sabato 3 aprile 2010

il Fatto 3.4.10
Regione Lazio. Dietro l’ipotesi di Ceronetti
Ma davvero la Bonino non voleva vincere?
Il mistero di Emma
Ceronetti: “La Bonino voleva perdere” Pannella: “Doveva essere più radicale”
Boicottaggio Pd o altro? Pannella: “Abbiamo sbagliato tutto, Emma doveva essere più radicale”
di LucaTelese

Emma avrebbe dovuto essere ancora più radicale”, Marco Pannella risponde a Guido Ceronetti che sulla Stampa ipotizzava: “La Bonino non voleva vincere”.

“A Latina chiediamo al Pd i manifesti che pagavano loro. Rispondono che sono tutti presi dal centrodestra”

“Emma non voleva vincere”, scrive su La Stampa Guido Ceronetti. E siccome a dirlo è un fine editorialista, che è anche uno storico amico dei Radicali, la domanda non è peregrina, e accende i riflettori su un piccolo giallo elettorale: la sconfitta inspiegabile di Emma Bonino, dopo la cancellazione della lista del Pdl. Il rigore sbagliato a porta vuota.
Un giallo elettorale. Dal giorno successivo alla notte dello spoglio all’ultimo voto, quei 50 mila di distacco sono già oggetto di leggenda, il perno di alcune domande ricorrenti. Era il Pd che voleva perdere? O erano i Radicali che non volevano vincere? O è stato tutto il centrosinistra che per motivi diversi ha fatto “desistenza” contro i proclami di Bagnasco, per non entrare in conflitto con le gerarchie ecclesiastiche? Entri nella storica sede del Partito radicale per cercare risposte e resti stupito. Nell’ingresso, un tempo popolatissimo, non ci sono più le efficienti centraliniste che un tempo accoglievano i visitatori. Nel salone che è stato il campo di Marte di cento battaglie non c’è nessuno, luci spente. Sergio Stanzani, in stampelle, si aggira nei corridoi: “Devo essere sincero. Sono affranto”. Unica presenza agguerrita: quella di Valeria Manieri, giovane giornalista brillante voce di Radioradicale, candidata “di servizio”: “Ho preso 300 voti, amici e parenti. Ma è stata una débâcle anche per chi avrebbe dovuto trainare le liste. Perché abbiamo perso? Vorrei capirlo pure io. Andiamo da Marco”, mi dice. E così, percorrendo il dedalo dei corridoi, si arriva all’ultima stanza, quella dell’eterno leader nonviolento. Lui c’è, come sempre. Sigaro toscano, codino di capelli raccolto sulla schiena con un nastrino. Pannella è il Kurtz di Apocalypse Now radicale, ma nulla può demoralizzarlo. Sentire per credere: “Abbiamo perso? Certo. Ma la sconfitta nel Lazio si associa a una bellissima vittoria a Roma, perché nessuno lo scrive? L’avevo detto, ai nostri compagni confusi del Pd: dobbiamo fare un manifesto con una scritta cubitale: ‘Grazie Roma’!”. E loro? “Non hanno voluto, capisci? Dicono che a Roma non ci avrebbero capito, e che in provincia si sarebbero risentiti. Ma si può?”. Scrive Ceronetti, con il suo piglio visionario, ma anche con la capacità analistica di un retroscenista di Montecitorio: “Emma sapeva che avrebbe perso. Voleva correre senza mirare al traguardo. Questa è la follia radicale. Ai suoi vertici (Pannella per primo) è un principio dottrinale segreto”. “Campagna sbagliata”. L’interessato è spiazzante, come sempre, allarga un sorriso dei suoi, sgrana gli occhi celesti: “Il pezzo di Ceronetti è fantastico, sublime!”. Ma come? dice che volevate perdere! “Quella è una licenza poetica. Però è vero che abbiamo sbagliato campagna”. Metto in riga su un quaderno gli elementi a favore della tesi Ceronetti. Il digiuno in campagna elettorale (“Si è diminuita le forze per ridurre la sua possibilità di vincere”). E poi la rarefazione degli impegni in provincia (in tutta l’agenda, ancora su Internet, fuori Roma ci sono solo un giro in provincia di Frosinone, una tappa ai Castelli e una a Guidonia). Altri elementi: nell’ultimo mese Emma dice no agli inviti in diversi talk-show (Tetris, L’ultima parola); e poi nei temi cardine prevalevano i chiodi di politica generale, gli appelli al voto dei vip (Vasco Rossi) erano per la lista Bonino e non per la coalizione). Dulcis in fundo: la Bonino era candidata contro il centrosinistra in Lombardia. Come farlo accettare agli elettori del Pd? Pannella ti guarda negli occhi e ti spiazza ancora una volta: “E’ il contrario di quello che dici. Emma avrebbe dovuto essere ancora più radicale. E ancora più nazionale. Avrebbe dovuto andare a comiziare in piazza del Duomo a Milano due, tre volte, creare lo scandalo, catalizzare l’attenzione e il dibattito sulla sua diversità, puntare tutto sui temi della laicità”. Per vincere, o per portare voti alle liste radicali? Pannella sogghigna e allarga le mani: “Entrambe le cose”. E le invettive di Bagnasco? “Mavalà... Conta il Vaticano a Roma? E allora spiegatemi dati alla mano, perché vinciamo in diciotto municipi! Ci hanno fatto guadagnare voti, non ce li hanno mica tolti!”. Nella stanza entra Rita Bernardini, segretaria dal piglio pragmatico: “Venite a chiedere a noi se non volevamo vincere? Chiedete a quelli del Pd che sono fermi alla cultura del manifesto... Noi gli segnalavamo l’alluvione di Berlusconi in tv, nell’ultima settimana, e loro ci rispondevano che non conta”. Manifesti non prenotati. Ma poi, parlando con la Manieri si scopre che persino sui manifesti il centrosinistra era indietro: “Nella prima fase ho seguito la questione delle affissioni. Chiamiamo quelli del Pd per chiedergli dei 6X3, che pagavano loro, a Latina. Sai cosa ci rispondono?”. Cosa? “Che non ce n’era più libero nemmeno uno. Tutti presi dal centrodestra”. Indizio decisivo. L’assassino è il partito di Bersani? Molto probabilmente il centrosinistra dava già per scontata la sconfitta, e solo il gesto eroico del “radicale ignoto”, Diego Sabatinelli, aveva riaperto la partita. E qui Pannella ulula: “Magari! Magari! Quelli purtroppo sono pippe! Delle grandissime pippe”.
Come nei gialli di Agatha Cristie, cerchi un colpevole, e ne trovi più d’uno. Coalizione demotivata, le eterne divergenze sulla linea tra Marco ed Emma, le guerre di preferenze tra candidati coscioniani e non coscioniani. Torno a provocare Pannella: “Non mi hai convinto, la tesi Ceronetti è sensata”.
L’ultimo sorriso è sarcastico: “Come al solito non capisci nulla. Per noi l’unico modo per vincere è vincere da radicali”.

il Fatto 3.4.10
Bonino KO, colpa del Pd
di Michele Meta

Alla fine dal Partito democratico arrivano le prime ammissioni. Come quella del deputato Pd Michele Meta, secondo cui la candidata alla presidenza della Regione Lazio Emma Bonino ha perso anche a causa di tensioni intestine: “Ritengo che la competizione interna, concentrata esclusivamente sulle preferenze, ha provocato l’occultamento della proposta politica e della credibilità che il Pd avrebbe dovuto offrire agli elettori di Roma e delle province. È mancato, dopo che la candidatura della Bonino aveva ridato fiato e speranza al Pd laziale, un lavoro di espansione dei consensi che doveva necessariamente partire dai territori e dal rinnovamento della classe dirigente del partito”. Meta, coordinatore nazionale dell’area Marino, aggiunge: “Nel Lazio la stessa lista dei candidati Pd non ha avuto quell’importante funzione di espansione dei consensi, perché costruita con l’assillo di non disturbare l’area degli eleggibili”.

