sabato 2 febbraio 2013

l’Unità 2.2.13
La sfida dei cattolici a sinistra
di Claudio Sardo


È RIMASTO DELUSO CHI SPERAVA CHE L’INCORAGGIAMENTO dei vertici ecclesiali a Mario Monti si trasformasse in un imprimatur alla sua lista, in un nuovo «partito dei cattolici». Come erano rimasti delusi coloro che invocavano un investimento della Chiesa sul centrodestra post-berlusconiano, magari per renderlo più simile ai teocon americani che alla Cdu tedesca. Il pluralismo delle opzioni politiche dei credenti è ormai una realtà. È lo scenario della sfida che hanno di fronte la Chiesa nella sua missione e i laici cattolici nella loro vita di cittadini. Peraltro i sondaggi segnalano che oggi è il Pd il partito più votato dai cattolici praticanti: e questo oltre ad essere uno stimolo per rafforzare l’identità di partito di «credenti e non credenti» e per sviluppare ancor più la ricerca di un «umanesimo condiviso» dimostra l’originalità italiana, dove il personalismo e il solidarismo cristiano sono stati, e sono tuttora, alimento fondamentale della cultura della sinistra.
Altro che «bipolarismo etico»! Se è vero che l’onda montante individualistico-radicale rischia di occupare tutti gli spazi della secolarizzazione, il pluralismo dei credenti può essere una risorsa a disposizione della società.
La recente prolusione del cardinale Angelo Bagnasco al consiglio permanente della Cei esprime una forte consapevolezza di questa realtà. E anche una coscienza del ruolo nazionale della Chiesa, in un tempo in cui la crisi economica sta corrodendo il tessuto connettivo e il senso di comunità, in un tempo in cui la questione sociale indubbiamente si lega con la «questione antropologica», cioè con l’idea di uomo, del suo valore, della sua dignità, della sua vocazione altruistica e comunitaria. Il pluralismo dei cattolici, ha scritto Romano Prodi in un bell’articolo sul Corriere, ripropone il tema evangelico del «lievito»: sapranno essere i cattolici, nelle diverse forze politiche, una fonte di arricchimento civile, culturale, solidale della società italiana? E come? Per alcuni la diaspora politica è il certificato dell’irrilevanza cattolica, anzi dell’insignificanza. Ma l’impressione è che i più critici non sanno cosa cercare. Una nuova Dc? Un ritorno del «sociale» cattolico in chiave anti-statuale? Una presenza politica limitata alla battaglia sui «valori non negoziabili»?
Ci è sembrato di cogliere nell’intervento di Bagnasco una reazione a queste pulsioni, solo in apparenza battagliere, in realtà rinunciatarie. La sfida del pluralismo va affrontata con intelligenza e coraggio, pur in un contesto culturale dove l’apertura al trascendente, il senso di freternità, l’attenzione ai più deboli e alle generazioni future tendono ad essere svalutati. Il pessimismo cosmico dell’invincibile avanzata nichilista può forse essere figlio della ragione di un «ateo devoto», ma non della fede di un cristiano che vede negli uomini anche l’impronta di Dio. La fiducia contiene la fertilità. Anche quando la fiducia è iscritta nell’orizzonte oggi minoritario di una Chiesa che si scontra tante volte con gli interessi del mondo, oltre che con i propri peccati.
Nell’intervento di Bagnasco c’è, appunto, una sfida al pluralismo dei credenti. Non un rifiuto, non un invito a ridurre ad uno la complessità. Una sfida ovviamente difficile per la sinistra, e per i cattolici che militano nel centrosinistra. Ai quali Bagnasco non risparmia sferzate e mostra anche il terreno di possibili scontri futuri, a partire dalla legge sulle unioni civili. Eppure anche se il riconoscimento dei diritti e dei doveri delle coppie gay potrebbe essere destinato a produrre una contrapposizione con l’eventuale governo Bersani la sinistra non può non confrontarsi con gli argomenti del presidente della Cei. Anzitutto con il suo assunto di fondo: nella nostra società è «l’individualismo la madre di tutte le crisi». Se la coscienza di essere individuo è stata negli ultimi due secoli un vettore dell’espansione dei diritti, sociali e civili, oggi la persona rischia di essere stritolata dall’egoismo dei più forti e dalla solitudine sia della sconfitta che del successo. Nella moltitudine c’è l’uomo solo: invece è la comunità che ridà dignità alla persona. Come non vedere il filo robusto che lega il primato della finanza, l’ideologia liberista dominante, la pretesa di autoregolazione delle tecnoscienze, le leggi inviolabili del mercato, il prezzo drammatico della povertà e della diseguaglianza, l’impoverimento dei corpi intermedi (a partire dalla famiglia che è il nucleo primario).
Ma non si possono contrapporre i temi della biopolitica alle emergenze sociali: giustamente il cardinale Bagnasco li ha collocati sullo stesso piano. E non si può dire che sui primi i cattolici sono tenuti a prescrizioni assolute, «non negoziabili», mentre sui secondi la realtà è così complicata da relativizzare ogni risposta politica. A questo proposito, forse, qualcuno pensa di aver trovato la tattica per mettere in fuorigioco i cattolici che scelgono il centrosinistra. I «principi irrinunciabili» (questa la formula usata nel famoso documento del 2002 della Congregazione della dottrina della fede, e non «valori non negoziabili») hanno da sempre costituito per i cattolici i presupposti della loro azione civile, politica, sociale, ma quando sono entrati nelle diverse culture e nei diversi ordinamenti hanno conosciuto inevitabili mediazioni. Non si tratta di cedimenti: e infatti non sarebbe il cristianesimo la radice principale della civiltà europea e occidentale se ciò non fosse accaduto.
Ora si obietta che l’aggressione riguarda l’identità stessa dell’uomo, la sua natura. Ed è per questo che la mediazione va ridotta al minimo. La manipolazione genetica, la svalutazione della vita, la potenziale onnipotenza della scienza, il mercato della cura: tutto ciò richiederebbe una battaglia difensiva, rigorosamente oppositiva. A queste obiezioni, certo, la sinistra non può rispondere tornando a separare la questione sociale dalla questione antropologica, magari con ragioni opposte ai teocon. Non può dire, pena una smentita dell’umanesimo che sta nelle sue radici, che occorre far fronte comune sui temi dell’uguaglianza e della giustizia sociale mentre invece sulla biopolitica si deve procedere in ordine sparso, o peggio rinunciare ad un punto di vista critico che favorisca il progredire della scienza ma al tempo stesso ne colga il limite: tutto ciò esattamente in nome dell’uomo, anzi della persona e della sua libertà.
Insomma, la sfida di tenere insieme uguaglianza, giustizia sociale, moralità, pace e vita non è solo dei cattolici di sinistra, ma di tutta la sinistra. E bisogna dire la verità: l’individualismo è penetrato in ogni schieramento politico, nessuno escluso, trainato dall’egemonia liberista dell’ultimo trentennio. Per questo il contributo maggiore che la cultura cattolica può dare alla sinistra è di tenere alta la guardia nei confronti della vulgata liberista. Tutto il contrario del moderatismo: i cattolici possono aiutare la sinistra ad essere sinistra, più fedele al senso di giustizia, più attenta ai deboli e agli ultimi, sempre pronta a domandarsi cosa serve all’uomo concreto affinché la libertà diventi autentica comunità.
In questa chiave il valore della vita è oggi un prisma con molte facce: la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, la valorizzazione della personalità e della diversità femminile, la lotta alle povertà, alle ingiustizie, alle disuguaglianze, i diritti dei giovani ad avere un futuro, i limiti al potere della finanza e del mercato, la necessaria mitezza del diritto quando affronta i temi sensibili della sofferenza, della malattia, della non-autosufficienza, l’integrità del corpo, il rispetto delle volontà, il primato del diritto del bambino sui desideri degli adulti. Non può esserci separazione per chi guarda la società dal basso e non dall’alto, delle élite o del potere.
Tutto questo è il contrario della conservazione. È la speranza di un cambiamento profondo, quasi di una rivolta contro il conformismo dominante. In questa ricerca di un «umanesimo condiviso» che naturalmente vada oltre il Pd e il centrosinistra e ispiri il lavoro di ricostruzione nazionale abbiamo un punto di riferimento forte, una stella polare. È la Costituzione italiana. Verrebbe da dire, come ha fatto Domenico Rosati su questo giornale, che nella Costituzione ci sono i nostri «principi irrinunciabili». Insieme laici e cristiani, come dice la storia di quelle pagine vitali. Esse hanno il pregio di essere già stati condivisi. Partiamo da lì. La Costituzione ci spinge verso politiche sociali più efficaci a favore delle famiglie in carne e ossa, dopo decenni di colpevole trascuratezza. E al tempo stesso la Costituzione garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali in cui si esprime la sua personalità: per questo il riconoscimento dei rapporti affettivi delle persone omosessuali ha esso stesso un senso umanistico, in quanto affianca ai diritti dei doveri reciproci e dà valore alla stabilizzazione delle relazioni. Non basteranno poche parole a fermare un probabile conflitto, ma in nome dell’uomo si può cercare ancora. Insieme.

l’Unità 2.2.13
Coprì i preti pedofili, punito cardinale Usa
di Marina Mastroluca


Cinque anni fa si era cosparso il capo di cenere, chiedendo pubblicamente scusa per gli abusi dei preti pedofili, definendoli «un terribile peccato e un crimine». Atto necessario, mentre l’arcidiocesi di Los Angeles concordava un risarcimento di 660 milioni di dollari a 508 vittime degli abusi, per chiudere la partita. Giovedì scorso, con una decisione senza precedenti nella Chiesa Cattolica americana, il cardinale Roger Mahony, benché in pensione, è stato sollevato da ogni incarico pubblico dal suo successore, l’arcivescovo di Los Angeles, José Gomez. Un modo per segnare le distanze da un capitolo buio, costato caro alla Chiesa cattolica statunitense sia sul piano morale che finanziario, nel giorno in cui, dopo una lunga battaglia legale, l’arcidiocesi ha finalmente reso pubbliche le carte sugli anni in cui Mahony e il suo braccio destro il vescovo di Santa Barbara, Thomas Curry fecero di tutto per soffocare lo scandalo: 12.000 pagine che mettono direttamente in causa il ruolo della Chiesa di Los Angeles nel tentare di evitare che gli abusi sessuali commessi da 122 preti finissero in un’aula di tribunale.
«Il comportamento descritto in quei documenti è terribilmente odioso e diabolico. Non ci sono scuse per quel che accadde a questi bambini. I sacerdoti coinvolti avevano il dovere di essere i loro padri spirituali e fallirono. Oggi dobbiamo riconoscere quel terribile errore», ha sottolineato l’arcivescovo Gomez.
Mahony restò alla guida dell’arcidiocesi di Los Angeles dal 1985 al 2011. Insieme a Thomas Curry che in queste ore si è dimesso era riuscito a insabbiare le denunce delle vittime, in alcuni casi facendo allontanare dalla California i preti coinvolti per evitare che venissero perseguiti penalmente. Entrambi i prelati avevano anche cercato di allontanare i preti da un Centro di cura per la pedofilia, per evitare che rivelassero i loro comportamenti a terapisti privati, costretti a riferire alla polizia. Dai documenti pubblicati emerge anche il caso di un prete ispanico, accusato di aver abusato a lungo di un ragazzo, e spedito da Mahony in Spagna con l’obbligo di non ritornare senza il suo espresso consenso.
DIECIMILA VITTIME
A dispetto di tutti i tentativi di insabbiamento, lo scandalo alla fine esplose comunque, tante le persone coinvolte. Nella sola California, tra il 2002 e il 2007 sono state infatti un migliaio le denunce di abusi. Nel 2004, un rapporto commissionato dalla Chiesa cattolica sosteneva che i preti coinvolti in vicende di pedofilia nei precedenti 50 anni erano stati ben 4000 e 10.000 le persone abusate, soprattutto ragazzi: solo per i risarcimenti sono stati sborsati due miliardi di dollari.
Quando dunque esplose la bolla, mostrando l’universo di dolore che aveva schiacciato tanti fedeli abusati, la pubblica ammenda di Mahony non sembrò solo tardiva ma anche «in malafede e vuota», estorta dalle circostanze per evitare il male peggiore di vedere l’arcivescovo in tribunale. E anche oggi il suo esonero non basta a lenire le sofferenze di anni di silenzio. «Dovevano allontanarlo o punirlo quando era al potere e ne abusava così orribilmente ha detto una delle vittime, David Clohessy, del Survivors Network of Those Abused by Priests -. Ma non un singolo chierico ha avuto il coraggio di denunciarlo. Che si vergognino»

il Fatto 2.2.13
L’“orco” apocalittico e il bambino ostaggio
di Angela Vitaliano


UN FANATICO DELLA SETTA SURVIVALISTA USA CHIUSO DA 4 GIORNI IN UN BUNKER CON ETHAN, DI 5 ANNI, IN ALABAMA

New York Hanno sentito Ethan piangere e chiamare il nome di sua madre. Dopo quattro giorni di “reclusione” questa sembra addirittura essere una buona notizia perché significa che il piccolo è ancora vivo e per lui ci sono ancora speranze. Quattro giorni fa, Ethan, con altri 21 bambini, tutti più o meno della sua età, era nel pulmino che lo avrebbe portato a scuola come sempre. Jimmy Lee Dykes, però, 65enne veterano del Vietnam ed ex camionista, di Midland City, in Alabama, per ragioni ancora non chiare, rapì il piccolo Ethan, sparando all'autista dello scuolabus che cercava di proteggere i piccoli. Come in un film dell'orrore, l'uomo scomparve, come risucchiato dalla terra, giusto il tempo necessario affinché la polizia, grazie anche alla collaborazione dei suoi vicini di casa, trovasse quel bunker scavato sotto terra, rifugio perfetto dai tornado: autonomo, dotato di corrente elettrica e di scorte di cibo, può consentire la sopravvivenza per giorni.
E QUESTO è proprio il timore dello sceriffo e degli agenti che, da giorni, con pazienza, stanno portando avanti le trattative con Dykes per assicurarsi che il piccolo Ethan venga liberato sano e salvo. Secondo gli inquirenti il bunker, situato a un metro sottoterra, largo un metro e ottanta e lungo due metri, è dotato persino di tv e lo stesso rapitore avrebbe detto agli uomini impegnati nelle trattative, di aver già trascorso lunghi periodi lì sotto. Questo, sfortunatamente, fa temere che l'epilogo della vicenda possa essere meno veloce di quanto auspicato, soprattutto viste le condizioni del bambino, affetto dalla sindrome di Asperger e da deficit di attenzione. Dykes ha, tuttavia, acconsentito che, attraverso il tubo che consente i contatti con l'esterno, gli venissero fatti arrivare dei medicinali e fogli di carta e colori per provare a far giocare Ethan. Jimmy Lee Dykes, purtroppo, non è uno “sconosciuto”: il suo atteggiamento violento e minaccioso è stato spesso all'origine di discussioni e liti con i vicini. In passato, Dykes, veemente oppositore del governo, da Obama a seguire, ha ucciso un cane usando un tubo di metallo e ha minacciato i bambini del vicinato per aver osato mettere piede nella sua proprietà. È plausibile, dunque, credere che ora stia trattenendo il piccolo Ethan solo per evitare l'arresto da parte della polizia e provare ad ottenere una via di fuga sicura. L'uomo, poi, in una sinistra connessione con la strage di Newtown in Connecticut, fa parte di una setta di “survivalisti”, la stessa alla quale apparteneva Nancy, la madre di Adam Lanza, il killer della scuola di Sandy Hook. Gli appartenenti alla setta sono convinti che gli Usa siano prossimi all’apocalisse, tenuta nascosta dai politici di Washington, probabilmente un attacco nucleare, che porterà alla fine della civiltà. Da quello, il desiderio di costruire un bunker per potersi garantire la sopravvivenza. In tutto il paese ci sono almeno 1274 gruppi di persone che credono nell'apocalisse, con un trend in perenne crescita dal 2008, quando erano solo 14. Gli studiosi confermano che l'arrivo di Obama alla Casa Bianca ha conciso con l'allargamento a macchia d'olio del fenomeno.

