sabato 19 maggio 2012

il Fatto 19.5.12
Giovane, donna, musulmana è la voce di Hollande
Ministro, parlerà per il nuovo governo di Francia a soli 34 anni
di Gianni Marsilli


Tra la piega severa di Jean Marc Ayrault, l’aristocratico portamento di Arnaud de Montebourg, la pelata pensosa di Pierre Moscovici, lo sguardo altero di Laurent Fabius, spiccano già nel governo francese i due vivissimi occhi da scugnizzo e il pronto sorriso di Najat Vallaud Belkacem, nominata portavoce dell’esecutivo nonché ministro delle Pari opportunità, che qui si chiama dei Diritti delle donne. Nei giorni scorsi, quando i suoi colleghi affettavano la solita indifferenza d’ufficio per il loro destino di governo, lei non stava nella pelle dall’impazienza, e lo diceva.
HA ASPETTATO la nomina al tavolino di un caffè di Lione, sua città di adozione. È lì che ha ricevuto la fatidica telefonata di “François”, testimoni diretti una giraffa e una telecamera, tranquillamente ammesse alla breve conversazione tra i due. Quindi abbracci e baci con gli amici, senza infingimenti. Era felice, e si vedeva. Così è questa giovane donna di 34 anni, bruna e sottile, “puro prodotto della Repubblica”, come le piace definirsi. La sua biografia è lì a testimoniare una storia di integrazione riuscita. Najat nacque infatti in un villaggio del Rif marocchino, Beni Chiker, da dove suo padre era partito in cerca di lavoro: lo esigevano le bocche dei suoi sette figli. L’aveva trovato come muratore nella banlieue di Amiens, nel profondo nord piccardo, dove lei lo raggiunse nell’81 quando aveva quattro anni. Ragazza brillante, a neanche vent’anni era già ammessa alla mitica Sciences Po, la culla delle élites della rue Saint Guillame. Da quel momento, racconta, è stato “un succedersi di incontri che hanno precipitato le cose”. Il primo, il suo professore di diritto la cui moglie era una deputata socialista, Beatrice Marre, che ricorda: “Era appassionata e gran lavoratrice”. Ancora studente, divenne già assistente parlamentare. Nel 2002, dopo l’irruzione di Jean Marie Le Pen al secondo turno delle presidenziali, aderire al Ps fu una reazione naturale, e da lì cominciò l’ascesa politica.
IL SECONDO incontro fu con Gerard Collomb, peso massimo del partito e soprattutto sindaco di Lione, che la volle nel suo staff. E poi nel consiglio regionale del Rodano-Alpi, il suo primo successo elettorale. A seguire, nella giunta comunale lionese, come assessore alla gioventù. Nel 2006 l’incontro con Ségolène Royal che preparava la sua candidatura alle presidenziali. Racconta Montebourg che all’epoca Najat “fece fronte con intelligenza e sangue freddo”. Fu ancora con Ségolène alle primarie socialiste dello scorso anno, per poi allinearsi con il vincitore Hollande: “Disciplinata e legittimista”, la definì quest’ultimo, prima di nominarla portavoce della sua campagna. Tutto ciò non le ha impedito, nel frattempo, di convolare a giuste nozze con un alto funzionario dell’amministrazione pubblica e di mettere al mondo due figli. Najat è di gentile aspetto ma di lingua pronta e assai puntuta, fino ad una certa ferocia. Non esitò a definire Sarkozy come “un impasto tra Berlusconi e Putin”, paragone che persino alcuni dei suoi compagni trovarono ingeneroso. Si dice musulmana, per quanto non praticante. Ha la doppia nazionalità franco-marocchina, e non intende rinunciarvi con gran dispetto di quelli del Fronte nazionale e di non pochi dell’Ump, la destra parlamentare. Ieri del resto una fedelissima di Sarkozy, Nadine Morano, si è detta preoccupata per il futuro delle donne francesi: “Najat Belkacem era contro la legge che ha vietato il burqa”.
MA A VEDERLA salire lo scalone dell’Eliseo, sempre con quell’aria sbarazzina ma bella elegante nel suo giacca pantalone finemente rigato, era l’immagine della modernità: la bionda Morano non si è meritata nemmeno una replica. Najat del resto non vuole essere la Rachida Dati dell’equipe di Hollande. Si considera pienamente assimilata, non intende “rappresentare la diversità”. È francese e repubblicana, nel senso pieno del termine. E tanto peggio per chi la vorrebbe rispedire nel suo Rif natale.

Corriere 19.5.12
Il favoloso mondo di Aurélie Da figlia di minatore italiano ad arbitro della cultura francese
La ministra Filippetti: «Fiera delle mie radici»
di Stefano Montefiori


PARIGI — La prima visita da ministro della Cultura, ieri, è stata agli operai dell'acciaieria Arcelor Mittal di Florange, in Mosella, che temono di perdere il lavoro. «Ha preferito venire subito da noi invece che andare a Cannes, non lo dimenticheremo», dice il sindacalista Edouard Martin ai cancelli della fabbrica. Al Festival era già tutto pronto per accogliere la ministra ma la Croisette dovrà aspettare domani. In un partito socialista spesso accusato di dimenticare le sue radici popolari, la 38enne normalista di lettere classiche, scrittrice e neo-ministro Aurélie Filippetti resta attaccata alle origini. Che sono la classe operaia, e l'Italia.
La famiglia di Aurélie viene da Gualdo Tadino, in Umbria, abbandonata dal nonno Tommaso dopo la Grande Guerra per andare a lavorare nelle miniere della Mosella, in Francia. Militante antifascista, entrato nella resistenza contro i tedeschi, Tommaso Filippetti morì nell'aprile 1945 nel lager nazista di Bergen Belsen. Suo figlio Angelo ha fatto anche lui il minatore, ed è stato per 10 anni il sindaco comunista del paesino di Audun-le-Tiche. È morto nel 1992, di un cancro ai polmoni preso in miniera.
Due giorni fa, alla cerimonia di insediamento tra gli stucchi e gli ori di rue de Valois, il ministro uscente Frédéric Mitterrand che cedeva il posto a Aurélie ha raccomandato alla madre Odette Filippetti (nata Rovere), che sedeva commossa in prima fila, di essere «fiera di sua figlia». Ma la ministra della Cultura venuta da lontano, poco dopo, ha commentato in italiano «che in questo momento bisogna essere fieri non di me ma di mio nonno, che è morto per la libertà di tutti noi, e fieri di mio padre, che con il suo lavoro mi ha permesso di arrivare dove sono adesso».
Aurélie Filippetti ha raccontato le vicende della sua famiglia nel suo primo romanzo, «Gli ultimi giorni della classe operaia», uscito in Francia dieci anni fa e edito in Italia da Tropea. In quel libro, che ottenne un grande successo e ottime recensioni, l'allora militante ecologista Aurélie raccontava del padre Angelo «che si alzava tutte le mattine alle cinque ed era già sotto terra quando mi svegliavo. Una volta che il cancro al polmone lo colpì, sputava di continuo, come tutti i vecchi minatori». E ancora, nei ricordi d'infanzia della Filippetti, il maiale ammazzato una volta l'anno per preparare la porchetta (in italiano nel testo) da servire alla festa della cellula sindacale, o gli gnocchi fatti a mano dalla mamma ogni domenica. Grazie ai sacrifici dei genitori, la figlia di minatori Aurélie Filippetti ha potuto studiare lettere classiche all'École normale supérieure di Fontenay-Saint-Cloud, ed è oggi ministro in una Paese, la Francia, dove la Cultura è da sempre uno dei dicasteri più importanti del governo. Ma gli inizi non furono facili. «Ci chiamavano macaronì, in senso dispregiativo», ha raccontato la Filippetti qualche anno fa quando è tornata a Gualdo Tadino. Nella cittadina umbra la Filippetti era già andata da bambina, accompagnata dal padre per il gemellaggio con Audun-le-Tiche. «Fu un momento importantissimo per tutti gli emigrati italiani di Audun-le-Tiche — fu poi il commento della Filippetti, riportato dal Giornale dell'Umbria —, perché una parte del nostro cuore rimane a Gualdo. Per costruire bene l'avvenire è fondamentale conoscere il passato e essergli fedele».
Sposata, con una figlia tredicenne, Aurélie Filippetti ha collaborato a lungo con Ségolène Royal prima di sostenere François Hollande al momento della candidatura per le presidenziali. Durante la campagna elettorale era lei, fotogenica e spigliata, a salire sul palco assieme all'altra portavoce Najat Vallaud-Belkacem per «scaldare la folla» in attesa del comizio. Il suo primo atto da ministro sarà la modifica o la soppressione della legge Hadopi che stacca la spina a chi scarica file illegalmente, per sostituirla con un altro sistema «che finanzi la creazione artistica».
Al passaggio delle consegne con il precedente ministro Frédéric Mitterrand, amico più che avversario politico, la Filippetti ha ricordato l'importanza della lingua francese, «alla quale siamo così attaccati», e della cultura come «ciò che è capace di avvicinare le persone». Poi Aurélie Filippetti ha regalato a Mitterrand un romanzo, «E disse», di Erri de Luca. «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere — ha detto davanti alle telecamere —. Una cosa che ci unisce, è l'amore per l'Italia».

Corriere 19.5.12
Orlandi, indagato un monsignore
L'ex rettore di Sant'Apollinare sotto accusa per concorso in sequestro
di Fabrizio Peronaci


ROMA — Al quinto giorno di lavoro della polizia scientifica sull'ossario di Sant'Apollinare — nella stessa cripta dove lunedì è stata aperta la tomba del boss «Renatino» De Pedis — emerge una novità dell'inchiesta a lungo tenuta coperta, segreta, inaccessibile. Il quinto indagato per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana sequestrata nel 1983, ha un nome. Oltre ai quattro della banda della Magliana, nelle indagini figura un insospettabile. Un ecclesiastico: è monsignor Piero Vergari, rettore di Sant'Apollinare all'epoca dei fatti, rimosso dall'incarico nel 1991, un anno dopo aver perorato la causa dell'«indegna sepoltura» con una lettera al cardinal Poletti in cui descrisse il gangster romano come «grande benefattore».
Allontanato dai suoi superiori, «don Pierino» tornò nella natìa Umbria, a Sigillo, per poi proseguire l'attività pastorale nel Reatino. Vani in tanti anni — visto il carattere veemente — i tentativi di avvicinarlo. Nonostante curi un sito a suo nome, Vergari non si dilunga in spiegazioni. Ama il latino: Parce sepulto, perdona chi è sepolto, ha scritto in un testo in cui ricorda l'incontro con «Renatino» a Regina Coeli, le volte che il boss lo aiutò «a preparare le mense dei poveri» e che «quando seppi in tv della sua morte, ne restai meravigliato e dispiacente». In conclusione, nuova citazione: De mortuis nil, nisi bene. Dei defunti si deve dir bene. Anche Emanuela Orlandi però, sospettano gli inquirenti, è morta.
Morta ammazzata. La pista presa nel 2008 dopo le rivelazioni di Sabrina Minardi, la femme fatale di De Pedis che accusò il suo amante di aver organizzato l'omicidio, ha portato all'iscrizione nel registro degli indagati (oltre che di se stessa, rea confessa) di tre esponenti della «bandaccia»: Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni, indicati come i pedinatori di Emanuela, e Sergio Virtù, descritto come «l'autista» che la caricò in auto e la portò sul litorale, dove fu uccisa, chiusa in un sacco e «stritolata in una betoniera».
Ora che il quadro è completo, tuttavia, lo scenario cambia: l'accusa di concorso in sequestro per il monsignore («un atto dovuto, era il padrone di casa», precisa chi indaga), ammesso che non evapori in una richiesta di proscioglimento ricolloca le indagini in un raggio limitatissimo: la figlia del messo papale sparì alle 19 del 22 giugno 1983 cento metri più in là, davanti al Senato, e poco dopo sarebbe finita in trappola e riportata con una scusa dentro Sant'Apollinare. Cosa accadde nel luogo sacro? Incontri a sfondo sessuale? A supporto di tali ipotesi, ci sarebbero il sequestro di un computer e un'intercettazione piuttosto scabrosa che coinvolge un seminarista. E anche la tenacia con cui da giorni viene setacciata la cripta: una volta aperta la bara di «Renatino» si pensava che il lavoro fosse finito, e invece la Scientifica sta passando al setaccio le 200 cassette di ossa trovate nei sotterranei, dopo aver usato il georadar in cerca di vani dietro le pareti e sotto il pavimento.
Una di quelle ossa appartenne alla povera Emanuela? Il dubbio, per quanto «residuale», è drammaticamente questo. E, se verrà fugato, per risolvere il giallo della «ragazza con la fascetta» non resterà che una scelta: tornare a battere le vecchie piste legate ad Alì Agca, ai servizi segreti dell'Est e al terrorismo internazionale, un tempo percorse a lungo e poi scartate.

La Stampa 19.5.12
Roma, Rettore della basilica di Sant’Apollinare ai tempi della scomparsa
Caso Orlandi, indagato l’ex parroco
«Concorso in sequestro di persona» Ma la procura: «Solo un atto dovuto»
di Giacomo Galeazzi e Francesco Grignetti


La procura di Roma indaga sull'ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, don Piero Vergari: «Concorso in sequestro di persona», si legge negli atti. Il monsignore, che nel frattempo ha lasciato Roma ed è tornato nella natia Sigillo, in Umbria, nel 1983, al tempo della scomparsa della ragazza era il «padrone di casa». E don Vergari era ancora al suo posto sette anni dopo, nel 1990, quando fu ucciso il boss della Magliana, Renatino De Pedis, per il quale caldeggiò con il Vicariato la specialissima sepoltura in chiesa. Inevitabile, quindi, un’iscrizione al registro degli indagati all’atto di aprire il sepolcro. «Un atto dovuto», viene spiegato negli ambienti inquirenti. L’ispezione della cripta di Sant’Apollinare alla ricerca del cadavere di Emanuela Orlandi, ovviamente, non si sarebbe potuta effettuare senza il rigoroso rispetto delle norme. Occorreva un’iscrizione al registro degli indagati per chi, come don Vergari, aveva la responsabilità della gestione della basilica. E iscrizione è stata. Ma un passo del genere è stato soppesato a lungo dalla procura di Roma. E quando i magistrati hanno deciso per il via libera all’ispezione, con tutte le conseguenze giuridiche del caso, anche il Vaticano è stato informato.
Don Vergari fu inviato a Sant'Apollinare, a due passi da piazza Navona, dal cardinale vicario Poletti per «normalizzarla» negli anni turbolenti del post-Concilio e tanto fu efficace nel riportare la basilica alla tradizione che la vedova di Renatino De Pedis racconta di averla scelta all' epoca per le nozze e le messe domenicali poiché «era l’unica a Roma coi canti gregoriani». Sarà necessario oltre un mese di tempo, comunque, per sapere se tra le ossa trovate nel sotterraneo di Sant’Apollinare ci siano anche quelle di Emanuela Orlandi. Rispetto alla quasi totalità dei resti di epoca prenapoleonica, alcuni sono più recenti e il loro Dna sarà comparato con quello della cittadina vaticana.
«Se qualcuno aveva interesse a far sparire qualche traccia ha avuto tutto il tempo per farlo», commenta l'ex sostituto procuratore generale Giovanni Malerba che si occupà del caso Orlandi. E aggiunge: «La Santa Sede non collaborò alle indagini». Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ritiene che «la sepoltura del boss in un luogo destinato a papi e cardinali sia il vero snodo dell'intreccio tra Chiesa, Stato e criminalità che 29 anni fa si è portato via mia sorella».
Sant’Apollinare è una chiesa con una storia di primaria importanza. Era la basilica annessa al Pontificio Istituto di studi giuridici, uno dei principali centri di formazione del clero. Nell’edificio ebbe un ufficio riservato Oscar Luigi Scalfaro. Durante le battaglie del referendum sul divorzio il Pontificio Istituto, che ospitava preti studenti e professori, fu per caso sede di incontri con Adriana Zarri e Raniero La Valle, e per intervento del sostituto della Segreteria di Stato Benelli fu in pratica chiuso con l’accusa di essere diventato un «covo di comunisti». L’edificio divenne sede del Circolo di San Pietro, per l’assistenza dei poveri, e nuovo rettore della Basilica fu scelto don Piero Vergari, pragmatico e abile, che nel suo apostolato nelle carceri era entrato in contatto anche con esponenti di spicco della mala romana.

il Fatto 19.5.12
Orlandi: indagato per sequestro il prete di Sant’Apollinare
Per la scomparsa di Emanuela c’è un quinto inquisito: don Piero Vergari, ai tempi del rapimento rettore della basilica dove fu sepolto il boss De Pedis. E dove la ragazza fu vista per l’ultima volta
di Rita Di Giovacchino


Per la scomparsa di Emanuela Orlandi c’è ora un quinto indagato. Un prete, l’unico in grado di chiudere il cerchio di un’inchiesta “corsara” che indaga sul mistero della tomba di Renatino De Pedis nella cripta di Sant’Apollinare. Sotto la riga blu, che copre l’omissis, c’è il nome di don Piero Vergari, in quegli anni rettore della basilica minore, dal 1992 passata all’Opus Dei, all’epoca dipendente dal Vicariato di Roma e cioè dal cardinale Ugo Poletti.
Atto dovuto, liquida rapidamente la “fonte”. Ma, la recente iscrizione del parroco, precede di pochi giorni la decisione della Procura di Roma di varcare la soglia del sagrato, tra piazza Navona e il Senato, scendere nei sotterranei inviolati e aprire quel sarcofago tempestato di zaffiri attorno al quale, in un delirio di curiosità e legittimi interrogativi, è andata crescendo la convinzione che soltanto lì è racchiusa la verità. Non soltanto sulla scomparsa di Emanuela, ma su inaccessibili segreti vaticani a fronte dei quali gli intrighi romanzeschi di Dan Brown impallidiscono. Unico dato certo è che fu Vergari a sollecitare il trasferimento a Sant’Apollinare della salma di De Pedis, ucciso il 2 febbraio in via del Pellegrino, con una lettera al cardinal Poletti che vergò il nulla osta in tempi rapidissimi. I resti del boss, riemersi quasi intatti dall’umido abitacolo, sono lì dal 20 marzo 1990. Ma Sant’Apollinare è anche la chiesa dove per l’ultima volta fu vista Emanuela, il 22 giugno 1983, prima che sparisse nel nulla. “Quell’indegna sepoltura rappresenta lo snodo del patto tra Stato, Chiesa e criminalità”, ha detto lunedì scorso Pietro Orlandi, sul piazzale della chiesa dove è tornato dopo 29 anni per assistere alla riapertura della tomba. Da anni il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Simona Maisto indagano su una strana pista che lega la scomparsa della ragazzina a un “ricatto” nei confronti di Wojtyla.
MAFIA e malavita romana beffati dal Vaticano e pronti a tutto per rientrare di 250 miliardi di vecchie lire che i boss avevano riciclato nelle casse dello Ior. Soldi che il papa avrebbe utilizzato per finanziare Solidarnosc, il sindacato polacco di Walesa. Atto dovuto l’iscrizione di don Vergari, ma conferma della pista Ior. A indicarla era stata nel 2009 Sabrina Minardi, l’ex amante di Rena-tino. “La ragazza è morta, ho visto Sergio gettare due sacchi nella betoniera in un cantiere a Torvaianica... quando siamo tornati a casa gli ho chiesto chi era. Che te lo devo dì io, mi rispose”. Quello di Emanuela era un rapimento “indicato” da qualcuno molto in alto, dice la donna. Da chi?
“ Da Marcinkus... doveva creare scalpore, come la morte di Calvi, così chi doveva capi’ capiva”. Frasi apparentemente sconclusionate, ma non del tutto: l’anno prima la mafia aveva ucciso Roberto Calvi. Ora gli imputati di quel processo sono stati tutti assolti, ma agli atti restano i legami incrociati tra siciliani e romani: Calò era amico di De Pedis, considerato “l’uomo del Vaticano” come l’augusta sepoltura conferma.
Ora non è più soltanto Sabrina ad affermare che Emanuela era stata rapita da De Pedis. Molti personaggi legati alla banda della Magliana lo hanno confermato: da Maurizio Abbatino, a Fabiola Moretti, fino a Nino Mancini, l’Accattone che nell’intervista di martedì scorso al Fatto Quotidiano ha detto: “Bisognava decidere se far ritrovare qualche cardinale in una pozza di sangue o mandare un segnale forte, abbiamo scelto la seconda strada”. Un segnale che Marcinkus deve aver recepito: forse il cardinale da far ritrovare “nella pozza di sangue” era lui. Anche Sabrina è indagata, ha ammesso di averla tenuto in ostaggio Emanuela in un appartamento a Torvaianica.
CON LEI ci sono altri tre pregiudicati iscritti con l’accusa di sequestro di persona aggravato dallo scopo di estorsione, dalla conseguente morte dell’ostaggio e dalla minore età della vittima. Tutti a piede libero, tranne Sergio Virtù, in carcere per altro reato, l’uomo che avrebbe occultato il cadavere a Torvaianica. L’uomo ha sempre negato, ma ad accusarlo c’è anche la testimonianza di una donna polacca un tempo legata a lui. Ci sono poi due fedelissimi di De Pedis, Ci-letto e Giggetto, alias Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni. Sospettato di aver avuto un ruolo marginale è anche Giuseppe De Tomasi, l’ex commercialista di Renatino che ha aggredito Federica Sciarelli, nell’ultima punta di Chi l’ha visto. Una perizia afferma che sarebbe Mario “il barista”, il telefonista anonimo. Se non fosse morto nel 2006 la Procura di Roma avrebbe iscritto anche Marcinkus per concorso in sequestro? Sospetto fondato, ma la prescrizione è dietro l’angolo. Il prossimo anno saranno 30 anni che Emanuela è scomparsa.

il Fatto 19.5.12
Il bandito “Aiutava le mense dei poveri”

Dal sito internet www.vergarimonspiero.com  

Tra le più belle esperienze della mia vita sacerdotale in Roma (...) mi è stata carissima quella della visita alle carceri di Regina Coeli (...). Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché era là o che cosa aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità; Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte (...). Mai ho veduto o saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi familiari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Doveva essere valido come sempre, il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”: perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto. (...) la visita alla cappella funeraria era riservata ai più stretti congiunti. Questo fu osservato scrupolosamente per tutto il tempo in cui sono rimasto rettore, fino al 1991.
Mons. Piero Vergari 3 ottobre 2005

il Fatto 19.5.12
L’incontro con De Pedis, l’amicizia e la sepoltura del boss
Il sacerdote è tornato a vivere nel suo paesino natale in Umbria
La sua storia è parallela a quella del potente Marcinkus


Don Piero Vergari da anni è tornato a Sigillo, il paesino dell’Umbria che 72 anni fa gli diede i natali. Ogni tanto i giornalisti suonano alla sua porta per intervistarlo, ma lui si affaccia al balcone, saluta e lascia tutti a bocca asciutta. Un esilio che un po’ ricorda quello subito dal vescovo Marcinkus, tornato a Cicero nell’Illinois (che come tutti sanno è patria di Al Capone), nel 1989. Se non fosse per la scomparsa di Emanuela nulla legherebbe il destino di un vescovo che per 27 anni è stato tra gli uomini più potenti della Chiesa, che si muoveva come un capo di Stato o almeno come un ministro degli esteri, con quello di un umile parroco di cui mai avremmo sentito parlare se non fosse per questa strana storia della tomba di De Pedis.
A SEGNARE il suo destino, dicono, furono i primi anni Ottanta quando assisteva i detenuti nel carcere di Regina Coeli, in quegli anni affollato dai boss della Banda della Magliana. Lì conobbe Renatino e ne fu conquistato: “Parlavamo di cose religiose e di attualità”. Ma anche il boss lo amava. Tanto che nessuno sa dire se sia stato lui a introdurlo nelle sacrestie che contano e non invece sia stato De Pedis, importante crinale della “trattativa” tra Vaticano e boss, amico di tanti pezzi grossi della Santa Sede, a raccomandare il prete amico suo. Nel 1989, proprio mentre Marcinkus lasciava la Roma che tanto amava a causa di quell’ordine di cattura spiccato dalla procura di Milano per il crac del banco Ambrosiano, don Vergari ormai rettore della basilica di Sant’Apollinare officiò le nozze di De Pedis con Carla Di Giovanni, ragazza seria e di buona famiglia. La pecorella smarrita era tornata all’ovile. Fu dopo, mentre si stappavano le bottiglie di champagne, che Renatino scherzando disse: “Quanno me tocca, me piacerebbe esse sepolto qui”. La profezia si avverò in tempi rapidi, appena tre mesi dopo in via del Pellegrino. Il resto è noto. Quando lo scorso anno fu convocata in procura, Carla Di Giovanni diede questa spiegazione: “Mio marito era legato a quella chiesa, lì andavamo a messa la domenica e lì ci siamo sposati, so che aveva fatto offerte importanti a don Vergari, io stessa consegnai nelle sue mani 500 milioni”. Il parroco confermò: “Era un gran benefattore, ha fatto tanto del bene a giovani e persone bisognose”.
GIULIO ANDREOTTI, chiamato in causa dalla Minardi per un paio di cene, commentò caustico: “Forse non era un benefattore dell’umanità, ma di Sant’Apollinare sì”. A guastare la festa c’è il fatto che Emanuela Orlandi frequentava quella chiesa, anzi la scuola di musica Tommaso Ludovica de Victoria, dove studiava flauto traverso. La scuola si trova all’interno dell’imponente complesso di Sant’Apollinare. Tre volte a settimana, dalle 15 alle 18, entrava in quel cortile, quella primavera era improvvisamente sbocciata, ormai era un’adolescente e non passava inosservata.
Potevano rapirla ovunque, invece l’hanno rapita lì. Inutile girarci intorno, la famiglia sospetta l’esistenza di un basista. “Mia sorella è stata rapita soltanto perché era una cittadina vaticana”, ribadisce il fratello Pietro. Il segnale forte, di cui parla l’Accattone è passato sulla sua testa. Don Vergari è indagato anche se, quando i magistrati sono scesi nella Cripta, non era lì ad aprire la porta. Ma nel 1983 era lui il padrone di casa. Atto dovuto. Il nuovo rettore è don Pedro Huidobro, dell’Opus Dei, che per uno strano segno del destino è medico patologo e in questa veste ha assistito ai passaggi più delicati della riesumazione della salma. “Noi ci auguriamo che l’apertura della tomba aiuti a far ritrovare serenità e rispetto nei confronti di un luogo sacro, da parte nostra la collaborazione con le autorità competenti è totale”. A San-t’Apollinare si volta pagina, qualcuno dice: solo perché non è più la Curia romana a comandare in queste mura.
Rdg

il Fatto 19.5.12
Il caso gemello di Mirella Gregori sparita 47 giorni prima


Emanuela Orlandi, cittadina vaticana, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia scompare il 22 giugno 1983 all’età di 15 anni. Alla sparizione di Emanuela fu collegata anche quella di un’altra adolescente romana, Mirella Gregori, scomparsa il 7 maggio 1983. La vicenda della Gregori viene collegata a Emanuela quando la madre di Mirella riconosce i volti di due uomini collegati all’Orlandi, mostrati negli identikit. Dopo 29 anni dalla scomparsa della Orlandi, la vicenda è ancora aperta. Dal 1983 ad oggi moltissime piste sono state seguite: dalle telefonate dell’Amerikano, secondo alcuni Paul Markinus, presidente dello Ior, che tiravano in ballo Ali Agca, l’uomo che un paio d’anni prima aveva sparato a Papa Giovanni II, fino alla banda della Magliana. Pista seguita dopo la telefonata anonima che suggeriva di controllare chi fosse sepolto nella chiesa di Sant’Apollinare, ovvero Enrico De Pedis, uno dei capi della banda.

