi mesi prima del Conclave che avrebbe nominato papa Ratzinger. La data non pare casuale, e si dice addirittura che fotocopie scottanti di quel lavoro finirono tra le mani dei cardinali, i quali a Bergoglio papa pensarono seriamente già da allora. Il cardinale argentino, ormai è risaputo, prese 40 voti prima di desistere e far concentrare i voti su Ratzinger. L'accusa è che l'allora generale dei gesuiti argentini facesse il doppio gioco con i militari, lasciando fare i preti progressisti (all'epoca considerati sovversivi) per poi denunciarli al regime. Su un caso specifico venne interrogato come testimone due anni fa, il sequestro con torture di due gesuiti. Bergoglio dichiarò di aver interceduto presso il governo per ottenere, invano, la liberazione dei due mentre Verbitsky scrisse che li aveva praticamente consegnati lui. Il nome di Bergoglio spuntò poi in due processi sul furto di neonati alle oppositrici poi fatte sparire dai militari. I parenti testimoniarono di essersi rivolti al sacerdote chiedendo disperatamente aiuto, almeno per rintracciare i bambini. La risposta sarebbe stata quella di lasciar perdere, perché i piccoli stavano bene, in qualche altra famiglia. Altri episodi citati da Verbitsky indicherebbero come minimo la distrazione del religioso rispetto al dramma che stava attraversando l'Argentina.

su il Fatto di oggi
Duplice omicidio: chiamato a testimoniare
Nel 2011 la magistratura francese chiese di poter interrogare Jorge Mario Bergoglio come testimone sull’omicidio di due preti della provincia di La Rioja avvenuto nel 1976. Le autorità argentine rifiutarono. LaPresse
MA LE DONNE NO Bergoglio non ha fatto mistero della sua posizione arcaica sul ruolo delle donne: “Le donne sono naturalmente inadatte per compiti politici. L’ordine naturale ed i fatti ci insegnano che l’uomo è un uomo politico per eccellenza, le Scritture ci mostrano che le donne da sempre supportano il pensare e il creare dell’uomo, ma niente più di questo”. E a rincarare la dose, il cardinal Bergoglio sottolineò: “Abbiamo avuto una donna come presidente della nazione e tutti sappiamo cosa è successo”, riferendosi all’ex presidente Maria Estela Martinez de Peron.
E SUI GAY? DIPENDE É nota la posizione rigida del neoeletto sugli omosessuali: “I matrimoni gay sono un segno del diavolo e un attacco devastante ai piani di Dio” ha detto. Ma c’è sempre l’eccezione, perchè nel 2005 il vescovo di Santiago Juan Carlos Maccarone si dimise dopo la divulgazione di un video che lo vedeva protagonista di un rapporto omosessuale e Bergoglio disse: “La chiesa argentina è vicina con affetto, comprensione e preghiera al nostro fratello in questo momento di Croce, di sofferenza”.
IL FUTURO, ADESSO La Chiesa che vuole Papa Francesco sarà diversa. “Ad una Chiesa autoreferenziale succede come a una persona autoreferenziale: diventa paranoica, autistica”. E c’è di peggio: “Qualche volta la religiosità è accompagnata da una specie di vago teismo che mescola la psicologia con la parapsicologia” ha spiegato Bergoglio ne “Il gesuita”, libro-intervista di Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin.
Corriere 15.3.13
I Gesuiti, tra cultura e disciplina
Nella storia le battaglie di grandi intellettuali: il regicidio e l'anti-marxismo, la scienza e l'ecumenismo
di Armando Torno


Parliamo di gesuiti, della Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1534. Papa Francesco ha riportato l'attenzione su questo Ordine, strutturato con disciplina militare e celebre per la cultura e l'intelligenza dei suoi membri. Anche se nel linguaggio comune — retaggio del secolo dei Lumi e di quello romantico nonché dell'avversione di figure come Vincenzo Gioberti — l'aggettivo «gesuitico», in senso figurato, è definito dal Vocabolario della lingua italiana Treccani: «finto, falso, ipocrita».
Eppure i gesuiti hanno lasciato traccia indelebile nella cultura e nella Chiesa. Il tema in classe l'hanno inventato nelle loro scuole, così come gli esercizi spirituali si sono diffusi nel mondo attuale grazie al modello fissato da Sant'Ignazio. L'incontro con le altre culture fa parte della loro missione. Lo stesso Francesco Saverio, tra i fondatori della Compagnia, nel 1545 parte per Malacca, in Malaysia: lì incontra dei giapponesi che gli suggeriscono l'idea di portare il vangelo nella loro terra. Non arretra, così come farà in tante occasioni, e una tradizione vuole che sia arrivato alle Filippine. È sepolto a Goa. Matteo Ricci fu pioniere del dialogo con la cultura cinese. Morì a Pechino. E che dire di Francesco Borgia? Viceré di Catalogna, santo, resta il formidabile organizzatore delle missioni dell'Ordine in India, Brasile e ancora in Giappone. Tra l'altro, la cultura gli deve molto: contribuì in modo determinante all'istituzione del Collegio Romano, ovvero l'attuale Università Gregoriana. Non sono che esempi. Se si aggiunge il caso del cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), si incontra un intellettuale che in molti hanno criticato ma indispensabile per comprendere il suo tempo. Formidabile apologeta, difese la Chiesa Cattolica dinanzi alla Riforma ricorrendo soltanto alla razionalità e alla tradizione; di contro, in Germania e in Inghilterra si istituirono cattedre per replicare a tale metodo. Amico di Galileo, dialogò con Giordano Bruno tentando di fargli abiurare le tesi considerate eretiche.
Inoltre, quando si parla di cultura dei gesuiti è inevitabile ricordare Francisco Suárez o Juan de Mariana, due menti della cosiddetta Seconda Scolastica, vissuti tra il Cinquecento e il Seicento. Il secondo divenne celebre per le polemiche legate alla sua opera De rege et regis institutione (1599), ove sosteneva la liceità del tirannicidio: si poteva uccidere il re quando il sovrano, abusando del potere concessogli da Dio, danneggiava patria, leggi e religione, ovvero portava a perdizione il popolo. L'opera fu condannata dai superiori ma lasciò tracce indelebili, a cominciare dalla Rivoluzione francese; anzi «la Marianne», simbolo della libertà, fu omaggio tardivo al gesuita ispiratore. Per Suárez si potrebbero riempire biblioteche. Filosofo, teologo e giurista tra i più acuti, influenzò le opere di autori quali Grozio, Cartesio, Leibniz e Vico, senza contare gran parte dei pensatori politici moderni, tra cui Carl Schmitt. Sosteneva che il potere ha un'origine contrattuale (il detentore originario è il popolo) e, in caso di tirannide, è lecito — se non doveroso — il diritto di resistenza.
In Italia furono i Gesuiti sollecitati da Pio XII a creare una serie di iniziative culturali per arginare il marxismo. Basterà ricordare l'Enciclopedia filosofica (1958, raddoppiata nel 1968); idearono quattro collane di testi per rimettere in circolazione idee non materialiste. Inoltre controllarono le voci religiose della Treccani. Figure come Carlo Maria Martini, di contro, seppero dialogare con quella cultura che la generazione precedente aveva combattuto. E, allargando gli orizzonti, ecco che il gesuita tedesco Augustin Bea, cardinale e confessore di Pio XII, fu pioniere dell'ecumenismo e del dialogo ebraico-cristiano. Teilhard de Chardin, invece, mostrò al mondo contemporaneo che scienza e teologia potevano abbracciarsi. Certo, Blaise Pascal nelle Provinciali non li amava, così come Voltaire. Nella voce «Pietro» del Dizionario filosofico il patriarca degli illuministi, dopo aver elencato le malefatte dei Papi, aggiunge che la santità del loro carattere è provata dal fatto che sono riusciti a sopravvive a tanti mali. Non perde l'occasione per riferire di un teologo che notava: «Se avessero commesso ancor più delitti, sarebbero stati dunque ancor più santi». E chiude: «Ma i gesuiti gli hanno risposto». Battuta che la dice lunga. Interpreta l'idea della Compagnia che mai si arrende dinanzi alle obiezioni.
Non tutti i pontefici li amarono e Giovanni Paolo II, in seguito al malore che colpì il generale Pedro Arrupe, li commissariò. Fu una decisione senza precedenti. Tutti videro una sfiducia nella Compagnia da parte della Santa Sede e un teologo quale Karl Rahner — uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II; suo fratello Hugo era anch'egli gesuita — indirizzò al Papa una lettera nella quale dissentì in termini espliciti, accantonando quella «prova di fede» che taluni avevano individuato nell'intervento del pontefice. «Anche dopo aver pregato e meditato — scrisse — non ci è stato facile riconoscere "il dito di Dio" in questa misura amministrativa, perché la nostra fede e l'esperienza della storia ci insegnano che anche l'autorità più alta della Chiesa non è esente da errori».
Pietro Aretino fu uno dei pochissimi che riuscì a scrivere una frase, o meglio un verso, come «povero ignorante gesuita». È nei Sonetti lussuriosi (pubblicati da Salerno, presso cui è in corso l'edizione nazionale). Lo ha fatto alludendo a una sozzura erotica. Non certo per lo studio di Aristotele o della teologia.