La Stampa 2.2.13
Il sondaggio Swg: cala il Pd
Crescono Monti, Pdl e Grillo

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La Stampa 2.2.13
La svolta di gennaio Il mese che ha cambiato gli equilibri politici
Sondaggi concordi: Bersani sempre davanti ma in calo
di Fabio Martini


L’ Italia elettorale che c’era prima di Natale non c’è più, è bastato un mese per cambiare tutto. O quasi. Per tutti i principali istituti di sondaggio, le prime quattro settimane di campagna elettorale hanno cambiato sensibilmente lo scenario che, sino ai primi giorni del 2013, sembrava consolidato: vittoria a mani basse del centro sinistra in entrambe le Camere. E invece, quando mancano 21 giorni alla chiusura delle ostilità, tutti gli istituti quotano ancora (e nettamente) il Pd come il primo partito e concordano nell’assegnare il primato dai voti alla coalizione guidata da Pier Luigi Bersani, accreditata di un vantaggio sostanzialmente incolmabile alla Camera: il distacco medio resta di 7 punti. Ma la coalizione incardinata su Silvio Berlusconi, pur accreditata di una rimonta evidente ma non travolgente, sta riconquistando il primato in alcune delle Regioni più ricche di seggi senatoriali (Lombardia, Veneto, Sicilia), mettendo in forse la possibilità del centrosinistra di poter contare su una solida maggioranza anche a Palazzo Madama. Ma la rimonta del centrodestra - ecco il punto - contiene un paradosso, confermato da tutti i sondaggi: erodendo la maggioranza del centrosinistra al Senato, Berlusconi finisce per restituire un ruolo determinante alla coalizione di Centro, guidata da Mario Monti. Una coalizione che, per il momento, non è decollata nelle intenzioni di voto (oscilla a seconda degli istituti tra il 14,1% e il 15,4%), ma oramai sembra stabilizzata su una quota che dovrebbe garantirgli la conquista di 20-30 senatori, il numero «giusto» per proporsi come ago della bilancia.
I sondaggisti, pur con qualche differenza, concordano anche nell’analisi di ciò che si muove dentro le coalizioni e ai loro margini: la Lega (tra chi la dà in calo e chi in crescita) è comunque riuscita a tamponare l’emorragia alla quale sembrava condannata dopo la raffica di scandali che l’hanno coinvolta, mentre a sinistra è evidente una crescente concorrenza elettorale tra Rivoluzione civile dell’ex pm Antonio Ingroia e Sel di Nichi Vendola. Gli istituti invece concordano senza eccezioni nel rilevare il boom elettorale di Beppe Grillo: nella seconda metà del mese di gennaio il Cinque Stelle è in costante ascesa, secondo l’Swg l’incremento finora è stato del 2,4%.
Pd e Sel Prima della «salita in politica» di Mario Monti (23 dicembre) e prima della ri-discesa in campo di Silvio Berlusconi (fine dicembre) Pd e Sel vantavano percentuali mai viste nella loro storia e un solido margine di vantaggio sul centrodestra. Un distacco confermato nel primo sondaggio fatto da tutti gli istituti nella prima settimana dell’anno: per Ipsos il 7 gennaio il Pd era al 33,3%, una percentuale totalmente condivisa da Euromedia della signora Ghisleri, cara a Berlusconi, in gran parte da Tecné (34,7%) e da Emg (32,4%), mentre la più prudente di tutti era Swg che in quelle ore assegnava al Pd il 29,8%, che però sommato al 4,4% di Sel proiettava il centrosinistra ad un tranquillizzante 34,2%, il 10% in più del fronte di centrodestra. Un mese dopo, il primato Pd resiste ma è indebolito: per Swg il calo è stato dell’1,8%, per Euromedia del 3,9%, per Tecné il Pd ha perso il 4,8%. Per Sel, che ai primi del mese partiva da percentuali attorno al 4%, il calo è uniforme e in alcuni casi drastico (per Tecné -1,8% in 27 giorni, per Ipsos -1%, per Swg -0.4%)
Pdl e Lega Ai primi di gennaio, con Silvio Berlusconi appena rientrato in campo, il centrodestra era ai minimi storici: per Euromedia Pdl (20,5%) e Lega (5,7%) ancoravano la coalizione ad una percentuale senza speranza (30,7%), di quasi 15 punti inferiore a quella del 2008 e stime ancora più severe erano assegnate da Ipsos, Emg, Tecné, Swg. In poco meno di un mese, il centrodestra è lievitato per tutti gli istituti: per Euromedia il Pdl è al 22,2%, per Emg al 20%, per Ipsos al 18,2% (più 2,1% in un mese), per Swg al 19,3% (più 3,6%).
Area Monti Al suo primo apparire, ai primi di gennaio, quasi tutti gli istituti avevano attribuito percentuali gratificanti per una formazione nuova di zecca, dall’8,8% di Swg fino al 10,9% di Ipsos. Ma superata la novità, per la Lista è iniziato uno stallo tendente al calo, rilevato da quasi tutti i sondaggisti, che via via evidenziavano un altro dato: la progressiva «cannibalizzazione» della Lista Monti ai danni dei suoi alleati, Udc e Fli. Ieri, Swg ha rilevato una brusca inversione di tendenza, attribuendo a «Scelta civica» un aumento dell’1,9% in una settimana, un incremento considerato molto rilevante dagli specialisti. L’unico istituto che finora ha dato in costante incremento la Lista Monti è la «berlusconiana» Euromedia.

Corriere 2.2.13
il distacco tra i due maggiori schieramenti è del 5 per cento
A sorpresa Grillo terzo nei sondaggi
E «ruba» piazza S. Giovanni al Pd per la chiusura
di M. Antonietta Calabrò

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l’Unità 2.2.13
Ustica e il segreto di Stato
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Trentadue anni dopo la Cassazione emette una sentenza sul caso Ustica. Ora che abbiamo una sentenza definitiva aspettiamo i responsabili. Si levi il segreto di Stato e si faccia chiarezza, non si ridarà la vita ai morti e non verrà lenita la sofferenza dei loro cari, ma almeno si aiuterà questo Paese a fare un passo verso la verità che è dovuta e la civiltà che ancora è, purtroppo, mutilata. VANNI DESTRO
Ha ancora un senso, nel mondo di oggi, un concetto come quello di «segreto di Stato»? È davvero sostenibile, di fronte a un’opinione pubblica accorta e sempre più rapidamente informata di tutto o di quasi tutto, l’idea per cui a distanza di 32 anni non è stato possibile avere da un Paese vicino e amico come la Francia notizie certe sulle operazione aeree collegate, secondo alcuni, al disastro di Ustica? È un criminale informatico o un utile operatore dell’informazione Assange che offre alla riflessione di tutti notizie che dovevano restare top secret per motivi spesso più top secret delle notizie stesse? Il fatto che le operazioni condotte dai vertici militari in nome e per conto del loro Paese debbano rientrare nel segreto di Stato è compatibile con la realizzazione di una democrazia compiuta? Quelle di cui si parla nelle indagini sulla strage di Ustica sono storie relative ai Mig libici dopo che tutto è così cambiato, da noi, in Libia e nel resto del mondo da rendere davvero inverosimile l’idea di una secretazione delle notizie utile alla tutela di una nazione. Francese o italiana. Il mondo va avanti, i tempi cambiano, democrazia è sempre di più essere tutti informati di tutto quello che succede. Se non si vuole davvero che la politica sia percepita sempre di più lontana e ostile dai cittadini. Quelli che votano lo stesso e quelli che non votano più perché sentono o pensano di non contare abbastanza.

il Fatto 2.2.13
Causa elezioni, no del Maxxi
Giovanna Melandri censura Bill Emmott: “Ordine del ministero”, che smentisce
Il Maxxi censura Bill Emmott
di Andrea Valdanbrini


Il tweet arriva nel tardo pomeriggio di ieri e fa esplodere le reazioni indignate dei followers. Bill Emmott, giornalista britannico già alla guida dell’Economist per 13 anni, ora autore con la filmaker Annalisa Piras del documentario sull’Italia Girlfriend in a Coma, scandisce in inglese dal suo account Twitter: “INCREDIBiLE! Il MAXXI di Roma, su ordine del Ministero della Cultura, ha annullato la prima il 13 febbraio. CENSURA. STUPI-DITA”. Suoi i maiuscoli e l’enfasi nella denuncia di un atto che invece, secondo i responsabili del museo, si inquadra nell’ambito della tregua elettorale. “É un Paese senza speranza quello che ha paura di vedersi raccontato”, commenta secca Giorgia su Twitter. “Un insulto alla libertà di espressione”, gli fa eco Paolo indignato. E Jennifer incalza: “Una censura per motivi elettorali… da repubblica delle banane”.
Nel film, che annovera tra gli intervistati anche Marco Travaglio, Emmott e Piras hanno raccontato il lato oscuro del declino politico, economico e sociale dell’Italia, descritto come il “prodotto di un collasso morale senza eguali in Occidente”. Molti followers ricordando anche come nelle capitali d’Europa il film si è già visto.
“FERREE DISPOSIZIONI” del Ministero delle Attività Culturali a cui il Museo romano fa riferimento hanno imposto di posticipare l’anteprima romana in data da definirsi, ma comunque dopo le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio. Lo ha comunicato lo stesso Emmott, che in una nota ha poi aggiunto il comunicato ufficiale ricevuto dal Maxxi. Vi si legge testualmente: “Ci troviamo costretti a dover rinviare la disponibilità concessavi dell’Auditorium Maxxi per la sera del 13 Febbraio p. v. Disposizioni della Presidente della Fondazione, che si fanno interpreti delle indicazioni assai rigorose dateci dal Mibac - socio unico della Fondazione ed Autorità Vigilante sul nostro operato - non ci consentono di ospitare nello spazio del museo qualunque iniziativa che possa essere letta secondo connotazioni politiche, nell'imminenza della competizione elettorale”. In tarda serata arriva il comunicato del Mibac, che smentisce seccamente: “Il Ministero non ha dato disposizioni in merito alla proiezione…”, anche perché “il Maxxi è una fondazione di diritto privato le cui decisioni sono assunte dagli organi competenti”. Da parte sua, la presidente della fondazione Giovanna Melandri insiste: “Mi dispiace per Emmott e per le proteste, ma non cambio idea: ho detto no all’anteprima perché sono convinta che sia mio dovere tenere fuori la campagna elettorale dal Maxxi, che è un museo pubblico. ”
E l’interessato che dice? “Sono semplicemente schoccato”, spiega raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano. “Schoccato dal fatto che un governo tecnico possa prendere tale decisione. Sono sicuro che una cosa del genere non sarebbe mai successa in Gran Bretagna, in Francia o negli Usa”. E aggiunge: “Si tratta di un grande errore per un istituto culturale indipendente. E per di più commesso nei confronti di un giornalista straniero”. Chiediamo a Emmott se mai si sarebbe aspettato una mossa di questo tipo da un governo presieduto dall’‘europeista Mario Monti. Ci risponde senza esitazione: “Sono cose che mi aspetto piuttosto da Berlusconi”.

La Stampa 2.2.13
Slitta la prima del film di Bill Emmott
Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, è opinionista de La Stampa. Ha girato il film “Girlfriend in a Coma”
La presa di posizione del Maxxi: «Va posticipata a dopo le elezioni»
L’opinionista de La Stampa attonito: «Il declino al punto di non ritorno»
E scrive una mail al premier Monti

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La Stampa 2.2.13
Il mio film censurato dal Maxxi
Abbiamo solo raccontato l’Italia, alla Tate non sarebbe mai successo
di Bill Emmott


Beh, non mi sarei sorpreso se fosse stato un governo guidato da Silvio Berlusconi a impedirmi di tenere la mia anteprima italiana al museo d’arte MAXXI. Sarebbe stato normale, dopo che mi ha citato in giudizio due volte per diffamazione. Ma mi lascia letteralmente sbalordito che la prima, prevista a Roma il 13 febbraio, del mio documentario sull’Italia, «Girlfriend in a Coma», sia stata cancellata dalla Fondazione MAXXI dopo una consultazione con il ministero dei Beni Culturali. La prima avrebbe dovuto essere un evento riservato agli ospiti invitati. Ed era stato previsto che questi includessero i leader di tutti i partiti politici, così come gli uomini d’affari al vertice, i giornalisti, gli ambasciatori, i personaggi intervistati dal film: potete immaginare il tipo di persone.
Sarebbe stato ospitato da Terravision, la compagnia di autobus aeroportuali che è stata registrata in Gran Bretagna a causa delle difficoltà di gestire un’impresa in Italia. Terravision aveva anche ospitato un lancio del mio libro «Forza, Italia» a Roma nel novembre 2010.
Così mi ritrovo a chiedermi: sarebbe potuto accadere in qualsiasi altra democrazia occidentale? La motivazione fornita dal MAXXI è che, essendo una fondazione privata che gestisce un museo sotto il controllo del ministero della Cultura, non ha il permesso di ospitare eventi che potrebbero essere considerati «politici», data l’imminenza delle elezioni.
Il punto davvero più curioso è che nessuno al MAXXI ha effettivamente visto il nostro film, e nemmeno chiesto di vederlo. Ma comunque, questo sarebbe successo al British Museum o all’equivalente del MAXXI per l’arte contemporanea a Londra, diciamo la Tate Modern o l’Istituto d’Arte Contemporanea (dove in realtà abbiamo debuttato nel Regno Unito a novembre)? La risposta è no, certo che no.
Se un giornalista italiano, anche lavorando con un regista inglese, avesse fatto un film sulla Gran Bretagna (Che so, un «Boyfriend in a Coma») e avesse prenotato un cinema in uno di quei musei per proiettare il film un paio di settimane prima delle elezioni britanniche, nessuno si sarebbe dato pena. Nessun ministero sarebbe intervenuto. Nessuna fondazione privata si sarebbe preoccupata per la «politicità» del film. Al contrario: avrebbero apprezzato l’attenzione, l’importanza, il fatto di partecipare, in quanto istituzione culturale, a uno dei principi fondamentali della democrazia: la libertà di espressione.
Allora, che conclusioni posso trarre? In primo luogo che al MAXXI sono sulla difensiva. Hanno vietato un film senza averlo mai visto, giusto nel caso potesse dare adito a polemiche.
In secondo luogo, ritengo che con questa mentalità difensiva troppi italiani, il che significa in particolare quelli che operano nella politica e occupano posizioni ufficiali pubbliche, non vogliono affrontare e capire la verità e la realtà di ciò che è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni.
Oh, certo, il nostro film non è l’unica versione di quella verità. Ma si tratta di un tentativo onesto, indipendente, di illustrare agli italiani il punto di vista di questo solidale, affettuoso osservatore straniero, per aiutare gli italiani come gli stranieri a comprendere la situazione in Italia e ciò che va fatto. È stato fatto apposta per suscitare un dibattito. E se il momento giusto per provocare quel dibattito, nella capitale d’Italia, non è una campagna elettorale, non so quale possa essere il momento giusto.
Spero sinceramente che il MAXXI e il ministero della Cultura cambino idea e annullino la folle decisione. Ma in ogni caso, «Girlfriend in a Coma» verrà rappresentato in Italia durante la campagna elettorale. E in molte città italiane. Forse non al MAXXI, con un pubblico di leader politici ed economici che il museo avrebbe dovuto essere orgoglioso di ospitare. "traduzione di Carla Reschia"

La Stampa 2.2.13
Un Paese adulto non vieta un film. La Stampa è pronta ad ospitarlo


Il film di Bill Emmott e Annalisa Piras è un documentario che denuncia i problemi di un Paese in difficoltà: il nostro. Non ha nulla a che fare con la campagna elettorale perché non tifa per nessuno dei contendenti. È critico con Berlusconi ma anche con la sinistra e fa parlare Eco come Marchionne.
A La Stampa pensiamo che sia giusto proiettarlo, per discuterlo e farsi un’opinione, e che vietarlo significhi considerare gli italiani immaturi. Per questo abbiamo offerto agli autori di tenere la prima a Torino, nella stessa sera in cui era prevista a Roma: La Stampa è pronta a organizzarla perché paure e divieti sono i primi nemici della cultura e del confronto.