Repubblica 19.5.12
Le linee guida dei vescovi per evitare abusi sessuali. "Collaborate con i giudici"
Pedofilia, nella direttiva Cei niente obbligo di denuncia
"I vescovi non sono obbligati a denunciare i preti pedofili"
di Marco Ansaldo


PIENA collaborazione della Chiesa italiana con la giustizia civile sugli abusi sessuali di sacerdoti nei confronti di minori. Ma nessuna denuncia diretta da parte dei vescovi, perché l´obbligo non è previsto dall´ordinamento nazionale. Sono questi alcuni tra i punti fondamentali delle "Linee guida" della Cei sulla pedofilia.
Ecco le linee guida della Cei: i prelati collaborino con i giudici
La scelta è stata di non scavalcare la legge nazionale che costringe solo i pubblici ufficiali
Le nuove norme accolgono le richieste del Papa: saranno diffuse la settimana prossima

La Conferenza episcopale italiana le diramerà la prossima settimana durante la sua Assemblea generale, preceduta da una prolusione del presidente, il cardinale arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco. Una decisione che non mancherà di suscitare l´attenzione dell´opinione pubblica, e forse qualche polemica. Perché con l´annuncio delle "Linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici", la Chiesa italiana viene in ogni caso incontro alle richieste fatte lo scorso anno da Benedetto XVI, e poi raccomandate nel maggio 2011 dalla Congregazione per la Dottrina della fede. Ma le denunce dovranno partire dalle vittime stesse, e non dalle diocesi.
Vediamo i punti principali delle disposizioni in materia. Nella sostanza, il documento della Chiesa italiana è in buona parte l´applicazione della Lettera circolare della Congregazione, l´ex Sant´Uffizio, per tanti anni guidato da Joseph Ratzinger prima di diventare Papa. Quando nel 2010 scoppiò il caso della pedofilia nella Chiesa, il Pontefice chiese alle Conferenze episcopali di tutto il mondo di redigere un regolamento che affrontasse con spirito nuovo e "tolleranza zero" il fenomeno. Le nuove norme sono state quindi elaborate e approvate nel gennaio scorso, ma si è deciso di presentarle e pubblicarle nella settimana in cui si svolge l´Assemblea generale della Cei.
Uno dei primi punti è quello dell´ascolto delle vittime o dei loro familiari da parte del vescovo o di un suo delegato. Determinante sotto questo profilo l´assistenza psicologica e spirituale dei minori. E vale per tutti l´esempio dato dallo stesso Benedetto in più viaggi all´estero: a Malta, in Germania, in Gran Bretagna il Papa ha voluto ricevere e parlare con le vittime. Dura in proposito la sua Lettera pastorale ai cattolici d´Irlanda, con ferme accuse ai prelati e parole di vicinanza agli abusati.
Un secondo pilastro riguarda la protezione dei bambini e dei giovani da parte del vescovo. Viene sentita come doverosa l´esigenza di fornire una risposta adeguata ai casi di abuso sessuale commesso dai chierici. E sono previsti programmi educativi di prevenzione, sia per aiutare i giovani sia per sostenere i genitori.
Terzo punto forte, la formazione dei religiosi. Un aspetto che concerne il «corretto discernimento vocazionale» e una «sana formazione umana e spirituale dei candidati». I futuri sacerdoti dovranno infatti apprezzare «la castità e il celibato», rispettando così «la disciplina della Chiesa».
Il vescovo dovrà quindi, e questo è un ulteriore cardine, accompagnare i suoi religiosi, soprattutto nei primi anni del loro sacerdozio, avvertendoli circa il «danno recato da un chierico alla vittima di abuso sessuale» e della «propria responsabilità di fronte alla normativa canonica e civile».
Il punto in ultimo decisivo è quello della cooperazione con la giustizia civile. La Lettera circolare del Sant´Uffizio lo scorso anno raccomandava così: «Sebbene i rapporti con le autorità civili differiscano nei diversi Paesi, tuttavia è importante cooperare con esse nell´ambito delle rispettive competenze». E poiché si prescriveva che le Linee guida tenessero conto delle legislazioni dei singoli Paesi, la scelta infine è stata quella di non scavalcare la normativa nazionale che, per l´Italia, prevede l´obbligo di denuncia all´autorità giudiziaria solo per i pubblici ufficiali e non lo prevede dunque per i casi di abuso di cui venissero a conoscenza i vescovi. L´eventuale denuncia starà alle vittime, che troveranno in questo piena collaborazione da parte dei ministri religiosi.

l’Unità 19.5.12
La società educante e la speranza italiana
Giuseppe Vacca ha indicato un terreno di confronto molto interessante tra il Pd e il mondo cattolico
Occorre discutere a partire dal riconoscimento
del ruolo della famiglia e dal principio di sussidiarietà
di Massimo De Angelis


NEL SUO ARTICOLO DAL SIGNIFICATIVO TITOLO “IDENTITÀ DEL PD E QUESTIONE ANTROPOLOGICA” (L’UNITÀ 17 MAGGIO), GIUSEPPE VACCA RIFLETTE IN MODO INTERESSANTE sui rapporti tra quella forza politica e il mondo cattolico.
Egli individua nell’emergenza educativa un terreno speciale di confronto. A partire dall’inizio del 2008, allorché Joseph Ratzinger inviò la famosa lettera alla diocesi di Roma cui seguì la grande udienza in piazza San Pietro, il tema è particolarmente sentito a approfondito in seno al mondo cattolico italiano e nella Cei. Nella consapevolezza che la crisi oggi presente, è sì specificamente economica e finanziaria, e su questo il Pontefice si è soffermato nella Caritas in Veritate, ma essa ha infine radici (e a ben vedere anche soluzioni) culturali.
Il terreno di confronto appare dunque appropriato così come alcune idee presenti nell’articolo di Vacca: quella di società educante (importante è innanzitutto il sostantivo), quella della non disgiungibilità di istruzione ed educazione (così come, potrebbe dirsi, di efficienza e virtù), quella del non surrogabile ruolo educativo della famiglia. Tre tasselli di una visione che, se assunti con chiarezza e in modo unitario, farebbero compiere decisivi passi in avanti al confronto di idee nel Paese. Tante incomprensioni su scuola statale e no sono in passato nate dal fatto che il punto di vista dei tanti cattolici impegnati in questo campo era frainteso. La loro critica all’idea statalistica di scuola veniva scambiata con la volontà di affermare l’idea di una scuola privata e per ricchi. Mentre l’idea era ed è quella di una scuola libera in cui siano operanti, e in relazione reciproca, la libertà dell’insegnante e quella dello studente e della sua famiglia.
Ma qual è il fondamento di siffatta impostazione se non che ogni progetto formativo deve partire dal basso e crescere secondo il principio di sussidiarietà? E quindi prima la famiglia, poi la scuola, poi altre strutture a cominciare da quelle della comunicazione, e non a partire dall’alto e quindi dallo Stato. Società educante va dunque benissimo. Sapendo, certo, che educare è difficile e richiede la passione di trasmettere i valori-base dell’esistenza umana e civile, e che perciò è impossibile sulla base di un approccio postmoderno secondo il quale educare alla ricerca del Bello, del Vero e del Buono è ubbìa o mistificazione. Perché educare significa precisamente esser convinti che non tutte le idee e i comportamenti sono sullo stesso piano.
Anche alla luce del ruolo educativo originario della famiglia e dei suoi due membri genitoriali, complementari sulla base della loro rispettiva identità sessuale, si potrebbe meglio comprendere (anche a prescindere da ogni presupposto religioso) la posizione tante volte espressa dalla Chiesa sull’importanza del matrimonio e sulla sua incomparabilità con altre unioni tra persone dello stesso sesso: unioni che lo Stato peraltro ha non solo il diritto, ma il dovere di regolare nell’interesse dei singoli iuxta propria principia. (Sarebbe in propo
sito prezioso, anche per purificarsi dalle scorie di scontri del recente passato, tradurre e leggere il recente libro di Martin Rhonheimer “Christentum und saekularer Staat”, Herder, 2012). Vita, famiglia, educazione sono quindi quel trittico che forma davvero la persona come ente non individualisticamente chiuso in sé stesso, ma ontologicamente relazionale.
«L’anima dell’educazione può essere solo una speranza affidabile», scriveva in modo toccante nella lettera già citata Benedetto XVI. Perciò, forse, oggi educare è così difficile e allo stesso tempo è però una sfida bella e decisiva. Una sfida in nome della speranza e perciò della vita stessa. «Alla radice della crisi della educazione, infatti scriveva ancora Benedetto XVI c’è una crisi di fiducia nella vita». Quella che vediamo serpeggiare tra i nostri giovani (crisi di prospettive economiche ma anzitutto di incertezza culturale).
Ebbene, sarebbe prezioso e forse non del tutto irrealistico pensare a uno sforzo unitario in questo campo. A partire dalla individuazione dei bisogni fondamentali delle persone che non vanno scambiati con i desideri, nel contesto di una crisi che è di civiltà, e in nome infine di quella “speranza” che, certo per un tramite discreto ma autorevole, quale è quello così umano dei genitori e degli insegnanti, non dobbiamo cessare di provarci ad “affidare” e cioè trasmettere ai nostri bambini e ai giovani, e che coincide con la vera educazione.

l’Unità 19.5.12
Settimo Cielo
Una nuova etica pubblica dipende anche dai cristiani
di don Filippo Di Giacomo


IN SEGUITO, ABBIANO RIDACCHIATO SULLA NOSTRA DABBENAGGINE... eppure preparandoci a seguire come giornalisti, la visita di Benedetto XVI ad Arezzo e a San Sepolcro il 13 maggio scorso, ci eravamo fidati della cartina proposta da un settimanale nazionale che, nelle due località toscane, indicava l’epicentro della secolarizzazione made in Italy. Non era vero, ma una volta dato il segnale d’inizio, come diceva Napoleone, fatalmente «l’intendenza segue». Poi, ascoltando e rileggendo con calma, è apparso chiaro che tra i discorsi «laicamente orientati» di quel giorno, vi erano anche i due pronunciati dal Papa. Se non altro, quando ha sottolineato che «oggi vi è particolare bisogno che il servizio della Chiesa al mondo si esprima con fedeli laici illuminati, capaci di operare dentro la città dell’uomo, con la volontà di servire al di là dell’interesse privato, al di là delle visioni di parte. Il bene comune conta di più del bene del singolo, e tocca anche ai cristiani contribuire alla nascita di una nuova etica pubblica...Ai giovani rivolgo l’invito a saper pensare in grande: abbiate il coraggio di osare! Siate pronti a dare nuovo sapore all’intera società civile, con il sale dell’onestà e dell’altruismo disinteressato. E’ necessario ritrovare solide motivazioni per servire il bene dei cittadini». E le pregevoli, e profonde parole dei sindaci di Arezzo e di San Sepolcro hanno fatto meglio comprendere come la vera politica, in Italia, sia ancora possibile solo dove i cittadini sono liberi di scegliere, grazie al sistema maggioritario, da chi essere governati. Naturalmente, nessuno si è interessato a quello che l’avvocato Giuseppe Fanfani (sindaco di Arezzo) e la professoressa Daniela Frullani hanno detto della loro città e dei loro cittadini: senza particolari complessi, non hanno avuto difficoltà (come risulta dai discorsi) a ricordare quanto la Repubblica sia debitrice di ciò che nella Costituzione i cattolici, cioè la maggioranza dei padri fondatori della nostra forma statuale, hanno saputo far scrivere. Qualcosa di molto importante, che dura fino ai nostri giorni, e che permette ancora che in questo Paese si riescano a creare (anche a sinistra) spazi trasversali e convergenti per disegnare e organizzare una vita civile per tutti, per i laici (senza puzza sotto il naso) e per i cattolici (senza ex cathedra in testa perché frequentano una sacrestia), per i «vecchi» e per i «nuovi cittadini» cioè gli «altri», quelli che l’Italia la scelgono prima per necessità e poi con il cuore. «L’accoglienza, che anche in tempi recenti avete saputo dare a quanti sono venuti in cerca di libertà e di lavoro, è ben nota», ha detto il Papa agli aretini. Alla fine di febbraio del 2006, mentre a Fiuggi, con il congresso di «La rosa nel pugno» la sinistra italiana tentava uno dei tanti assemblaggi elettoralistici per scardinare il blocco del berlusconismo, Benedetto XVI rendeva noto il suo primo messaggio da Papa per la quaresima di quell’anno. Anche allora, come è accaduto in Toscana, ricordava non solo la necessità di difendere la «famiglia fondata sul matrimonio», ma anche di salvaguardare le economie del nostro e degli altrui Paesi dai poteri finanziari. Ai quali, nell’epoca della globalizzazione, giustizia imporrebbe l’onere di dimostrare fattivamente come pensare e provvedere a coloro che vivono nell’impoverimento globale da loro causato. E ricordando che, con Paolo VI, la Chiesa sospetta una certa sfumatura assolutoria nei termini «crescita-mercato-sviluppo», notava come i teorici del liberalismo economico riescono a rendere quasi gradevole la diffusa ingiustizia sociale che accomuna l’80% di questa nostra umanità celandola sotto le sembianze di presunte economie «indebitate», e reiterava ai cattolici il monito a guardare ai problemi dell’equa distribuzione dei beni di questo mondo come a una «sottrazione di umanità», cioè ad un problema di etica globale.
L’argomento venne più volte ripreso e commentato, su Avvenire, il quotidiano della Cei, da uno dei socialisti più autorevoli nel mondo, l’ebreo polacco Zygmunt Bauman. Dal congresso dei nostri socialisti in quei giorni invece, fluirono soprattutto i commenti di un pensatore di nome Vladimir Luxuria. Il 2013 si avvicina: sarà pronta la legge elettorale per ridare libertà di scelta agli italiani anche a livello nazionale?

Repubblica 19.5.12
È ora di investire nei valori etici
di Joaquìn Navarro-Vals,
già Portavoce di Giovanni Paolo II

Stiamo vivendo un periodo di crisi. Forse questa è tra le espressioni più ricorrenti che è possibile ricavare dalla lettura quotidiana dei giornali o dall´osservazione di un qualsiasi dibattito televisivo. Ma non si tratta, invero, di una novità senza precedenti. Il paragone storico che il più delle volte viene stabilito richiama la débâcle economica e politica della fine degli anni 20 del secolo scorso. Da lì l´Europa venne fuori grazie all´investimento americano nel cosiddetto New Deal, un insieme di riforme virtuose con cui il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt risollevò, fra il 1933 e il 1938, le sorti del pianeta. Al resto pensò la guerra.
Nel presente, però, malgrado l´efficace paragone, la crisi assume un volto meno uniforme, largamente più esteso e radicalmente meno controllabile. Anche perché l´odierna recessione si sta prolungando, dopo l´abbrivio bancario statunitense dell´autunno del 2008, in una specie di tunnel interminabile. Perciò ad oggi è impossibile trovare una proposta di riforme analoga a quella di cent´anni fa per linearità e risolutezza.
Insomma, stiamo vivendo una fase orribile e disarmante, la quale, parafrasando l´omonimo libro di Edmund Husserl, intitolato per l´appunto La crisi delle scienze europee, potrebbe titolarsi "la crisi della civiltà globale". Ossia, non un breve intervallo, ma uno status depressivo permanente, destinato a determinare tutte le relazioni economiche e politiche dei prossimi decenni.
In primis, è importante ricordare che l´instabilità economica non è esattamente una novità. L´originalità del presente, semmai, sta nel fatto che non sussistono più le condizioni culturali per poter risolvere tutto alla svelta, perché la rappresentazione che abbiamo ha i connotati "congiunturali" di contingente precarietà che trasforma le nostre comunità in un´enorme "società liquida", come l´ha definita efficacemente il sociologo Zygmund Baumann.
Proviamo a leggere, ad esempio, qualche dato riguardante l´Italia. Nel quadro economico-finanziario dei conti pubblici dell´Eurozona dell´ultimo triennio il debito pubblico italiano si mostra tra i più elevati (oltre 1600 miliardi di euro, pari al 27 % dell´intera area monetaria comune). Le operazioni di contenimento del deficit hanno fatto evitare una deriva involutiva di tipo greco, ma nel periodo dal 2008 al 2010 al peso del passivo statale si è aggiunto il tracollo del Prodotto Interno Lordo, un onere aumentato di 15 punti e stimato, all´incirca, come il 119 %. D´altra parte, al di là delle valutazioni politiche, sebbene la situazione italiana mostri scompensi cronici e anomalie esclusive, la situazione non è tanto migliore per Francia e Germania, rispettivamente a 18 e 19 punti.
Dove la condizione nazionale sembra essere veramente gravissima è, ancor più, dal lato lavoro. Il livello italiano di attività è allacciato a quello della media europea, anche se con una maggiore incidenza del debito. La flessione sull´occupazione osservata nel 2010 ( - 0,7 per cento, pari a - 153 mila unità) rivela grandemente l´entità congiunturale del gap occupazionale che investe innanzitutto le professioni qualificate e tecniche ( - 251 mila unità) e gli operai specializzati ( - 109 mila unità), con una diminuzione dell´occupazione femminile non qualificata enorme (pari a 19 mila unità).
L´allontanamento di massa dalla produttività, dunque, è certamente un male concreto. È importante, a ogni buon conto, porsi correttamente la domanda se a generare davvero la crisi siano i rilievi negativi che constatiamo oppure le caratteristiche, tutto sommato, contingenti che andiamo selezionando. Sì perché l´epistemologo Karl Popper avvisava che si verifica sempre solo quello che si vuole dimostrare. E le nostre statistiche considerano principalmente quei fattori di crisi che sono quantificabili e riportabili a resoconti calcolabili con evidenza.
A guardare bene la realtà, insomma, la cosiddetta crisi congiunturale deriva dal fatto che noi tentiamo di rendere stabili comportamenti che sono necessariamente dinamici e variabili, e per definizione non risolvibili. Tale è, d´altronde, il metodo che definisce l´atteggiamento empirico preminente nel nostro tempo.
Se, però, non ci sono più risorse per un welfare economico, non bisogna dimenticare che esiste un welfare che non costa nulla, e riguarda il costume e il modo di vita che si intende scegliere. Immaginiamo per un momento quanto diverso sarebbe il modo d´essere della realtà sociale se noi investissimo tempo e passione su aspetti umani che sono invariabili e permanenti. Mi riferisco a quelle scelte che già Aristotele definiva essenziali, appunto perché non svaniscono in un attimo. L´amicizia, la famiglia, i rapporti di paternità e maternità, il tempo libero, l´estetica ambientale, la religione sono, appunto, "imprese" permanenti, a differenza del lavoro, dell´occupazione, del debito nazionale, pubblico e privato, che, essendo fisionomie congiunturali, non restano identiche se non per breve tempo. Le prime opzioni coincidono proprio con quei presupposti umani primari che chiamiamo valori, essendo indispensabili per fissare il livello qualitativo di vita che è possibile raggiungere. Esse costruiscono quanto Anthony Giddens chiama il "welfare della felicità" e ultimamente Martha Nussbaum "beni non per profitto".
Come negare, d´altronde, che la prima e più grande ricchezza di una società siano i figli, i giovani e i loro progetti riguardanti il futuro, una risorsa non quantificabile e non misurabile, sebbene sensibilmente presente nelle attenzioni dell´opinione pubblica?
La conclusione del ragionamento è, quindi, piuttosto semplice. È vero, viviamo un momento di crisi globale. Ed è vero che questa crisi globale è oggettiva e deriva dalla valutazione economica del debito, della poca produttività e dell´alto tasso di disoccupazione sociale. Ma la causa ultima della crisi è il non investire a dovere sull´importanza culturale di quanto è umanamente durevole e continuativo. Si tratta dei valori etici sostanziali che, al netto della crisi, sono gli unici in grado di dare solidità alla società, rendendola potenzialmente popolata di persone felici. Ben inteso, potenzialmente, perché occorre impegnarsi, con buona pace della congiunturale crisi del momento e della presunta liquefazione dei valori.

Repubblica 19.5.12
L’offensiva del centrodestra alla vigilia della sentenza che potrebbe far cadere l’ultimo pilastro della legge 40. L´ex sottosegretario Roccella propone un nuovo ddl
"Fecondazione eterologa, nuova legge se la Consulta dice sì"
Il nuovo testo dovrebbe trattare temi come l´anonimato o meno del donatore
di Caterina Pasolini


ROMA - Eterologa libera, eterologa vietata. La Corte Costituzionale si riunirà martedì, ma già monta la polemica sulla possibile sentenza. Sale tra le diverse parti sociali e opposte formazioni politiche la speranza e la paura che diventi possibile anche in Italia la fecondazione con gameti di donatori diversi dal partner. Che quelle tremila coppie che ogni anno varcano i confini in cerca di un figlio, negato dalla natura o da malattie genetiche, possano superando la legge 40 che la vieta, farsi seguire e fecondare legalmente nel loro paese. Dimezzando costi, rischi e attese.
E così, a pochi giorni dal "E day", scatta la controffensiva nel caso in cui la Consulta dia il via libera. Eugenia Roccella, ex sottosegretario Pdl alla Salute, da sempre contraria all´eterologa «perché non mi piace l´idea di progettare famiglie in laboratorio in fondo c´è sempre l´adozione» ieri ha lanciato la sua proposta: «Se la Corte Costituzionale dirà sì alla fecondazione eterologa, ci sarà bisogno di una nuova legge perché si creerebbe un vuoto normativo». E così ha inviato una lunga lettera ai parlamentari e, assicura, ha già ricevuto approvazione anche dall´ala cattolica del centro sinistra.
Gli avvocati che hanno presentato i ricorsi contro il divieto, come Maria Paola Costantini, non sono d´accordo. «Già adesso, con i decreti legislativi del 2007 e 2010 che riguardano le donazioni di organi, la questione del vuoto normativo non sussiste, perché sono applicabili alla fecondazione ed è previsto tutto: dalla donazione al consenso informato, alla tracciabilità dei donatori». La legge 40, sottolinea poi l´avvocato, già circoscrive la donazione di gameti alle coppie infertili in età fertile, «quindi l´eventuale cambiamento della Corte non prevede di allargare né alle mamme nonne, né ai single né agli omosessuali».
Ma il problema fondamentale per Roccella è un altro. «Argomenti così importanti non possono essere affidati solo a una sentenza, deve discuterne il parlamento, bisogna aprire un dibattito democratico». Tra i punti fondamentali che la legge dovrebbe affrontare vi è l´anonimato o meno del donatore «visto che sono convinta: il bambino ha il diritto di sapere chi è il padre o la madre biologica». Poi la gratuità della donazione del gameti, già regolata, ma che secondo l´ex sottosegretario ha bisogno di punti fermi per evitare che, come in alcuni paesi, diventi un mercato, con donne sottoposte a cicli intensivi per dare ovociti ad altre. E infine l´organizzazione delle biobanche e l´inserimento dell´eterologa all´interno del Sistema sanitario nazionale pubblico.
Favorevoli invece all´eterologa, i medici dell´associazione nazionale medicina della riproduzione. «Perché sui trattamenti fatti all´estero i dati forniti da diversi osservatori registrano abusi e seri rischi sanitari per le future madri e i nascituri le cui conseguenze ricadono anche sul nostro Ssn che dovrà garantire le cure mediche».

l’Unità 19.5.12
Gramsci, la speranza tradita della libertà grazie all’Urss
L’ultimo libro di Vacca presentato ieri all’Auditorium di Roma La tragedia del prigioniero sulla base dei nuovi documenti
di Bruno Gravagnuolo


COMPAGNI...VOI OGGI STATE DISTRUGGENDO L’OPERA VOSTRA...CI PARE CHE LA PASSIONE VIOLENTA DELLE QUESTIONI RUSSE...».La tragedia politica ed esistenziale di Antonio Gramsci torna a riassumersi in queste righe del 14 ottobre 1926 indirizzate al Comitato centrale del partito russo. È uno dei nodi ineludibili a cui rimanda l’ultimo volume di Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci e tra i massimi studiosi del pensatore:Vita e pensiero di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi, pp. 367, Euro 33). Ieri il libro è stato presentato all’Auditorium di Roma, con il musicologo Giudo Salvetti, Silvio Pons, storico del comunismo, Cristina Comencini e Bruno Cagli, presidente dell’Accademia di Santa Cecilia. Mentre alla fine Antonio Gramsci Jr, figlio di Giuliano Gramsci, e Franco Fois, hanno suonato musiche medievali e rinascimentali. Ma c’entra Santa Cecilia con Gramsci? Parte del suo lessico familiare, perché in quell’Accademia cento anni fa si diplomava in violino Julka Schucht, moglie di Gramsci e prima ancora la sorella Asia.
Mille fili emotivi, intessuti dal mito dell’Italia, che conduce la famiglia e le tre sorelle Schucht all’incontro con il genio di quel piccolo sardo che osava bacchettare tutto il gruppo dirigente bolscevico, prima di venire incarcerato dal fascismo nel novembre 1926. Insomma si è parlato di musica, di memorie familiari. Ma il fulcro sono state le novità del libro di Vacca, specie nella «recensione» di Silvio Pons. Eccone alcune. Primo, la lettera del 1926 non fu una semplice accusa «di metodo» ai sovietici: non espellete Trotzski e l’opposizione. No, l’accusa era più pesante. E cioè: voi russi vi state chiudendo in un orizzonte da fortezza assediata e corporativa. Mentre per Gramsci occorreva rilanciare la rivoluzione in Occidente con una «guerra di posizione» graduale e attenta alle alleanze.
Altra novità, la lettera del febbraio 1928 di Grieco a Gramsci in carcere, che fece infuriare il prigioniero, perché «compromettente». Svelava che il Pci si interessava fin troppo della liberazione di Gramsci, il che per il detenuto inficiava ogni trattativa tra Urss e fascismo per giungere alla sua liberazione. Questo intendeva Macis, giudice istruttore, quando disse a Gramsci che i suoi amici lo volevano in galera. Ovvero: il regime non poteva tollerare che il Pci rivendicasse meriti nella liberazione di Gramsci. Ma in realtà né l’Urss né Mussolini intendevano liberare quel «cervello». Troppo libero e geniale. Ingestibile. E il Pci? Gestì Gramsci come poté e poi lo mise a frutto. Con la Costituente nel 1946 e l’idea di una via democratica. Il suo ultimo messaggio in bottiglia.

La Stampa 19.5.12
Politica e giustizia, i fronti aperti
Lusi, i pm vogliono le carte
Procura interessata alle accuse lanciate dall’ex tesoriere ai big della Margherita
di Francesco Grignetti


ROMA All’assalto L’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi si è difeso davanti alla Giunta delle Immunità del Senato tirando in ballo tutti i big del partito che lo hanno scaricato dopo l’esplosione dello scandalo sull’uso dei rimborsi

La procura di Roma ha deciso: al presidente del Senato è giunta ieri mattina una richiesta perché le dichiarazioni del senatore Luigi Lusi di mercoledì notte siano girate al palazzo di Giustizia. I magistrati vogliono acquisire alla fonte le accuse di Lusi agli ex colleghi di partito, ma anche valutare la memoria difensiva che lamenta un loro comportamento «persecutorio». Alcune cosiddette rivelazioni, comunque, tali non sono per gli investigatori. Si è saputo solo ieri, infatti, che il Nucleo tributario della Guardia di Finanza sta già lavorando da tempo sui finanziamenti a favore di alcune fondazioni e società. I pm Alberto Caperna e Stefano Pesci avevano chiesto alla Finanza di accertare se i fondi in questione fossero stati destinati ad iniziative politiche (lecite) o ad altre attività di tipo personalistico (illecite). Al momento, però, non sono venute alla luce condotte irregolari.
Tra le altre cose, c’è sotto accertamento anche l’attività della «M&S Congress», l’azienda di Catania legata al marito della segretaria di Enzo Bianco, destinataria, secondo quanto riferito da Lusi nel corso dell’audizione al Senato, di 105 mila euro l’anno tra il 2009 e il 2011.
Renato Schifani, da parte sua, ha prontamente girato a Marco Follini, il presidente della Giunta per le Immunità, la richiesta dei magistrati «affinché nello spirito di leale collaborazione tra organi dello Stato, la sottoponga alla Giunta medesima in quanto competente a valutare l’eventualità di una deroga al principio della riservatezza di un proprio atto».
In vista del secondo round dell’audizione di Lusi, intanto, che si terrà mercoledì, si apre tutta un’altra questione all’interno della Giunta. Come rispondere alla magistratura? E poi: dare o meno pubblicità ai propri atti? Follini sarebbe favorevole a un’operazione di totale trasparenza. «Le attuali regole parlamentari - dice - prevedono che i lavori della giunta avvengano in una condizione di riservatezza a tutela di tutte le persone che sono coinvolte nei procedimenti. È chiaro però che lo stillicidio di notizie riportate dai giornali sulla base di confidenze più o meno veritiere rilasciate da parlamentari più o meno loquaci pone un problema, per usare un eufemismo».
Follini è favorevole a una riscrittura delle regole «per far sì che le riunioni della Giunta siano rese, a pieno titolo, di pubblico dominio. La combinazione tra norme delicatamente antiquate e comportamenti disinvoltamente post-moderni, mi pare proprio che non stia funzionando».
Epperò, considerando che la mina-Lusi sta creando un’infinità di danni al suo ex partito (di nuovo Matteo Renzi: «Rispondere alle accuse di Lusi non è difficile. È umiliante, casomai. Perché il giochino è chiaro: si vuol far credere che siamo tutti uguali». E Rutelli: «Siamo oltre la diffamazione, oltre il tentativo di inquinamento del processo: come può esserci qualcuno che gli dà ancora retta? »), anche la questione della pubblicità ai lavori è diventata politica. Il Pdl gode delle disgrazie della Margherita. «Al di là del regolamento - dice Raffaele Lauro, Pdl - la nuova audizione del senatore Lusi andrebbe trasmessa in diretta radiotelevisiva come avviene negli Stati Uniti». Il Pd è sulla difensiva. «Non cento anni fa - replica Francesco Sanna, Pd ma in questa legislatura il Pdl aveva formalmente proposto al Senato l’inasprimento del regime di segretezza delle sedute». Comunque Sanna ci sta a dare massima pubblicità alle sedute. «Proprio in apertura dell’ultima riunione avevo proposto la trasmissione in diretta sul sito Internet del Senato».
E intanto si prepara una denuncia collettiva per calunnia da parte dei big della Margherita contro il tesoriere infedele. Ma anche Lusi annuncia querele contro chi lo critica senza aver partecipato ai lavori di Giunta. "Si apre la querelle: giusto pubblicare le sedute della Giunta sulle immunità?"

Corriere 19.5.12
Pd diviso dalle parole del senatore
Lite Renzi-Misiani sui bilanci online


ROMA — Propone Matteo Renzi: «I tesorieri di tutti i partiti mettano online le spese fatte con il finanziamento pubblico». Il tesoriere del Pd, Antonio Misiani, gli risponde secco: «I bilanci del partito a cui è iscritto, il Pd, sono online fin dalla fondazione». Dopo le accuse che l'ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, avrebbe fatto in giunta per le immunità al Senato («a lui ho dato 70 mila euro»), il sindaco di Firenze ha già reso noto i nomi di 73 finanziatori della sua campagna elettorale. Lusi, indagato dalla procura di Roma per appropriazione indebita dei fondi della Margherita, avrebbe anche affermato di aver finanziato Rutelli, Bianco, Franceschini, Bindi, Fioroni, Letta, Realacci e Gentiloni «per attività politiche». Creando fratture nel Pd. Perché Margherita e Ds presero finanziamenti (circa 400 milioni) dal 2006 al 2011, nonostante nel 2007 fossero confluiti nel Pd. Nell'ex Margherita si fa notare la differenza tra gli usi personali e i finanziamenti politici annunciando querele. La procura di Roma ha chiesto la trasmissione delle audizioni di Lusi al Senato. La giunta si vedrà mercoledì per parlarne e il presidente, Follini, è intenzionato a proporre sedute «a porte aperte» per evitare ulteriori fughe di notizie.