Repubblica 15.3.13
La Compagnia seppe propagare la fede nel mondo oggi per il Papa venuto da lontano la sfida d’Europa
L’altro Francesco quel gesuita che curò la Chiesa con i missionari
di Adriano Prosperi


“Il nome è un programma”, ha detto il padre guardiano del convento francescano della Verna. Già: ma quale nome? È istintivo per un italiano immaginare che sia quello di San Francesco d’Assisi affiorato d’istinto alla memoria di un figlio d’emigranti piemontesi. Ma se avessimo la pazienza di porci davvero nei panni di un vescovo argentino di formazione gesuita scopriremmo che la nostra è una tipica illusione etnocentrica. «Romano lo volemo o almanco italiano », si gridava a Roma nel Medioevo alle porte del conclave. Così oggi. E chi deve rassegnarsi al fatto che il Papa non sia né romano né milanese e nemmanco italiano non rinunzia ad attribuire a chi viene da un altro continente e da un’altra cultura la devozione a quel san Francesco divenuto patrono d’Italia. Ma non è quello o almeno non solo quello il nome presente alla cultura e alla religiosità dell’uomo che è diventato Papa, o meglio, come lui stesso ha preferito dire, vescovo di Roma. L’arcivescovo di Buenos Aires non è soltanto il primo Papa venuto dall’America; è anche il primo papa della Compagnia di Gesù. È cresciuto e si è formato all’interno di un Ordine che ha residenze, scuole, archivi e luoghi di memoria a Buenos Aires e in tutta l’Argentina, anzi in tutta l’America Latina.
Nella memoria ufficiale della Compagnia ci sono almeno altri due santi con quel nome, tutt’e due del ’500. C’è san Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, membro di una potente famiglia aragonese alla quale regalò un uomo di Chiesa più
presentabile del malfamato zio Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI. Ma è piuttosto improbabile che sia stato il suo profilo ad affacciarsi nella mente del cardinal Bergoglio. Che, nel suo primo messaggio, ha parlato di evangelizzazione. Ora, per un gesuita c’è da sempre un nome che significa evangelizzazione e apertura missionaria alle culture non cristiane. È quello di Francisco Xavier, noto in Italia come Francesco Saverio, compagno di Ignazio di Loyola e cofondatore della Compagnia: un uomo che ben presto lasciò Roma per una missione che lo condusse in un decennio di straordinarie esperienze prima nell’India portoghese, poi fino al Giappone; né finì lì, perché dopo aver fatto una deludente esperienza di battesimi di massa tra le folle dei paria di Goa al riparo delle armi portoghesi, e dopo aver affrontato con pochi compagni il lungo viaggio via mare, sulle rotte dei mercanti e dei contrabbandieri di armi, fino al remoto impero giapponese, volle raggiungere la Cina. Le sue lettere portarono in Europa il racconto di quel lontanissimo Oriente e un appello a tutti i giovani studenti delle università perché si candidassero a un’impresa missionaria di vastissime dimensioni. Diffuse immediatamente a stampa e inserite anche nella bella raccolta di relazioni di viaggi curata a Venezia da Gian Battista Ramusio, quelle lettere furono uno straordinario incentivo al maturare di vocazioni per l’opera della propagazione del Vangelo nel mondo extraeuropeo. Vi si legge di popolazioni accoglienti e di raffinata cultura, molto ben disposte nei confronti dei predicatori della “santa fede”. C’era l’ostacolo della ignoranza della lingua: Francesco Saverio e i suoi compagni erano obbligati «a esser come fanciulli », a tacere e ascoltare. Ma così potevano scordarsi di se stessi, liberarsi da quell’amore di padri e madri e amici e patria che tratteneva dal dare alla propria vita la forma voluta da Dio: bisognava recarsi in quella «terra strana» a farvi l’opera della conquista spirituale.
Altre notizie arrivarono ancora di quell’irrequieto missionario: fino al solitario e clandestino approdo sul suolo dell’Impero cinese, luogo delle meraviglie descritte da Marco Polo e supremo oggetto del desiderio per Saverio. Morì su quella costa e il suo corpo, portato a Goa dai portoghesi, fu oggetto di una grande devozione coronata dalla canonizzazione ufficiale nel 1622. Dal suo esempio e dalle sue narrazioni prese avvio un fenomeno straordinario: quello del desiderio delle Indie che animò una schiera crescente di giovani e li spinse a supplicare il generale della Compagnia di mandarli nelle lontane Indie d’Oriente e d’Occidente a propagare la fede. Li muoveva una volontà di eroismo e di martirio, una ricerca della santità eroica, ma anche un profumo di terre lontane.
L’impresa della “fides propaganda” fu quella di un corpo scelto di inviati nel mondo esterno, fuori dei confini di un cristianesimo che apparve improvvisamente invecchiato. Fuori delle mura delle città europee si aprì lo scenario vastissimo di popoli pagani da evangelizzare. Abitavano nelle remote Indie ma erano presenti anche nelle periferie interne: avevano i volti degli indios peruviani e dei letterati cinesi ma anche quelli dei contadini e dei pastori della Corsica e dell’Abruzzo. Di fatto si era riaccesa la fiamma della predicazione degli Apostoli. Il missionario gesuita partiva lasciandosi alle spalle le incrostazioni della cultura europea e portava il messaggio universale di un cristianesimo che si presentava come la forma naturale della religione, iscritta da Dio nelle coscienze e latente nelle diverse confessioni nel mondo. Fu questo il contributo maggiore dei gesuiti alla ripresa della Chiesa di Roma nel, momento della massima crisi del cattolicesimo, quando la corte romana era gravata dal peso di accuse infamanti e l'unità della Chiesa europea si spezzava in tanti frammenti. Da allora i gesuiti si mossero sul difficile crinale fra culture diverse, osteggiati da altri ordini, sospettati di varcare i confini dell’ortodossia, tentati di dar vita a una nuova Chiesa apostolica senza le rughe di quella europea. Oggi uno di loro ha lasciato le antiche terre di missione. Quella che si è aperta col suo papato è una missione nuova, quella d’Europa. È facile prevedere che non sarà per nessuno una festa di gala.