il Fatto 2.2.13
Giudici contro
La lezione di Falcone è il senso della misura
di Nando dalla Chiesa


Ma quale maledetta cupio dissolvi si sta riversando sul paese che chiede legalità e pubblico decoro? Quale patto con la follia abbiamo mai stretto per gli appuntamenti decisivi della nostra democrazia? Ci mancava pure il duello Ingroia-Boccassini, con i suoi contorni velenosi, con il suo mettere in palio anche le memorie più care. Per quel che mi riguarda provo gratitudine per Giovanni Falcone, che fece l’impossibile per darmi giustizia (e ancora mi rimprovero di non averlo difeso con ogni energia dalle insinuazioni con cui lo colpì a un certo punto un’ala del movimento antimafia). Provo gratitudine per Ilda Boccassini, per come ha retto le prove a cui l’ha chiamata nelle diverse fasi della sua vita l’interesse della Repubblica. Provo gratitudine per Antonio Ingroia, per i rischi che si è assunto cercando di portare ai livelli più alti la ricerca della verità sulla storia sconcia dei rapporti tra mafia e politica, mafia e istituzioni.
Una contrapposizione sconcertante
Per questo vedo ora con sconcerto due di loro litigare senza esclusione di colpi brandendo la memoria del primo, il più grande di tutti, Giovanni Falcone. Perché che Falcone sia stato un faro di conoscenza, di dottrina, di cultura antimafia non c’è dubbio. Senza nulla togliere ad altri grandi maestri, da Rocco Chinnici ad Antonino Caponnetto a Paolo Borsellino, il “fratello putativo” di Giovanni.
Ma è altrettanto indubbio che questa sua grandezza sconsiglia a chiunque di appropriarsene, di considerarsene l’erede o l’interprete, di farne il punto di partenza per scomuniche pubbliche o per botta e risposta che sembrano ideati da un implacabile regista negli studi di Arcore.
Lo dico da osservatore (ma anche per memoria diretta). Non è vero che Falcone parlava solo con le sentenze. Ho sulla mia scrivania “La posta in gioco”, raccolta dei suoi interventi in decine di convegni, pubblicata postuma nel 1994. Ricordo un incontro alla festa dell’Unità a cui partecipai con lui e Gerardo Chiaromonte, una folla immensa e tesissima. O una sua presenza al circolo “Turati” di Milano. Le sue interviste televisive.
E quel capolavoro di sapienza antimafiosa che è ancora oggi “Cose di Cosa Nostra”, il libro intervista realizzato nel 1991 con la giornalista Mar-celle Padovani. O le sue presenze universitarie, tra cui l’ultima all’università di Pavia dal suo amico Vittorio Grevi. Non parlava affatto “solo con le sentenze”. E faceva bene. Perché aveva bisogno di spiegare, di far capire, di svolgere la sua funzione preziosissima di pioniere intellettuale. Semmai la lezione di Falcone è un’altra: ed è il senso della misura.
Nemmeno la certezza della morte lo fece scomporre
Infinito. Come la sua pazienza, come il suo senso della responsabilità, esercitato a dispetto del decennio drammatico e insanguinato in cui gli toccò di vivere. Ricordo una telefonata con lui, in cui mi espressi criticamente contro l’allora ministro dell’Interno Antonio Gava e l’allora presidente della prima sezione penale della Cassazione, Corrado Carnevale. Lui smussava, temperava; cercava, anche in privato, di valorizzare le loro ragioni. Mai lo si sentì attaccare in pubblico i suoi avversari, che erano molti e ovunque. Nemmeno la certezza di essere destinato alla morte lo fece sentire libero da quel dovere eroico della misura. Al massimo, dopo che avevano attentato alla sua vita con il tritolo dell’Addaura, parlò di “menti raffinatissime”.
La questione dei magistrati che scelgono la politica
Mai volle dare l’immagine di istituzioni alla mercé di gelosie o rivalità viscerali, nemmeno dopo l’ingiuria che gli fece il Csm dei “giuda” (espressione di Borsellino) sbarrandogli la strada a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Mai insultò, mai diede l’immagine di un’antimafia lacerata. E anche di questo dobbiamo essergli grati. Questo viene spontaneo di pensare assistendo increduli al rimbalzo delle accuse.
Ma una cosa va aggiunta. Personalmente non ho condiviso la scelta di Ingroia, come di Grasso, di candidarsi, e nel caso di Ingroia di farsi leader politico. Per molte ragioni, a partire dalla convinzione che la magistratura debba sempre essere e sembrare al di sopra delle parti. L’uno e l’altro mi hanno rappresentato le proprie obiezioni, che non trascuro. Devo però dire che non ho mai visto in decenni di magistrati candidati al Parlamento una concentrazione di forze e di espressioni ostili, anche abissalmente diverse per reputazione e intenzioni, come quella che si è realizzata contro Ingroia. D’accordo, si è candidato a leader. D’accordo, ha messo in fibrillazione i più alti poteri dello Stato. D’accordo, c’è paura per il premio di maggioranza al Senato in Lombardia. Ma non è scattata ancora una volta la Grande Punizione? Sotto le critiche legittime, sotto le eterne asprezze delle campagne elettorali c’è un odore inconfondibile di zolfo. Guai a non sentirlo.

Corriere 2.2.13
Il patrimonio dimenticato
Una campagna elettorale che ignora la Cultura
di Gian Antonio Stella


Non sono solo l'antica Sibari coperta dalle acque del Crati esondato e la «Pompei preistorica» di Nola allagata da una falda perché la pompa è rotta da anni: è tutto il patrimonio storico, monumentale, artistico a essere sommerso. Dalla verbosità di una campagna elettorale che parla d'altro.
Nell'ultimo mese, dice l'archivio Ansa, Mario Monti si è guadagnato 2.195 titoli dei quali due abbinati alla cultura, Berlusconi 1.363 (cultura: zero), Bersani 852 (cultura: uno), Grillo 323 (cultura: zero), Ingroia 477 (cultura: zero), Giannino 74 (cultura: zero). Vale a dire che in totale i sei leader in corsa hanno avuto 5.284 titoli di cui solo 3 (tre!) che in qualche modo facevano riferimento alla cosa per la quale l'Italia è conosciuta e amata nel mondo.
Per carità, può darsi che anche i giornalisti si eccitino di più a dettare notizie sugli insulti e le scazzottate. Può darsi. Ma la stessa verifica sui leader principali estesa all'ultimo anno dice che su 5.803 notizie titolate su Berlusconi quella in cui il Cavaliere parla di «beni culturali» è una, quando ospitò a villa Gernetto il Fai (Fondo Ambiente Italiano). E lo stesso si può dire di Bersani (5.562 notizie, due sul tema citato) o di Monti: 13.718 lanci, nei quali una volta si disse dispiaciuto di non poter «sostenere maggiormente le iniziative» dello stesso Fai, una seconda promise il rilancio di Pompei e una terza, alla fiera del Levante, discettò che «il binomio turismo-beni culturali è ovviamente un binomio vincente». Ovviamente...
Una manciata di accenni su quasi venticinquemila notizie titolate su di loro. Tutta colpa dei cronisti? Ma dai! I programmi presentati per il voto del 24 febbraio, del resto, confermano: la cultura è per (quasi) tutti un tema secondario.
Certo, nella sua Agenda, Mario Monti (il primo a dar ragione a Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito sul ministero della Cultura) dedica un capitoletto all'«Italia della bellezza, dell'arte e del turismo», dove vengono dette cose di buon senso come quella che per noi è «una scelta strategica "naturale" puntare sulla cultura, integrando arte e paesaggio, turismo e ambiente, agricoltura e artigianato, all'insegna della sostenibilità e della valorizzazione delle nostre eccellenze». È difficile però dimenticare come il decreto Cresci Italia montiano, in 188 pagine, non facesse cenno alla Cultura. Della serie: fatti, please.
E il Partito Democratico? Tra i dieci capitoli del programma su www.partitodemocratico.it (Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza, libertà, sapere, sviluppo sostenibile, diritti, beni comuni, responsabilità) i beni culturali non ci sono. Anzi, non c'è un solo accenno manco sparpagliato qua o là ai musei, alle città d'arte, ai siti archeologici, alle gallerie, alle biblioteche... Niente. Che siano sotto la voce «Sapere»? No, lì si parla di istruzione, ricerca, formazione... Tutti temi fon-da-men-ta-li, sia chiaro: ma le proposte sul patrimonio culturale dove sono? Pier Ferdinando Casini si allinea. Ha qualcosa da dire sulla famiglia e la vita, la scuola e il lavoro, le imprese e la casa, la salute e la sicurezza, il federalismo e l'immigrazione... E la cultura? No. Assente.
La parola cultura è quasi assente anche nel decalogo degli «Io ci sto» della «Rivoluzione civile» di Antonio Ingroia. Movimento impegnato, legalità e solidarietà, laicità e sanità, università e antimafia e un mucchio di altre cose ma sul nostro tema assai stitico: «Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese». Fine. Che ci sia qualcosa nel programma dell'Idv? Mai la parola cultura, mai beni culturali, mai patrimonio culturale...
E nel programma de «La Destra» di Storace? «Lo stiamo scrivendo...», spiegano. Per ora, a tre settimane dalle elezioni, c'è solo il «Manuale della sovranità» dove si parla di tutto, dal ritorno alla lira alla lotta alla corruzione, dalla giustizia all'immigrazione, tranne che di queste cose. La Lega Nord? Unica proposta, abolire le Soprintendenze per «attribuire alle Regioni ogni potestà decisionale in materia di beni culturali, trasferendo le competenze ai territori». Nessuna meraviglia: su 16.064 notizie Ansa in cui lui è nel titolo a partire dal 1992, Maroni si è occupato del tema pochissime volte, di cui una per Varese e un paio per invocare la stessa cosa di oggi. Per dire: abbinando Bobo alle parole calcio e Milan di notizie ne escono 110.
Anche il «Movimento 5 Stelle» è interessato ad altro. Nulla nei capitoli principali (Stato e cittadini, energia, economia, informazione, trasporti, salute, istruzione) nulla sparso qua e là. Propongono di tutto, i grillini. Dall'abolizione dei rimborsi elettorali alla «incentivazione della produzione di biogas dalla fermentazione anaerobica dei rifiuti organici», dallo studio dell'inglese alle materne fino ai ticket sanitari proporzionati al reddito. Decine e decine di proposte. Ma non un cenno, nel programma online, ai beni culturali, al patrimonio artistico, ai musei, ai siti archeologici...
Nichi Vendola e Giorgia Meloni: sono loro a formare la coppia più inaspettata. Loro quelli che, nel programma di Sel e di Fratelli d'Italia, dedicano più spazio alla necessità di puntare sulla cultura per uscire dalla crisi. Loro a ribadire con più convinzione che non solo devono essere coinvolti i privati ma che lo Stato deve investire di più, puntare sulle intelligenze, la creatività, i giovani.
E il Pdl di quel Berlusconi che in uno spot diceva che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco» decuplicando (ne abbiamo 47 su 936) per vanità patriottica la nostra percentuale? Dedica al tema, in coda, 7 righe su 379. Dove sostiene che vanno separati cultura e spettacolo «nell'assegnazione di risorse pubbliche», che i musei devono «svuotare le cantine» (tesi assai controversa) o che occorre «avviare la sperimentazione dell'affidamento in concessione ai privati dei musei più in difficoltà». Ma si guarda bene dal promettere il ripristino degli investimenti, crollati dal 2001 al 2011, decennio berlusconiano (con parentesi prodiana) dallo 0,39 allo 0,19% del Pil. Il contrario di quanto ha fatto in Germania (tirandosi addosso, paradossalmente, perfino la critica di aver un po' esagerato) la «nemica» Angela Merkel.
Peccato. Se la cultura non entra nel dibattito politico neppure in campagna elettorale...
Gian Antonio Stella

Repubblica 2.2.13
Disoccupazione record mai così male dal 1999 3 milioni senza impiego
“Fondata sul lavoro”
La solitudine dell’Articolo 1
di Gustavo Zagrebelsky


SE, per esempio, l’Autore dei Ricordi dal sottosuolo fosse tra noi e riprendesse la parola, troverebbe nel nostro tempo ragioni per convalidare quella che, allora, fu formulata, e generalmente considerata, come la farneticazione d’un visionario: «Allora tutte le azioni umane saranno matematicamente calcolate secondo quelle leggi... oppure, meglio ancora, ci saranno pubblicazioni benemerite, sul genere degli attuali lessici enciclopedici, in cui ogni cosa verrà calcolata e stabilita tanto esattamente, che al mondo non si daranno più azioni né avventure » (ma si finirà nella noia mortale, aggiungeva Dostoevskij).
FORSE, l’opera non è ancora conclusa, né tantomeno è conclusa con generale soddisfazione, ma certamente è in corso, come tentativo o, almeno, tendenza. Eppure, quel “fondata sul lavoro” che apre la nostra Costituzione vorrebbe essere il preannuncio di azioni e avventure indipendenti dalle tabelle di logaritmi econometrici. Vorrebbe starne fuori, anzi prima. Fuori dalle immagini letterarie, la questione è formulabile nei semplici termini seguenti. La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro. Dicendo “dipendere” non s’intenda necessariamente determinare, ma condizionare, almeno, questo sì. Ora, il senso del condizionamento o, come si dice, delle compatibilità è certamente rovesciato. Il lavoro, da “principale”, è diventato “conseguenziale”. La Repubblica, possiamo dirla, senza mentire, “fondata” sul lavoro?
Si dice che l’attività economica si è oggi spostata dalla cosiddetta “economia reale” alla “economia fittizia”, l’economia finanziaria. Questa seconda mira a produrre denaro dal denaro, attraverso transazioni finanziarie, più o meno spericolate, più o meno lecite, che generano quelle che si chiamano “bolle speculative”, scoppiate o pronte a scoppiare. Ora, l’economia reale può produrre lavoro e stabilità sociale; quella fittizia, no. Sottrae risorse al mondo del lavoro, produce instabilità sociale e favorisce i pochi signori della finanza, fino a quando non saranno anch’essi travolti, e noi con loro, da un sistema privo di fondamento. Questa finanza “mangia” l’economia reale, l’indebolisce, è nemica del lavoro. Perfino nelle difficoltà dell’economia reale s’avvantaggia. Le crisi finanziarie che s’abbattono sui conti degli Stati sono determinate dagli interessi finanziari medesimi e sono certificate da agenzie indipendenti solo in apparenza, in un colossale conflitto (o, sarebbe meglio dire, in una colossale connivenza) d’interessi. Che cosa ha prodotto, del resto, il “risanamento” che il mondo finanziario internazionale chiede agli Stati, come condizione dei loro investimenti? Chiede “riforme”. E queste riforme a che cosa hanno portato? Finora, a contrazione dell’economia reale, a crisi delle imprese, a disoccupazione crescente, al peggioramento delle condizioni dei lavoratori, a emarginazione del lavoro femminile, a riduzione delle protezioni sociali.
Bisogna dire con chiarezza: la finanza come mezzo e come fine è nemica della Costituzione. Di fronte alla pervasiva forza, legale e illegale, della finanza, la politica si dimostra troppo spesso succuba, connivente o collusa. Chi sa resistere alla forza del danaro, che corrompe o, almeno, debilita le forze che dovrebbero regolarla? Ora si pone la domanda che nessun giurista vorrebbe mai doversiporre: siamo padroni dei rapporti sociali ed economici o siamo condannati al darwinismo sociale? Se vale questa seconda risposta, la Costituzione, per la parte del lavoro, dovremmo dirla antiquata, superata dalla forza delle cose. Se vale la prima, resta aperta la possibilità d’una politica costituzionale del lavoro. Chi deve agire sono le forze politiche, sindacali e culturali. A loro, la decisione, che non è un’astratta scelta di preferenza, ma un programma concreto di lotta politica.
Ora, in fine, un’osservazione, da “uomo del sottosuolo”. Di fronte ai disastri sociali della finanza speculativa, occorre ritornare alla “economia reale”, cioè alla produzione di ricchezza per mezzo non di ricchezza, ma di lavoro e di ricchezza investita sul lavoro. La parola d’ordine è “crescita”. Per aversi crescita occorre stimolare i consumi, affinché i consumi, a loro volta, diano la spinta alla produzione e, dalla produzione, nasca lavoro cioè reddito che, a sua volta, alimenta i consumi: una ruota che deve girare. Tanto più consumiamo, tanto più lavoriamo e tanto meglio svolgiamo la nostra parte. Naturalmente, non è detto che tutti lavorino e consumino come gli altri. Ci sarà chi può lavorare di meno e consumare di più, e chi deve consumare di meno e lavorare di più. Dipende dai rapporti sociali, cioè dalla distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi, cioè dai criteri di giustizia vigenti. In ogni caso, c’è qualcosa di sinistro in questa raffigurazione: l’essere umano che lavora per poter consumare e consuma per poter lavorare.
Qui viene l’osservazione “umanistica”. L’economia mondializzata, omologata agli standard produttivi delle grandi imprese, la grande distribuzione al loro servizio, la pubblicità che orienta i consumi e crea stili di vita uniformi: tutto ciò produce un’umanità funzionalizzata, ugualizzata nei medesimi bisogni e nelle medesime aspirazioni: in una parola, confluisce in una medesima cultura. Ciò significa elevare il conformismo a virtù civile. È questo ciò che vogliamo? O non occorrerebbe invece prestare attenzione a ciò che di originale si muove e cerca di crescere: nuove e antiche professioni, che cercano di emergere o riemergere, nuove forme di produzione, di collaborazione tra produttori, nuove reti di collegamento solidale tra produttori, nuove modalità di distribuzione e di consumo; riscoperta di risorse e patrimoni materiali e culturali esistenti, ma finora nascosti o dimenticati. Il nostro Paese avrebbe tante cose e tante energie da portare alla luce nell’interesse di tutti, cioè nell’interesse del “progresso materiale e spirituale della società”, come recita l’art. 4 della Costituzione. Nelle società libere, il compito della politica è capire, orientare e aiutare ciò che di fecondo cresce e, parallelamente, opporsi a ciò che cerca di riproporsi, secondo esperienze che hanno già fatto il loro tempo. Su questo terreno, mi pare che debba cercarsi la risposta a quella che, altrimenti, sarebbe solo una stucchevole controversia: la risposta alla domanda che cosa, oggi, voglia dire essere conservatori o innovatori.