l’Unità 3.4.10
Iniziativa contro il magistrato milanese Pietro Forno, che indaga sui casi di molestie
La denuncia dell’omertà dei sacerdoti raccolta dal “Giornale”. Per il Guardasigilli è diffamazione
La denuncia: «Mai una segnalazione dalla Chiesa, solo dai familiari delle vittime»
Come i leghisti anti-pillola. Anche il ministro tenta di ingraziarsi le gerarchie vaticane
Pedofili, pm: Chiesa omertosa
E Alfano manda gli ispettori
La solita storia: o l’inchiesta piace al governo, e ai suoi sponsor, oppure il ministro Alfano manda gli ispettori. E così il guardasigilli paga la cambiale alla chiesa dopo l’appello al voto contro Bresso e Bonino.
di Oreste Pivetta

Il ministro Angelino Alfano si sta inventando un nuovo modo di far giustizia, senza aspettare le riforme di Berlusconi. La sua idea è che un’inchiesta giudiziaria si possa fare, ma solo con il suo nihil obstat governativo. Procede con giudizio, per il momento solo inviando i suoi ispettori dove qualcosa non gli garba o non garba al suo padrone. In Puglia piuttosto che a Milano. Il ministro non si scandalizza per i colpi di Cota o di Zaia contro una legge della Repubblica. Se la prende con un magistrato che indaga su casi di pedofilia e che chiama in causa le gerarchie della Chiesa. Il caso è ben raccontato dal Giornale della famiglia Berlusconi: l’altro ieri in un’intervista con il magistrato, il procuratore aggiunto Pietro Forno, cattolico, capo del pool specializzato in molestie e stupri, ieri dando la parola addirittura al padre, il signor G., di una piccola vittima. Spiegava Forno che certi vescovi coprivano quanto avveniva nella loro diocesi: «Nei tanti anni in cui ho trattato l’argomento non mi è mai, e sottolineo mai, arrivata una sola denuncia nè da parte dei vescovi nè da parte dei singoli preti. Le indagini sono sempre partite da denunce dei familiari delle vittime che si rivolgono all’autorità giudiziaria dopo che si sono rivolti all’autorità religiosa, e questa non ha fatto assolutamente niente». E ancora: «Si creano legami di difesa, di protezione. E c’è soprattutto la paura dello scandalo». Raccontava il padre che la bimba frequentava un oratorio dei salesiani, che la bimba era stata oggetto di attenzioni poco simpatiche, che lui stesso ne aveva parlato con i religiosi, che aveva atteso per mesi una reazione, di aver subìto per ripicca ogni genere di angherie, di essersi alla fine deciso alla denuncia. Leggiamo: «...a parlare con il signor G. si direbbe che Forno sia stato fin troppo cauto. Perché in questo caso i superiori del prete sotto accusa non si sono limitati a insabbiare. Hanno reagito ribaltando le parti, trasformando la vittima in colpevole, isolando lei e la sua famiglia...». «Mi aizzarono contro gli altri parrocchiani – queste son parole del signor G. – Ordinarono a tutti di chiudermi le porte in faccia». Nel frattempo le indagini proseguono. La Procura mette sotto controllo alcuni telefoni. Intercettazioni. Qui già si immagina Alfano inorridire. Il parroco, riferisce ancora il Giornale di Feltri, che avrebbe dovuto vigilare sul prete in sospetto di pedofilia, viene intercettato mentre fa sesso al telefono. L’ispettore dei salesiani, che avrebbe dovuto governare le indagini, viene ascoltato mentre orchestra
le testimonianze «per addomesticare» quelle indagini. Sembra Il nome della rosa. Sembra una mafia, commenta il signor G. , che poi riferisce altri particolari della brutta storia, ormai riassunta in un processo che andrà presto a sentenza. Il Giornale, con un sorprendente senso della par condicio, cita le reazioni del solito cardinal Bagnasco: «Le ombre non cancellano i meriti della Chiesa». Nessuno si sognerebbe di negare i meriti di Tettamanzi (delle diocesi di Milano, appunto, si parla) e di tanti preti. Il Giornale intervista pure monsignor Girolamo Grillo, vescovo di Civitavecchia, che critica le generalizzazioni
ma denuncia l’omertà: «Da me sono venute persone che sapevano... Ma mai queste persone hanno accettato di firmare una testimonianza e, lasciandomela, di permettermi di intervenire nelle sedi opportune...».
Il ministro non attende il processo, l’unico antidoto alle generalizzazioni, ma ordina l’inchiesta, «lette le dichiarazioni rese... alla stampa dal Procuratore aggiunto di Milano dott. Forno... considerato il carattere potenzialmente diffamatorio di tali dichiarazioni». L’accusa: violazione dei doveri di correttezza, equilibrio e riserbo...
Corrono a dar man forte ad Alfano, Formigoni, Lupi e vari altri del centrodestra, gli stessi pronti a rimbrottare il cardinale Dionigi Tettamanzi quando parla di poveri e di immigrati.
Alfano, senza un attimo di esitazione, è salito sul carro dell’opportunismo clericaloide. Preceduto in volata dagli zelanti governatori del Piemonte e del Veneto, dimentichi delle sparate di Bossi contro i «vescovoni» di Roma (ma se n’è dimenticato anche Bagnasco), ha voluto far la sua comparsata nella corsa a ingraziarsi i potenti del Vaticano. Ovviamente a proposito delle vittime non s’è lasciato sfuggire una parola di giustizia o almeno di pena. Neppure un amen per la laicità dello Stato.

l’Unità 3.4.10
Il Vaticano:«L’attacco al Papa è come l’antisemitismo»
Il predicatore della Curia cita un anonimo ebreo Leonardo Boff: tutti sapevano tutti hanno taciuto
Doloroso fallimento, dice il vescovo di Friburgo
Gli ebrei tedeschi: «Ripugnante, osceno, offensivo. Non vedo s.Pietro bruciare...»
di Roberto Monteforte

L’attacco mediatico al Papa e alla Chiesa per lo scandalo della pedofilia «ricorda gli aspetti più vergognosi dell’antisemitismo». Lo ha affermato il predicatore pontificio, il padre cappuccino Raniero Cantalamessa che nell’omelia pronunciata nella basilica di San Pietro, durante la solenne celebrazione della Passione del Signore presieduta da Benedetto XVI, ha citato una lettera di un suo amico ebreo. «L'uso dello stereotipo, il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognosi dell'antisemitismo» gli ha scritto il suo amico, impegnato nel dialogo con la Chiesa cattolica, esprimendo il suo «disgusto per l’attacco violento e concentrico» subito dal Papa, dalla Chiesa e da tutti i fedeli del mondo intero». Aggiunge la sua solidarietà. Ma con quell’accostamento all’antisemitismo, rilanciato senza commento dal predicatore pontificio, la Chiesa alza di molto i toni della polemica con il mondo mediatico. Nella sua omelia padre Cantalamessa non affronta direttamente «della violenza sui bambini di cui si sono macchiati sciaguratamente anche elementi del clero». «Di essa afferma si parla già abbastanza fuori di qui». Affronta e denuncia un’altra violenza, quella esercitata in ogni ambiente e in particolare quello domestico, contro le donne. È alla fine della sua omelia, con il permesso del Papa, che legge la lettera del suo amico ebreo. Pronta la reazione da parte ebraica. «È ripugnante, osceno e soprattutto offensivo nei confronti di tutte le vittime degli abusi così come nei confronti di tutte le vittime dell'Olocausto», ha commentato con l’Associtated press il segretario generale del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Stephan Kramer. «Sinora non ho visto San Pietro bruciare né ci sono stati scoppi di violenza contro preti cattolici. Sono senza parole. Il Vaticano sta tentando di trasformare i persecutori in vittime». Il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Lombardi prende le distanze dal predicatore della Casa pontificia: «Smentisco nel modo più assoluto che ci sia un paragone di iniziativa vaticana tra l'antisemitismo e la situazione attuale relativa alla pedofilia». Resta la citazione di padre Cantalamessa.
Così, dopo l’accusa di «falsi scoop» e delle ricostruzioni arbitrarie rivolta in particolare al New York Times, della sottovalutazione del fenomeno pedofilia negli altri ambienti e di «accanimento» verso l’unica realtà, la Chiesa cattolica, impegnata ad affrontarla grazie proprio all’impegno di Papa Ratzinger, ora si arriva a presentare una Chiesa perseguitata. L’Osservatore Romano continua a dare conto della solidarietà al Papa. Diffonde un appello di un gruppo di intellettuali francesi che chiedono ai media di «discernere la verità dalla diffamazione, la calunnia dal legittimo desiderio di giustizia» ed esprimono «solidarietà con le vittime degli abusi “senza se e senza ma”, ma anche con tutti i fedeli cattolici, i loro sacerdoti e il loro Papa». Vi è anche, però, chi riconosce le responsabilità della Chiesa e delle sue gerarchie nell’aver sottovalutato il fenomeno e aver «aiutato poco le vittime degli abusi».
In una lettera inviata ai suoi fedeli il presidente della conferenza episcopale tedesca, il vescovo di Friburgo monsignor Zollitsch. «Abbiamo commesso errori nei confronti delle vittime di abusi in istituzioni religiose» ammette, assicurando che la Chiesa ora intende prestare «l'attenzione principale alle vittime». Nella Chiesa cattolica «tutti sapevano e tutti occultavano» i casi di pedofilia: non ha peli sulla lingua il teologo brasiliano Leonardo Boff per il quale nell'affrontare tali casi «il Vaticano non è stato negligente, bensì prigioniero della propria logica». Tale logica ha precisato porta la Santa Sede a «nascondere i propri limiti, ad esaltare la figura del Papa». La sua conclusione è l’abolizione del celibato obbligatorio.
Ieri sera Benedetto XVI ha presieduto al Colosseo il rito della via Crucis. L’autore delle meditazioni alla 14 stazioni è stato il cardinale Ruini. Ma cinque anni fa fu l'allora cardinale Ratzinger a prepararle. Fece scalpore la sua denuncia per la «sporcizia» della Chiesa. Fu interpretata come un'accusa dei casi di pedofilia e come un impegno preciso a fare pulizia.