Repubblica 15.3.13
Ombre argentine
di Adriano Sofri


LE COSE hanno due facce.
Almeno due. La prima è bella, affabile e piena di speranza. Loro il papa straniero l’hanno trovato. Straniero, benché non tanto. A Buenos Aires, mi pare, gli italiani li chiamano “tanos”, che è l’abbreviazione di “napolitanos”, ma ci fu un lungo tempo in cui arrivarono soprattutto dal Piemonte e dal Veneto. Il Piemonte di quelli che stanno in fondo alla campagna, e hanno visto Genova e il mare solo per salpare alla volta della fine del mondo.
Da lì all’Argentina partirono soprattutto i salesiani di don Bosco — lui no, lui prese la nave una sola volta, per Civitavecchia, ed ebbe un tal mal di mare da rinunciarci per sempre. Ci si aspetta un salesiano, dall’Argentina, e invece arriva un gesuita e prende il nome di Francesco. Gesuiti e francescani furono diversi come il chiodo e il nodo, gli uni per la guerra, per le paci gli altri. “Quasi” dalla fine del mondo, ha detto: a Ushuaia, che si vanta del titolo ed è diventata una meta da pensionati croceristi, lo slogan suonava fatale sull’insegna di una cabina telefonica. “Locutorio del fin del mundo”.
Tutti hanno notato come dal balcone il nuovo papa non ha mai detto la parola “papa”, nemmeno salutando il predecessore, “vescovo emerito”. Ha parlato a una folla internazionale come se fossero tutti romani. E si è chiamato Francesco. Mi ricordo della predica agli uccelli, corvi, direi, come nella favolosa tavola di Santa Croce in cui se ne stanno neri appollaiati ordinatamente sulle file di rami ad ascoltare quello che i romani non avevano voluto ascoltare. Altro che parlare con gli uccellini. Ora che un Francesco è arrivato nelle stanze del papa, bisognerà trovare un nome che non sia “corvo” per i delatori e gli intriganti di palazzo, senza calunniare i bravi corvi. E i bravi lupi, anche.
Un uomo di 76 anni, e senza un polmone, ce la farà? Riuscirà almeno a far ricordare l’eventualità di un mondo in cui, come sperava Cesare Zavattini, buonasera voglia dire davvero buonasera? Cari fratelli e sorelle, ha detto. Della triade libertà-eguaglianza-fraternità, è la terza a segnare il suo esordio: la più ferita. Lui ha quattro fratelli e sorelle, e oggi, per legge in Cina, perché sì da noi, si vive di figli unici. Sia fatta almeno una fratellanza-sorellanza di elezione: fratello sole sorella luna — oppure, in tedesco, sorella sole fratello luna. E i poveri. Se ho capito bene, si preoccupa proprio dei poveri questo prete, non solo dei poveri di spirito. Non occorre aspettarsi che dica cose clamorosamente nuove sulla sessualità: basterebbe che non si accanisse tanto a ridire sulla sessualità le cose clamorosamente vecchie. Intanto, è bellissimo che abbia lavato i piedi ai malati di Aids. Dovremmo farlo tutti, essere malati di Aids o lavargli i piedi.
I gesuiti non sono più quelli, dopo Carlo Maria Martini e la Civiltà Cattolica di padre Spadaro: formidabili, erano, una volta, ma esagerarono col nero, e fornirono il peggiore dei modelli di cinismo, cospirazione, e paranoia delle cospirazioni. La combinazione fra Ignazio e Francesco promette di dare aria ai tendaggi e alle cassette di sicurezza del Vaticano, e di tirar fuori dal luogo comune anche l’anniversario del Principe di Machiavelli. Gran colpo, questo conclave.
Poi c’è la faccia triste. I messaggi dall’Argentina, di quelle e quelli che hanno pianto alla notizia, non di commozione, ma di dolore e offesa. «“Non posso crederlo. Sono così angosciata che non so che fare. Ha avuto quello che voleva. Vedo Orlando nella cucina di casa, qualche anno fa, che dice: ‘Vuole esser Papa’. È la persona giusta per coprire il marcio, è esperto. Il mio telefono non smette di squillare. Fito mi ha chiamato piangendo”. Ha la firma di Graciela Yorio, sorella del sacerdote Orlando Yorio, che denunciò Bergoglio come responsabile del proprio sequestro e delle torture patite per cinque mesi nel 1976. Il Fito che l’ha chiamata costernato è Adolfo Yorio, suo fratello. Ambedue hanno dedicato anni a continuare le denunce di Orlando, teologo e sacerdote terzomondista che morì nel 2000 con l’incubo che ieri si è realizzato…».
Messaggi così, cui Horacio Verbitsky fa instancabilmente eco. Verbitsky è uomo di forti giudizi e forti pregiudizi. L’arcivescovo di Buenos Aires respinse le accuse, che non possono dirsi provate. Nel 2000 chiese perdono a nome dell’intera chiesa argentina: «Siamo stati indulgenti verso le posizioni totalitarie … Attraverso azioni e omissioni abbiamo discriminato molti dei nostri fratelli, senza impegnarci abbastanza nella difesa dei loro diritti. Supplichiamo Dio che accetti il nostro pentimento e risani le ferite del nostro popolo …». Si rimane turbati, anche rifiutando di giudicare. Si vuole credere che, se le ombre di un passato così atroce fossero troppo pesanti, il papa avrebbe allontanato da sé la chiamata. L’aveva fatto, pare, la volta scorsa: forse ha pensato che la seconda volta bisogna comunque dire: “Eccomi”, senza aspettare la terza per capire, come Samuele. Se l’orrore degli anni dei generali e dei desaparecidos e dei loro bambini rapiti l’avesse imprigionato sia pure nel vastissimo cono d’ombra dell’omissione, come condizionerà il futuro? «Non è questo il punto», ha tagliato corto Küng. Però è un punto cruciale, come per Pio XII e la Shoah. Tuttavia le chiese, la cattolica più generosamente e ambiguamente, non fanno del peccato un impedimento fatale alla santità, e spesso ne fanno una premessa. Chi si astenga dal giudicare — dal condannare e dall’assolvere — può chiedersi se, qualunque sia quel passato, esso chiuda la strada a un pontificato degno e anche mirabile. La risposta è: no.

l’Unità 15.3.13
Europa divisa sull’austerità «Rischio di rivolta sociale»
Vertice Ue: l’Italia chiede che gli investimenti produttivi e il saldo  dei debiti con le imprese siano fuori dal Patto
Dura protesta dei sindacati
di Marco Mongiello

