sabato 10 gennaio 2015

il Fatto 10.1.15
Conti
Deficit al 3,7%, ma per Padoan è ok


Il dato sembra certificare il disastro per la politica economica del governo: l’Istat comunica che dopo nove mesi del 2014 il rapporto tra deficit e Pil è arrivato al 3,7 per cento. Il governo ha impostato i conti pubblici nell’ipotesi che il disavanzo per l’intero 2014 sia al 3 per cento. “Va tuttavia rilevato che nel III trimestre dell'anno questo parametro mostra con sistematicità un valore maggiore rispetto al dato finale. Nell’ultima parte dell’anno, infatti, la struttura di incassi e pagamenti fa registrare storicamente un dato più basso degli altri trimestri a causa della struttura di entrate e spese”, si legge in un commento sul sito del ministero dell’Economia. Anche se lo scorso anno non ci fu uno scostamento tra il dato dei nove mesi e quello finale. L’Istat certifica anche che, come effetto del bonus da 80 euro, nel terzo trimestre (giugno-settembre), il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato dell’1,6 per cento ma la spesa solo dello 0,4. Il Tesoro però non ammette il flop e spiega che, prima di tornare a spendere, le famiglie vogliono ricostituire lo stock di risparmi bruciato dalla crisi.

La Stampa 10.1.15
Job act, nuovo contratto, ammortizzatori Ma non dovevano partire l'1 gennaio?
Rallentamento e rinvio dei testi alla prossima settimana. Riusciranno a entrare in vigore a febbraio?
di Walter Passerini

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La Stampa 10.1.15
Corte dei Conti sulla Pubblica Amministrazione

“Con la spending review tagli indifferenziati”
I magistrati contabili: ulteriori interventi metterebbero a rischio i servizi

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Repubblica 10.1.14
Renzi: “Giusto il 3% del decreto fiscale”
Secondo il premier, la soglia della delega è buon senso


«Io sono presidente del Consiglio e ragiono partendo dal concetto che il Presidente della Repubblica c’è. Questa legislatura non è riuscita nel 2013 ad eleggere il Capo dello Stato. Allora, la mia preoccupazione è far sì che non capiti ancora quello che è successo nel 2013». Matteo Renzi, intervistato da Lilli Gruber ad “Otto e Mezzo”, assicura che l’imminente appuntamento per l’elezione del nuovo capo dello Stato non sarà un replay del 2013. «Non farò mai in modo che i 450 delegati del Pd giochino a “Indovina Chi”. E il percorso sarà trasparente», spiega il presidente del Consiglio. Incalzato dice però che «no, non sarà possibile eleggere il presidente della Repubblica alla prima votazione. Ma scommetto che alla quarta votazione lo eleggiamo».
E alla domanda sulla bocciatura di Prodi nel 2013 risponde sferzante: «Io posso parlare con i cattivi ma detesto i vigliacchi, quelli che dicono una cosa e ne fanno un'altra». Di una cosa Renzi appare certo: «Il presidente del Consiglio sarà l'ultima cosa che farò a livello politico. Nel modello anglosassone è così, vale per tutti i leader europei. E' il principio della rottamazione, deve valere anche per me». Durante l’intervista si è parlato anche della famosa norma fiscale “salva Silvio”. E il presidente del Consiglio si è assunto la responsabilità di avere inserito la norma sul 3 per cento. «È finito il tempo che i tecnici scrivono le norme mentre i politici bevono il caffè», ha detto.
Quello del 3 per cento, ha spiegato «è principio di buon senso, non ci prendiamo in giro. C'è il raddoppio delle sanzioni. Non mi interessa Silvio Berlusconi ma gli italiani. Ma c'è chi vive nell'ossessione di Berlusconi.
Quella proposta l'ho scritta io. Tutti gli articoli nuovi lo ho proposti io». E ha aggiunto che «è falso che lo Stato perderà 16 miliardi, la nostra proposta darebbe 16 miliardi per due. Non è vero che andiamo a non punire l'evasore, con doppie sanzioni lo colpiamo due volte. È tutto finalizzato ad avere più soldi in tasca».
Non cambieremo la legge Severino. Berlusconi pensa di fare ricorso a non so quale Corte internazionale. Ma noi la Severino non la cambieremo
Molti sono orfani del dibattito tra berlusconismo e antiberlusconismo e vivono nella sua angoscia. L’ossessione è ricominciata

La Stampa 10.1.15
Per il Quirinale Matteo pensa a un puro garante, alla Einaudi
“Più che il nome, riflettiamo sull’istituzione” Vuole una figura che non s’imponga al premier
di Ugo Magri


Tra le cose dette da Renzi negli ultimi giorni ce ne sono alcune, scivolate via senza clamore, che fanno capire come lui vede il dopo-Napolitano. Più dei candidati, ha polemizzato il premier, sarebbe meglio interessarsi del ruolo che il prossimo Capo dello Stato andrà a svolgere. Testualmente: «Il dibattito deve riguardare semmai l’istituzione Presidente della Repubblica». Non sembra affatto una frase gettata lì per guadagnare tempo. Segnala piuttosto una riflessione in corso, che Renzi sta sviluppando con l’ausilio di studiosi seri. Non è mistero che Maria Elena Boschi, nella sua veste di ministro delle Riforme, sia in contatto con cultori a vario titolo del diritto costituzionale. Tanto per indicarne alcuni, confronta le idee con Roberto D’Alimonte, Augusto Barbera, Stefano Ceccanti, Francesco Clementi, Sergio Fabbrini. Li consulta, li riunisce, raccoglie i loro punti di vista e ne ha fornito il comune denominatore al premier. Il quale può sembrare distratto, perfino impermeabile a certe costruzioni teoriche tipo quella illustrata da Sabino Cassese sul «Corsera», ma in realtà le assorbe e le declina alla maniera sua. La frase di cui sopra ne è una prova.
Va interpretata come una rivoluzione alle porte: Matteo vuole riposizionare i partiti al centro del villaggio. La legge elettorale in discussione punta al premio di lista, che vuol dire esattamente questo. Ma perfino se scattasse il premio di coalizione (come insiste Berlusconi) l’«Italicum» garantisce che la sera delle elezioni si sappia con certezza di chi ha vinto e chi ha perso. Non servirà più che il Capo dello Stato debba caricarsi sulle spalle il peso di governi «del Presidente» o comunque privi del riscontro popolare. L’inquilino del Quirinale potrà finalmente limitarsi a registrare la volontà degli elettori, concentrandosi sul ruolo di garante anziché di governante, come in fondo era ai tempi di Einaudi. «Questo immagino che Renzi abbia voluto dire», conferma il professor Barbera. Zero polemica con il ruolo svolto da Napolitano. Anzi, il premier molto ha insistito affinché il Presidente restasse poiché, assicura Ceccanti, l’intervento di Napolitano è finalizzato proprio a realizzare quelle riforme che renderanno meno necessario in futuro l’interventismo presidenziale. «Servirebbe uno come Napolitano che continui a lavorare per rendersi inutile», è il paradosso di Ceccanti.
Ne discende un identikit del candidato ideale. Renzi non vedrebbe bene personaggi smaniosi di imporsi, semmai il rovescio: molto sobri e rispettosi del mandato popolare. La funzione di controllo sul governo andrà contenuta all’essenziale, superando anacronismi che impongono (segnala Clementi) al presidente addirittura di «autorizzare» la presentazione alla Camere dei disegni di legge. I consiglieri presidenziali dovranno restare prudentemente nell’ombra, rispettosi di un galateo da Prima Repubblica. E se si tratterà di sciogliere le Camere, il nuovo Presidente eviti di fare lo schizzinoso: deciderà il premier se e quando mandare tutti a casa.

La Stampa 10.1.15
“Quirinarie” la lezione dc ai democratici
di Fabio Martini


Nella scelta del candidato «giusto» per il Quirinale, la Dc di Aldo Moro, quella di Amintore Fanfani e quella di Ciriaco De Mita sono state più «democratiche» del Pd di Pier Luigi Bersani e, sinora, del Pd di Matteo Renzi. In occasione dell’elezione di tre presidenti della Repubblica, nel 1962, nel 1971 e nel 1985, i leader di quel partito decisero di sottoporre la selezione del loro candidato alla libera scelta dei grandi elettori democristiani, a scrutinio segreto. Una lezione di democrazia lasciata da un partito, la Dc, che è il simbolo della Prima Repubblica e che dunque ha anticipato di mezzo secolo le «Quirinarie», le Primarie per il Quirinale.
Tre Presidenti e tre lezioni diverse per i partiti e per gli eredi politici della Democrazia cristiana. La prima lezione risale al 1962: sta per decollare una stagione nuova nella politica italiana, l’alleanza di centro-sinistra tra la Dc e il Psi di Nenni e nell’elezione del nuovo Capo dello Stato il capo dello scudocrociato Aldo Moro, punta tutto su un moderato, Antonio Segni, che controbilanci l’apertura a sinistra ai socialisti. Mezza Dc resiste, i franchi tiratori (e i cui «nipoti» politici si preparano anche per la prossime settimane) scalpitano e Moro decide di sciogliere il nodo, facendo votare i grandi elettori dc. L’ossessione per l’unità del partito induce Moro a stabilire regole destinate a far scuola: scrutinio segreto, promessa di riserbo assoluto sul nome degli sfidanti e dei voti ottenuti da ciascuno, con l’ impegno a bruciare le schede, a scrutinio ultimato. Chi fossero gli sfidanti del candidato ufficiale non è dato sapere, ma dei 402 grandi elettori 192 (o forse 215 ) votano per Segni, che qualche giorno dopo viene eletto presidente della Repubblica, primo dc che sale al Colle. Molto più movimentata l’elezione di Giovanni Leone nel 1971. In quella occasione puntavano al Quirinale entrambi i «cavalli di razza» della Dc, Aldo Moro e Amintore Fanfani. Il secondo fu logorato dai franchi tiratori durante le prime votazioni in aula e allora si pensa di sciogliere il nodo, ricorrendo di nuovo alle Primarie: in corsa Moro e Leone, che prevale e verrà poi eletto Capo dello Stato. Quattordici anni più tardi, dopo la presidenza Pertini e in omaggio all’alternanza laico-cattolico, il Quirinale tocca di nuovo alla Dc e il suo segretario Ciriaco De Mita compie un miracolo: mette d’accordo tutti i partiti sul nome di Francesco Cossiga, ma prima di andare in aula chiede anche ai grandi elettori di votare a scrutinio segreto. Un plebiscito. A Flaminio Piccoli il compito di bruciare le schede, rituale da Conclave per l’ultimo «papa» democristiano prima della fine.

La Stampa 10.1.15
Renzi: questa volta il Presidente lo eleggeremo subito
Chiude a Prodi e si dice sicuro: non ripeteremo il 2013
di Fabio Martini


Per venticinque minuti parla di Parigi e del terrorismo islamico, alza una barriera contro i nemici politici interni («pena di morte e chiusura dei confini sono banalità, demagogia»), ma nell’intervista a «Otto e mezzo» su “la7” Matteo Renzi dice diverse cose nuove sul Quirinale e per la prima volta chiude a Romano Prodi, fa capire che il Professore non rientra tra le sue prime scelte. Rivolgendosi al direttore dell’Ansa Luigi Contu, il premier dice: «Scommetto con lei che il presidente della Repubblica sarà eletto alla quarta votazione e la scommessa la vinco io!». Come dire: credo fortemente nello schema bipartisan, con Berlusconi, che ci consentirà un Presidente rapido e unitario. La controprova arriva subito dopo. A Lilli Gruber che gli chiede se Romano Prodi abbia il profilo per fare il Capo dello Stato, Renzi glissa sull’ex presidente della Commissione europea, non risponde neppure se abbia il profilo “giusto”, ma spiega invece che il suo impegno è evitare che «il Parlamento ripeta la stessa figura del 2013», che bisogna «eleggere un arbitro» col voto di tutti e scarta senza appello il metodo in linea teorico più democratico: quello di primarie tra i grandi elettori del Pd.
Due messaggi chiari. Il primo: Renzi vuole far capire all’opinione pubblica e ai suoi avversari di essere sicurissimo del fatto suo, al punto da dichiararsi certo che il Capo dello Stato sarà eletto alla quarta votazione, la prima nella quale è sufficiente la maggioranza degli aventi diritto. Secondo messaggio: Prodi non viene preso in considerazione perché la mission dichiarata è quella di eleggere il Capo dello Stato «scegliendolo il più possibile assieme». Nel corso di una intervista, ricca di domande non elusive, Matteo Renzi per prima cosa ha provato ad erigere un muro difensivo contro i nemici interni, Lega e Cinque Stelle.
Il terrorismo
Come fronteggiare il pericolo terrorista? «Il problema non è Schengen, il nemico alla frontiera», perché «la pena di morte e la chiusura delle barriere sono frasi fatte: c’è bisogno di una strategia che vada oltre l’emozione del momento». E quindi, «dobbiamo andare verso una intelligence europea unita, servizi e diplomazia della Ue sempre più uniti. Questo diremo anche martedì a Strasburgo», in occasione del discorso di chiusura del semestre di presidenza italiana. E sul fronte terrorismo, il messaggio è il più possibile ansiolitico: «Non abbiamo segnali precisi e puntuali che portano a considerare il nostro Paese come ad elevata probabilità» di rischio terrorismo, «ma ci muoviamo come se lo fossimo e abbiamo un elevato livello di allerta. I sistemi di intelligence e i servizi fanno il loro lavoro». E comunque il messaggio forte è: «tutto quello che è accaduto non ci deve far vivere nella paura» e «non possiamo immaginare di non poter uscire di casa».
Le tasse
Sul fronte del decreto fiscale, nessuna novità. Renzi ha ribadito che la controversa noma del 3 per cento, l’ha introdotta lui personalmente e che «non sarà cambiata» la legge Severino, quella che prevede l’incandidabilità in Parlamento davanti a determinati reati. Nulla di nuovo: non è mai stata in discussione la revisione della «Severino», ma semmai la depenalizzazione della frode fiscale che consentirebbe a Berlusconi di “aggirare” quella legge.

Il Sole 10.1.15
Renzi: pronti a intervento in Libia
«Serve intelligence unica nella Ue» - Alfano: nuove misure contro nuove minacce
di Manuela Perrone


ROMA «Il nemico non è alle frontiere. Il nemico è il radicalismo interno che fomenta l’odio, in alcuni casi contro la libertà di stampa, in altri casi contro i fratelli ebrei o contro chi è diverso. Radicalismo che va combattuto in modo serio, non con banalità». Il premier Matteo Renzi, a Otto e mezzo, ha biasimato la demagogia come risposta alla paura. «La minaccia oggi è diversa», ha spiegato il premier. «Quei ragazzi erano francesi, eppure sono diventati terroristi. Il problema non è il Trattato di Schengen, magari bastasse quello».
Ciò che serve è altro: una regia europea, un’intelligence e una diplomazia unica. E interventi mirati. In patria e altrove, come in Libia, dove l’Italia, qualora la diplomazia fallisse, «è pronta ad assolvere un ruolo di peacekeeping sotto l’egida dell’Onu».
Rivendica la sua lettura, Renzi, contro quella di Grillo e di Salvini. Su twitter rimarca il concetto, annunciando che domani sarà come gli altri leader europei a Parigi alla marcia nazionale per commemorare le vittime della furia jihadista: «Dimanche je serais avec Hollande à Paris. #JeSuisCharlie Non permetteremo alla paura di cambiarci #Europa». Sfilerà anche Romano Prodi, su invito del presidente François Hollande.
Ieri, nel giorno più duro per la Francia, Renzi (che proprio domani compirà 40 anni) ha telefonato a Hollande per ribadire la piena vicinanza e solidarietà del Governo italiano. In mattinata è stato il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, a riferire alla Camera, in un’aula semivuota, sui «tragici fatti di Parigi» e sulla sicurezza. Contro di lui l’ira della Lega per le politiche sull’immigrazione: «Il Governo è collaborazionista, perora la causa dei terroristi».
Alfano ha escluso «segnali di rischio specifico» per l’Italia ma l’allerta è massima. Tra le critiche dei sindacati di polizia che denunciano la mancanza di risorse, il ministro ha confermato il rafforzamento della vigilanza sugli oltre 10mila obiettivi sensibili: istituzioni e luoghi di culto, ma anche sedi di giornali e Tv e personalità pubbliche a rischio. Ha poi sintetizzato le novità del decreto che sta per presentare al Governo: una «specifica figura di reato che colpisce i combattenti stranieri», il ritiro del passaporto ai combattenti in procinto di partire, un giro di vite sui precursori (il materiale per costruire bombe artigianali) e una stretta sui siti web che incitano all’odio.
L’obiettivo è contrastare il terrorismo “home made” e i foreign fighters. Sui 3mila censiti in Europa, in 53 sono passati per il nostro Paese e 4 hanno la cittadinanza italiana (tra cui Giuliano Delnevo, morto in Siria). Per fermarli Alfano ha ribadito la necessità di adottare in Europa il Passenger name record (Pnr), l’accesso alle liste passeggeri di tutti i voli.
Nuovi strumenti contro nuove minacce. Perché la doppia drammatica lezione parigina è stata una: il terrorismo jihadista ha cambiato pelle. Niente martirio, soltanto sangue e terrore. Alfano è stato chiaro: le minacce dell’Isis e di Al Quaeda ora si sommano. E il pericolo cresce.

Corriere 10.1.15
Gli avversarti puntano a tenere aperti i fronti renziani
di Massimo Franco


A meno di una settimana dalle dimissioni annunciate da Giorgio Napolitano, il destino delle riforme rimane misterioso e incerto in modo preoccupante. È come se, avvicinandosi alla competizione per il Quirinale, le diffidenze reciproche alimentassero una sorta di «strategia dei fronti aperti» tra e dentro i partiti. Nessuna certezza sul destino della legge elettorale; né per la riforma del Senato; e nemmeno sul cosiddetto «decreto salva Berlusconi» che il governo ha sospeso tra le proteste, e pensa di riproporre il 20 febbraio. In realtà, queste incognite sono pezzi della strategia di minoranze che ritengono così di poter trattare con il premier da posizioni di maggior forza.
Meno Palazzo Chigi riesce a raggiungere i risultati che si è prefisso prima che le Camere riunite comincino a votare, è il ragionamento, più sarà possibile condizionarlo sulla scelta del prossimo presidente della Repubblica. Calcolo pericoloso, dietro il quale si intravede il timore di sempre: che le assicurazioni su una continuazione della legislatura possano essere smentite se al Quirinale arriva una personalità disposta a mandare a casa in tempi brevi il Parlamento. Non è bastato che il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi proponesse una clausola di salvaguardia per fare entrare in vigore l’ Italicum nel 2016. Le opposizioni vogliono un emendamento che scongiuri le elezioni anticipate e impedisca qualunque ripensamento e strappo del premier.
Le critiche a una legge che prevede troppi «nominati» dai vertici dei partiti; il «no» al premio alla lista che raccoglie più voti; le perplessità sul Senato depotenziato per archiviare il bicameralismo; e le richieste di chiarire in Parlamento il senso del «salva Berlusconi» prima del 20 febbraio: sono tutte spie indirette del nervosismo che aleggia sulla scelta del futuro inquilino del Quirinale; e che tende a rallentare fino quasi a bloccare ogni provvedimento programmato da qui a fine mese, quando si inizieranno le votazioni. Le resistenze sono trasversali. Vanno dalla minoranza del Pd a quella di FI. Toccano alcuni settori del Nuovo centrodestra. E naturalmente si allungano sul Movimento 5 Stelle e la Lega.
Il tentativo è di impedire la saldatura tra i progetti di Renzi e quelli di Silvio Berlusconi; e dunque di sbarrare la strada ad un presidente della Repubblica figlio del loro patto del Nazareno. FI invoca «coesione nazionale a 360 gradi o voto». Eppure, l’ipotesi di un’elezione ai primi tre scrutini, quando occorrono i due terzi dei voti, è improbabile. Il pericolo è quello di ritrovarsi con un Parlamento «balcanizzato», nel senso di lacerato e diviso tra fazioni in guerra tra loro; e dunque incapace di accordarsi su una candidatura accettata anche dagli oppositori. Si tratta di una deriva difficile da fermare, ma che sarebbe irresponsabile assecondare o addirittura incoraggiare.

il Fatto 10.1.15
“Royal Baby”
Ferrara ama Renzi per baciarsi da solo
di Daniela Ranieri


Questa non è una storia d’amore. Lo sembra, infelice com’è, e tutta mista di megalomania insana, ferita narcisistica, smodatezza psicotica. Giuliano Ferrara vuole farci credere di essersi innamorato, e forse lo crede lui stesso. Come i fulminati d’amore, s’atteggia: “Non è nemmeno il mio tipo, come Odette de Crecy per il povero Swann”. L’amato è Matteo Renzi, il Royal baby, come da titolo del pamphlet-encomio (Rizzoli). “Spregiudicato fin da bambino”, il nuovo Valentino è investito dell’invitto stupore che si deve alle apparizioni del destino: “Ha il fuoco nella pancia... brucia di megalomane ambizione... ridanciano e innamorato del suo ostentarsi piacente al populazzo”, per dirla con l’Ariosto.
Ma Ferrara, per luogo comune “intelligente”, non può contentarsi dell’amore preteso sano della gente normale. Lui brucia di altra passione, in cui entrano le capziosità di Sade e gli arbitrii di Joseph de Maistre, la dialettica storica e lo Spirito del Mondo. Sopra sopra il libercolo
gronda venerazione, ma è tutto cifrato, tutto a scatole cinesi psichiatriche e tutto stretto in colonna, corto quanto è lungo un articolo del Foglio sabatino, un rotolo del Mar morto di devozioni per il piccolo Buddha, questo Siddharta dell’inculata professionale e twitterina. Che non è destinatario di lacrimosi madrigali, piuttosto di impudenze dannunziano-papiniane: “È innamorato delle possibilità… fiorentino e machiavellico, è Principe nuovo”. L’autore se ne dice stregato, ma per necessità storica e biografica: “E volete che un vecchio e intemerato berlusconiano pop, come me, non si innamori del boy scout della Provvidenza e non trovi mesta l’aura di spregio che circonda di nuovo il caro leader? ”.
L’AURA mesta è quella degli iettatori, antagonisti di una vita. E qui il primo dubbio sorge: non sarà che lui ama Lui solo perché Lui odia gli altri? “Manettari militanti”, “bel mondo intellettuale e dei salotti”, “antigarantisti”, tutta la schiera di antichi nemici silenziati dalla mano maschia dell’Infante Terribile. Terza reincarnazione del Dalai Lama, in Renzi si concentrano gli schiocchi di frusta di Craxi (“Disperdeva l’aria saccente della velleità totalitaria, aveva l’istinto dell’oggi”) e le succulente magagne del Cavaliere (“se il primo faceva perigliosamente ‘girare la patonza’, lui fa girare la Leopolda”), a cui è legato da cordone catodico. Il librissimo trasuda sesso, come un concerto di Elvis; ma è il sesso cerebrale degli scontenti. Matteo, “punto di equilibrio perfetto di una gioventù ambiziosa ma alla fine noncurante”, dotato dell’agilità proterva del giovane Mussolini e della tracotanza di Faust, è satiro in un giardino di ineffabili delizie abitato da “muse” che ne rimandano la gaia protervia: “Capirete che le ragazze ministro, e qualche monna fiorentina o aretina di civile condizione… mi spingono all’intemperanza, mi briacano del loro passo e delle loro trecce”. Capiamo. Dell’uomo gli piace la bellezza convulsa, della donna quella serafica ed è tutto un fluir di mucose se dalle muse si passa alla consorte reale: “Agnese sua moglie è bellissima… ha il dono del Settecento nei tratti pertinenti. Il suo naso è una testimonianza dell’intelligenza costruttiva di Dio”.
Davanti al naso coniugale tacciamo, ma lui: “Quando vedo Renzi che si agita, che ambisce, pretende, promette, chiacchiera nel bene e nel male, non penso mai all’onestà personale”. Se è per questo nemmeno noi, ma per Ferrara è afrodisiaco.
E quando la biografia volge in autobiografia, e il lettore s’aspetta solo un saluto “con la faccia sotto i Suoi piedi”, l’amore retrocede e si chiarisce la natura freudiana di questo amore: parlando di sé in terza persona come sotto Pentothal, Ferrara rivela: “È risentito verso il Pci e la sua linea politica. Si vuole vendicare… una vendetta politico-intellettuale che dura ormai da vent’anni e più”.
Ecco allora la “babyarchia”, regime scombiccherato “senza tessere di partito, con le sue passioni superficiali, con le sue pizze al taglio consumate in fretta, con la sua incuranza dei salon e dei dibattiti”; ecco Matteo e le sue ministrine, a vendicare i padri sconfitti di Giuliano, a loro volta uccisori del Padre, e lui, figlio traditore di padre e di madre organici alla Sinistra, ne gode tanto più quanto il vendicatore gli si presenta all'apparir del vero come mediocre, inattendibile, squalificato. Lo dice lui, e quasi papale: “Certe volte mi sputo in faccia”. Siccome hanno fallito i suoi vendicatori, e siccome lui è infelice, non gli resta che sperare che sia arata tutta la sua generazione, e infelici siamo tutti. Questo amore è volontà di nulla, è sacrificio, è seppuku in cui la spada, invece di essere impugnata o di ergersi da terra, viene affidata al peggiore, il più dorato, il più cattivo, il meno dotato di anima.