l’Unità 3.4.10
Intervista con Amos Luzzatto
«È un accostamento a dir poco assurdo È più che sbagliato. È una vera follia»
«Tutti dovrebbero andare molto cauti su questi temi»
È sbagliato: «Non si profila alcuna minaccia di sterminio».
di Umberto De Giovannangeli

C osa dire... Sono esterrefatto. Questo accostamento più che un azzardo mi pare una follia... L’antisemitismo, per come la mia generazione l’ha conosciuto, è stata una dottrina che ha condotto allo sterminio. Per cui tutti ma proprio tutti dovrebbero andare molto cauti quando attribuiscono questa qualifica a situazioni nelle quali gli ebrei non c’entrano, situazioni in cui non si profila alcuna minaccia di sterminio. E poi trovo scorretto liquidare le polemiche che hanno investito Benedetto XVI come una “campagna d’odio” orchestrata per fini oscuri...». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: il professor Amos Luzzatto.
Il predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa ha accostato la “campagna di odio” contro Papa Ratzinger all’antisemitismo contro gli ebrei.
«È un accostamento che respingo con forza. Non esiste, è una follia... Non c’è dubbio che Benedetto XVI sia coinvolto in una polemica su alcuni problemi di principio con riflessi inquietanti sul presente. Ma francamente non credo che sia corretto identificare la polemica con una campagna di odio. Perché se così fosse non ci sarebbe più possibilità non soltanto di polemica ma addirittura di dialettica. Paragonare questa serie di polemiche con le campagne antisemitiche potrebbe portare a considerare questo accostamento come una totale sproporzione tra i fatti e i giudizi sui fatti stessi. Ma c’è di più...». Cos’altro ancora, professor Luzzatto? «In questo frangente si potrebbe anche parlare di una demonizzazione di una polemica o di un dibattito non solo da parte di padre Cantalamessa. Le sue affermazioni, il suo accostamento, hanno qualche somiglianza con vecchie campagne antisemite, più che le posizioni espresse contrastanti quelle del Papa».
Un giudizio forte, impegnativo. Da sviluppare... «Le campagne antisemitiche erano e sono dei tentativi di spostare il centro delle polemiche da una questione di merito alla identificazione di una volontà di colpire e denigrare l'immagine della controparte: esattamente quello che per secoli è stato fatto presentando gli ebrei non per quello che dicevano, facevano o in cui credevano, ma per una ispirazione comunque perfida e ostile che andava denunciata e combattuta per i soggetti che la sostenevano e non per il contenuto di quello che dicevano. Tornando alle polemiche che hanno coinvolto Benedetto XVI, credo che le posizioni ostili vadano affrontate e contestate nel merito e non imbastendoci sopra dei processi alle intenzioni. E poi c'è un'altra cosa da dire...».
Quale?
«Ma padre Cantalamessa si rende conto dell’enormità dell’accostamento fatto? L’antisemitismo per come la mia generazione l'ha vissuto, per ciò che la Storia lo ha riconosciuto, è stata una dottrina che ha condotto allo sterminio, alla immane tragedia della Shoah. Per questo occorre grande cautela quando attribuiamo questa qualifica a situazioni nelle quali gli ebrei non c’entrano e nelle quali non si profila alcuna minaccia di sterminio». Come spiegare dunque questa uscita?
«Si gioca di rimessa. Siccome l’antisemitismo è considerato una ideologia e un'azione incivile ed esecrabile, si cerca di trovare analogie con esso in qualsiasi polemica scomoda. Ma questo “gioco” va rifiutato. Perché scorretto. Sbagliato. Ingiusto. Esecrabile».

Repubblica 3.4.10
Alla vigilia della visita del pontefice, la rabbia delle vittime: "Benedetto XVI ci chieda scusa"
Malta, gli orrori nell'orfanotrofio "E i preti pedofili sono ancora qui"
Lawrence Grech ha implorato aiuto al Vaticano: "Nell´isola non ci hanno mai voluto ascoltare"
Tra il 2001 e il 2009 ben 845 i casi di abusi su minori E almeno undici religiosi coinvolti
di Davide Carlucci