BRUXELLES Per far ripartire l’economia l’Unione europea deve autorizzare a calcolare fuori dai vincoli del Patto di Stabilità su deficit e debito gli investimenti produttivi e il saldo dei debiti della pubblica amministrazione con le imprese. È con questa richiesta che il premier Mario Monti, al suo ultimo vertice europeo, è arrivato ieri a Bruxelles per cercare di far breccia nel muro del rigore di bilancio, aiutato anche dal clima di protesta.
Mentre nell’edificio del Consiglio i ventisette capi di Stato e di governo dell’Ue discutevano del pessimo stato dell’economia, fuori oltre 15 mila manifestanti convocati dalla Confederazione dei sindacati europei (Ces) gridavano slogan contro l’austerità. Un centinaio ha anche occupato un edificio del dipartimento economico della Commissione ed è dovuta intervenire la polizia per convincerli ad uscire. C’è il rischio di una «rivolta sociale», ha ammonito il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker.
ALLARME PIAZZE E URNE
Più della piazza però ad allarmare i leader europei sono le urne. Al vertice dei conservatori, che ha preceduto il summit, Monti ha raccontato la debacle della campagna elettorale italiana. Su Beppe Grillo «c’è preoccupazione», ha riferito Pier Ferdinando Casini, che ha partecipato alla riunione.
All’incontro del Partito popolare europeo non hanno partecipato invece né Berlusconi, per motivi di salute, né Angelino Alfano, per impegni alla Camera. I due sono stati rappresentati da Antonio Tajani, commissario Ue all’Industria e vicepresidente del Ppe. I popolari europei, che in campagna elettorale avevano puntato tutto su Monti ed erano pronti ad espellere Berlusconi per anti-europeismo, ora chiedono coinvolgere il Pdl in un governo di larghe intese. «Deploriamo che l’offerta fatta al Partito democratico per dare un governo stabile, democratico ed europeista all’Italia non sia andata a buon fine», ha dichiarato il portoghese Mario David, uno dei vicepresidenti del Ppe. «Il Pd ci ripensi», ha insistito, ammonendo che se si torna a votare tra tre o quattro mesi «Grillo non potrà che aumentare».
Le elezioni in Italia non sono che l’ultimo eclatante segnale che la politica dei risanamenti di bilancio a tappe forzate imposta da Bruxelles e Berlino ha conseguenze disastrose e Monti ha invitato i leader conservatori a «riflettere in positivo e in negativo sul caso italiano, perché al di là dell’importanza dell’Italia, si presta a riflessioni più generali». Parole molto simili a quelle utilizzate dal presidente socialista dell’Europarlamento, il tedesco Martin Schulz, che ha aperto la due giorni di summit a Bruxelles rivolgendosi ai leader europei: «Voglio invitarvi a non sottovalutare le conseguenze del risultato delle elezioni italiane: qualunque sia l’interpretazione che vogliamo dare a tale risultato dobbiamo capire che abbiamo fallito nel trovare sostegno dei cittadini al nostro approccio riformatore».
Francois Hollande, che ha domandato più tempo per riportare il deficit della Francia in pareggio, ha sottolineato che «a un’eccessiva rigidità corrisponde un’eccessiva disoccupazione». Inoltre, senza nominare la Germania, il presidente francese ha chiesto che facciano qualcosa gli Stati membri che «hanno eccedenze di bilancia commerciale e dei pagamenti e che possono stimolare l’attività interna e quella europea».
Nei giorni scorsi anche uno studio pubblicato dal think tank brussellese Bruegel ha detto chiaramente che per uscire dalla crisi «la Germania dovrebbe dare un contributo netto alla domanda aumentando le importazioni più delle esportazioni».
Nell’immediato però Monti ha puntato tutto sulle misure di stimolo alla crescita, soprattutto ora che le nuove regole sui programmi di austerità approvate nei giorni scorsi dal Parlamento europeo, il cosiddetto two pack», indicano esplicitamente che vanno evitati tagli che danneggiano la crescita e vanno salvaguardati gli investimenti produttivi. «Sono stati introdotti margini ragionevoli di flessibilità nella disciplina di bilancio ha detto Monti chiederemo di poterci avvalere di questi margini».
La discussione ieri è andata avanti fino a tarda sera, limitata nel dopo cena ai soli leader dei 17 Paesi dell’eurozona. Le bozze di conclusioni in circolazione sembrano indicare che il Consiglio è orientato ad avvallare le richieste italiane. Nel testo si legge che «pur nel pieno rispetto del Patto di stabilità, possono essere sfruttate le possibilità offerte dalle norme di bilancio esistenti per equilibrare i bisogni di investimenti produttivi con gli obiettivi della disciplina di bilancio».
Una concessione che ha subito scatenato le proteste della Finlandia. «Non sono d’accordo», si è opposto il primo ministro finlandese Jyrki Katainen, «è difficile stabilire quali siano gli investimenti che possono essere considerati fuori dal calcolo». Quindi, ha concluso, «è più onesto calcolare tutto quello che si spende».

l’Unità 15.3.13
Israele, governo senza ultraortodossi
Vince la linea «laica» di Yair Lapid, che aveva caratterizzato la campagna elettorale in forte polemica con i partiti religiosi
Per Netanyahu la strada resta in salita: il nodo vicepremier fa slittare la firma del patto
di Umberto De Giovannangeli


La firma slitta forse a lunedì, alla vigilia della storica visita in Terrasanta di Barack Obama. Il nuovo governo israeliano nasce sotto il segno «laico» di Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, il vero vincitore delle elezioni del 22 gennaio. Il negoziato di pace con i palestinesi può attendere, al momento le priorità nell’agenda politica israeliana sono altre. E riguardano la crisi economica e, sul piano internazionale, il fare fronte alla minaccia iraniana. C’è chi sottolinea il carattere ultranazionalista della coalizione (68 seggi su 120) che sorreggerà il governo guidato da Benjamin Netanyahu. Tutto vero. Ma questo dato, incontestabile, non può oscurare un elemento che segna la discontinuità del nascente esecutivo con quelli che hanno guidato Israele per tanti anni a questa parte: la discontinuità è data dall’uscita dalle stanze del potere dei partiti religiosi.
Proprio a causa di alcuni temi che coinvolgono gli ultraortodossi, si era creato all’indomani delle elezioni uno scontro piuttosto forte tra Netanyahu e Lapid: la questione più dibattuta erano i vantaggi che vengono oggi concessi agli ebrei ortodossi, come la possibilità per alcuni di non sottoporsi al servizio militare obbligatorio.
In compenso, Lapid aveva stretto una forte alleanza con il partito HaBayit HaYehudi ( «La casa ebraica») del giovane tycoon milionario Naftali Bennet (sostenuto dal movimento dei coloni), altro vincitore e sorpresa delle elezioni di gennaio (12 seggi). Prima del voto Bennet aveva dichiarato di volersi alleare con Netanyahu, per poi cambiare idea dopo avere ottenuto l’inaspettato successo elettorale.
La nuova coalizione di governo, quindi, comprenderà i due partiti considerati come quelli che meglio rappresentano una nuova generazione di politici israeliani e «un nuovo modo di fare politica».
Il governo sarà guidato da Netanyahu, leader del Likud che, insieme a Israel Beiteinu («Israele, la nostra casa»), il partito di Avigdor Lieberman, aveva ottenuto 31 seggi alle elezioni, prima lista seppur in calo rispetto alla precedente tornata elettorale. Per quanto riguarda la spartizione dei ministeri, gli accordi raggiunti dovrebbero essere questi: l’ex ministra degli Esteri e leader del partito centrista Hatnuah («Movimento») Tzipi Livni al dicastero della Giustizia, con l’incarico di guidare i negoziati di pace con i palestinesi. Il numero due del partito Yesh Atid, Shia Piron, avrà il delicatissimo ministero dell’Istruzione, quello che decide le politiche da adottare nei confronti degli haredim (gli ebrei ultraortodossi), la maggior parte dei quali studia nelle scuole religiose fondate dallo stato. Lapid sarà ministro delle Finanze e Bennet ministro del Commercio e dell’Economia. L’importante ministero degli Esteri dovrebbe andare a Avigdor Lieberman, stretto alleato di Netanyahu, anche se l’incarico verrà mantenuto dallo stesso Netanyahu fino a che non verrà risolta l’incriminazione per frode e «breach of trust» (simile al nostro abuso d’ufficio) che costrinse Lieberman alle dimissioni il 14 dicembre scorso.
TRATTATIVE FRENETICHE
Ma la navigazione di Netanyahu si presenta tutt’altro che agevole. La riprova è nella ragione che ha fatto slittare all’ultimo momento la firma del patto di governo. Al centro del disaccordo c'è la nomina dei vicepremier. I rappresentanti del partito di Bennet non hanno partecipato alla riunione in programma ieri mattina, dopo aver appreso che Netanyahu si oppone a nominare vicepremier sia il leader del «Focolare», che Yair Lapid. Secondo indiscrezioni pubblicate da alcuni media locali il veto è frutto delle pressioni di Sara Netanyahu, influente moglie del premier. La portavoce del Likud ha però smentito. Le trattative si susseguono frenetiche. Il tempo stringe: domani, infatti, scadono i termini concessi a Netanyahu per presentare il nuovo esecutivo al presidente Shimon Peres.
E l’arrivo di Obama si avvicina. Il capo della Casa Bianca ha fatto sapere di non avere con sé alcuna nuova proposta da sottoporre ad israeliani e palestinesi durante la sua prossima missione. «Il presidente incoraggerà le parti a riprendere il dialogo e i negoziati per raggiungere l’obiettivo dei “due Stati”», ha spiegato il suo portavoce. Netanyahu vuole riceverlo da premier in carica, nel pieno delle sue funzioni. Altrimenti, per «Bibi» sarebbe uno smacco politico-mediatico «planetario».