Repubblica 2.2.13
Il discensore sociale
di Ilvio Diamanti


IL LAVORO non è “finito”, come preconizzava Jeremy Rifkin. Ma è cambiato profondamente. Sulla spinta della crisi, oltre che delle trasformazioni economiche e tecnologiche. Anche gli orientamenti verso il lavoro, in Italia, sono cambiati, negli ultimi anni. In modo rapido e non lineare. È ciò che suggerisce la lettura dei dati del sondaggio condotto da Demos Coop per la Repubblica delle idee.
1. Il “lavoro in proprio” e la “libera professione” non costituiscono più un mito condiviso, come negli ultimi vent’anni. Nel 2004 – considerati insieme – costituivano il primo riferimento per oltre metà degli italiani (53%). OGGI per meno del 40%. Per contro, ha ripreso a farsi sentire il richiamo del lavoro dipendente nella piccola e, ancor più, della grande impresa. Ma, soprattutto, il “pubblico impiego” oggi è (ri) diventato il lavoro preferito dalla maggioranza degli italiani: il 31%, 5 punti più del 2004.
Le spiegazioni di questo mutamento di opinione sono diverse.
2. La più importante, forse, è l’insicurezza. Tra coloro che, nell’ultimo anno, affermano di aver lavorato, la quota di quanti dichiarano un impiego “sicuro” è il 42%. La stessa misura di coloro che lo definiscono “temporaneo” o “precario”. Tutti gli altri — il 16% — lo considerano, invece, “flessibile”. La flessibilità, nella percezione sociale, non richiama debolezza. Indica, piuttosto, un’attività, meno strutturata e regolata. La “precarietà”, invece, è “stabile temporaneità”. Del lavoro e del reddito.
3. La crescita della precarietà ha, dunque, rafforzato l’importanza del “posto fisso”. Pubblico o privato, non importa. Il 41% degli intervistati ambisce a un “posto sicuro”. Che garantisca un reddito “sicuro”, prima ancora che elevato. Anche la ricerca di un lavoro gratificante, che dia “soddisfazione”: perde relativamente di peso.
4. D’altra parte, il 20% degli intervistati sostiene che nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha perduto il lavoro; il 18% che qualcuno è stato messo in mobilità o in CIG; il 35% che qualcuno ha cercato un’occupazione — ma senza esito. Il 10%, infine, dichiara di avere un contratto di lavoro in scadenza.
La paura di rimanere disoccupati appare, dunque, in grande aumento. Coinvolge il 56% degli italiani. È cresciuta di 26 punti percentuali in circa cinque anni. Nello stesso periodo, la paura di perdere la pensione è salita di quasi 20 punti: dal 36 al 54%.
5. Così, sembra essersi bloccato il mito dell’ascensore sociale. Che aveva mobilitato gran parte della società, facendola sentire “ceto medio”. Nel 2006 era il 60%. Oggi il 43%. Mentre la componente di chi si sente ceto “medio-basso” oppure “basso” è divenuta maggioranza: dal 28% al 51%.
Le componenti sociali maggiormente investite dalle paure riguardo al lavoro sono, ovviamente, le più vulnerabili. Gli anziani, con minore livello di istruzione. Le donne. Considerate ancora discriminate, circa le possibilità di carriera, dal 58% degli intervistati.
Tuttavia, secondo il sondaggio di Demos-Coop, le preoccupazioni maggiori riguardano il futuro dei giovani e dei figli (62%; 16 punti in più in circa 5 anni). Il 64% degli italiani li invita ad andarsene all’estero. Perché questo non è un Paese per giovani.
6. La crisi del lavoro, come fonte di organizzazione e di riconoscimento sociale, dunque,
sta erodendo la fiducia nel futuro. Ma anche nelle istituzioni e nei soggetti di rappresentanza. Non solo nei partiti e nello Stato. Anche le associazioni economiche. Così, non resta che la famiglia a difendere i lavoratori. L’ultima cittadella assediata. Dal 2004 ad oggi il dato relativo al suo peso, nella percezione degli italiani, è triplicato: dal 10% al 30%.
7. Al contempo, nel tessuto sociale e fra gli stessi lavoratori, si aprono significative divisioni. Una fra tutte: verso l’impiego pubblico. Il 60% degli italiani ritiene, infatti, che i “dipendenti pubblici godano di privilegi insostenibili”. In altri termini, mentre cresce l’interesse per il posto pubblico, il pubblico impiego è visto con diffidenza. Non è l’unica contraddizione “cognitiva”. Infatti, fra gli italiani è calato l’interesse a intraprendere un lavoro autonomo e professionale ed è in aumento la domanda di occupazione nelle grandi imprese. Eppure, la fiducia nelle piccole aziende appare molto più che verso le grandi imprese. Anche l’appeal della Fiat, oggi, è limitato.
8. Da ciò l’incertezza verso il futuro. Denunciata da circa il 60% degli italiani: 15 punti in più rispetto al 2006. Prima della crisi. L’insicurezza tocca, ovviamente, gli indici più elevati fra le componenti più “precarie” della società. Insicure per definizione. Perché la “precarietà” nasconde il futuro.
9. Così si spiega il senso di disorientamento diffuso. Riflette perdita di senso e di orizzonte. E di “posizione”. Perché il lavoro continua ad essere il riferimento più importante della società. Non a caso, se si guarda la classifica delle professioni in base al prestigio sociale, si osserva come, al di là del punteggio, “tutte” le professioni godano di considerazione. Ad eccezione dei “politici”, molto al di sotto della sufficienza, gran parte dei “lavori” — dagli imprenditori agli operai, dai medici agli insegnanti — superano il 7,5. E negli ultimi anni, “guadagnano”, ulteriormente, stima sociale.
10. Un altro segno dell’importanza del lavoro, tanto più in tempi di crisi. Quando incombe la disoccupazione e la precarietà diventa “normale”. Perché lavorare non dà solo reddito. Dà dignità. Riconoscimento. Identità.
Lavorare stanca. Non lavorare: umilia.

Corriere 2.2.13
La Grecia allo stremo in un'Europa indifferente
L'Europa non può essere indifferente alle sofferenze del popolo greco
di Ernesto Galli della Loggia


La crisi economica della Grecia, secondo un rapporto di Standard & Poor's, è «per durata e vastità» addirittura più grave di quella che nella Germania dei primi anni Trenta portò Hitler al potere. La popolazione sta precipitando in uno stato di miseria. Tutto ciò non accade in una remota contrada dell'Africa o dell'Asia. È dunque possibile che l'Europa cristiana e socialdemocratica non abbia da dire (e fare) nulla?
L a Grecia è allo stremo. Secondo un recente rapporto di Standard & Poor's la crisi economica in cui si dibatte il Paese è, «per durata e vastità», addirittura più grave di quella che nella Germania dei primi anni Trenta portò Hitler al potere. È una crisi, lo sappiamo, di cui la classe dirigente greca porta una grossissima responsabilità: per la corruzione, gli sperperi, l'evasione fiscale, l'inefficienza dello Stato, il clientelismo, che essa ha favorito e di cui ha goduto. Anche se è una responsabilità che coinvolge una parte significativa di tutta la popolazione, che da una tale condizione ha tratto essa pure, per anni, i suoi vantaggi.
Ma oggi questa popolazione sta precipitando in uno stato di disagio, spesso di vera e propria miseria, che sembra riportarci drammaticamente indietro nel tempo. Il 50 per cento dei cittadini greci vive sulla soglia della povertà o al di sotto di essa. Si calcola che 9 greci su 10 abbiano ormai cancellato le spese per il vestiario e le calzature. Questo inverno, a causa del prezzo proibitivo del combustibile, moltissimi impianti di riscaldamento sono rimasti spenti, sostituiti da stufe e caminetti più o meno improvvisati che bruciano legna (con relativo aumento dell'inquinamento dell'aria nelle grandi città). Anche l'acquisto del latte per i bambini è diventato spesso un problema, e non è un caso che secondo le statistiche internazionali la Grecia abbia oggi il più altro numero di bambini sottopeso di tutti i Paesi dell'Ocse. Le condizioni alimentari generali sono così a rischio che il governo ha autorizzato i supermercati a vendere a un terzo circa del loro prezzo i prodotti scaduti (naturalmente entro un termine non troppo spostato in avanti). Sicché non meraviglia che già un anno fa la notissima pubblicazione medica inglese Lancet abbia lanciato l'allarme circa il fatto che i greci stanno «perdendo la vita» a causa dei tagli al sistema sanitario: infatti i 5 euro del ticket oggi necessari per il ricovero sono per molti una spesa proibitiva, e tra l'altro in Grecia dopo un anno di disoccupazione si perde il diritto di accedere al servizio sanitario nazionale. Tutto ciò non accade in una remota contrada dell'Africa o dell'Asia. Accade nella nostra cara Unione europea. E allora è impossibile non porsi una domanda: ma che razza di unione è quella i cui membri, in gran parte, assistono nella più totale indifferenza alla sorte sciagurata che sta toccando ad un'altra e sia pur minore parte? Capisco il fiscal compact, infatti, la troika, e tutto il resto, capisco gli strettissimi vincoli che Bruxelles ha imposto al bilancio greco per tenerlo in carreggiata, ma è possibile che l'Europa cristiana e socialdemocratica — compassionevole e solidale come si conviene a chi si dice tale — che l'Europa cristiana e socialdemocratica i cui rosei e ben curati volti, le cui eleganti flanelle e i cui inappuntabili gessati ci allietano ogni sera alla Tv in presa diretta da qualche Commissione o da qualche Eurogruppo, non abbia da dire (e fare) nulla? Chessò: lanciare una campagna di raccolta fondi tra i cittadini dell'Unione, un invito alle organizzazioni umanitarie, alle Croci Rosse del continente perché mandino aiuti ad Atene, decidere una decurtazione del dieci per cento degli stipendi degli alti euroburocrati della durata di tre mesi per acquistare un po' di latte, insomma qualcosa? Possibile che centinaia di milioni di europei gonfi di cibo assistano imperturbabili allo spettacolo di pochi milioni di greci sull'orlo della fame? Lo ripeto: che razza di Unione europea è mai questa? Ed è ammissibile che a porre un tale interrogativo debba essere un giornale, solo un giornale?