LA VALLETTA - Due settimane fa Lawrence Grech ha implorato aiuto al Vaticano. «Sono cresciuto per vent´anni in un orfanotrofio a Malta. Voglio raccontarvi la mia storia e quella di altre nove vittime di abusi sessuali come me. Lo abbiamo già fatto con le autorità ecclesiastiche maltesi, non è servito a niente». Gli autori delle violenze, spiega, sono quattro. «Uno è fuggito in Italia, gli altri tre hanno ammesso le loro responsabilità alla polizia. Ma la Chiesa qui è molto potente, hanno i migliori avvocati…». Finora Grech non ha ricevuto risposte alla sua mail. Ma continua a sperare: la sua grande occasione è la prima visita di Benedetto XVI nell´arcipelago, prevista per il 17 e il 18 aprile. «Vorrei che prima del suo arrivo il papa riflettesse e chiedesse scusa».
L´appello di Grech, costretto, tredicenne, a farsi toccare dai frati dell´orfanotrofio di Santa Venera o a vestirsi da donna - per non dire dei veri e propri stupri denunciati da altri suoi compagni - arriva dopo i continui rinvii di un processo che si trascina ormai da sette anni. La pedofilia tra i sacerdoti a Malta non è purtroppo una novità: una commissione d´indagine diocesana sul fenomeno calcola che siano 45 i religiosi coinvolti negli ultimi undici anni. Nessuno di loro, però, è stato mai condannato né ha mai scontato un giorno di carcere. E il giudice che presiede la commissione, Victor Colombo Caruana, in un´intervista al Times of Malta ha difeso la linea della Chiesa: «Denunciare i casi alla polizia sarebbe inutile, senza il consenso delle vittime».
Ma quando nel 2003 un assistente sociale scoprì gli orrori nell´orfanotrofio di Grech, la Chiesa maltese tentò di bloccare l´inchiesta, appellandosi a un concordato con il governo che sottrarrebbe i preti alla giurisdizione ordinaria. Il tribunale respinse il ricorso ma assicurò che gli atti sarebbero rimasti segreti. Nessuno ha potuto così leggere i verbali con le confessioni di uno dei frati, Joseph Bonnet: «A Leonard (una delle vittime, ndr) piaceva stare sulle mie gambe… Un giorno eravamo tutti e due nudi… Può darsi che in quel momento io mi sia toccato davanti a lui…». O l´ammissione di Charles Pulis: «La mia camera era come un club, tutti i ragazzini venivano a stare sul mio letto. E da allora è cominciata tra il 1982 e il 1983, la mia debolezza. Questi abusi sessuali sfortunatamente erano molto frequenti». Pulis dice di aver cercato di contenere i suoi impulsi. «Volevo uscirne. Così sono andato a Roma a visitare la Casa dei bambini. E lì mi hanno suggerito di seguire un programma di recupero. La terapia mi ha fatto molto bene, sono diventato sensibile ai bambini vittime di abusi».
Tra gli imputati c´è anche padre Godwin Scelli, sfuggito a un arresto in Canada per altri abusi. Scelli trovò facilmente riparo a Roma e a Malta: l´arcivescovo dell´epoca, pur essendo a conoscenza dei suoi precedenti, lo aveva accolto nella sua diocesi, bollando le notizie su Scelli come «indiscrezioni giornalistiche».
L´agenzia Appogg si è occupata, tra il 2001 e il 2009, di ben 845 casi di abusi, sessuali e non, su minorenni. «Ma se a commetterli sono preti e suore, quasi sempre le denunce restano in parrocchia», accusa Grech. A Gozo, nel villaggio contadino di Nadur, incontriamo un sacerdote sospeso dalla Curia: non può recitare messa in pubblico ma continua a farlo in privato. «Fu la madre di un ragazzo a denunciarmi. Aveva avuto un esaurimento, povera donna…». La gente del paese è con lui: «E´ innocente - assicura una fedele - e comunque, chi siamo noi per giudicare?».
È finita con le scuse dell´arcivescovo di Gozo - ma senza nessuna conseguenza penale - anche l´inchiesta interna sul convento di Ghajnsielem, che nel 2008 confermò le accuse sulle sevizie alle quali erano sottoposte le bambine, costrette a ingoiare il loro vomito e frustate con la cinghia sin dagli anni Settanta.
A Gozo, nel capoluogo Victoria, vive anche padre Anthony Mercieca, divenuto famoso, nel 2006 per aver molestato il deputato repubblicano Mark Foley quando era ancora tredicenne. Fu Foley a fare il suo nome dopo essersi dimesso perché accusato, a sua volta, di aver importunato i suoi giovani collaboratori. «Facevamo il bagno nudi e forse una volta lo toccai…», ammise poi Mercieca in un´intervista. Poi si fecero avanti altre due presunte vittime, una delle quali raccontò di essere stato costretto anche a rapporti orali. «Ho negato tutto. E non ho voglia più di resuscitare questi fantasmi, ormai è acqua passata: ho già sofferto molto», taglia corto ora Mercieca, che a Victoria è ancora molto rispettato: una foto che lo ritrae da giovane è in bell´evidenza nella fornitissima - grazie alle sue donazioni - biblioteca della Cattedrale.
In questi giorni molti, a Malta, chiedono verità. Nei forum e nei gruppi Facebook che da tempo chiedono l´istituzione di un registro dei pedofili - da poco approvato dal parlamento maltese - si parla apertamente di «omertà» e si propone una commissione d´indagine come in Irlanda. Ma dal governo fanno sapere: «Non è nella nostra agenda».

Repubblica 3.4.10
Un’inutile punizione
Il diritto al farmaco è garantito dalla Costituzione Serve più rispetto per le donne
di Umberto Veronesi

Le dichiarazioni dei neo governatori del Piemonte e del Veneto sull´intenzione di non distribuire la pillola Ru486 sono anticostituzionali. Se un organismo nazionale, rigorosamente scientifico e riconosciuto in Europa, quale è l´Aifa, dichiara un farmaco innocuo e disponibile per la popolazione, è un diritto di tutti poterlo utilizzare, in base all´articolo 32 della Costituzione che sancisce il diritto alle cure. Molti credono che la Ru486 faciliti l´aborto e dunque possa indurre le donne a praticarlo a cuor leggero. In realtà le esperienze dei Paesi (la maggior parte di quelli europei e gli Stati Uniti) che da diversi anni hanno introdotto la pillola abortiva, provano che non è vero: in nessuno di essi si è verificato un aumento degli aborti. Del resto chi ha che fare con il mondo femminile negli ospedali, sa bene che la scelta di abortire per una donna è sempre risultato di una situazione disperata e si traduce in una forza disperata. Nulla e nessuno può indurre una madre a rinunciare a un figlio, ma se la decisione è presa, nulla e nessuno la fermerà. Togliere a una donna la possibilità di interrompere la gravidanza farmacologicamente, invece che chirurgicamente, è solo una inutile punizione fisica.
Il quadro che ne deriverebbe è che le donne meno informate, meno abbienti e che si ritrovano nelle situazioni più tragiche (pensiamo a chi è vittima di violenza sessuale) subiranno un intervento chirurgico evitabile, mentre quelle più colte e con maggiori mezzi finanziari si rivolgeranno ad altre regioni o alle cliniche private, magari all´estero. Il rischio è inoltre che si crei un "mercato nero" della pillola. Rinunciare alla maternità è una scelta non solo drammatica, ma che fa paura e la paura ci fa facilmente cadere in balìa di chiunque ci prometta di liberarci in fretta dai nostri spettri. Quando si parla di aborto, ci si dimentica che nessuno vuole l´aborto, e le prime a non volerlo sono le donne, per le quali è un atto che va contro l´imperativo del loro Dna alla riproduzione. Nel momento in cui si trovano nella condizione di dover agire contro la loro fortissima pulsione alla maternità, cadono in una situazione di panico e devono essere protette, aiutate, ma non abbandonate. E tantomeno punite. Se davvero si vuole fare qualcosa di efficace per evitare gli aborti bisogna agire prima che la decisione venga presa. Bisogna combattere ignoranza e disinformazione, preparare le ragazze a una maternità responsabile, promuovere l´educazione sessuale nelle scuole, diffondere la conoscenza dei metodi anticoncezionali, dare informazioni complete e corrette sulla pillola anticoncezionale. È importante creare un senso di responsabilità anche nei maschi, che comunque non vengono mai colpevolizzati (e men che meno puniti) in caso di maternità indesiderata. L´aborto è un problema culturale. Sarebbe troppo facile risolverlo dicendo no alla pillola Ru486, che non è che una modalità diversa di compiere lo stesso atto. Una diversità che sta esclusivamente nella maggiore attenzione alla salute e alla psicologia femminile.

Repubblica 3.4.10
La crociata contro la Ru486
risponde Corrado Augias

Caro Augias, papa Ratzinger durante la Messa del Crisma ha detto: i cattolici non possono accettare le ingiustizie elevate a «diritto» e a leggi, prima fra tutte «l'uccisione di bambini innocenti non ancora nati». Piccole furbizie linguistiche per dare risalto alla gravità del «delitto». L'embrione non è un bambino. L'aggettivo «innocente» è superfluo: non esistono embrioni colpevoli. La Chiesa non si accorge che così facendo, si allontana sempre più dal Vangelo e dalla gente, e soprattutto dalle donne, che definisce assassine se abortiscono anche per estrema necessità. Gesù predicava l'amore per le persone, la Chiesa predica l'amore per l'embrione, e se n'è fatta un'ossessione, così come della procreazione artificiale, delle unioni omosessuali, del testamento biologico, e via di seguito. C'è proporzione tra questo fiume di parole e quelle a favore dei 100 milioni di bambine costrette a lavorare, o sfruttate nel commercio sessuale? C'è proporzione tra il parlare a favore dell'embrione, e il parlare a favore delle donne che in molti paesi sono maltrattate, ferite, e uccise dagli uomini?
Attilio Doni Genova attiliodoni@tiscali.it