il Fatto 15.3.13
Alchimie israeliane. Sara affossa il governo del marito
Faida tra alleati. La potente first lady non vuole l’ex consigliere leader del partito dei coloni al posto di vicepremier
di Roberta Zunini


Sembrava ormai fatta: fuori lo Shas, il partito degli ortodossi, dentro il partito dei coloni, Focolare Ebraico. La svolta epocale ci sarà comunque nel panorama politico israeliano perché lo Shas era al governo da ben vent'anni, ma ancora non c'è l'accordo sul nome del vicepremier. Dopo quasi due mesi di aspre contrattazioni, a una settimana dal primo viaggio in Israele di Barak Obama in veste di presidente (la prima e ultima volta in cui andò in Terra Santa era ancora senatore), sembrava finalmente pronto l'accordo tra il premier israeliano Bibi Netanyahu e i leader dei partiti che hanno ottenuto più voti alle elezioni del 22 gennaio: il neo movimento centrista liberale Yesh Atid (C’è futuro) della star televisiva Yair Lapid e il nazionalista Focolare ebraico di Naftali Bennet, di fatto il partito dei coloni. Il premier uscente, nonché entrante, ieri ha convocato alla Knesset (parlamento) i deputati del suo ticket elettorale, Likud-Beitenu, per chiedere il loro assenso che sembrava scontato anche se fra i dirigenti moderati ci sarebbe un forte malcontento. La ragione principale è il cedimento alle istanze degli ultranazionalisti di destra di Bennet - il partito che è oggi la terza forza politica del Paese grazie al voto dei coloni - che otterrà ministeri importanti. Invece all'ultimo momento pare che, ancora una volta, la potentissima Sara, la moglie di Netanyahu, considerata da tutti il vero premier, sia riuscita a far prevalere la sua avversione per Bennet.
LA CONCLUSIONE dell’accordo si è bloccata all’ultimo minuto sul conferimento della carica di vice premier. A quanto riferisce la radio dell’esercito, Netanyahu non vuole concederlo a Bennet. che ebbe dissapori con Sara quando era assistente del marito. Anche se alcuni analisti sostengono che Netanyahu è emerso “indebolito” dalle lunghe settimane di negoziati con i partiti alleati, resta comunque confermato che Likud-Beitenu avrà oltre la metà dei seggi che dovrebbe essere composto da 21-22 ministri. Un governo con meno ministeri, come hanno preteso i due principali partiti e più laico ma molto più oltranzista. Lapid dovrebbe essere il prossimo ministro delle finanze mentre la lady di ferro israeliana Tzipi Livni dovrebbe sedere al dicastero della giustizia, come premio per l'ingresso in coalizione del suo neo partito Hatnuah (movimento) che ha conquistato solo 6 seggi, ma che sommati ai 33 di Likud Beytenu, ai 18 di Yesh Atid e ai 16 di Focolare ebraico rende possibile la formazione del governo. Non sarà dunque un benvenuto quello riservato a Obama che non ha mai nascosto la sua contrarietà all'esistenza e all'espansione delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati.
Secondo il quotidiano progressista di Tel Aviv, Haaretz, il prossimo governo, a causa dell’ingresso di Focolare Ebraico (partito nato due anni fa grazie alla fusione di alcuni movimenti di destra sotto la leadership del carismatico nonché giovane miliardario di origine americana Naftali Bennet) aumenterà l’isolamernto di Israele e non faciliterà le relazioni con gli Stati Uniti di Obama. Intanto lo Shas ha promesso ultrozionismo a oltranza dai banchi dell’opposizione.

Corriere Sette 15.3.13
Israele. Separati sugli autobus
Accusa di apartheid per la decisione di far salire i palestinesi su mezzi diversi
di Stefano M. Torelli

qui

Corriere 15.3.13
Cina, Xi Jinping assume tutti i poteri
Il segretario del Pcc eletto presidente. Come vice ha scelto un «riformista»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Un partito unico che conta 80 milioni di iscritti fedeli, un esercito di 2,3 milioni di soldati, una nazione di oltre 1,3 miliardi di cittadini sono guidati da un uomo di 59 anni che rappresenta la «quinta generazione» di leader della Repubblica Popolare cinese. Xi Jinping è stato eletto ieri capo dello Stato dal Congresso nazionale del popolo, il gran conclave del potere comunista. Ha ricevuto 2.952 voti a favore. Tre astenuti e uno solo contrario. Qualcuno dice che il franco tiratore sia stato lo stesso Xi, per segnalare modestia ai compagni e non raggiungere un troppo imbarazzante 100 per cento dei consensi in uno scrutinio a comando.
In realtà Xi era già stato scelto e cooptato dalla cupola del regime cinque anni fa. È «un principe rosso», come si chiamano a Pechino i figli degli eroi della rivoluzione che portò alla fondazione della Repubblica Popolare cinese nel 1949: il padre era un generale di Mao, anche se finì nelle purghe della Rivoluzione culturale. Dicono che Xi Jinping sia arrivato in cima alla struttura di potere collegiale della Cina tenendo sempre nascoste le sue carte, non svelando mai fino in fondo il suo pensiero. Chi è dunque? «È il nostro primo leader nato dopo la guerra, ha attraversato la Rivoluzione culturale da ragazzo, finendo relegato per anni in un villaggio di campagna, è stato anche all'estero: penso che possa avere una visione più ampia e portare la Cina su una via più moderna», ci ha detto la signora Lau Pu King, deputata di Hong Kong, all'uscita dalla Grande sala del popolo che domina la Tienanmen subito dopo l'elezione.
Un elogio obbligatorio, naturalmente. Ma in questi mesi di transizione l'uomo che guiderà la Cina per dieci anni ha sparso in discorsi e proclami una serie di metafore illuminanti. Ha cominciato richiamando il partito e i cittadini al recupero della «frugalità». Ha ammonito che «va affrontata la corruzione tra i funzionari statali dediti al formalismo e alla burocrazia». Ha detto che «per forgiare l'acciaio bisogna prima essere forti», ha ricordato che «l'Unione Sovietica è crollata perché mancava di un vero uomo capace di levarsi in piedi e difenderla nell'ora della crisi che l'ha disintegrata». Ha lanciato una campagna moralizzatrice dicendosi pronto «a schiacciare le mosche e combattere le tigri», riferendosi ai corrotti, siano essi piccoli burocrati o alti gerarchi del regime. Ha annunciato che «proseguire con le riforme è come prendere d'assalto una fortezza», che «ci si deve avventurare in un terreno pieno di pericoli», che «serve coraggio per mordere un osso». E per sintetizzare tutti questi slogan nazional-popolari che cercano di scuotere masse più interessate agli affari che all'ideologia, ha lanciato il «Sogno cinese»: una parola d'ordine così ampia e indeterminata che ognuno può leggerci quello che preferisce.
Ma ha dimostrato di essere in sintonia con le richieste di una classe media nata con il «socialismo di mercato» che ora si preoccupa per i guasti dell'industrializzazione forzata e sfoga la sua frustrazione su Internet. «I cinesi che ci parlano dal Web vogliono che l'acqua dei laghi e dei fiumi che finisce nei loro rubinetti non sia inquinata, vogliono che i sindaci delle loro città abbiano il coraggio di farci il bagno e berla», ha detto il nuovo timoniere. Nel 2020 il 40 per cento dei cinesi saranno classe media e forse non si accontenteranno più di parlare sui blog: questo Xi lo ha capito evidentemente.
Come vicepresidente è stato eletto con 2.839 sì e 80 no Li Yuanchao, un riformista che nel 1989 aveva espresso comprensione per gli studenti della Tienanmen. La sua nomina a vice capo dello Stato (ruolo solo cerimoniale) oggi sembra un segnale di Xi ai liberali. Ma Xi ha anche visitato decine di basi dell'esercito e arringando gli ufficiali ha detto che «forze armate assolutamente leali al partito sono essenziali». I militari sembrano dalla sua parte: «L'esercito ha piena fiducia nel presidente», dice al Corriere il generale Yang Jianhua, uno dei 268 deputati in uniforme del Congresso.
Pechino ha incoronato un Grande Comunicatore? «Xi sa parlare come un contadino perché anche lui fu mandato a lavorare nei campi e sa che alla gente che usa la vanga non piacciono discorsi formali, riassumono le loro esigenze con poche parole», spiega la professoressa Zhang Zheng, preside della facoltà di giornalismo all'università Renmin di Pechino. E la sua frase più efficace? «Chiudere il potere nella gabbia del regime», ci ha detto l'onorevole Zhu Jin, deputato del Gansu. Potere e regime. Secondo Xi Jinping vanno difesi ad ogni costo.