Repubblica 2.2.13
Tutte le colpe dell’eurofinanza
di Luciano Gallino


LA VICENDA del Monte dei Paschi si può così riassumere: la banca senese ha messo in pratica un modello di affari identico a quello delle maggiori banche europee. È un modello dissennato, che è all’origine della crisi economica in corso dal 2007 e ha portato al dissesto decine di banche in quasi tutti i paesi. Mps ha potuto applicarlo fino a ieri perché una seria riforma della finanza Ue non ha compiuto finora alcun passo avanti.
Ma parlare dei guai di Mps non dovrebbe condurre a ignorare, come sta accadendo, che all’origine di essi vi sono le storture dell’intero sistema finanziario europeo.
Un posto di riguardo in esso occupa il sistema bancario ombra. È formato da enti finanziari che non sono banche ma operano come banche: prestano denaro, emettono titoli e li negoziano, accolgono depositi. Si tratta di fondi monetari, fondi speculativi, veicoli di investimento speciale o strutturato (Siv). Nel 2007 gli attivi del sistema ombra europeo valevano circa 20 trilioni di euro, più o meno quanto gli attivi in bilancio. Stando a un recente rapporto del Financial Stability Board, nel 2011 essi erano saliti a 25 trilioni. Come si legge in un rapporto presentato al Congresso Usa fin dal giugno 2008, il carattere che giustifica l’espressione “sistema ombra” è l’assenza di regolazione e di sorveglianza.
Quando Mps acquistò anni fa da un Siv della Dresdner Bank un derivato per 400 milioni non fece altro che avvalersi del sistema bancario ombra per finanziarsi. Si dirà: ma li ha pur presi da una banca. Errore: un Siv è creato da una banca come una società di scopo giuridicamente autonoma. In quasi tutti i casi non ha una sede fisica né personale; però ha facoltà di trasformare i crediti della banca sponsor in titoli negoziabili, pagandoli con il ricavato di titoli a breve termine che esso emette. È il processo chiamato da noi cartolarizzazione. Tra il 2000 e il 2008, tramite i loro veicoli – che possono essere decine per ciascuna banca - le banche europee hanno effettuato un volume di cartolarizzazioni pari a 3,7 trilioni di euro. Italia e Germania effettuano ciascuna circa il 10 per cento delle transazioni, corrispondenti a 347 miliardi di euro per la prima, 326 per la seconda. Il tutto all’ombra, cioè al di fuori della portata dei regolatori e dei sorveglianti.
Una riforma finanziaria della Ue dovrebbe quindi mettere in primo piano una drastica riduzione del sistema bancario ombra e un severo controllo di quel che resta, mentre governi ed esperti dovrebbero battersi per avviare la riforma stessa, piuttosto che cercare ogni volta in vicende locali la chiave del dissesto di questa o quella banca. Se qualcuno, per dire, si mettesse a studiare le origini locali del dissesto di gran parte delle banche regionali tedesche, alcune grandi come Mps, dovrebbe lavorare decenni. Mentre la causa è nuda e cruda, come nel caso Mps: hanno fatto ciò che le leggi permettevano di fare, grazie a trent’anni di deregolazione della finanza.
Il caso Mps offre altre due utili indicazioni per una riforma efficace del sistema finanziario. In primo luogo va notato che il titolo che ha comprato e utilizzato per operazioni di rifinanziamento è il peggio che l’ingegneria finanziaria abbia inventato. Si è trattato infatti, a quanto si legge, di una obbligazione avente per collaterale un debito (acronimo Cdo), ma al quadrato. Una Cdo, anche semplice, è di per sé un oggetto pericoloso.
Infatti può contenere fino a un centinaio di altri titoli obbligazionari sostenuti da un’ipoteca, ciascuno dei quali può contenere, a sua volta, gran numero di titoli di debito. Ciò spiega sia il costo di una Cdo, in genere superiore al miliardo (per cui viene venduta
quasi soltanto a fette), sia l’impossibilità di stabilire il rischio che contiene se non mediante complicatissimi modelli matematici, che quasi nessuno è in grado di capire: inclusi, parrebbe, i dirigenti di Mps. Ora, si noti bene, una Cdo al quadrato è formata da fette o trance di altre Cdo. Il che significa, al confronto, che tenere un barile di nitroglicerina in tinello non è più pericoloso di una bottiglia di minerale.
Ci sono poi i guai in cui si è cacciata Mps con l’acquisizione di Antonveneta nel 2007. Sembra siano stati, i suoi dirigenti, piuttosto sprovveduti. Ma fin dagli anni ’90 la corsa all’ingigantimento delle banche è stata favorita ed esaltata come un segno di modernizzazione dalle organizzazioni internazionali, dagli esperti, dai governi di tutta la Ue. Come risultato il numero delle banche europee è assai diminuito, mentre è aumentato il peso economico delle più grandi, senza che ciò abbia minimamente
giovato all’econo-mia reale. Se nel 2007 erano troppo grandi per lasciarle fallire, oggi sono troppo grandi per evitare che la Bce presti loro 1.100 miliardi all’1 per cento di interesse – di cui oltre un quarto sono andati a banche italiane – come ha fatto tra il novembre 2011 e il febbraio 2012. Un monte di denaro che in misura minima è affluito all’economia reale sotto forma di crediti delle piccole e medie imprese: per la massima parte è stato utilizzato dalle banche per rifinanziarsi e ricapitalizzarsi. Un segno, ve ne fosse mai bisogno, che una riforma del sistema finanziario europeo dovrebbe pure imporre un limite alla grandezza delle banche.
In sostanza, la vicenda Mps, nata dall’applicazione letterale di un modello d’affari comune a tutte le banche europee, che ne ha già condotte decine di altre al dissesto, sembra un’ottima occasione per evitare non solo di prendere posizione, ma perfino di parlare di riforma dell’eurofinanza. Eppure c’è un testo da cui si potrebbe partire per discutere di quella che anche sul piano politico, non solo su quello economico, è la più importante riforma di cui l’Italia e la Ue avrebbero bisogno. Magari per criticarlo. Mi rifersico al Liikanen Report - dal nome del presidente del gruppo che l’ha redatto – relativo alla riforma della struttura del sistema bancario Ue trasmesso alla Commissione a ottobre 2012, è nato male. Infatti undici su dodici membri del gruppo erano dirigenti di istituzioni finanziarie. Sarebbe come nominare un gruppo di architetti per giudicare i progetti di ciascuno di loro. Tuttavia qualcosa di solido su cui discutere nel rapporto c’è. Tra i problemi del sistema bancario europeo esso indica infatti l’eccessiva assunzione di rischio; l’aumento di complessità, volume e portata che rende difficile il controllo da parte dei dirigenti; l’aumento eccessivo dell’effetto di leva finanziaria e la limitata capacità di assorbire le perdite; l’eccessiva fiducia riposta sui modelli interni di gestione del rischio e sulla “disciplina dei mercati”. È da un confronto risoluto e ravvicinato con simili questioni che dipende l’avvio a soluzione della crisi europea, dinanzi ai costi sociali e umani che essa infligge a milioni di persone. Ed è questo che l’Italia dovrebbe pretendere da Bruxelles. In alternativa, possiamo continuare a discutere se il portone della Mps debba essere restaurato o no.

Corriere 2.2.13
Joschka Fischer
«La mia Germania sia più modesta. All'Europa serve un'Italia protagonista»
di Paolo Valentino


MONACO DI BAVIERA — «La Germania non ha ragioni per mostrarsi arrogante nei confronti degli altri Paesi europei. È vero che abbiamo fatto prima di altri le riforme necessarie, ma non sempre saremo i primi della classe. Invito dunque i nostri dirigenti a dar prova di maggiore modestia verso i partner dell'Unione. Ogni tentativo di imporre un'egemonia tedesca è destinato a fallire. Dobbiamo capire che non è affatto nel nostro interesse che la Germania sia dominante nell'Europa dei Ventisette, poiché alla lunga produrrebbe uno stress politico ed economico insostenibile».
Avviso ai naviganti berlinesi da Joschka Fischer. Per quanto si sforzi di essere ottimista e di vedere i passi in avanti verso la stabilizzazione compiuti nell'ultimo anno dall'Ue, l'ex ministro degli Esteri nel governo rosso-verde, forse l'uomo politico tedesco più europeista della sua generazione, non rinuncia al ruolo di coscienza critica, anche e soprattutto nei confronti della Germania. Ammette la flessibilità mostrata da Angela Merkel, «costretta a rompere un tabù dietro l'altro: salvataggio, fondo di stabilizzazione, governo comune dell'economia, unione bancaria». Ma ricorda l'«altissimo prezzo pagato al ritardo con cui la cancelliera si è mossa». Rimprovera alla signora Merkel di agire sempre in maniera reattiva, cioè «priva di un disegno strategico e di una visione per il futuro». E mette in guardia dalla fragilità della situazione e dai nuovi pericoli che si intravedono all'orizzonte, a cominciare dall'ipotesi di un referendum britannico sull'Europa, prospettata dal premier inglese David Cameron.
Lei 9 mesi fa usava toni catastrofici, paventava il crollo dell'euro e dell'intero edificio europeo. Invece la moneta unica è ancora qui, l'Europa va avanti. Si era sbagliato?
«Il rischio di un collasso totale un anno fa era reale. Se non è successo è perché la Banca Centrale Europea, con il consenso degli Stati membri che prima tergiversavano, ha potuto finalmente annunciare di essere pronta a una difesa a tutto campo e senza limiti dell'euro. È stata una svolta cruciale. Pensiamo alla precedente posizione tedesca, che considerava tutto ciò un tabù inviolabile. Ed è un interessante paradosso, che Nicholas Sarkozy a causa delle sue concessioni sia stato sconfitto alle elezioni, ma che alla fine in Europa si siano affermate più le sue posizioni che quelle di Angela Merkel: oggi abbiamo un governo di fatto dell'economia, siamo in marcia verso l'unione fiscale, la Bce è potente come neppure la Bundesbank lo è mai stata. Ed è una cosa buona, perché se avessero vinto le ricette della "Buba" oggi non ci sarebbe più l'euro».
E in cosa consiste il pericolo attuale?
«Nel fatto che l'Eurogruppo non abbia ancora un quadro politico solido e ben definito. Non può durare. Dipenderà tutto dalla velocità e dall'ampiezza dei passi che sapremo fare verso l'unione fiscale e poi quella politica. Però senza arroganza e diktat: la priorità è quella di far avanzare la comunità degli Stati, tenendo conto degli interessi e delle sensibilità di tutti».
Anche di quelli degli inglesi? Perché ha definito "pericoloso" il discorso di David Cameron?
«Cameron vuole cambiare il principio fondante del processo europeo, quello di un'unione sempre più integrata, sostituendolo con quello di un'area di libero scambio. Significherebbe distruggere l'Unione Europea. L'iniziativa del premier non ha nulla a che fare con i veri interessi della Gran Bretagna, ma con la lacerazione ideologica del partito conservatore. Posso capire un punto di Cameron: che l'Europa dovrebbe tener nel giusto conto gli interessi della Gran Bretagna, per esempio la centralità di Londra come piazza finanziaria. Ma non per questo bisogna mettere in discussione l'intero progetto europeo».
Ma Cameron dice di non volere che il Regno Unito esca dall'Europa....
«Lo dice, ma la sua strategia — rinegoziare i termini della partecipazione inglese all'Ue e poi andare al referendum — è il prodotto di due illusioni: che egli possa ottenere un esito positivo del negoziato e che l'Unione sia pronta a fare le concessioni che chiede. Questo non è possibile, perché ogni altro Stato si sentirebbe autorizzato a pretendere modifiche ai Trattati in suo favore e ciò significherebbe la fine dell'Ue. Inoltre ci sono buone ragioni per credere che questo atteggiamento inneschi una dinamica autonoma, un'escalation incontrollabile, in fondo alla quale la conseguenza non voluta sia proprio l'uscita della Gran Bretagna».
Beh, c'è chi dice che in fondo senza Londra sarebbe più facile avanzare verso l'Unione politica...
«Sciocchezze. Sarebbe un disastro per il Regno Unito, ma anche un colpo pesante e grave per l'Ue. Un'uscita indolore della Gran Bretagna dall'Europa è impossibile».
La scorsa settimana Francia e Germania hanno celebrato i 60 anni del Trattato dell'Eliseo. L'amicizia franco-tedesca ha ancora un ruolo decisivo nel far avanzare il processo d'integrazione?
«È chiaro che nel 1963 lo spirito e il significato dell'avvicinamento tra i due Paesi fossero altri. Ma dalla riconciliazione di allora possiamo imparare cosa significhi leadership politica. Gli accordi di Parigi non furono affatto popolari in Francia. Eppure si fecero e hanno funzionato, a dispetto del fatto che Adenauer e De Gaulle dessero letture diverse di quell'intesa: l'uno il ritorno a Occidente, l'altro il contrappeso all'egemonia americana. Ma in tema di amicizia franco-tedesca vorrei parlare dell'Italia».
E perché?
«L'Italia ha sempre giocato un ruolo centrale nel processo europeo. E ha costituito un fattore di riequilibrio, in un senso o nell'altro, nel rapporto franco-tedesco. Per il suo retaggio storico e culturale, la diplomazia italiana è sempre stata saggiamente in grado di capire entrambi. Non voglio in alcun modo entrare nel dibattito elettorale in corso, ma la cosa più negativa negli anni di Berlusconi al potere è stata proprio che l'Italia abbia smesso di avere questa funzione e sia di fatto sparita dall'Europa. Questo è stato un danno non solo per voi, ma per tutti. In un certo senso l'Italia è stata il testimone di nozze dell'intesa franco-tedesca, importante soprattutto quando c'era aria di crisi coniugale. Ho sperimento personalmente quanto l'assenza dell'Italia abbia fatto male all'Europa. È sintomatico che appena chiusa l'anomalia Berlusconi, Roma abbia subito ripreso questo ruolo, confermando come siano profondi i caratteri ereditati dalla Storia. Le differenze rimangono, ma l'armonia, cioè la capacità di forgiare compromessi, è nuovamente con noi».
Ma nell'Europa dei 27 l'amicizia franco-tedesca è ancora sufficiente?
«Non è mai stata sufficiente. L'Europa è più della riconciliazione tra Parigi e Berlino, ma se loro non sono insieme, l'Unione non si muove o si muove molto poco».
Eppure alla fine è la Francia ad avere sempre un problema di sovranità, che non vuole veramente cedere. Cadrà un giorno questa pregiudiziale della Grande Nation in nome dell'unione politica?
«Ci dev'essere uno scambio virtuoso: i tedeschi devono superare la loro avarizia, i francesi devono acconciarsi a cedere una parte di sovranità nazionale».

l’Unità 2.2.13
I raid israeliani in Siria un assist offerto ad Assad
di Umberto De Giovannangeli


L’«AZZARDO DI BIBI» IN TERRA SIRIANA. Comunque lo si guardi, il raid dei caccia israeliani a un sito militare vicino Damasco, rappresenta un salto di qualità sul tormentato scenario mediorientale e nel conflitto che da venti mesi insanguina la Siria: il salto nella regionalizzazione della guerra. Un salto nel buio. Leggere l’attacco israeliano in chiave di politica interna con Netanyahu che prova a giocare la carta dell’emergenza nazionale per dar vita ad una «ampia coalizione» post voto coglie un aspetto del problema, ma non offre il quadro d’insieme di una strategia, quella perseguita da Netanyahu e dalla destra che governa lo Stato ebraico, che affonda in una lettura negativa degli eventi che hanno segnato i Paesi investiti dalle «Primavere arabe». Nel’ottica di «Bibi» il segno di quelle «primavere» è sempre stato inquietante per Israele, anche prima dell’affermarsi in Egitto della Fratellanza musulmana. Quelle rivolte, per Netanyahu, hanno spazzato via autocrati come Hosni Mubarak che avevano comunque garantito il mantenimento di uno status quo che, al netto di roboanti proclami ad uso interno, non aveva intaccato gli interessi d’Israele né sul fronte palestinese né su quello delle relazioni con i Paesi arabi confinanti. E tra questi autocrati «stabilizzanti» c’è anche Bashar al-Assad. I raid israeliani dell’altro ieri in territorio siriano rappresentano un «assist» per il presidente Bashar al Assad. A scriverlo è il quotidiano israeliano Haaretz. «Ora Assad può citare l’attacco come esempio del complotto contro di lui e il suo regime», scrive Haa«complotto sionista-americano» sia il cavallo di battaglia del presidente siriano per giustificare il ricorso alla forza per contrastare la ribellione, accusata di essere parte di un piano per destabilizzare la Siria.
E così Netanyahu offre al regime baathista il «Grande Alibi» la Minaccia sionista su cui far leva per riconquistare consensi nelle opinioni pubbliche, prim’ancora che nelle leadership, arabe. Un discorso che dalla Siria si proietta al Libano e dal Libano all’Egitto. Netanyahu prova a riconquistare la direzione d’Israele un contesto mediorientale profondamente rivoluzionato rispetto ad un passato che Israele sembra rimpiangere. A cominciare dal vicino Egitto. Il Sinai come «terra di nessuno», spazio di manovra per i gruppi qaedisti pronti a stringere un patto d’azione con le cellule salafite e jihadiste che agiscono nella Striscia di Gaza. Una congiunzione terroristica che renderebbe ancor più esplosivo il fronte Sud. Chiunque agisca per evitare questa «congiunzione», è un interlocutore prezioso, anche se è un «fratello» scomodo. Un fratello musulmano. Per Israele il presidente egiziano Mohamed Morsi è il «Male minore», un argine rispetto all’Islam radicale armato, così come Hamas lo è rispetto alla penetrazione salafita e qaedista nella Striscia. Quel che è certo, è che le «Primavere arabe», al di là delle valutazioni di merito sulla loro natura e soprattutto sulla loro, presunta, deriva islamica, hanno spazzato via l’illusione, da molti coltivata in Israele, di poter fermare la Storia e congelare la geopolitica mediorientale.
In questa ottica, anche Bashar al-Assad finisce per essere, agli occhi di Netanyahu, un «Male minore». Problematiche regionali e questioni interne s’intrecciano indissolubilmente in un futuro che si fa presente per Israele. E l’Israele che esce dalle urne è un Paese sospeso tra paure e speranze, tra un passato che non passa e un futuro che fa fatica a delineare aperture. A fronte di un’alternativa che stenta a delinearsi in progetto prim’ancora che in numeri elettorali, si para una destra che continua a pensarsi e a pensare Israele come in trincea. Una trincea psicologica, oltre che materiale. Trasformare Israele in un fortino e resistere contro tutti, è parte della narrativa della destra israeliana. Una narrazione che rischia di imprigionare Israele. E con esso, l’intero Medio Oriente. E in questo scenario, perennemente sospeso tra guerra e pace, che Netanyahu prova a mantenersi in vita (politica). Probabilmente ci riuscirà. A fatica, perché la sua, alla luce degli eventi che hanno determinato il risultato delle elezioni del 22 gennaio, resta comunque una «vittoria di Pirro»

il Fatto 2.2.13
Yair Lapid
Il “Clooney d’Israele” ago della bilancia della pace
di Roberta Zunini