La Chiesa cattolica è libera di predicare le sue preferenze (le sue 'ossessioni') come meglio crede. Nel riservare però le sue campagne quasi solo all'Italia, segue una logica politica (o militare): colpisce dove trova minore resistenza. Ancorché tedesco, Ratzinger non farebbe mai una campagna del genere nel suo Paese. Non parliamo della Francia, o della Gran Bretagna. Le autorità civili farebbero capire con il fermo linguaggio della diplomazia l'inopportunità della cosa. In Italia non avviene perché la Santa Sede è un'enclave nel territorio della Repubblica, e perché uomini politici dimentichi della loro funzione, si mostrano docili in cambio dei voti che la Chiesa elargisce. Le ultime elezioni lo hanno confermato. Mi ha scritto Stefania Cortese dal Lussemburgo (rmarta@internet.lu): «Leggo che il neo governatore del Piemonte Cota farà marcire nei magazzini le pillole Ru486 perché è un sostenitore della vita. Crede forse che chi decide di abortire sia a favore della morte?». Scrive Iolanda Lippolis (lippolis-iole@alice.it): «Se bloccheranno la RU, l'aborto ci sarà lo stesso; se la donna "sola", se la "coppia" ha scelto, i motivi non verranno meno per la mancanza di un farmaco. Prima della 194 chi praticava l'aborto era chiamato il "Cucchiaio d'oro" perché l'aborto rendeva bene, anche in termini di sofferenza». Scrive Luigi Sala (lui. sa54 @alice.it): « Per la chiesa conta solo essere a favore dell'aborto o legalizzare l'unione di coppie omosessuali. Sul resto silenzio. Dei valori del Vangelo importa poco ciò che conta è che la moralità sessuale sia salva. Tutto il resto è trattabile».

il Fatto 3.4.10
Gran bazaar delle armi per regimi teocratici e dittature
Nell’Italia della crisi un settore continua a volare
Da 2 anni silenzio assoluto sulle banche usate per le operazioni
di Stefano Vergine

C’è un settore in Italia che non ha risentito della crisi: quello delle armi. Osservando i numeri, l’impressione è quella di essere capitati sulla pagina del ministero dell’Economia cinese. Perché la crescita è a doppia cifra, tipica di un Paese emergente. Siamo invece proprio in Italia, dove nel 2009 le esportazioni sono crollate del 20,4% rispetto all’anno precedente, il calo maggiore dal 1970. Vendiamo le “nostre” armi a Paesi dai regimi discussi come l’Arabia Saudita e la Libia di Gheddafi. Nell’anno appena trascorso l’industria militare italiana si è superata. Mentre il tessile arrancava sotto i colpi della concorrenza straniera (-23%) e il mercato dell’auto subiva gli effetti della recessione (34%), le società italiane attive nella produzione di armi hanno visto aumentare del 61% gli ordini in arrivo dall’estero. Performance di gran lunga migliore rispetto ai più noti simboli del made in Italy, dal prosciutto San Daniele al Parmigiano Reggiano. Per capire quanto vale il mercato militare basta una cifra: nel 2009 il governo ha rilasciato autorizzazioni per esportare armamenti del valore totale di 4,9 miliardi di euro. Tutto questo senza contare gli 1,8 miliardi dei programmi intergovernativi, cioè i progetti fra più stati che hanno come destinatari i governi europei. I dati arrivano dalla Presidenza del Consiglio, che ha pubblicato il rapporto sull’esportazione di materiali militari. Dai documenti emerge che il principale destinatario di armi italiane nel 2009 è stata l’Arabia Saudita, monarchia teocratica retta sui proventi del petrolio e sullo scarso rispetto dei diritti umani, come rilevato più volte da Amnesty International. Il primato dell’Arabia Saudita riguarda una commessa da oltre 1,1 miliardi di euro da parte della Reale Aeronautica Saudita per 72 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon. Il committente generale è la britannica Bae System, già punita dal ministero della giustizia americano con una multa da 400 milioni di dollari per aver corrotto alcuni dignitari del re Abdullah. Che c’entra l’Italia con la multa? Niente, ufficialmente. La partecipazione italiana riguarda la fornitura dei 72 caccia, per i quali Alenia Aereonautica (gruppo Finmeccanica, controllato dal ministero dell’Economia) fornisce alcuni componenti che valgono, al momento, 1,1 miliardi di euro. Una commessa che ha permesso ad Alenia di guadagnarsi il primo posto nella classifica degli esportatori, seguita da Agusta Westaland (gruppo Finmeccanica), Avio (partecipata da Finmeccanica), Fincantieri (controllata dal ministero dell’Economia) e Selex Galileo (gruppo Finmeccanica). I principali clienti dell’industria militare italiana, fatta eccezione per Germania e Stati Uniti, si concentrano proprio tra Medio Oriente e nord Africa. Il valore dell’export verso quest'area corrisponde a quasi il 40% del totale. Tra i maggiori acquirenti, oltre all’Arabia Saudita, spiccano Qatar, Emirati Arabi Uniti, Marocco e la Libia di Gheddafi, diventato un partner privilegiato dell’Italia non solo in materia di immigrazione, come piace ricordare al governo. Dei quasi 5 miliardi totali di autorizzazioni all’esportazioni di armi, più della metà (2,6 miliardi) riguardano i Paesi del sud del mondo. Una tendenza preoccupante, secondo Gianni Alioti, sindacalista della Fim Cisl e attento osservatore delle dinamiche del mercato militare: “Fino all’inizio degli anni 2000 l’export italiano era diretto soprattutto verso i Paesi Nato. Da allora si è invece iniziato a vendere soprattutto ai Paesi del sud del mondo, dove spesso si combattono guerre per l’accaparramento delle materie prime”. E’ il caso della Nigeria, ad esempio, dove da anni i guerriglieri del Mend combattono contro l’esercito regolare per i pozzi petroliferi sfruttati da diverse compagnie petrolifere occidentali, tra cui l’italiana Eni. E proprio la Nigeria, tra i paesi dell’Africa centro-meridionale, nel 2009 è stata la principale acquirente di nostri sistemi militari. Nel rapporto della presidenza del Consiglio è tutto chiaro: ci sono decine di tabelle che mostrano autorizzazioni, destinatari e committenti. Proprio come previsto dalla legge 185. Ne manca solo una: la tabella che riporta l’elenco dettagliato delle banche attraverso cui sono state realizzate le operazioni. Quella lista manca dal 2008, anno dell’entrata in carica dell’attuale governo. Spiega Giorgio Beretta, rappresentante della Rete Italiana Disarmo: “Lì c’era il nome della banca, il valore delle commessa e il paese destinatario. Incrociando quei dati con quelli del ministero degli Esteri si poteva capire che tipo di arma era stata fornita. Eliminando quella tabella il nostro lavoro è stato reso impossibile, sottraendo ai correntisti la possibilità di monitorare il comportamento della propria banca”. Un’idea ce la si può comunque fare. Secondo Ires Toscana, un ente di ricerca no profit, dal 2001 al 2008 più del 60% delle operazioni di incassi per esportazioni di armamenti italiani sono state effettuate da tre gruppi bancari: Bnp Paribas (2,3 miliardi), Intesa Sanpaolo (2,2 miliardi) e Unicredit (2 miliardi).

Repubblica 3.4.10
Shtetl a Tel Aviv
Lizzie Doron "Israele? Un ospedale psichiatrico"
Yiddish, tedesco, ungherese, polacco... era una specie di Babele, isolata dal resto del paese
intervista di Susanna Nirenstein