La Stampa 19.5.12
Summit Nato, la protesta
Occupy Wall Street alla conquista di Chicago “Non si torna più indietro”
Sul pullman con gli indignati: sfonderemo la porta per la rivoluzione
di Paolo Mastrolilli


Da New York all’Illinois Sveglia all’alba, caffè all’autogrill e sul pullman subito slogan battaglieri: «Chicago brucia»
I ragazzi hanno studiato sui testi distribuiti dai leader: volto mascherato, messaggi criptati via Twitter e silenzio se arrestati

Andiamo a Chicago per non tornare più indietro». Magari esagera Louis a parlare così, ma l’enorme tatuaggio che gli copre tutto il braccio destro è chiaro: «Faith is Pain», per credere bisogna soffrire. Il fatto che siamo dentro una chiesa, la West Park Presbyterian Church di Amsterdam Avenue, non c’entra molto col tono evangelico del tatuaggio. Questa è una delle parrocchie più liberal di Manhattan, la prima ad aver integrato i fedeli gay, e si è offerta come punto di raccolta per i manifestanti di Occupy Wall Street che vanno a rovinare la festa della Nato nella città di Obama. Louis, 22 anni, tecnico dell’aria condizionata al Bronx, è uno dei ragazzi che si sono dati appuntamento qui per la marcia su Chicago. Bus gratuiti, organizzati dal gruppo «99% Solidarity» e finanziati dal sindacato National Nurse United. Partono da otto città, New York, Washington, Philadelphia, Boston, Providence, Atlanta, Los Angeles e Portland, per convergere tutti insieme in Illinois e unirsi alle proteste pianificate da Occupy Chicago.
Sono le due del mattino e gli attivisti arrivano come congiurati. Diane, uno dei leader che fa l’avvocato civilista in New Jersey, è vestita con pantaloni e camicetta, come se stesse per discutere una causa; Barbie e Toxic, studenti di Brooklyn, sfoggiano capelli fuxia, anfibi, borchie, giacca di pelle, e piercing dove neppure un torturatore della Santa Inquisizione si sarebbe azzardato a infilare metalli appuntiti. L’atmosfera però ricorda una gita scolastica, o al massimo una missione di hooligans per una partita di calcio inglese. Qualcuno suona il piano della chiesa. Una signora dai guanti neri con le dita mozzate distribuisce panini al tacchino: ha fatto dumpster diving nello Starbucks all’angolo della strada, recuperando confezioni intatte dai rifiuti. Diane passa i manuali per il comportamento in caso di arresto, e il numero di emergenza della National Lawyers Guild che offre assistenza gratuita ai detenuti: «Quando vi fermano dite che non acconsentite ad essere perquisiti, e poi tacete». È preoccupata: «Non vado a Chicago per farmi prendere, ma prevediamo centinaia di arresti. La polizia si è addestrata a lungo: cannoni assordanti, barricate. Dopo tanta fatica, vorranno usare l’apparato che hanno costruito». Yoni Miller, 18 anni, mostra ai colleghi come usare il sistema di messaggi Vibe mettendo un doppio hashtag prima di ogni testo, per nascondere le parole e comunicare in maniera segreta. A Zuccotti Park lo chiamavano il «Presidente di Occupy Wall Street»: «Non ci sono presidenti qui, solo gente che protesta per avere una vita decente». Lui passa per genio della matematica, ma ha lasciato l’high school e creato un sito per le ripetizioni online agli studenti superdotati delle scuole pubbliche.
Arriva Stephen Webber, capo spedizione, cinquant’anni e i capelli bianchi. Aveva un’azienda digitale per la comunicazione medica, ma a ottobre l’ha venduta e ora fa il manifestante a tempo pieno. Lui, insieme a un «captain» che c’è su ogni bus, appartiene alla categoria degli «inarrestabili»: se la polizia lo ferma gli altri devono farlo scappare, perché ha il compito di riportare la carovana a casa dopo le proteste. Sul suo iPad controlla i nomi degli iscritti e li indirizza ai pullman. Sono le quattro del mattino, quando finalmente si parte. Ci aspettano 1.200 chilometri di autostrada, ma i ragazzi cantano: «Burn Chicago, burn! ». La prima sosta è a Kylertown, Pennsylvania, per il caffè. Louis arrotola una cartina, con dentro una roba da finire in galera: «È la mia colazione». Lo guarda perplesso Yuri, che sul braccio porta una crocerossa: «Sono uno degli infermieri. Vengo da Irkutsk, in Siberia. Ho fatto il corso per l’assistenza in combattimento con l’Armata Rossa. A settembre sono venuto in vacanza, ho visto la protesta di Zuccotti Park, e non sono più ripartito».
Risaliti sul bus, Stephen spiega il progetto: «Per me è un fatto personale. Sono nato a Guantanamo da un pilota di caccia, che poi è stato abbattuto in Vietnam e ha fatto due anni di prigionia. Mia madre protestava contro il nucleare, e la prima volta venni arrestato con lei nel 1982. Vedere stravolta la missione per cui è stata fondata l’America è insopportabile. Io ero favorevole alla guerra in Afghanistan, ma ora è troppo. Obama è meglio di Bush, ma di poco: anche lui è nella tasca delle lobby. Andiamo a protestare contro la Nato perché è il braccio armato del complesso militare industriale, che indirizza le risorse del paese dove vuole l’1% dei più ricchi, e affama il 99%».
Fuori dal finestrino scorrono le colline della Pennsylvania rurale: «Qui si lamenta Yoni - è tutto fracking, quella tecnica tossica per l’estrazione del gas». Webber riprende il discorso: «Durante l’inverno Occupy Wall Street è stata calma, perché dovevamo ridefinire il messaggio, che era troppo confuso. Abbiamo fatto riunioni ogni settimana, con amici tipo l’ex leader di Tiananmen Shen Tong, professori della Columbia University come Todd Gitlin, che nel Sessantotto guidava la Sds, ribelli internazionali tipo il serbo Ivan Markovic. Pensavamo di puntare sull’ineguaglianza, ma è un’idea negativa. Abbiamo scelto il concetto di fairness, giustizia per tutti. Sotto questo ombrello puoi infilarci ogni cosa: dalla riforma fiscale ai costi dell’università. L’obiettivo è trasformarci in un movimento politico, fare raccolta fondi con il crowd sourcing, e in prospettiva favorire l’elezione in Congresso di parlamentari vicini alle nostre posizioni. Il modello è un po’ il Tea Party, che non è diventato partito, ma ha aperto la strada alla protesta contro il sistema e condiziona gli uomini e le scelte dei repubblicani.
Qui a Chicago la manifestazione più dura sarà domani. I prossimi obiettivi poi sono una grande evento a Filadelfia il 4 luglio, il 17 settembre l’anniversario di Occupy Wall Street, e l’inauguration del presidente a gennaio, dove contiamo di portare un milione di persone a Washington. Serve per costruire la visibilità, altrimenti tutte le energie della protesta vanno perdute».
La sosta pranzo è a Youngstwon, Ohio: pizza per tutti, offerta dai sindacati. Poi altre otto ore di bus, tra i silos nella campagna dell’Indiana, ascoltando Paul Simon e guardando il film «Breakfast Club» su una banda di studenti ribelli. Con i cartoni della pizza i ragazzi hanno disegnato cartelli appesi ai finestrini: «Healthcare not Warfare». E anche messaggi per il G8: «Support the Robinhood Tax», la tassa sulle transazioni finanziarie. Alle porte di Chicago Diane spiega le possibili sistemazioni per la notte: «A, ospitalità da amici. B, campeggio in aree autorizzate. C, occupare un manicomio di South Side appena chiuso». Dal fondo del bus si alza una voce rumorosa e compatta: «Manicomio, manicomio! ». Stephen sorride con sguardo paterno, compiaciuto e preoccupato: «È così in tutte le rivoluzioni: ci vuole qualcuno che sfondi la porta, affinché gli altri possano passare».

La Stampa 19.5.12
Ungheria, il governo spegne l’ultima radio d’opposizione


Il governo di destra di Viktor Orban al potere in Ungheria ha approvato ieri in Parlamento una legge destinata a liquidare definitivamente Klubradio, unica voce di opposizione ancora in vita. Con il provvedimento, adottato quale emendamento alla legge sui media, il Consiglio dei media, organo di sorveglianza, non è più obbligato ad assegnare la licenza per una frequenza al vincitore di un concorso. Si disinnesca così il verdetto di un tribunale che lo scorso febbraio aveva stabilito che il Consiglio dei media avrebbe dovuto fare il contratto per la licenza con Klubradio. Infatti il tribunale aveva annullato un falso concorso organizzato dal Consiglio in cui era risultata vincitrice un’emittente inesistente, imponendo al Consiglio di rifare la gara per le frequenze.
Il vicepresidente del partito socialista (all’opposizione), Laszlo Mandur, ha detto che il voto è «una condanna a morte» per la radio. Andras Arato, presidente dell’emittente, confida ancora nel capo dello Stato, il nuovo presidente della Repubblica Janos Ader, che forse rifiuterà di firmare la legge emendata, e nella Corte costituzionale che potrebbe abrogarla. La battaglia non è ancora persa definitivamente per i sostenitori della radio che stanno pagando contributi volontari per il suo mantenimento in vita.
I collaboratori dell’emittente lavorano senza paga da mesi poiché la pubblicità non arriva a Klubradio per l’incertezza della sua esistenza. Arato ha avvertito tutto il mondo della stampa ungherese: a questo punto servirebbe un atto di solidarietà dell’intero settore, poiché non si tratta più solo di Klubradio, ma è in pericolo l’intera libertà di stampa e di parola in Ungheria.

La Stampa 19.5.12
“Con 30 euro la Chiesa si è presa la moschea di Cordova”
Gli islamici: è patrimonio di tutti, ma non ci lasciano pregare
di Gian Antonio Orighi


Hanno rubato la cattedrale moschea di Cordova». La Junta Islamica (JI), organizzazione nazionale spagnola no profit dei fedeli di Allah, torna alla carica con il celeberrimo tempio, innalzato dodici secoli fa da Abderrahmán I e dichiarato dall’Unesco, nel 1984, patrimonio mondiale dell’Umanità. Da anni la JI chiede inutilmente di poter pregare davanti al Mihrab, la nicchia che conteneva una copia dorata del Corano, e dare un uso religioso condiviso alla basilica. Adesso, dopo il «no» del vescovo, accusa la Chiesa di aver «carpito» il meraviglioso capolavoro architettonico con 850 colonne di marmo. Sborsando la ridicola cifra di 30 euro.
«Il furto è stato possibile grazie a due miracoli - accusa il sito Webislam della JI -. L’ex premier popolare Aznar, cambiando la legge ipotecaria nel ’98, ha permesso alla Chiesa prima di appropriarsi degli edifici del demanio, benché siano patrimonio di tutti gli spagnoli, poi di disporre di un edificio di 23.400 metri in pieno centro della città senza spendere un centesimo, visto che non paga non solo l’Ibi (l’Imu spagnola, ndr) ma neppure le spese di conservazione».
La legge ipotecaria in questione è quella del 1946, con la quale l’osservantissimo dittatore Francisco Franco permetteva alla Conferenza Episcopale Spagnola (Cee) di registrare la proprietà di alcuni beni senza proprietario, «ad eccezione dei templi destinati al culto cattolico». A tal fine, il Caudillo decise nell’art. 206 che, senza notificazione pubblica e notaio, bastava che il vescovo dichiarasse che il bene apparteneva alla Chiesa. Alla fine degli Anni 90 l’allora primo ministro popolare Aznar tolse a sorpresa le eccezioni.
«Dal ’98 la Cee si è appropriata di centinaia di basiliche, come quella di Cordova. E l’ex premier socialista Zapatero, nei suoi otto anni di governo, non ha cambiato la legge», lamenta la Junta Islámica. Che poi ricorda come il mancato apporto tributario della Cee all’Ibi, proprio in un momento di acutissima crisi economica, sia stimato in tre miliardi di euro all’anno.
Ma c’è di più. Gli islamici, arrabbiati anche perché nel 2010 il vescovo di Cordova, Demetrio Fernández, voleva togliere il doppio titolo cattedralemoschea al fantastico edificio (eretto dove si trovava l’antica basilica di San Vicente Martire, distrutta dagli islamici nel 711), criticano pure che sia esentasse, perchè gli 8 milioni di euro annui incassati con i biglietti d’ingresso da 8 euro sborsati dai turisti sono considerati «donazioni».

Corriere 19.5.12
Una fanciulla rapita da Zeus L'Europa inventata dai greci
di Eva Cantarella


L'Europa senza la Grecia: se ne parla come se fosse una possibilità, spiegando le tragiche conseguenze economiche che questo porterebbe con sé. Ma non solo di economia si tratta, quando si parla della Grecia. Si tratta anche del nostro presente e di quello che esso è grazie ai greci e alla loro storia: grazie a quella Grecia, vale a dire, la cui presenza è ancora parte essenziale della nostra vita, a cominciare come ben noto dal nostro vocabolario. Da dove vengono, se non da quella Grecia, parole come mito, teatro, diavolo, politica, democrazia, demografia, apoteosi, antropologia, geografia, psichiatria, telefono, diagnosi, terapia (solo alcuni tra gli innumerevoli esempi, pochi nomi a caso, tra i primi che vengono alla mente). Ma il lascito linguistico non è che una delle tante loro eredità che (anche se non lo sappiamo o non ci pensiamo) ci accompagnano nella vita quotidiana. Per ricordare le quali, o almeno parte delle quali, proviamo, in modo semiserio, a immaginare l'inimmaginabile: come sarebbe la nostra vita oggi, come e cosa sarebbe l'Europa se non fosse mai esistita «quella» Grecia? Quella di Omero e di Eschilo, della battaglia di Maratona e di Pericle, di Zeus, degli dèi dell'Olimpo e dei miti...
Per prima cosa, il nostro continente non si chiamerebbe Europa. A farci sapere perché ci chiamiamo europei, infatti, è un mito (ovviamente greco): quello della ragazza Europa, figlia di Antenore, re della città fenicia di Tiro, sulle coste dell'Asia minore. Un giorno, mentre giocava con le compagne sulla spiaggia, Europa venne rapita dal solito Zeus che, colpito dalla sua bellezza, assunse le sembianze di un bellissimo toro bianco, dalle corna così lucenti che sembravano spicchi di luna. Bello e apparentemente mansueto l'animale andò a sdraiarsi ai piedi di Europa che, fiduciosa, sedette sulla sua groppa. E subito Zeus-toro, rizzatosi sulle zampe, si gettò in mare, raggiungendo a nuoto le coste di Creta, ove si unì a Europa sotto dei platani cui, da quel giorno, fu concesso di non perdere mai le foglie. Potenza del mito: vicino alla città cretese di Gortina esiste un platano, ove tuttora i giovani sposi si recano in pellegrinaggio, la sera del matrimonio... Ma prescindiamo pure dal nome. Difficile ricordare le infinite cose che mancherebbero alle nostre vite in una immaginaria Europa della quale Grecia non avesse contribuito a fare la storia: non potremmo leggere Omero, Saffo, la lirica, i grandi tragici, Erodoto e Tucidide, e non mi pare cosa da poco. Non avremmo i templi di Paestum e di Selinunte. I musei (tutti, non solo quelli europei) sarebbero infinitamente più poveri: niente frontone del Partenone al British Museum, niente arte greca al Louvre e al Metropolitan, niente altare di Pergamo al Pergamon Museum di Berlino... Chissà se Frau Merkel lo ha mai visto. Non c'è momento e aspetto della nostra vita che non ci riconduca all'esistenza dei greci. Un solo esempio, la psicoanalisi (che ovviamente avrebbe un altro nome): come avrebbe fatto Freud a spiegare i misteri della nostra psiche senza Edipo? E per finire, ma solo per ragioni di spazio, e tralasciando, sempre per motivi di spazio, i loro lasciti in campo scientifico, come sarebbe l'Europa se nel 490 a.C. l'immane esercito persiano non fosse stato sconfitto nella piana di Maratona da Milziade a capo di 10.000 opliti ateniesi? La storia non si fa con i se, lo sappiamo bene, ma una cosa è certa: i greci combatterono e vinsero per difendere la loro libertà di cittadini, per non essere sottomessi a un impero dove esistevano solo dei sudditi. E nel farlo consentirono a noi di conoscere e di ereditare la democrazia. Come sarebbe stata la nostra storia, se essi non l'avessero sperimentata e non ce ne avessero insegnato il valore? Come saremmo, oggi, se non ci avessero trasmesso l'orgoglio di essere noi, i cittadini, i titolari della sovranità?
Che mondo povero sarebbe il nostro, senza quella Grecia. Eppure, nel discutere la possibilità (pur cercando di scongiurarla) di escludere la Grecia di oggi dall'Eurozona, tutto quello cui si pensa è l'aspetto economico del problema. Che è, ovviamente, assolutamente fondamentale. Ma, accanto a esso, la Grecia non meriterebbe che venisse preso in qualche considerazione anche tutto quello che le dobbiamo? Quanta ingratitudine, oggi, per la ragazza Europa.

Corriere 19.5.12
Vite e segreti in via Panisperna L'amore ai tempi dell'atomica
La razionalità di Fermi e le emozioni (tradite) del suo amico
di Paolo Beltramin


Anche la fisica dipende dai punti di vista. L'ora più buia della storia della scienza ha molti colori diversi, osservata dal chiuso di un laboratorio. «Alle 5.28 del 16 luglio 1945, nel deserto di Alamogordo erano coriandoli quelli che Enrico Fermi ha tirato in aria. Piccoli pezzi di carta. La prima bomba atomica era appena esplosa come test e aveva trasformato quella porzione di terra in un cratere lunare. Ma lui non ha voluto guardare in faccia la deflagrazione. L'ha misurata. Calcolando lo spostamento dei piccoli pezzi di carta rispetto alla verticale per l'effetto dell'esplosione».
La scena che dà il titolo a Coriandoli nel deserto di Alessandra Arachi (Feltrinelli, pp. 138, 10), romanzo veloce e potente come un'esplosione, è un flashback improvviso che spezza il corso del racconto, ambientato in una stanza d'ospedale 24 anni più tardi. Le avventure, gli amori e le tragedie del gruppo di ricercatori che scoprì le proprietà dei neutroni lenti — primo, decisivo passo verso l'energia nucleare e la bomba atomica — sono stati raccontati più volte dalla letteratura e dal cinema, dalla Scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia ai Ragazzi di via Panisperna di Gianni Amelio. Questa volta l'autrice, giornalista del «Corriere della Sera» da quando studiava fisica all'università «pensando di poter fare la scienziata», ha scelto di non mettere al centro del racconto Fermi, capo del gruppo e futuro premio Nobel, né Ettore Majorana, il più geniale dei suoi allievi finito presto nel nulla. No, il protagonista si chiama Enrico Persico: è il migliore amico e il principale assistente di Fermi nel laboratorio di via Panisperna, eppure il suo nome non finirà nei libri di storia e nei nomi delle vie principali delle nostre città, alla sua vita sono dedicate appena otto righe sul sito della Treccani e sei su Wikipedia.
Coriandoli nel deserto è scritto in prima persona, come una sorta di diario — dal ritmo serrato, perfetto per un monologo teatrale — composto da Persico-Arachi negli ultimi giorni di vita dello scienziato. Il rapido, inconsapevole ma non per questo meno drammatico avvicinamento alla morte si intreccia con il bilancio di un'esistenza segnata dalla sconfitta, professionale e soprattutto umana. La natura non gli ha dato il talento del suo maestro, il destino non gli ha permesso di abbracciare il suo amore. «Sono stato io il primo che ha conquistato un posto nel prestigioso istituto di Fisica di via Panisperna. Lui me lo ha portato via», scrive Persico nel suo diario. Lui, naturalmente, è Fermi: «Il mio ventriloquo. Il mio faro. Il mio nutrimento. Il mio boia».
Tutto quello che conta davvero nella vita di Persico (e di Fermi, e dei milioni di altre persone coinvolte indirettamente da questa storia) è accaduto la mattina di lunedì 22 ottobre 1934, in quel laboratorio romano diventato famoso nel mondo. Fu nella mente del premio Nobel, certo, che si accese la scintilla. Fu lui a ideare l'esperimento che portò alla creazione di elementi radioattivi stabili, una scoperta più decisiva della trasformazione del piombo in oro. Ma cosa fu ad accendere quella scintilla? Forse una strana teoria di Fermi sull'amore: «Possiamo postulare che quando si parla di un sentimento chiamato amore, lo spazio non è importante — teorizza scherzando (ma forse no) il maestro all'allievo, in un raro pomeriggio di svago a Campo de' Fiori, seduti sotto la statua di Giordano Bruno —. Al momento del bisogno, infatti, la distanza dell'amata/o può venire annullata dalla velocità dell'amore che non è una costante ma è proporzionale all'amore stesso».
La mattina del 22 ottobre 1934 Persico ebbe la grande occasione di conquistare Nella, la donna della sua vita. Fu proprio l'energia incandescente del suo amore, quel giorno, a ispirare la grande scoperta di Fermi. L'esperimento fu un successo destinato a cambiare la storia dell'umanità, ma richiese il sacrificio di quella storia d'amore. Come fu possibile? È questo il grande mistero al centro del romanzo, e naturalmente viene svelato solo nelle ultime pagine.
«C'è l'amore dietro l'energia atomica», scrive Persico in un passaggio chiave della sua memoria. Certo, questo non è un diario ma «solo» un romanzo e la voce del protagonista in realtà è quella di una scrittrice appassionata di fisica e di psicologia, che scrive diversi decenni dopo la fine di tutta questa storia. Di sicuro c'è solo un dato biografico: Enrico Persico e Nella Mortara sono stati gli unici due ricercatori del gruppo di via Panisperna che non si sono mai sposati. Eppure, leggendo Coriandoli nel deserto, sembra tutto così terribilmente reale. Perché nel nucleo dell'atomo si può vedere l'amore o la morte, è solo questione di punti di vista.

Repubblica 19.5.12
George Steiner
“Dobbiamo imparare a dire no, il pensiero libero è in pericolo”
La Bibbia e la cultura contemporanea raccontate del grande critico
di Maurizio Bono


I libri non spariranno, il pensiero libero forse sì. Perché la vera fragilità è degli uomini: «La mia paura è che la collettività, o meglio la sua potenza tecnologica, soffochi tutto. Oggi una persona autonoma, libera, fatica a trovare una porta aperta per far conoscere la sua visione. I pensieri anarchici rischiano di perdersi in mezzo al rumore senza limiti, all´uniformità del gusto volgare e alla dittatura della ricchezza». George Steiner, il più lucido e originale critico delle crisi ricorrenti della cultura occidentale, è stato in questi giorni a Milano per accompagnare l´uscita (da Vita e Pensiero) del suo breve, denso testo Il libro dei libri, sottotitolo "Una introduzione alla Bibbia ebraica", e nonostante la diversità di approccio e convinzioni all´Università Cattolica, dove ha dialogato con il cardinal Gianfranco Ravasi, si è sentito perfettamente a casa: «Ricordi che per noi ebrei il testo è una patria, io credo che il giudaismo sia più una pedagogia trascendentale, un insegnamento che una religione. Rabbino significa insegnante e lettore della parola, non prete. La Bibbia è una mescolanza di fantastica diversità di narrazioni, saghe, racconti, leggende, leggi, rituali – come direbbe il mio grande amico Umberto Eco è veramente la "forma aperta" – senza la quale non ci sarebbero né arte, né letteratura e neppure musica, nella storia occidentale. Questo è il vero, profondo legame tra me e il mondo del Cardinale Ravasi: il nostro amore per i libri, in un mondo in cui l´esperienza della lettura seria, del dialogo personale e privato con il testo, sta diventando purtroppo rara». E così, oltre che a casa, George Steiner in questi giorni si è ritrovato anche spaesato, come altrove in Occidente: «Anche qui da voi stanno sparendo le piccole botteghe. Un segno. Perché l´omologazione, del paesaggio urbano e delle nostre vite, è talmente forte da rendere difficile pronunciare quella parola fondamentale che è "no". Per quanto saprà ancora, il singolo individuo, opporsi al conformismo? Per questo credo che il nostro mondo, quello dei professori e di chi ancora ci ascolta e ci legge, debba difendere una possibilità di resistenza».
Dove suggerisce di cominciare?
«Come ho detto ai giovani che ho incontrato, si comincia dalla lettura e dalla memoria. I giovani hanno una paura terribile della solitudine, ma la lettura seria, il dialogo con il testo, diventare amico di un grande poema o di un grande libro vuol proprio dire stare soli, nella concentrazione e nel silenzio, per riconoscere se stessi».
Perché abbiamo perso l´abitudine di farlo?
«Vorrei dire una cosa un po´ pericolosa: il cattolicesimo non è un grande amico della lettura. Il ruolo universale della Bibbia è un prodotto del protestantesimo. Sono state la traduzione di Lutero e la Bibbia di Re Giacomo a garantire alla Bibbia una vera universalità. Il cattolico, specialmente nei paesi mediterranei come Italia e Spagna, la legge poco, mentre il protestante è lettore della Bibbia dall´infanzia. Ma soprattutto oggi c´è un altro problema».
Quale?
«La scuola. E se mi permette anche la scuola italiana. Che è diventata una forma di amnesia organizzata. Memorizzare un brano, una pagina di Geremia o di Dante o di Shakespeare vuol dire interiorizzare una grande forza di resistenza. Il dispotismo della finanza, la dittatura della ricchezza di cui in Italia negli ultimi anni avete fatto diretta esperienza, non può distaccarci dalla nostra memoria interiore. Il grande poeta russo Mandel´stam, la Achmatova, sono sopravvissuti nella memoria dei loro lettori. Neppure Stalin ha potuto distruggerla. Per questo, mi sembra fondamentale dare al muscolo del ricordo un po´ di forza: io all´espressione italiana "imparare a memoria", che è un po´ banale, preferisco quella francese, "apprendre par coeur", o l´inglese "by heart"».
Si può proporre la Bibbia a memoria anche a orecchie ormai abituate al rumore assordante?
«La Bibbia rimane l´inventore delle principali tematiche del nostro autoriconoscimento, il miracolo è la qualità anche letteraria di quei testi, imparagonabile a ogni altro libro per forza narrativa. Le pagine sul destino di Gerusalemme, Geremia, la storia di re Saul e David, la meravigliosa favola di Ruth la straniera nel paese dei Moabiti: questi e tanti altri sono brani senza i quali non esisterebbe la cultura occidentale. La voce formidabile che risuona dal deserto e dal passato rimane il codice e la definizione, con Omero, Dante e Shakespeare, gli altri tre sommi autori, della nostra coscienza europea e di quella americana».
Omero, Dante, Shakespeare, la Bibbia antidoto ai guasti sociali del presente. Eppure è stato proprio lei, professore, a descrivere meglio di chiunque altro la cultura occidentale, in lavori come il Castello di Barbablù o il recentissimo On the poetry of though (Garzanti lo pubblicherà in italiano in autunno) come un susseguirsi di crisi e cesure, dalla classicità alla "post-cultura".
«Sì, è troppo facile lamentarsi e credere che a ogni generazione la nostra civiltà sia alla fine. C´è il rischio di sbagliare come i più autorevoli intellettuali d´Europa che all´avvento della rivoluzione di Gutenberg parlarono della morte del libro. È un azzardo fare pronostici sulla attualità, appaiono sempre nuove forme. Si può solo, a volte, definire la transizione mentre avviene, vedere il passo che attraversa la frontiera: pensiamo all´Ulisse di Joyce, un capolavoro classico nel senso più radicale, opera vicina a Omero, e poi a Finnegan´s Wake,, un´opera totalmente nuova scritta per trovare una lingua dell´inconsapevole, del sogno e della notte, un esperanto dell´ignoto. Joyce è stato un uomo di genio su due parti della frontiera, e la nostra età comincia davvero dopo Finnegan´s Wake, dopo il surrealismo e le altre avanguardie. Nel mondo del rock è cambiata la qualità del suono, della luce e perfino del corpo. Ma attenzione, il punto non è il susseguirsi delle forme nuove. Anzi. Ogni forma nuova è spesso l´espressione di una creatività».
Che oggi rischia di spegnersi.
«Sì. A causa di questa "collettività tecnologica", appunto. Che non lascia spazio agli sperimentatori. Se l´Ulisse joyciano si concludeva con il celebre "yes" di Molly Blooom, oggi è necessario stare con Sartre che scriveva: "il pensiero è dire no". Di fronte a questo, mi piace ricordare che per il popolo ebraico il libro dei libri è stato la garanzia della sopravvivenza e della identità, un libro eternamente "tascabile", col quale da un esodo all´altro ha potuto portarsi dietro, nel successivo rifugio ed esilio, l´essenza di sé».
Nella prefazione al suo libro, che è anche un dialogo tra voi, Ravasi esprime un garbato rammarico per il fatto che "Steiner, collocato sulla frontiera (per altro mobile) dell´agnosticismo, lascia qua e là brillare, ma non affronta mai di petto" l´"interrogativo estremo". Insomma, non contempla che il vero autore della Bibbia possa non essere l´uomo...
«Sì, io non credo a una rivelazione sovrannaurale. Anche se nel Libro dei libri ci sono trame e capitoli, che sono di una tale potenza e perfezione formale che è molto difficile per me immaginarli prodotti da un uomo come lei o come me. L´ho già detto facendo un esempio oramai noto: posso immaginare Dante che dopo aver scritto l´incontro con Brunetto Latini va al supermarket a comprare il pane o il burro, ma non posso immaginare l´autore o l´autrice – è possibile che sia un´autrice – dei discorsi di Dio nella bufera del libro di Giobbe o del Salmo 23 come una persona comune, per quanto straordinaria»
Quindi chi ha scritto la Bibbia?
«Heidegger su questo punto ha dato una risposta affascinante: la Bibbia rappresenta un momento dell´evoluzione umana dove la lingua era più prossima all´aurora dell´essere, una lingua quasi adamica, immediata alla verità. Una teoria meravigliosa ma totalmente assurda, perché l´evoluzione linguistica dell´uomo è un processo sociobiologico naturale. Di fronte all´origine di quel testo immenso preferisco rimanere nell´enigma e nello stupore senza fine».