LAPID, EX PRESENTATORE TV E UOMO NUOVO DELLA POLITICA, GUIDA I MODERATI ED È PRONTO A FORMARE IL GOVERNO CON NETANYAHU

Tel Aviv Da principe della tv a imperatore della politica israeliana. Non c'è dubbio. Ma tanti sono i dubbi sulla figura glamour di Yair Lapid, in questi giorni decisamente impegnato a ottenere i ministeri più pesanti per sé e per i propri candidati. Che non sono, come del resto Lapid stesso, esponenti di quella middle class senza speranza e depauperata che ha votato in massa per il suo partito di plastica: Yesh Atid, C'è un futuro. Basta guardarsi intorno, anche qui nella sua città natale, la più spensierata di Israele, per scoprire un Paese attanagliato dalla crisi economica, dove c'è un futuro solo per i più inseriti e ricchi, specialmente di origine askenazita, proprio come Yair.
MA PER QUEST'UOMO, che ha fatto della bellezza e del vigore fisico – quello che manca a tanti giovani disoccupati, homeless e affamati - una delle caratteristiche di cui va più fiero, il futuro era già garantito fin da quando, bambino, guardava dalla tv della sua casa di famiglia nel quartiere più chic di Tel Aviv, Ramat Aviv Gimel, il padre Tommy. Noto giornalista e in seguito leader di un partito costruito a tavolino. Una carriera scontata anche per il principe ereditario e la stessa tipologia di partito. Il bottino elettorale se lo aspettava. Perché uno come lui non può che sentirsi il volto giusto, al momento giusto. Nonostante la pochezza e vaghezza del suo discorso politico, e anni di pubblicità per una delle banche più potenti di Israele, il ceto medio strangolato dalle banche, ha scelto lui. Perché, cadute le illusioni di miglioramento delle condizioni economiche, della pace, della qualità della vita, tanto vale lasciarsi ipnotizzare dalla star della tv, dall'uomo di successo che offre un transfert, agli occhi dei più, gratuito: una croce su una scheda. E chi se ne frega se il bel fustigatore della finanza, della corruzione della classe dirigente, quando intervistava i politici, i banchieri, i lobbysti era accondiscendente e rispettoso nei loro confronti, anziché chiedere loro conto del debito pubblico raddoppiato e della disoccupazione crescente. Eppure questo succedeva ancora a due mesi dalla sua “salita” in politica.
Lapid ha dato le dimissioni a soli due mesi dall'annuncio della sua candidatura. Questo bell'uomo che annunciò di correre per la poltrona da primo ministro, senza dimettersi dalla tv e dal quotidiano Yedioth Aronoth dove ha scritto, fino a qualche giorno prima della candidatura, una rubrica settimanale. Non aveva intravisto un conflitto d'interessi in questo suo pontificare dai media nazionali mentre preparava la nuova maschera di messia della politica. Venduta la Bmw da imprenditore di successo e da ex adolescente rubacuori, ha acquistato una più modesta jeep. Ma non ha rinunciato alla boxe, questa no. Soprattutto nel giorno delle elezioni. Probabilmente per sentire più vicino il suo idolo: Muhammad Ali. Ma sarebbe meglio usare il suo nome d'arte, Cassius Clay, perché a Lapid non interessa certo la seconda vita del grande boxer, quando divenne pacifista e finì in galera per essersi rifiutato di andare in Vietnam. Lì, convertitosi all'Islam, cambiò nome. C'è però da auspicare che il grande Mohammad non se ne accorga dall'aldilà, perché gli toglierebbe la protezione: come sopportare uno che dice di ispirarsi a lui mentre tentava di iscriversi a un dottorato universitario senza nemmeno avere un diploma di scuola superiore, confidando nelle conoscenze e nelle amicizie importanti?

Corriere 2.2.13
Passo indietro sulla contraccezione. Obama apre a cattolici ed evangelici
Associazioni religiose esentate dall'obbligo di copertura sanitaria integrale
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Barack Obama cambia rotta sulle spese per la contraccezione contestate dalle organizzazioni religiose. Queste ultime — chiese, ma anche scuole, ospedali e altre non profit confessionali — non pagheranno nessuna delle prestazioni fornite ai loro dipendenti nell'area del controllo delle nascite, come vorrebbe il meccanismo dell'assicurazione sanitaria obbligatoria prevista dalla riforma sanitaria varata due anni fa dal Congresso e che ora sta andando a regime. Le donne che lavorano per loro potranno comunque utilizzare le varie forme di contraccezione, compresa la pillola del giorno dopo, ma queste prestazioni saranno gestite e pagate direttamente dalle società assicurative.
Il compromesso sulla spinosissima questione annunciato ieri dalla Casa Bianca può apparire una marcia indietro, ma già nel febbraio scorso, davanti alla sollevazione di cattolici ed evangelici, Obama aveva promesso di correggere la riforma in modo da tener conto dell'obiezione etica delle organizzazioni ecclesiastiche senza violare i diritti dei cittadini. La prima correzione era arrivata 11 mesi fa quando il governo aveva escluso le organizzazioni religiose in senso stretto dall'obbligo di fornire al personale una copertura sanitaria comprendente anche il controllo delle nascite.
Ma le gerarchie ecclesiastiche avevano continuato a protestare a gran voce giudicando assolutamente insufficiente quell'esenzione che, riservata al personale la cui attività principale è quella di inculcare i valori religiosi, lasciava fuori, ad esempio, i dipendenti di scuole e case di cura cattoliche. Da lì una lunga serie di controversie giudiziarie e l'impegno a rivedere tutta la materia preso allora dallo stesso Obama.
Riflessione lunga e laboriosa per l'estrema difficoltà di trovare una soluzione efficace e capace di garantire tutti. Quella proposta ieri dal ministro della Sanità, Kathleen Sebelius, arriva quando ormai la polvere di un'accesissima campagna elettorale si è depositata da tempo. In questo clima meno infuocato, ieri, tanto le organizzazioni per la tutela dei diritti delle donne quanto esponenti della Chiesa come il cardinale di New York Timothy Dolan hanno espresso apprezzamento per lo sforzo della Casa Bianca di trovare una soluzione equilibrata.
Equilibrio che però, inevitabilmente, va a scapito della semplicità e della chiarezza. Chi pagherà per la contraccezione? Nell'immediato gli assicuratori, ma non è ben chiaro perché debbano farlo. Il ministero parla di un interesse oggettivo delle compagnie perché con più controllo e contraccezione i costi sanitari sanno più bassi. Ma è tutto un pò vago. Le parti adesso hanno 60 giorni di tempo per formulare obiezioni e controproposte: poi il ministero raccoglierà tutto ed emetterà le nuove norme attuative della riforma.
Un'altra complicazione deriva dal fatto che in alcuni casi (ad esempio gli ospedali) il datore di lavoro fornisce direttamente la copertura sanitaria al dipendente, senza l'intermediazione di una società assicurativa. In questo caso chi gestisce le pratiche di contraccezione? «Verrà identificato un terzo soggetto» assicura la Sebelius. Tutto piuttosto macchinoso.
La misura proposta dalla Casa Bianca, comunque, rasserena il clima e farà cadere le 40 cause intentate da organizzazioni religiose che avevano fatto ricorso contro la norma. Ma non le 10 azioni giudiziarie di società for profit che, pur svolgendo un'attività commerciale hanno chiesto — e spesso ottenuto — dai magistrati la sospensione dell'applicazione della riforma Obama sulla base delle convinzioni religiose dei loro amministratori.

Corriere 2.2.13
Carestia delle patate e odio etnico. Dublino scopre il cinismo di Londra
di Dino Messina


Per un motivo squisitamente politico, sradicare il retroterra ideologico ai terroristi dell'Ira, gli storici irlandesi non hanno affrontato con la dovuta obiettività il tema delle responsabilità inglesi durante la gigantesca carestia delle patate che colpì il Paese tra il 1847 e il 1852. Ora il maggior storico irlandese, Tim Pat Coogan, interviene con un saggio pubblicato da Palgrave Macmillan, The famine plot, il complotto della carestia, e chiama con la scomoda espressione di «pulizia etnica» quella che non fu soltanto un accidente naturale, la comparsa nel 1845 di un fungo (la peronospera) che distrusse i raccolti di patate, principale fonte di alimentazione degli irlandesi, ma anche la conseguenza di decisioni politiche prese a Londra.
L'Irlanda era stata costretta dall'inizio dell'Ottocento all'unione politica con l'Inghilterra, retta negli anni Quaranta da un Governo Whig guidato da John Russel, «tenace sostenitore di un liberismo sfrenato incentrato sulla dottrina del laissez faire», ha ricordato lo storico irlandese in un'intervista a Riccardo Michelucci di Avvenire.
Mentre la carestia uccideva la popolazione irlandese, ha raccontato Coogan, non solo a Londra non veniva decisa alcuna azione a sostegno dei cugini in difficoltà, ma dal porto di Dublino continuavano a partire derrate alimentari dirette in Inghilterra. La tragedia che causò un milione di morti e la forzata emigrazione soprattutto verso gli Stati Uniti e l'Australia venne gestita con cinismo dal ministro del Tesoro Charles Trevelyan, il quale — ricorda Coogan nell'intervista ad Avvenire — «nutriva un sincero e profondo odio antirlandese», al punto da affermare che «Dio aveva punito i cattolici irlandesi per i loro comportamenti superstiziosi e la loro devozione nei confronti del Papa».
La miscela di ultraliberismo e odio etnico-religioso alimentato da una stampa contraria alle posizioni del patriota cattolico Daniel O'Connell favorì una razionalizzazione delle proprietà agricole irlandesi che sfruttava con cinismo proprio la riduzione demografica causata da fame ed emigrazione. Gli storici insegnano che è sbagliato giudicare moralisticamente i fatti del passato con le sensibilità contemporanee, ma i fatti e i conflitti vanno sempre raccontati anche nella loro crudezza.

La Stampa 2.2.13
Il taxi simbolo di Londra fallisce e diventa cinese
La Geely acquista il marchio dello storico “cab”
di Claudio Gallo


L’AZIENDA GIÀ PROPRIETARIA DELLA VOLVO SBORSA 11,4 MILIONI DI STERLINE

Dal dopoguerra l’Inghilterra ha perso molti pezzi del suo antico primato ma non la fierezza, tanto che in un mondo che vive d’immagini, lo stesso orgoglio britannico è diventato un prodotto: se no perché i cinesi della Geely avrebbero dovuto comprare le fabbriche del vecchio cab nero, il taxi simbolo di Londra? La cosa non dovrebbe stupire più di tanto se si considera che Mini e Land Rover sono tedeschi, le scarpe Church’s di Prada, alcuni tra i più celebri club calcistici hanno padroni arabi, americani e russi, e il grattacielo più alto di Londra, lo Shard di Piano, è stato costruito con i soldi del Qatar.
Per 11,4 milioni di sterline l’azienda automobilistica cinese ha comprato impianti e attività della «Manganese Bronze Holding» che produce, con il marchio LTI, gli scarafaggi neri a quattro ruote che scorrazzano in ogni angolo della capitale. Veramente l’attuale «Hackney Carriage», come si chiamava una volta, è già una versione rivisitata dell’icastico FX4, in buona parte prodotto dalla Austin, con un motore Land Rover diesel da 2495 cc (alcuni modelli montavano un diesel Nissan) che per il XXI secolo consuma e inquina decisamente troppo.
I cinesi sono arrivati al momento giusto, accolti come salvatori. La LTI di Coventry era in amministrazione controllata da ottobre e aveva già dovuto licenziare quasi la metà dei lavoratori. Con cupa ironia, la crisi era nata dal fatto che la fabbrica, che produce circa 2700 modelli l’anno, aveva dovuto richiamare 400 automobili per un grave difetto allo sterzo, un componente prodotto proprio in Cina.
Li Shu Fu, presidente della Zejiang Geely Holding, ha detto: «Abbiamo piani commerciali ambiziosi. Nonostante ci siano alcuni ostacoli da superare, siamo impegnati ad assicurare un futuro al business dei taxi neri».
La Geely, casa madre a Hanhzhou, non è la prima volta che fa le compere in Europa, essendo già proprietaria della svedese Volvo. Dal 2006 possedeva il 20% della Manganese che ha finanziato in questi anni con 18,6 milioni di sterline. Recentemente aveva rifiutato di mettere ancora mano al portafogli per affrontare la crisi. Ha preferito comprare.
Lo stabilimento di Coventry dovrebbe continuare a produrre cab per il mercato britannico, mentre in Cina saranno prodotti modelli con la guida a sinistra. Il sindaco di Londra, Boris Johnson è «deliziato» dall’acquisizione cinese: «Assicura la produzione - ha dichiarato - di un veicolo celebre nel mondo e istantaneamente riconoscibile, il simbolo di Londra». Roger Maddison dirigente sindacale di «Unite the Union» commenta alla Bbc: «La Geely ha dei piani ambiziosi. Speriamo sia un’altra Jaguar Land Rover con un sacco di investimenti. Qui a Coventry potrebbe nascere una vera storia di successo».
La sfida futura comporterà inevitabilmente la progettazione di nuovi modelli, ma è una strada in salita. Da tempo i giapponesi hanno disegnato modelli più razionali ed ecologici dell’attuale FX4S. Tra un anno dovrebbe debuttare sulle strade della capitale il Nissan NV200 che ha, per ora, tutti i più e i meno giusti per vincere la sfida.

Corriere 2.2.13
Il milionario che vende aria fresca (in lattina)
Protesta contro lo smog che avvelena Pechino
di Guido Santevecchi


PECHINO — Sotto un grattacielo di Pechino, immerso in una nebbia tra il giallo e il grigio che somiglia a una soluzione chimica. Sul marciapiede sono impilate centinaia di lattine: sull'etichetta un faccione sorridente e la scritta «Aria fresca» seguita dalla promessa che sarebbe stata catturata in remote e quasi incontaminate regioni della grande Cina, dallo Xinjiang a Nordovest fino alle coste che lambiscono Taiwan a Sudest.
Sembra un tentativo di truffa da Totò e Peppino divisi a Pechino, ma la gente si ferma, guarda e ascolta. Perché il faccione stampato sulle lattine è molto popolare: appartiene a Chen Guangbiao, 44 anni, multimilionario che ha fatto fortuna riciclando materiale di scarto dell'edilizia e ama definirsi il più grande filantropo della Repubblica popolare.
Il signor Chen è presente e arringa i passanti, che per due settimane non hanno visto il cielo sopra Pechino per colpa della coltre di inquinamento. «Io, tutti noi: dobbiamo dire ai sindaci e ai capi delle grandi industrie che non si deve inseguire la crescita della produzione e il profitto a costo della salute dei nostri figli e nipoti, distruggendo il sistema ecologico». Una pausa, poi l'urlo finale: «Se non facciamo qualcosa subito, tra dieci anni i sopravvissuti dovranno portarsi appresso maschere antigas e bombole a ossigeno». I pechinesi assentono e per buona precauzione afferrano la loro lattina di «Aria fresca» dello Xinjiang.
Chen Guangbiao (in cinese il suo nome vuol dire buonuomo) è un vero filantropo: in passato ha già utilizzato la sua ricchezza valutata in oltre 650 milioni di euro per soccorrere i terremotati del Sichuan arrivando con una colonna di camion e ha anche donato denaro alle vittime dello tsunami in Giappone. Richiamare l'attenzione sull'inquinamento letale che secondo gli scienziati sarebbe peggiore della Sars è una critica indiretta alle autorità, evidentemente responsabili del disastro ambientale, ma Chen Buonuomo si è coperto le spalle: in autunno ha comprato un'intera pagina di pubblicità sul New York Times per spiegare agli americani che le isole Diaoyu (Senkaku per il Giappone che le controlla) sono cinesi.
Comunque il problema che il milionario solleva con le sue lattine è di gravità devastante: l'inquinamento dell'aria è misurato in Pm 2,5 (particelle del diametro di 2,5 micron), le più dannose per i polmoni. L'Organizzazione mondiale per la sanità raccomanda di non vivere in ambienti che superino il livello 20 e sostiene che quota 300 è estremamente pericolosa, da chiudersi in casa: Pechino ha trascorso un gennaio a 500 e ha toccato 755 particelle di Pm 2,5 per metro cubo di aria il 12 gennaio. Ci sono stati centinaia di malori e ricoveri. Lo stesso problema in altre decine di grandi città sparse su un'area della Cina centrosettentrionale vasta oltre un milione di chilometri quadrati.
Per qualcuno è anche un affare: la Yuan Da, società che produce purificatori dell'aria per palazzi dice di aver venduto 3,5 milioni di macchine a gennaio, rispetto a 1 milione a ottobre. La Philips, che è sullo stesso mercato, annuncia un balzo del 300 per cento. Moltiplicate per 30 le vendite di app per seguire sugli smartphone i dati dell'inquinamento urbano. I supermercati vendono mascherine da chirurgo.
Il signor Chen Buonuomo l'altro giorno ha regalato la sua Aria fresca, ma il prezzo è di 5 yuan (circa 60 centesimi) a lattina e il filantropo numero uno della Cina sostiene di averne vendute 8 milioni negli ultimi 10 giorni: tutti i proventi sarebbero destinati alle regioni più povere e al recupero di località rese celebri dall'epopea rivoluzionaria.