Repubblica 10.1.15
Remake del “Principe” di Machiavelli in formato Renzi
Il nuovo libro di Giuliano Ferrara, “Il Royal Baby”, è un pamphlet dedicato al presidente del Consiglio e al suo linguaggio politico
di Adriano Sofri


RECENSIRE qui l’ultimo e più spericolato Giuliano Ferrara è un gioco di prestigio. Repubblica è più che il dichiarato bersaglio polemico di Ferrara, è un’eruzione esantematica sulla sua scrittura. «Il gruppo di Carlo De Benedetti ha praticato l’efferata questione morale a piene mani, ne ha fatto uno strumento di penetrazione mediatica e di mercato con il suo giornale-tribuna, ed è` costretto a cercare di manipolare il fenomeno Matteo, a spingerlo sulla strada di continue dichiarazioni di identità`: sono di sinistra, sto dalla parte dei deboli, sono onesto... Con Berlusconi non hanno nemmeno provato, tempo perso, ma con Renzi ci provano». Tutto il resto, Corriere della Sera compreso, è maltrattato quasi di passaggio. Che cos’è che fa scegliere Repubblica? La passione, la mania, della politica. Tutto è politica, direte. Sì, cioè no. La politica ha un suo demone speciale, non diverso da quello del gioco, che intender non lo può chi non lo prova. Il moderatismo non l’ha provato, e la predilezione per la via del mezzo non lo sa nemmeno immaginare. Guicciardini lo seppe immaginare, e si sbrigò a prenderne le distanze, sfebbrare e diventare un grande storico; Machiavelli se ne fece prendere anima e corpo, e le storie furono per lui solo un ripiego impaziente. Dopodiché, ognuno ha il suo Machiavelli. Ferrara scrive insieme un’autobiografia per interposto Matteo e un trattato de regimine («…la legge da me scoperta, che per contare in politica non devi essere capace di ricatto ma ricattabile… »). Il principe del resto è la traduzione di Royal baby . Peraltro ognuno, o quasi, ha anche il suo Renzi, si licet . (Al mio, per essere davvero “fiorentino e machiavellico”, manca soprattutto la sensazione della disgrazia: nemmeno il Valentino se ne premunì abbastanza). Ferrara sta per Machiavelli, Matteo per il Valentino – e fate a meno delle battute sullo stilista. «Forse l’Italia non ne ha bisogno. Io sì. A me è necessaria la politica. Non posso vivere senza i suoi travestimenti, le frodi, l’impostura, i segreti... Non posso vivere senza l’imprevisto, l’inimmaginabile, il callido… »: questo l’esordio di Ferrara. Nelle circostanze più significative, la politica non è affare di condottieri e capipopolo, quelli sono attori naturali e non di rado squilibrati, così come l’amore non è affare dei bei giovani: amore e politica sono l’affare dei segretari, dei consiglieri, dei direttori di giornali, di quelli che non sono né bei giovani, né prodi condottieri, impetuosi capipopolo o rampolli di stirpe insigne, ma sanno, o si sforzano di figurarsi, che cosa può fare di quei campioni naturali dei vincitori, espugnatori di donne e di paesi. Io non sono un kingmaker, disse Ezio Mauro al Foglio. La politica è un’idea – dell’Italia, dell’Europa, del mondo – di cui i leader sono accessori più o meno all’altezza (Machiavelli non ne trovò uno). Cyrani di Rossane riservate altrui. I tempi, poi, hanno le Rossane che si meritano, basta ricontare i principi candidati dell’ultimo quarto di secolo, da quando un passaggio d’epoca mise lo Stato alla mercé di chi lo afferrasse per il ciuffo. Prendevano la cresta dell’onda, per finire desolatamente spiaggiati, e qualcuno ancora sguazza a mezz’acqua. Non che le vie del mezzo, non abbiano anch’esse i loro candidati: come il professor Monti, squisito esempio di estraneità psicosomatica alle avventure della politica. Però nella contesa di artigli e uncini fra diavoli e angeli per afferrare il possibile Principe e portarlo dalla propria parte, la fisionomia personale del candidato prevale vieppiù sul progetto che si spera che incarni. Matteo Renzi è il candidato strenuo di Ferrara. È anche, assai più dialetticamente, il candidato di Repubblica, che comprende un ventaglio di opinioni e sentimenti nei suoi confronti almeno altrettanto ampio di quello che contrassegna la sinistra italiana, dal centrosinistra a Tsipras. Quanto al famoso azionismo di Repubblica, penso che abbia due grandi pregi: di essere alla memoria, una memoria dell’azionismo, e, secondo, di rendere perciò superfluo un anticomunismo acuto, l’anticomunismo senza comunisti. Nella posizione spiazzante di Renzi, che a sua volta si divincola, si vedrà la conferma di un opportunismo o di una spregiudicatezza quanto alla destra e alla sinistra e a tutto ciò che intralci la sua corsa. Ma appena sotto c’è un giudizio sul cambio di scena che comunque Renzi ha compiuto, e promette di completare. Sullo scetticismo problematico o francamente critico di Scalfari pesa lo stesso argomento che Ferrara avanza in favore del Royal baby: l’affinità con Berlusconi, che fa della successione fra i due un passaggio di testimone, increscioso per l’uno quanto promettente per l’altro. «Il babbo e il figlio», dice Ferrara da lettore di Pinocchio.
Chi nega una tal somiglianza pensa che Renzi non se ne preoccupi, e anzi qua e là la fomenti: l’alleanza col vecchio leader del centrodestra, o piuttosto del berlusconismo – questo è Berlusconi – è un caso di asimmetria, uno che va, l’altro che viene e, mentre lo scavalca, lo saluta cordialmente. Lo stesso Ferrara sta salutando cordialmente il Berlusconi che ha fedelmente secondato, benché fosse dall’inizio un succedaneo estemporaneo del vero campione del gioco politico ai suoi occhi, Bettino Craxi. Cui riserva una specie di rap: «Bettino, con la sua banda di pokeristi che avevano alzato la posta e dicevano “piatto!” quasi ogni giorno... aveva l’istinto dell’oggi, escludeva il domani che canta… Se ne fregava di piacere, voleva puro potere, ma diviso, affrettato, pragmatico, anticomunista. Apriva le porte del peccato, era tutto un machiavello, rifirmava Concordati, interdiceva l’eterna velleità di affamare i preti, a suo modo era Principe e Stato nuovo». L’ascesa spavalda e maleducata di Renzi gli promette, anzi fa già sentire realizzata, la rivincita sulla liquidazione di Craxi e di un intero vecchio mondo ancora sensibile al bell’azzardo della politica: «Volevo un vendicatore di questi vent’anni. L’ho avuto». Dall’altra parte, a una sinistra da tempo avvertita della necessità di una rottura – un papa straniero – Renzi sembra almeno un purgatorio per riveder le stelle di un primato della politica democratica, rispettosa delle regole e sensibile alla sofferenza sociale e alla dignità del lavoro. Il libro ha annotazioni da giornale della sera: «Il patto del Nazareno può scomparire da un momento all’altro… ». Ma è più ambizioso, e sebbene l’Autore sia tornato più volte a raccontarsi da cucciolo e da grande, con un’attenzione a prevenire la mossa avversaria – «Certe volte mi sputo in faccia. E non c’è niente tra me e me. Lo sputo arriva» – questa volta il bilancio è fatto per durare, e dichiara un orgoglioso autopensionamento. Fra i numerosi detestatori di Ferrara, quelli che “minimo lo sputerei in faccia”, ce ne sono che lo chiamano venduto: a torto, perché le sue affiliazioni si compiono quando il vento è in poppa, Craxi è al potere e Berlusconi lo fa ministro e Ruini detta l’agenda, ma poi le sue devozioni sono rinfocolate dalla sconfitta, da un gusto sfacciato di “uomo di Salò”: «I miei idoli sono tutti figure di vigilia della caduta, gente da Triduo pasquale senza resurrezione. Sono rischiosi simulacri della sconfitta imminente». Qui: scongiuri di Matteo. «Potete crederci o no, ma non sono un poco di buono. Nemmeno un angioletto»: così Ferrara, a metà fra Le météque e Confesso che ho vissuto. Ha vissuto, e collaborato con la Cia: la prima volta esclamammo «Non ci posso credere!», ora sospireremmo come un bravo confessore, «Quante volte, figlio mio?». Sono uno dei soliti noti, dice: «Vi pare che un tipo così possa ambire ad altro che a dire la sua ancora per qualche anno, in un angolo riparato del Paese, senza ambizioni di eterodirezione della politica?». Be’, può darsi. Però: «Che bocca grande che hai, nonnina… ».
IL SAGGIO Il Royal Baby. Matteo Renzi e l’Italia che vorrà di Giuliano Ferrara (Rizzoli, pagg. 116, euro 15)

Repubblica 10.1.14
Italicum, al via la battaglia sui capilista
di C. L.


ROMA Sono 37 i senatori pd che hanno firmato l’emendamento all’Italicum dei bersaniani. Porta la prima firma di Miguel Gotor e propone di eliminare i capilista bloccati, caposaldo della proposta di riforma elettorale targata Matteo Renzi.
È una truppa consistente che va oltre la stretta minoranza democratica. Ci sono parlamentari un tempo renziani (Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Vincenzo Cuomo, Monica Cirinnà e Roberto Ruta) e di AreaDem, riconducibili a Dario Franceschini. La caccia grossa punta a incassare altri consensi: quelli della (quasi) ventina di senatori forzisti considerati vicini a Raffaele Fitto, comunque dissidenti, i quali hanno già presentato emendamenti analoghi. Ma poi, interessati alla norma potrebbero essere anche i Cinque stelle, gli ex grillini, i vendoliani di Sel e, con qualche incognita in più, la Lega. Per non dire dei centristi, da sempre favorevoli alla reintroduzione delle preferenze. Se poi dovesse andare male a Palazzo Madama, i proponenti confidano sempre nella seconda tappa. Perché nella lettura successiva alla Camera, a differenza che al Senato, è possibile chiedere la votazione a scrutinio segreto. E a quel punto, tutto potrebbe succedere. L’obiettivo, tutt’altro che celato, è far saltare i punti chiave del patto del Nazareno. Che riescano nell’intento è tutto da verificare alla prova dei numeri. Il governo Renzi è sicuro di superare la trappola, dopo che il ministro Maria Elena Boschi esprimerà in aula parere contrario all’emendamento.
Ma cosa prevede nel dettaglio la proposta firmata da Gotor e altri? Punta all’elezione del 75 per cento dei deputati con le preferenze: con i capilista bloccati i partiti piccoli avrebbero tutti i propri parlamentari eletti solo con quel meccanismo in cima alle rispettive liste. Mentre le preferenze varrebbero solo per il partito che ottiene il premio di maggioranza. Alla fine, dunque, si stima che il 60 per cento dei deputati verrebbe eletto senza preferenze. E ancora, prevede preferenze per tutti nei collegi e listini bloccati a livello circoscrizionale con 3 o 4 nomi, proprio come nel Mattarellum. Già nelle audizioni in commissione Affari Costituzionali alcuni costituzionalisti, tra i quali l’ex presidente della Consulta Giuseppe Tesauro, avevano sostenuto che il capolista bloccato rischia l’illegittimità perché introdurrebbe una disparità nella fonte di elezione dei deputati.
Adesso la probabilità che al Senato maggioranza e ala berlusconiana di Fi ballino è molto alta, quando da mercoledì 14 si entrerà nel vivo delle votazioni. Ieri alla Camera la conferenza dei capigruppo ha stilato il calendario per l’esame della riforma del bicameralismo, l’altra colonna che regge l’arco delle riforme renziane: dovrebbe essere approvata il 23 gennaio, stesso giorno in cui potrebbe arrivare anche il via libera del Senato all'Italicum. Se così fosse, il premier incasserebbe l’uno-due sperato prima che si aprano i grandi giochi per l’elezione del presidente nel Parlamento in seduta comune.

Il Sole 10.1.15
Le minoranze Pd-Fi contro i capilista
Legge elettorale. Verso un’alleanza trasversale sull’emendamento
Gotor: difficile che passi al Senato, ma alla Camera potrebbe guadagnare consensi
di Barbara Fiammeri


Un’alleanza trasversale, tra la minoranza Pd - circa una trentina di senatori - e quella di Fi che fa capo a Raffaele Fitto e che può contare su una ventina di voti, si salderà in occasione del voto contro i capilista bloccati previsti dall’Italicum. Miguel Gotor, assieme ad altri 36 senatori, alcuni dei quali renziani, è pronto a presentare l’emendamento per limitare al 25% i deputati nominati dalle segreterie di partito, lasciando agli elettori con le preferenze la scelta del restante 75%.
La proposta non dispiace ai fittiani, che ritengono «possibile» sostenerla. Ma di qui a pensare che passi ce ne corre. Quando in aula Maria Elena Boschi ufficializzerà il parere contrario del governo è assai probabile che alcuni degli attuali firmatari, a partire dai 7 renziani, faranno marcia indietro. Se ne riparlerà alla Camera, dove il voto segreto potrebbe far lievitare i numeri dei dissidenti in modo significativo. Anche perché avverrà quando la questione Quirinale sarà già stata risolta. Un elemento da non sottovalutare. Soprattutto per il ruolo che potrebbe giocare Fi.
Il partito di Berlusconi è contro il premio di lista. Il Cavaliere lo ha detto e ripetuto ma allo stesso tempo non è disposto in questa fase ad alzare troppo la voce, proprio perché in ballo c’è anche la trattativa sul successore di Giorgio Napolitano. Poi però suonerà la campanella del liberi tutti. E sul premio di lista i dubbi non sono solo di Fi. Tant’è che la minoranza Pd ha già pronto l’emendamento per introdurre l’apparentamento tra primo e secondo turno. E anche i cosiddetti partitini, a partire dai centristi di Area popolare-Ncd non vedrebbero certo male la possibilità di “contrattare" il loro apparentamento. Vale ovviamente anche per le preferenze.
Lo sa anche Matteo Renzi. Il premier però in questo momento ha come obiettivo principale quello di portare a casa il via libera all’Italicum del Senato e quello della Camera alla riforma costituzionale . È molto probabile che li centrerà entrambi.
Ieri a Montecitorio la conferenza dei capigruppo ha fissato i tempi per l’esame della riforma per l’abolizione del bicameralismo perfetto. Il voto finale arriverà dopo il 23 gennaio. Per quella data si esauriranno infatti le 80 ore a disposizione dei deputati per la discussione sui singoli emendamenti. Andamento simile si avrà anche al Senato sull’Italicum. Il termine per la presentazione degli emendamenti scade martedì prossimo ed è probabile che fino a mercoledì l’aula sarà ancora impegnata nella discussione generale. Poi si procederà al voto delle singole proposte di modifica, che avverrà per lo più con voto palese e che dovrebbe concludersi negli stessi giorni della riforma costituzionale. Certo non si possono escludere “incidenti”. E il timing imposto all’esame delle due riforme indirettamente ne tiene conto. L’importante è concludere prima che il Parlamento si riunisca in seduta comune per l’elezione del Capo dello Stato e questo non dovrebbe avvenire prima del 29 gennaio, visto che è dato per scontato che Napolitano attenderà, per formalizzare le sue dimissioni, il discorso finale di Renzi, a conclusione del semestre di presidenza italiana, che il premier terrà martedì prossimo. Una volta presentate le dimissioni scatteranno i consueti 15 giorni. Due settimane entro le quali Camera e Senato saranno chiamate a licenziare le riforme.

La Stampa 10.1.15
Liguria. Domani si vota
Il Pd e le primarie liguri al veleno. Cofferati: ex fascisti in campo
di Jacopo Iacoboni

qui

Corriere 10.1.15
«Primarie inquinate dal centrodestra .Sulla Liguria troppi silenzi nel Pd»
Cofferati: ai seggi bisogna fermarli. C’è anche un indagato per voto di scambio
intervista di Erika Dellacasa


GENOVA Musi lunghi e facce scure fra gli esponenti del Pd ieri, ultimo giorno di campagna elettorale delle primarie del centrosinistra per la Regione Liguria. Scontro più feroce fra candidati dello stesso partito, Raffaella Paita, quarantenne assessore della giunta Burlando, e Sergio Cofferati ex sindacalista e eurodeputato, non si era mai visto. Quali ferite e quali conseguenze lascerà questa campagna al veleno lo si capirà domani quando alle 20 saranno chiusi i seggi e si saprà il risultato.
Cofferati, non la preoccupa che lo scontro con Paita sia stato così lacerante?
«Mi preoccupa di più come queste primarie siano state inquinate da esponenti del centrodestra che hanno dichiarato che andranno a votare e faranno votare Paita per prefigurare un futuro governo di larghe intese. È uno stravolgimento delle primarie del centrosinistra e mi preoccupano i silenzi allusivi di alcuni esponenti del Pd mentre Paita dice di aspettare da Roma un segnale per fare un governo che replichi il modello nazionale».
Lei ha chiesto a Renzi di dire se è accettabile prefigurare un governo regionale con Ncd. Renzi non le ha risposto. Ma il ministro Pinotti è arrivata a Genova per sostenere Paita. Qualcuno ha fatto l’equazione: Pinotti parla per Renzi.
«Il premier se vuole parlare lo fa da solo. Quando il ministro Pinotti dice che il modello nazionale è da esportazione ritengo esprima la sua opinione e basta. Del resto il ministro Andrea Orlando ha detto l’esatto opposto e che non si può far votare la destra in casa nostra».
Tuttavia Renzi non le ha risposto.
«Era stato deciso che le primarie dovessero essere gestite dal partito regionale, si è evidentemente preferito attenersi a questo principio».
La commissione dei garanti ha detto «no» al voto di esponenti dichiarati del centrodestra. Ha anche deciso che saranno resi pubblici i nomi dei votanti. Al presidente della Regione Claudio Burlando questo non è piaciuto.
«Lo credo bene che la pubblicazione dei nomi non piace a Burlando: non è mai capitato che persone come Franco Orsi, ex senatore Pdl che ha abbandonato la cerimonia del 25 aprile con Oscar Luigi Scalfaro perché secondo lui le istituzioni non dovevano celebrare la Liberazione, o persone come Massimo Saso di Ncd, indagato per voto di scambio, vadano a votare alle primarie del centrosinistra. Quella regola è giusta e spetta ora ai presidenti di seggio farla rispettare».
Ma così — se salterà fuori qualche nome clamorosamente di destra — si apre la strada a ricorsi.
«Lo dico adesso: non ho intenzione di fare alcun ricorso. Se ci sarà inquinamento palese delle primarie sarà un fatto politico grave e il partito dovrà discuterne. Non farò ricorsi e non li ho fatti neanche in questa fase anche se sono state commesse irregolarità che ho segnalato ai garanti nazionali. Ad esempio sono stati usati dati sensibili e riservati del partito nella campagna elettorale. Dati che non potevano essere utilizzati».
Perché si è arrivati a questo livello di scontro fra membri dello stesso partito? Paita dice che se il Pd ligure voleva candidare anche qualcun altro poteva decidersi prima.
«Innanzitutto Paita non è stata candidata dal Pd ma da Claudio Burlando quasi due anni fa. Insieme hanno iniziato una lunghissima campagna sovrapponendo, e utilizzando, il loro ruolo istituzionale in Regione con la preparazione del terreno elettorale. Anche su questo il Pd dovrebbe riflettere».
Cosa rimprovera, politicamente, a Burlando e Paita?
«C’è stata una somma progressiva di errori e omissioni nell’amministrazione della Regione che, alla fine, ha prodotto un giudizio che io sento negativo. E’ una stagione che deve finire. Cito solo l’ambiente. L’ultima alluvione ha messo in luce le mancanze, le scelte sbagliate. Genova e la Liguria vivono una crisi che le sta trascinando verso il basso, lo dicono i numeri dell’economia, e la politica regionale ha le sue responsabilità».

il Fatto 10.1.15
Primarie in Liguria Il Pd a pezzi diviso tra lobby e interessi
I candidati Paita e Cofferati litigano in tv
A rischio il risultato di domani
Sul voto decisivi gli scajoliani
di Ferruccio Sansa