Uno shtetl, un villaggio ebraico dell´Europa orientale prima della Shoah, nel cuore di Tel Aviv anni ‘50: con Srulik il sarto, Zaytshik il parrucchiere, il dottore, Mordechai il kibbutznik, Rosa Ornshteyn - che legge un libro dietro l´altro e sa dare ottimi consigli - Ruven il fruttivendolo, Dorka, Guta e Zila (tre donne sempre a chiacchiera), Yafa la bruttona, la cantante d´opera detta Madame Butterfly che, pazza, gorgheggia in mezzo alla strada; e soprattutto c´è Lèale, l´io narrante, iperfragile e per di più colpita da due specie di vedovanze, insieme a Eytan, figlio unico ben presto in fuga verso Manhattan. Ma non è un romanzo di Isaac Singer, né un racconto di Sholem Aleichem, anche se la gente parla yiddish, tedesco, polacco, ungherese e, come in Notte dopo notte di Appelfeld, guarda con diffidenza tanto l´ebraico quanto i sabra, i nati in Israele, così forti, protesi a costruire un paese nuovo popolato da uomini coraggiosi. I protagonisti di Giornate tranquille, ultimo memoir della scrittrice israeliana 55enne Lizzie Doron vengono tutti "di là", dall´Europa della Shoah, e non se la sono tolta di dosso. Nessuno racconta però cosa gli è successo. La regola su se stessi è il silenzio. Anche se, in questa bolla di passato, ognuno sa tutto di tutti, e la protezione reciproca è totale.
Lizzie Doron, lei è nata e cresciuta davvero in un posto così?
«Sì, i grandi erano tutti sopravvissuti, arrivati lì per forza, perché era l´unico rifugio possibile, non erano dei sionisti. Nonostante fosse in Israele, sembrava uno shtetl, o un campo profughi, dove la gente combatteva per vivere. Eravamo isolati dal resto del paese con cui non condividevamo né la lingua, né lo spirito. Era il massimo di una situazione post-traumatica, che non ti permette di spartire il dolore con gli altri. In qualche modo penso che mia madre e i suoi vicini sapessero di dover stare tra di loro, un passo indietro».
E voi bambini?
«I genitori ci proteggevano, e noi sentivamo la responsabilità di essere i loro unici tesori. Era difficile. Ma eravamo anche un gruppo fantastico. C´era un´intimità totale, nessuno era mai solo. Quando incontravamo il resto di Israele però, vedevamo un´alternativa emozionante, la promessa di essere determinati, kibbutznik, di costruire il domani, di guidare il sogno».
Appena adolescenti volevate fuggire.
«Certo, ci vergognavamo di quell´universo, non potevamo rimanere. Ma non avevamo un vero linguaggio per comunicare con i nostri genitori: mia madre non mi aveva mai raccontato di sé durante la persecuzione o di mio padre. Temevo la nostra confidenza. Quando decisi di andare in kibbutz lo discussi con i miei amici, non con lei».
Ha detto di aver sentito un vero ebraico solo a sei anni.
«Era una specie di babele, yiddish, tedesco, polacco, ungherese, e non c´era la tv ad amalgamarci col resto di Israele».
Nel romanzo lei è spesso ironica nel descrivere le ossessioni di quei sopravvissuti. Era legittimo riderne?
«Dovevamo riderne! C´era un gran sense of humour. Madame Butterfly era buffa, pazza e, come avviene dovunque, noi bambini ne sghignazzavamo. Era permesso scherzare sulla tragedia. Quando mia madre, una gran svagata, cucinava, bruciava spesso il mangiare ad esempio: e allora, nel servirci quelle cose semicarbonizzate diceva: «Stasera Buchenwald delikatessen!». Era più lecito giocare che fare domande serie, tipo: dove eri, che cosa ti è successo "di là"?»
Il più grande ospedale psichiatrico del mondo, ha definito così Israele.
«Esatto, lì vivono i post-traumatici dell´intero globo, sopravvissuti della Shoah, della cacciata dai paesi arabi, immigrati dal post-comunismo, palestinesi infelici. Non ci sono confini certi, la democrazia deve considerare anche la religione, il popolo si sente erede di Maimonide come di Einstein, dei talmudisti come di un paese combattente. Una miscela assurda!»
Cosa vuol dire per un ebreo figlio di sopravvissuti essere in una nazione sempre in guerra, in pericolo?
«È un incubo. Ho 55 anni, e, anche se a volte sono ottimista, ci sono momenti in cui sono depressa e penso che ci sia un destino sopra di noi, un karma. Ho paura. L´ho capito a 18 anni, quando durante la guerra del Kippur persi ben sette dei miei migliori amici. Non è normale vivere pensando alla possibilità prossima della propria morte. Ed è pesante anche avere sempre un nemico, ed essere sempre il nemico di qualcun altro: anche i bambini hanno prestissimo questa cognizione, ed è terribile».
Perché i suoi cinque romanzi, tutti di successo, parlano sempre dell´Israele postolocaustica, sofferente, e non di quella viva e vivace?
«Non so se sono una scrittrice, so di essere una buona story-teller, posso raccontare solo la mia storia. E poi questa gente che nella vita non ha avuto il meritato rispetto, questa gente meravigliosa che stava zitta e non chiedeva, corre il rischio di essere dimenticata».

Repubblica 3.4.10
Come cambia la felicità
Il diritto di essere felici
di Michela Marzano

Gli economisti la usano al posto del pil per misurare il benessere delle nazioni I filosofi si interrogano su come raggiungerla in un´epoca senza più grandi utopie. I politologi la considerano il compito principale delle democrazie contemporanee Perché oggi essere felici non è più solo un´aspirazione individuale Ma un dovere collettivo

Che cos´è oggi la felicità? A giudicare dal numero di libri pubblicati in questi ultimi anni e dal successo dei dibattiti organizzati sul tema, sono in molti a chiederselo. È anzi uno degli argomenti che appassiona di più. Forse perché nessuno sa esattamente cosa sia la felicità, ma, al tempo stesso, non ha alcuna intenzione di rinunciarci. Tutti desiderano essere felici.
L´oggetto del desiderio, però, è più che mai oscuro. Non siamo più all´epoca di Platone, quando la felicità non aveva misteri: era la conseguenza necessaria di una vita buona, una vita, cioè, passata a cercare la saggezza e la virtù. Come essere felici, infatti, quando il significato stesso del termine "virtù" è poco chiaro? Quando anche la soluzione epicurea - un uomo è felice quando riesce a soddisfare i propri bisogni naturali e necessari - non sembra più convincere nessuno? Le nozioni di virtù e di natura sono ormai divenute problematiche. Da un lato, ognuno ha una propria concezione del bene, che non coincide quasi mai con quella del proprio vicino di casa. Dall´altro, i progressi della medicina e della tecnica hanno frantumato la nozione classica di natura: il mondo contemporaneo è il regno della natura "artificiale". E non è tutto. Il vuoto lasciato dal crollo delle grandi utopie politiche del secolo scorso, infatti, è stato progressivamente riempito da un nuovo imperativo categorico: sii felici e approfitta dei piaceri della vita!