Corriere 2.2.13
La Russia rivaluta Stalin e gli restituisce la sua città
Volgograd torna a chiamarsi Stalingrado per un giorno
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Per i tedeschi quel nome era un incubo. A Stalingrado era finita l'invincibilità della Wehrmacht e per la prima volta un feldmaresciallo era stato catturato dal nemico con tutti i suoi uomini. Per i russi fu l'inizio della riscossa. Dopo mesi di ritirata, con milioni di uomini caduti prigionieri, a Stalingrado l'Armata Rossa aveva sferrato una controffensiva micidiale. Da quel momento l'iniziativa rimase quasi costantemente nelle mani sovietiche, fino alla Cancelleria del Reich a Berlino.
Oggi la resa delle truppe tedesche accerchiate nella città sul Volga sarà celebrata alla presenza di Putin, anche con attori che faranno rivivere la scena all'interno del grande magazzino semidistrutto dove aveva sede il comando di Friedrich von Paulus.
E per disposizione del comune, il nome di quella che dal 1961 si chiama Volgograd tornerà a essere Stalingrado: oggi e in altre cinque occasioni che durante l'anno segnano importanti eventi della Seconda guerra mondiale. Alcuni autobus, inoltre, gireranno con il ritratto del dittatore sovietico sia a Volgograd sia a San Pietroburgo sia a Chita, città siberiana.
Naturalmente non sono mancate le polemiche, anche se buona parte dei russi non sembra in disaccordo e lo stesso presidente Vladimir Putin ha chiarito ieri il suo pensiero parlando davanti ai veterani di quell'epico scontro: «La verità è che la vittoria in quella grande battaglia fu ottenuta dai leader militari e dai soldati sovietici».
Certo, ma Stalin? Uno dei responsabili dell'organizzazione Memorial, che si occupa della riabilitazione delle vittime delle persecuzioni sovietiche, ha condannato il ritorno al vecchio nome. «È chiaro che storicamente non si può che parlare della battaglia di Stalingrado, ma ribattezzare la città è un altro conto. Se la Russia ebbe tanti morti, la colpa fu proprio di Stalin che non esitò a massacrare milioni di suoi concittadini».
I veterani e i dirigenti del partito comunista in realtà premono perché la città torni definitivamente al vecchio nome che fu cambiato da Krusciov dopo la denuncia dei crimini di Stalin. Hanno raccolto 50 mila firme che sono state consegnate a Putin.
Vari sondaggi indicano come negli ultimi tempi la figura del dittatore sia stata molto «rivista» dai russi, nonostante quasi ogni famiglia abbia un nonno o un bisnonno finito nel gulag. L'anno scorso solo il 22 per cento degli intervistati dal centro statistico Levada ha detto di ritenere che Stalin abbia giocato un ruolo negativo nello sviluppo del Paese, mentre il 48 per cento dà di Stalin un giudizio positivo. Tiranno, ma anche leader d'acciaio che guidò il Paese alla vittoria, secondo una vulgata comune. «Non giustifico le repressioni, ma bisogna riconoscere che ha fatto anche cose positive» ha dichiarato alla Reuters il novantaduenne Gamlet Dallatyan.
Da un punto di vista militare, è ormai assodato che la catastrofe iniziale fu dovuta in buona parte proprio a Stalin che aveva smembrato i vertici dell'esercito. Poi, anche con il suo terribile ordine 227 («non un passo indietro»), impedì lo sfacelo dell'Armata Rossa.
Stalingrado non aveva una particolare importanza militare, ma divenne un simbolo, tanto per Adolf Hitler che per Stalin. Si combatté sanguinosamente casa per casa, con più di un milione di morti. Prima avanzarono i tedeschi e poi contrattaccarono i sovietici. L'accerchiamento avvenne nei mesi più freddi del 1942-1943. La vasta operazione sovietica coinvolse anche le divisioni italiane schierate sul Don che furono costrette a una tragica ritirata per non rimanere isolate. I prigionieri furono moltissimi e solo pochi riuscirono a sopravvivere alle marce di trasferimento e ai durissimi campi sovietici.

Corriere 2.2.13
Il sogno di Katja, la Vendola tedesca: tassare i super ricchi fino al 100%
di Paolo Lepri


L'inferno per i ricchi, sognato da Nichi Vendola, ha una variabile moralistico-punitiva in salsa tedesca, magari quella rossa e piccante che si mette a Berlino sul currywurst. In questo caso si tratta di una proposta concreta che ha la firma di Katja Kipping, co-presidente della Linke: tassare al 100% i guadagni superiori a 40 mila euro al mese. Sopra una certa cifra, lo Stato si prende tutto, come al tavolo da gioco. Sarà inserita nel programma elettorale del partito per le elezioni del 22 settembre.
«Nessuno dovrebbe incassare quaranta volte di più del sussidio minimo», ha spiegato Kipping, una trentatreenne educata nella Dresda degli ultimi anni della Ddr, scelta per tentare di bloccare la crisi dell'estrema sinistra tedesca. L'idea è stata sua, ma è piaciuta subito anche a tutto il resto del gruppo dirigente. E questa è un'altra notizia, in un partito dilaniato da lotte intestine e da dissidi profondi, anche tra l'anima occidentale e quella che proviene, almeno geograficamente, dalla Germania comunista. «Le diseguaglianze esplosive minacciano la società», ha spiegato l'altro co-presidente della Linke, Bernd Riexinger. Proprio per questa ragione, ha aggiunto, «fissare un limite ai guadagni è una tassa per la democrazia». Il battesimo è avvenuto. Come diceva uno slogan del maggio francese, «prima facciamo le cose, poi diamo il nome alle cose che facciamo».
Qui però siamo in Germania, e il 1968 è passato da un pezzo. Le possibilità che la proposta si trasformi in realtà sono naturalmente inesistenti. Si tratta di un effetto-annuncio, come si direbbe da noi, perché è molto bello e forse anche romantico suggerire provvedimenti impraticabili. Tassare i super-ricchi invece non è mai facile, come sa il presidente francese François Hollande. E soprattutto, un programma di governo ha bisogno di una strategia delle alleanze. Gli unici interlocutori della Linke, almeno in teoria, sarebbero i socialdemocratici. Il candidato cancelliere della Spd, Peer Steinbrück, ha guadagnato 1,2 milioni di euro per discorsi e interventi dopo l'esperienza di ministro delle Finanze nell'esecutivo di coalizione guidato da Angela Merkel. È stato costretto alla difensiva, ha dovuto giustificarsi e spiegare, ma non se ne è mai vergognato. Nel frattempo, la «tassa per la democrazia» servirà almeno a portare consensi ad una Linke in pessima salute? Difficile prevederlo. Ma se qualche voto in più arriverà, farà sempre la stessa fine. Sarà messo in frigorifero.

l’Unità 2.2.13
Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione
Guardiamo in faccia il narcisismo
di Marco Rovelli


“Togliatti e Sraffa nascosero il quaderno mancante
LA VITA COLLETTIVA, HA SCRITTO DI RECENTE MASSIMO RECALCATI, «SEMBRA INCISTARSI IN UNO SPECCHIO NARCISISTICO».
L’arroccamento sulle proprie identità chiuse, patologie come l’anoressia, il culto del corpo, ma anche «l’obbligo di connessione permanente», ovvero la rete come luogo di chiusura invece che di apertura. Una lucida diagnosi sociale, di cui lo psicoanalista milanese ha restituito le fondamenta in un recente libro: Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione (edito da Cortina). In questo ampio volume Recalcati raccoglie le sue ventennali riflessioni sul pensiero del suo «maestro», riuscendo a darci una lettura approfondita ma mai oscura del «neoesistenzialismo» di Lacan. Impossibile anche solo pensare di riassumere il senso di questo libro: basterà dire che, una volta attraversato questo territorio, risulterà difficile leggere il mondo nello stesso modo. A questa «rinascita lacaniana» partecipa anche Federico Chicchi, sociologo del lavoro, che in Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo (edito da Bruno Mondadori) scandaglia la produzione di soggettività da parte del capitalismo neoliberale contemporaneo: una soggettività che non conosce più distinzione tra pubblico e privato, tra tempi di lavoro e tempi di vita, nella ormai classica tesi del pensiero postoperaista. Ma l’importo notevole di questo libro è appunto quello di ibridare questo percorso con le categorie lacaniane, quel Lacan del discorso del capitalista che lo stesso Recalcati ha posto all’attenzione, per cui i soggetti sono consegnati a un puro godimento dell’oggetto, perdendo di vista il proprio desiderio e annichilendo la propria libertà. Due libri, insomma, che ci propongono di guardare dritto in faccia il nostro «delirio narcisistico di libertà», per uscire dalle sue secche, dal suo vuoto.

Repubblica 2.2.13
“Togliatti e Sraffa nascosero il Quaderno mancante”
Franco Lo Piparo: nuovi dettagli sul caso del taccuino che avrebbe imbarazzato il Pci Il “Migliore” e il grande economista avrebbero sottratto il documento alla cognata del filosofo
di Simonetta Fiori


Per Franco Lo Piparo, lo studioso lanciato sulle tracce di Gramsci, non vi sono più dubbi. È esistito un quaderno di 26 pagine, targhetta XXXII, poi scomparso. Bisognerebbe cercarlo tra le carte di Togliatti e Sraffa. Il suo contenuto? Non è dato saperlo. Forse riportava feroci critiche all’ex amico, forse l’abiura al comunismo tout court.
L’unica cosa certa, si trattava di un materiale scottante, «di difficile digestione per una mente comunista di quegli anni». Bisognava tenerlo nascosto. Lontano dal Comintern. Secretato anche per i compagni italiani. Ne andava di mezzo il destino del partito. Ma il taccuino è esistito eccome, ribadisce Lo Piparo alla fine di una sua nuova investigazione sugli originali dei manoscritti gramsciani, confrontati con una riproduzione fotografica realizzata negli anni Quaranta e fin qui sconosciuta.
L’enigma del quaderno (pagg. 162, euro 18) è il titolo del suo nuovo saggio in uscita da Donzelli, ultima puntata di una spy-story che non accenna a chiudersi. Le critiche piovute sul suo precedente Gramsci e i due carceri, peraltro insignito del Viareggio, non sembrano averlo scoraggiato. Sono stato sbeffeggiato, dice l’autore, ma non importa, io vado avanti. E vi dimostrerò che ho ragione.
Davvero è in grado di dimostrarlo? Il libro esce ancor prima degli esiti definitivi della commissione promossa dall’Istituto Gramsci per far luce sul quaderno scomparso. Quasi volesse giocare d’anticipo, nell’eccitata contesa che divide la cittadella gramsciana. Per Lo Piparo — affiancato nell’impresa da Luciano Canfora — è tutto chiaro. I quaderni di contenuto storico-teorico-politico sono trenta e non ventinove, come invece risulta dalle diverse edizioni, e qualche mano abile ha sottratto un taccuino.
Il colpevole? La regia è attribuita a Togliatti — astutissimo stratega della pubblicazione dell’opera — ma il responsabile materiale del furto viene individuato nel suo complice Piero Sraffa, l’insigne economista citato da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche.
Secondo la ricostruzione di Lo Piparo, fu Sraffa a ingannare la povera Tania Schucht, la cognata incaricata dallo stesso Gramsci di porre in salvo i mano-scritti, destinandoli non ai compagni italiani ma alla moglie Giulia. Il trappolone scatta tra il 30 giugno e il 1 luglio del 1937 (Gramsci è morto in aprile). Il “compagno Piero” viene a Roma e chiede a Tania di portargli a casa tre dei quaderni che la donna andava affannosamente catalogando. Di questi tre taccuini, nessuno è restituito a Tania. Due però raggiungeranno gli altri quaderni intanto volati a Mosca (La filosofia di Benedetto Croce
e Niccolò Machiavelli).
Il terzo, invece, rimarrà nello scrigno segreto di Togliatti. Per sempre condannato all’oblio.
Perché proprio Sraffa nel ruolo del trafugatore? L’economista è persona informata dei fatti. Conosce i contenuti di quel taccuino, presumibilmente annotato durante il ricovero nella clinica Quisisana, tra l’agosto del 1935 e il 27 aprile del 1937. Il suo amico Antonio deve avergli detto qualcosa. Fu durante una di quelle conversazioni che Gramsci demolì la pratica dell’autoaccusa su cui si reggevano i processi staliniani. «Diceva che la confessione è un principio giuridico del Medioevo », riferirà Sraffa ad Alfonso Leonetti. Sraffa sa che quel quaderno è troppo pericoloso. Non può finire nelle mani sbagliate. È necessario sottrarlo alla ignara Tania.
Fin qui il suggestivo racconto di Lo Piparo, non privo di un suo fascino romanzesco. Ventisei pagine finora segrete in cui Gramsci distrugge le fondamenta del comunismo sovietico: una golosità per il lettore democratico di oggi. Ma come dimostrarlo? Con commovente acribia l’indagine porta alla luce tutta una serie di incongruenze nella catalogazione. Fa notare che su un quaderno privo dell’etichetta vergata da Tania ne è stata aggiunta un’altra, che lo studioso attribuisce “probabilmente” a Valentino Gerratana (targhetta XXXIII). Insiste sulla bizzarra circostanza che sotto un’etichetta che indica il numero XXIX ne figura un’altra con il numero XXXII. Passa in esame tutte le curiose discrepanze tra gli originali russi e le traduzioni italiane “ufficiali” (qui il bersaglio è soprattutto Giuseppe Vacca, accusato di aver tradotto un’indicazione precisa di Tania — «Sono in tutto XXX pezzi» — nell’espressione più vaga: «I quaderni saranno una trentina»). Richiama l’attenzione su un secondo quaderno dove Tania avrebbe continuato ad annotare l’indice dei Quaderni, anche questo scomparso. Si dà da fare, Lo Piparo, nell’ina nellare una serie di sparizioni, pagine strappate, singolari contraddizioni. Ma quest’affastellamento di indizi, frutto di una dedizione stupefacente, stenta a tradursi in prova filologica convincente.
Per andare avanti, il racconto necessita di quella che lo studioso definisce “phantasia logiké”, «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro volta ancorate a fatti reali». Un esercizio anche legittimo, che però è cosa diversa dalla ricostruzione storica, su fonti certe e non su congetture. Seguendo gli stessi indizi, si può approdare a risultati opposti. Ne è chiara dimostrazione proprio l’editore di Lo Piparo, Carmine Donzelli, antico cultore di Gramsci: in una sua recente pubblicazione fa morire il prigioniero da leninista duro e puro, e non da liberademocratico, come in fondo vorrebbe Lo Piparo. Senza poi trascurare il curioso effetto di straniamento che l’esercizio indiziario può produrre nel lettore. Prendiamo la lettera scritta da Tania a Sraffa il 7 luglio del ‘37, poco dopo il presunto “furto”. «Ieri ho consegnato i quaderni (tutti quanti): ed anche il catalogo che avevo iniziato», annota meticolosamente la cognata di Gramsci. Secondo lo studioso, l’inciso parentetico — (tutti quanti)— sarebbe un segnale di disappunto e
sta a significare: ho eseguito l’ordine, non ho trattenuto nessun quaderno e, naturalmente, non ho potuto consegnare quelli che ti sei preso. Interpretazione abbastanza lunare, ma forse la “phantasia logiké” è un’arte che non ammette confini.
L’immaginazione galoppa anche sul versante delle etichette. Delusa e ferita da Sraffa, Tania avrebbe escogitato uno stratagemma da agente segreto — e Lo Piparo lascia intendere che ne conoscesse bene l’arte — per far capire a Giulia (la moglie destinataria degli scritti) che esistevano altri tre quaderni (quelli rubati da Sraffa). Cosa inventa Tania? Prende le etichette destinate ai tre quaderni rubati, già scritte ma non ancora incollate sui libri portati a casa di Piero, e decide di utilizzarle comunque incollandole sugli ultimi tre quaderni che erano ancora senza etichetta. Poi sulle etichette “false” incolla quelle vere, con il numero delle pagine e con le descrizioni dei quaderni. Da qui Lo Piparo non esita a individuare in quel numero XXXII nascosto sotto l’etichetta XXIX l’inequivocabile cifra del quaderno mancante.
A fare le spese di questa nuova ricostruzione è principalmente Sraffa, ritratto con un profilo bifronte: da una parte astuto agente del Comintern (che però nasconde al Comintern la natura esplosiva dei Quaderni); dall’altra figlio d’una influente famiglia ben inserita nei gangli del potere fascista, che si adopera in mille modi per la scarcerazione del prigioniero. Un’immagine poco limpida, che sembra riacquistare l’antica luce solo quando Lo Piparo ritorna sul terreno che più padroneggia — la linguistica — e accenna agli interessantissimi intrecci tra le conversazioni con Gramsci e le conversazioni con Wittgenstein, di cui rinviene traccia negli ultimi scritti del filosofo austriaco. Ma è solo una parentesi purtroppo, subito chiusa perché estranea all’indagine in corso. Che – promette (o minaccia) l’autore – non mancherà di darci presto nuove sorprese.
“L’enigma del quaderno” di Franco Lo Piparo (Donzelli, pagg. 128, euro 18)