Repubblica 19.5.12
Il nuovo saggio di Giulio Giorello
Il traditore modello
Infame o benedetto un simbolo per tutte le passioni
di Nello Ajello


Si sfiora Catilina, si insegue in Dante il conte Ugolino, passato dal partito ghibellino al guelfo
"Uno che giura e mente" è la definizione che dà di lui Shakespeare nel "Macbeth"
Il nuovo saggio di Giulio Giorello racconta forme e protagonisti, storici e attuali, dell´infedeltà: dalla politica all´amore, passando attraverso la letteratura

Tradire è solo questione di punti di vista? Sì e no. Talora, è anche questione di revolver». La domanda – e la chiosa glaciale che le fa compagnia – sono le note dominanti del saggio di Giulio Giorello, Il tradimento: in politica, in amore e non solo, edito da Longanesi.
Il tradimento nella sfera amorosa rientra solo in maniera sporadica nei temi del libro, il cui percorso attraversa in generale la pratica di governo, la teologia, la metafisica, l´etica e l´arte. In ciascuno di questi recinti, è determinante la figura del traditore, esposto a diventare un proverbiale modello di protervia. Le varianti che volta per volta egli assume si estendono dalla figura del "fellone" a quella del simulatore o dissimulatore, dell´illusionista, del burattinaio che muove i complici come marionette, del bugiardo o dello spergiuro («Che cos´è un traditore?, ci si domanda in un versetto del Macbeth scespiriano. «Uno che giura e mente», sarà la risposta). Falso devoto, finto amico e torbido giocatore con le vite altrui, di rado il traditore vede svanire le proprie trame. Al termine della parabola può esserci la consegna ai nemici di una vittima predestinata: in questo senso è Giuda il più classico progenitore della categoria. Ecco che qui l´etimologia interviene a illuminarci: in latino «tradere», da cui «traditore», significa appunto «consegnare», mentre – per dirne solo un´altra – il «sicario», eventuale braccio armato dell´operazione, prende il nome dal pugnale, detto, sempre in latino, «sica». A volte, per rimorso, debolezza o generosità, il traditore si suicida.
La casistica esibita da Giorello è straripante e a tratti intricata, anche per il generoso spreco di citazioni. Essa si estende da quel Flavio Giuseppe che, in occasione della guerra giudaica del 66 dopo Cristo, passò dalla funzione di ex capo dei ribelli di Israele a quella di collaborazionista dell´impero di Vespasiano. Il volume, com´è naturale, indugia sull´immagine dell´Iscariota, memorabile «cattivo». Passa poi da Bruto e Cassio – gli «impenitenti repubblicani» che fecero di Cesare l´emblema del despota giustiziato, contribuendo ad esaltarne il mito – a quella Guerra delle due Rose che di complotti e tradimento fu un ricettacolo. Si sfiora Catilina, s´insegue nelle terzine dantesche il conte Ugolino della Gherardesca, passato dal partito ghibellino al guelfo, e questa fu certo la minore delle nefandezze che gli costarono una condanna tramandata nei secoli. Si fanno poi i conti con Rodrigo Borgia, divenuto papa Alessandro VI, e con il suo rampollo Cesare, detto il Valentino.
Eccoci qui giunti in pieno terreno machiavelliano. Mentre nell´Inferno dantesco in termini di tradimento si «giudica e manda» – e delle gesta esecrabili dei traditori risuonano i quattro cerchi della palude di Cocito – qui, al cospetto di Machiavelli, ciò che Giorello chiama «il nostro cammino per i sentieri del tradimento» conosce svolte imbarazzanti o, a seconda degli umori, luminose. È inevitabile accorgersi – non per l´autore di questo libro, che certo già lo sapeva, ma per eventuali lettori meno esperti – che l´autore del Principe si adoprerà a spogliare il tradimento delle vesti turpi e catastrofiche che gli ha cucito addosso una tradizione già ai suoi tempi inveterata. Almeno per chi voglia esaminarne l´essenza in chiave politica, quel presunto peccato non regge al vaglio della ragione. Se la fedeltà è un valore, è il caso di accogliere l´idea (così Giorello riassume la questione) «che la politica nulla abbia a che fare con quelli che chiamiamo valori». Così ragionando, il Segretario fiorentino ho rotto i ponti «con teologi ossessionati da Dio e con umanisti esaltati dalla "dignità" dei discendenti di Adamo». D´ora in poi, il tradimento si vedrà «legittimato». Al punto, scrive Giorello, «che possiamo sospettare che pensare fuori dal tradimento equivalga a pensare fuori dalla politica».
Abbiamo visto, echeggiati dall´autore, sant´Agostino, Giovanni Calvino, Joseph Ratzinger e perfino (con un suo taglio intelligente e paradossale) José Saramago misurarsi per iscritto su Cristo e su Giuda. Si è tentato più avanti di spiegarci come e perché Stalin, despota d´un paese dominato dall´ossessione del tradimento, ne avrebbe ordito a sua volta uno per liberarsi di Sergej Kirov, suo amico e seguace. Abbiamo visto mettere in scena un confronto tra lo stesso Stalin e Jago, sulla scorta, fra l´altro, di una pagina di Giorgio Manganelli. Lì lo scrittore cercò di ricostruire «il senso del letale labirinto» nel quale si aggiravano i loro sospetti, scrutando con ironia il repertorio dell´uno e dell´altro, attraverso «gli amori, le menzogne, le calunnie lavorate con perizia, con onestà, da umile artigiano; le feroci morti, infami o infamanti». Si racconta inoltre, in queste pagine di Giorello, la storia di quell´Adolfo Suárez, che, dopo essere stato per lunghi anni seguace di Francisco Franco, sarebbe diventato senza esitare primo ministro della Spagna «liberale» che gli subentrò al potere. Ma proprio la presenza di Suárez fu poi determinante nello sventare il tentativo di congiura militare ordita nel 1981 da Antonio Tejero, un tenente colonnello della Guardia Civil nostalgico del Caudillo.
In tal modo, ciò che l´autore chiama «il buon uso del tradimento» emergerà, a lettura ultimata, come una risorsa di libertà, come «la leva che può scardinare il conformismo della servitù volontaria». Di questi sforzi, perfino mentre scriviamo, ci capita di registrare vari esempi. Non che tutti i tradimenti riescano, o portino vantaggio ai loro autori. Ma a volte, grazie alla misteriosa perfezione del Caso, il prodigio può avverarsi.

Corriere 19.5.12
Le scuse dello psichiatra «Un errore la ricerca sui gay da curare»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «L'omosessualità di gay e lesbiche può essere curata». Era il 2001 quando, a un convegno della American psychiatric association (Apa) il dottor Robert Spitzer illustrò la sua controversa tesi secondo cui è possibile, per alcuni individui estremamente motivati, cambiare il proprio orientamento sessuale da gay a eterosessuale. Il fatto che a pronunciare quelle parole fosse il celeberrimo docente della Columbia University, considerato dai manuali il padre della psichiatria moderna e lo psichiatra più influente del 20° secolo, contribuì solo ad accreditare la legittimità di tale provocatoria argomentazione. Nessuno poteva accusarlo di pregiudizio anti-gay. Nel 1973 era stata proprio la crociata personale dell'allora 41enne Spitzer a indurre l'Apa a rimuovere l'omosessualità dalla lista dei «disturbi mentali». Poi, nel 2001, quello studio bollato come «un tradimento» dai gay di tutto il mondo. Undici anni più tardi, lo psichiatra ha chiesto loro scusa per l'errore commesso. Cercando persino, senza riuscirvi, di pubblicare una ritrattazione sulla stessa rivista scientifica che nel 2001 aveva ospitato il saggio originale, denunciato come «pericoloso» dall'Organizzazione mondiale della sanità. Il mea culpa di Spitzer, oggi 80enne e gravemente malato di Parkinson, è avvenuto in un'intervista al New York Times. «Giacevo sveglio nel letto alle 4 del mattino, quando ho deciso che era giunto il momento di farlo», afferma Spitzer, «mi alzai annaspando nel buio e con enorme difficoltà, data la mia condizione, raggiunsi la scrivania dove presi carta e penna». Quando il direttore della rivista Archives of Sexual Behavior si rifiutò di pubblicare la sua ritrattazione, Spitzer ha chiamato il Times. «Dovevo chiedere scusa alla comunità gay per i miei studi che sostengono tesi fasulle sull'efficacia delle terapie riparatorie», incalza, «e voglio anche chiedere scusa a tutte le persone gay che hanno perso tempo ed energia sottoponendosi per colpa mia a tali inutili terapie».

venerdì 18 maggio 2012

l’Unità 18.5.12
Il compito della sinistra
di Alfredo Reichlin


LA CRISI SI AGGRAVA MA NOI NE USCIREMO. COMINCIO COSÌ. CON UN SENTIMENTO, NONOSTANTE TUTTO, DI FIDUCIA. Tutto è molto difficile. Ma se vado alla sostanza delle cose vedo che una uscita da destra democratica, di stampo europeo, non esiste. Una destra può anche vincere ma sarebbe solo un esito catastrofico della crisi italiana. Si aprirebbe una lotta tra vecchi e nuovi avventurieri sostenuti dall’agitazione sempre più demagogica e populista delle varie TV contro i partiti. Assisteremo non solo all’impoverimento del Paese (in una certa misura e per qualche tempo inevitabile) ma alla sua disarticolazione: sociale e territoriale. Il tramonto dell’Italia come grande nazione.
Sulle nostre spalle pesa, quindi, una responsabilità enorme. Ma è proprio il bisogno di unità della nazione, ed è la domanda di Europa che colloca il Pd al centro della situazione.
Sono le cose che chiedono un nuovo grande patto sociale e una riscossa civile come la condizione per voltare pagina. Ma noi siamo all’altezza di questo compito? Riusciamo a farci percepire come “la speranza”, cioè come la cosa di cui questo paese ha un disperato bisogno: di non cedere ai rancori e alla paura per credere invece che cambiare è possibile? Questo io mi chiedo e mi convinco sempre di più che occorre dare battaglia, anche dentro il Pd, per uscire dalle vecchie logiche di potere e dare un senso alla politica in quanto possibilità degli uomini di uscire dalla passività e di influire sulle sorti della propria vita. E quindi, anche per contare qualcosa nel mondo.
Non mi nascondo che i mesi che stanno davanti a noi saranno difficilissimi, forse drammatici. Ma mi rifiuto di inseguire solo gli “spread”. Voglio cominciare a chiamare le cose con il loro nome. Chi sono questi misteriosi mercati? Io non credo che sbagliavamo quando cominciammo noi per primi a parlare molto tempo fa su queste colonne della grande crisi economica dell’Occidente come della rottura dell’ “ordine” mondiale. Un “ordine” non solo economico ma politico e anche, se non soprattutto, intellettuale e morale. Non voglio ripetere cose già dette e ridette sulla finanza. È sempre più chiaro che fu fatale la decisione della destra anglo-americana di porre fine al cosiddetto compromesso socialdemocratico e di affidare alle logiche dei mercati finanziari il governo delle società umane. Si è visto il risultato. I mercati finanziari sono “ciechi”. La loro natura è speculativa. Vedono solo ciò che si può guadagnare nel breve periodo. Prendi i soldi e scappa. Si spostano nel mondo con un “clic” sul computer, in pochi secondi. La sorte di una grande e antica storia come quella del popolo greco, oppure il fatto che per mettere in piedi una fabbrica ci vogliono anni, tutto questo non è affare dei mercati finanziari. Naturalmente, sto semplificando. So benissimo che senza la finanza, gli imprenditori e gli Stati non possono nemmeno fare progetti per il lungo periodo. So bene che sono serviti grandi capitali per finanziare l’esplosivo sviluppo del mondo arretrato. Conosco i costi giganteschi della rivoluzione scientifica in atto: il digitale, l’informazione. Non sono un “indignado” che demonizza il ruolo della finanza.
So tutto questo. Ma ciò che io penso è altro. Penso che occorre allargare il campo della riflessione. Perché ciò che ormai sta venendo in discussione non è solo un problema economico. Dietro i meccanismi degli “spread” c’è ben altro. E io credo che sia arrivato il momento di chiamare le cose con il loro nome. Incombe su tutto questo io credo la formazione di un potere quale non si era mai visto così grande dopo la rivoluzione francese e la nascita del Terzo Stato, cioè della borghesia moderna. Questo è il dato. Cito solo un piccolo fatto italiano. Qualcuno denunciava gli stipendi troppo alti della tecnocrazia italiana e citava il manager Tronchetti-Provera il quale guadagnerebbe una cifra annua corrispondente a 60mila euro al giorno. Il Tronchetti freddamente precisò che si trattava di circa la metà. Ma il punto non è questo anche perché c’è gente che guadagna molto di più. È la domanda sul tipo di società in cui viviamo. La grande maggioranza degli italiani guadagna poco più di mille euro al mese. Quindi 30-35 euro al giorno. Quindi 30 non contro 300 ma contro 30.000. Mi chiedo: dopo i grandi sultani dell’Oriente e i grandi principi europei prima della rivoluzione francese e dalla nascita dello Stato moderno si erano mai viste distanze così grandi?
Non sto sollevando un problema di giustizia. Sto cercando di capire cosa sia il sistema attuale. È il capitalismo che abbiamo conosciuto fino a ieri? Il capitalismo, dopotutto, è stato una civiltà, si è retto anche su un compromesso sociale. Certo, è stato lo sfruttamento del lavoro ma, insieme con esso, la formazione della società del benessere. È stato la più grande macchina per la ricchezza che ha consentito in due secoli di fare molto di più che nei ventimila anni precedenti. Questo è stato, con tutte le sue ingiustizie ma anche le sue conquiste di libertà.
Adesso siamo di fronte a un’altra cosa. Siamo alla crisi di questa civiltà: la civiltà del lavoro umano e della valorizzazione delle capacità creative dell’imprenditore. Siamo alla riduzione della ricchezza al denaro. Ma un denaro fasullo fatto col denaro. Siamo al fatto che il mondo è stato inondato da una moneta fittizia la cui massa è ormai diventata tale da superare di nove volte la produzione della ricchezza mondiale. Chi paga? Devo ripeterlo perché è proprio così: l’economia di carta si sta mangiando l’economia reale.
La situazione è drammatica ma anche molto semplice. È chiaro che questo sistema non è in grado di dare un futuro al mondo. Mette a rischio valori e beni essenziali. La drammatica vicenda europea è così che va letta. È su questo terreno che la democrazia moderna si sta giocando tutto. Al punto che il presidente della Consob (non un pericoloso sovversivo ma il garante della Borsa di Milano) ha tuonato contro la “dittatura” dei cosiddetti mercati finanziari e ha denunciato il fatto che questo mercati, attribuendo ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, stanno nei fatti vanificando il principio del suffragio universale. Caspita. Allora ho ragione io. È di potere politico che dobbiamo parlare non solo di economia. Ecco la necessità e il ruolo della politica. Bisogna alzare il tiro. Bisognerebbe immaginare l’Europa anche come un grande “fatto politico”, cioè come un fattore essenziale della lotta per una nuova civiltà del lavoro. Io è qui che vorrei vivessero i miei nipoti: nel luogo più bello e più civile del mondo. Dove l’uomo, in quanto persona, conta.
Certo, l’uscita dalla crisi economica sarà lenta e richiederà saggezza e realismo. Il nemico non sono le banche, senza le quali si ferma tutto. Ciò che è necessario è la creazione di un nuovo potere democratico capace di contrastare lo strapotere dell’oligarchia dominante. Questo è il compito della sinistra.

l’Unità 18.5.12
La salvezza dell’Italia e dell’Ue è nelle mani dei progressisti
di Stefano Fassina


IL COLLASSO DEL GOVERNO CONSERVATORE IN OLANDA, PASDARAN DELLA MERKEL. LA VITTORIA DEL “VETERO SOCIALISTA” HOLLANDE A PARIGI. Il successo dell’old laburista Ed Miliband alle elezioni amministrative nel Regno Unito. Il drammatico messaggio da Atene. La netta affermazione della “keynesiana” Kraft alla guida della Spd nel Nord-Reno Westfalia. Che vuol dire? Vuol dire che la linea di politica economica imposta nella Ue dai conservatori, tedeschi in primis, e condivisa da larga parte delle tecnocrazie di Bruxelles e Francoforte, è sbagliata. Vuol dire, come previsto, che l’area euro è sempre più avvitata in una spirale di recessione-aumento della disoccupazione-instabilità di finanza pubblica. Vuol dire che non possiamo uscire dal tunnel attraverso il pareggio di bilancio, il controllo dell’inflazione e le mitiche riforme strutturali. Vuol dire infine che è necessario il sostegno alla domanda aggregata per innalzare il livello dell’attività produttiva e orientarlo verso lo sviluppo sostenibile e i beni comuni e di cittadinanza: Keynes e Schumpeter insieme, anzi Keynes al servizio di Schumpeter.
Dopo l’affidamento esclusivo alle riforme strutturali e il tentato blitz sulle regole per i licenziamenti al fine di inseguire l’impossibile via della “svalutazione interna”, imposta dalla Merkel e giustificata sul piano economico dalla Commissione Barroso, dalla Bce e l’altro ieri da una deprimente nota conclusiva della missione a Roma del Fmi, anche Monti si è convinto che il problema non è dal lato dell’offerta, ma dal lato della domanda. Propone la golden rule per allentare la morsa dell’austerità distruttiva, in sintonia con l’emendamento presentato al Patto di stabilità dai Socialisti e Democratici al Parlamento europeo su iniziativa di Roberto Gualtieri. È un passo avanti significativo, dovuto ai dati drammatici dell’economia reale e ai rapporti di forza maturati sul campo politico. Ora, si deve andare avanti, in coordinamento stretto con il presidente francese e i leader realisti europei.
Nell’area euro va perseguita l’agenda della Dichiarazione di Parigi discussa da Gabriel, Hollande e Bersani il 17 marzo scorso e confermata martedì dai leader della Spd in occasione della visita di Hollande a Berlino: mutualizzazione dei debiti sovrani («redemption fund»), piano europeo per il lavoro, investimenti finanziati da project bonds e tassa sulle transazioni finanziarie, regolazione e vigilanza europea dei mercati finanziari, agenzia “pubblica” europea per il rating, coordinamento delle politiche retributive. L’emergenza, però, è la salvezza della Grecia. Una comunità di uomini e donne sull’orlo di una involuzione economica e democratica dopo lo sciagurato governo conservatore dal 2005 al 2009 e la medicina sbagliata, per principi attivi e per dosi, somministrata, su prescrizione Merkel-Sarkozy, da Commissione europea, Bce e Fmi. Le parole della Cancelliera tedesca e del neo-presidente francese martedì a Berlino e la contestuale posizione di Mario Draghi aprono uno spiraglio di speranza.
In Italia è stato irresponsabile da parte del governo Berlusconi-Tremonti-Lega fissare, unico caso nella Ue, il pareggio del bilancio prima al 2014 e poi al 2013 nel contesto di una violenta recessione. Un’irresponsabilità accompagnata da subalternità e conformismo culturale di tanti autorevoli commentatori, anche di background progressista, al mantra del rigore. I dati sul Pil 2012 confermano che gli obiettivi di finanza pubblica per l’anno in corso e per il prossimo sono irraggiungibili. Insistere ad avvicinarli implica stringere ancora di più il cappio a imprese e lavoratori. Invece, come la Spagna, dobbiamo rinegoziare i nostri obiettivi con la Commissione europea. Per rinviare il previsto aumento dell’Iva. Per applicare la golden rule per gli investimenti immediatamente cantierabili dei Comuni. Per utilizzare le risorse recuperate dalla spending review su scuola pubblica e fondo per le politiche sociali. Da mesi, gli spread salgono per l’assenza di prospettive di ripresa non per l’andamento minaccioso della spesa pubblica. L’alternativa, allora, riguarda la strada per raggiungere obiettivi possibili: ulteriore distruzione di base produttiva o recessione meno severa. Dobbiamo arrivare al 50% di disoccupazione giovanile per svoltare verso il buon senso? I danni causati in Grecia dall’austerità cieca non insegnano nulla?
I risultati elettorali in Italia hanno resettato il discorso sulle alleanze. Quanti fino a ieri proponevano il governo Monti e il centrismo come orizzonte del Pd, oggi spiegano con disinvolta incoerenza il valore di un’alleanza incentrata sul perno progressista. Tuttavia il discorso, sebbene riorientato, continua ad essere politicista. Rimane assente dalla proposta politica il programma fondamentale, la visione, per l’Italia e per l’area euro. L’agenda dell’alleanza tra progressisti e moderati prevede l’attuazione delle lettere arrivate nell’estate scorsa da Francoforte e Bruxelles, come continuano a sostenere i partiti del Terzo Polo? Oppure, l’agenda è imperniata sulla Dichiarazione di Parigi?
Il Pd ha grandi responsabilità per il futuro dell’Italia. Dobbiamo costruire un’alleanza larga, innanzitutto fuori dal Palazzo, con le forze della società, del lavoro e della cultura. Ma, possiamo essere credibili in quanto indichiamo il nostro baricentro, non il recinto, culturale e sociale: l’europeismo progressista, il neo-umanesimo laburista, alternativo al liberismo; il lavoro subordinato, in tutte le forme. La riproposizione del Pd come forza subalterna e contenitore indifferenziato e generalista di qualunque interesse sociale porta al trionfo le soluzioni regressive. Oramai una corrispondenza biunivoca è evidente sul terreno politico: nel secolo asiatico, la salvezza dell’euro, asset necessario per la ricostruzione della civiltà del lavoro in Europa, è sulle spalle dei progressisti e, insieme, la salvezza dei progressisti è legata all’euro e al rilancio politico dell’Unione europea.

Corriere 18.5.12
Liberalismo e liberismo, una distinzione italiana
risponde Sergio Romano


A quanto mi consta, solo nella lingua italiana vi è distinzione terminologica in campo economico tra liberalismo e liberismo, risalente soprattutto a Croce. Alcuni difendono questa nostrana distinzione.
Francesco Meli

Caro Meli,
Effettivamente la distinzione appartiene quasi esclusivamente alla lingua e alla cultura italiane. Quando il Corriere, negli scorsi mesi, ha pubblicato il lungo dibattito su questo tema fra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ho ricordato che la parola «liberismo» non ha corrispondenti nelle lingue dei principali Paesi occidentali. Il dizionario italo-inglese offre free trade, free enterprise; il dizionario italo-francese suggerisce libéralisme, vale a dire la stessa parola che traduce l'italiano liberalismo; il dizionario italo-tedesco propone freihandel (libero commercio), freie wirtschaft (libera economia). Altri, fra cui gli spagnoli, preferiscono parlare di liberalismo economico.
Per Benedetto Croce, tuttavia, la distinzione era necessaria perché consentiva di evitare confusione fra un concetto che appartiene alla sfera morale (liberalismo) e un concetto che appartiene alla sfera economica (liberismo). Mentre il primo definiva il trionfo della libertà, il secondo era per lui uno «schema astratto» (noi diremmo oggi una ideologia), vale a dire una ricetta con cui si vorrebbero risolvere, una volta per tutte, i problemi pratici che un governo liberale può invece essere costretto ad affrontare con formule e mezzi diversi. A queste affermazioni di Croce, Einaudi replicò pragmaticamente che l'economista non deve essere un ideologo e che possono esservi circostanze in cui certe soluzioni non liberiste (dazi protettivi, nazionalizzazione di servizi pubblici) possono essere convenienti.
Aggiunse, per meglio dimostrare la sua disponibilità al confronto, che possono esservi addirittura circostanze in cui il liberismo viene praticato da un governo assoluto e suscita critiche liberali, come accadde in Francia nell'ultima fase del Secondo Impero, prima della guerra franco-prussiana del 1870 (se fosse ancora con noi, Einaudi non mancherebbe di ricordare che anche la Cina comunista è economicamente liberale e politicamente illiberale). Ma Einaudi, a differenza di Croce, era profondamente convinto che tra libertà economica e libertà politica esistesse un nesso importante. Questo non significa, beninteso, che una economia liberale abbia l'effetto di produrre necessariamente un sistema politico liberale. Ma tra l'economia di mercato e un regime autoritario esistono contraddizioni che possono, in ultima analisi, mettere in discussione il funzionamento del sistema. Gli scandali cinesi degli ultimi tempi potrebbero esserne la conferma.
Non è vero, invece, che la parola e il concetto appartengano soltanto al pensiero di Benedetto Croce. Dal grande Dizionario di Salvatore Battaglia risulta che la parola liberismo fu utilizzata anche negli scritti di Alfredo Panzini, Riccardo Bacchelli, Antonio Gramsci, Piero Gobetti. Credo che la spiegazione di questa peculiarità italiana debba essere ricercata nella storia politica del Paese dopo l'Unità. Cavour fu certamente liberale e adottò negli anni del suo governo una politica economica ispirata dai principi del free trade e del laissez faire. Ma la Destra storica, pur continuando a definirsi liberale, giunse rapidamente alla conclusione che l'unificazione di un Paese, soprattutto se formato da sistemi e stadi di sviluppo molto diversi, esigesse un forte intervento dello Stato, principalmente nella costruzione e nella gestione delle infrastrutture.
Quando fu ministro dei Lavori pubblici, dal 1873 al 1876, Silvio Spaventa propose una legge per la nazionalizzazione della rete ferroviaria. La legge fu osteggiata dai liberisti toscani, interessati al finanziamento e al controllo di nuove linee, e la loro opposizione provocò la caduta della Destra storica. Spaventa era zio e tutore di Croce. Forse il filosofo napoletano, nella sua disputa con Einaudi, difendeva implicitamente la reputazione liberale del suo tutore.

l’Unità 18.5.12
Harlem Desir:
«Atene non deve essere lasciata sola. La sfida è la crescita»
intervista di Umberto De Giovannangeli


Harlem Désir. Eurodeputato sin dal 1999, Harlem Désir è
il coordinatore del Ps
È stato il primo presidente di Sos Racisme dal 1984 al 1992

«Aubry? Ha deciso con Hollande e Ayrault che ora la priorità è la campagna elettorale» ...
«I progressisti europei devono impegnarsi per far ritrovare la fiducia ai greci»

«L’Europa deve ricominciare ad essere sinonimo di speranza, di solidarietà, di nuove prospettive in un mondo messo in crisi dal dominio dei mercati finanziari. In questo senso, registro con soddisfazione che l’elezione di François Hollande ha permesso di spostare il dibattito in Europa sul tema della crescita. È questo il terreno su cui deve sempre più caratterizzarsi l’iniziativa dei progressisti europei». A sostenerlo è Harlem Désir, europarlamentare, coordinatore nazionale del Ps francese, a Roma per un incontro con Pier Luigi Bersani, il presidente del Gruppo Pd alla Camera, Dario Franceschini, e il capogruppo Spd al Bundestag, Frank-Walter Steinmeier
Partiamo da Parigi e dal nuovo governo guidato da Jean-Marc Ayrault. C’è chi ha parlato di uno scontro tra Hollande e la numero uno del Ps, Martine Aubry... «Martine Aubry ha già risposto a questo tema, spiegando che Hollande aveva una scelta tra due profili, e la sua scelta è caduta su Ayrault, con cui ha una vicinanza di lunga durata. Sulla base di questa riflessione, Martine, d’intesa con Hollande e Ayrault, ha preferito restare alla guida del Ps per condurre, a fianco del premier, la campagna per le legislative di giugno. Si tratta di un appuntamento cruciale per noi, perché l’obiettivo è avere una maggioranza che permetta a Hollande di realizzare il suo programma di riforme».
Un programma a larghissimo raggio...
«È la sfida della sua presidenza. La sfida delle riforme. Riforme che investono il piano economico e sociale, che si proiettano sul terreno delle misure atte a uscire dalla crisi che colpisce l’Europa; ma la sfida riformista investe anche il campo, altrettanto importante, dei diritti civili: penso, ad esempio, al diritto al matrimonio per le coppie dello stesso sesso, o al diritto al voto, a livello locale, per i residenti stranieri, cose che non possono essere realizzate senza avere una maggioranza all’Assemblea nazionale».
Il neoministro dell’Economia, Pierre Moscovici, ha detto che la Francia non ratificherà il Fiscal Compact se non sarà accompagnato da un Patto per la crescita. «Moscovici ha ribadito ciò lo stesso Hollande, nel giorno della sua investitura e poi nell’incontro con Merkel a Berlino, aveva sottolineato: in Europa si è aperta una discussione per avere delle politiche di sostegno alla crescita. Noi siamo impegnati a rispettare le regole europee in materia di bilancio e di riduzione del debito. Direi di più: questa è una nostra priorità, indipendentemente dalle “imposizioni” europee, perché non vogliamo dipendere dagli umori dei mercati. In campagna elettorale, Hollande ha ribadito con forza che la disciplina di bilancio è molto importante, mentre il mandato di Sarkozy è stato segnato da regali fiscali assolutamente irresponsabili, concessi a clientele e categorie sociali molto ricche, e tutto questo sulle spalle della finanza pubblica. Per finanziare le nostre politiche prioritarie, nel campo della formazione e della coesione sociale, abbiamo bisogno di avere delle finanze pubbliche sane. Per questo siamo impegnati a raggiungere la riduzione del 3% del debito pubblico entro il 2013, e l’equilibrio di bilancio entro la fine del mandato presidenziale, nel 2017. In questo quadro, la Bce può e deve giocare un ruolo attivo contro la speculazione finanziaria. Ma l’Europa non uscirà mai dalla crisi del debito né da quella dell’occupazione se non saprà o vorrà dotarsi degli strumenti per una strategia di sostegno alla crescita. Ed è proprio per individuare questi strumenti che sono qui a Roma per incontrare Bersani, Franceschini, Steinmeier, perché i nostri partiti lavorino per individuare proposte concrete che rafforzino il dinamismo economico».
Può fare degli esempi in proposito? «Vogliamo rafforzare il ruolo della Banca europea degli investimenti, un migliore uso dei fondi strutturali europei. Pensiamo ad una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, sia per regolare i mercati finanziari e sia per generare nuove risorse (50 miliardi di euro l’anno) per sostenere misure per la crescita in Europa. Assieme al Pd e alla Spd abbiamo messo in campo una proposta relativa alla emissione di project bond e alla mutualizzazione dei prestiti, per finanziare iniziative per la crescita in settori strategici, come è quello, ad esempio della green economy, un campo nel quale l’Europa dovrebbe essere pioniera».
L’Europa non è solo la «speranza francese» ma anche l’incubo greco.
«I greci torneranno tra qualche settimana alle urne. Mi auguro che la Grecia confermi la sua volontà di restare nell’area euro e di continuare a pensare al proprio futuro nel quadro del progetto di costruzione europea. Ma la Grecia non può, non deve essere lasciata sola. Francia, Italia, Germania, con la spinta delle forze progressiste, devono essere capaci di aiutare il popolo greco e la sua classe dirigente a credere nuovamente che il ritorno alla crescita sia possibile. D’altro canto, il caso greco dimostra che le sole misure di austerità non sono sufficienti per uscire dalla crisi e finiscono per fare un favore all’estremismo dei partiti anti-europei. Per questo oggi “non possiamo non sentirci greci” ed essere fautori di una solidarietà concreta, lungimirante. Ad Atene, peraltro, è nata la democrazia e noi abbiamo un debito con loro. Non possiamo immaginare il futuro dell’Europa rinunciando ad un Paese che è stato un faro di civiltà».