Ma che vuol dire "essere felici" quando la felicità non è più solo un´aspirazione individuale, ma un dovere collettivo?
In Francia, il 26 e il 27 marzo scorsi, una sessantina di filosofi, economisti, psicologi e uomini politici si sono incontrati a Rennes per discuterne. Invitati dal giornale Libération al Forum Le bonheur: une idée neuve, hanno cercato una soluzione al problema della felicità individuale e collettiva. Prendendo come spunto la famosa frase di Saint-Just – che in piena Rivoluzione francese dichiarava trionfante che "la felicità è un´idea nuova in Europa" – il forum ha avuto un grande successo: 19 mila spettatori hanno assistito ai dibattiti, curiosi e speranzosi di trovare finalmente la "formula magica" della felicità.
Il dialogo e "l´intelligenza collettiva" ha peraltro soddisfatto le attese: tutti sono tornati a casa pieni di idee. Sono emerse nuove utopie democratiche, responsabili e durabili. Si è parlato dell´importanza del "fare rete" per evitare che i cittadini non siano altro che semplici pedine sulla scacchiera del potere. Si è anche insistito sul fatto che la felicità non sia solo un diritto, ma anche un dovere: di fronte alla tragicità della vita, ci si deve impegnare per vivere pienamente ogni istante di serenità. Ma si può veramente pensare la felicità in termini sillogistici secondo lo schema: ogni uomo deve lottare per essere felice; anche io sono un uomo; anche io, quindi, devo lottare per essere felice? Le buone intenzioni a Rennes c´erano tutte. Ma le buone intenzioni non bastano. E nonostante tutti i libri di ricette per insegnare ad essere felici in dieci lezioni o poco più, la felicità non la si può "meritare", come i bambini si meritano un "bravo" a scuola quando fanno bene i compiti.
Il rischio di una società che si nutre di discorsi troppo volontaristici, e che celebra ogni giorno il trionfo delle terapie brevi capaci di educare alla fiducia in se stessi e al "pensare positivo", è di far credere alle persone che se non sono felici, in fondo, è colpa loro. Con questo non voglio dire che non si possa fare nulla per essere felici. Come spiega il filosofo Yves Michaud, siamo tutti responsabili delle nostre scelte e, sebbene la felicità non dipenda esclusivamente da noi, spetta a ognuno di noi scegliere come affrontare le gioie e i dolori che la vita ci riserva. La felicità non è più solo un problema personale. Ormai si tratta di una questione sociale. Perché meravigliarsi allora se ad occuparsene non ci sono più solo i filosofi, ma anche gli economisti? Perché non cercare un modo per "misurarne" qualità e quantità?
Sono sempre più numerosi coloro che pensano di risolvere il dilemma della felicità utilizzando la categoria di benessere. Un benessere non solo psicofisico, ma anche economico e sociale. Certo, quando si soffre di una malattia fisica o psichica, o quando non si hanno i mezzi materiali per il proprio sostentamento, è molto difficile essere felici. Ma gli essere umani sono anche, e forse soprattutto, caratterizzati dal desiderio. E il desiderio, nonostante tutto, è fatto di insoddisfazione. È grazie ai desideri e al tentativo di soddisfarli che si esprime la propria energia e la propria potenza, e che si attraversano momenti, se non di felicità, almeno di gioia. Spinoza, in questo, docet.
Nonostante tutti gli sforzi degli economisti, tuttavia, questa gioia è difficilmente quantificabile. Alcuni di loro hanno proposto addirittura di passare dal calcolo del prodotto interno lordo (PIL) alla misura del benessere globale di una società. Il famoso rapporto Stiglitz-Sen-Fitoussi, commissionato da Nicolas Sarkozy e reso pubblico nel settembre del 2009, sottolineava giustamente come il benessere collettivo non fosse solo materiale: oltre al consumo, sostenevano i tre economisti, si devono prendere in considerazione il tempo libero, le relazioni sociali, il sentimento di sicurezza… Ma la felicità può essere fatta solo di benessere?
Il saggio di Derek Bok, The Politics of Happiness, appena pubblicato negli Stati Uniti, lo pretende. Derek Bok sostiene addirittura che il compito principale delle democrazie contemporanee sia proprio quello di massimizzare la felicità collettiva, promuovendo l´uguaglianza, permettendo alle coppie e alle famiglie di stabilizzarsi, migliorando la salute pubblica. Su alcuni punti non si può non essere d´accordo con Bok. Ogni democrazia degna di questo nome deve non solo promuovere l´uguaglianza, ma anche creare le condizioni adeguate perché i singoli individui possano poi portare avanti i propri progetti e perseguire la propria felicità. La felicità, però, è individuale. E nessun governo, per quanto perfetto, potrà mai risolvere, al posto dei singoli, quello che resta un problema esistenziale centrale: capire, in modo autonomo, che cosa si desideri e che cosa si voglia. La felicità non è un assoluto. Non esiste una strada unica che ci porta verso la felicità. La felicità, come diceva Lao Tseu, consiste piuttosto nel cercare la propria strada, abbandonandosi, talvolta, anche al caso. Non è forse questo il motivo per cui molte persone – in Francia tantissime – cercano oggi nel confucianesimo e nel buddismo le indicazioni per imboccare questa famosa strada, senza cercare a tutti i costi di "meritare" la felicità?

Repubblica 3.4.10
Una ricerca eterna che riguarda tutti e che ognuno declina a modo suo Chi vuole il piacere momentaneo e chi preferisce la serenità duratura
Estasi, ebbrezza o Nirvana il catalogo è questo
di Stefano Bartezzaghi

Letizia, gioia, brio, gaudio, allegria parole che stanno a indicare tutte le possibili accezioni, varianti, declinazioni di qualcosa molto difficile da definire C´è la versione a basso dispendio energetico (pace, appagamento) e quella opposta che arriva al tripudio orgiastico

Nella ricerca della felicità non si cerca qualcosa per sapere dove si nasconda, ma per sapere cosa sia. O, meglio, quale sia, in quella gamma che va dalla beatitudine al sollucchero, passando per serenità, letizia e ridarella. Se la parola è una sola, le merci che vorremmo acquistare al grande magazzino della felicità sono diversissime: per fare un solo esempio, c´è da sospettare che Lev Tolstoj («Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice lo è a modo suo») e Vladimir Nabokov («Tutte le famiglie infelici si somigliano»...) non si fermerebbero di fronte allo stesso scaffale a cui indugerebbe - per dire - Maria Vittoria Brambilla.
Felicità, letizia, gioia (molto impiegata dall´attuale Pontefice, che però la pronuncia con una C iniziale), gaiezza (parola le cui recenti traversie hanno reso meno frequente nel suo senso proprio), brio, gaudio, giocondità, ilarità, allegria, esultanza, giubilo, tripudio, delizia, estasi, godimento... Convivono in tutta promiscuità e sconfinano nelle reciproche pertinenze parole poco distinte, accomunate da quel tipico sorriso che tradisce la parentela anagrammatica tra il beato e il beota.
Molte le accezioni, le differenze, le varianti, le declinazioni: dal nucleo a basso dispendio energetico costituito da pace, serenità, soddisfazione, appagamento - confinanti un po´ pericolosamente con quiete e requie - («e vissero felici e contenti»: fine della storia, o della Storia), alla costellazione dei tripudi orgiastici e delle esultanze parossistiche, che fanno dire: «e vai!» e fanno fare smorfie e misteriosi gesti con gli avambracci mentre la regia manda «We are the champions».
Le offerte di marketing si attestano, saviamente, a un livello intermedio: promettere la felicità è una debolezza da Costituzioni entusiaste; promettere il «benessere» invece è compito della Realpolitik e anche di appositi Centri con saune e massaggi (nel logo di un albergo recente: «Convegni Cerimonie Benessere»).
Un criterio per orientarsi potrebbe essere quello della posizione della felicità rispetto a un dato evento: la felicità preventiva, che è quella di chi attende serenamente il passaggio a una vita migliore (beatitudine); la felicità consuntiva, di chi gode l´appagamento di un desiderio (soddisfazione); la felicità di chi si estrania dalla realtà mondana (l´atarassia filosofica, l´estasi mistica, il nirvana meditativo).
Ma tra le felicità si possono anche distinguere uno stato mediamente durevole e un climax (o un clima) passeggero, momento glorioso e raggio di sole. A questo criterio allude un recente schemino francese. Intensità massima, minima durata: è l´attimo fuggente, «quant´è bella giovinezza / che si fugge tuttavia»; ma è anche e soprattutto l´orgasmo, detto anche, et pour cause, «apice». Intensità minima, massima durata: il nirvana, l´atarassia, la contemplazione.
I Don Giovanni (da una parte) e i meditatori (dall´altra) sanno quel che vogliono. Sono però casi estremi, così come quello, pur rispettabilissimo, di chi ritiene che la felicità non sia cosa di questo mondo. Tutti gli altri si arrabattano, inseguendo gioie spesso idiosincratiche, dalla prima sorsata di birra al farsi una pera. «Felicità è un cucciolo caldo», disse Charlie Brown, e forse ispirò sia una martellante canzone di Al Bano e Romina Power sia la fioritura delle relative cover apocrife (spesso francamente pecorecce). Un autore come Primo Levi, invece, scriveva che amare il proprio lavoro «costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità in terra»: un´opinione che, essendo espressa in piena epoca di rifiuto del lavoro (fine anni Settanta), suonò assai provocatoria.
Avere le idee chiare è più facile nel campo avverso. Sarà perché gli stati di umore nero inclinano maggiormente all´autoanalisi e al rovello, ma l´irritato, l´arrabbiato, il furente non si confondono fra loro, né, a maggior ragione, con il malinconico, il depresso, il triste, l´ipocondriaco, l´afflitto, il cupo, il mesto, il tetro e il teterrimo. Solo un dilettante dell´atrabile farebbe confusione fra l´iroso e l´irato, l´iracondo e l´irascibile; un vero professionista conosce con esattezza persino la sfumatura che divide l´essere scontento dall´essere malcontento. Del resto Raymond Queneau sosteneva che il linguaggio si sia evoluto a partire dai lamenti degli uomini e che la Storia sia la scienza della loro infelicità.
Perché poi parlare di felicità, quando - se solo ci fosse - dovrebbe bastare a sé stessa? Perché poi, ed eternamente, le mancherà sempre quel «certo non so che» mutevole, come un buco che ne guasta la perfezione sferica. Venire a patti con quell´ineffabile particella che sfugge è un duro lavoro: ma forse è proprio questo il semplice, inaggirabile segreto della felicità.