Genova “Maleducata, tu hai disprezzo per le persone”, attacca Sergio Cofferati. “Non voglio ridurre la Liguria come Genova amministrata da Marco Doria”, ribatte Raffaella Paita. Davanti allo schermo dell’emittente Primocanale migliaia di liguri allibiti: il confronto tra i candidati alle primarie Pd di domenica si rivela uno scontro senza quartiere. Molto più aspro di un faccia a faccia tra partiti opposti.
È solo l’ultimo capitolo. Come Il Fatto ha rivelato settimane fa, le primarie rischiano di non essere decise dagli elettori di centrosinistra, ma da scajoliani ed ex An scesi in campo per sostenere Paita (candidata sponsorizzata da Claudio Burlando): alcuni indagati per voto di scambio o con frequentazioni tra famiglie calabresi al centro di inchieste. Una situazione che ieri ha costretto a intervenire big nazionali come Gianni Cuperlo e Pierluigi Bersani: “Quanto sta accadendo in Liguria è molto preoccupante e grave. La pesante intromissione del centrodestra nelle primarie liguri - sostiene Cuperlo - snatura e mina la legittimità delle primarie stesse”. Ma Burlando replica: “Ben vengano nuovi elettori. Ci siamo sempre lamentati quando scappavano gli elettori e ora ci lamentiamo perché ne vengono di nuovi? ”.
MA ANCHE GLI ALTRI sono in preda ai travagli. Con il M5S che, sotto la superficie, è diviso: da una parte i fedeli a Grillo, alle regionarie. Dall’altra chi intravvede la possibilità di vincere, di voltare pagina dopo sessant’anni di centrosinistra. “È un’occasione irripetibile. Possiamo salvare questa terra. Abbiamo in mano il biglietto della lotteria, ma ho il terrore che lo cacceremo nel cesso”, sospira Paolo Putti, capogruppo M5S in comune. Ecco la Liguria di oggi. Divisa su tutto, lo ha mostrato il dibattito tv. Con passaggi al limite del surreale, come quando Cofferati rimprovera a Paita l’appoggio di scajoliani ed esponenti di destra. E lei che risponde: ma tu sei appoggiato da Sel. Mettendo sullo stesso piano ex comunisti ed ex fascisti. Il confronto-scontro tv è stato molto più di un dibattito elettorale locale. Pare una fotografia perfetta del Pd nazionale in pezzi. “Sergio, calmati, sei nervoso”, ripeteva Paita mentre anche a lei tremavano le mani e ingoiava un bicchiere d’acqua dopo l’altro. E Cofferati che cercava di mostrarsi mite mentre la insultava: “Maleducata”. “Appena ho dato il via alla trasmissione è stato come suonare il gong tra due pugilatori. Sono volati gli stracci”, sorride Luigi Leone, direttore di Primocanale. Uno scontro tra mondi diversi, su ogni tema. A cominciare dalle grandi opere. Con Paita che vuole vestire i panni della decisionista. E Cofferati che, pure favorevole ai progetti, parla di “dibattito pubblico”. Volano parole grosse: “Tu disprezzi la gente”, dice lui. “Non voglio amministrare come Doria”, ribatte lei. Chissà cos’ha pensato il sindaco Marco Doria che, in teoria, sarebbe sostenuto dallo stesso centrosinistra di Paita e che sente la sua poltrona scricchiolare. Le eventuali candidature di indagati? “Dipende... sono garantista”, apre uno spiraglio Paita muovendosi sul confine sottile tra accontentare gli “amici” di centrodestra e perdere gli elettori di centrosinistra. E Cofferati? “No, è una questione di opportunità”. Uno spettacolo che ha fatto tremare tanti dirigenti Pd. “Il partito non esiste più. Quello che ci unisce ormai è solo una cosa: il potere”, allarga le braccia un pezzo grosso dell’ex Pci che preferisce non essere citato. Aggiunge: “Per onestà intellettuale dovremmo separare le nostre strade. Ma troppi di noi tacciono perché hanno paura di perdere il cadreghino”.
MA CHI VINCERÀ domenica? “Dipende dall’affluenza alle urne. Che rischia di essere bassissima, perché la gente non ne può più. Da una parte c’è Paita, un’imprenditrice di se stessa; dall’altra Cofferati, un notabile che fa da foglia di fico”, sostiene il politologo Pierfranco Pellizzetti. Pronostici? “Se l’affluenza sarà bassa, credo sarà favorita Paita che può contare su cricche e cordate di apparato”. Il riferimento è al partito e al sistema di potere fedele a Claudio Burlando, primo sponsor di Paita e signore del centrosinistra da decenni. Conclude Pellizzetti: “Sarà decisiva Genova. Se nel capoluogo voteranno in pochi, vinceranno le province”. Come La Spezia e Imperia, dove Paita ha incassato gli appoggi di ex scajoliani ed ex An. “La faida nel Pd apre praterie per i Cinque Stelle”, conclude Leone. Già, i grillini. Che proprio ieri hanno cominciato a selezionare online i candidati consiglieri regionali. Ma ancora devono scegliere il presidente. “Abbiamo delle regole precise, dobbiamo rispettarle. Sennò diventiamo come gli altri”, sostengono i fedeli al leader.
MA C’È CHI RIBATTE: “Così perderemmo un’occasione storica per salvare la nostra terra. Non solo: faremmo da tappo all’opposizione e alla fine saremmo i garanti della vittoria di burlandiani e scajoliani. La responsabilità sarà nostra”. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, Pd, scajoliani e Cinque Stelle: nei prossimi tre giorni si gioca il futuro della Liguria.

il Fatto 10.1.15
Renato Soru. Patron di Tiscali
Condannato Soru: “842 mila euro per azienda decotta”
Per la Corte dei Conti l’ex governatore sardo deve risarcirne 337 mila
di Maddalena Brunetti


Cagliari Renato Soru, europarlamentare e neoeletto segretario del Pd sardo, è stato condannato dalla Corte dei conti. L’ex governatore della Sardegna dovrà risarcire parte del danno erariale da oltre 842 mila euro, provocato dal salvataggio di una società che, nel 2007, venne rifinanziata dalla Regione nonostante l’evidente stato di crisi. Denaro pubblico speso per un’operazione stroncata dalla Corte dei conti. “La società era decotta e senza prospettive sul mercato” scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza depositata mercoledì scorso sull’allora governatore Soru. Ma il patron di Tiscali non si pente: “Lo rifarei”. La vicenda è legata al salvataggio della Hydrocontrol - consortile che si occupava del controllo dei sistemi idrici - che venne acquisita dalla Regione, tanto che i suoi 29 dipendenti vennero poi inseriti in posti pubblici. Assieme a Soru, condannato per colpa grave a pagare 337.054 euro, i giudici contabili hanno giudicato colpevoli anche l’ex assessore ai Lavori pubblici Carlo Mannoni (168.527 euro) e l’ex direttore generale Fulvio Dettori (290.265 euro). Solo la prescrizione, invece, ha salvato l'attuale presidente della Regione Francesco Pigliaru, all’epoca assessore alla Programmazione.
LA SENTENZA non ha fatto cambiare idea al segretario regionale del Pd che, dopo aver annunciato il ricorso in appello, ha detto: “Nel 2007 ho salvato un centro di ricerca sulla tutela e sulla qualità del sistema delle acque pubbliche, prezioso per la Sardegna che usciva da una crisi idrica, ricapitalizzando l’impresa che per il 40 per cento era della Regione. Devo pentirmi di aver cercato di salvare un’azienda strategica? Non è lo stesso tentativo che il governo sta facendo con l’Ilva a Taranto?”. Quella contabile non è l’unica tegola giudiziaria che pende sulla testa di Soru, il quale deve affrontare anche due inchieste penali. Mentre è ancora in fase di notifiche l’indagine per false comunicazioni sociali su Tiscali, il 6 marzo l’europarlamentare dovrà presentarsi in aula per evasione fiscale. Quest’ultima grana è legata a un prestito concesso dalla Andalas - società con sede a Londra, ma riconducibile a Soru, come da lui stesso sempre dichiarato alla Consob - alla Tiscali finance. La restituzione del debito avrebbe creato un flusso di denaro che, stando alle accuse, non sarebbe mai stato dichiarato al fisco né inglese né italiano. Lo stecco caso è finito nelle cartelle di Equitalia, che ha chiesto a Soru oltre 9 milioni di euro.

Corriere 10.1.15
In piazza 2.000 vigili pronti allo sciopero
Marino sotto assedio
Protesta in Campidoglio. Il derby a rischio
di Rinaldo Frignani


ROMA «Mani in alto, siamo onesti!». In duemila, forse anche di più, hanno assediato il Campidoglio. In divisa, in borghese, qualcuno con le casacche catarifrangenti. Hanno chiesto a gran voce le dimissioni del sindaco Ignazio Marino e del loro comandante Raffaele Clemente. E hanno annunciato la mobilitazione generale, lo sciopero.
I vigili urbani romani ancora una volta sul piede di guerra. Quasi la metà del Corpo si è data appuntamento sulla scalinata del Campidoglio e prima ancora nella sala della Protomoteca per l’assemblea organizzata dai sindacati. Doveva essere anche il giorno della contestazione ad alcune sigle, invece è stato quello dell’unità dei lavoratori in divisa contro le iniziative del Comune nei loro confronti.
«Seimila persone oneste non si riconoscono in una gestione che li criminalizza. Siamo indignati», attacca Francesco Croce, coordinatore della Uil Funzione pubblica Roma e Lazio. Lo scandalo dei finti malati di Capodanno — 30 posizioni molto sospette, l’inchiesta in procura, altri 90 agenti nel mirino della commissione di disciplina — ha creato un solco probabilmente incolmabile fra la dirigenza e i vigili. E in serata anche il premier Matteo Renzi, a «Otto e mezzo» su La7, parlando degli interventi sulla pubblica amministrazione, ha sottolineato: «A me i vigili di Roma non sono andati giù».
Ma eccoli, di nuovo in piazza. «Il comandante ci ha chiamato prima corrotti, poi disertori e sabotatori. E questo è inaccettabile, per principio dovrebbe stare dalla nostra parte, non contro di noi», spiega una vigilessa sulla scalinata. Sopra di lei campeggiano i cartelli disegnati dai manifestanti sull’impronta di quelli stradali: una grossa forbice che taglia la Lupa capitolina, un cappio e l’«Urlo» di Munch, con la cravatta a simboleggiare la divisa. «Siamo disperati», ammettono gli agenti. Da settimane in pochi lavorano in straordinario per protesta. I turni vengono svolti solo in ordinario e la città ne risente. Ci potrebbero essere problemi anche per il derby Roma-Lazio di domani pomeriggio.
«Buttarelli! Buttarelli!», grida l’assemblea invocando il nome dell’ex comandante, rimosso da Marino poco dopo il suo insediamento e trasferito al Mercato dei Fiori. Un’onta «per un ufficiale preparatissimo sul quale tutti noi metteremmo la mano sul fuoco», sottolinea un altro agente. Per domani uno dei sindacati dei vigili, l’Ospol, aveva indetto un’assemblea proprio nelle ore della partita, ma è arrivato lo stop del comandante, come accadde per quella di Capodanno.
«Lavorerà la gente in servizio, temo sarà poca — prevede il sindacalista della Fp Cgil Marco D’Emilia —, ci arrivano segnali che i lavoratori, per scelta individuale, continuano a non segnarsi agli straordinari». Ma il vicesindaco Nieri assicura ancora una volta che «per il derby è tutto a posto» e sulla vicenda di Capodanno sottolinea come sia «necessario agire con severità, ma anche con tutto il garantismo possibile. Il licenziamento è previsto dalla legge, ma solo nel caso di situazione grave anche legata a fatti precedenti». I nsomma, un gesto di distensione in attesa dell’incontro con i sindacati di mercoledì prossimo per trovare finalmente un accordo sui trasferimenti del personale per il piano anticorruzione e sul salario accessorio.

La Stampa 10.1.15
Marò, l’accusa della Nia
“Fu vero e proprio omicidio”
L’agenzia indiana anti terrorismo ribadisce la sua tesi
Oggi a New Delhi arriva un “preoccupato” Ban Ki-moon
di Francesco Grignetti


Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon arriva in India per tre giorni e vi giunge «preoccupato» per la crisi legata ai fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone che da ormai quasi tre anni ha messo in sofferenza le relazioni italo-indiane. Solo qualche giorno fa, il portavoce dell’Onu Stephane Dujarric aveva sottolineato che Ban ritiene «importante per entrambe le parti cercare di raggiungere una soluzione ragionevole e reciprocamente accettabile» in quanto teme fortemente che «la questione potrebbe danneggiare gli sforzi per la pace e la sicurezza internazionale».
La tesi della Nia indiana
Il ministero dell’Interno dell’India, però, attraverso la Nia, Agenzia investigativa nazionale, insiste nella sua tesi: i due marò italiani, Latorre e Girone, spararono al peschereccio indiano St Anthony «senza aver subito alcuna provocazione, senza aver lanciato prima alcun segnale di avvertimento e quando ormai l’imbarcazione era a 125 metri di distanza e dunque non poteva certo esser confusa con una lancia di pirati». Tesi che al momento non sono state recapitate alla Corte suprema indiana, in quanto l’Italia ha contestato la giurisdizione stessa dell’Agenzia poiché l’incidente accadde in acque internazionali e non nazionali. Detto per inciso, la Nia è l’organo antiterrorismo per eccellenza dell’India, e se mai la Corte suprema riconoscesse la sua competenza, per Latorre e Girone si spalancherebbero le porte a un’accusa da pena di morte.
«Fu omicidio»
Secondo quanto riferisce il quotidiano «The Economic Times», la Nia è pronta a sostenere davanti alla Corte che i due marò italiani avrebbero commesso un omicidio vero e proprio. «Spararono al peschereccio senza alcuna provocazione e senza alcuna indicazione che potesse fare pensare a una nave pirata. Non furono lanciati colpi di avvertimento né mini-razzi per mettere in guardia i pescatori. E furono sparati 20 colpi da armi automatiche». Il rapporto finale della Nia, comunque, non è stato ancora depositato. Il rapporto - scrive il quotidiano - contiene anche riferimenti alle presunte violazioni di Latorre e Girone alla linee-guida comportamentali delineate dall’Organizzazione internazionale marittima in materia di lotta alla pirateria, che indicano come si riconosce un’imbarcazione di pirati. «E il peschereccio non aveva quelle caratteristiche». La fonte interpellata dal quotidiano di New Delhi sostiene anche che i due marò fossero alla loro prima missione a bordo della Enrica Lexie, «apparentemente non ben addestrati per fronteggiare questo tipo di emergenze». La Nia lamenta pure le fasi dell’interrogatorio di Latorre e Girone: «Poiché erano stati istruiti a non parlare, non ci hanno dato alcuna risposta».
Ieri Latorre, dopo l’intervento al cuore di lunedì scorso, è stato trasferito in un’altra struttura sanitaria di Milano per proseguire gli accertamenti clinici, mentre si avvicina la data (12 gennaio) in cui dovrebbe far rientro in India.
Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon arriva in India per tre giorni e vi giunge «preoccupato» per la crisi legata ai fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone che da ormai quasi tre anni ha messo in sofferenza le relazioni italo-indiane. Solo qualche giorno fa, il portavoce dell’Onu Stephane Dujarric aveva sottolineato che Ban ritiene «importante per entrambe le parti cercare di raggiungere una soluzione ragionevole e reciprocamente accettabile» in quanto teme fortemente che «la questione potrebbe danneggiare gli sforzi per la pace e la sicurezza internazionale».
La tesi della Nia indiana
Il ministero dell’Interno dell’India, però, attraverso la Nia, Agenzia investigativa nazionale, insiste nella sua tesi: i due marò italiani, Latorre e Girone, spararono al peschereccio indiano St Anthony «senza aver subito alcuna provocazione, senza aver lanciato prima alcun segnale di avvertimento e quando ormai l’imbarcazione era a 125 metri di distanza e dunque non poteva certo esser confusa con una lancia di pirati». Tesi che al momento non sono state recapitate alla Corte suprema indiana, in quanto l’Italia ha contestato la giurisdizione stessa dell’Agenzia poiché l’incidente accadde in acque internazionali e non nazionali. Detto per inciso, la Nia è l’organo antiterrorismo per eccellenza dell’India, e se mai la Corte suprema riconoscesse la sua competenza, per Latorre e Girone si spalancherebbero le porte a un’accusa da pena di morte.
«Fu omicidio»
Secondo quanto riferisce il quotidiano «The Economic Times», la Nia è pronta a sostenere davanti alla Corte che i due marò italiani avrebbero commesso un omicidio vero e proprio. «Spararono al peschereccio senza alcuna provocazione e senza alcuna indicazione che potesse fare pensare a una nave pirata. Non furono lanciati colpi di avvertimento né mini-razzi per mettere in guardia i pescatori. E furono sparati 20 colpi da armi automatiche». Il rapporto finale della Nia, comunque, non è stato ancora depositato. Il rapporto - scrive il quotidiano - contiene anche riferimenti alle presunte violazioni di Latorre e Girone alla linee-guida comportamentali delineate dall’Organizzazione internazionale marittima in materia di lotta alla pirateria, che indicano come si riconosce un’imbarcazione di pirati. «E il peschereccio non aveva quelle caratteristiche». La fonte interpellata dal quotidiano di New Delhi sostiene anche che i due marò fossero alla loro prima missione a bordo della Enrica Lexie, «apparentemente non ben addestrati per fronteggiare questo tipo di emergenze». La Nia lamenta pure le fasi dell’interrogatorio di Latorre e Girone: «Poiché erano stati

La Stampa 10.1.15
Podemos, primo partito di Spagna
Secondo un sondaggio della radio Cadena Ser (gruppo El Pais), il partito di Pablo Iglesias ruberebbe voti sia ai popolari di Rajoy che ai socialisti e alla sinistra di Izquierda Unida. Se si votasse oggi prenderebbe il 25 per cento dei consensi.
di Gian Antonio Orighi

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La Stampa 10.1.15
Nigeria, Boko Haram fa strage nei villaggi
Carneficina nella città nordorientale di Baqa, almeno 2000 morti. Amnesty International: «Il peggior massacro messo in atto dagli integralisti islamici»

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il Fatto 10.1.15
La bellezza che non salverà Venezia
di Maurizio Viroli


Se Venezia muore (Einaudi, 2014) di Salvatore Settis non è soltanto un racconto appassionato e raffinato della fine della città sulla laguna, ma anche il compendio e l’anticipazione del declino e consunzione del nostro vivere da cittadini. Alcuni dei pochi veneziani rimasti a vivere nel centro storico hanno in animo di celebrare fra non molto il funerale di Venezia portando a spalla una bara fino al Municipio, dove alberga il sindaco che non loro ma gli abitanti della piú popolosa terraferma di fatto eleggono.
   VENEZIA muore perché gli abitanti hanno dimenticato la propria storia, non sanno più chi sono, non hanno sentimento della propria dignità di comunità unica accanto e insieme ad altre comunità. Lente e malferme, ma inesorabili, sono calate sulla città grazie alla generale e colpevole indifferenza, le tenebre dell’oblio. Muore nell’illusione che “la bellezza salverà il mondo”, come se la bellezza fosse una dea benefica che interviene per salvarci dalla nostra follia e non un bene da amare e coltivare e proteggere e dunque serbare viva e capace di raffinare il nostro vivere. Pericle nel suo elogio della democrazia afferma che gli ateniesi amano il bello non che si abbandonano alla bellezza o la invocano.
   Muore perché non è più abitata da un popolo composto di persone che vivono nelle case, percorrono le vie, s’incontrano nelle piazze e nei mercati, frequentano i pubblici palazzi, condividono linguaggi, racconti, miti; ma è attraversata da orde di turisti: 600 per ogni residente. Muore perché non ha più anima, perché anima vuol dire “coscienza di sè e del mondo, principio di conoscenza, tribunale interiore, agente morale e razionale, guida di un operare secondo moralità”, sapere “quale sia il bene da perseguire e agire conforme a esso nella polis”. (pp. 13-14) Quando non ci sono più persone così la città diventa uno scenario funebre simile alle città che hanno subito un attacco nucleare che ha lasciato intatti soltanto gli edifici.
   Muore per effetto dell’avidità che per brama di denaro (per fare cosa, poi?) mette tutto in vendita. A firma di Calderoli, Berlusconi Tremonti, Bossi, Maroni, Brunetta, Fitto e altri statisti del medesimo calibro, il decreto legislativo n. 85 del 2010 ha permesso all’Agenzia del Demanio di diffondere gli elenchi dei prezzi dei beni pubblici, dall’Isola della Certosa all’Archivio di Stato. È non solo è una palese violazione dell’art. 9 della Costituzione che sancisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, ma anche una vergognosa offesa al principio che Venezia, scrive bene Settis, “non ha prezzo: perché la città invisibile che intride ogni pietra dei suoi ponti e ogni goccia d’acqua dei suoi canali è una fitta maglia di relazioni, una potente trama di fatti e di gesti, di memorie e di parole, di bellezza e di storia”.
   Muore consumata dalla corruzione politica che fa affluire le risorse destinate alla tutela del delicato equilibrio fra la città e la laguna nelle casse dei partiti. Il recente scandalo del Mose, il gigantesco progetto realizzato per proteggere Venezia dall’acqua alta, ha coinvolto un sindaco e un ex presidente della Regione Veneto ed ex ministro dei Beni culturali e ha inghiottito due miliardi di euro di costi aggiuntivi dovuti alla corruzione.
Muore a causa dell’insana follia dei modernizzatori che giudicano Venezia vecchia e dunque non più al passo coi tempi. E allora avanti con la devastazione dei palazzi storici per costruire terrazze panoramiche e scale mobili e ponti che non c’entrano nulla con la città e anzi la feriscono a morte. I miserabili alfieri del progresso sanno che non riusciranno mai a costruire opere paragonabili per bellezza a Venezia, e allora la distruggono prima possibile, svuotandola dei suoi cittadini e soffocandola con il cemento e l’acciaio.
OBLIO, indifferenza, avidità, mancanza di senso civico, corruzione politica, disprezzo per la Costituzione, follia modernizzatrice, invidia per la grandezza del passato sono i mali che affliggono, ove più ove meno, anche le altre città e la nostra Repubblica in generale. Ma con la città come spazio urbano e vita civile, muore anche la libertà politica, soprattutto nella forma che essa ha storicamente assunto in Italia, dove appunto nacquero insieme le città e la libertà repubblicana, come ci ha insegnato Carlo Cattaneo. La morte di Venezia è insomma la triste profezia, temo ineluttabile, della fine della libertà e della bellezza italiane.
 SE VENEZIA MUORE di Salvatore Settis, Einaudi pagg 160, 11,00 €

Corriere 10.1.15
Il Tar riapre Venezia alle grandi navi
I giudici: «Illegittimo lo stop della Capitaneria in mancanza di vie di navigazione alternative»
di Giusi Fasano


Senza un nuovo percorso dal 2016 si rischia il caos. Il ministero delle Infrastrutture annuncia ricorso In teoria se oggi la nave passeggeri più grande del mondo arrivasse nel canale della Giudecca o nel canale di San Marco, avrebbe tutte le carte in regola per passare. Perché con la sentenza depositata ieri, il Tar del Veneto sancisce ciò che aveva stabilito nell’ordinanza sospensiva del marzo 2014, e cioè che è illegittimo imporre alle grandi navi i limiti voluti a dicembre del 2013 dalla capitaneria di porto di Venezia. Si trattava di un taglio del 12,5 % (per il 2014) alle navi sopra le 40 mila tonnellate di stazza e lo stop a quelle oltre le 96 mila tonnellate nel 2015.
Ma tutto questo in teoria, appunto. Poiché nella pratica le compagnie di crociera che dispongono dei cosiddetti grattacieli galleggianti hanno già scelto altri scali (la Grecia, Genova o Trieste, per esempio) per la programmazione del 2015.
Le polemiche infuocate per il passaggio di quei palazzi enormi nel bacino di San Marco, avevano prodotto un anno fa un accordo governo-compagnie che stabiliva comunque il rispetto dell’ordinanza della capitaneria, indipendentemente dalle questioni giudiziarie. Quindi la sentenza del Tar, di fatto, non sposta gli equilibri già raggiunti fra le parti fino alla fine di quest’anno. Le compagnie però potranno riportare davanti a piazza San Marco le navi gigantesche a partire dal 2016 e, proprio forti del provvedimento del Tar, possono ricominciare fin da ora a inserire nei loro programmi il passaggio dai canali di San Marco e della Giudecca. Unico modo per risolvere la questione ed evitare la deregulation è realizzare in tempo un percorso alternativo. Si parla del canale Contorta ma per renderlo praticabile sono necessari lavori che richiedono tempi lunghi.
Il Tar ha annullato lo stop alle grandi navi sulla base di tre principi chiave. Il primo riguarda «i rischi ambientali che i divieti di transito avrebbero dovuto contenere». Non sono stati individuati né valutati, scrivono i giudici. Non sono «neppure qualificabili» perché «unicamente presunti». Il secondo ha a che fare proprio con le «vie di navigazione alternative», senza le quali «i divieti di transito non avrebbero dovuto applicarsi». L’ultimo è «il difetto assoluto di istruttoria» poiché «non è stata svolta alcuna valutazione e ponderazione degli interessi, pubblici e privati, interessati dai divieti».
Molte le reazioni critiche al provvedimento. Il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti annuncia appello al Consiglio di Stato; il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti fa sapere con un tweet che il governo «conferma il suo no ai condomini galleggianti»; Legambiente parla di «notizia beffarda» ed evoca «lo spettro di incidenti» che «sarebbero di dimensioni inimmaginabili»; il presidente della Commissione nazionale per l’Unesco, Giovanni Puglisi si dice «allibito» e si augura «che il Consiglio di Stato faccia giustizia».
Di tutt’altro avviso Matteo Zoppas, presidente di Confindustria di Venezia: «Spero che questa sentenza serva a prendere al più presto una decisone sulla scelta della via per arrivare alla stazione Marittima». Invoca decisioni veloci anche il presidente dell’Autorità portuale, Paolo Costa, mentre Sandro Trevisanato, presidente di Venezia Terminal Passeggeri (la società che aveva fatto ricorso contro i divieti della capitaneria) si augura «che il governo vari i provvedimenti che potranno servire dal 2016 alle compagnie di crociera per fare ritorno a Venezia».
Una cosa è certa, la discussione sul passaggio delle grandi navi è destinata a tenere banco ancora a lungo.