l’Unità 18.5.12
La grande famiglia europea non lasci sola la Grecia
di Margherita Hack


TEMPO DI ELEZIONI E DI CAMBIAMENTI IN EUROPA. IN FRANCIA CON LA VITTORIA DI HOLLANDE RITORNA IL SOCIALISMO DOPO ANNI. Che spiri da lì un vento di sinistra? In Italia ci sono state le elezioni amministrative che hanno visto il crollo del Pdl e della Lega, soffocati dagli scandali, l’inesistenza del Centro, la tenuta del Pd. Chi vince è Grillo: il suo partito ricorda quello dell’Uomo Qualunque che, lo dico per i più giovani che non lo hanno visto, aveva per simbolo un uomo torchiato dalle tasse. Eppure non siamo il Paese che paga più tasse, siamo però sicuramente tra quelli che hanno più evasori fiscali. In Germania c’è stata la sconfitta della Merkel: si attenuerà la linea del rigore per favorire la crescita? Intanto la situazione economica dell’Europa rimane difficile. Faccio un paragone con l’economia familiare: quando una famiglia si ritrova al collasso, dopo anni di benessere, vuol dire che è vissuta al di sopra delle sue possibilità. Cosa fare quindi? Si deve risparmiare, cercando di riassestare le finanze. Se però la fonte di reddito della famiglia è una piccola impresa autonoma bisogna mantenerla in vita e farla crescere. Come fare? Spesso si deve ricorrere alle banche, o ai prestiti privati o ad amici e parenti ricchi. Con il risultato di indebitarsi ancora di più.
La Grecia è al collasso. Se l’Europa deve essere unita come una famiglia è necessario che i membri più ricchi aiutino quelli più poveri, ma c’è bisogno anche di un controllo. L’Europa non può essere solo un’entità economica, abbiamo bisogno di un vero governo europeo. Eppure anche in Europa vengono emanate norme assurde, come quelle delle quote latte o l’obbligo di distruzione delle eccedenze, quando c’è tanta gente che muore di fame.
Il governo Monti vuole togliere l’assegno di accompagnamento ai redditi più alti: è accettabile, purché non si includa nei redditi beni primari come la casa. Però non si capisce perché non imporre allora le tasse sui grandi patrimoni, a meno che non siano investiti per produrre una crescita dell’occupazione.
Cosa succede nelle nostre questure? In particolare cosa succede in una città grande e abituata da sempre alla convivenza tra popoli diversi come Trieste? Mi riferisco al caso di Alina Bonar Diachuk, ucraina di 32 anni che è stata detenuta illegalmente in una cella del commissariato di Villa Opicina, frazione di Trieste, e si è uccisa impiccandosi. Alina era immigrata illegalmente, era stata detenuta al Coroneo, il carcere di Trieste, dove aveva già tentato il suicidio, poi era stata scarcerata per essere trasferita nel centro di identificazione di Bologna. Invece, Alina è stata rinchiusa in una cella e, benché la cella fosse dotata di telecamera, la ragazza non è stata neppure sorvegliata, tanto che ci si è accorti di quello che era accaduto mezz’ora dopo la sua morte. La Procura ha fatto perquisire la casa del dirigente dell’ufficio immigrazione dove si è svolto il fatto e ha trovato scritti inneggianti al razzismo e all’antisemitismo. Come calpestare i diritti di un cittadino.

Corriere 18.5.12
Perché una via d’uscita «argentina» non può funzionare nella crisi greca
di Rocco Cotroneo


Esiste davvero un'uscita «argentina» per la crisi greca? E, se così fosse, Atene ne seguirebbe soltanto le conseguenze nefaste o anche la spettacolare rinascita che ne scaturì? Ricordiamo come andò. Alla fine del 2001 l'Argentina si trovava con un debito estero impagabile, un'economia a pezzi e il vincolo del cambio fisso, la parità peso-dollaro. Nel giro di poche settimane lasciò fluttuare la moneta e dichiarò default sul debito (i famosi tango bond, nelle tasche anche di molti italiani).
Per 2-3 anni gli argentini soffrirono un impoverimento drammatico, l'economia si contrasse del 20 per cento, la disoccupazione andò alle stelle. Poi iniziò la ripresa, e fu esplosiva, ogni oltre aspettativa. Da un decennio l'Argentina è il Paese che più cresce in America Latina. Buenos Aires non ha mai fatto pace con i mercati: ha chiuso i rapporti con il Fmi e le sue emissioni di bond sono minime. Ce la fa, per semplificare, con le proprie gambe. Motivo principale, la forte domanda estera per le sue commodities, in primo luogo la soia. Nelle ultime settimane Paul Krugman e Mark Weisbrot, due economisti liberal, hanno sostenuto che l'Argentina potrebbe essere un modello da seguire per la Grecia. Meglio la rottura unilaterale con l'Europa, dicono, invece di questa interminabile manfrina sul salvataggio. Fatte le dovute differenze, Krugman sostiene che il turismo e l'industria navale potrebbero essere i due motori per la ripresa. Weisbrot aggiunge che al momento della crisi le esportazioni argentine erano allo stesso livello di quelle greche attuali, quindi una ripresa trainata da una dracma debole è possibile.
La prospettiva è vista ovviamente come una follia dalle banche e dai partner europei: l'effetto a catena di un default greco non controllato sarebbe immediato. L'economista Yanis Varoufakis spiega che la soluzione farebbe male in primo luogo alla Grecia. Le potenzialità del suo export non sono paragonabili a quelle argentine. E anche la prospettiva di un futuro autarchico (in Argentina quasi non si importa più nulla) non è decisamente allegra.

Sette del Corsera 18.5.12
A noi greci Frau Merkel deve un sacco di soldi
«Danni di guerra mai pagati, centinaia di miliardi di euro. E poi i tesori d’arte rubati»
Parla Manolis Glezos, l’ex partigiano e militante ellenico
di Vittorio Zincone

tre pagine nelle edicole

l’Unità 18.5.12
Grecia, i deputati nazisti entrano in Parlamento al passo dell’oca
di Teodoro Andreadis


Il conto alla rovescia verso il nuovo appuntamento elettorale è, dunque, iniziato. Si vota tra ventinove giorni. «Potremo pagare le pensioni solo fino a giugno», ha dichiarato il nuovo ministro del lavoro del «governo elettorale», Jorgos Zaniàs. In questo clima, ieri, si è riunito per la prima volta il Parlamento, formatosi in base ai risultati del voto del 6 maggio. Dopo l’elezione formale della nuova presidenza, verrà sciolto, per rispettare i tempi imposti dalla nuova tornata elettorale. Alla fine, i deputati del partito comunista ortodosso, Kke, sono riusciti a farsi assegnare dei seggi «a distanza di sicurezza» da quelli dei neonazisti di Alba Dorata. «Capite anche voi cosa succederebbe se fossimo a stretto
contatto, ci provocherebbero subito», aveva dichiarato la segretario del Kke, Aleka Paparriga. E i 21 deputati di questa formazione neonazista, guidata da Nikos Michaloliàkos, dopo le allucinanti dichiarazioni dei giorni scorsi, sul «falso storico delle camere a gas», sono entrati in parlamento al passo dell’ oca. Tutti, o quasi, li hanno ignorati.
La campagna elettorale è già partita. Il centrodestra di Nuova Democrazia chiama a raccolta esponenti che nel passato avevano lasciato il partito, come l’ex ministro degli esteri Dora Bakojanni e l’economista Stefanos Manos, cercando di ricompattare lo schieramento conservatore. «O noi o la sinistra, o l’euro o la dracma», è lo slogan del suo leader, Antònis Samaràs. E la sinistra in questione, gli eurocomunisti di Alexis Tsipras, rispondono: “Con l’austerità ci
stanno trascinando all’inferno. Se noi usciamo dall’euro, la prossima sarà l’Italia». I socialisti del Pasok hanno annunciato che «si batteranno contro tutte le destre ed anche contro la demagogia della sinistra». Evanghelos Venizelos, presidente del Pasok ha detto che vuole al governo «un centrosinistra responsabile». È chiaro che i toni, sino alla vigilia delle nuove elezioni, saranno molto accesi, quasi senza esclusione di colpi. Scontro di sondaggi, intanto: quello dell’emittente Alpha dà il 23,1% al centrodestra, il 21% a Syriza e il 13,2% al Pasok. Mentre secondo il giornale To Pondìki, Syriza è ancora primo, al 22%, la destra si ferma al 19,5% e il Pasok è al 14%. Si riparte, quindi, pur nella stanchezza generale. Ma almeno, delle tanto citate file alle agli sportelli delle banche greche, ieri non c’era traccia.

Corriere 18.5.12
Afferma di aver pagato Rutelli, Bianco, Renzi, Franceschini, Bindi, Fioroni. Enrico Letta, Ermete Realacci e Paolo Gentiloni
Lusi: ecco a chi davo altri soldi Rutelli lo attacca: è un ladro
L'ex tesoriere dice di aver saldato fatture per tutti i leader
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — «C'è stata un'ingerenza nell'attività di indagine della Procura di Roma» da parte dei vertici della Margherita, cioè da parte di Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Giampiero Bocci. Ecco la nuova accusa dell'ex tesoriere del partito Luigi Lusi scritta nero su bianco nella sua memoria di 35 pagine, più un sostanzioso numero di allegati, che ha consegnato durante l'audizione di mercoledì sera alla giunta per le autorizzazioni del Senato.
Emergono inoltre altri particolari sui chiarimenti dati a voce da Lusi — che si è definito «il bancomat del partito» — sul meccanismo di spartizione dei fondi tra popolari e rutelliani (il famoso 60 per cento ai primi e 40 ai secondi). E dopo i primi nomi di Rutelli, Bianco e Renzi si è saputo che Lusi ha affermato di aver pagato fatture di altri esponenti del partito come il capogruppo Dario Franceschini, il vicepresidente di Montecitorio, Rosy Bindi, Giuseppe Fioroni, il vicesegretario del Pd Enrico Letta, Ermete Realacci e Paolo Gentiloni. «Per le loro attività politiche, non direttamente ma attraverso loro intermediari». L'ex tesoriere ha invece escluso finanziamenti a Pierluigi Castagnetti e Franco Marini, che avevano costituito l'Associazione dei popolari.
Naturalmente da ieri mattina piovono smentite e querele. Il leader dell'Api, Rutelli, accusa Lusi di essere «un ladro svergognato», «mentitore e inquinatore pericolosissimo». Il sindaco di Firenze lo sfida a «tirare fuori le carte». E decide di rendere noti i primi 56 nomi (dei circa 150 totali) dei finanziatori delle sue campagne elettorali.
Oggi Franceschini dichiara: «Non so di che cosa parla! Ma le indagini non erano sui soldi sottratti, e non sui soldi destinati all'attività politica?». Enrico Letta commenta: «Non sono a conoscenza di nessun patto spartitorio» e rivendica «la piena legittimità dell'uso dei rimborsi per l'attività politica» e parla di un tentativo già denunciato nelle settimane scorse di creare un polverone tra «uso legittimo e uso distorto dei fondi».
Per Fioroni «se Lusi ha finanziato iniziative politiche o elettorali di uomini e donne della Margherita, ai vari livelli territoriali, che sono anche miei amici, ha tenuto un comportamento legittimo perché i rimborsi elettorali servono a finanziare iniziative politiche e non a fare altro». Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani commenta: «Quelle raccontate da Lusi non sono belle storie».
La memoria dell'ex tesoriere dovrebbe servire a dimostrare che nella sua vicenda c'è il «fumus persecutionis», che può evitargli il carcere. Nel documento Lusi punta l'indice contro Rutelli, Bianco e Bocci, che non avevano alcun titolo, secondo lui, per inviare alla Procura la lettera dell'8 febbraio scorso, in cui a nome e per conto della Margherita hanno sollecitato i magistrati ad «adottare cautela per le esigenze di riservatezza» della parte offesa, cioè il partito, e a evitare «sconfinamenti» a presidio della «libertà e insindacabilità delle scelte politiche».
Quella lettera, si legge nella memoria, «comparata con i successivi accadimenti giudiziari sembra essere da essi riscontrata». È qui insomma che si sostanzierebbe «l'indebita ingerenza». Perchè, secondo Lusi, la Procura attenendosi alle cautele di Rutelli non ha compiuto il sequestro della contabilità del partito (che comproverebbe le sue affermazioni). E neppure il sequestro delle apparecchiature informatiche. Nello stesso senso va, infine, la mancata perizia tecnico contabile sulle movimentazioni finanziarie del conto corrente della Margherita. «Come se Bossi avesse chiesto alla Procura di Milano di non andare oltre le responsabilità del tesoriere Belsito» hanno commentato gli avvocati di Lusi, Petrucci e Archidiacono.

Repubblica 18.5.12
I pm chiedono i verbali dell´audizione l´inchiesta si allarga alla Margherita
Il senatore: "Procura e gip gregari del mio ex partito"
Ora è da chiarire se ci siano altri che hanno preso parte all´opera predatoria
di Carlo Bonini

ROMA - Chiuso nell´angolo e con la prospettiva concreta di entrare prima dell´estate a Regina Coeli, Luigi Lusi rovescia il tavolo. Dice in Senato ciò che a verbale, il 27 marzo, interrogato dal procuratore Giuseppe Pignatone, dall´aggiunto Alberto Caperna e dal sostituto Stefano Pesci, aveva preferito tacere, limitandosi ad evocare solo le percentuali di un asserito patto di spartizione "60-40" delle risorse del Partito tra le correnti dei "Rutelliani" e dei "Popolari" («Preferisco non fare nomi, perché sarebbe la mia parola contro quella di altri»). Di più: nella memoria consegnata in Giunta, accusa Procura e gip di non aver sin qui voluto andare fino in fondo a questa storia rigettando la sua richiesta di piena discovery ed incidente probatorio sulla contabilità del Partito. Ne denuncia la «singolare gregarietà» investigativa alle sollecitazioni ricevute dalla Margherita, ricordando una lettera dell´8 febbraio inviata da Rutelli, Bocci e Bianco ai pm nel tentativo di suggerire e delimitare l´oggetto di indagine («E´ la prova di una grave ingerenza nel lavoro della magistratura»).
E la mossa, pure studiata per accreditare un fumus persecutionis, ha un primo effetto. Che se non cambia né ridimensiona la sostanza delle accuse e dei fatti contestati al senatore, certamente modifica la forza di inerzia che ha sin qui orientato il lavoro della Procura. In qualche modo obbligandola, ora, qualunque dovesse essere la decisione che il Senato assumerà, ad allargare il perimetro sin qui circoscritto della sua indagine. Imponendole un lavoro di verifica puntuale di tutte quelle somme che, dagli atti già acquisiti, risultano pacificamente non sottratte dall´ex tesoriere e sono formalmente giustificate come spese per il funzionamento della macchina politica del Partito e dei suoi ex leader. Un passaggio decisivo che può trasformare l´indagine sull´ex tesoriere da un´inchiesta su Luigi Lusi e la sua macroscopica stangata (quale sin qui è stata), in un´inchiesta su Luigi Lusi e i soldi della Margherita. Dove il nodo da sciogliere non è più soltanto se il senatore si sia abbandonato al saccheggio della cassa (circostanza ormai acclarata), ma se in questa storia di Predoni non ce ne siano anche altri. Detta altrimenti, se Enzo Bianco equivalga al Trota. O, al contrario (e come il Presidente dell´Assemblea della Margherita dice di poter pacificamente documentare), se la differenza decisiva stia nel fatto che il primo il denaro lo spendeva per pagare i costi della politica (spese per il personale di segreteria) e il secondo per seratine in discoteca e il pieno dell´auto.
E´ un fatto che la Procura chiederà alla giunta del Senato di acquisire il verbale delle dichiarazioni del senatore. E che, ieri di buon mattino, l´avvocato Titta Madia, legale della Margherita, fosse in Procura per sollecitare una convocazione ad horas di Francesco Rutelli (per altro già sentito il 2 aprile), intenzionato a presentarsi immediatamente nella sua veste di parte lesa, non solo per formalizzare una nuova denuncia per calunnia nei confronti di Lusi, ma anche per anticipare possibili domande. Una richiesta che i pm hanno garbatamente declinato, riservandosi di ascoltare l´ex leader della Margherita quando riterranno opportuno.
Insomma, l´indagine penale si prepara ad entrare in un terreno assai scivoloso quale quello della verifica delle spese discrezionali del Partito a fini politici, della loro giustificazione formale e sostanziale, della loro effettiva rispondenza a quanto dichiarato nei rendiconti. Un lavoro da cui, per scelta, si era sin qui tenuta lontana, nel timore, per altro mai dissimulato, di farsi strumento di una resa dei conti politica. Come dimostrano i verbali di testimonianza di Francesco Rutelli e di Enzo Bianco dell´aprile scorso, in cui i pm avevano ritenuto di non dover chiedere conto nel merito di denaro "in chiaro" nei bilanci, quali i finanziamenti alla fondazione "Cfs" e i 105 mila euro l´anno alla "M&S congress" di Catania. Che non a caso, ieri, Lusi è tornato ad indicare.

La Stampa 18.5.12
Caso Lusi e caso Lega
Ddl corruzione, il Pd fa passare il suo testo: pene inasprite Scontro Pdl-Pd
I partiti nemici di se stessi
di Marcello Sorgi


Alla vigilia dei ballottaggi, un’imperdonabile leggerezza sta portando i partiti a inscenare alla Camera una guerriglia sulla legge anticorruzione. Proprio negli stessi giorni in cui vengono a maturazione i due scandali che hanno investito, una dopo l’altra, la (ex) Margherita e la Lega.
Accomunati dagli imbrogli dei rispettivi tesorieri, Lusi e Belsito, i due casi avevano avuto finora sviluppi gravi, ma differenti. La Lega infatti è stata colpita alla testa, e per quanti tentativi siano stati fatti, anche da Maroni, che ne ha preso la guida, per salvare Bossi, o almeno per circoscriverne le colpe, la magistratura ha trovato prove del diretto coinvolgimento del Senatur, non solo dei suoi familiari e famigli, nella truffa dell’uso indebito dei rimborsi elettorali. E per questo si appresta a chiamarlo a rispondere in giudizio.
Diversamente, nel caso della Margherita, sembrava che i vertici del partito fossero riusciti a dimostrare di essere stati parti lese, e non complici, dell’amministratore fedifrago. Il comportamento di Lusi, che con fondi pubblici, ma per ragioni private, viaggiava in aereotaxi, frequentava alberghi e ristoranti costosi, aveva una particolare passione per certi spaghetti al caviale del costo di 180 euro a porzione, e si era costituito un patrimonio immobiliare familiare fatto di ville e attici al centro di Roma, aveva certo gettato più di uno schizzo di fango sul suo ex partito, in parte confluito nel Pd e in parte fuoriuscito, al seguito di Rutelli e della sua nuova formazione Alleanza per l’Italia. Ma lo stesso Rutelli, l’ex ministro dell’Interno Bianco e il sindaco di Firenze Renzi, per citare i principali, a dire del tesoriere, beneficiari di quel che restava dei fondi della Margherita, erano riusciti a smantellarne le insinuazioni e addirittura a dichiararsene vittime. Quando però i giudici hanno chiesto la carcerazione di Lusi, il senatore s’è presentato davanti alla giunta per le immunità, che doveva dare un primo responso sul suo arresto, e ha sfoderato una serie di accuse precise, con dati e cifre, che hanno riempito pagine e pagine di resoconto e sono state subito allegate ai fascicoli dell’inchiesta. Di modo che, seppure Rutelli, Bianco e Renzi hanno reagito nuovamente con durezza, annunciando una seconda serie di querele, i giudici - magari anche con l’intento di scagionarli da una vicenda così pesante - probabilmente firmeranno per loro gli ormai classici avvisi di garanzia.
Certo, per conoscere le conclusioni a cui approderanno le inchieste e per veder celebrare i processi, ci vorrà del tempo. E in ogni caso converrà attendere prima di dare un giudizio definitivo. Non tutto è chiaro. E non è detto che di fronte a contestazioni e a responsabilità personali più o meno evidenti ed equilibrate, i tribunali emettano la stessa sentenza. Ciò che al contrario si può valutare fin d’ora sono le conseguenze politiche di quel che è avvenuto, il quanto e il quando, dato che le ultime notizie e rivelazioni sono esplose disgraziatamente nel bel mezzo di una tornata elettorale: tutta giocata, per giunta, sul sussulto dell’antipolitica e sull’imprevedibile avanzata di Grillo e del suo Movimento Cinque Stelle.
Una coincidenza talmente malaugurata era davvero impensabile. Il risultato è che i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, i quali, pur divisi e tra mille difficoltà, cercavano di riorganizzarsi per le prossime elezioni politiche del 2013, adesso sono azzoppati. Tra Lega ed (ex) Margherita, mal contato, hanno perso un terzo a testa della loro forza. E se i ballottaggi, in cui si vota solo per i sindaci, non consentiranno facilmente di misurare la portata dell’emorragia, già i numeri del primo turno segnalavano che il calo subito ha messo le due coalizioni in condizione di non rappresentare più la maggioranza, neppure se dovessero sommare i loro voti. A dimostrarlo, basta prendere in esame i due maggiori partiti, Pdl e Pd, che alle elezioni del 2008 rappresentavano più del 70 per cento dei voti e adesso rischiano di non arrivare al 50. Un rischio già diventato realtà in molte delle città in cui s’è votato e il Pdl è sceso sotto al 15 per cento. Ma nel Sud anche i numeri del Pd sono spesso sconfortanti.
Siccome i dati sono disponibili, e sono stati analizzati, da più di dieci giorni, ci si poteva aspettare che nelle due settimane che separavano il primo turno dal secondo, la politica, così timorosa dell’antipolitica, avrebbe cercato riscatto con il proprio comportamento. C’erano almeno due occasioni a portata di mano: la riforma del finanziamento dei partiti e la legge anticorruzione. Ma per la prima, alla fine di una trattativa estenuante che ha visto cambiare troppe volte la portata dei tagli ai rimborsi elettorali, ora fissata al cinquanta per cento, si dovrà aspettare ancora una settimana. E per la seconda, la guerriglia alla Camera in corso da giorni e giorni - con il Pd che vota con l’Idv, e la Lega che si astiene, per isolare il Pdl e metterlo in minoranza - è ora giunta a minacciare il governo. Quali saranno gli effetti di tutto questo sul voto di domenica e lunedì, è fin troppo facile immaginarlo. Ma stavolta i partiti puniti il 6 maggio non hanno che da prendersela con se stessi.

Corriere 18.5.12
Perché sono tornati i tempi dello scontro
di Francesco Verderami


C'era una volta l'ABC della politica, c'erano i vertici della «strana maggioranza», le foto opportunity scattate alle cene di Palazzo Chigi, i decreti legge imposti dal governo a colpi di fiducia e approvati da Pdl, Pd e Terzo polo senza batter ciglio.
Oggi il segretario del Pdl accusa il leader del Pd di «slealtà politica», il capo dei centristi teme una «campagna elettorale permanente», e un dirigente dei democratici come Fioroni arriva a dire che «se Monti pensa di tirare a campare di qui al 2013, rischia di tirare le cuoia anzitempo senza un ritrovato accordo tra partiti». È vero che tutti giurano di non voler staccare la spina all'esecutivo, ma gli uomini del Professore si sono resi conto che in tanti stanno maneggiando vicino all'interruttore.
Per quanto possa apparire paradossale in questa fase, con la crisi dell'euro e l'allarme sui mercati, il casus belli non è un provvedimento economico ma la giustizia, un voto sulle norme del ddl anticorruzione, che ha fatto precipitare il Palazzo ai tempi dello scontro tra poli contrapposti. Sarà pure un «problema di gestione» e non un caso politico, come sostengono a Palazzo Chigi, ma il tentativo di ridurre mediaticamente la portata dell'evento non basta, perché il «problema di gestione» rischia di provocare un grave caso politico.
Ieri il voto in commissione alla Camera, dove al Pd si sono uniti il Fli e l'Idv, ha fatto materializzare i fantasmi che il giorno prima Berlusconi aveva descritto fuori dai denti a Monti: le «maggioranze a geometrie variabili» sulla giustizia; il «patto disatteso» sull'approvazione simultanea delle norme sulle intercettazioni e sulla responsabilità civile dei magistrati; «l'intento evidente» di mettere in difficoltà il Pdl. E certo al Cavaliere non è bastato sentire dal premier che «per me vale ancora la logica del package deal», perché — com'è evidente — «l'accordo quadro» non regge. Non c'è più.
Ieri Berlusconi ha visto confermati i suoi timori, l'indice l'ha puntato contro la Severino, accusata di «esser stata leggera», di aver avuto «troppa fretta» e di essersi fatta «sfuggire di mano la situazione». E poco importa sapere se nel Pdl prevalgono quanti pensano all'errore piuttosto che al dolo politico. Se davvero il voto in Commissione sia stato frutto di un conflitto interno ai democratici. Il punto è che alla vigilia dei ballottaggi, per il partito di maggioranza relativa è un duro colpo d'immagine a tutto vantaggio del Pd. Peraltro la drammatica situazione economica impone di non alzare troppo i toni sulla materia, perché un simile scontro, su un simile argomento, per di più in questa fase, sarebbe surreale. E a saldo elettorale (molto) negativo.
Tuttavia a Palazzo Chigi il «gioco del Pd» non è affatto piaciuto, se è vero che autorevoli esponenti dell'esecutivo l'hanno definito «un tentativo strumentale di stressare il governo», magari confidando in una «reazione» del Pdl che porterebbe a far saltare l'interruttore. Il Cavaliere farà attenzione a non toccare quella levetta, sebbene a pranzo con il Professore avesse rammentato quanto gli costi tenere accesa la luce del governo con i suoi elettori, il desiderio di dar loro soddisfazione per l'insoddisfazione dei provvedimenti. Ma non ha risposto di conseguenza quando Monti, senza giri di parole, gli ha chiesto: «Allora cosa fate?».
Resta da capire cosa potrebbe fare il premier, in questo clima di «campagna elettorale permanente». Lo stesso Casini pare sia allarmato, e avrebbe esortato Monti a «un'opera di mediazione politica» attraverso il ministro della Giustizia. La Severino si è detta subito «pronta» a provvedere con un maxi emendamento per assorbire la polemica. Il problema è che se il testo arrivasse così in Aula sarebbe un disastro, perché l'Emiciclo della Camera si trasformerebbe in una curva da stadio, dove le tifoserie estreme potrebbero rendere impossibile il compromesso.
Certo colpisce che il Pdl non si sia reso conto per tempo della trappola in cui stava finendo, offrendo a Bersani e Di Pietro una formidabile arma di comunicazione elettorale e politica. E si vedrà se — dopo aver subìto una sconfitta sulle frequenze tv — il Cavaliere dovrà ingoiare un altro rospo sulla Rai, che entro giugno verrà affidata a un presidente con poteri da amministratore delegato e dove i consiglieri (da scegliere fuori dalla politica) avranno più o meno il ruolo della tappezzeria. Berlusconi, stretto in una morsa, non può muoversi per «senso di responsabilità», oltre che per i dati dei sondaggi, secondo cui Bersani oggi avrebbe la maggioranza certa anche al Senato.
Chissà se questi numeri indurranno Casini ad accettare l'alleanza dei moderati. Di sicuro l'operazione è impossibile nelle condizioni in cui si trova il Pdl. È tale il caos che, per la prima volta, Alfano ha alzato la voce al vertice di partito l'altra sera. «Così — ha detto — non si può continuare»: con la lotta tra ex forzisti ed ex aennini, le minacce estemporanee al governo, le autocandidature per Palazzo Chigi, «è stato disorientato l'elettorato. In queste condizioni non è pensabile andare avanti. Io non posso farlo». Il Pdl (per ora) gli ha dato ragione e si è ricompattato.