Repubblica 15.3.13
Una first lady colta e glamour ecco il volto del “sogno cinese”
Il presidente Xi Jinping rompe un tabù ed esibisce la moglie
di Giampaolo Visetti


PECHINO — La consegna del vecchio potere è conclusa, si apre a Pechino l’era del giovane “sogno cinese”. Non che il presidente Xi Jinping, 60 anni in giugno, possa incarnare per il mondo contemporaneo la novità che John Kennedy e il “sogno americano” rappresentarono per la fine del Novecento. La sfida agli Stati Uniti per il dominio sull’influenza globale del secolo però è lanciata e il nuovo “principe rosso” della Città Proibita punta a trasformare anche la Cina in una «superpotenza ricca e forte». Benessere per un sesto dell’umanità e corsa al riarmo per l’esercito più numeroso del pianeta sono la scommessa della quinta generazione degli eredi di Mao Zedong.
Il Grande Timoniere fece la rivoluzione e importò il comunismo in Oriente. Deng Xiaoping sdoganò la ricchezza. JiangZemin radicò il capitalismo e si concentrò sulla difesa dei confini. Hu Jintao ha alimentato la «crescita pacifica. Da ieri tocca a Xi Jinping, eletto presidente dall’Assemblea nazionale del popolo, e il nuovo leader dell’unico partito comunista di successo, ha promesso «un grande rinnovamento come condizione per mantenere la stabilità ». Riforme, crescita interna e “soft power” all’estero: il momento della Cina è arrivato, e l’uomo che in novembre era stato acclamato segretario generale del partito e capo dell’esercito, si dice deciso a coglierlo, «per evitare di fare la fine dell’Urss, che si dissolse quando la corruzione le fece sfuggire di mano le forze armate».
Il «sogno cinese» di Xi ambisce a ridefinire il rapporto Cina-Usa come «il confronto» e «tra grandi potenze alla pari». Proprio ieri Obama e Xi si sono parlati al telefono (Corea del Nord e cyber attacchi i temi affrontati) e la Casa Bianca ha annunciato una visita del segretario di Stato John Kerry a Pechino nelle prossime settimane. Il solo punto da chiarire è a quale luogo alluda il neo amministratore delegato della ripresa globale quanto ripete che «Pechino deve tornare al posto che gli compete».
Lo strumento è invece chiaro: «via cinese al cambiamento », ossia nessuna «importazione di democrazia occidentale». Le prime mosse lo confermano. Xi Jinping a sorpresa ha scelto come vice il riformista Li Yuanchao, 61 anni, capo dell’organizzazione del partito con studi negli Usa e grande sponsor degli investimenti delle multinazionali straniere. Come Xi, anche Li è un “principe rosso”, figlio dell’ex vicesindaco di Shanghai, e ha vissuto epurazione maoista e confino nelle campagne. Il messaggio è semplice: riavvicinare l’élite comunista al popolo, togliere all’obbligata urbanizzazione il sapore della corruzione e del divario tra ricchi e poveri, ma pure rassicurare le lobby degli affari.
Il resto si vedrà oggi, quando la transizione si concluderà con l’addio a Wen Jiabao, l’ascesa a premier di Li Keqiang e la nomina del nuovo governo. Un esecutivo dimagrito, con l’accorpamento esemplare di importanti ministeri (Ferrovie e pianificazione famigliare) per ridurre i rivoli della corruzione. L’anno aperto con il misterioso delitto Heywood, che ha portato alla spettacolare epurazione del neomaoista Bo Xilai, si chiude però con un botto hollywoodiano. Per la prima volta dopo quasi quarant’anni e la condanna a morte dell’attrice Jiang Qin, quarta moglie di Mao, la Cina si appresta a riesibire al mondo una first lady. Peng Liyuan, stella del folk-pop patriottico e generalessa, seconda moglie di Xi Jinping, accompagnerà il nuovo leader nel primo viaggio all’estero, destinazione Mosca, e a fine mese in Sudafrica terrà addirittura un discorso pubblico a margine del vertice dei Brics. Dall’assenza pianificata delle consorti rosse, ai riflettori internazionali puntati sulla star nazionalista che la propaganda già dipinge come «una delle donne più belle e colte dell’Oriente». Peng Liyuan non sarà Jacqueline, poi Onassis, ma il «sogno cinese» ha bisogno di un volto asiatico da contrapporre all’influenza di Michelle Obama. Questione di “soft power”, o di «esportazione culturale della Cina nel mondo». «Ricca e forte»: l’«americano» Xi Jinping sa però che per diventarlo, Pechino deve essere oggi, prima di tutto, seducente e alla moda.

Repubblica 15.3.13
Eni, ai cinesi il 20% del gas in Mozambico
Piano strategico: produzione in aumento del 4% annuo fino al 2016
di Enrico Franceschini


LONDRA — Sulla torta di un piano strategico per il prossimo triennio che promette “eccezionali opportunità di crescita”, presentato agli investitori della City, l’Eni mette una ciliegina in realtà non tanto piccola. Poche ore prima di cominciare il “road show” londinese, l’azienda italiana annuncia infatti la vendita alla Cina del 20 per cento del megagiacimento di gas di cui è proprietaria in Mozambico, per un valore di oltre 4 miliardi di dollari. L’avvio di una partnership con Pechino: non a caso l’amministratore
delegato Paolo Scaroni, correggendo un giornalista, non lo definisce «un affare, bensì una mossa strategica». E sul piano delle strategie l’Eni disegna un futuro roseo: con la produzione di idrocarburi data in crescita di almeno il 4% annuo fino al 2016, una struttura patrimoniale rafforzata (con nuovo target del leverage tra il 10 e il 30%), una proposta di dividendo da distribuire agli azionisti di 1,10 euro nel 2013 e un nuovo programma di buyback, dati che si aggiungono all’utile netto consolidato di 7,7 miliardi di euro nel bilancio approvato ieri dal consiglio di amministrazione della società. «Abbiamo una serie di progetti pronti ad entrare in produzione nei prossimi 24 mesi», dice Scaroni agli investitori internazionali venuti ad ascoltarlo a Londra. «Questo, insieme ai nostri eccezionali successi esplorativi, si tradurrà in un decennio di forte crescita».
Così più tardi, incontrando la stampa, l’ad dell’Eni non esita a chiarire che si ricandiderà alla guida della compagnia, senza accennare alle sue vicende giudiziarie: «Il mio contratto prevede che io mi renda disponibile a un nuovo mandato, fa parte dei miei obblighi e confermo che intendo assolverli». Quanto alla possibile incidenza dell’instabile situazione politica italiana sull’attività dell’Eni, Scaroni minimizza: «Non direi che governi italiani più stabili siano stati favorevoli alle nostre esplorazioni in Italia. Berlusconi per esempio ha esteso da 5 a 10 chilometri dalla costa il divieto di esplorare nuovi giacimenti, che è come vietare le esplorazioni in assoluto. Un governo instabile — ironizza — potrebbe trattarci soltanto meglio». Minimizza anche il presidente Giuseppe Recchi, ricordando che «l’Eni fa il 90% del suo business all’estero e tutti i business fatti fuori da Europa ed Italia sono in crescita». La torta Eni, insomma, continua a essere quanto mai appetibile, secondo i suoi dirigenti. E sopra la torta c’è la ciliegina della cessione di un quinto dell’Area 4, il super giacimento del Mozambico, alla China National Petroleum Corporation. La Cina, ora, è un po’ più vicina al cane a sei zampe.