La Stampa 10.1.15
Posti una marea di selfie? Forse sei psicopatico
Studio dell’Università dell’Ohio. Chi si ritrae e pubblica di frequente la sua immagine sui social, potrebbe nascondere un’indole antisociale. Di sicuro ha un’autostima squilibrata
di Fabio di Todaro

qui

Corriere 10.1.15
Ma l’occidente non ha perso
di Emanuele Severino


L’Islam insegue la tecnica, che sta al cuore della nostra cultura Se la conquistasse dovrebbe rinunciare alla propria tradizione Al centro dei fenomeni del nostro tempo c’è la fame. Fortemente cresciuta rispetto al passato: sia per il modo in cui viene distribuita la ricchezza prodotta, sia per la crescita smisurata della popolazione mon-diale. Inevitabile, quindi, la pressione degli affamati su chi riesce a sopravvivere nonostante le preoccupazioni causate dal Pil. Inevitabile anche, in questa situazione, che si facciano avanti le forze che progettano di sfruttare a proprio vantaggio la volontà degli affamati di godere anch’essi dei beni esistenti sulla Terra.
Ieri la maggiore di queste forze era l’Unione Sovietica. Con la sua fine, quel progetto è stato ereditato dall’Islam — che vede nel capitalismo e nella cultura dell’Occidente il male assoluto. E la condizione dell’Occidente è peggiorata, perché, nonostante e anzi proprio in virtù della guerra fredda e della tensione nucleare, l’Urss ha esercitato una funzione di controllo e di contenimento delle spinte antioccidentali dei Paesi musulmani. Era costretta a svolgere questo compito, paradossalmente vantaggioso per l’Occidente, perché c’era di mezzo il pericolo di rompere l’equilibrio tra le due superpotenze, giungendo a quel suicidio atomico al quale né l’una né l’altra ha mai inteso arrivare.
Con la fine dell’Urss son venuti meno anche il controllo e contenimento di cui si è detto. Quelli operati dal mondo islamico nei confronti delle proprie forme estremistiche sono estremamente meno efficaci, sia perché il mondo islamico (già di per sé ostile all’Occidente) è frammentato, sia perché non esiste una tensione tra esso e l’Occidente analoga a quella tra Usa e Urss: ancora non esiste il pericolo che l’estremismo, in questo caso islamico, abbia a rompere un equilibrio di potenza, in questo caso tra Islam e Occidente, determinando così la catastrofe nucleare.
La fame umana (il dolore, la morte) esiste all’interno di una cultura da cui è interpretata. E le interpretazioni (cristiana, islamica, capitalistica, marxista, ecc.) si combattono. Anche perché hanno avuto una storia diversa. Nel Medioevo la cultura cristiana e quella islamica crescono entrambe nel terreno della filosofia greca. Poi il cristianesimo, a differenza dell’Islam, si imbatte nella cultura moderna, che lo mette radicalmente in questione e con esso finisce col lasciarsi alle spalle l’intera tradizione dell’Occidente. L’Islam ignora l’atteggiamento critico in cui la modernità consiste. In quanto critica del proprio passato l’Occidente è debole; in quanto fede nella propria tradizione l’Islam è forte (anche se la «primavera araba» può far pensare a un primo, incerto passo dei Paesi arabi verso la modernità, quindi verso l’indebolimento; un passo forse già fallito).
Tuttavia l’abbandono della tradizione ha consentito in Occidente lo sviluppo della scienza e della tecnica. E della tecnica guidata dalla scienza moderna intendono servirsi tutte le forze oggi ancora in campo. Anche il mondo islamico intende servirsene. La tecnica è il mezzo più potente. Il programma nucleare iraniano è sintomatico. Nonostante la sua efferatezza e il numero delle vittime, il terrorismo islamico ha ancora un carattere artigianale.
Per diventare una minaccia alle strutture del mondo occidentale deve acquistare un carattere tecnologico-industriale. E perché ciò accada occorre uno Stato. Ma se per realizzare quella minaccia uno Stato terrorista islamico è indispensabile, la sua esistenza è anche controproducente, un pericolo per la propria sopravvivenza. Infatti esso sarebbe ben visibile. La sua distruzione incontrerebbe meno difficoltà tecniche che non l’individuazione e distruzione della nebulosa costituita dalle cellule terroristiche sparse per il mondo. Si preannuncia un tempo in cui la volontà del terrorismo di uscire dallo stadio artigianale, impadronendosi delle opportunità offerte dalla tecnica, sarà in conflitto con la consapevolezza del pericolo a cui si va incontro con la costruzione di uno Stato terrorista islamico, inevitabilmente richiesto da quella volontà.
D’altra parte, se l’Islam è già presente in Europa, in America, in Russia, una conquista islamica dell’Occidente e della Russia è impossibile. Probabile, sì, un consistente aumento degli islamici immigrati, rispetto agli autoctoni. Ma la difficoltà estrema che gli islamici si adeguino alla cultura occidentale tende a svanire nella misura in cui questa cultura si presenta loro non come ideologia cristiana o capitalistica o democratica, ma come tecnica . La loro volontà di dominio non può prescindere dalla potenza che è conferita dall’uso razionale della tecnica. Ma la legge sulla quale sono tornato più volte anche su queste colonne è il rovesciamento per il quale la tecnica, da mezzo per realizzare gli scopi ideologici delle forze che intendono servirsi di essa, è destinata a diventare, essa, il loro scopo. La presenza dell’Islam nel mondo occidentale e in Russia sta appunto diventando una di tali forze. Che sono tra di loro in conflitto.
Quindi tra esse prevarrà quella che, rinunciando al proprio scopo ideologico, assumerà come scopo quello che la tecnica possiede per se stessa: l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi.
La tecnica è la punta di diamante della cultura occidentale. Rimane tale qualunque sia la razza umana che essa incorpora in sé. Se la razza bianca illanguidisce è perché non è più o non è ancora capace di assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza. Se nel mondo occidentale prevarranno le razze che oggi si fanno guidare dall’Islam, sarà perché esse avranno quella capacità. Ma nel momento stesso in cui si saranno mostrate così capaci, non saranno più guidate dall’Islam ma dalla razionalità tecnologica, che esige l’abbandono della tradizione, di ogni tradizione, quella islamica compresa.
Vincente, da ultimo, è la struttura del mondo occidentale , qualunque sia la razza umana che essa incorpora e qualunque sia l’ideologia da cui tale razza è guidata (Islam, capitalismo, comunismo, cristia-nesimo, democrazia, ecc.). E nella tecnica confluisce e si raccoglie l’intera storia di quella struttura. Per quanto sembri occupare la scena del mondo, lo scontro tra Islam, da una parte, e cristianesimo, capitalismo, democrazia dall’altra è uno scontro di retroguardia. Il nemico autentico e vincente sia dell’Islam sia di quei suoi nemici visibili è la tecnica, di cui sia l’Islam sia quei suoi nemici intendono servirsi per prevalere nello scontro di retroguardia.
Dall’Islam a Prometeo (Rizzoli, 2003) è un saggio in cui riprendo temi che vado sviluppando da un trentennio e che qui sopra ho richiamato. A proposito del trasferimento della conflittualità planetaria dall’asse Est-Ovest a quello Nord-Sud vi si dice che «le potenzialità tecnologiche di cui oggi dispongono le società avanzate saranno in grado di risolvere i problemi dell’intera razza umana. Ma si tratta di un evento che potrà verificarsi a lungo termine. I problemi e i pericoli riguardano il breve e medio termine, il tempo che intercorre tra la situazione attuale e l’esplicazione su scala planetaria delle possibilità salvifiche della tecnica. Ci si illude se si pensa che la relativa composizione del conflitto Est-Ovest abbia a inaugurare un lungo periodo di pace. Essa inaugura una nuova forma di guerra». Che tuttavia sta andando verso la pax tecnica (verso il luogo, peraltro, in cui si è ben lontani dall’aver risolto tutti i problemi, ma in cui tutti i nodi della storia dell’Occidente vengono al pettine).

Repubblica 10.1.15
Ma Islam vuol dire pace
L’idea che in questa religione sia connaturata la violenza è assolutamente sbagliata e costituisce un gorgo che può risucchiare le nuove generazioni
di Vito Mancuso


IL PARADOSSO è che Islam viene dalla radice s-l-m che in arabo forma “salam” e in ebraico “shalom”, cioè pace. Esso quindi significa pace e rimanda alla pace del cuore e della mente che si ottiene quando ci si sottomette a quella verità ultima del mondo tradizionalmente detta Dio. Questo sottomettersi però non è da intendersi come cessazione della libertà, come la Soumission descritta da Michel Houellebecq nel suo nuovo romanzo e come a loro volta l’intendono gli integralismi islamici di ogni sorta, Is, Al Qaeda, Boko Haram, Hezbollah e affini. Si tratta piuttosto di sottomettersi nel senso di “mettersi sotto”, ripararsi, come quando piove forte e ci si rifugia dall’acquazzone. È la medesima disposizione esistenziale che porta i buddhisti a recitare ogni giorno “prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma, nel Sangha”, e che porta i cristiani a dire “Amen” cioè “è così, ci sto, mi affido” o a recitare Sub tuum praesidium. La sottomissione equivale alla custodia e al compimento della libertà del singolo che trova un porto a cui approdare e quindi una direzione verso cui navigare: è questo il fondamento originario alla base dell’Islam e di ogni altra religione.
Oggi però nella mente occidentale l’Islam è ben lontano dal venire associato a ciò a cui la sua radice rimanda. Evoca piuttosto il contrario, la guerra, la lotta, il terrore. Un duplice grande compito attende quindi ogni persona responsabile: prima capire, e poi far capire, che non è per nulla così. Ieri accompagnando mia figlia a scuola pensavo che in classe avrebbe trovato un compagno di fede musulmana e mi chiedevo con che occhi l’avrebbe guardato e con che occhi l’avrebbero guardato gli altri studenti. La disposizione dello sguardo dei figli dipende molto dallo sguardo e dalle parole degli adulti. Ma ora qualcuno provi a pensare di essere un musulmano quindicenne che ogni giorno si sente addosso sguardi diffidenti e rancorosi, e immagini che cosa finirebbe per pensare dell’occidente. Non sto per nulla dicendo che se c’è il terrorismo islamico è colpa nostra perché noi occidentali siamo malvagi e imperialisti, anche perché sono convinto del contrario, cioè che se c’è il terrorismo islamico è soprattutto per l’incapacità dell’Islam e delle sue guide spirituali di gestire l’incontro con la modernità, come più avanti argomenterò. Sto dicendo piuttosto che siccome il terrorismo islamico purtroppo c’è ed è in crescita nel cuore stesso dell’Europa, spetta a ognuno di noi decidere se trasformare ogni musulmano in un nemico e in un potenziale terrorista oppure no. E tutto procede da come parliamo dell’Islam e da come guardiamo i musulmani.
L’Islam è una grande tradizione spirituale con quattordici secoli di storia e con oltre un miliardo di fedeli. L’idea che a questa religione sia essenzialmente connaturata la violenza è profondamente sbagliata da un punto di vista teorico e soprattutto è tremendamente nociva da un punto di vista pratico, perché non fa che suscitare a sua volta violenza e da qui il gorgo che può finire per risucchiare irrimediabilmente la vita delle giovani generazioni. È vero che nel Corano vi sono pagine violente e che la storia islamica conosce episodi violenti, ma questo vale per ogni fenomeno umano. La Bibbia ha pagine di violenza inaudita e sia l’ebraismo sia il cristianesimo conoscono il fanatismo religioso e la violenza che ne promana. Lo stesso vale per l’hinduismo con l’ideologia detta hindutva. Persino il più mite buddhismo conosce oggi episodi di intolleranza in Sri Lanka e Myanmar.
Dando uno sguardo alla politica, che cosa abbiano prodotto la destra e la sinistra nel ‘900 è cosa nota: repressione dei diritti umani e milioni di vittime innocenti. Andando poi all’evento madre da cui è nata l’idea di laicità nella società europea, cioè la Rivoluzione francese, nei dieci anni della sua durata (1789-1799) si registra un numero di vittime variamente stimato dagli storici ma comunque enorme, visto che nei diciassette mesi del Terrore tra il 1793 e il 1794 si ebbero centomila vittime, una media di quasi 200 morti al giorno. E tutto questo nel nome di “ liberté, égalité fraternité”, compresa, immagino, la libertà di stampa.
Noi non abbiamo nessun titolo per dare lezioni ai musulmani, se non uno solo: che siamo più vecchi e abbiamo più storia. Oggi buona parte dell’Islam, come l’Occidente cristiano nel passato, sta vivendo l’incontro con la secolarizzazione sentendosi aggredito, nel senso che i processi di laicità e di modernità risultano per esso come dei virus infettivi a cui reagisce attaccando e facendo così venir meno la tradizionale tolleranza che ha contraddistinto buona parte della sua storia. Dalla Rivoluzione francese alla Seconda guerra mondiale, in un arco di oltre 150 anni, l’Occidente ha vissuto la sua influenza con febbri altissime, imparando alla fine a usare quel metodo della gestione della vita pubblica tra persone di diverso orientamento culturale e religioso che si chiama democrazia (per quanto ancora in modo molto imperfetto).
E noi questo dobbiamo fare: esportare democrazia. Non ovviamente nel senso criminale di George Bush e della sua guerra in Iraq (che ha molta responsabilità per la trappola in cui stiamo finendo), ma nel senso del rispetto delle idee e della vita altrui, da cui si produce quello sguardo amichevole che è il solo vero metodo per suscitare pace e lasciare una società migliore a chi verrà dopo di noi. Questo non significa che non bisogna essere determinati nella lotta contro i terroristi islamici, significa solo che occorre sempre saper distinguere l’organismo dalla malattia contratta. E in questa distinzione dovrà consistere la nostra lotta quotidiana a favore della pace del mondo.

Repubblica e The Washington Post 10.1.15
I jihadisti vogliono piegare il messaggio del Profeta
Le bugie degli estremisti e le parole del Corano, così il fanatismo distorce la religione
L’idea che l’Islam esiga una risposta violenta agli insulti contro Maometto è una pura invenzione
Il credo sanguinario dei salafiti è spesso fatto proprio da molti governi alleati dell’Occidente
di Fareed Zakaria


NELLA loro furia omicida gli autori del massacro di Parigi urlavano di aver “vendicato il Profeta”, seguendo le orme di altri terroristi che hanno fatto saltare redazioni di giornali, accoltellato un regista, ucciso scrittori e traduttori, convinti che questa, secondo il Corano, sia la giusta punizione per i blasfemi. In realtà il Corano non punisce la blasfemia. Come in molti altri casi alla base del fanatismo e della violenza del terrorismo islamico, anche l’idea che l’Islam esiga una risposta violenta agli insulti nei confronti del profeta Maometto è un’invenzione dei politici e dei religiosi, finalizzata a un progetto politico.
L’unico libro sacro che contempli la blasfemia è la Bibbia. Il Vecchio Testamento la condanna e prevede dure punizioni per i blasfemi. Il passaggio più noto è tratto dal Levitico (24: 16): «Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare.
Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte».
Al contrario nel Corano il termine blasfemia non appare mai. (Detto per inciso, il Corano non proibisce neppure di ritrarre Maometto, pur esistendo diversi detti del Profeta, o hadith, che lo vietano al fine di evitare l’idolatria). Lo studioso islamico Maulana Wahiduddin Khan afferma che «in più di 200 versi del Corano viene rivelato che i contemporanei del Profeta perpetrarono ripetutamente l’atto oggi definito “blasfemia o insulto al Profeta…” ma il Corano non impone di punirlo con frustate, la morte o qualunque altro castigo fisico».
In varie occasioni Maometto si mostrò comprensivo e cortese con quelli che deridevano la sua persona e i suoi insegnamenti. «Nell’Islam - dice Khan - la blasfemia è oggetto di dibattito intellettuale più che di punizioni fisiche».
Qualcuno ha dimenticato di dirlo ai terroristi. Ma il credo raccapricciante e sanguinario adottato dai jihadisti, che considerala blasfemia e l’apostasia gravi crimini contro l’Islam da punire con la violenza, trova purtroppo vasta diffusione nel mondo musulmano, anche tra i cosiddetti “moderati”. La legislazione di molti paesi a maggioranza musulmana prevede norme contro la blasfemia e l’apostasia, che in qualche realtà vengono applicate.
L’esempio più significativo è dato dal Pakistan. Stando ai dati della Commissione americana sulla libertà religiosa internazionale, a marzo almeno 14 persone in quel paese erano in attesa di esecuzione e 19 scontavano una condanna all’ergastolo. Il proprietario del più importante gruppo di media locale è stato condannato a 26 anni di carcere per via di una trasmissione in cui, come sottofondo alla scena di un matrimonio, era stato trasmesso un canto religioso sulla figlia di Maometto. E il Pakistan è in buona compagnia: Bangladesh, Malaysia, Egitto, Turchia e Sudan, tutti hanno fatto un uso punitivo e persecutorio delle leggi contro la blasfemia. Nella moderata Indonesia, dal 2003 sono 120 le persone in carcere con questa accusa. L’Arabia Saudita proibisce qualunque pratica religiosa che non corrisponda alla sua versione wahabita dell’Islam. Il caso del Pakistan è significativo perché l’estremizzazione delle norme contro la blasfemia è relativamente recente e ha cause politiche. Con l’intento di emarginare l’opposizione democratica e liberale il presidente Mohammed Zia Ul-Haq alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta si avvicinò ai fondamentalisti islamici, senza remore nei confronti degli estremisti. Approvò una serie di leggi che islamizzavano il paese, una delle quali proponeva la pena capitale o il carcere a vita per chi avesse insultato in qualunque forma Maometto.
Quando i governi tentano di ingraziarsi i fanatici, finisce che questi ultimi prendono in mano la legge. In Pakistan, i jihadisti hanno ucciso decine di persone con l’accusa di blasfemia, incluso Salmaan Taser, il coraggioso politico che osò criticare aspramente la legge contro la blasfemia.
Dobbiamo combattere i terroristi di Parigi, ma dobbiamo combattere anche le radici del problema. Non basta che i leader musulmani condannino gli assassini se i loro governi poi avallano il concetto che la blasfemia va punita. La commissione Usa per la libertà religiosa e il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti umani hanno dichiarato, a ragione, che le leggi contro la blasfemia costituiscono una violazione dei diritti umani universali in quanto violazione della libertà di parola e di espressione.
Nei paesi a maggioranza musulmana nessuno osa rivedere queste norme. Nei paesi occidentali nessuno si confronta con gli alleati su questo tema. Ma la blasfemia non è una questione esclusivamente interna ai singoli paesi. Oggi è al centro del sanguinoso confronto tra gli islamisti radicali e le società occidentali. Non può più essere trascurata. I politici occidentali, i leader musulmani e gli intellettuali ovunque dovrebbero ribadire che la blasfemia non esiste nel Corano e non dovrebbe esistere nel mondo moderno.
(© La Repubblica - The Washington Post. Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 10.1.15
Quanto è romantico dipendere dal denaro
“L’ossessione per il capitale, rispetto a quella per Internet, conserva un aspetto sentimentale”
L’argentino Alan Pauls ha scritto un ritratto contabile dell’intimità
Una narrazione in cui i soldi occupano una posizione centrale
di Raffaella De Santis


IL DENARO si può prestare, può scomparire, si può ereditare, guadagnare, perdere, vincere a un tavolo da gioco. Può trasformarsi in un’ossessione, una ragione di esistenza. Il denaro non è solo il principio che muove l’economia ma è diventato un sostituto degli affetti, l’unico modo che abbiamo per entrare in relazione tra noi. Alan Pauls ama affrontare temi tabù, ha iniziato scrivendo un romanzo intitolato El pudor del pornógrafo e nell’ultimo libro trasforma il denaro nell’elemento osceno che domina le nostre vite.
È un pensatore anarchico, spazia dalla saggistica alla narrativa al cinema, da Stendhal a Borges, da Lucio Mansilla a Roland Barthes. Arriva all’appuntamento, in un bar dalle parti del Colosseo, con l’aria da gioventù bruciata, ciuffo ribelle, giubbotto sportivo e t-shirt. Storia del denaro (Sur, trad. di Maria Nicola) chiude la “trilogia della perdita”, dopo Storia del pianto e Storia dei capelli, raccontando le vicende di una famiglia argentina attraverso i soldi.
Il romanzo è un ritratto contabile della nostra vita intima. Ma perché ridurre i sentimenti privati a un questione economica?
«Il denaro è il grande rimosso, non si ha il coraggio di dire che è alla base di tante scelte, private e politiche. Io ne parlo apertamente».
Si direbbe in modo quasi impudico, anzi pornografico.
« Storia del denaro è un romanzo porno, in cui le scene di sesso sono sostituite da scene di soldi. I soldi sono espliciti, c’è sempre qualcuno che guadagna denaro, lo presta, lo perde: i soldi sono in ogni singola pagina, ovunque, con la loro materialità scandalosa, oscena. Denaro cash, mai virtuale, sempre contante».
I soldi servono a leggere anche la politica argentina, crede siano il vero motore della storia?
«In genere sono trascurati, considerati tabù, mentre perfino i sogni rivoluzionari degli anni ‘70 avevano un base economica. Mi interessa il fondamento materiale della politica: come faceva un’organizzazione rivoluzionaria a calcolare quanto denaro chiedere ai familiari di un ostaggio sequestrato? Come si quantificava una vita umana? Come si finanziava il sogno del socialismo? In Argentina siamo molto concreti, non abbiamo fiducia negli assegni, solo nel denaro contante».
Eppure, anche se la crisi economica ha effetti concreti, l’economia si è smaterializzata, i titoli di Borsa sono molto poco tangibili… «Ogni cosa ha una base materiale, anche la Borsa. Internet, che sembra il regno dell’astrazione, poggia nella materialità: cavi, tecnologia, supporti concreti. Dietro tutte le cose astratte c’è sempre qualcosa di materiale. Qualcosa da toccare, che è in relazione col corpo».
Tutti i suoi libri ruotano attorno a una forma di dipendenza. Ha un’attrazione per gli atteggiamenti maniacali?
«L’ addiction è il modo contemporaneo di relazionarci alle cose e alle persone, dà una risposta immediata ai nostri bisogni, ci illude di vivere in un presente puro slegato dal passato e dal futuro, risponde all’astinenza con un’iniezione immediata. È l’apoteosi del consumismo. Dipendiamo da sesso, cocaina, lavoro, viaggi, informazione a portata di clic. I soldi sono un’emergenza costante. Sono un’urgenza perenne, come nella relazione tra figlio e madre descritta nel romanzo».
Parla del presente ma il suo stile di scrittura è anacronistico: periodi pieni di subordinate, sintassi involuta.
«Le frasi lunghe sono un posto in cui il lettore può sostare, vivere più esperienze: annoiarsi, divertirsi, essere felice, triste, perplesso. La lettura non deve dare soddisfazione nell’immediato, deve lasciare inappagati. L’arte deve produrre insoddisfazione, spingendoci a cercare altro, a immaginare».
È per questo che non scrive autofiction, che va molto di moda, forse considera questo genere un appagamento troppo facile?
«Mio padre era un giocatore d’azzardo, come quello del protagonista di Storia del denaro . In genere, anche quando uso materiale autobiografico, evito il tono di confessione, perché non mi piace. Non credo nel mito dello scrittore, credo nello scrivere come esperienza, non come identità».
Anche la storia d’amore ossessiva che narra nel romanzo Il Passato sembra guardare al mito dell’ amor fou più che ai rapporti usa e getta dei nostri giorni.
«Ho scritto Il passato raccontando di una coppia che non riesce a separarsi dopo una relazione di dodici anni. Era il 2002 e per me era un libro fuori dai tempi: in un periodo in cui è tutto fast, veloce, parlavo di due amanti incapaci di cambiare. La nostra epoca accelerata non guarda alla durata dei rapporti. L’argomento è inattuale, pensavo non l’avrebbe letto nessuno. Mi sbagliavo. Proprio perché viviamo in una fase in cui le relazioni non durano la gente è interessata a leggere un libro su una storia di lunga durata. Segno del fatto che abbiamo bisogno di vissuti autentici. C’è sempre un posto e un tempo per esperienze alternative ».
Negli anni Novanta ha scritto un saggio su Borges, è il suo modello?
«Per Borges essere un classico voleva dire “essere qualsiasi cosa per chiunque in qualsiasi momento”. Martin Fierro, poema argentino dell’Ottocento, è un classico nella letteratura perché si presta a letture infinite. Lo stesso vale per Borges, che non è un monumento, ma qualcosa di vivo, uno scrittore che riconfigura continuamente il mondo. In questo senso, mi piacerebbe essere un classico (ride)».
Per Georg Simmel il denaro è anche ciò che ci ha reso liberi dai rapporti di subordinazione. Per lei è affrancamento o schiavitù?
«Può trasformarsi in una dipendenza, ma a confronto di Internet e delle mail, conserva ancora un aspetto romantico. Anche in questo sono anacronistico: sono un marxista sentimentale».
IL LIBRO Storia del denaro di Alan Pauls è uscito da Sur (pagg. 240 euro 15

venerdì 9 gennaio 2015

La Stampa 9.1.15
Italiani timidi nel difendere i nostri valori
di Vladimiro Zagrebelsky