Corriere 18.5.12
La Costituzione non è merce di scambio
di Valerio Onida
, Presidente emerito della Corte Costituzionale

Caro direttore, in Parlamento si sta discutendo di un progetto di riforma costituzionale, la cui approvazione dovrebbe, a quanto pare, scaturire da un accordo fra i tre maggiori gruppi parlamentari che appoggiano il governo Monti. C'è una prima anomalia da notare: il livello di attenzione dell'opinione pubblica, non tanto sull'intento riformatore in sé, quanto sul merito delle riforme progettate, è estremamente basso. Eppure si tratterebbe di mettere mano a parti centrali e delicate dell'impianto costituzionale. Certo: l'attenzione pubblica è oggi concentrata soprattutto sull'andamento e sulle prospettive della crisi economico-finanziaria e sui suoi risvolti europei. E tuttavia una modifica (di questa portata) della Carta fondamentale non dovrebbe passare sotto silenzio e nella distrazione generale, come già è avvenuto, purtroppo, un mese fa con la modifica in tema di equilibrio del bilancio varata con la legge costituzionale n. 1 del 2012. Il rischio del silenzio è aggravato dal fatto che si vorrebbe approvare la modifica con la maggioranza dei due terzi nelle due Camere, il che escluderebbe la possibilità di un referendum che riaccenda l'attenzione dell'opinione pubblica. In proposito vale la pena di ricordare come da tempo fosse stato proposto (per esempio da Oscar Luigi Scalfaro) di «mettere in sicurezza» la Costituzione prescrivendo che per modificarla occorra in ogni caso la maggioranza dei due terzi e che in ogni caso si possa chiedere il referendum: questa preliminare (e auspicabilissima) riforma non ha però avuto alcun seguito.
Nel merito, sarebbe anzitutto necessario abbandonare l'idea di un «pacchetto» di riforme da varare con un'unica legge, e votare invece separatamente tante leggi quanti sono gli oggetti sostanziali che si vogliono disciplinare. Infatti la prassi del «pacchetto» porta inevitabilmente i partiti e i gruppi a «mercanteggiare» fra loro, accettando anche ciò che non vorrebbero (e magari non dovrebbero) accettare pur di far passare un altro «pezzo» di riforma che essi abbiano a cuore. Se poi si andasse al referendum, una legge unica non consentirebbe agli elettori di esprimersi liberamente a favore o contro ciascuno degli ingredienti che la compongono.
Nel progetto in discussione vi sono almeno quattro oggetti ben distinti, che riguardano rispettivamente: la composizione delle Camere; la distribuzione delle funzioni fra di esse; i poteri del governo nel procedimento legislativo; la fiducia e la sfiducia al governo e lo scioglimento delle Camere (cosiddetta forma di governo); e altri se ne potrebbero aggiungere per strada.
Sul primo punto ciò che servirebbe è una integrazione della riforma proposta: la tanto invocata riduzione del numero dei parlamentari potrebbe essere senz'altro disposta, ma accompagnandola con la cancellazione di quel vero obbrobrio che è l'elezione separata dei rappresentanti degli italiani all'estero, sciaguratamente introdotta nel 2001. È sotto gli occhi di tutti che cosa abbia prodotto questa strana elezione — su scala addirittura continentale — di una pattuglia di parlamentari che non hanno e non possono avere nessun rapporto reale con la loro base elettiva. Gli italiani all'estero che vogliono partecipare alla elezione delle Camere votino casomai per corrispondenza o, tornando in Italia, magari con voli low cost.
Il secondo punto (il bicameralismo) meriterebbe probabilmente una riforma più incisiva, che differenzi davvero le Camere riservando a quella dei deputati il conferimento della fiducia al governo e facendo del Senato una assemblea rappresentativa delle autonomie. Ma questa riforma, lo si è capito, non piace al presente Parlamento. Allora, invece che attribuire a ciascuna delle due Camere una preminenza (e l'ultima parola) su diverse categorie di leggi, difficilmente distinguibili fra loro (le leggi espressione di competenze statali esclusive o invece di competenze concorrenti con quelle delle Regioni), e quindi su «materie» spesso dagli incerti confini, come dimostra l'abbondante contenzioso Stato-Regioni, meglio sarebbe limitarsi a rendere facoltativo, dopo l'approvazione di una Camera, l'esame da parte dell'altra Camera, su richiesta di una frazione di questa. Si avrebbe un risultato di snellimento senza dar luogo a disarmonie o a infinite controversie.
Il terzo punto riguarda i poteri del governo nel procedimento legislativo. È corretto stabilire — lo si potrebbe fare anche con i regolamenti parlamentari — dei termini (congrui) entro cui il governo possa chiedere che le Camere esaminino e approvino o respingano o modifichino i progetti che sono per esso caratterizzanti. E solo nel caso di vano decorso del termine si potrebbe ammettere una sorta di «voto bloccato» sulla proposta del governo. Ma a questo indubbio rafforzamento del potere del governo nel processo legislativo ci si dovrebbe domandare se non accompagnare, per riequilibrarlo, un riconoscimento della facoltà per le minoranze di impugnare direttamente le leggi davanti alla Corte Costituzionale nel caso di violazione delle norme sul procedimento legislativo che ne garantiscono i diritti.
L'ultimo punto (la forma di governo) tocca invece aspetti su cui meglio sarebbe rinviare ogni eventuale decisione al futuro Parlamento, che sarà espresso dagli elettori nel 2013. Il sistema politico italiano è oggi troppo fluido e indeterminato nei suoi lineamenti perché si possa capire fino in fondo quali prospettive e quali rischi si aprirebbero modificando le regole sulla fiducia e sullo scioglimento (che incidono anche sui poteri del capo dello Stato). La tesi, pur frequentemente enunciata, secondo cui il presidente del Consiglio avrebbe oggi troppo pochi poteri è in realtà indimostrata e indimostrabile. I poteri istituzionali (quelli politici effettivi dipendono da fattori, appunto, politici) del primo ministro sono tutt'altro che scarsi nel regime parlamentare che ci caratterizza (basta pensare alla questione di fiducia che egli può porre davanti alle Camere), e ancor più consistenti diventerebbero se si modificassero come si è detto le regole sui procedimenti legislativi.
C'è invece un provvedimento che questo Parlamento non dovrebbe tardare ad approvare: ed è una diversa legge elettorale. Ma questo non ha a che fare con modifiche della Costituzione, semmai con una sua migliore attuazione.

La Stampa 18.5.12
Riforma della legge Basaglia
Non serve il consenso del paziente per trattamenti extraospedalieri prolungati
“Riaprono i manicomi”, scoppia la bagarre
L’opposizione: passo indietro di 40 anni Il Pdl: è un sostegno per le famiglie
di Flavia Amabile


ROMA Si stava discutendo la riforma della legge Basaglia ieri in commissione Affari Sociali della Camera quando, senza troppi preavvisi, è stato approvato un articolo che ha fatto insorgere l’opposizione: riaprono i manicomi. Sotto accusa c’è il prolungamento del Trattamento sanitario obbligatorio che cambia nome e potrà avere la durata di quindici giorni contro gli otto attuali. Viene poi «istituito il trattamento necessario extraospedaliero prolungato, senza consenso del paziente, finalizzato alla cura di pazienti che necessitano di trattamenti sanitari per tempi protratti in strutture diverse». Il trattamento non potrà durare più di un anno. In pratica un nuovo genere di manicomi accusa l’opposizione.
Il relatore del testo, Carlo Ciccioli del Pdl nega. Si va nella direzione, dice, «del sostegno alle famiglie dei pazienti, oggi abbandonate a se stesse, e di una buona e corretta assistenza alle persone che non hanno consapevolezza di malattia e per questo molto spesso evitano di curarsi o di seguire i trattamenti terapeutici prescritti». Massimo Polledri della Lega Nord invita a «superare i tabù ed aprire il confronto».
Ma la polemica è già scattata. «La risorta maggioranza Pdl-Lega ha segnato un passo indietro di quarant’anni - denuncia Margherita Miotto, capogruppo Pd in commissione -. Di fatto il testo votato prevede che il malato di mente venga recluso nei manicomi per lunghi periodi, anche anni, e non prende minimamente in considerazione la cura della malattia psichica. La reclusione dei malati nasconde la patologia e non la cura». Anche Ignazio Marino del Pd dichiara che il Pdl è «schizofrenico: approva la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari opg e riapre i manicomi». «Rinverdire alleanze elettorali sulla pelle chi è afflitto da malattia mentale è davvero sconcertante», spiega. E soprattutto dopo aver votato per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari «invece di impegnarsi a valorizzare e sostenere i centri di salute mentale, tentano di infliggere a tanti malati una ingiustizia inaudita, riaprire i manicomi civili».
Decisamente contraria anche l’Italia dei Valori. «L’articolo proposto dal Pdl con l’appoggio della Lega ripristina di fatto i vecchi manicomi. Si tratta di un provvedimento disumano che calpesta la dignità e i diritti delle persone», accusa Antonio Palagiano, capogruppo IdV in Commissione Affari Sociali alla Camera e responsabile Sanità del partito. Parla di «colpo di mano di una rinnovata e scellerata alleanza Pdl-Lega» la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni.

Repubblica 18.5.12
Alla Camera votato un testo di riforma della legge Basaglia sull´assistenza psichiatrica in strutture extra-ospedaliere

"Riapriamo i manicomi", blitz Lega-Pdl insorge il Pd: così si torna indietro di 40 anni
La radicale Coscioni: "Un colpo di mano frutto di una scellerata alleanza"
di Luca Monaco


ROMA - Riapriranno i manicomi? La polemica è subito divampata dopo che, ieri, la commissione Affari sociali della Camera ha approvato il testo di riforma della legge Basaglia: votata dal Parlamento il 13 maggio 1978, ha regolamentato il trattamento sanitario obbligatorio istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. La questione dirimente, ora, è il contenuto del quinto articolo della bozza, proposta dal Popolo delle libertà con l´appoggio della Lega: prevede l´apertura di «strutture extraospedaliere» per il ricovero dei pazienti che necessitano di «trattamenti sanitari per tempi protratti». Il relatore del testo, Carlo Ciccioli (Pdl), nega che si miri a una restaurazione delle vecchie strutture di contenimento. Ma a pensarla diversamente sono in molti.
I contenuti del documento non piacciono al Partito democratico, che parla di un passo indietro di 40 anni, «visto che provvedimento prevede che il malato possa rimanere recluso anche anni, senza prendere in considerazione la cura della malattia psichica». Anche i Radicali e l´Italia dei valori criticano il fatto che il nuovo Trattamento sanitario necessario per malattia mentale (che sostituirebbe il vecchio Trattamento obbligatorio), ha durata di 15 giorni, ma può essere prolungato con proposta motivata dal responsabile del servizio psichiatrico di diagnosi e cura, «senza consenso del paziente», recita il testo.
Quello che per Ciccioli sarebbe uno strumento «di sostegno alle famiglie dei malati, che oggi vivono abbandonate a loro stesse», per Margherita Miotto (Pd) è una «forzatura ideologica di Pdl e Lega». «Il pdl è schizofrenico - aggiunge il pd Ignazio Marino - approva la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e riapre i manicomi». Il responsabile Sanità dell´Idv Antonio Palagiano attacca: «È disumano, calpesta la dignità e i diritti delle persone». Insomma, la polemica ferve. E se la soluzione approvata dalla commissione Affari sociali «è un colpo di mano frutto di una scellerata alleanza», giudica la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni, va detto altresì che una decisione, magari di altro tipo, è necessaria. Attualmente infatti, su tutto il territorio nazionale, sono solo 700 i centri di salute mentale. Appena 16 quelli attivi 24 ore su 24. Poco, troppo poco, per un Paese evoluto come dovrebbe essere l´Italia. Ma la soluzione, per molti, certo non può essere quella di un ritorno al passato.

il Fatto 18.5.12
Boffo a Bagnasco: “Se parlo io”. Poco dopo arriva la sua nomina
Una lettera dell’ex direttore di Avvenire prima del ruolo a Tv2000
di Marco Lillo


Agosto 2009: il Giornale accusa, lui si dimette
Al suo nome è associata una definizione chiara, precisa. E definisce “metodo Boffo”, quello applicato dal Giornale di Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti. Tutto parte dall’agosto del 2009, quando il Giornale della famiglia Berlusconi attacca il presunto atteggiamento censorio adottato da Dino Boffo sulle pagine di Avvenire riguardo alcune vicende personali del presidente del Consiglio. Allo scopo di dimostrarne l'incoerenza, diffonde la voce sulla presunta omosessualità – accertata secondo Feltri dal Tribunale di Terni – dello stesso Boffo, voce che però viene smentita dal gip di Terni. Il 3 settembre 2009, dopo che Avvenire aveva respinto in dieci punti le accuse del Giornale, Dino Boffo si dimette dal ruolo di direttore. Il 4 dicembre 2009, Vittorio Feltri, rispondendo a una lettrice, scrive sul Giornale che “La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali”. La lettera qui sotto riportata anticipa di due mesi l’assunzione di Boffo alla direzione di TV2000.

Roma Probabilmente chi legge questo articolo, a differenza del capo dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, sa bene chi è Marco Travaglio. Ma forse non sa bene chi è Dino Boffo. E allora, per conoscere meglio il direttore della tv dei vescovi, Tv 2000, e per comprendere meglio i metodi usati nelle segretestanzevaticaneèutileleggere la lettera inedita che oggi pubblichiamo.
La missiva fa parte di un fascicolo di documenti visionati dal Fatto e pubblicati in esclusiva nei mesi scorsi: dal famoso memo del cardinale Castrillon sul complotto contro il Papa, alla lettera di monsignor Viganò sui furti in Vaticano; dai documenti segreti sulle pressioniperaddolcirelaposizione del Vaticano in materia di Ici alle carte interne allo Ior.
LA LETTERA che pubblichiamo oggi è stata spedita il 2 settembre 2010 al presidente della Cei Angelo Bagnasco dal fax della casa di Oné, in provincia di Treviso, di Dino Boffo. Il fax segue quello inviato nei giorni precedenti al segretario del Papa, padre Georg Gänswein, svelato nel libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità e anticipato ieri dal Corriere. Nella lettera a don Georg si allude al presunto mandante morale del killeraggio mediatico operato un anno prima, nell’agosto 2009, dal Giornale diretto da Vittorio Feltri ai danni dell’ex direttore di Avvenire. “Sono venuto a conoscenza di un fondamentale retroscena e cioè che a trasmettere al dottor Feltri il documento falso sul mio conto è stato il direttore dell’Osservatore Romano, professor Gian Maria Vian” scriveva Boffo nella prima lettera a don George e aggiungeva: “Non credo... che il cardinale Tarcisio Bertone (Segretario di Stato, ndr) fosse informato fin nei dettagli sull’azione condotta da Vian, ma quest’ultimo forse poteva far conto di interpretare la mens del suo Superiore: allontanato Boffo da quel ruolo, sarebbe venuto meno qualcuno che operava per la continuità tra la presidenza (della Cei, ndr) del cardinale Ruini e quella del cardinale Bagnasco”. La lettera che pubblichiamo oggi sul Fatto infatti è un appello accorato a Bagnasco che scaturisce da un articolo di Marco Travaglio del 2 settembre 2010, dal titolo eloquente: “Boffonchiando”. Il pezzo di prima pagina si chiudeva con un invito a Boffo: “Forse è venuto il momento di rompere il riserbo e fare definitivamente chiarezza sul Suo caso. Anzitutto rendendo pubblici gli atti del Suo processo, che i cronisti non hanno potuto visionare perché manca il consenso del condannato (Lei). E poi spiegando perché Lei non ha ritenuto di denunciare Il Giornale, anzi è stato visto a pranzo proprio con Feltri nel febbraio scorso. C’è qualcosa che ancora non sappiamo?... Attendiamo Sue notizie”.
Invece di rispondere alla luce del sole, Boffo prende carta e penna il giorno stesso e coglie l’occasione per mettere sotto pressione la Cei con una lettera(nonc’èil destinatario, ma appare destinata a Bagnasco) che comincia così “Eminenza, vorrei tanto che Lei mi avesse davanti e potesse avvertire tutta la mia desolazione (...) Dio sa quanto vorrei poter risolvere da solo queste mie grane (...) Desolazione c’è in me per questa ripresa di attenzione sulla vicenda che mi ha interessato. Accludo l’articolo di Marco Travaglio apparso nella prima pagina del Fatto di oggi”. Boffo, evidentemente, pensa che Bagnasco non veda Annozero e si premura di aggiungere: “Non so se ha presente chi è il giornalista Marco Travaglio. Per capirci è il più puntuto, inesorabile e documentato avversario di Berlusconi. Più ancora di Santoro. È il giornalista “nemico” per antonomasia”.
Il passaggio è rivelatore: il nemico di Berlusconi – nella concezione di Boffo e forse della Cei – è automaticamente‘per antonomasia’ nemico anche della Chiesa. Boffo identifica a modo suo anche l’ispirazione del pezzo: “Travaglio ha sentito Feltri che faceva i suoi numeri da circo... ha sentito le insinuazioni avanzate nei confronti dei vescovi, ha sentito Feltri ricordare che io non avrei fatto querela e gli è scattata la mosca al naso. Come è possibile che Boffo stia ancora zitto? Cosa nasconde o cosa lo preoccupa? I suoi vecchi padroni (lui ragiona così) perché l’hanno mollato? Non è che per caso è sceso a patti con il suo torturatore, ha preso dei soldi per tacere e ora se ne sta alla larga?... Lui (Travaglio, ndr) probabilmente mi vorrebbe stanare nell’ottica della sua causa”.
AL DI LÀ del tono melenso, la lettera a questo punto prende una piega un po’ preoccupante per Bagnasco: “Cosa faccio? Faccio un’intervista per dire la mia e dare ragguagli sulla mia situazione? Ancora ieri Ezio Mauro si è offerto di venire lui a casa mia e a farmela, come direttore, l’intervista. Ma lo stesso Fatto me l’ha chiesta (vero, ndr), Il Foglio, La Stampa, Il Resto del Carlino. Non avrei problemi cioè a poter parlare, ma io non sono ancora convinto che sia la strada migliore perché andrei di fatto a rinfocolare le polemiche e comunque finirei per arrecare danno a qualcuno, tanto più che se parlo non è che possa sorvolare del tutto sulla parte svolta da Bertone-Vian. Potrei andare leggero”, prosegue Boffo un po’ minaccioso, “d’altra parte se parlo, posso negare completamente quello che a oggi risulta essere la realtà dei fatti? Sarebbe prudente ed evangelico negare, o è più prudente ed evangelico starmene zitto? Questo è il punto. Tra l’altro io non ho nessuna remora oggi come oggi a far togliere la riservatezza al fascicolo del Tribunale ma certo andrei – pur senza volerlo – a scatenare l’attenzione dei media sulle due famiglie, alle quali io – ben inteso – non devo nulla, ma che mi è sempre apparso più prudente tenere alla larga giacché non le conosco al punto di potermi fidare delle loro reazioni”. Non tanto per i danni alle famiglie dunque, quanto alla Chiesa, par di capire. “E comunque – prosegue Boffo – sarebbe una via che solleva me (la reazione di chi oggi legge quel fascicolo è: tutto qui?) ma non chiuderebbe la vicenda in un freezer e ri-ecciterebbe probabilmente il baillame. Ecco perché finora e nonostante le mille provocazioni di Feltri, ho preferito starmene zitto. Lui però (stupidissimo) non è stato a sua volta zitto”.
Poi arriva la preghiera: “Eminenza glielo chiedo in ginocchio... non crede che la Chiesa dovrebbe dare o fare qualche segno che, dal suo punto di vista, mi riabiliti agli occhi del mondo? E si possa in tal modo sperare di far scendere la febbre? ”. Sono i giornalisti, secondo Boffo, a puntare il dito contro “il silenzio della Chiesa che loro interpretano come un fatto sospetto.
DIMENTICANO che lei ha parlato, e come (Bagnasco nel settembre del 2009 intervenne a difesa di Boffo, ndr), che lei ha fatto fare una dichiarazione anche dopo il 4 dicembre, quando ci fu la ritrattazione di Feltri. (....) Certo se potessi dire che la Cei mi sta comunque aiutando sarebbe una cosa diversa griderebbe, a chi vuol sapere, che non sono proprio abbandonato a me stesso, che la Cei a suo modo mi è solidale, che sono semplicemente a casa ad aspettare che il procedimento abbia termine ma non mi sento un reietto agli occhi del mio ex editore (la Cei controlla l’Avvenire del quale Boffo era direttore prima dello scandalo, ndr) ”. A questo punto Boffo arriva al dunque: “Le chiedo in punta di piedi: facciamo uscire questa cosa (dell’articolo 2, per grazia della Cei) così che circoli e raffreddi un po’ il clima? ”. Boffo vorrebbe far pubblicare la notizia del suo prossimo contratto di collaborazione (articolo 2) con il quotidiano La Stampa, con il quale è in trattativa per rinforzarsi agli occhi dell’opinione pubblica. “Non voglio metterLa in angusti – prosegue la lettera di Boffo – non voglio nulla, Eminenza. Vorrei solo sparire, ma sparire non posso”. E infatti Boffo non sparirà. E non andrà mai nemmeno a La Stampa. Un mese e mezzo dopo la lettera, sarà nominato direttore di rete di Sat 2000. E non farà nessuna intervista.

il Fatto 18.5.12
Sciarelli “Avvertimento” per il caso Orlandi-De Pedis


La riapertura della bara scuote i nervi agli amici di Renatino. Dopo i volantini ritrovati vicino alla chiesa di San'Apollinare, l'altra sera durante la trasmissione Chi l'ha visto? è giunta in studio la telefonata di Giuseppe De Tomasi, alias Sergione. Proprio il figlio, secondo gli inquirenti, sarebbe l'autore della famosa telefonata anonima del 2005: “Andate a vedere dove è sepolto De Pedis e scoprirete la verità su Emanuela Orlandi”. De Tomasi nega: “Dite alla Sciarelli che vado sotto casa sua con le bombe e i carri armati”, Poi ha tentato di moderare i toni: “Sono anziano, su una sedia a rotelle, mi state rovinando la vita... ho chiesto la perizia fonica”. In realtà la perizia c'è stata. La voce dell'uomo, che nel 2005 aveva indicato la chiave di svolta del caso Orlandi, aveva toni che ricordavano quella di Mario il “barista”, che nei giorni successivi alla scomparsa di Emanuela aveva più volte telefonato in casa Orlandi. In definitiva la polizia si è convinta che “Mario” fosse Sergione, mentre la voce dell'anonimo apparterrebbe a suo figlio. Non c'è alcun bisogno di acquisire la voce di De To-masi, sono molte intercettazioni, dalle quali è emerso che non ha cambiato mestiere, continua a fare l'usuraio. (rdg)

Corriere 18.5.12
Il Vaticano e le carte segrete. Riparte la caccia ai «corvi»


CITTÀ DEL VATICANO — Oltretevere, ieri, ci si chiedeva: ma quando sono saltate fuori? Le «carte segrete» sulla scrivania di Benedetto XVI, contenute nel libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità e anticipate oggi dal nuovo Sette, vengono rese pubbliche a neanche un mese dalla costituzione della commissione cardinalizia voluta dal Papa per fare «piena luce» sui corvi vaticani che da gennaio hanno diffuso documenti «coperti dal segreto d'ufficio». Da tempo sono avviate un'indagine penale del Tribunale vaticano e una amministrativa della segreteria di Stato. Controlli, interrogatori. Possibile che «Vatileaks» prosegua? La convinzione in Vaticano è che le lettere riservate fossero già uscite da mesi, a conferma di quanto si pensava: un «dossier» è filtrato all'esterno prima che uscissero in gennaio le lettere riservate dell'arcivescovo Carlo Maria Viganò. Quando il Vaticano ha chiuso boccaporti era già tardi. Oltretevere c'è irritazione, «ma che ci fossero documenti in giro, purtroppo, non sorprende». Quanto ai contenuti — a cominciare dalla lettera di Dino Boffo a monsignor Georg Gänswein, con relative accuse al direttore dell'Osservatore Romano Giovanni Maria Vian — i diretti interessati mantengono il silenzio. Oltretevere non si commenta, però si fa notare che le stesse accuse rimbalzavano all'epoca sui giornali e che la Santa Sede le aveva già smentite («Non hanno alcun fondamento») il 9 febbraio 2010, con una nota molto dura «approvata dal Papa stesso». Il fax di Boffo a Gänswein è del 6 gennaio 2010. Pochi mesi prima il Giornale, scrivendo che Boffo patteggiò un'accusa di molestie (516 euro di ammenda), aveva pubblicato una velina falsa che calunniava l'allora direttore di Avvenire. Al segretario del Papa, Boffo scrive che fu Vian a consegnare il documento falso al Giornale, «forse» per «interpretare la mens del suo superiore», il cardinale Bertone. Del fax di Boffo non si sapeva, però accuse simili circolavano. Tanto che il 9 febbraio 2010 una nota della segreteria di Stato, a proposito delle «ricostruzioni» che sui media coinvolgevano Vian e «insinuano responsabilità addirittura del segretario di Stato», respingeva tutto come «falso» aggiungendo: «Appare chiaro che tutto si basa su convinzioni non fondate, con l'intento di attribuire al direttore dell'Osservatore, in modo gratuito e calunnioso, un'azione immotivata, irragionevole e malvagia. Ciò sta dando luogo a una campagna diffamatoria contro la Santa Sede, che coinvolge lo stesso Pontefice». E ancora: «Benedetto XVI deplora questi attacchi ingiusti e ingiuriosi» e «rinnova piena fiducia ai suoi collaboratori». Lo si fece stampare sull'Osservatore con una premessa: «Il Santo Padre ha approvato e ne ha ordinato la pubblicazione». Bertone e Vian sono rimasti al loro posto, Boffo è stato nominato direttore di «Tv2000», emittente Cei.
G. G. V.