Repubblica 15.3.13
Pechino verso l’addio alle bacchette “Stanno distruggendo le nostre foreste”


PECHINO — «Meglio forchetta e coltello». Xi Jinping non ha fatto in tempo a dire che la Cina «non si farà occidentalizzare», che la mazzata è ripiombata sull’Assemblea nazionale del popolo. «I bastoncini usa e getta — ha detto Bo Guangxin, presidente del gruppo che riunisce le industrie forestali di Jilin — stanno distruggendo le foreste dell’Asia. O chiediamo alla gente di cambiare abitudini o la patria diventa un deserto». I leader comunisti hanno deciso di «riflettere sulla proposta». Il tema però è, come si dice, sul piatto e questa volta, nel pieno degli scandali che rivelano le conseguenze ambientali disastrose della crescita cinese, per i bastoncini non sembra esserci scampo.
(gp. v.)

l’Unità 15.3.13
Le visioni di Tiziano
La pittura del grande artista intrisa di odori, sapori e colori
di Renato Barilli


LE ROMANE SCUDERIE DEL QUIRINALE CONTINUANO CON BELLA TENACIA A PROPORRE I NOSTRI MASSIMI ARTISTI, in mostre che certo non aggiungono nulla sul piano filologico ma hanno un sicuro impatto, diciamo così, nazional-popolare, consentendo ai molti visitatori di recuperare vecchie conoscenze scolastiche o di evitare viaggi sui luoghi di conservazione dei vari capolavori radunati. Che lo sono entro i limiti consentiti da questioni di budget e di possibile trasferimento. Questa volta si tocca un picco di audacia presentando addirittura Tiziano Vecellio, uno dei più grandi di tutti i tempi e con alle spalle una produzione smisurata, dovuta anche alla sua longevità (1490-1576).
Ancora una volta il giovane curatore Giovanni Villa se l’è cavata in misura abile e soddisfacente. Tuttavia, gli si può imputare forse un errore, nella disposizione del percorso delle opere. Infatti questo inizia con uno straordinario capolavoro quale il Martirio di S. Lorenzo (Venezia, Gesuati), che però appartiene all’ultima fase dell’artista, certo eroica e stupefacente, ma sarebbe come se un «giallista» aprisse il suo romanzo dichiarando subito chi è il colpevole. Meglio che il pubblico inizi la visita dalla seconda sala, dove, tra gli altri, si vede un’opera degli anni trenta dell’artista, la cosiddetta, dal nome del donatore, Pala Gozzi (Ancona). In alto, appare la Madonna con Bambino, ma è come se nel cielo spazioso, illuminato dai colori di una splendida alba, transitasse un aerostato, o un qualche altro corpo volante, tanto da spingere il Santo Vescovo in primo piano (S. Biagio) a protendere la mano con un gesto di pieno stupore, per additare a un San Francesco ugualmente stupefatto il transito di quell’oggetto aereo. C’è qui tutta la magnifica capacità tizianesca di aderire all’attimo fuggente, cogliendone la flagranza, cioè il darsi come evento in atto, e anche la fragranza, di colori, ma anche, se si può dire, di odori e sapori magicamente collegati per sinestesia.
Tante altre sono le opere della gioventù e prima maturità dell’artista che confermano queste sue doti, ma forse, data l’occasione che consiglierebbe di andare sul sicuro, non era il caso di sciogliere il dubbio e mettere in mostra opere come Il concerto interrotto di Pitti e il Cristo portacroce di Venezia. San Rocco, che una corrente critica insiste ancora ad assegnare a Giorgione; e proprio la grana sottile ed esangue con cui i due dipinti qui si presentano, tra tante feste cromatiche sicuramente tizianesche, invita a mantenere ancora sollevato il dubbio.
Passando al piano superiore, incontriamo, come già avveniva nel caso del Tintoretto, una fitta schiera di ritratti e autoritratti, che si giustifica per la facile possibilità di trasporto fornita dalla natura stessa di opere appartenenti a questo genere, date le loro ridotte dimensioni, e tuttavia l’arte tizianesca è pur sempre in grado di svilupparsi al meglio, cogliendo per esempio il volto volpino di Papa Paolo III, o il mento a punta del grande imperatore, e sponsor massimo del Nostro, Carlo V. Tiziano non si limita ad aderire ai tratti fisionomici dei protagonisti, ma il suo sguardo spazia tutto attorno, accendendo di fiammelle e di sfrigolii, di illuminazioni quasi elettriche, ogni altro dettaglio dello sfondo che si presti a questa sollecitazione ottica, e anche tattica, sempre in nome di una sinestesia che la sua arte è sempre in grado di suscitare a meraviglia.
Ci si prepara così ad affrontare l’ultima sua fase, estrema, eroica, in cui egli decide di lasciare lo spazio aperto, solare, ventilato in cui fin lì aveva immerso le sue visioni, andando a chiudersi in ambienti ristretti, esclusi alla luce naturale, illuminati solo da faci, fiaccole, tizzoni ardenti di falò. Qui doveva ergersi forse il frutto maggiore di questa fase notturna, appunto il Martirio di S. Lorenzo, in cui l’artista non solo accorcia il campo visivo, ma perfino lo strumento pittorico, sembra cioè abbandonare il pennello per procedere addirittura con le dita, a spalmare di colori fosforici i corpi e gli oggetti. E c’è perfino una fase ulteriore, e ancor più spinta, La punizione di Marsia, custodita in un museo ungherese, in cui il dipinto diviene come un’unica membrana, una epidermide diffusa, e il pennello si muta in uno stiletto che cerca invano di scuoiare, di incidere quella superficie continua, che però non sopporta smagliature.

La Stampa 15.3.13
Piero Gobetti “indignado” degli anni 20
Un insolito profilo del giovane intellettuale antifascista torinese in un romanzo di Paolo Di Paolo che mescola fantasia e realtà storica
di Mirella Serri


Piero Gobetti nacque a Torino nel 1901. Intellettuale precoce e poliedrico, erede della tradizione liberale a cui si propose di dare nuova linfa attraverso il confronto con il marxismo gramsciano, fondò e diresse le riviste Energie Nove , La rivoluzione liberale eIl Baretti . Morì a Neuilly-sur-Seine (Parigi) il 15 febbraio 1926, in seguito al pestaggio subito dai fascisti. Non aveva ancora compiuto 26 anni
Paolo Di Paolo (Roma, 7 giugno 1983) pubblica da Feltrinelli Mandami tanta vita . Tre anni fa, con Dove eravate tutti , ha vinto il premio Mondello e il Vittorini