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La Stampa 9.1.15
Checkpoint Charlie
di Massimo Gramellini
pagina a cura di Marco Castelnuovo

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La Stampa 9.1.15
Pensiero critico per andare contro gli estremismi
di Marco Belpoliti


Alla fine degli Anni Ottanta Salman Rushdie, scrittore angloindiano, riceve la fatwa, una condanna a morte, per via del suo romanzo «I versi satanici». La decreta Khomeini, leader religioso iraniano, per il trattamento irriguardoso nel romanzo riservato a suo dire al profeta Maometto. Rushdie, che nel libro ha fornito del capo spirituale e politico dell’Iran un ritratto ben poco lusinghiero, è costretto a nascondersi per due decenni protetto dai servizi segreti britannici. Quasi ventisei anni dopo un altro scrittore, il francese Michel Houellebecq, pubblica alla vigilia del sanguinoso massacro di Rue Nicolas Appert, un romanzo, «Sottomissione» (Bompiani), in cui descrive uno scenario completamente opposto. Non ci sono più due attori indiani che precipitano dal cielo, dopo un attentato terroristico all’aereo su cui volavano, bensì un raffinato intellettuale parigino che discetta di simbolismo e autori cattolici, e si dedica al sesso. Decide di convertirsi, ovvero di arrendersi all’Islam trionfante. Nella distopia architettata da Houellebecq la Francia è ora dominata dal partito della Fratellanza islamica, che ha vinto le elezioni, e il suo leader, Mohammed Ben Abbes, ha avuto i voti degli avversari del Front National ed ha istituito una repubblica islamica. Nella provocazione, intelligente e letterariamente accattivante dello scrittore francese, tutto si è rovesciato. Come si sa il suo romanzo ha anticipato di un giorno o poco più la vicenda dell’assalto al giornale satirico. Si tratta di qualcosa che con Jung si può chiamare «sincronicità»; qui la coincidenza tra l’immaginazione dell’arte e i fatti della vita. Il romanzo, pur non parlando di attentati a giornalisti e disegnatori, ha indicato uno dei temi che si celano dentro le ultime vicende che stanno insanguinando il Pianeta: l’eccesso. Da qualche tempo il fanatismo ha fatto ritorno sulla scena. Fanatico è uno che è ispirato, che è posseduto da una divinità o da un demone, che è colto da entusiasmi e compie atti eccessivi, fuori luogo. L’eccesso domina oggi molti campi. Uno psicoanalista inglese di grande talento, Adam Philipps, ha tenuto qualche anno fa alla Bbc cinque conversazioni sul tema dell’eccesso, in cui ha spiegato come abbracci diverse esperienze umane, dall’anoressia ai kamikaze, dal giocatore compulsivo al bambino che reclama attenzioni. Segna soprattutto i principali conflitti politici e religiosi oggi in atto, ed anche eccessive sono le sproporzioni economiche tra singoli individui, classi sociali e nazioni; ma anche sesso e violenza ne mostrano sempre nuove facce. Discorso difficile quello sull’eccesso, che Houellebecq condensa nel suo romanzo, perché, come dice Philipps, «niente è più eccessivo dei discorsi sull’eccesso». Quello che colpisce nella coincidenza di romanzo e attentato è questa comune radice, che in un caso, nello scrittore, assume le forme della distopia politico-sociale, e nell’assalto dei terroristi quella della ben più terribile e reale della strage di vite umane. L’eccesso è la libertà di uscire, dice Phillips. Da cosa? Dalle regole, prima di tutto, dalle giuste misure stabilite attraverso patti più o meno scritti in ogni società. L’eccesso è contagioso e permette di essere eccessivi a propria volta. Ogni eccesso rivela i desideri e le convinzioni che vi si occultano in modo più o meno palese. Il protagonista del romanzo di Houellebecq rinuncia a ciò che è il valore per eccellenza della cultura dei Lumi, la libertà, per sottomettersi – questo il significato della parola Islam – a un regime religioso in forte contrasto con il suo passato d’intellettuale. Compie un eccesso, così come eccessivo è in fondo tutto il suo estetismo e la sua sessualità di maschio occidentale dedito al godimento. Pasolini ha ben descritto nel suo nerissimo «Salò Sade» l’arbitrio che si cela nella libertà. Nell’eccesso della nuova fede cui si converte, il protagonista trova ragioni per suo sadomasochismo. Cosa ha in comune questo personaggio di carta con i giovani che armati di mitragliatori hanno fatto strage nella sede di Charlie Hebdo? Nulla, se non l’eccesso che connota oggi la realtà contemporanea e ne fa senza dubbio un’età dell’estremismo. La convinzione di Hoellebecq è che l’Occidente sia perso, che non abbia più futuro e la depressione sia il nostro unico destino. Allora perché resistere? Perché tutto ciò non risolve il problema dell’eccesso, quello degli altri, come il nostro. «Ogni nostro eccesso è il segno di una privazione ignota», conclude Philipps. Davanti all’attacco assassino alla rivista satirica francese non è tanto la bandiera della libertà che bisogna issare, bensì il vessillo del nostro pensiero critico, che non deve indietreggiare nell’indagare anche quanto di oscuro c’è in noi. Solo così l’eccesso non l’avrà vinta.

“La Stampa” in edicola, con la copertina di vignette, qui

Corriere 9.1.15
Le mille matite della libertà
di Aldo Cazzullo


I giornali latini ripubblicano le vignette di Charlie Hebdo. I giornali anglosassoni tendono a nasconderle, talvolta a condannarle. Non sono soltanto diverse scelte editoriali; corrispondono a una diversa lettura della tragedia di Parigi, e del passaggio storico che stiamo vivendo. Atto di guerra o terrorismo? Scontro tra culture o attacchi di una minoranza nemica della sua stessa comunità?
Alcune di quelle vignette sono efficaci. Altre non fanno ridere. Altre ancora appaiono inopportune. Si possono criticare. Ma sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà d’espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione. Il contrasto tra il riso e l’integralismo religioso è antico di secoli. Umberto Eco ne ha tratto un best seller mondiale, sostenendo che l’uomo è l’unico animale che ride, ed è l’unico animale che sa che deve morire; se il riso è l’antidoto alla paura della morte, è logico che il nichilismo islamista ne abbia orrore. Ogni terrorista ha trovato giustificazioni e alibi, pure nel recente passato italiano. Questa volta non ne dovrà trovare. Non ci sono provocatori e provocati; ci sono vittime e carnefici.
Dissacrare però non basta. È anche il momento di costruire: valori, regole, convivenza basata sul rispetto reciproco e sulla legalità. Negare che sia in corso una guerra, che l’altra sponda del nostro mare sia il campo di battaglia e l’Europa la retrovia in cui l’esercito islamico tenta di reclutare o infiltrare i suoi combattenti, sarebbe negare la realtà. Ma il confronto con l’Islam non può essere ridotto alla guerra. È un tema cruciale della modernità, del nostro tempo segnato dalle migrazioni e dal mondo globale.
Il confronto con l’Islam è un tema che attraverserà le nostre vite. Chiama in causa non soltanto le capacità militari e di intelligence dell’Europa; ne sollecita l’identità culturale, la coesione sociale. Contrapporre violenza a violenza, uniformare tutti i musulmani in un’unica condanna farebbe il gioco degli assassini di Parigi; che sperano di suscitare l’intolleranza proprio nella terra di Voltaire, che contano di seminare l’odio tra popoli che la storia ha condannato a combattersi, come nell’Algeria degli Anni Cinquanta, ma anche a convivere, attorno a un unico mare e talora nella stessa terra.
La Francia è il Paese più esposto, non solo perché ha avuto un impero coloniale; è il Paese del velo vietato per legge, della Repubblica laica in piena crisi identitaria. Ma anche l’Inghilterra multiculturale ha generato terroristi e tagliagole. L’Italia il suo Islam lo sta importando, ed è cruciale costruire argini più efficaci all’immigrazione senza controllo. Possiamo essere orgogliosi delle vite salvate in mare, e nello stesso tempo agire contro gli scafisti e impedire atti di aperta ostilità, come le imbarcazioni lanciate con il pilota automatico contro le nostre coste. È importante tenere alta la guardia, rafforzare la prevenzione e la sicurezza. Ma non è meno importante costruire — con la scuola, con la politica, anche con la discussione pubblica che passa attraverso i media — un sistema di princìpi condivisi da trasmettere ai nostri figli e ai nuovi italiani.
A maggior ragione ora che il disagio legato alla distruzione del lavoro tradizionale rende più difficile accogliere profughi e immigrati, il confronto con l’Islam va affrontato sapendo chi siamo e in cosa crediamo. La risposta migliore all’offensiva fondamentalista è consolidare la nostra democrazia, riaffermare i nostri valori. Tra questi, oltre alla laicità dello Stato e al rispetto della donna, c’è anche il diritto a criticare e, se si vuole, a ridere del fanatico il quale «vi diceva che la verità ha il sapore della morte; e voi non credevate alla sua parola, ma alla sua tetraggine».

Corriere 9.1.15
Vogliono uccidere la nostra anima
Non sono pazzi criminali, li muove un’ideologia politica
Più l’Occidente si autocensura, più diventeranno audaci
di Ayaan Hirsi Ali


Dopo la carneficina di mercoledì, forse l’Occidente metterà finalmente da parte le tante scuse artificiose impiegate finora per negare ogni nesso tra violenza e Islam radicale.
Questo non è stato un attacco sferrato da uno squilibrato, da un lupo solitario. Non è stata un’aggressione per mano di delinquenti qualunque. Era stata programmata per fare più morti possibile, durante una riunione di redazione, con armi automatiche e un piano di fuga. Gli assassini volevano seminare il terrore, e ci sono riusciti. Ma di cosa ci sorprendiamo? Se c’è una lezione da imparare, è che tutto ciò che noi crediamo dell’Islam non ha alcun peso. Questo tipo di violenza, la jihad, rappresenta quello in cui credono gli islamisti. Il Corano è disseminato di appelli alla jihad violenta, ma non solo. In troppa parte dell’Islam, la jihad si è evoluta in un’ideologia moderna. La «bibbia» del jihadista del ventesimo secolo è «Il concetto coranico della guerra», scritto dal generale pakistano S.K. Malik.
Nella sua analisi l’anima umana — e non il campo di battaglia fisico — rappresenta il centro dove portare il conflitto. E il modo migliore di colpire l’anima è attraverso il terrore, «il punto in cui il mezzo e il fine si ricongiungono». Ogni volta che giustifichiamo la loro violenza in nome della religione, ci pieghiamo alle loro richieste. Nell’Islam, è un grave peccato rappresentare o denigrare il profeta Maometto. I musulmani sono liberi di crederci, ma perché devono imporlo ad altri? L’Islam, con i suoi 1.400 anni di storia e un miliardo e mezzo di fedeli, dovrebbe riuscire a tollerare qualche vignetta. L’Occidente deve costringere i musulmani, specie quelli della diaspora, a rispondere a questa domanda: che cosa è più offensivo per un credente, l’uccisione, la tortura, la schiavitù, la lotta armata e gli attacchi terroristici in nome di Maometto, o la produzione di disegni, film e libri che si fanno beffe degli estremisti e della loro visione di ciò che Maometto rappresenta?
Per rispondere a Malik, la nostra anima in Occidente crede nella libertà di coscienza e parola. Sono le libertà che formano l’anima della nostra civiltà. Ed è proprio in questo che gli islamisti ci hanno attaccato. Tutto dipende da come reagiremo. Se ci convinciamo di combattere contro un manipolo di pazzi criminali, non saremo in grado di fornire risposte. Dobbiamo riconoscere che gli islamisti di oggi sono motivati da un’ideologia politica, radicata nella dottrina fondante dell’Islam. Sarebbe un notevole cambiamento di rotta per l’Occidente, che troppo spesso ha reagito alla violenza jihadista con tentativi di conciliazione. Cerchiamo di blandire i capi di governo islamici che premono per costringerci a censurare stampa, università, libri di storia, programmi scolastici. Loro alzano la voce, e noi obbediamo. In cambio cosa otteniamo? I kalashnikov nel cuore di Parigi. Più ci sforziamo di attenuare, placare, conciliare, più ci autocensuriamo, più il nemico si fa audace ed esigente.
C’è una sola risposta a questo vergognoso attacco jihadista contro Charlie Hebdo : l’obbligo di media e leader occidentali, religiosi e laici, di proteggere i diritti elementari di libertà di espressione, che sia la satira o altro. L’Occidente non deve più inchinarsi, non deve più tacere. Dobbiamo inviare ai terroristi un messaggio univoco: la vostra violenza non riuscirà a distruggere la nostra anima.
Traduzione di Rita Baldassarre

il Fatto 9.1.15
Clericalismi
Il fondamentalismo si combatte soltanto con la laicità assoluta
di Paolo Flores d’Arcais

Eroi delle libertà democratiche, pronunzia tempestivamente il presidente Hollande. È vero. Wolinski e i suoi compagni di Charlie Hebdo erano infatti libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Oggi ne fanno il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, Papi e Leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, devono ora tutti allinearsi a difesa del diritto alle “enormità” con cui gli “estremisti” irresponsabili appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà.
Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo.
La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. A un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti. Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!) è ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali.
ANCHE, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele.
La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio, dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista.

Repubblica 9.1.15
L’appello di Garton Ash ai giornali europei
“Pubblicate le vignette no al veto degli assassini”
di Timothy Garton Ash


PROPONGO che tutti i media d’Europa rispondano all’azione assassina dei terroristi islamisti coordinandosi per pubblicare la prossima settimana una selezione delle vignette di Charlie Hebdo assieme ad un comunicato che spieghi i motivi dell’iniziativa. Una settimana si solidarietà e di libertà, in cui tutti gli europei, musulmani inclusi, ribadiscano il loro impegno in difesa della libertà di parola, l’unico strumento che ci consente di armonizzare la diversità con la libertà.
In caso contrario a vincere sarà il veto imposto dagli assassini. Perché nonostante le prese di posizione risolute dei media, le vignette solidali e le commoventi manifestazioni all’insegna del motto “Je suis Charlie”, gran parte delle pubblicazioni, lasciate a se stesse, in futuro si autocensureranno per paura. E gli estremisti violenti di altre convinzioni ne trarranno insegnamento: se vuoi imporre il tuo tabù, imbraccia un fucile. Le diversità non si risolvono con la violenza. Si risolvono con la parola. Questo è il principio fondamentale che dobbiamo difendere uniti, soprattutto noi che ci guadagniamo la vita con le parole e con le immagini. Possiamo infuriarci, essere brutali, sarcastici, offensivi — ed essere offesi. Esistono dei limiti, imposti da leggi che possiamo tentare di cambiare in parlamento. Possiamo manifestare pacificamente, ricorrendo anche alla disubbidienza civile. Ma solo lo stato democratico può far uso legittimo delle violenza, che in quel caso chiamiamo forza. La moneta sovrana della libertà ha due facce. Su un sito web dedicato al dibattito sulla libertà di parola ho formulato il principio in questi termini: «Non minacciamo di ricorrere alla violenza né accettiamo l’intimidazione violenta». E’ la seconda affermazione che ora esige questo momento straordinario di solidarietà da parte dei media europei.
Propongo che durante questa settimana si pubblichino non solo le vignette di Charlie Hebdo relative a Maometto, ma anche alcune mirate ad altri soggetti, così da evidenziar- ne il carattere satirico, offensivo per diverse categorie di persone. La satira è proprio questo. Il comunicato avrà il compito di motivare la pubblicazione delle vignette satiriche da parte di media che non ne hanno normalmente l’abitudine. I lettori e gli spettatori dovranno essere avvertiti in anticipo della pubblicazione, ma le immagini non dovranno essere in alcun modo censurate o modificate.
Ci vorrà tempo per organizzare un’azione del genere, ma non sarà un male, anzi, contribuirà a tenere alta l’attenzione sul tema, dato che i media macinano notizie a ritmo inesorabile. Sarebbe ottimo se i media liberi di tutto il mondo aderissero all’iniziativa, ma spetta soprattutto agli europei in questo momento mostrarsi solidali in difesa della libertà di parola, per noi valore determinante, nonché chiave del nostro modo di vivere. E’ la libertà da cui le altre in gran parte dipendono.
Il commento verrà redatto in forma autonoma da ogni singolo quotidiano, rivista, sito web, blog o pagina di rete sociale, come è giusto che sia. Io comunque scriverei così: «Non si deve mai permettere che la violenza limiti la libertà di parola. Per questo, pur non pubblicando normalmente vignette satiriche, abbiamo scelto di farlo oggi, assieme ad altri media in tutta Europa. Solo questa solidarietà dimostrerà agli assassini e aspiranti tali che non possono dividere i media per renderli succubi ricorrendo all’intimidazione affinché si autocensurino. L’attacco contro uno è attacco contro tutti. In questo senso nous sommes tous Charlie .
Così gli assassini otterranno come unico risultato che le vignette su Maometto saranno sotto gli occhi di milioni di persone che altrimenti non le avrebbero mai viste. Sono gli assassini, non i vignettisti, a far questo all’immagine del Profeta. E’ sorto infatti un enorme, legittimo, interesse da parte dell’opinione pubblica riguardo alla causa verosimile del grottesco massacro dei vignettisti francesi Charb, Cabu, Honore, Wolinski e Tignous — nomi ormai entrati nella storia — dei loro colleghi e dei poliziotti per mano dei terroristi.
La pubblicazione coordinata delle vignette non è un gesto gratuito. Non è contro l’Islam. Al contrario, è proprio in difesa della realtà per cui i musulmani d’Europa — a differenza dei cristiani e degli atei in gran parte del Medio Oriente — possono esprimere liberamente le loro convinzioni più radicate e sfidare quelle altrui. È in gioco il destino dell’Europa e della libertà. La nostra convivenza nella libertà dipende da questo: che non prevalga il veto degli assassini». Traduzione Emilia Benghi

Repubblica 9.1.15
Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”
intervista di Rodolfo Sala


MILANO «I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente». Lo dice il filosofo Massimo Cacciari E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?
«Negli ultimi venti-trent’anni abbiamo vissuto tutti nell’illusione che la storia potesse in qualche modo cancellare la propria dimensione tragica. Che la nostra Penisola potesse restare fuori dalle trasformazioni epocali che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti (Afghanistan, Iraq, la questione irrisolta dei rapporti tra Israele e palestinesi) che anche per colpa dell’Occidente restano pesantemente irrisolti».
Risultato?
«Vedo un rischio terribile e concreto. Il rischio di una guerra civile in Europa. Mi spiego: dobbiamo tenere presente che nel 2050 la metà della popolazione del nostro continente sarà di origine extracomunitaria, quindi è impensabile ritenerci in guerra, noi europei, con l’altra parte, con il mondo islamico. Per questo dico che bisogna ragionare alla grande. Il problema è con chi».
A che cosa allude?
«In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi».
Le armi dell’intelligenza, lei dice...
«Certo. Se durante il secondo conflitto mondiale ci fosse stato solo il generale Patton, e non anche la lungimiranza di leader come Churchill e Roosevelt, avrebbe vinto Hitler. Affontare il problema solo dal lato della semplice repressione non basta, non può bastare. Anche se questi islamisti hanno compiuto un indiscutibile salto di qualità».
In che senso?
«Non siamo in presenza del kamikaze solitario, della bomba anonima. Le azioni come quella di Parigi sono programmate con una logica militare che punta, voglio ripeterlo, allo scontro di civiltà».
Quindi?
«Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole. Sullo scenario europeo, ora si pensa di far fuori la Grecia, mentre si allargano i confini dell’Unione alla Lituania: è pazzesco».
Ma i toni salgono, Salvini dice che siamo in guerra...
«Una battuta che si commenta da sé, sotto il profilo culturale. Sarebbe un errore madornale additare nell’Islam il nemico, il modo per moltiplicare gli jihadisti».
Aggiunge che il Papa non deve dialogare con l’Islam...
«Figuriamoci che cosa importa al Pontefice delle parole di Salvini. Che insieme alla Le Pen sta facendo di tutto per ostacolare il dialogo. Se si votasse domani la Lega e il Front national prenderebbero una valanga di voti. Sarebbe pericolosissimo, allora sì che saremmo in guerra. Certo, poi occorre realismo ».
E cioè?
«Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo. Bisognerebbe fare un grande sforzo a partire da noi italiani, non credo sia inutile. In fin dei conti, con la storia che abbiamo, dovremmo essere vaccinati. Anche se adesso non pare così».