Sette del Corsera 18.5.12
Le carte segrete sulla scrivania di papa Ratzinger

cinque pagine, nelle edicole

il Fatto 18.5.12
Peccati e sentenze: la dura vita della provetta
La Consulta decide sull’eterologa. Parte la crociata della Chiesa
di Paola Zanca


Ecografie, amniocentesi, cesarei. Letta dalle pagine dell'Avvenire, la deriva demografica è già cominciata. L’Italia è piena di “madri per forza”, di donne che reclamano “un diritto che non c’è”. E martedì rischiamo di svegliarci in un paese di neonati in provetta: “senza genitori”, perché “avere tanti ‘padri’ e ‘madri’ – sostiene in prima pagina il quotidiano dei vescovi – di solito equivale a non averne nessuno”. Riavvolgiamo il nastro per chi non si fosse accorto di essere nel mezzo di un disastro epocale. Il 22 maggio, tra quattro giorni, nel corso di un’udienza pubblica, la Corte Costituzionale pronuncia la sentenza sull’articolo 4 della legge 40. Ovvero giudica la legittimità della legge stessa, visto che quell'articolo parla del divieto alla fecondazione attraverso il seme di un donatore o l’ovocita di una donatrice esterni alla coppia. Un divieto che, formulato così com’è, vige solo in Italia. Ecco come tutto è cominciato.
Tutto vietato
Alle 19,15 del 11 febbraio 2004 le deputate dell'opposizione indossano una maschera bianca. Nell'aula di Montecitorio è appena passata la legge 40. Solo chi è sterile ha diritto alla procreazione medicalmente assistita. Ma mai con il seme o l'ovocita di una terza persona, nemmeno se uno dei due non è più fertile perché ha subìto una chemioterapia. È vietata alle coppie fertili, anche se portatrici di malattie genetiche o virali. Inutile dire che per i single non se ne parla. E che gli embrioni non utili per una gravidanza non possono essere mai usati ai fini di ricerca. Perfino Stefania Prestigiacomo, all'epoca ministro per le Pari Opportunità del secondo governo Berlusconi, ammette di avere dubbi sulla costituzionalità della legge. Ma in compenso le norme volute dal centrodestra hanno il sostegno di Francesco Rutelli. E anche Rosy Bindi, alla fine, le vota. La legge passa con 277 sì, 222 i no. I Radicali (all'epoca rappresentati da Daniele Capezzone), Ds, Rifondazione e Pdci, Idv e Verdi promuovono un referendum per abrogarla.
Quattro milioni di firme
Pur di evitarlo, le provano tutte: Forza Italia con una proposta di legge che modifica dopo appena sei mesi le norme appena approvate (elimina il divieto nel caso di coppie portatrici di malattie). Un “papocchio” da cui i referendari non si fanno incantare, nonostante anche nel centrosinistra ci siano voci discordanti (Enrico Letta disse: “Arrivare al referendum sarebbe una sconfitta della politica”). Poi ci provano la Prestigiacomo e l'Udeur. Intanto è arrivato settembre e ci sono le firme da portare in Cassazione: sono 4 milioni. È lì che arriva il testo di Giuliano Amato: si rivolge ai parlamentari dell'Ulivo, li invita a trovare un accordo bipartisan. Intanto dalla Consulta è arrivato il via libera ai quesiti. Il referendum si farà il 12 e 13 giugno del 2005. La campagna per l'astensione è fortissima: la lancia il cardinale Ruini, la conduce il Comitato Scienza e Vita (presieduto da Paola Binetti) che arriva dappertutto, perfino negli asili. Gianfranco Fini, a un mese dal voto, annuncia a sorpresa che voterà alcuni sì. Finisce male: alle urne si presenta solo il 25% degli elettori.
Pioggia di ricorsi
Nel giro di due anni, le coppie che vanno all'estero per tentare la fecondazione si moltiplicano per quattro (in cinque anni hanno toccato quota 50 mila). Chi resta in Italia comincia la battaglia in Tribunale. Un giudice di Cagliari dice a una coppia di portatori sani di beta-talassemia che negli ovuli fecondati c'è il rischio della malattia: la diagnosi pre-impianto, vietata dalla legge 40, è un loro diritto. Succede anche al Tribunale di Firenze: il giudice dice che i test pre natali si possono fare, purché non servano a scegliere il colore degli occhi del nascituro. A gennaio 2008 il Tar del La-zio boccia le linee guida della legge e arrivano i ricorsi a pioggia. Ad aprile 2009 la Consulta boccia uno dei cardini della 40, il divieto a impiantare più di tre embrioni. Dieci mesi più tardi dice che, se la donna ha problemi di salute, è legittima anche la crioconservazione degli embrioni.
L’ultima parola
Ora nel mirino dei giudici costituzionali c'è l'articolo 4 della legge, quello sulla fecondazione eterologa. Il ricorso è stato presentato nel 2010. La sentenza arriverà martedì. E chissà che non ci sia bisogno di riscrivere le linee guida dell'ex sottosegretario Eugenia Roccella, bocciate a novembre dal Consiglio superiore di Sanità. Nel frattempo, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'eterologa è entrata ufficialmente nella lista dei “peccati frutto della scienza” stilata dalla Santa Sede.

il Fatto 18.5.12
I promotori del ricorso: nessun pericolo di vuoto normativo


Non si crea alcun vuoto normativo a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità del divieto di applicazione di tecniche con gameti esterni alla coppia”. Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni e avvocato di una delle coppie ricorse alla Consulta sul divieto di fecondazione eterologa dettato dalla legge 40, risponde ad Avvenire. “Già la stessa legge prevede che non nascano legami con il donatore biologico. Inoltre la normativa sulla donazioni di organi, applicata anche ai centri di Pma (Procreazione medicalmente assistita, ndr), prevede la tracciabilità e quindi l’assoluta possibilità di rintracciare i donatori e avere tutte le informazioni necessarie per una eventuale cura. Il rischio di mercificazione delle donne donatrici non sussiste, perché v’è divieto assoluto di commercializzazione di parti del corpo umano desumibile da principi generali e direttamente dallo stesso art. 5 del Codice civile”.

il Fatto 18.5.12
Il ginecologo Carlo Flamigni
“Incredibile: i cattolici contro l’etica del dono”
di Silvia D’Onghia


Cosa c’è di odioso in una paternità che si basa su un principio così semplice: sono tuo padre perché ti sto vicino e faccio fronte ai tuoi bisogni? ”. Il professor Carlo Flamigni, ginecologo, membro del Comitato nazionale di Bioetica, presidente onorario dell’Aied, una vita spesa per aiutare le donne ad avere figli, appena si nominano la Legge 40 e il divieto di fecondazione eterologa diventa un fiume in piena.
Professore, ha visto l’avvertimento dell’Avvenire in vista del pronunciamento della Consulta sull’eterologa?
Io ai cattolici vorrei dire solo una cosa: quando in Italia c’erano le donazioni, erano donazioni vere. Uomini e donne non hanno mai percepito una lira. A volte ci restavano ovociti di donne che avevano fatto la fecondazione con successo e non sapevamo che farne. Così chiedevamo loro se erano disponibili a donarle. Trovo insopportabile fare una battaglia contro l’etica del dono.
Cosa è accaduto in questi otto anni di divieto?
Che le coppie hanno continuato ad andare all’estero. E che spesso, per risparmiare sui viaggi e sulle pratiche cliniche, che possono essere molto lunghe e ripetersi nel tempo, si sono rivolte a centri poco sicuri. Una coppia ha scritto di recente a Napolitano: erano stati a Cipro, ora hanno un figlio affetto da una patologia genetica. Questa gente andrebbe difesa. Io ho proposto di aprire un centro a San Marino, dove essere sottoposti gratuitamente all’eterologa. Per i medici non sarebbe un grosso danno.
Ma se la Consulta dovesse eliminare il divieto la settimana prossima, non si rischierebbero speculazioni?
No, basterebbe fare delle semplicissime linee guida: le donazioni si fanno nei centri pubblici, si stabilisce un numero massimo di donazioni per donatore, nessuno ci guadagna. Vede, io sono un vecchio comunista: a me stimolare una donna a donare gli ovuli in cambio di soldi fa ripugnanza.
Quale pronunciamento si aspetta?
Guardi, io sono pessimista vivendo in questo Paese. Però faccio io una domanda: cosa c’è di odioso in una paternità che si basa su un principio così semplice: sono tuo padre perché ti sto vicino e faccio fronte ai tuoi bisogni? Negare questa possibilità è un atto di malignità e di cattiveria.

il Fatto 18.5.12
In Europa il turismo procreativo


Lo chiamano turismo procreativo. Più semplicemente è la fuga all’estero delle coppie che ricorrono alla fecondazione eterologa. Molti Paesi europei la consentono, con procedure variabili. La Spagna è la meta preferita degli italiani, con cliniche a Madrid, Barcellona, Granada e Valencia. La legislazione permette sia la donazione di gameti, sia quella di embrioni. Anche alle single e alle omosessuali. In Svizzera è consentita la donazione solo per il seme e solo alle coppie sposate, a Lugano, Locarno e Bellinzona. Nella Repubblica Ceca è permessa la donazione di gameti ed embrioni. In Belgio e in Grecia l’eterologa è consentita alle coppie sposate o conviventi, sia eterosessuali che omo, e alle donne single. In Austria l’accesso alle procedure è limitato alle coppie etero sposate o conviventi. Consentita la donazione di seme, non di ovociti. (m. c.)

l’Unità 18.5.12
Usa, giro di boa. Ora i bianchi sono minoranza
Il sorpasso nel luglio 2011: i neonati ispanici neri e asiatici sono stati il 50,4 per cento
di Marina Mastroluca


Che sarebbe arrivato il giorno questo giorno era scritto nei numeri e nelle cose. Le minoranze hanno girato la boa del 50 per cento, i nuovi nati bianchi per la prima volta nella storia degli Stati Uniti sono numericamente inferiori ai neonati ispanici, asiatici e neri contanti insieme: 49,6% contro il 50,4. Sia pure solo nelle nursery, il sorpasso è avvenuto, figlio dell’immigrazione degli ultimi trenta, quarant’anni e della contemporanea flessione delle nascite tra la popolazione bianca. Per quanto attesa da tempo, la svolta è «una pietra miliare per una nazione il cui governo fu fondato da europei bianchi e ha combattuto con forza sulle questioni della razza», scrive il New York Times. E poco importa che i bianchi siano ancora la maggioranza sul totale della popolazione: i numeri in sala parto raccontano dove sta andando il Paese. «È uno spartiacque. Ci mostra quanto siamo diventati multiculturali», dice Andrew Cherlin, sociologo della John Hopkins University.
La svolta è avvenuta nel luglio 2011, secondo i demografi. In alcuni Stati Usa è già consolidata. Le minoranze sono maggioritarie in California, in Texas, in New Mexico e alle Hawaii. E in particolare nel Distretto di Columbia, a Washington. Un balzo in avanti notevole solo rispetto a vent’anni prima, quando i neonati appartenenti a minoranze erano appena il 37%. La spiegazione è intuitiva. La gran parte degli immigrati arrivati negli Stati Uniti era ed è formata da persone giovani e sane e più disposte a far figli, a differenza della popolazione bianca che rappresenta ancora il 63,4% della società Usa, ma sta inesorabilmente invecchiando: l’età media dei bianchi, secondo l’ultimo censimento Usa, è di 42 anni.
Al contrario per i latinos l’età media è di appena di 27 anni e non c’è dastupirsi se i centri che assistono le immigrate e i loro figli stanno conoscendo un vero e proprio boom. Anche se la crisi ha rallentato le nascite, anche se ci sono meno opportunità. Anche se i flussi migratori in particolare dal Messico stanno rallentando. Persino in questi anni di affanni economici la natalità tra le minoranze è scesa in misura minore che tra i bianchi: il 3,2% contro l’11,4.
In termini demografici i conti tornano. A una popolazione più anziana se ne sta affiancando una più giovane e potenzialmente più attiva. I dati del censimento mostrano larghe parti degli States in cui senza gli immigrati non ci sarebbero quasi più giovani. Il rimpiazzo dell’immigrazione è necessario e secondo i demografi è destinato a durare: non appena l’economia ripartirà, ci si aspetta che i flussi tornino come prima.
Più giovani, più poveri e più lontani dai centri del potere: i non bianchi americani hanno una buona probabilità di riconoscersi in queste categorie. E qui c’è il primo gap. «C’è una larga distanza tra la popolazione più anziana con i voti, il denaro e il potere, ed un sacco di necessità e la popolazione giovane che è a loro estranea e con la quale non hanno contatti personali e poche connessioni culturali», spiega William Frey, demografo del Brooking Institution, parlando delle sfide che pone l’andamento demografico Usa. La differenza è accentuata anche dalla tendenza delle minoranze a non partecipare alla vita politica, a non votare. Nel 2008, per esempio, solo la metà dei latinos aventi diritto si è presentata ai seggi, contro il 65% dei non ispanici: un bacino di voti potenziali che fanno gola. Altro gap, preoccupante in prospettiva, è quello sull’educazione: la futura maggioranza del Paese ha accesso a un’istruzione di qualità inferiore. E per quanto sia possibile raddrizzare il timone, le scelte giuste vanno prese ora.
L’AMERICA DI SERIE B
Se le tendenze demografiche restassero invariate, i demografi calcolano che le minoranze diventeranno maggioranza sul totale della popolazione intorno al 2042. Trent’anni in cui le distanze dovranno essere accorciate. Perché l’America che ha eletto Obama è anche quella che non gli perdona di essere un afro-americano e che ancora mette in dubbio il suo certificato di nascita. È il Paese dove la ricchezza media delle famiglie bianche nel 2009 ammontava a 113.149 dollari, contro i 6.325 degli ispanici e i 5.677 dei neri: lo stesso luogo dove tra il 2005 e il 2009 i redditi dei latinos sono scesi del 66% (per gli afro-americani -53%), contro una contrazione di appena il 16% per i bianchi. È ancora l’America dove la larga maggioranza di qualunque colore crede che il Paese sia diviso in base alla razza, ma solo il 19% dei bianchi contro il 60% dei neri pensa che esista un problema di razzismo.
Strettoie che diventano ineludibili, grazie a quelle culle multicolor e a generazioni nuove per le quali la diversità sarà sempre meno diversa. Potrà non piacere a qualcuno ma sarà così. È già così per Dowell Myers, docente di politiche demografiche. «Se gli Stati Uniti dipendessero solo dalle nascite di bianchi dice saremmo già morti».

La Stampa 18.5.12
Lo scrittore Englander “Ora possiamo scegliere se essere bianchi o neri”
Intervista di Maurizio Molinari


Questi dati confermano che gli Stati Uniti sono diventati una società globale dove ognuno di noi sceglie liberamente quale identità avere»: lo scrittore Nathan Englander, classe 1970, si riconosce nella fotografia di un’America dove le minoranze hanno più figli dei bianchi e parla di «sfida solo per chi ancora guarda al presente con gli occhi rivolti al passato».
Che cosa ha pensato quando ha letto le nuove statistiche sui nuovi nati del Censimento federale?
«Ho pensato alla conferma del fatto che l’America è una società globale dove non c’è più una singola etnia maggioritaria perché a imporsi è una molteplicità di identità che sono destinate a fondersi al punto da essere difficili da classificare».
Se lo aspettava?
«Questo è il mondo nel quale io vivo ogni giorno e che si ritrova nei miei scritti. La sorpresa davanti al superamento dei neonati bianchi da parte di quelli delle minoranze può appartenere solo a chi, nel settore dell’informazione o altrove, guarda al presente ostinandosi ad avere la testa rivolta all’indietro, adoperando schemi vecchi, superati, inadatti a descrivere il mondo nel quale siamo immersi. La demografia fotografa una realtà che esiste già da tempo. Siamo noi ad essere spesso in ritardo nell’accorgerci dei cambiamenti avvenuti».
Ciò che colpisce della radiografia dei nuovi nati è anche come siano in forte aumento i figli di coppie miste...
«A ben vedere è lo stesso tipo di famiglia da cui proviene il presidente Barack Obama, che ha un padre nero e una madre bianca. Le famiglie miste sono la parte più avanzata della società globale perché si lasciano alle spalle le divisioni razziali. Obama ha scelto di essere nero ma poteva dirsi bianco. Siamo ciò che scegliamo di essere non ciò che gli altri ci impongono di essere. L’apparenza o le caratteristiche gli altri ci assegnano passano in secondo piano».
Quali possono essere le conseguenze di tale trasformazione?
«In primo luogo si tratta di una nuova dimensione della libertà personale. Imporre l’identità con la forza, dall’esterno, è qualcosa che appartiene alle dittature. Era il Sudafrica dell’apartheid che pretendeva di decidere chi era nero così come era la Germania di Adolf Hitler a voler stabilire chi era ebreo. Ora invece sono i singoli individui che liberamente scelgono cosa desiderano essere sulla base di percorsi personali, uno diverso dall’altro. La propria identità è una scelta sovrana e non può essere più imposta da altri, dall’esterno. Si tratta di una conseguenza delle trasformazioni demografiche che questo studio del Censimento sottolinea, destinate a produrre ricadute innumerevoli ma comunque positive per le nuove generazioni del XXI secolo».

il Fatto 18.5.12
Harvard, la fucina dei potenti non è in crisi
Miliardi ed eccellenza come dogma dell’università americana: anche i professori sono sempre sotto esame
di Carlo Antonio Biscotto


L’annuale classifica delle università mondiali compilata dai ricercatori dell’Università Jao Tong di Shanghai, ha confermato Harvard al primo posto. Da questo prestigioso, quasi leggendario istituto universitario sono usciti 44 premi Nobel, 46 premi Pulitzer e 8 presidenti degli Stati Uniti. Harvard ha solamente dieci facoltà, ma forma l’élite intellettuale e la classe dirigente del Paese.
MA QUALI SONO, se ci sono, i segreti di Harvard? In primo luogo la qualità del corpo docente e l’assoluto rigore meritocratico con cui viene selezionato. Ha scritto in un suo libro la sociologa francese Staphanie Grousset-Charrière, lettrice ad Harvard dal 2004 al 2008: “Harvard forma non solamente gli studenti, ma anche gli insegnanti. Non si ha il diritto di ammalarsi e anche con 39° di febbre si fa lezione. È necessario vestirsi in maniera dignitosa per dare il buon esempio e sono qualità indispensabili: la puntualità, la cordialità, la disponibilità, la comprensione, la professionalità e la disciplina”.
Inoltre, i nuovi insegnanti non vengono mandati allo sbaraglio, ma all’inizio vengono monitorati e seguono corsi di pedagogia e di scienza dell’educazione. Imparano in tal modo a organizzare corsi interattivi, a presentare la materia, a stimolare domande e a utilizzare documenti e supporti informatici.
All’inizio dell’anno accademico c’è il cosiddetto shopping week, una settimana durante la quale gli studenti hanno modo di valutare i circa 900 corsi proposti dall’università. È un sistema che stimola la curiosità degli studenti, ma che incentiva anche i docenti il cui corso, nel caso in cui non venga scelto da un numero sufficiente di studenti, viene soppresso senza esitazione.
UN ALTRO SEGRETO di Harvard consiste nella “valutazione reciproca”: non sono solo gli insegnanti a valutare gli studenti, ma anche gli studenti a giudicare i loro docenti.
Alla fine di ciascun semestre gli studenti danno un voto ai loro professori e quelli che ottengono i voti migliori ricevono un diploma, il Derek C. Book Award, che viene consegnato nel corso di una cerimonia dove non mancano né i dolci né lo champagne.
Ma la principale caratteristica di Harvard riguarda il modo in cui viene valutato il lavoro degli studenti. Ad Harvard è bandito il concetto di sufficienza e le valutazioni debbono essere sempre positive e costruttive. Mai mortificare gli studenti. Mai usare il tono cattedratico e “professorale” in uso dalle nostre parti. Mai dire “no, è sbagliato”. Si preferisce un più costruttivo: “Errore interessante; vediamo di capire cosa può averlo prodotto”.
Non è insolito che il contratto di un docente non venga rinnovato per il solo fatto di aver espresso sui suoi studenti giudizi troppo perentori e insufficientemente motivati.
Harvard ha un capitale di 30 miliardi di dollari gestito da un centinaio di maghi della finanza.
Le tasse universitarie sono piuttosto alte, circa 43.000 dollari l’anno, ma le donazioni degli ex alunni e le borse di studio sono generose. L’eccellenza è la religione di questa università.
Quest’anno sono stati ammessi solamente il 5% dei candidati.
C’È UN DOCENTE ogni 8-10 studenti e il piano di studi è estremamente aperto, quasi “alla carta”, tanto che ciascun studente può costruire un suo personale percorso di studio. Lo scopo di questa multidisciplinarietà è quello di evitare un eccesso di specializzazione in età troppo precoce. Per diventare “specialisti”, dicono a Harvard, c’è sempre tempo.

La Stampa 18.5.12
Se i cristiani non hanno bisogno dell’anima
La tesi radicale della teologa Nancey Murphy, a Torino per un convegno sui rapporti tra scienza e religione
Ci sono sempre elementi neuronali alla base delle nostre azioni, ma non ne sono la causa
di Franca D’Agostini


Oggi, Casa Valdese. Nancey Murphy è tra i relatori della giornata conclusiva del convegno «Materia, vita, spirito. Teologia e scienze naturali a confronto», promosso dal Centro Evangelico di Cultura Arturo Pascal e dal Centro Studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson, oggi a partire dalle ore 10 presso il Salone della Casa Valdese di Torino (c. Vittorio Emanuele II, 23). Intervengono inoltre Corrado Sinigaglia e Andrea Lavazza, modera Franca D’Agostini. Nel pomeriggio tavola rotonda con Claudio Ciancio, Edoardo Boncinelli, Roberto Bondì, Sergio Rostagno, Angelo Vianello e Alberto De Toni

Uno dei molti paradossi sull’identità personale che sono circolati negli ultimi anni è il caso dell’anziano e dottissimo professore il quale propone a un suo studente, giovane e aitante ma di scarsa intelligenza, di scambiarsi i cervelli: lo studente riceverà un cervello pieno di sapienza e dottrina, il professore avrà un corpo nuovo e prestante. Già: ma chi rimane con il cervello vuoto e il corpo cadente? La risposta dipende da come concepite l’identità personale: se per voi siamo il nostro corpo, ci guadagna lo studente, se per voi siamo il nostro cervello, ci guadagna il professore.
Per fortuna, i trapianti di cervello sono eventualità ancora lontane. Ma il problema di fondo rimane aperto: chi siamo, in definitiva, se davvero siamo qualcosa? E posto che quel che siamo sia distinto dal nostro corpo, come vuole il «dualismo cartesiano», dove si colloca, esattamente, la mente, o l’anima, o la coscienza? La questione interessa in modo primario la religione, e particolarmente la religione cristiana, da sempre alle prese con un’antropologia complicata e discussa, che prevede strane mescolanze di corpo e spirito, e anime che si addormentano per risvegliarsi nella resurrezione.
In questo quadro è davvero sorprendente la posizione di Nancey Murphy, teologa cristiana, professore al Fuller Theological Seminar di Pasadena, oggi a Torino per l’importante convegno su «Materia, vita spirito» organizzato dal Centro Luigi Pareyson e dal Centro di Cultura Evangelica Arturo Pascal.
Murphy sostiene recisamente: «I cristiani non hanno alcun bisogno dell’anima». Anzi, il cristianesimo è-può essere una religione decisamente fisicalista: può ammettere che siamo anzitutto corpi. Scrive Murphy in Bodies and Souls, or Spirited Bodies? (2006): «Non c’è bisogno di postulare alcun elemento metafisico addizionale, come fosse un’anima, o uno spirito, o una mente», e aggiunge: «Ciò non toglie che siamo esseri intelligenti, morali, e spirituali. Siamo complessi organismi fisici, per di più formati da migliaia di anni di cultura. Siamo, molto semplicemente: corpi spiritati ( spirited bodies) ». Di qui ha inizio il particolare «fisicalismo non riduzionista» di Murphy, una prospettiva in cui la religione non «dialoga» con la scienza, ma anzi si fonda sulla scienza.
In un ambiente come quello italiano, ancora afflitto da inutili guerre culturali, tra scienza e humanities, scienza e religione, il pensiero di Nancey Murphy è una ventata d’aria fresca, non perché la sua posizione sia cauta ed ecumenica, ma al contrario: perché è estrema e radicale, nella sua illuminante originalità.
Naturalmente, Murphy è consapevole delle complesse implicazioni storico-dottrinali che la sua posizione comporta. E tutto il suo lavoro consiste nella paziente elaborazione delle ragioni che possono portare il cristiano a pensare se stesso e il mondo in modo coerente con la scienza e la filosofia contemporanee, e con il comune buon senso. In Did My Neurons Make Me Do It? (2007 con W. S. Brown) Murphy affronta la questione del libero arbitrio nella prospettiva della neurobiologia. Ci sono sempre elementi neuronali alla base delle nostre azioni, ma ciò non significa che siano causa delle nostre azioni. Benché spesso le ragioni dei gesti più estremi degli esseri umani siano disguidi neuronali, spiega Murphy, «non è quasi mai appropriato dire “è colpa dei miei neuroni”».
Ma allora, se è tutto così semplice, perché abbiamo tanta difficoltà a capire come dal nostro essere fisico emergano responsabilità e intenzionalità? Il problema, dice Murphy, è che «nonostante i cambiamenti nella fisica, e della neurobiologia, una larga parte della nostra cultura sta ancora funzionando in base a concezioni arcaiche (newtoniane, cartesiane) della causalità e della coscienza». Ma basta riconoscere che la realtà di cui ci parla la scienza è stratificata e complessa e dalle microparticelle alle società umane ci sono diversi tipi di causazione e agenti causali, per capire che intenzionalità e libero arbitrio non sono affatto incompatibili con il nostro essere fisico.
Bisognerebbe, in altre parole, «chiudere il teatro quando l’attore [l’io] se ne è andato». Molte discussioni filosofiche oggi sembrano in effetti così: strani teatri in cui il pubblico discute, animatamente, di uno spettacolo inesistente, di fronte a un palcoscenico vuoto.

Corriere 18.5.12
Il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris
Tornare alle cose e criticare il reale
di Vittorio Gregotti


Dopo molte pubblicazioni emerse in modo frammentario nell'ultimo anno anche sui quotidiani, il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Laterza, pp.113, 15) pone le premesse per una concreta discussione critica intorno al postmodernismo ed al suo possibile tramonto. Dopo quasi trent'anni di inascoltata critica all'ideologia postmodernista in architettura (con l'utilizzazione dei testi di Habermas, di Jameson, di Touraine, di David Harvey e di pochi altri e con una rilettura dei testi dello stesso Lyotard che, assieme a Derrida e Foucault, come nota anche Ferraris, erano tornati alla fine degli anni Ottanta a riflettere intorno all'Illuminismo) non posso che essere felice della pubblicazione del libro di Ferraris e della sua distinzione tra realismo critico e positivismo. Anche se alla questione delle arti del contemporaneo dedica poco spazio.
Ne scriverò qui, in modo assai sommario, dal particolare punto di vista della pratica artistica dell'architettura, cercando anche di stimolare lo stesso Ferraris, che ne aveva scritto già vent'anni or sono con parere assai diverso. Oggi riaffronta questo stesso argomento dal punto di vista della relazione critica con la realtà, scrive «come presa d'atto di una svolta intorno agli esiti del postmoderno», in quanto tale «esito è stato quello di un populismo-mediatico, in un sistema in cui (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere a qualsiasi cosa».
Al di là delle mie convergenze di opinioni, è interessante guardare la questione dal più ristretto punto di vista del fare dell'arte ed, in particolare, dell'architettura. A questo proposito una prima questione è quella posta da Ferraris sull'«inemendabilità della percezione», che è messa a sua volta in discussione nel postmodernismo «da una confusione tra ontologia ed epistemologia». Mi sembra chiaro infatti che le percezioni delle opere dell'arte possono mutare in quanto muta nel tempo la cultura del giudizio critico del soggetto. È pur vero, come l'autore stesso scrive che «vi è sempre un residuo epistemologico nell'ontologia, e viceversa», ma questo è, sempre dal punto di vista del fare delle arti, un processo in cui i due elementi di mescolano in modo decisivo nella costituzione dell'opera. A questo contribuisce un confronto critico con la realtà in cui opera, in modo discontinuo, proprio la ragione illuminista a cui, ricorda Ferraris, si oppone in modo radicale il postmodernismo populista con il rifiuto «del nesso tra sapere ed emancipazione».
E qui si pone una seconda questione, quella di che cosa significhi relazione critica con la realtà che, per la pratica artistica dell'architettura, ha un doppio significato: quello della relazione con le condizioni della produzione e della tecnica, e quello della costituzione della forma dell'opera che muove insieme alla sua intenzionalità trasformativa nei confronti dello stato generale delle cose. Ed è proprio questo ciò che Ferraris intende per realismo «nel senso kantiano del giudicare cosa sia il reale e cosa non lo sia, e in quello marxiano del trasformare ciò che non è giusto».
Affermare quindi ancora oggi, secondo l'ideologia postmodernista, che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, ha solo a che vedere con un'inquietudine coperta da una serie di simulate certezze di cui la religione del denaro, la tecnoscienza ed il potere, sono i soli punti di riferimento. Meglio, cioè, praticare l'idea che ci sono fatti ed insieme (in modo inestricabile) le loro interpretazioni che devono presiedere alle opere delle pratiche artistiche. Sono questi gli obiettivi più importanti di una critica alla realtà per mezzo delle opere dell'arte vista come ricerca di fondamenti e di frammenti di verità in quanto terreno di ogni futuro. Al di là di queste considerazioni il testo di Ferraris è appassionato, ironico (come sovente i suoi testi) e comprensibile: persino per un muratore come me.

Corriere 18.5.12
La storia, profezia sul passato
Come in medicina, è il ripetersi dei sintomi la chiave di tutto

di Luciano Canfora

S criveva Leopold von Ranke in un bel capitolo della sua Storia universale che «Tucidide non era rimasto insensibile alle nuove teorie scientifiche intorno alla natura». In realtà si tratta di ben più che un modesto interesse: si tratta dell'influsso su di lui del metodo diagnostico e prognostico dalla medicina ippocratica. Il luogo classico che rivela la assunzione da parte di Tucidide di tale metodo e la estensione di esso al sapere storico-politico è il preambolo con cui egli introduce la descrizione della cosiddetta peste di Atene. Dichiara in quel passo lo storico di voler descrivere i sintomi del male dal quale egli stesso fu affetto, e che riuscì a superare, «affinché lo si possa riconoscere quando eventualmente si ripresenterà». La conoscenza, dunque, di un fenomeno che potrebbe verificarsi (cioè «futuro») è fondata secondo Tucidide sull'attento studio dei sintomi. Analogamente, quando nel proemio spiega perché ha deciso di dedicare un racconto così analitico alla guerra peloponnesiaca, da lui ritenuta la più importante di tutta la storia passata, introduce come giustificazione un argomento simile: che cioè la natura umana essendo sostanzialmente immutabile o forse modificabile in un tempo lunghissimo, eventi «uguali o simili» è altamente probabile che si ripresentino; donde la necessità di conoscere analiticamente l'esperienza già consumatasi. Il pronostico del medico e il pronostico del politico si fondano dunque entrambi sullo stesso presupposto empirico-sintomatologico.
Tucidide estende questo metodo anche alla conoscenza del passato remoto: anche in tale ambito, dove l'assenza di documentazione è vastissima, saranno i sintomi («segni») a suggerire una possibile ricostruzione di un passato ormai smarrito, e soprattutto renderanno possibile valutarne la grandezza a paragone della ben più verificabile grandezza della storia in fieri. Profezia sul passato, dunque, e profezia sul futuro, si potrebbe dire: il metodo è il medesimo; è il metodo della medicina ippocratica.
Alla luce di tale concezione, è evidente che le altre forme di «pronostico» a base arcaicamente oracolare vengano considerate da Tucidide con distacco, con ironia, se non con disprezzo. Celebre la considerazione ironica che egli riserva all'oracolo che fu rispolverato in Atene appunto in occasione dell'esplosione del contagio. Si ricordarono in quella occasione — dice Tucidide — che tempo addietro aveva circolato una profezia, secondo la quale «insieme con la guerra sarebbe sopraggiunto il contagio pestilenziale« (che effettivamente si produsse nel 430-429 a.C., cioè appena un anno dopo l'inizio della guerra con Sparta). Il fatto è che, nota ancora Tucidide, la parola indicante il flagello concomitante con la guerra inizialmente non era «pestilenza» (loimòs) ma «carestia» (limòs). Nondimeno — conclude Tucidide — ritoccarono il dettato della profezia sulla base di quanto effettivamente era accaduto ed essa risultò, se così si può dire, veridica (II, 54). Questa notazione, che potremmo definire volterriana, indica, in modo inequivocabile, la lontananza di Tucidide dal mondo magico-profetico-oracolare. È facile riconoscere in tale libertà di pensiero, in tale visione razionale dei fatti storici e naturali, l'influsso decisivo di quella fondamentale corrente intellettuale che definiamo sommariamente «sofistica» e che un grande storico del pensiero greco, Theodor Gomperz, definì «illuminismo».
Intorno ad una guerra così totale e alla fine disastrosa come la guerra peloponnesiaca era inevitabile che si «incrostassero» profezie, più o meno costruite alla maniera di quella che Tucidide deride. Nella commedia di Aristofane intitolata Pace (421 a.C.), la festosa accoglienza riservata al trionfo della pace, da parte dei protagonisti di quella commedia, viene disturbata dalla interferenza di un indovino di nome Ierocle che si affanna a sbraitare che non è ancora tempo, «non è gradito ancora agli dei che si interrompa il grido di guerra» (vv. 1073-1075). Effettivamente anche Plutarco nella Vita di Nicia, cioè del politico che più fortemente volle la pace stipulata nel 421, apparsa inizialmente come risolutiva, ricorda che un bel po' di fanatici andavano in giro sbraitando che la guerra era fatale che durasse tre volte nove anni, e che dunque era prematuro che il conflitto terminasse dopo appena dieci. E Plutarco soggiunge che gli Ateniesi la stipularono ugualmente quella pace «sbeffeggiando» codesti profeti di sventura.
Purtroppo la guerra ricominciò dopo alcuni anni e si sviluppò con un andamento asimmetrico. Ma a cose fatte, quando ormai Atene dovette capitolare e rinunciare alle mura e alle navi, qualcuno sfoderò l'antica profezia e, forzando un po' le cifre, cercò di dimostrare che la guerra era durata effettivamente ventisette anni.
A rigore, anche accettando la tesi audace di Tucidide, secondo cui si trattò di un'unica guerra protrattasi fino a che Atene non capitolò, ugualmente i conti non tornano: oltre tutto lo stesso Tucidide sembra oscillare a proposito dell'esatto inizio del conflitto, posto dapprima al momento dell'attacco a sorpresa degli Spartani contro Platea e successivamente soltanto nel momento della prima invasione dell'Attica. E quanto poi alla conclusione, essa può ragionevolmente porsi o nel momento dell'ingresso di Lisandro in Atene ormai prostrata, ovvero sei mesi dopo, quando si arrese anche l'isola di Samo, alleata fedelissima di Atene, cui era stata attribuita in blocco la cittadinanza ateniese: come dire, semplificando, che a distanza di sei mesi Atene cadde due volte.
Insomma, i propalatori di oracoli anche in questa occasione dovettero affannarsi a far quadrare i conti, mentre gli storici di formazione «realpolitica» e dotati di una mentalità aliena dal soprannaturale, ebbero ancora una volta materia per sorridere di queste cabale numerologico-oracolari.