A Porta Nuova c’è chi scende e c’è chi sale: il giovanotto è appena arrivato a Torino per sostenere un esame alla facoltà di Lettere, ma corre a dettare un annuncio sulla Stampa: «Chi ha trovato la mia valigia? Si faccia vivo, per piacere». Contemporaneamente un ventiquattrenne dal volto emaciato, con una nuvoletta di capelli e gli occhialetti cerchiati, è in partenza per Parigi e sul treno prende appunti, già nostalgico della sua città. È quasi certo che non tornerà mai più.
Lo studente universitario che è giunto nel capoluogo sabaudo si chiama Moraldo, trabocca di ambizioni assai vaghe, vorrebbe emergere, farsi notare, ma non sa bene in quale settore letterario, politico, artistico. Il ragazzo pallido e sicuro di sé che sale nello scompartimento di velluto cremisi è invece assai noto a tutta l’Italia colta e antifascista: è Piero Gobetti che da quando aveva 17 anni è sulla breccia. È un vero fuoriclasse della penna e della mente. Il 1º novembre 1918 ha pubblicato il primo numero del quindicinale Energie nove (seguiranno altre riviste come La rivoluzione liberale eIl Baretti ), ma sui banchi accademici ha già mostrato la sua verve di enfant prodige, con il professore Luigi Einaudi che applaude ammirato ai suoi interventi. Dalle colonne della sua rivista, Gobetti lancia fuoco e fiamme contro la classe dirigente bolsa e incancrenita appena uscita dal conflitto mondiale e fa proprie le feroci parole di un altro antifascista doc, Gaetano Salvemini: «Se [l’Italia] avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più consapevole delle sue tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente, avrebbe vinto assai prima e assai meglio la guerra».
Torino borghese e operaia dei primi Anni Venti, esausta e sfiancata dai ripetuti attacchi delle squadracce nere, e i suoi intellettuali - Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Luigi Einaudi, Natalino Sapegno, Felice Casorati sono gli straordinari protagonisti del romanzo storico di Paolo Di Paolo Mandami tanta vita (in uscita da Feltrinelli, pp. 160, € 13, sarà probabilmente il candidato della casa editrice allo Strega). Un racconto da cui emerge un profilo insolito del combattivo Gobetti. Gli ultimi anni torinesi, con la moglie Ada dal viso di bambina che nel marito ha trovato anche il Pigmalione e allenatore culturale (nelle lettere le frasi d’amore si intrecciano con la richiesta di lui di capire il «concetto che Croce dà dell’intuizione», e lei obbediente risponde: «Vedrai quando avrò letto Croce che mostro di intelligenza sarò»), sono quelli più duri per l’oppositore del Duce. Si mostra capace di cogliere il lato drammaticodel disagio economico postbellico, lo strapotere dei più ricchi, le ingiustizie sociali, le disuguaglianze. È un indignato ante litteram degli Anni Venti.
Non è un caso che Gobetti in questo libro si presenti così vivo e coincidente con il nostro presente: il ventinovenne Di Paolo ha cominciato a scrivere tre anni fa, proprio all’età in cui il pensatore si spegneva a Parigi dopo le botte inflittegli dai fascisti. E lo propone come figura su cui riflettere anche e soprattutto alla sua generazione. Due sono i personaggi che si specchiano l’uno nell’altro, coetanei e dunque per certi versi simili ma in realtà agli antipodi: Gobetti, che rappresenta la tenacia, la determinazione, l’entusiasmo della lotta, e Moraldo, figura di invenzione e emblema del «fascista per caso», di colui che rassegnato, scettico, si adegua al diktat mussoliniano per noia e desiderio di quieto vivere. Sono le due facce dell’Italia in procinto di entrare nel cono d’ombra del Ventennio: da una parte Gobetti incarna le «Energie» della nazione che vorrebbe resistere e opporsi agli stivali mussoliniani che calpestano e imbrattano il bel suol d’orrore, dall’altra c’è l’inetto e inerte Moraldo che si arrende. E finisce col nutrire un sentimento ambivalente nei confronti del suo alter ego, l’avventuroso e caparbio editore-ragazzo: lo considera estremista, troppo radicale, incauto. Ma è anche il suo modello, vorrebbe collaborare a una delle sue infiammate riviste, vorrebbe possedere anche lui un fuoco che gli arde dentro e che non è solo quello della giovinezza ma pure della passione.
Pur vivendo «nel momento del tramonto della politica», Gobetti, infatti, non la rifiuta. Al contrario, sostituisce i vecchi maestri - Salvemini - con nuovi punti di riferimento, come Benedetto Croce o l’ex ministro Francesco Saverio Nitti che sarà anche lui esule a Parigi. Si avvicina agli esponenti del movimento operaio, a quelli che, come Togliatti, lo hanno deriso accusandolo di idealismo astratto o che, come Gramsci, lo hanno additato come un velleitario che prepara «ricettari per cucinare la lepre alla cacciatora senza la lepre». Calamitato da questa resistenza e tenacia, Moraldo si muove sulle sue orme, visita la drogheria dei genitori di Piero in via XX Settembre, la sua casa in via Fabro 6, lo segue senza farsi notare in via Roma coperta da un lucido strato di ghiaccio. Nelle vicinanze della capitale, intanto, il cadavere di Giacomo Matteotti è finito nella fossa scavatagli dai fascisti e nel capoluogo piemontese i killer «arditi» si accaniscono contro lo scrittore. Armati di latte di benzina e di mazze, incendiano la tipografia di Pinerolo, arrestano l’editore e giornalista perché sospetto di «appartenenza a gruppi sovversivi che complottano contro lo Stato». Al sequestro della sua pubblicazione seguiranno altre intimidazioni, gli agguati e le terribili punizioni corporali. Non passa mese senza che piovano diffide per i suoi scritti e per le «diffamazioni ingiuriose». Piero si ostina a pensare di poter resistere. Ad alimentare le sue speranze è anche la fiducia in quel laborioso popolo, in quelle formichine che Di Paolo tratteggia così finemente, che sono il tessuto sociale e culturale, la vera humus di Torino: come il padre e la madre di Gobetti, onesti bottegai al pari dei genitori di Moraldo, commercianti stremati dal lavoro per far studiare il figlio, o come gli affittacamere Bovis che con il loro cane volpino meritano ben altro che una dittatura e la perdita della libertà. Torino sarà così una delle ultime città a piegare la testa e ad arrendersi all’assalto dei fasci di combattimento grazie alla tenacia di Gobetti e al baluardo delle sue «Energie» giovani e nuove.

Repubblica 15.3.13
Su “aut aut”
Psichiatria, il rebus diagnosi


A LA diagnosi in psichiatria è dedicato il nuovo numero di aut aut, la rivista trimestrale diretta da Pier Aldo Rovatti. È lui a scrivere nella premessa come l’uscita negli Stati Uniti della quinta edizione del DSM-5, il più diffuso manuale diagnostico internazionale, sia stata lo spunto per «un’operazione di verifica critica». Intervengono, tra gli altri: Mario Colucci, curatore del numero in uscita in questi giorni, Paolo Migone, Vittorio Lingiardi. In un “Post” conclusivo Rovatti ripubblica un suo articolo sul caso del bambino di dieci anni condotto contro la sua volontà in una “casa famiglia”. In nome di una misteriosa e discussa “sindrome di alienazione parentale”.


Repubblica 15.3.13
È boom per Repubblica.it:
3.500.000 lettori cresce l’audience video, 2 milioni di streaming


ROMA — Tre milioni e mezzo di lettori per Repubblica. it nel giorno del nuovo Papa: il nostro sito ha raggiunto uno dei più alti risultati di sempre, confermando la sua leadership fra i siti di news con 41 milioni di Particolarmente ampia l’offerta multimediale, con page views. Tele-Conclave, no stopsu Repubblica Tv, con la partecipazione di inviati, editorialisti, esperti. Sull’evento, il visual desk ha prodotto oltre 200 contenuti video per un’audience complessiva sui filmati di oltre cinque milioni di utenti. In un solo giorno oltre 2 milioni gli streaming, 500mila per il video con il primo discorso di Bergoglio. Alle 19,10, pochi minuti dopo l’Habemus Papam, oltre 400mila persone collegate al nostro sito in contemporanea. L’aggiornamento H24 di Repubblica.it e RepubblicaTv è continuato anche ieri, con la della prima messa di Bergoglio, un’altra edizione di TeleConclavee vari aggiornamenti.