Repubblica 9.1.15
Pennac: “Solo ora capiamo che per le nostre guerre lontane rischiamo di morire qui a casa”
Dopo la strage e lo shock, lo scrittore riflette sulle cause dell’assalto:
“La Francia ha esportato il conflitto in paesi come Mali e Afghanistan, credendo che gli estremisti non avrebbero colpito. C’è un solo rimedio: combattere sempre violenza e intolleranza”
intervista di Fabio Gambaro


PARIGI «SONO tristissimo. Conoscevo bene Tignous e Bernard Maris. E poco tempo fa avevo cenato con Charb e Cabu. Mi era anche capitato d’incontrare Wolinski. Di fronte alla loro morte sono senza parole». Appena avuta la notizia dell’attacco a Charlie Hebdo , l’altra sera Daniel Pennac si è recato alla manifestazione sulla Place de la Republique, dove insieme a migliaia di altre persone ha protestato contro la barbarie di un odio ingiustificabile. «Erano persone coraggiose, capaci di continuare a fare il loro lavoro nonostante le molte minacce ricevute. Ma al di là delle qualità professionali erano persone adorabili, lontanissime da ogni violenza e aggressività. Grazie al loro entusiasmo, Charlie Hebdo ha sempre rappresentato la forza e il piacere di un’assoluta libertà di pensiero, che certo poteva scioccare chi preferisce trincerarsi dietro certezze incrollabili. I terroristi hanno voluto assassinare la loro libertà».
Gli assalitori gridavano «abbiamo ammazzato Charlie». Ci sono riusciti per davvero?
«Assolutamente no. Charlie Hebdo continuerà a vivere. Io, come molti altri, farò di tutto per aiutarli. Troveremo il modo di far sopravvivere lo spirito libero e irriverente del giornale, scrivendo, disegnando, abbonandosi, aiutando finanziariamente la redazione. L’ironia e l’autoironia sono sempre necessarie: un’anima senza ironia diventa un inferno ».
A chi parla dei limiti della satira, cosa risponde?
«È tutta la vita che ne sento parlare. Chi invoca questo tipo di limiti in realtà vuole solo imporre i propri limiti agli altri. I cattolici, i musulmani, i tradizionalisti, ciascuno vuole far prevalere le proprie regole. Ma ciò non ha senso. Solo una convinzione ottusa e prigioniera di certezze ideologiche e religiose può sentire il bisogno d’imporre un limite all’ironia. Gli unici limiti concepibili sono quelli che l’umorista, l’artista si pone da solo. Io so che ci sono ambiti su cui non scriverò mai, ma questo lo decido io. Nessuno potrà mai impormi gli argomenti su cui scrivere o meno».
La situazione, però, è diventata da guerra.
«La Francia è in guerra, solo che finora il campo di battaglia era geograficamente lontano, in Mali, in Afghanistan. Quindi ci siamo illusi che gli estremisti contro cui stavamo combattendo non avrebbe mai potuto colpirci. Oggi sappiamo che non è vero. E temo che in futuro assisteremo ad altri attacchi di questo tipo».
Come spiega la radicalizzazione di certi giovani che imboccano la strada del terrorismo?
«È il risultato di molti fattori, tra cui il capitalismo odierno che fa la guerra ai poveri e non alla povertà. In questo modo marginalizza una parte della popolazione che si sente esclusa e isolata dalla società. Se a ciò si aggiungono le discriminazioni subite, si comprende come certe persone possano progressivamente radicalizzarsi al punto da odiare la società in cui vivono. Spesso manipolati, costoro diventando disponibili alla violenza e alla follia del terrorismo».
Per la società francese, quali saranno le conseguenze di quanto è accaduto?
«Purtroppo le vittime simboliche di questa strage sono innanzitutto i musulmani di Francia che si ritrovano presi tra due fuochi. Da un lato, ci sono gli assassini che pretendono di parlare in loro nome. Dall’altra, un’opinione pubblica che chiede loro di dimostrare continuamente di essere diversi e lontani dagli assassini. Per i musulmani è una situazione molto difficile. Se i terroristi incarnano una malattia mortale, a modo suo anche l’estrema destra è una malattia mortale, sebbene di un altro tipo. Ma possiamo produrre degli anticorpi».
Come fare?
«Non dobbiamo cedere alla paura degli altri. Non cedere al terrore è il migliore degli anticorpi ».
La cultura può contribuire?
«Mi piacerebbe rispondere di sì, ma purtroppo l’esperienza del passato c’insegna che non è vero. La cultura non ha mai evitato le catastrofi. La Germania aveva la cultura più avanzata, ma questa non ha potuto evitare la Shoah. La cultura può alimentare le coscienze, non può disarmare gli assassini. Il che naturalmente non significa che non si debba continuare a battersi e a lottare contro tutte le forme d’intolleranza e di violenza».
(L’ultimo libro di Daniel Pennac è Storia di un corpo , pubblicato come gli altri da Feltrinelli)

Repubblica 9.1.15
Il vero complesso di inferiorità dei fondamentalisti fragili e confusi
di Slavoj Zizek

ORA che siamo tutti sotto shock, dopo la carneficina negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di ragionare. Naturalmente dobbiamo condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco contro l’essenza stessa delle nostre libertà, e condannarli senza nessun distinguo mascherato. Ma questo afflato di solidarietà universale non è abbastanza. Il ragionamento di cui parlo non ha assolutamente nulla a che vedere con le relativizzazioni da quattro soldi di questo crimine (il mantra del «Chi siamo noi occidentali, che abbiamo compiuto massacri terribili nel terzo mondo, per condannare atti come questi? »). E ha ancora meno a che fare con la paura patologica di tanti liberali progressisti occidentali di macchiarsi di islamofobia. Per questi finti progressisti, qualsiasi critica dell’islam viene additata come espressione dell’islamofobia occidentale: Salman Rushdie è stato accusato di aver provocato gratuitamente i musulmani, e quindi di essere responsabile (almeno in parte) della fatwa che lo condanna a morte, e via così.
Il risultato di posizioni del genere è quello che ci si può aspettare in questi casi: più i progressisti occidentali rovistano nel loro senso di colpa, più vengono accusati dai fondamentalisti islamici di essere ipocriti che cercano di nascondere il loro odio per l’islam. Questa costellazione riproduce alla perfezione il paradosso del superego: più obbedisci a quello che l’Altro pretende da te, più ti senti colpevole. In pratica, più tollerate l’islam, più forte sarà la pressione su di voi… Molto tempo addietro Friedrich Nietzsche percepiva che la civiltà occidentale stava avanzando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica, senza grandi passioni o grandi impegni. Incapace di sognare, stanco della vita, non si prende rischi, cerca soltanto comfort e sicurezza, una manifestazione di tolleranza reciproca: «Un po’ di veleno ogni tanto, per fare sogni piacevoli. E tanto veleno alla fine, per una morte piacevole ». In effetti può sembrare che la spaccatura fra il permissivo primo mondo e la reazione fondamentalista contro di esso coincida sempre più con la contrapposizione fra una vita lunga e soddisfacente, piena di benessere materiale e culturale, e una vita dedicata a qualche Causa trascendente. “I migliori” non sono più capaci di impegnarsi fino in fondo, mentre «i peggiori» si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono esattamente a questa descrizione? La cosa di cui mancano con ogni evidenza è una qualità che è facile discernere in tutti i fondamentalisti autentici, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso il modo di vivere dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti dei nostri giorni sono convinti davvero di aver trovato la via verso la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti, perché dovrebbero invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, non lo condanna di certo: si limita a osservare benevolmente che la ricerca di felicità dell’edonista è controproducente. Al contrario dei veri fondamentalisti, gli pseudofondamentalisti terroristi sono profondamente infastiditi, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti: si ha la sensazione che combattendo il peccatore stiano combattendo la loro stessa tentazione di peccato. Il terrore del fondamentalismo islamico non è radicato nella convinzione dei terroristi della propria superiorità, in un desiderio di preservare la propria identità cultural-religiosa dal furibondo assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che li consideriamo inferiori a noi, ma al contrario che loro stessi si considerano segretamente inferiori. È per questo che quando li rassicuriamo, pieni di condiscendenza e political correctness, che non ci sentiamo assolutamente superiori a loro non facciamo altro che farli inferocire ancora di più e alimentare il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo per preservare la propria identità), ma il contrario, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che segretamente hanno già interiorizzato i nostri parametri e misurano se stessi in base a essi.
Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificatrice, naturalmente — contro un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il liberalismo lo genera, ripetutamente. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo necessita dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È il solo modo per sconfiggere il fondamentalismo, tagliargli l’erba sotto i piedi.
Ragionare in risposta agli omicidi di Parigi significa mettere da parte il compiacimento autocelebrativo del liberale permissivo e accettare che il conflitto tra la permissività liberale e il fondamentalismo in definitiva è un conflitto falso. Quello che Horkheimer aveva detto riguardo a fascismo e capitalismo, e cioè che chi non è disposto a parlare in modo critico del capitalismo non dovrebbe contestare neppure il fascismo, andrebbe applicato anche al fondamentalismo dei nostri giorni: chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso.
Traduzione di Fabio Galimberti

il Fatto 9.1.15
Lo Stato paga i debiti ma Chil di papà Renzi non aveva i requisiti
L’azienda non comunicò il trasferimento di sede a Genova per non perdere la copertura di Fidi Toscana
di Davide Vecchi


Tiziano Renzi avrebbe dovuto comunicare il trasferimento della sede della sua azienda, la Chil Post, da Firenze a Genova alla finanziaria Fidi Toscana, come prevede lo statuto del fondo di garanzia da cui ha ricevuto i fondi per coprire parte dei debiti contratti. Il cambio di regione avrebbe ovviamente comportato la decadenza del beneficio. Per carità: si sarà sicuramente trattato di una dimenticanza. Il dato emerge dagli atti custoditi in Regione relativi all’azienda di casa Renzi, poi fallita e per cui il padre del premier è indagato per bancarotta fraudolenta dalla procura ligure. E non è l’unico elemento interessante.
RICOSTRUENDO la vicenda emerge che la Chil è una delle pochissime aziende per cui il ministero dell’Economia ha coperto il fondo di garanzia toscano. Creato nel febbraio 2009 per volere dell’allora governatore Claudio Martini e finalizzato ad aiutare le imprese regionali ad affrontare la crisi economica, il fondo “emergenza economia misura liquidità” in cinque anni ha sottoscritto garanzie per un miliardo e 126 milioni di euro a 5.687 aziende toscane. E ne ha dovuto effettivamente elargire solamente 16 milioni di euro. Nulla, rispetto alla cifra complessiva garantita. Di questi 16 milioni lo Stato, attraverso il fondo centrale di garanzia costituito presso il Mef, ha restituito a Fidi Toscana appena un milione di euro, tra cui proprio i 236.803,23 deliberati a giugno 2014. Ed è così che lo Stato guidato da Renzi ha pagato parte del debito della società di casa Renzi.
A spiegare l’iter seguito dalla Chil Post è Simonetta Baldi, dirigente della Regione responsabile del settore politiche orizzontali a sostegno delle imprese, l’ufficio che gestisce il fondo di garanzia e tiene i rapporti con Fidi Toscana, la finanziaria controllata per il 49% dall'ente guidato da Enrico Rossi. Baldi non svela nulla: si limita a confermare le informazioni in nostro possesso. “Il fondo è stato creato nel febbraio 2009 e la Chil è stata tra le prime a rivolgersi a noi appena un mese dopo” ed è stata “anche tra le prime ad andare in sofferenza”, ricorda Baldi. Di “5.687 aziende che sono ricorse a noi non sappiamo quante poi sono fallite ma decisamente poche” anche perché “il fondo ha funzionato molto bene per la quasi totalità delle imprese”. Su un miliardo e 200 milioni garantiti “siamo intervenuti per appena 16 milioni, come sa”. Baldi conferma anche le cifre ricevute dal ministero dell’Economia: “Sì, poco più di un milione di euro”. E spiega che non è affatto scontato che il rimborso avvenga, “anzi”. Funziona così: “Al ministero dell’Economia c'è il fondo centrale che serve come contro-garanzia ma può essere attivato solo a determinate condizioni” e comunque viene rimborsato “con tempi piuttosto lunghi, tra il pagamento che effettuiamo noi per l’azienda e quello che riceviamo dal Mef c’è un gap di anni”. Per la Chil Post “sono arrivati in sei mesi, sì. Ma è stata una delle prime pratiche a essere aperta e ad andare in sofferenza”.
SECONDO il regolamento, inoltre, la Chil Post non avrebbe potuto beneficiare del fondo di garanzia perché nel frattempo ha cambiato sede e proprietà. Baldi, ancora una volta, conferma: “C’è stato un difetto di informazione, i passaggi di proprietà Fidi Toscana li ha saputi successivamente”, dopo il fallimento. Va detto che la società non ha cambiato partita Iva o forma, rimanendo una srl, ma “se ricevessi una domanda da un’impresa di Genova gli dico di no, ovviamente”, garantisce Baldi. Quando la Chil fece domanda era una società toscana, quindi al momento dell’ammissione alla garanzia l’impresa aveva tutte le caratteristiche in regola.
È IL 16 MARZO 2009 quando Tiziano Renzi presenta richiesta e il 13 agosto 2009 l’operazione va in porto a garanzia di un mutuo con il credito cooperativo di Pontassieve da 496.717,65 euro. Dopo poco più di un anno, l’otto ottobre 2010, circa due milioni in beni e servizi - ritenuti dagli inquirenti genovesi la parte sana della Chil Post - sono ceduti alla Eventi 6 di Laura Bovoli, madre dell’ex rottamatore. Passa meno di una settimana e il 14 ottobre Tiziano Renzi trasferisce la società a Genova. Infine il 3 novembre cede l’intera proprietà della Chil Post a Gian Franco Massone, prestanome per il figlio Mariano, entrambi indagati con il padre del premier dalla procura ligure.
A questo punto però l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 150 mila euro, compresi 496 mila euro di esposizione con il Credito cooperativo di Pontassieve guidato dal fidatissimo amico del premier, Matteo Spanò. I debiti non vengono ripianati e Massone dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il mutuo viene ammesso al passivo dal tribunale e così Fidi Toscana onora la sua garanzia. Poi coperta dal Tesoro.

Corriere 9.1.15
Alle primarie liguri partigiani in campo: no agli infiltrati

Nove ex partigiani dell’Anpi di Genova hanno firmato una lettera dopo che Ncd ha dichiarato che voterà per Raffaella Paita nonostante la decisione dei garanti Pd di escludere gli esponenti della destra dal voto alle primarie per la Regione. «A tutto eravamo preparati ma non che i nostri rappresentanti si alleassero con questi figuri, fra loro ci sono ex picchiatori fascisti». Anche lo storico Arrigo Petacco sostiene Paita e lo sfidante Sergio Cofferati chiosa: «È uno che ha negato la responsabilità di Mussolini nell’omicidio Matteotti». Oggi si chiude e domenica si vota.
E.D.

il Fatto 9.1.15
Domenica in Liguria
Primarie inquinate, lo storico di destra firma per la renziana
di Ferruccio Sansa


Arrigo Petacco. Lo storico è la goccia che rischia di far traboccare il vaso delle primarie liguri. Poche settimane fa sul blog di Beppe Grillo aveva rivisto la morte di Giacomo Matteotti “assolvendo” Mussolini e adesso appoggia il candidato Raffaella Paita alle primarie Pd di domenica contro Sergio Cofferati. È bastato questo per far esplodere una tensione che covava da settimane nel partito. Sono intervenuti perfino i partigiani con un appello firmato da ex combattenti guidati dal vicepresidente dell’Anpi genovese, Gianni Ponta: “A tutto eravamo preparati, ma mai avremmo pensato che i nostri rappresentanti politici di centrosinistra si potessero alleare con questi figuri… tra questi ci sono anche ex picchiatori fascisti che ogni anno anziché la Liberazione festeggiavano il loro rito recandosi a Predappio in onore della ‘buonanima‘ di Mussolini. È un affronto che non possiamo accettare e useremo la sola arma che ci resta: quella della democrazia che abbiamo contribuito a riconquistare. Sarà il nostro voto, o non voto, a dire che non accetteremo mai di confonderci con gli eredi diretti e indiretti dei fascisti di Salò e dei missini di Almirante”. Era solo questione di tempo perché il bubbone scoppiasse: le primarie del Pd (e quindi la vittoria alle regionali di maggio) rischiano di essere decise dagli scajoliani e dal centrodestra. Come settimane fa ha denunciato Il Fatto Quotidiano, non si contano più gli ex esponenti Pdl-An scesi in piazza per appoggiare l’ala renziana del Pd rappresentata da Raffaella Paita (la candidata sostenuta fortissimamente da Claudio Burlando, governatore uscente). Prima Pierluigi Vinai, già candidato sindaco di Genova con il Pdl e il sostegno della Curia di Bagnasco (nonché uomo Pdl nella fondazione della banca Carige). Poi ecco Roberto Avogadro, ex sindaco di Alassio (centrodestra). Pochi giorni fa arriva un sostenitore che suscita clamore. Quell’Alessio Saso, oggi Ncd, così definito dagli stessi vertici Pd: “Oltre a essere un ex esponente di An, Saso è indagato (voto di scambio, ndr) nell’inchiesta Maglio 3 sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel ponente ligure”.
Fino agli ultimi pezzi grossi: da Eugenio Minasso (Ncd, in passato fotografato mentre festeggia con membri di famiglie calabresi al centro di inchieste) a Franco Orsi, prima Dc, quindi Forza Italia, infine Pdl. A lungo sostenitore doc di Claudio Scajola, ma impegnato anche per Luigi Grillo (entrambi i leader liguri del centrodestra sono stati arrestati quest’anno). Non una manovra di corridoio, ma un’alleanza siglata davanti a centinaia di persone nel palazzetto dello sport di Albisola (Savona). Nelle speranze di Paita e Burlando doveva essere la mossa finale contro Cofferati. Ora rischia di ritorcersi loro contro. Dipenderà dall’affluenza alle urne: se sarà bassa, il peso del centrodestra e degli apparati sarà decisivo.
E RENZI? TACE. Non ama né il duo Burlando-Paita (pur se renziani), né Coffe-rati. Strane primarie, quelle liguri. Dimostrazione dei travagli del Pd più che della forza del partito. Da una parte si teme l’astensionismo degli elettori – quelli veri – del centrosinistra, dall’altra si prevede di registrare tutti i votanti per evitare infiltrazioni. E strano destino per la Liguria Rossa, regione amministrata dalla sinistra dal Dopoguerra. Oggi il suo futuro è nelle mani dei vecchi “nemici”, dopo che Paita e scajoliani hanno siglato il Nazareno di Albisola. Proprio a pochi chilometri da Stella, paese di Sandro Pertini. Chissà cosa avrebbe detto il Presidente-partigiano…

il Fatto 9.1.15
Pd, solo Mucchetti chiede a Renzi di spiegare la Salva B.
Il partito non appoggia il parlamentare che vuole capire cosa è successo col decretodi
di Wanda Marra


“Credo che questa Assemblea sia interessata a capire quale sia stato effettivamente il testo del decreto fiscale licenziato dal ministero dell'Economia, quale testo sia arrivato in Consiglio dei ministri, se sia lo stesso o se abbia subito modificazioni di contenuto e, qualora tali modificazioni di contenuto siano state apportate, chi le abbia apportate e come”. Così il senatore Pd, Massimo Mucchetti ieri, intervenendo in Aula a Palazzo Madama, chiede formalmente a Renzi di andare a riferire sulla delega fiscale. Non sul merito, però. Sul metodo, con cui il governo fa le leggi. Soprattutto sull’uso dei provvedimenti in delega: un modo per farsi votare di fatto un mandato in bianco.
“CI INTERESSA sapere, nei limiti del ragionevole e del possibile, se su questa materia ci sia stato dibattito in Consiglio dei ministri oppure no e chi sia intervenuto dicendo che cosa. Infine, dovremmo essere informati su quale sia stato il testo votato e come, in base a quali procedure, si sia deciso di ritirarlo”, spiega Mucchetti in Aula. Aveva chiesto al capogruppo Luigi Zanda di intervenire già il giorno prima. Gli era stato detto di no, per ragioni di opportunità relative all’attentato in Francia. Poi, ieri, ha parlato. Intervento duro, che evidentemente ha creato dei problemi alla maggioranza renziana. Tant’è vero che subito dopo a correggere il tiro interviene Giorgio Tonini, segretario d’Aula e membro della segreteria dem: “Il gruppo del Pd ha accolto la richiesta del senatore Mucchetti, di intervenire su questa vicenda, anche confidando nel senso di responsabilità e di equilibrio del collega. Ma i contenuti del suo intervento impegnano Mucchetti e non il gruppo democratico”. La questione si chiude così. Anche se Lega, Movimento 5 Stelle e Sel si uniscono alla richiesta. Intanto Renzi evidentemente accusa il colpo di un inizio d’anno non proprio brillante, tra passaggi su aerei di stato e “manine” per salvare Berlusconi: secondo l’Huffington Post, che ha sentito i maggiori sondaggisti, ha perso 5 punti di gradimento.
E non fa niente che il malumore intorno alla questione sia palpabile. Bersani in diretta a L’Aria che tira rilancia la richiesta. E con l’occasione rimette il nome di Prodi in pista per il Colle. Tanto per agitare ancora di più le acque in cui naviga il governo. Ma il premier non cede: non ha nessuna intenzione di andare a riferire. “Su cosa poi? ”, si chiedono i suoi. Già su cosa? La richiesta di Mucchetti riguarda non un testo, non un fatto. Ma una prassi. “Se siamo in un regime monocratico, in cui decide tutto il presidente del Consiglio, qualcuno ce lo deve dire”, si sfoga un senatore della minoranza Pd. La risposta ufficiale arriva dal ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi: “Il governo non riferirà. Gli atti del Cdm non sono oggetto di informativa parlamentare”, spiega alla capigruppo di Palazzo Madama. La tesi dell’esecutivo è esattamente questa: il Consiglio dei Ministri è segreto. In questo caso, poi, pieno di segreti inconfessabili. Il rinvio al 20 febbraio, intanto, scontenta pure quelli per cui era stata fatta la delega: deve andare avanti "il prima possibile", secondo la Confidustria. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la Confcommercio.

La Stampa 9.1.15
Quirinale, l’ipotesi primarie scuote il Pd
Ora Bersani rilancia Prodi
“Ma non certo per bruciarlo”
E si tira fuori dalla corsa: “Io dico la mia, altri stanno zitti”
di Carlo Bertini


«No, figuriamoci se io voglio bruciare Prodi! Ma che potevo dire, che non andrebbe bene per il Colle? Proprio io che mi sono dimesso su quella vicenda?». In Transatlantico le malelingue già spargono veleni su quelle parole, «per il Quirinale si deve ripartire da Prodi», pronunciate in tv da Pierluigi Bersani. In realtà «lo ha fatto per affossarlo», sibilano i renziani, convinti che la candidatura del professore non abbia grosse chances.
Avvolto in uno sciarpone prima di infilare le scale dell’ingresso posteriore di Montecitorio, Bersani si fa una risata quando gli si riporta la voce più maliziosa: che se ha nominato Prodi in questa fase sapendo cosa avrebbe scatenato, è perché in realtà sta facendo un pensierino su se stesso come possibile candidato. Conosce le regole del gioco e sa cosa comporta ogni soffio su un tema così delicato.
Passo indietro sul casus belli: a metà mattina, su La7 all’Aria che tira, l’ex leader si districa così di fronte al fuoco di fila della conduttrice Mirta Merlino, che ad un certo punto lo inchioda su un quesito secco: bisogna ripartire da Prodi? «Non voglio fare nomi... ma è immaginabile ripartire da dove ci si è fermati. Non ho bisogno di dire niente, altrimenti poi Prodi si arrabbia...». E parlando in terza persona, rivanga l’episodio fatidico del 2013, quando «ci fu un mix tra chi non voleva Prodi e chi non voleva Bersani. C’era qualche complotto in giro...».
Per ore dunque la trottola torna a girare sul nome del Professore - agenzie, siti, social network, il blog di Grillo che lo dà come favorito stando ai bookmakers. Ma Bersani si mostra perfettamente consapevole di quanto sia ardua la partita per chi davvero puntasse a sanare la ferita del 2013. «Io non ho proposto Prodi, ho parlato per me. Volete che io non sia d’accordo su di lui?». E la tesi che invece stia pensando a se stesso non regge a suo dire, viste le critiche continue a Renzi, a partire dal decreto fiscale sul quale «non gli faccio i complimenti».
«Io sparo a zero tutti i giorni mentre invece altri se ne stanno buoni e zitti come usa fare in questi frangenti. Non rinuncio a dire la mia, quindi...». Piuttosto Bersani ha una sua idea sul metodo che seguirà Renzi. «Proverà dalla quarta votazione in poi a procedere sulla base di un accordo che coinvolga l’Ncd e Forza Italia, su un nome che sia ben accolto anche dal Pd. Insomma, non vorrà certo fare uno scontro frontale...», è la previsione dell’ex leader. Il quale in realtà viene dipinto come il vero manovratore della fronda che si sta mettendo in moto al Senato sulla legge elettorale.
«Ha ripreso tutto in mano lui», dicono i dissidenti Pd, che insieme a fittiani e oppositori vari, stanno alzando dighe al Senato su preferenze e premio alla lista. Per far capire a Renzi che prima dei voti sul Colle deve trattare. «Capisco il Nazareno e che Berlusconi i suoi se li deve nominare lui anche se perde ma dobbiamo usare raziocinio, c’è un meccanismo come il Mattarellum...». Parola di Bersani appunto.