Corriere 18.5.12
«Orlando», l'italiano in cantiere
Il poema dell'Ariosto che tenne a battesimo la lingua nazionale

di Paolo Di Stefano

I talo Calvino invitava ad accostarsi all'Orlando furioso senza tanti preamboli, perché «è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi». È vero, al punto che viaggiando dentro questo fantastico «poema del movimento« rischiò di perdersi per primo il suo stesso autore. La storia editoriale del capolavoro di Ludovico Ariosto è infatti una delle più tormentate che si conoscano: l'opera nasce nei primissimi anni del Cinquecento, quando il poeta non è ancora trentenne. Nel gennaio 1507, a Mantova, Ariosto legge a Isabella d'Este Gonzaga qualche brano del nuovo testo, che ha già cominciato a incuriosire la corte. Solo nel 1516, a Ferrara viene licenziata la prima edizione (A) di quaranta canti, ma nel giro di tre anni l'autore avvia la revisione e sempre a Ferrara nel 1521 consegna alle stampe una seconda edizione (B).
L'anno chiave per Ariosto, e non solo per lui, è il 1525, quando escono le Prose della volgar lingua, il trattato con cui l'amico Pietro Bembo «fonda» lo stile e la grammatica della lingua letteraria sulla base dei maggiori scrittori trecenteschi. Ariosto ne rimane sconvolto, al punto da essere indotto a rimettere mano al suo poema per uniformarlo al toscano letterario ripulendolo della veste regionale primitiva. Dopo una lunga rielaborazione, nell'ottobre 1532, pochi mesi prima della morte, il poeta pubblica la terza e definitiva edizione (C) dell'Orlando furioso, ampliato di sei canti.
Il lavoro di una vita dell'Ariosto è anche il lavoro della vita di Cesare Segre, il filologo che più di tutti ha studiato il poeta emiliano, sin da quando, giovanissimo, era assistente del filologo Santorre Debenedetti, suo prozio: è infatti con il binomio Debenedetti-Segre che uscirà, nel '60, l'edizione critica del poema. Ma oltre che all'opera maggiore, Segre si è dedicato, con studi e edizioni critiche, anche alle minori (a un volume Ricciardi del '54 seguono quelli dei Classici Mondadori). L'impresa più lunga e difficile arriva però adesso, con il Rimario diacronico del Furioso. «Disporre di tutto l'insieme delle rime e del lessico, parola per parola, nel loro svolgimento da una redazione all'altra permette di verificare il sistema linguistico dell'Ariosto in movimento», osserva Segre.
Un primo progetto fu avviato nel '65 con l'Olivetti, allora all'avanguardia nell'elettronica. La chiusura dell'attività olivettiana nel settore dei computer impose una sospensione. Se ne riparlò anni dopo con l'Accademia della Crusca: «Dato che l'Ariosto fu lo scrittore che più di tutti ha contribuito all'affermazione del toscano letterario come lingua nazionale, una concordanza diacronica avrebbe permesso di seguire le fasi di questa impresa». L'impresa richiede necessariamente una cooperazione tra informatici e filologi: con l'apporto tecnico di Antonio Zampolli e in seguito di Eugenio Picchi, con il lavoro filologico di Luigina Morini e di Clelia Martignoni, con il contributo informatico di Manuela Sassi, nel '74 la conclusione sembra vicina, ma non è così. Gli oltre trent'anni che seguono sono una specie di romanzo, con complicati passaggi da un software all'altro, e persino con pacchi di carta che spariscono e costringono a rifare una parte del lavoro. Solo con il sostegno dello Iuss (l'Istituto pavese di studi superiori, diretto da Roberto Schmid) si va verso il lieto fine.
Ed eccolo qui, infatti, il Rimario, su carta (e su dvd): un monumento in due volumi, diretto da Segre, che solo ad apertura di pagina rivela la complessità e la bellezza tipografica, tra varietà di corpi, caratteri, segni e nuove simbologie. L'obiettivo è quello di registrare, sulla base di C, le varianti delle edizioni precedenti A e B in tutte le possibili situazioni testuali. Ci sono casi molto semplici, per esempio la sostituzione quasi sistematica di una parola con un sinonimo (come i cavalli che diventano destrieri o gli amatori che diventano amanti). Ci sono casi in cui il cambio di una sola parola in rima (la caduta di certi latinismi o di forme dialettali) genera conseguenze a cascata: vedi l'eliminazione quasi sistematica dell'avverbio presto (sostituito in C da soluzioni varie tra cui il sinonimo tosto) o l'esigenza di cassare tutte le sdrucciole in rima (scompaiono, tra l'altro, opera, povero e povera); ci sono le ottave inserite solo nella B e nella C, per non dire dei sei canti inventati ex novo nel '32. Il Rimario (unico esempio, finora, di rimario «diacronico», che registra cioè le varianti d'autore) dà conto, ovviamente del contesto.
Segre accenna al «progressivo depurarsi linguistico del poema». L'antecedente più vicino ad Ariosto era l'Orlando innamorato, dove però viene utilizzata una lingua ben diversa: «Al Nord la lingua corrente era un toscano mescolato con il dialetto, come dimostra il Boiardo: Ariosto sulle prime ne segue l'esempio, ma nelle due redazioni successive ripulisce la lingua fino ad arrivare a un toscano puro, tanto che il Furioso verrà assunto come un modello linguistico anche dal Dizionario della Crusca. Quello di Ariosto è un lavoro attentissimo, parola per parola, che ora riusciamo a seguire nel suo insieme: è significativo che quando decide di cambiare un termine o una forma fonetica, lo faccia anche a costo di mandare all'aria tutte le rime dell'ottava».
Un lavorìo ben diverso dal risciacquo manzoniano in Arno, perché mentre Ariosto tiene conto, quasi da storico della lingua, delle stratificazioni letterarie, l'ideale di Manzoni è opposto: «La lingua de I promessi sposi è il fiorentino vivo, che invecchia subito, perché soggetto a trasformarsi col tempo: Manzoni, riproducendo il parlato contemporaneo, fa una scelta utopica contro la storia della lingua; Ariosto invece ha un'idea evolutiva, fa i conti con i tre secoli precedenti, con Dante e Petrarca. Nell'ultima redazione, poi, acquisisce una dimensione meno umanistica e più rinascimentale». Magari sacrificando qualcosa al colore e alla brillantezza a favore dell'euritmia e della simmetria classica: «Qualcuno — ricorda Segre — preferisce la prima redazione. Per me è una scelta difficile: l'eccesso di equilibrio e di classicità dell'ultima edizione può anche dar fastidio rispetto alla freschezza precedente, dove si prende anche la libertà di parteggiare per gli Estensi e i francesi loro alleati, mentre nella C celebra senza calore l'imperialismo di Carlo V. Ma d'altra parte nell'edizione '32, che può apparire più ingessata, Ariosto inserisce episodi stupendi, come quello di Olimpia». Anche con i contemporanei si propongono problemi analoghi: «In effetti, non sempre l'ultima volontà dell'autore è la migliore. Le Cinque storie ferraresi di Bassani sono molto più scorrevoli e stilisticamente ricche nella prima edizione, poi con il lavoro successivo vengono rese più pesanti e aggrovigliate. Anche la Gerusalemme conquistata è più brutta della Liberata: per fortuna, come posteri abbiamo la possibilità di scegliere. Per Ariosto scegliere è difficile».
Come si vive in compagnia di Ariosto per più di cinquant'anni? «Il Furioso è un'opera divertente, rasserenante, solare, un'opera di straordinaria libertà, non per niente piacque a Voltaire e a Calvino. Basti pensare a come affronta l'aldilà: a così poca distanza dal Medioevo doveva risultare strabiliante. È un libro non antireligioso, ma a-religioso, senza tutte le manie del Tasso, per il quale non ho mai avuto una gran simpatia. Certo, è molto lungo, 38.736 versi, il triplo della Divina Commedia, che al confronto sembra un libriccino». Eredi? «Il testimone, quando la fortuna dell'Ariosto va declinando, passa direttamente a Cervantes».

Repubblica 18.5.12
Le nomine della cultura
Le élite riluttanti
Tra Manzoni e il Gattopardo, i difetti dei "migliori"
di Roberto Esposito


Forze anonime che tendono a spezzare la legittimità democratica delle scelte economiche
Un saggio di Carlo Galli analizza il rapporto difficile delle classi dirigenti con la società italiana
Vizi di fondo come apatia, cinismo e irresponsabilità Ma anche capacità di sorprendere

ROMA - Marina Valensise, Stefania Stafutti e Giorgio Amitrano sono i nuovi direttori degli Istituti italiani di cultura rispettivamente a Parigi, Pechino e Tokyo. La decisione è stata presa dal ministro degli Esteri Giulio Terzi al termine della procedura prevista per la nomina dei direttori "di chiara fama". Valensise è giornalista, Stafutti insegna Lingua e letteratura cinese a Torino, Amitrano, preside di Lingue alla Orientale di Napoli, è anche traduttore dal giapponese di numerose opere letterarie.

C´è sempre stato qualcosa di irrisolto nel rapporto tra l´Italia e le sue élites. Destinate, per loro natura, ad aggregare la società, orientandola verso finalità collettive, raramente hanno svolto tale compito, risultando in più di un´occasione esse stesse fattore di disgregazione. Disarticolate in una pluralità difficilmente riconducibile all´unità di una classe dirigente degna di questo nome, esse si sono scontrate per la difesa di privilegi antichi e nuovi, trasformandosi spesso in vere e propri comitati di affari, ben poco interessati al bene comune. Perché, e come, ciò sia accaduto, da dove nasca questa tendenza e cosa possa arrestarla, è quanto si chiede, con il solito misto di rigore storico e di intelligenza interpretativa, Carlo Galli nel suo I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità (Laterza). Proprio questo è l´angolo di visuale da cui egli guarda alla crisi italiana � non solo quella, recentissima, di tipo economico, ma la crisi politica, sociale, culturale di lungo periodo che rende il nostro Paese in buona parte diverso dalle altre democrazie. Contrariamente ad un´opinione diffusa, essa non nasce dall´allargarsi della distanza tra ceto politico e società civile, ma piuttosto dalla sua cancellazione, che tende a fare dell´una lo specchio deformato dell´altra. E, più precisamente, dalla ricorrente dimissione di responsabilità delle élites che le sottrae al compito, loro proprio, di traghettare la società italiana da un difficile passato ad un futuro ancora indeterminato.
Nel quadro che egli profila l´attenzione per le continuità strutturali che sottendono le svolte storiche � dal cinquantennio postunitario al fascismo, alle "due" repubbliche, fino ad oggi � si coniuga con uno sguardo, altrettanto vigile, sulle differenze che tagliano la storia delle élites, articolandone la fenomenologia in una forma irriducibile ad un percorso lineare. Ciò che caratterizza tale storia è un movimento pendolare che, di volta in volta, riporta a galla un vizio di fondo, mai del tutto smaltito. Ma anche, in determinate occasioni e quasi a tempo scaduto, un guizzo, un colpo di reni inaspettato. Proprio quando l´aggancio con l´Europa sembrava ormai perso, per almeno tre volte � negli anni drammatici che precedono l´Unità, dopo la sconfitta bellica e infine al culmine dell´attuale crisi economica � le élites italiane ritrovano la forza per interrompere una deriva apparentemente senza sbocco, aprendo, pur in maniera sempre precaria ed incerta, una fase nuova.
Ma per non perdere la ricchezza del discorso di Galli, è necessario ripercorrerne a ritroso il filo, sovrapponendo, come fa l´autore, la storia reale delle élites alla percezione che ne hanno gli intellettuali. Come spesso accade, a mostrare maggiore capacità conoscitiva sono i letterati. In un breve torno di anni Leopardi e Manzoni fissano con nitidezza i caratteri regressivi delle classi dirigenti che frenano come un peso morto l´incipiente processo di unificazione. Inefficacia operativa e modestia culturale, particolarismo miope ed assenza di prospettiva, apatia e cinismo formano la miscela fangosa che risale le vene delle élites italiane. A mancare, prima ancora che un disegno chiaro di riscatto nazionale, è la capacità di unificare il Paese in un progetto condiviso che tenga insieme interessi individuali e valori generali. Neanche la raggiunta Unità, dovuta allo sforzo eroico di una élite illuminata, riesce a fluidificare il rapporto tra il nuovo ceto di governo nazionale e il notabilato locale. Un che di gretto e di chiuso � uno spirito conservatore che tende a riproporre vecchi stili di vita e di pensiero � soffoca, poco alla volta, le conquiste degli anni gloriosi, trascinando indietro l´Italia unita, come traspare dalle pagine dei Viceré di De Roberto e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Quando, all´inizio del nuovo secolo, gli intellettuali si candidano, in modo velleitario e verboso, ad assumere essi stessi un ruolo politico, si crea quel cortocircuito tra retorica e degrado morale che consegnerà l´Italia al fascismo. Allora una frenesia interventista � interpretata soprattutto da D´Annunzio � non sarà che l´altro lato della tradizionale riluttanza dei �colti´ a farsi classe dirigente di un Paese moderno.
Perché le élites italiane � analizzate nelle loro costanti da scienziati politici come Mosca, Pareto, Michels, e da Gramsci con un più complesso metodo storico-dialettico � tornino a giocare un ruolo positivo, bisogna arrivare al dopoguerra, quando, nell´emergenza della sconfitta, cominciano a collaborare a vario titolo alla ricostruzione del Paese. Dai padri costituenti agli industriali che avviano la ripresa economica, a intellettuali, artisti, registi di livello non solo nazionale, la Prima Repubblica, con tutti suoi limiti, raggiunge il doppio risultato di restituire dignità alla politica e di includere nuovi ceti nelle maglie dello Stato democratico. Certo, tutto ciò non fu esente da compromessi, chiusure, esclusioni � prima tra tutte quella, obbligata da circostanze internazionali, del Pci. Ma le luci bilanciano nel complesso le ombre. Fino a quando, tuttavia � a partire dagli anni Ottanta � la società italiana conosce un nuovo, rapido, declino che, dall´assassinio di Moro, porta prima al decennio craxiano e poi, attraverso lo psicodramma di Tangentopoli, alla spericolata avventura del Cavaliere.
Senza soffermarci su questa dinamica involutiva, si può dire che mai come nel ventennio berlusconiano la funzione delle élites venga pervicacemente mortificata dalla concentrazione dell´intero potere politico, economico, mediatico nelle mani di un unico uomo capace di giocare insieme diverse parti in commedia: quella, dannunziana dell´eroe, quella carismatica del grande comunicatore e quella, infine, dell´uomo comune, portatore di vizi e di virtù, entrambe offerte come modello a cittadini increduli e insieme abbagliati da una sconcertante assenza di responsabilità pubblica e, spesso, di decoro personale. Mai come in questa fase recente, le élites italiane � giudici, professori, scienziati � appaiono inutili, emarginate, derise, se non si prestano ad essere asservite. Il tutto in un passaggio storico che tende a generalizzare sul piano mondiale la sudditanza della politica a forze anonime, soprattutto di tipo finanziario, che finiscono per spezzare il rapporto tra decisioni macroeconomiche e democrazia rappresentativa.
Proprio allora, tuttavia, ancora una volta, quando tutto sembra crollare portandoci vicino al punto di non ritorno, il collasso pilotato del berlusconismo sembra offrire un´ultima chance a un "governo dei migliori", formato da quelle stesse élites � professori, banchieri, alti burocrati, esponenti del mondo cattolico � apparentemente messe fuori gioco. Su quale possa essere la durata, e l´esito, di questo esperimento, l´autore giustamente non si pronuncia. Certo, il rapporto tra politica, tecnica ed economia è ben più complesso di quanto analisi approssimative lascino pensare. Resta, comunque, una domanda di fondo: se questa nuova élite è espressione di quelle stesse potenze anonime dell´economia e della finanza � grandi banche, holding internazionali, agenzie di rating � che hanno in larga misura prodotto la crisi, sarà in grado di portarcene fuori? Qui forse la stessa analisi delle élites � utilissima per uno sguardo dall´altro del società italiana � andrebbe accompagnata da un´analisi dal basso, espressiva di quella lacerazione sociale e di quella disperazione materiale che trattiene il nostro Paese sulla cresta di un drammatico crinale.

il Fatto 18.5.12
Faceboom. È nata una bolla?
Oggi debutta a Wall Street il titolo del social network, il prezzo valuta l’azienda oltre 25 volte i suoi ricavi. Sembra di rivivere l’euforia (e la follia) della new economy degli anni 90. Oppure un genio ventottenne sta compiendo un miracolo duraturo?
di Giorgio Meletti


I numeri sono pazzeschi e senza precedenti. Viene quotata in Borsa Face-book, l'azienda che ha inventato il social network dal successo travolgente. È nata nel 2004, adesso ha circa 900 milioni di utenti, ma due anni fa non arrivava a 500 milioni. L'accelerazione potrebbe sembrare impressionante. E ciò che desta sorpresa e ammirazione è la figura del padrone di Facebook, Mark Zuckerberg, un giovanotto che ha compiuto 28 anni il 14 maggio: quando è nato, Bill Gates e Steve Jobs erano già miliardari.
Cinque volte il valore di Telecom
Zuckerberg, che si presenta alle conferenze con gli analisti finanziari in felpa, sta lanciando la più grande Ipo (Initial public offering) di sempre riguardante un'azienda del web. Il prezzo di collocamento delle azioni è salito di giorno in giorno, prima il massimo era 35 dollari, alla fine 38 dollari per azione. L’azienda della Silicon Valley vende azioni per 18 miliardi di dollari, equivalenti a una valutazione totale della società superiore ai 100 miliardi di dollari. Per avere un'idea delle proporzioni, 100 miliardi di dollari è cinque volte il valore di Borsa di Telecom Italia, o se preferite la somma del valore di due giganti del listino italiano, Eni e Intesa Sanpaolo. Ma Telecom Italia ha un giro d'affari attorno ai 30 miliardi di euro, Face-book nel 2012 arriverà attorno a un decimo di quella cifra. Il che significa che se Telecom Italia vale metà del suo fatturato, Facebook viene valutata fino a 25 volte i suoi ricavi.
I multipli sono l'alfa e l'omega della finanza, ma adesso vedremo che stavolta è diverso, Zuckerberg sembra farsi beffe della religione dei multipli, e i mercati più che mai si prostrano in adorazione della sua felpa. La bolla Internet di fine anni Novanta, in confronto a quello che vediamo in questi giorni, fa sorridere. Andiamo a rivedere le cifre. Il grande botto del secolo scorso fu la quotazione di Netscape, la società di Marc Andreessen, allora ventiquattrenne inventore del primo browser per navigare in Internet: prima fece Mosaic, poi Netscape. La società fu collocata al pubblico il 9 agosto 1995 al prezzo di 28 euro per azioni. Alla fine del primo giorno di quotazione il prezzo era già arrivato a 58 dollari e il valore della società a 3 miliardi di dollari, circa 100 volte il fatturato. La bolla era fondata sulla certezza di futuri profitti. A partire dal 1997, quando la febbre di Internet raggiunse il parossismo, furono quotate al Nasdaq, il mercato delle aziende tecnologiche, 367 internet company. Alla fine del 2000 solo 55 di queste valevano in Borsa più del prezzo di collocamento, mentre la gran parte si erano dissolte, compresa la mitica Pet.com   che doveva fare i soldi vendendo online cibi per cani e gatti. Quando scoppiò la bolla, Yahoo!, che era arrivata a valere 240 dollari per azione, precipitò in pochi mesi a 11 dollari. Amazon crollò da 105 a 8 dollari. Molto è cambiato da allora. Si parlava di new economy e intanto i soldi si facevano con la old economy. A fine 2000, mentre scoppiava la bolla internet, Telecom Italia valeva 75 miliardi di euro, cinque volte il valore di oggi.
Modello Google
Adesso le Internet company sono realtà solide e concrete. Amazon, dopo il bagno di cui sopra, è risalita in modo costante. Oggi vale in Borsa 102 miliardi di dollari; Yahoo!, nonostante un inesorabile declino, è quotata 18 miliardi di dollari, più di molte società della old economy. Durante i dieci anni che sono passati dall'attentato alle Torri Gemelle, che sancì emotivamente la fine dell'infanzia della new economy, c'è stata la quotazione di Google. Nel 2004 il motore di ricerca è stato collocato in Borsa con un valore di 23 miliardi di dollari, un ordine di grandezza superiore all'epopea di solo 5-6 anni prima. Oggi Google vale 200 miliardi di dollari, mentre la Microsoft di Bill Gates, vecchia corazzata dell'informatica, vale 261 miliardi, e la Ibm ne vale 231. E lì, Google, nel gruppo dei grandissimi. Solo che di Google abbiamo capito tutti il segreto. Quel motore di ricerca, grazie alla sua efficienza, presiede alla navigazione su Internet, tutto passa da lì. Il fatturato pubblicitario corre, i profitti anche. Ecco il multiplo decisivo, il price/earning, cioè il rapporto tra prezzo e utili, in sigla p/e. Il p/e di Google è 19, lo stesso della Apple orfana di Steve Jobs, che pure in Borsa vale oltre 500 miliardi di dollari. La Ibm ha un p/e 15, la Microsoft ha 11. Siamo lì. Invece Facebook, se solo la sua azione si fermasse in Borsa alla moderata quotazione di 38 euro per azione, avrebbe un p/e superiore a 100. E qui si ripropongono molti interrogativi vecchio stile, come quelli degli anni 90.
I dubbi degli analisti
Molte voci di analisti sconsigliano di comprare a questi prezzi le azioni di Facebook. Che è oggi un'azienda molto redditizia: su 4 miliardi di fatturato fa un miliardo di utili. La redditività è molto alta, e con le dimensioni dell'azienda è destinata inesorabilmente a ridursi. Quindi, per fare i profitti che un prezzo di 38 euro per azione presuppone, Facebook deve far crescere in modo esponenziale il proprio fatturato nei prossimi anni. Un'analisi della Bernstein Research è arrivata alla conclusione che Zuckerberg, per mantenere le promesse, deve più che decuplicare il fatturato nei prossimi dieci anni e superare i tre miliardi di utenti. Possibile? Ci credono in pochi. Un piccolo esercito di blogger, analisti togati, riviste specializzate e finanzieri autorevoli, consigliano di tenersi alla larga dalle azioni Facebook. Le sconsiglia Barron's, bibbia finanziaria per palati finissimi, mentre Warren Buffett, detto il mago di Omaha, semplicemente l'uomo più ricco del mondo, ha fatto sapere che lui non compra azioni Facebook perché non sa come valutarle, e quindi ha preferito staccare un assegno da 10 miliardi di dollari per comprare azioni Ibm per il suo fondo Berkshire Hathaway.
La missione di Zuckerberg
E qui scatta la magia, o se preferite la follia, del tempo presente. Mentre analisti e finanzieri in ogni angolo del pianeta fondevano i loro computer per calcolare la redditività prevedibile delle azioni Facebook, Zuckerberg ha scritto una lettera agli investitori per avvertirli che la sua società non è nata per fare i soldi, ma per compiere una “missione sociale” (testuale) e “rendere il mondo più aperto e connesso”. L'obiettivo di Facebook è “un mondo migliore, dove la gente con più informazioni può prendere decisioni migliori”. Quelli calcolano la redditività futura, e lui avverte che l'unica sua preoccupazione (come capo azienda e azionista di inattaccabile maggioranza anche dopo la quotazione) è di aiutare il mondo a diventare migliore. Ma la cosa più sorprendente è che il mercato accoglie con giubilo il proclama di Zuckerberg, e il prezzo di collocamento delle azioni non fa una piega. Siccome non c'è molta gente desiderosa di buttare i propri soldi, l'unica spiegazione è che i mercati cominciano a imparare che dare alla propria impresa un'etica, forse, è il modo più furbo per inseguire il profitto.

il Fatto 18.5.12
Il rischio dell’amicizia
Banche e soci, ecco chi ci guadagnerà di sicuro
di Giovanna Lantini


Milano. Facebook o non Facebook. Questo il dilemma degli investitori, per lo più grandi banche, che guardano al collocamento a Wall Street del social network di Mark Zuckerberg. La domanda dei titoli non è certo mancata, al punto da far chiudere l'offerta in anticipo e far alzare la forchetta di prezzo a 34-38 dollari per azione dalla precedente di 28-35 dollari, portando la valutazione massima di Facebook a 104,2 miliardi di dollari.
UNA CIFRA stratosferica su cui le banche che si occupano del collocamento faranno grassi introiti. “I banchieri stanno facendo tutto il possibile per assicurare il buon esito dell'offerta – ha sintetizzato a Bloomberg News il responsabile degli investimenti di Palisade Capital Management, Dan Veru – Se l'operazione non andrà a buon fine sarà un pessimo segnale non solo per Facebook, ma anche per l'intero mercato”. Di sicuro alle attuali condizioni chi non si potrà lamentare sarà senz'altro Zuckerberg, che con la vendita di 30,2 milioni di titoli prima dello sbarco a Wall Street si prepara a incassare oltre 1 miliardo di dollari. E non è il solo: quasi metà del ricavato dell'offerta andrà nelle tasche degli attuali soci di Facebook e non nelle casse dell'azienda. Ma non è questo il principale cono d'ombra sul fondatore del social network del quale gli scettici sottolineano la giovane età in rapporto al potere assoluto che continuerà ad avere sull'azienda. Tuttavia Zuckerberg non sarebbe né il primo né l'ultimo enfant prodige della tecnologia. Più strutturale l'obiezione sollevata dall'analista di Bernstein, Carlos Kirjner, che si chiede come farà Zuckerberg a conciliare “la necessità di creare valore per gli azionisti con la missione della società di rendere il mondo più aperto e connesso”. Più nel dettaglio, Kirjner vorrebbe sapere “che criteri utilizzerà per definire le priorità del business, approvare i progetti d'investimento e distribuire le risorse”. E, in generale, se Facebook possa davvero creare anche un social network pubblicitario rispettando la privacy dei suoi 900 milioni di utenti. Già, la pubblicità. Il cavallo di battaglia degli scettici è proprio qui: i conti del trimestre 2012 di Facebook hanno sì evidenziato una crescita annua dei ricavi pubblicitari del 36%, ma il confronto con il dato degli ultimi tre mesi del 2011 è di un calo dell'8 per cento che la società ha motivato in modo poco convincente con la stagionalità.
NON AIUTA a sciogliere la diffidenza il fatto che martedì sia venuto fuori che un colosso come General Motors abbia deciso di interrompere gli investimenti pubblicitari sul social network. Il punto non sta nella cifra in gioco, circa 10 milioni di dollari, cioè una piccola parte del fatturato di Facebook (1,06 miliardi nel primo trimestre), ma nelle motivazioni di Gm che ha rilevato uno scarso impatto sull'utenza. D'altro canto c'è chi, come l'analista di Sterne Agee, Arvind Bhatia, tenendo presenti le sottovalutazioni del passato ha già raccomandato ai suoi clienti di comprare il titolo con un prezzo obiettivo di 45 dollari al grido di: “Crediamo che Face-book stia rivoluzionando il mercato pubblicitario mondiale proprio come ha fatto Google meno di un decennio fa”. Quanto al breve termine, cioè all'andamento del debutto in Borsa di domani, c'è chi come IG Markets, è pronto a scommettere addirittura su un balzo del 15 per cento sottolineando “l'incredibile successo” riscosso dal prodotto sui mercati secondari. Questo forse anche in virtù delle fortissime limitazioni all'acquisto del titolo in fase di sottoscrizione, che è stata riservata alle grandi banche e solo ai piccoli investitori americani che hanno superato dei complicati test sulla capacità di comprensione dell'investimento, incrociati con un'analisi delle loro disponibilità finanziarie. Mentre fuori dall'arena, secondo i media americani, i normali fan di Facebook di tutte le età sarebbero in preda alla febbre della Borsa, pronti a comprare le azioni non appena sul mercato e a dare così il secondo fondamentale contributo alla ricchezza di Zuckerberg.