Repubblica 2.2.13
La replica di Vacca “Un’ipotesi che sembra inverosimile”
di S. F.


Parla il presidente dell’istituto intitolato all’intellettuale. “Non abiurò mai alla fede comunista”

«Il Quaderno mancante? Non mi sono mai posto il problema. Ma l’ipotesi di un Gramsci che abiura alla fede comunista mi sembra fantasmatica». È molto prudente Giuseppe Vacca nel maneggiare l’enigma del taccuino scomparso. In qualità di presidente della Fondazione Gramsci, ha istituito la commissione che indaga sulla faccenda, ma preferisce ritagliarsi il ruolo del notaio. Come se la cosa non lo riguardasse. «Mi sono sempre mosso su un altro terreno, che è quello dei contenuti. E sul piano dell’evoluzione del lessico e dei concetti, non sono rilevabili salti o buchi».
Ma l’ipotesi avanzata da Lo Piparo è che questo quaderno contenesse riflessioni indigeste per i comunisti.
«Stiamo ai fatti. Una volta uscito dalla galera, Gramsci avrebbe voluto andarsene a Mosca, non altrove. Il suo comunismo era eterodosso, ma da qui a farne un liberaldemocratico... ».
A questo proposito però l’Istituto Gramsci non è del tutto innocente. Dopo il crollo del Muro, il leader sardo divenne un pensatore ingombrante. Il recente libro di Guido Liguori, Gramsci conteso, ripercorre le letture che fiorirono intorno al Gramsci “liberale”, funzionale all’evoluzione del Pci in Pds etc.
«Ma fu proprio per sottrarre Gramsci alle strumentalizzazioni che allora mi battei per l’Edizione Nazionale delle sue opere. E poi non è mai esistita un’interpretazione ufficiale degli scritti gramsciani da parte dell’istituto».
E perché allora il conflitto con Togliatti venne prima negato e poi tenuto sullo sfondo?
«Finché è vissuto Togliatti, è stato lui a gestire le carte. E poi fino all’83 l’istituto è rimasto una sezione del comitato centrale del Pci, facilmente imputabile di essere organico al partito. Però non ha mai smesso di promuovere edizioni e convegni».
Non c’è dubbio. Fu dopo l’89 che Gramsci scomparve quasi completamente dalla circolazione culturale. E addirittura nel ’96 lei fece causa a Elvira Sellerio perché aveva pubblicato una nuova edizione delle Lettere.
«Fui obbligato a farlo, per sostenere Einaudi. Ma certo mi davo da fare con l’editore torinese perché ne riproponesse gli scritti».
Ma ancora oggi manca nelle librerie l’edizione completa delle Lettere.
«Sì, è vero, ne ho parlato con Einaudi anche di recente».
Che idea s’è fatto delle nuove ricerche di Lo Piparo?
«Si muove su un terreno che io non domino. Posso dirle che né Gianni Francioni né Valentino Gerratana, che hanno fatto un lavoro filologico sui Quaderni, si sono mai imbattuti nelle tracce di un taccuino mancante».
Ma lei studia Gramsci da cinquant’anni, si sarà fatto un’idea delle discrepanze segnalate da Lo Piparo.
«Non intervengo su cose che non conosco. Come presidente dell’istituto, ho promosso tutte le indagini tecniche possibili per dare una risposta alle questioni poste ora sia da Lo Piparo che da Luciano Canfora».
Si potrebbe però obiettarle che queste domande se le sarebbe potute porre anche lei molto tempo prima.
«Mi sono occupato di altre questioni. Anche perché credo che il compito dello storico non sia quello del giudice istruttore, che cerca le menzogne e le denuncia. Ho un’idea più tradizionale, che si richiama a Weber e a Croce: comprendere e spiegare».
In quest’ultimo lavoro, Lo Piparo la chiama in causa anche per le traduzioni dal russo delle lettere di Tania.
«La traduzione è di Rossana Platone, la figlia di Felice, e non mi sono mai posto il problema che non fosse fedele all’originale».
Lei ha mai sentito parlare di questo quaderno mancante? Canfora dà importanza a una recente battuta di D’Alema: «Io non me lo vedo un Togliatti che distrugge un quaderno, me lo vedo che lo conserva per tirarlo fuori in tempi migliori».
«In tanti anni non ho mai sentito parlare di quaderni scomparsi. E quella di D’Alema è chiaramente una battuta».
Lei come spiega l’effervescenza intorno a Gramsci? Donzelli l’attribuisce al fatto che oggi il pensatore è finalmente di tutti, mentre per anni lei ne ha fatto un uso quasi proprietario.
«Questa accusa è infondata. Le carte sono sempre state a disposizione degli studiosi. E non ho mai visto Donzelli qui dentro affannarsi sui documenti. Penso che molti di loro rispondano a un richiamo mediatico».
Sta dicendo che Donzelli, Lo Piparo e Canfora vogliono stare sui giornali?
«Se scoprendo di volta in volta un ossicino di Cuvier ritengono di doverci scrivere sopra un libro congetturale, naturalmente sono liberi di farlo».
Cosa pensa dei loro lavori?
«Canfora sospetta che Grieco sia stato una spia del fascismo, ma parla di un personaggio di cui non sa nulla, e gliel’ho anche detto pubblicamente. Lo Piparo ha invece una formazione strutturalista, e delle lettere tende a dare un’interpretazione “sintomale”, ignara del contesto: non mi persuade per niente».
Ma insomma questo quaderno può venir fuori o no?
«Sulla base delle mie conoscenze, l’ipotesi mi sembra inverosimile. Ma da presidente del Gramsci, avendo attrezzato un’inchiesta, non posso dire di escluderlo a priori».
(s. fio.)

Corriere 2.2.13
Quando la tecnica vuole farsi Dio La sfida blasfema tradisce l'uomo
Dare senso alla vita con la scienza, pericolosa illusione
di Giovanni Reale


Esce in questi giorni in edizione a tiratura limitata (sarà seguita tra poco da una in veste economica, con il medesimo contenuto) «La condizione umana», un volume che propone un confronto serrato fra testi di Agostino e di Pascal sull'uomo. Un dibattito che supera le differenze di tempo e di stile dei due sommi autori e si rivolge ai problemi d'oggi. Pagine tratte da «La città di Dio» o dai «Pensieri», dalle «Confessioni» o da «Le Provinciali». Le traduzioni e la scelta si devono a Carlo Carena. Il volume ha una premessa di Giovanni Reale: è un saggio che analizza e trae le conclusioni da quel confronto ideale e dalle prospettive che offre continuamente alla storia della filosofia (di tale scritto diamo in questa pagina uno stralcio in anteprima). L'opera, curata da Claudia Mettel, contiene un acquerello di Pietro Paolo Tarasco, incisore di Matera. È stata tirata su carta pregiata dal Centro Stampa Meucci di Città di Castello; è il 34° volume della collezione «Metteliana». Il coordinamento editoriale dell'iniziativa si deve all'Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo (presieduta da Paolo Andrea Mettel, bibliofilo e imprenditore). Le informazioni sul libro si possono trovare consultando il sito: www.marioluzimendrisio.com
Le forze centrifughe più deleterie si sprigionano dal paradigma scientistico-tecnicistico. Rischiano di rinchiudere gli uomini come in una gabbia (nella caverna platonica) e, di conseguenza, di far loro dimenticare che si può e si deve guardare ciò che sta oltre, ossia il trascendente, se si vuol capire l'immanente, ossia che cos'è la vera vita e che cos'è la vera morte. Ma quello che più stupisce è il fatto che alcuni degli stessi scienziati e alcuni pensatori si sono identificati in vario modo con l'Assoluto, come una sorta di sua incarnazione.
In effetti, la scienza e la tecnica, in molti casi, nella coscienza degli uomini hanno preso il posto della dimensione del religioso, nella convinzione che la scienza ci offrirà tutta la verità e che la tecnica ci risolverà tutti i problemi.
Robert Edward, padre della fecondazione in vitro, scienziato onorato del premio Nobel, sul quale la Chiesa ha sollevato (a giusta ragione) i suoi dubbi in quanto si sono ignorate le ragioni dell'etica, afferma senza mezzi termini rispetto ai risultati da lui raggiunti: «Fu un enorme successo che andò ben oltre il problema della fertilità. Riguardò anche l'etica del concepimento. Volevo scoprire chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati. Ho dimostrato che noi eravamo al comando».
Aldo Schiavone, nel suo libro Storia e destino, interpreta la frase della Bibbia secondo la quale Dio ha fatto l'uomo «a sua immagine e somiglianza», nell'ottica del futuro della rivoluzione operata dalla tecnica, nel modo che segue: «... quando la Genesi stabilisce la rassomiglianza fra l'uomo e Dio, l'assimilazione non va attribuita a questa o a quella figura che l'uomo aveva o avrebbe assunto nel corso della sua storia evolutiva — non agli uomini che hanno scritto la Bibbia — ma all'umano come progettualità e come sviluppo. Somigliare a Dio non sarebbe insomma per l'uomo la condizione di partenza, ma la stazione d'arrivo, da un certo momento in poi da noi stessi voluta e guadagnata: ciò che potremmo chiamare — se ci muovessimo su questo piano — non più laicamente nostro destino, ma religiosamente la nostra prospettiva escatologica».
Queste parole suonano, a nostro avviso, come una impressionante eco delle parole dette dal demonio a Eva sul frutto proibito (che oggi sarebbe la scienza e la tecnica trasformate in idoli e divinizzate): «Dio sa che quando voi ne mangiaste vi si aprirebbero gli occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Ma l'uomo nello stesso momento è grande e miserabile. Pascal dice: «La grandezza dell'uomo è grande in quanto si conosce miserabile». La più forte e bella definizione dell'uomo — che, di per sé, risulta essere ben altro che un Dio — e in particolare della sua grandezza e sua piccolezza, Pascal stesso l'ha data in uno dei pensieri, che a nostro avviso è uno dei più profondi. Edgar Morin nel suo libro L'identità umana (edizione italiana Cortina 2002), lo ha ripreso come trama della sua trattazione, che conferma, per altre vie della psicologia, della sociologia e del pensiero filosofico contemporaneo, la verità incontrovertibile in esso espressa. Pascal dice: «Quale chimera è dunque l'uomo? Quale stranezza, quale mostruosità, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio, giudice di tutte le cose, debole verme di terra, depositario del vero, cloaca d'incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell'universo. Cercate dunque di conoscere, o superbo, quale paradosso siete per voi stessi! Umiliatevi, ragione impotente! Tacete, debole natura! Imparate che l'uomo supera infinitamente l'uomo e ascoltate dal vostro Maestro la vostra vera condizione, che ignorate. Prestate ascolto a Dio».
Ma ascoltare Dio non basta. Occorre di più. Occorre ciò che Dio stesso ci ha dato, e che Agostino spiega in modo perfetto.
La salvezza dell'uomo è, per Agostino, Cristo stesso come «Mediatore». Il vero «Mediatore» non è un «démone» o un «intermedio» ontologico, a mezza strada fra l'umano e il divino, come pensavano i Greci, ma è Dio stesso, che mediante Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, ha conciliato il mondo con sè medesimo. Il Logos o Verbo, che era presso Dio ed era Dio, facendosi carne, diventa quel nesso che lega il mondo con se stesso e a Dio, e garantisce una unità in senso globale. Il fulcro della salvezza, dunque, è Dio stesso e la sua incarnazione.
Scrive Paolo: «E tutto viene da Dio che ci ha riconciliati a sé mediante Cristo..., in quanto Dio ha riconciliato con sé il mondo in Cristo» (Seconda Lettera ai Corinzi, 5, 18-19). E ancora: «Uno solo è Dio e uno il Mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Gesù Cristo» (Prima Lettera a Timoteo, 2, 5-6). Agostino mette questo tema perfettamente a fuoco in varie sue opere, e in particolare nel finale del libro decimo delle Confessioni e nella Città di Dio, in cui si legge: «Se, secondo la tesi più attendibile e probabile, tutti gli uomini finché sono mortali sono anche inevitabilmente miserabili, bisogna ricercare un mediatore che non sia solo uomo ma anche Dio, capace con l'intervento della sua mortalità felice di condurre gli uomini dalla loro miseria mortale all'immortalità felice; e questo mediatore non doveva diventare né rimanere mortale».
Cristo come Dio beato e beatificante, facendosi uomo, ossia «condividendo la nostra natura, ci offrì la sintesi con cui partecipare alla sua divinità. Così, scelse di entrare, per essere Mediatore, nella forma di uno schiavo, al di sotto degli angeli, rimanendo però al di sopra degli angeli nella forma di Dio. Via della vita nel mondo inferiore come Vita in quello superiore». E in modo assai forte nel Commento al Vangelo di Giovanni, approfondisce tale concetto in questa frase icastica: «Dio si è fatto uomo; che cosa dovrà diventare l'uomo, se, per lui, Dio si è fatto uomo?». E ancora, in modo altrettanto forte: «Rallegriamoci, dunque, e ringraziamo, perché noi non siamo divenuti soltanto Cristiani, ma siamo diventati Cristo! Comprendete, fratelli, comprendete la grazia che Dio ci ha concesso? Ammirate e gioite: siamo diventati Cristo! Se, infatti, Egli è la Testa e noi siamo le membra, l'uomo nella sua interezza è Lui e noi».
Dunque, «nella sua interezza», l'uomo è «Cristo in noi», ossia è Dio che si unisce all'uomo mediante il Figlio incarnatosi, ossia mediante Cristo come «Mediatore».
E proprio in questo, e non nel potere che gli deriva dalla scienza e dalla tecnica, sta la vera grandezza dell'uomo.