La Stampa 9.1.15
Quirinale, l’ipotesi primarie riapre i giochi dentro il Pd
Renzi incerto se cavalcarle o scartarle. Il primo a realizzarle fu Moro
di Fabio Martini


Non c’è ancora una proposta compiuta, ma per la prima volta se ne comincia a parlare e se la cosa va avanti potrebbe cambiare la storia delle prossime settimane: perché il Pd non sceglie il candidato al Quirinale attraverso una Primaria a voto segreto tra i suoi grandi elettori? Ieri mattina l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha aperto ad uno scenario di questo tipo: rispondendo ad una domanda nella trasmissione «L’aria che tira», l’ex leader del Pd ha ricordato che nell’aprile 2013, «erano pronte le schede» per fare votare i grandi elettori Pd a scrutinio segreto, ma poi quando lui stesso propose Romano Prodi, «una ovazione» interruppe l’iter e non se ne fece più nulla. Bersani di fatto ha aperto la strada ad una discussione sull’utilizzo d una procedura di democrazia interna che peraltro ha precedenti illustrissimi.
Nella Prima Repubblica
La Dc - accompagnata da una «damnatio memoriae» ben oltre le sue «colpe» - sperimentò in diverse occasioni democratiche Primarie interne. Il primo a proporle fu Aldo Moro, nel 1962 segretario della Dc. Lo sbarramento dei franchi tiratori era imponente e Moro indisse una votazione segreta tra i grandi elettori Dc. Come scrisse un grande giornalista - Vittorio Gorresio de «La Stampa» - «si era convenuto che gli scrutatori avrebbero dovuto proclamare soltanto il nome del primo in classifica, senza indicare il numero dei voti che egli avesse raccolto, né la sua percentuale, né la distanza dal secondo, né alcuna graduatoria: e poi bruciare le schede in un forno». Raffinato rito da conclave per preservare la (successiva) unità interna della Dc e che premiò Segni. Procedura ripetuta nel 1971: primo Leone, secondo Moro. Nel 1985, grazie alla regia di Ciriaco De Mita, voto segreto con plebiscito per Francesco Cossiga. Anche stavolta schede bruciate.
La tentazione
Matteo Renzi, che è diventato leader grazie alle Primarie, si sentirà insidiato dalla suggestione bersanian-democristiana o la cavalcherà? Una cosa è certa: Bersani, nelle elezioni presidenziali del 2013, ha scartato la opzione del voto segreto tra candidati alternativi. Da questo punto di vista la ricostruzione da lui fatta dell’ultima corsa presidenziale, omette alcuni passaggi decisivi. Nella primavera del 2013, dopo la clamorosa bocciatura in aula della candidatura di Franco Marini, appoggiato anche da Forza Italia, Bersani fece sapere ai notabili del partito di essere pronto a virare bruscamente su Romano Prodi. A quel punto - e non è dettaglio da poco- Massimo D’Alema fece sapere di essere pronto a candidarsi anche lui, in un testa a testa con Prodi, del tipo, vinca il migliore. La notte del 18 aprile furono preparate le schede per votare e l’indomani i grandi elettori del Pd furono convocati al cinema Capranica. Dietro le quinte si sapeva che subito dopo Bersani (che avrebbe proposto di votare Romano Prodi), si sarebbe alzata Anna Finocchiaro per proporre D’Alema. Ma non andò così: il presidente dell’assemblea, Luigi Zanda propose di votare per alzata di mano e, in assenza di uno «scatto» da parte dello schieramento opposto, la candidatura dell’ex presidente della Commissione europea passò per acclamazione. Una forzatura che fu vissuta dallo schieramento pro-D’Alema come uno schiaffo e aprì la strada ad una successiva, in qualche modo «fisiologica» rappresaglia.

Corriere 9.1.15
Il blitz della minoranza contro Renzi
E Bersani: sul Colle ripartire da Prodi
Mucchetti: «salva-Berlusconi», chiarisca
Tensione tra i dem. Legnini (Csm): norma errata
di Monica Guerzoni


ROMA La minoranza del Pd non molla l’osso della cosiddetta «salva Berlusconi», anzi prova a morderlo con più forza ancora. L’ala sinistra del partito del premier, che si è riunita per serrare i ranghi, chiede a Matteo Renzi di spiegare in Parlamento com’è andata sul «pasticcio» fiscale e, per contrastare il Patto del Nazareno, rimette sulla pista del Quirinale il nome di Romano Prodi, il più temuto da Forza Italia. Alfredo D’Attorre ritiene che la minoranza, grazie a Sel e ai cinquestelle, abbia «più voti di quelli che Forza Italia può garantire». Ma il presidente Matteo Orfini prova a fermare i giochi: «Evitiamo il tritacarne mediatico che danneggia i nomi...».
È Pier Luigi Bersani ad affondare il colpo, a chiedere in diretta tv (su La 7) che Renzi riferisca in aula «vista la situazione che si è creata», che il decreto contestato venga affrontato prima del consiglio dei ministri del 20 febbraio e che il governo cancelli la parte delle frodi fiscali. «Renzi ha detto “la manina è la mia... A me piace la franchezza — attacca Bersani — ma non riesco a fargli i complimenti». Per Pippo Civati, che presenta con Sel un emendamento sul conflitto d’interessi, la «legge vergogna» è opera della «manona» di Renzi. Per D’Attorre si tratta di «un’ombra gigantesca, gettata dal premier sulla credibilità del Pd». Anche il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, chiede di eliminare la norma del 3%, perché «rischierebbe di ammazzare processi importantissimi e costituire strumento per la costituzione di fondi neri, indebolendo la lotta alla corruzione».
Bersani intanto avverte Renzi, lo invita a non stravolgere l’idea di società incarnata dal Pd: «Per i lavoratori facciamo all’americana, per gli evasori all’italiana? Ci sono dei punti limite». C’è che il meccanismo dei nominati nella legge elettorale «non sta in piedi» e c’è che i bersaniani si preparano a bocciare un candidato al Quirinale che sia espressione del Patto del Nazareno. Gli chiedono di Prodi e Bersani, senza far nomi: «Bisogna ripartire da dove ci si è fermati». Rosy Bindi concorda e rivendica il copyright della proposta: «L’ho detto un mese fa che l’elezione del presidente deve partire da Prodi, dal sanare la ferita dei 101 franchi tiratori che sanguina ancora». E poi, sull’accordo con Berlusconi: «L’incidente sul fisco ha fatto nascere dei dubbi sulla trasparenza del Patto del Nazareno e ora Renzi deve riferire in Parlamento. Non solo perché dovremo votare il capo dello Stato, ma perché possa procedere l’iter delle riforme».
L’assalto della sinistra contro il leader, accusato di muoversi da «sindaco d’Italia», inizia al mattino nell’aula del Senato. Massimo Mucchetti apre la seduta chiedendo al premier di raccontare in Parlamento, «per filo e per segno», come quella norma sia finita nel decreto fiscale. I renziani insorgono. Il ministro Boschi nella riunione dei capigruppo dice no all’informativa urgente invocata dalla minoranza. E a Palazzo Madama scoppia il caso: chi ha autorizzato Mucchetti a parlare a nome del gruppo? Il tema sollevato dal giornalista-senatore e rilanciato dalla minoranza è il sospetto che Palazzo Chigi abbia «un problema di governance».
Per la Bindi «la figura del presidente del consiglio dei ministri come primus inter pares sta subendo una trasformazione profonda, si va verso il rafforzamento della figura del premier rispetto alla autonomia dei ministri». E Bersani, quando gli chiedono se il gabinetto di Renzi sia diventato una sorta di governo parallelo: «L’ho letto sui giornali e non sarò io a smentirlo».
Per Cecilia Guerra la «salva Berlusconi» deve essere modificata prima del 20 febbraio, «ma non può decidere il premier con Padoan, deve farlo il consiglio dei ministri». E Miguel Gotor è sulla stessa lunghezza d’onda: «Invece di parlare di manine o manone, guantate o meno, sarebbe opportuno che Renzi venisse a riferire nelle sedi istituzionali riguardo a un episodio che ha ampi margini di ambiguità».

Corriere 9.1.15
Il senatore Mucchetti: Pd sorpreso? Li avevo avvertiti
L’esponente della sinistra: avevo informato il capogruppo e ho avuto il via libera
Ma Zanda smentisce. E in Aula il suo vice Tonini deve prendere le distanze
di M. Gu.


ROMA Per i renziani l’intervento di Massimo Mucchetti è un agguato parlamentare, organizzato a tavolino dalla minoranza. Un «blitz» ordito dai bersaniani per indebolire il segretario-premier nella corsa verso il Quirinale. Ma il senatore, che per primo ha chiesto a Renzi di riferire in Parlamento sul fattaccio del decreto fiscale, smentisce trappole e conferma la sua buona fede.
«Mercoledì — ricostruisce Mucchetti — avevo avvisato il capogruppo Luigi Zanda di voler intervenire in apertura di seduta, sull’ordine dei lavori, per chiedere che la presidenza del Senato audisse il presidente del Consiglio sui problemi di governance emersi, sul decreto fiscale, nel processo decisionale del governo». Zanda però smentisce di avergli dato il via libera a intervenire a nome del gruppo e l’ufficio stampa fa trapelare l’«irritazione» del presidente per l’intervento del senatore. Zanda e Mucchetti ieri si sono parlati, senza però arrivare a un chiarimento.
Tra gli applausi di bersaniani, leghisti, cinquestelle e senatori di Sel (e mentre i renziani rumoreggiavano) Mucchetti ha chiesto a Renzi di chiarire l’iter del decreto fiscale: «È possibile che ci sia stato un funzionamento non perfetto delle decisioni politiche...». È possibile cioè, sospetta Mucchetti, che le decisioni collegiali del consiglio dei ministri siano «state modificate in modo monocratico», il che porrebbe «un problema di governance democratica». Stupore di Sacconi e sintonia di Calderoli, convinto che l’intervento di Mucchetti sia stato autorizzato dal gruppo, visto che si è tenuto in apertura di seduta. Ma Giorgio Tonini, vice di Zanda, smentisce Mucchetti. «Il gruppo — ha ammonito in aula il senatore renziano — ha accolto la richiesta confidando nel suo senso di responsabilità e di equilibrio, ma i contenuti dell’intervento impegnano Mucchetti e non il Pd». Presa di distanza ufficiale, alla quale Tonini aggiunge che «aver detto di parlare a nome del gruppo e non in dissenso è un elemento di scorrettezza». Mucchetti nega di aver tradito la fiducia del gruppo e ribalta la versione di Tonini: «Non voglio polemizzare. Ma ho informato i vertici del gruppo della proposta che intendevo fare, come del resto lo stesso Tonini ha riconosciuto nel suo breve intervento. Il testo del mio è disponibile e ciascuno può giudicare se sia o meno equilibrato e responsabile». Incassati gli apprezzamenti di Bersani, Bindi e Civati, Mucchetti tiene il punto: «Mi pare un approccio burocratico aprire una capziosa questione di metodo, laddove esistono diversi punti di vista su come vengono prese le decisioni del governo. Mi domando se, per Tonini, questo processo decisionale sia aderente al dettato costituzionale». Per lui non lo è affatto, visto che «una deliberazione collegiale del cdm è stata corretta dall’iniziativa individuale del presidente del Consiglio».

Corriere 9.1.15
Il caso del 3% può saldare le opposizioni al leader Pd

di Massimo Franco

Il caso non sta rientrando, anzi. Quando oggi Matteo Renzi tornerà dal viaggio-lampo negli Emirati Arabi Uniti, si accorgerà che il pasticcio del cosiddetto decreto fiscale «salva-Berlusconi» è diventato una sorta di bandiera dei suoi avversari interni. Di più: il vessillo dietro il quale la minoranza del Pd ma anche alcuni spezzoni delle opposizioni si schierano chiedendogli di trattare sulla legge elettorale e, sullo sfondo, sul Quirinale. Si tratta di un segnale che contraddice quelli, più distensivi, sulla riforma elettorale: sebbene anche sull’ Italicum si contesti un sistema che porterebbe a «nominare» circa il 60 per cento dei deputati.
Il problema non è tanto il provvedimento in sé, comparso misteriosamente nel testo presentato dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il 24 dicembre scorso; e disconosciuto da tutti. A creare imbarazzo e acuire i sospetti di uno scambio inconfessabile tra depenalizzazione di uno dei reati per i quali è stato condannato Silvio Berlusconi, e voti per un candidato di Renzi al Quirinale, è quanto è accaduto dopo. Il fatto che il presidente del Consiglio abbia rivendicato la paternità almeno politica del decreto — «la manina è mia» — non è stato considerato sufficiente a placare la tensione.
Le molte domande sull’incidente si sono saldate con la voglia di mettere in mora il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Né è piaciuta la scelta di difendere il provvedimento, e in parallelo di cambiarlo per poi ripresentarlo a Palazzo Chigi il 20 febbraio; e cioè a cavallo dell’elezione del successore di Giorgio Napolitano. Le sue dimissioni sono previste infatti per il 14 gennaio, e le Camere dovrebbero cominciare le votazioni in seduta comune giovedì 29 gennaio. Alcuni esponenti del Pd vorrebbero che si chiarisse la dinamica del «salva Berlusconi» prima di cominciare a votare per il capo dello Stato.
L’ex segretario Pier Luigi Bersani, ma non solo, contesta anche il merito del provvedimento, che a suo avviso protegge chi froda il Fisco. «Il modo per venirne fuori», secondo Bersani, «è non aspettare il 20 febbraio»; e invece ripresentare il decreto in Consiglio dei ministri e «togliere la parte delle frodi fiscali». Renzi, infierisce l’ex segretario del Pd, si è comportato come «l’oste che dà da bere agli ubriachi». Sono indizi di un confronto destinato a inasprirsi in vista della competizione per il Quirinale. È come se, vedendo un premier in difficoltà, un pezzo del Pd gli facesse capire che dovrà scendere a patti.
In questo contesto, candidare Romano Prodi, ex presidente della Commissione Ue e fondatore dell’Ulivo, come fa Bersani, appare una mossa a doppio taglio. Si ricorda come fu «bruciato» nel 2013 da 101 franchi tiratori, molti dello stesso Pd. E si dice a Renzi che occorre «ripartire da lì». Ma così si conferma che la vera incognita sarà la tenuta dei gruppi parlamentari di un partito di nuovo in tensione. Renzi, che ultimamente ha cercato di limitare al massimo le occasioni e i fattori di attrito, ha un paio di settimane per recuperare la fronda ed evitare una replica delle lacerazioni a sinistra di circa due anni fa. Non sarà facile, ma è costretto a provarci. Di più: se è possibile, a riuscirci.

Corriere 9.1.15
I conti del capo del governo sui franchi tiratori: sono al massimo 150
Dal quarto scrutinio non servirebbero più a nulla agli avversari
di Francesco Verderami


ROMA Non si era mai visto in una partita a scacchi che la prima mossa la facesse il nero. E invece nella sfida per il Quirinale Bersani ha deciso di anticipare il premier — cui spetta di diritto il bianco — togliendogli il compito di aprire il gioco. Ecco una delle tante novità che già oggi rendono la prossima corsa al Colle assai diversa rispetto alle edizioni precedenti. E c’è più di un motivo se l’ex segretario del Pd ha lanciato pubblicamente la candidatura di Prodi come successore di Napolitano. Nel partito c’è chi dice l’abbia fatto per riproporre sulla scena la generazione dei «rottamati», c’è chi sostiene l’abbia fatto per lanciar poi se stesso, e c’è infine Bersani, che da tempo voleva render nota la sua idea: «Aspetto che Renzi mi risponda “Prodi no”. Gli dirò che l’avevo capito due anni fa...».
Muovere un pezzo così pregiato ed esporlo immediatamente al sacrificio, vale se garantisce al giocatore la possibilità di mettere sotto scacco l’avversario. E Bersani infatti dichiara scacco al premier, additandolo come regista della famosa «operazione dei 101» che fu il principio della fine per l’allora capo della «ditta». Non è uno scacco matto, figurarsi. Ma ora le parti si sono rovesciate, ora è Renzi a dover fronteggiare lo stesso Parlamento e un partito — il suo — dove persino dirigenti a lui vicini ammettono sottovoce che «non sarà facile gestire i gruppi», specie dopo lo scandalo della norma fiscale «salva Berlusconi» per la quale si sentono a disagio.
Loro, non Renzi. Addossandosi di nuovo la responsabilità del codicillo contestato — un autentico segreto di Pulcinella nel Palazzo — e ripetendo che «la manina era la mia» e che «tornerò a metterci mano dopo l’elezione del capo dello Stato», il premier prova a rovesciare il gioco. Visto che aspettano il voto segreto per tendergli un agguato, lui a sua volta vuol tenere alleati e rivali tutti appesi: il Pd, i partner di governo e in misura minore Berlusconi, che già stava appeso e che ora gli starà ancor più appresso, data la posta in palio personale. È una mossa spericolata quella di Renzi, non c’è dubbio, ai limiti dell’azzardo. Un’altra novità paragonata ai metodi passati.
Ma il capo dei democrat scommette su due cose: intanto è convinto che la tempesta provocata dalla norma «salva Berlusconi» si placherà nel giro di pochi giorni, giusto il tempo che esca dal circuito politico-mediatico; e poi ritiene che sul Quirinale nel Pd prevarrà quello che lui definisce «senso di responsabilità istituzionale», e che i suoi avversari interni bollano come «conformismo opportunista». La traduzione, che val bene per entrambe le versioni, è: alla fine, dove vanno? Anche perché Renzi ha fatto i conti: al momento calcola al massimo 150 franchi tiratori, ma dalla quarta votazione ne servirebbero 190 per uccellarlo. Più che a una mediazione, insomma, si prepara a una prova di forza. Anche in questo caso non ci sono precedenti.
Così come non era mai accaduto che per il Colle ci fosse un florilegio di candidature: avanti di questo passo ci saranno più quirinabili che grandi elettori. E Renzi pare alimenti ad arte questa moda, muovendo pezzi sulla scacchiera prima ancora che inizi la partita. Tolto di mezzo Padoan, vittima eccellente sull’altare del Nazareno, il premier si esercita a testare i suoi interlocutori. Ognuno ovviamente fornisce una versione diversa delle volontà di Renzi. «Sono a caccia di una donna». E poi compare il nome di Bassanini. «Voglio una soluzione concordata». E poi spunta l’asse tra Lotti e Verdini. «Non è un incarico per un improvvisato». E intanto Grasso non fa che parlare dell’imminente periodo di supplenza al Quirinale. «Niente nomi per ora». E però chiede: «Ma secondo te, quello lì...».
Come un Mourinho che nelle vigilie importanti sente il rumore dei nemici, Renzi fa «pretattica sfrenata» per dirla con Bersani, che l’altro giorno ai suoi compagni ha raccontato: «Matteo di nomi ne ha già fatti almeno una decina. Praticamente tutti». E dietro quella risata c’è la consapevolezza — anche in autorevoli ministri del Pd — che il premier tenga coperta la vera mossa, da spendere al momento opportuno per dichiarare scacco matto al Parlamento. Chissà. Se ci riuscisse, sarebbe un’assoluta novità.
Di sicuro una novità, un’altra, c’è. Perché non solo Renzi tiene tutti appesi con la norma «salva Berlusconi», anche i grandi elettori sono appesi alla data ufficiale d’inizio della corsa per il Colle. Da tempo l’ipotesi più accreditata dal Quirinale è che Napolitano si dimetta il 14 gennaio, subito dopo il rendiconto del premier per la chiusura del semestre italiano in Europa. Ma visto che al Senato il voto sulla legge elettorale inizierà solo il 13, da ieri in Parlamento ha preso a circolare la voce che il capo dello Stato possa posticipare di qualche giorno il suo addio. Il Cavaliere — già in ansia per la supplenza di Grasso — ha chiesto preoccupato se il ritardo avrebbe implicazioni politiche. Sulla corsa al Colle no. Slitterebbe solo la decisione di Renzi sul decreto fiscale...

Repubblica 9.1.15
Prodi e salva-Silvio l’ultima trincea dei bersaniani per fermare Renzi
di Stefano Folli


Il segretario della Lega Salvini sta diventando l’unica voce dell’opposizione
NON ha torto Matteo Salvini quando nota l’anomalia di un’Italia politica assorbita dalla discussione per iniziati intorno alla legge elettorale mentre l’attenzione dell’Europa è tutta per l’11 settembre francese e le sue ricadute. Avrebbe ancora più ragione se in Parlamento la Lega non fosse coinvolta allo stesso livello degli altri gruppi intorno alle clausole della riforma. E non c’è da stupirsi, visto che dall’esito di queste manovre dipendono gli assetti dei prossimi anni.
D’altra parte, le anomalie non finiscono qui. Proprio la strage di Parigi ha proiettato Salvini sulle reti televisive come unica voce di peso dell’opposizione non «grillina». Si conferma il vuoto nel centrodestra, vuoto sempre più colmato dalla Lega, a fronte di un Berlusconi vincolato all’intesa con Renzi. E viceversa. Di conseguenza emerge una terza anomalia. Quasi alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica la vera dialettica non è fra il Pd e Forza Italia, bensì fra il Pd fedele alla linea del presidente del Consiglio e il Pd dissidente, vale a dire la più volte citata minoranza dei Bersani, D’Alema, Civati e altri. Un gruppo frastagliato, privo di disciplina interna e finora sconfitto in tutte le schermaglie intrecciate con il premier.
Oggi qualcosa sta cambiando? È presto per esserne certi, ma se gli avversari di Renzi vogliono giocare la loro partita in vista del Quirinale, questo è il momento di entrare in campo. Ecco perché sono interessanti le affermazioni rese ieri da Bersani, ex segretario del partito uscito di scena dopo il voto del 2013 e la rielezione di Napolitano. Allora, quando si trattò di eleggere il capo dello Stato, «ci fu un mix fra chi non voleva Prodi e chi non voleva Bersani. C’era qualche complotto in giro...». Bersani parlava all’”Aria che tira” e le sue parole sembrano pesate con una certa cura.
L’accusa di complotto è solo in apparenza generica. In realtà l’ex segretario e i suoi amici sono convinti che sia stato Renzi il regista del sabotaggio, attraverso i fatidici 101 franchi tiratori che affossarono la candidatura di Prodi e di fatto misero anche il segretario con le spalle al muro. Avere evocato quell’episodio — e non è la prima volta — ha un solo significato: la richiesta al presidente del Consiglio di sanare la ferita di quasi due anni fa «ripartendo da Prodi». Una sorta di «heri dicebamus» che implica un negoziato fra Renzi e la minoranza. Per meglio dire, fra Renzi e Bersani stesso.
Sotto il profilo della convenienza politica, il premier avrebbe tutto l’interesse ad accogliere l’invito. Ma l’uomo è spavaldo e non gradisce che gli si tagli la strada. Bersani, del resto, non gli ha lesinato critiche sul pasticcio del decreto fiscale. A conferma che quello è il punto dolente su cui il pragmatismo renziano può incagliarsi, ovvero può riprendere slancio sfruttando fino in fondo l’appoggio esterno di Berlusconi. Sta di fatto che ieri a Palazzo Madama, in sintonia con l’intervento del suo vecchio segretario, il senatore Mucchetti ha chiesto la presenza di Renzi in aula per spiegare la genesi della fatidica norma cosiddetta salva-Berlusconi inserita nel decreto. Mucchetti ha parlato a titolo personale, ma con l’autorizzazione del suo gruppo. Ha usato un tono misurato, così da non mescolarsi coi gruppi d’opposizione, dai Cinque Stelle al Sel, ma le frasi erano inequivocabili.
Ovvio che il presidente del Consiglio non si piegherà alla richiesta. Tuttavia il doppio segnale fuori e dentro il Parlamento (Bersani e il puntiglioso senatore) non va sottovalutato. C’è un segmento del partito che chiede a Renzi di tornare in un certo senso al 2013. Il che significa non ricadere nella tentazione del «veto » e non escludere Prodi e forse lo stesso Bersani dalla rosa dei possibili candidati alla presidenza. Ieri la minoranza del Pd ha messo le carte in tavola; vedremo come risponderà Renzi nei prossimi giorni.

il Fatto 9.1.15
Svizzera, a chi conviene l’accordo
Aliquote favorevoli per i capitali nascosti all’estero da oltre otto anni
Attesi 30 miliardi su 2-300
di Camilla Conti

Milano Le trattative vanno avanti da qualche anno. Ci aveva provato, invano, il governo di Mario Monti. Gli sherpa di Enrico Letta erano arrivati a un passo dalla meta annunciando a più riprese il “quasi goal” senza però sfondare mai la porta. Dopo due anni e mezzo di negoziati, l’accordo ora sembra arrivato e nelle prossime settimane è attesa la firma fra Italia e Svizzera sulla revisione dell’accordo di doppia imposizione e sulle modalità per lo scambio automatico di informazioni.
L’accelerazione decisiva è scattata a inizio dicembre, dopo che il Parlamento italiano ha approvato la legge sulla cosiddetta voluntary disclosure per l’emersione dei capitali detenuti illecitamente all’estero. La nuova legge fissa infatti nel 2 marzo l’ultimo giorno utile per firmare intese fiscali che consentano ai Paesi inseriti oggi nella “black list” dei paradisi fiscali di passare nella “white list”. Una volta firmato l'accordo, gli italiani potranno mettersi in regola pagando sanzioni più basse rispetto a quelle previste nel caso di Paesi inseriti nella “lista nera”. Secondo gli esperti, il rientro dei capitali è conveniente se i capitali si trovano in Svizzera da più di otto anni, quindi già prescritti. In questo caso il costo del rimpatrio si aggira tra il 12 e il 15 per cento. Se invece si trovano all’estero da meno di otto anni, il costo può arrivare al 50 per cento. Per i patrimoni leciti come le vecchie eredità, i patrimoni dei professionisti e gli utili societari sottratti al fisco italiano la sanzione prevede il pagamento delle imposte sui rendimenti per ogni anno di permanenza all’estero, oltre alle multe e agli interessi per il ritardato pagamento e alle sanzioni per la mancata comunicazione sul quadro Rw della dichiarazione dei redditi. Ci sarà tempo fino al prossimo 15 settembre per autodenunciarsi al Fisco e godere degli sconti. Rispetto agli scudi fiscali precedenti, però, non è previsto l'anonimato sui capitali rimpatriati.
LA PROMOZIONE alla lista bianca conviene alla Svizzera, perché consentirà alle sue imprese di operare con più facilità in Italia. Quanto a Renzi, conta di recuperare un po’ di ossigeno per i conti pubblici. La norma introdotta nell’ultimo decreto Milleproroghe, inoltre, punta ad attingere 671 milioni già da quest’anno dalle entrate derivanti dal rientro dei capitali per evitare l'aumento degli acconti d'imposta del prossimo autunno e il rincaro delle accise sulla benzina a partire dal 2016. Secondo alcune stime riportate nei giorni scorsi da Italia Oggi, gli italiani hanno depositato in Svizzera nel corso degli anni tra i 200 e i 300 miliardi di euro. Di questi, il 40% circa non ha goduto in passato di alcuna forma di regolarizzazione. Le previsioni degli analisti parlano dunque di circa 80-120 miliardi di euro che potrebbero venire interessati dall'ultima voluntary disclosure varata dal parlamento. Ma soltanto una metà dovrebbe approfittare della manovra e non più di 25-30 miliardi di euro sembrano destinati a rimpatriare.

Repubblica 9.1.15
Cina
“Donne giovani e belle” E ora arriva il casting delle mamme in affitto
Sempre più coppie vogliono figli “perfetti”
A Pechino è boom di donazione di ovuli
di Giampaolo Visetti

PECHINO GIOVANI , belle e intelligenti ». Gli inviti ai casting occupano uno spazio speciale nelle università più esclusive, in multinazionali e ristoranti di lusso. Le agenzie cinesi non cercano attrici e modelle. Oggi sono a caccia di mamme per conto terzi.
La nazione più popolosa del mondo vede lo spettro di un invecchiamento record e il business della donazione di ovuli registra un boom senza precedenti. Le coppie che non possono avere figli non si accontentano di una donatrice scelta dal destino. Pretendono ciò che i mutati canoni della bellezza asiatica suggeriscono essere il massimo: «Pelle chiara, altezza oltre 160 centimetri, occhi a ciliegia». Per il mercato nero della fecondazione è una pioggia d’oro. Migliaia di ragazze e di ragazzi, grazie alla donazione, possono pagarsi gli studi, o permettersi lo shopping. Un successo per tutti: i clienti ottengono l’erede che sognano, i donatori guadagnano un reddito inatteso e lo Stato conta sulla frenata del crollo demografico.
«Il vero affare però — avverte il quotidiano Beijing News — lo fanno i mediatori». Per ovuli first class le agenzie trattengono fino all’equivalente di 9mila euro, una fortuna. Informazioni confidenziali, ma avvocati e attiviste per i diritti delle donne denunciano che, chiusa l’era del figlio unico, si apre quella di «aste e selezione preventiva della specie ». Gli annunci delle agenzie, a Pechino e a Shanghai, dilagano anche per le strade, sui mezzi pubblici e nelle bacheche elettroniche degli atenei. Le studentesse da concorso di bellezza e con un curriculum da genio strappano fino a mille euro per ogni donazione, corrisposto ufficialmente come «sussidio per il vitto».
Il sogno di un discendente fuori dal normale è così irresistibile che ai commercianti di ovuli si rivolgono pure le coppie che non avrebbero problemi a generare in modo naturale. La nuova classe media, sopravvissuta al trauma degli aborti forzati di Stato, scopre il ribattezzato «effetto Hollywood »: tutti devono essere belli e di successo, per trasformarsi nei «consumatori-tipo» pianificati dal partito. Se la storia familiare non testimonia esemplari all’altezza delle attese, meglio rivolgersi al mercato che affrontare una delusione. «La donazione degli ovuli — si difendono le agenzie — non è pericolosa e aiuta i partner che non possono concepire un bambino. Limitarla per legge è un’altra forma di condizionamento della libertà individuale».
I problemi, per il traffico clandestino, esplodono quando i clienti si sentono truffati: neonati come gli altri, figli con handicap, eredi che non vogliono studiare, o con un profilo non scolpito dal chirurgo estetico. Migliaia, nell’ultimo anno, le denunce di mediatori accusati di non aver selezionato ovuli di «qualità sufficiente ». Le autorità, dopo il primo freno tirato nel 2006, intimano ora «visite mediche e raccolta ovuli solo negli ospedali pubblici». La legge considera però solo i fattori sanitari, non quelli narcisistici, e s’ingrossa l’esercito di chi pretende un figlio non per amore, ma per esibizionismo. La Commissione nazionale per la salute rivela che l’87 per cento delle coppie che pensa ad un bebè in provetta pone avvenenza e quoziente intellettivo in testa alle priorità, prima ancora della salute.
Negli ultimi trent’anni, dopo che Deng Xiaoping limitò le nascite, la precedenza è stata data al sesso: niente femmine, solo maschi, per assicurarsi lavoro e sostegno economico nella vecchiaia. «Social network e industria del cinema — osserva l’Accademia delle scienze di Pechino — rovesciano i valori: in Cina non servono più braccia, ma intelligenze a volti adatti alla società dei consumi». Medici e ricercatori ripetono che i caratteri dei donatori non sono automaticamente riscontrabili negli individui nati da ovuli impiantati e le autorità hanno appena limitato a cinque donne gli spermatozoi provenienti da un unico donatore. Campagna vana, vista la moltiplicazione di agenzie e cliniche della fertilità anche in villaggi e regioni meno ricche. Sotto accusa finiscono così i veleni che minano la salute dei cinesi e lo stile di vita che sconvolge la società. Gli scienziati avvertono che mai come oggi la popolazione più numerosa del pianeta si scopre affetta da deficit di fertilità, mentre i sociologi lanciano l’allarme sulla «solitudine imposta dall’urbanizzazione forzata». Un’ignota mamma «bella, alta e intelligente » serve per dimostrare di «avercela fatta». Ma per milioni di cinesi l’investimento è anche l’unica possibilità di avere un contatto, pur a distanza, con qualcuno.

Corriere 9.1.15
L’impronta di Augusto su Roma
di Eva Cantarella


«Se lo spettacolo vi è piaciuto, applaudite» disse Augusto prima di morire, dopo aver chiesto uno specchio ed essersi pettinato. Così quantomeno scrive Svetonio, e poco importa che l’aneddoto sia vero o falso. A far pensare alla vita di Augusto come a uno spettacolo contribuiscono, in effetti, non pochi elementi: il carattere dell’uomo, come pochi altri consapevole dell’importanza della sua immagine pubblica e privata, la sua genialità nel conquistare e mantenere il consenso e nel legare la gens Iulia, alla quale apparteneva, al mito delle origini troiane di Roma (e quindi a una sua remota ascendenza divina).
Fu veramente uno spettacolo, la vita di Augusto, sotto il cui governo Roma si trasformò da Repubblica in Principato, mentre la città, secondo il suo progetto, assumeva anche urbanisticamente un nuovo aspetto. Ed ecco, oggi, un libro di uno dei maggiori archeologi italiani, e non solo, Andrea Carandini, accompagnarci in una visita a quella Roma. Il libro si intitola La Roma di Augusto in 100 monumenti (Utet, pp.144, € 30) e anche se sarebbe riduttivo definirlo tale è, in primo luogo, una straordinaria guida ai monumenti riconducibili al periodo del potere augusteo (44 a.C. - 14 d.C.).
Individuati tra gli strati di rovine che i secoli hanno accumulato e sovrapposto, questi monumenti guidano il lettore in una visita che non è solo archeologica. Accompagnata da un apparato di testi (affidati, per ciascuno degli scavi, a uno dei nove archeologi che hanno collaborato con Carandini e illustrati da un eccezionale apparato iconografico), questa straordinaria visita contestualizza i monumenti, restituendone non solo l’immagine, ma anche la funzione e la storia. Classificati per tipologie (quelli dedicati a infrastrutture e servizi, quelli amministrativi, i luoghi di culto, gli edifici per la produzione e il commercio, quelli per le attività culturali, i monumenti onorari, le abitazioni, le aree funerarie) i documenti, nel loro insieme, prospettano un quadro generale della cultura dell’epoca, sotto tutti i suoi diversi aspetti. Qualche esempio, partendo dal diritto pubblico: la descrizione del luogo destinato alle votazioni assembleari (chiamato Saepta Iulia, dopo la sua ristrutturazione, portata a termine da Augusto) offre informazioni fondamentali sulle trasformazioni del sistema politico romano: tra l’altro, quelle che riguardano le basi sulle quali veniva concesso il diritto di voto e su come si svolgevano le operazioni elettorali.
Passando ad altro tipo di monumento: la casa delle Vestali. Sorteggiate tra le famiglie più in vista quando avevano un’età tra i 6 e i 10 anni, le sacerdotesse di Vesta erano tenute a un voto di castità che le vincolava per 30 anni, e punite con una morte orribile (la vivisepoltura) se venivano meno al voto. Oltre che ad avvicinarci alla religione dei nostri antenati, la visita alla loro casa contribuisce alla conoscenza di alcuni importanti aspetti della condizione femminile.
E ancora: il tempio dedicato a Marte Ultore (vendicatore), costruito da Augusto per adempiere un voto fatto poche ore prima della battaglia di Filippi, in cui sconfisse i cesaricidi, offre molti spunti per riflettere su una caratteristica importante della cultura e del diritto romano, vale a dire la persistenza della concezione arcaica della vendetta intesa come imprescindibile dovere sociale.
Inutile insistere sull’interesse e l’importanza di questo libro, sul quale tante altre cose si vorrebbero dire. Non potendolo fare, non resta che lasciare il piacere di scoprirle a chi lo leggerà.

Corriere 9.1.15
Come e dove fu ucciso Berija, l’uomo dei segreti
risponde Sergio Romano


Mi ero fatto l’idea che Berija, capo dell’Nkvd, fosse un uomo spietato, vizioso e autoritario. Però la Nezavisimaya Gazeta ha pubblicato lettere, documenti e testimonianze, in gran parte inediti, da cui emergerebbe un quadro differente del personaggio. Sembrerebbe che fosse un riformatore che non era riuscito nell’intento di apportare una svolta nella politica sovietica. Aveva proposto, tra l’altro, dopo la morte di Stalin, la liberazione di tanti condannati ai lavori forzati, ma aveva trovato l’opposizione di Kruscev e di altri capi del Politburo. Non è una novità, ma in precedenza correva fama che costoro l’abbiano strangolato e non fatto giustiziare dopo un processo. Fu Kruscev a narrarlo a Pajetta in un momento di sincerità dovuta all’alcol.
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Secondo uno studioso polacco (Thaddeus Wittlin), autore di una biografia di Lavrentij Berija, sulla sua morte esistono non meno di cinque versioni. Secondo una prima versione sarebbe stato arrestato di fronte al Teatro Bolshoi, mentre stava per assistere alla prima rappresentazione di un’opera sui Decabristi, e trasportato immediatamente alla Lubjanka per un rapido processo, seguito un colpo di pistola alla nuca. Secondo un’altra tesi, sarebbe stato «preso in carico» dai maggiori esponenti del regime dopo un ricevimento all’ambasciata di Polonia e subito portato alla Lubjanka, dove la sua sorte sarebbe stata quella descritta nella prima versione.
Secondo una terza tesi, il processo politico a Berija avrebbe avuto luogo al Cremlino, nella notte del 26 giugno 1953, durante una riunione del Consiglio dei ministri, allora presieduto da Georgij Malenkov. Gli sarebbe stato rimproverato di avere preso iniziative indipendenti e azzardate, senza consultare i colleghi del governo e del Presidium del partito: la liberazione dei medici ebrei, accusati da Stalin di avere complottato contro il regime, e la benevolenza dimostrata verso i berlinesi che erano scesi in piazza, dieci giorni prima, per protestare contro la politica economica e sociale della Repubblica democratica tedesca.
Quanto alla morte, esistono, alla fine di questa terza versione, sceneggiature diverse. Messo alle strette, Berija avrebbe cercato di estrarre una pistola dalla borsa, ma Krusciov avrebbe afferrato il suo braccio e deviato la canna verso il soffitto. Chiamato da Malenkov, sarebbe apparso immediatamente nella sala del Consiglio il generale Kirill Moskalenko, eroe della battaglia di Kursk, che avrebbe abbattuto Berija con un raffica di fucile mitragliatore. Secondo altre versioni, diffuse da Krusciov in tempi diversi, il giustiziere sarebbe stato lo stesso Krusciov o un altro bolscevico della prima guardia, Anastas Mikojan. Esiste infine una versione ufficiale secondo cui Berija, arrestato in giugno, sarebbe stato processato e fucilato in dicembre. Sul Corriere del 6 maggio 2000, Vittorio Strada ha pubblicato la lettera che Berija avrebbe scritto prima dell’esecuzione per protestare la sua innocenza e chiedere ai «cari compagni» la nomina di una commissione d’inchiesta.
Fu un riformatore? Forse, ma le sue riforme, come quelle di Krusciov, erano probabilmente lo strumento di cui si sarebbe servito per scalare il potere e sbarazzarsi del maggiore numero possibile dei suoi molti nemici. Per raggiungere lo scopo avrebbe fatto largo uso di tutte le informazioni compromettenti sui suoi compagni di partito che aveva raccolto negli anni in cui era capo dei servizi di sicurezza e ministro degli Interni. Fu questa la ragione per cui fu eliminato.

Repubblica 9.1.15
“Il vero Bach si chiamava Magdalena”
Il direttore d’orchestra Martin Jarvis: le “Suites” le ha composte la moglie
“Lei era un genio e le partiture sono sue. Ho le prove certe: c’è anche la firma”
di Roberto Brunelli


ANNA Magdalena era giovane, forse bella. Era devota a suo marito. Suo marito era tutto, suo marito era un genio, suo marito era il Kapellmeister Johann Sebastian Bach. Lo accompagnava in concerto. Lei cantava, lui suonava il clavicembalo. Ma ancora più spesso la ragazza se ne stava in casa, a Köthen, china sulle carte. A trascrivere partiture. Copie su copie, centinaia di pagine di suoni. Musica assoluta, rivolta a Dio. Fin qui la storia, quella conosciuta: lui il creatore, lei la fedele copista.
Ora, però, c’è un signore di nome Martin Jarvis, riverito professore alla Charles Darwin University in Australia e direttore d’orchestra, il quale se ne esce con una teoria — lui parla di “prove” — che mette sottosopra non solo quella storia ma anche gli ultimi trecento anni di conoscenza musicale. Eccola: le “Suites per violoncello solo”, monumento dell’ingegno umano come lo sono la Cappella Sistina per l’arte o le Piramidi nell’architettura, non le ha scritte Johann Sebastian Bach. Le ha scritte Anna Magdalena, sua seconda moglie. Lui, Jarvis, esibisce prove grafologiche, una serrata ricostruzione storica e analisi approfondite sul manoscritto realizzato dalla giovane sposa (l’originale autografo del Kapellmeister è andato perduto — o non esiste, appunto): insomma quelle pagine sono Written by Mrs Bach , come dice il titolo del libro di Jarvis e anche di un documentario che sta facendo furore in vari festival europei. Ovvio che le teorie del professore e musicista — nonché figlio di un commissario di polizia gallese — incontrano molta fiera ostilità e discreto sconcerto, soprattutto in ambito accademico: ma sono critiche alle quali lui contrappone un’intera vita di studioso nei meandri della “galassia Bach”, compresi saggi, lezioni universitarie, articoli scientifici.
Scusi, professor Jarvis, ci spieghi bene: è come se qualcuno oggi ci dicesse “non è stato Leonardo a dipingere la Gioconda”...
«Quel che dico io è che le Suites per violoncello sono l’opera di un genio: e questo è Anna Magdalena Bach! Dunque, noi accettiamo senza problemi che Mozart a cinque anni fosse un fenomeno musicale, ma ci sembra impossibile dare lo stesso credito ad una giovane ragazza, una ventenne di cui già sappiamo che fosse un grande talento. Johann Sebastian era suo insegnante e mentore, indubbiamente, ma lei era un genio. Il che appare in tutta la sua evidenza a qualsiasi musicista che esamini da vicino la relazione armonica tra i due minuetti e la sua progressione nel secondo minuetto nella prima Suite».
Ma com’è giunto a questa scoperta?
«Sin dal primo momento in cui ho suonato il preludio della prima Suite, nel 1971, da studente alla Royal Academy of Music, il mio istinto mi disse che questa non era musica di Johann Sebastian. Il mio professore di viola Winifred Copperwheat mi raccontò che non esiste un manoscritto originale di Bach delle Suites. M’insospettii subito: c’è qualcosa di sbagliato in questa storia, pensai. Dopodiché, io capovolgo il ragionamento: da un punto di vista strettamente musicale, non c’è alcuna prova che sia stato Johann Sebastian il compositore delle Suites: mancano, per così dire, le “impronte digitali” del suo stile. In altre parole, se venissero alla luce adesso, niente le identificherebbe come musica di Bach».
Lei si è rivolto anche ad esperti calligrafi forensi, che hanno analizzato i manoscritti di Bach e di sua moglie, giusto?
«Sì. Le prove dimostrano la presenza della grafia e della scrittura musicale di Anna Magdalena anche in manoscritti in cui per tradizione non dovrebbero essere presenti, ossia in partiture che risalgono al 1713, ben sette anni prima di quando i libri di storia dicono che lei sia entrata nella vita di Bach. Uno degli esperti da me interpellati, Heidi Harralson, dichiara esplicitamente che vi è “un ragionevole grado di certezza scientifica” che sia stata Anna Magdalena a comporre le Suites. E infine c’è quella “firma” che appare su uno dei due manoscritti attraverso i quali l’opera è giunta a noi: “Ecrite par Madame Bachen, son Epouse”, ossia “scritto da madame Bach, sua sposa”. Fu il colpo di fulmine sulle mie lunghe e intense ricerche».
Ma sono un’opera rivoluzionaria, che ha ridefinito completamente il suono del violoncello...
«Certo, e non sorprende che Rostropovich le abbia suonate davanti al Muro di Berlino quando crollò. Anzi, le dico che sono ben più rivoluzionarie di altre pagine similari di Bach, per esempio le Sonate e Partite per violino solo: ogni singolo aspetto delle Suites è innovazione pura. Lo ripeto: sono state composte da un genio, Anna Magdalena, “messe insieme” ( composee) con l’assistenza di suo marito, Johann Sebastian, come indicato nel manoscritto di cui le dicevo prima».
I suoi critici però dicono che le Suites non possono esser state composte da Anna Magdalena perché aveva troppi figli a cui badare: ben tredici. Cosa risponde?
«Un argomento miserevole che ho sentito così spesso da musicisti maschi che chiaramente non sanno quanti compositori donna con bambini ci siano stati nella storia. Vi sono compositrici sin da quando esiste quella forma d’arte che si chiama musica, solo che queste non sono state riconosciute. A parte questo, casa Bach aveva molti domestici, e la prima cognata di Johann Sebastian ha vissuto con loro fino alla sua morte nel 1729, molti anni dopo che le Suites erano state composte. E poi non ci sono mai stati tutti quei bambini contemporaneamente in quella casa, molti purtroppo morirono prematuri ».
Ritiene che anche altri capolavori di Bach si possano attribuire ad Anna Magdalena?
«Sì, ritengo che lei abbia composto anche diverse pagine del primo e del secondo libro del Clavicembalo ben temperato, l’Aria delle Variazioni Goldberg e che ci sia qualche suo inserto nelle Sonate e Partite per violino solo. E forse anche molto di più».
Casals, Fournier, Yo Yo Ma, Rostropovich, Brunello… per i grandi violoncellisti della storia le Suites rappresentano più o meno l’apice di una carriera. Qual è l’interpretazione che lei ama di più?
«Io veramente adoro la versione del violoncellista inglese Stephen Isserlis: anche se lui proprio si rifiuta di credere alla mia teoria...».
Che tipo di persona era Anna Magdalena?
«Era una musicista estremamente dotata, probabilmente assai ambiziosa e guidata da un profondo desiderio di comporre musica. Penso anche che fosse molto bella: Bach fece realizzare un suo ritratto dopo il 1730 e lo teneva sempre con sé. La loro è una storia di vera passione amorosa. Purtroppo, quel ritratto è andato perduto. Ma lei, Anna Magdalena, finalmente l’abbiamo ritrovata».