venerdì 2 aprile 2010

Agenzia Radicale 2.4.10
Se a Roma si fosse votato per le elezioni comunali…
di Carlo Patrignani

Se si fosse votato per le comunali, Emma Bonino oggi sarebbe, indiscutibilmente, il Sindaco di Roma: con i suoi 1.012.542 voti pari al 51,79% ha nettamente sopravanzato Renata Polverini ferma a 931.218 voti, pari 47,63%. Non solo, ma rispetto alla somma dei voti dei partiti facenti parte della coalizione di centro-sinistra (897.264), la Bonino ha avuto ben 115.278 consensi in più: infine si aggiungano i 10 mila voti di preferenza presi con la lista ‘Bonino-Pannella' arrivata, caso unico in Italia, a 64.678 voti per al 3,76%, che ne fanno il terzo partito a Roma. E questo risultato è avvenuto in un contesto che ha visto scendere direttamente in campo, non accadeva dal 1974 (ricordate i comitati civici di Gedda e Fanfani?) cioè dal referendum sul divorzio e dal 1981, cioè dal referendum sull'aborto, il Vaticano, la Cei di Bagnasco e del suo organo ufficiale l'Avvenire, più le parrocchie, da un parte, e dall'altra il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, attraverso i grandi mezzi d'informazione Rai, Mediaset, Sky in testa. Evidentemente la posta in gioco a Roma, a differenza di altre parti, ad esempio la Puglia, era troppo alta: ma nonostante la ‘potente' e capillare organizzazione di media, associazioni e congreghe cattoliche e lo schieramento politico altrettanto ‘potente' e attrezzato, la Bonino ha vinto, anzi ha stravinto. Un dato questo che non puo' esser cancellato o sminuito dal voto complessivo nella Regione. A livello regionale la Bonino è arrivata a 1.331.375 voti, ben 146.143 in più rispetto alla somma dei partiti della coalizione, 1.185.232. Si tenga, poi, conto che il Lazio con l'11,9% è tra le regioni dove, rispetto al 2005, è più alto l'astensionismo, dovuto pure ad una parte consistente dell'elettorato cattolico del centro-sinistra che non ha condiviso la scelta della Bonino. Infine, da non sottovalutare, è che nel Lazio il Partito Democratico ha contenuto al 14% l'emorragia di voti -26% (due milioni in cifra assoluta) rispetto alle precedenti regionali del 2005: come dire la candidatura della Bonino ha fatto guadagnare, nel Lazio, un 12% al Pd. Si tratta ora di non disperdere questo patrimonio di voti e di consensi attorno alla Bonino: non e' uno ‘scherzo' reggere e vincere perché di questo si tratta il confronto con uno schieramento che ricorda molto quello che perse il referendum sul divorzio del 1974 e nel 1981 quello sull'aborto. Emma non è un prodotto mediatico come la Polverini e lo stesso Vendola che godono del favore dei grandi media (Ballarò o Annozero, Porta a Porta o Matrix, etc). Dopo aver ‘regalato', per insipienza, Roma al centro-destra in quelle sciagurate elezioni comunali dell'aprile 2008, il cui esito era in buona parte noto ed annunciato mesi prima, il successo innegabile di Emma Bonino rimette tutto in gioco e riaccende la speranza di poter riconquistare il Campidoglio. Non è dunque affatto vera l'immagine di una Roma papalina, genuflessa al Vaticano e suddita al Potere: c'e', esiste, e stando ai brillanti voti conseguiti da Emma Bonino, una Roma ‘laica', democratica, liberale, e sognando un po' anche ‘azionista' e ‘giellista', e perche' no, ‘garibaldina', che non dimentica uomini e donne di ‘cultura' prestati di volta in volta alla politica, al sindacato, alle grandi organizzazioni di massa. Ad un intellettuale sopraffino come Guido Ceronetti che su ‘La Stampa', il giornale della Fiat, l'azienda torinese con il vizietto di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, scrive "Emma non voleva vincere [..... ] Lazio e Roma sono lebbrosie incurabili. Un salutare distacco nella maratona votante, domenica 28 marzo, ha liberato Emma Bonino, molto più adatta a ruoli internazionali di rovente bisogno, dall'obbligo di governarle. E nei confronti della Chiesa, come dello stesso carrozzone malfermo che a malincuore la sosteneva, sarebbe rimasta drammaticamente sola. Le resterà di meglio, da fare", rispondiamo: "si goda a Torino l'ignorante fascista Roberto Cota, noi continueremo a star vicino, a sostenere con tutte le nostre forze, Emma". Vogliamo costruire attorno ad Emma che ‘dice quel pensa e fa quel che dice', una nuova aperta libera plurale aggregazione di forze che riprendendo quella ‘nobile', onesta, trasparente, tradizione ‘azionista' e ‘giellista', di uomini solitari e testardi come Piero Calamandrei, Riccardo Lombardi, Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Ferruccio Parri, Leo Valiani, Vittorio Foa, Giuseppe Di Vittorio, Bruno Trentin, ebbero il coraggio, di opporsi alla nefasta, illiberale, disonesta prassi del ‘catto-comunismo', del compromesso storico, dell'unione delle due Chiese, per fare dei cittadini non persone umane con i loro bisogni e le loro esigenze da realizzare, i loro diritti civili e sociali da tutelare e garantire, ma degli ‘stupidi sudditi', da controllare e tener buoni con qualche regalia e qualche carezza buonista.

l’Unità 2.4.10
Pillola Ru486 Il Vaticano applaude Cota e Zaia la vieta
L’aborto è un atto di ingiustizia contro cui opporsi. È l’invito esplicito di Benedetto XVI nella omelia del giovedì santo in san Pietro. I neogovernatori leghisti lanciano la crociata contro la pillola Ru486. Il Vaticano plaude.
di Roberto Monteforte

Monsignor Fisichella (in corsa per sostituire Tettamanzi) trova «concreta» l’iniziativa leghista
Dal Papa nuovo attacco contro le «ingiuste leggi» sull’ aborto. Anche a Sud divieti Pdl

Nuovo deciso affondo di Benedetto XVI contro l’aborto. «I cattolici non possono accettare le ingiustizie elevate a “diritto” e a leggi, prima fra tutte «l’uccisione di bambini innocenti non ancora nati»: ha scandito nella sua omelia durante la Messa del Crisma celebrata a San Pietro. Se i cristiani ha spiegato «come buoni cittadini,rispettano il diritto e fanno ciò che è giusto e buono. Rifiutano di fare ciò che negli ordinamenti giuridici in vigore non è diritto, ma ingiustizia». Un invito chiaro ad opporsi con determinazione a quella che è indicata come la più grande delle ingiustizie. «Così serviamo la pace» ha aggiunto il pontefice. Invitando a vincere con «l’amore e non con la spada», a seguire Cristo che «insultato non rispondeva gli insulti; maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia». La via è indicata. Dopo le parole del presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, dopo le conclusioni del Consiglio Permanente dei vescovi è sempre più chiaro che sui «valori non negoziabili» a partire dalla difesa della vita dal concepimento sino alla morte naturale e della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, la Chiesa chiede ai cattolici un impegno coerente. Quindi anche un no esplicito all’utilizzo della pillola abortiva Ru486. Sono «raccomandazioni» che indubbiamente hanno pesato sul voto, soprattutto in Piemonte e nel Lazio.
Le hanno raccolte immediatamente i neogovernatori targati Carroccio. Come primo atto pubblico, infatti, il presidente del Piemonte, Roberto Cota ha detto no alla diffusione della pillola abortiva Ru486: «Resterà nei magazzini» ha dichiarato, dando una netta sterzata alla linea della sua predecessore Mercedes Bresso.
PLAUDE IL VATICANO
«Non daremo mai l’autorizzazione ad acquistarla e utilizzarla nei nostri ospedali» gli ha fatto eco il nuovo presidente del Veneto, il leghista Luca Zaia che ha già annunciato che «studierà il modo per far valere la sua contrarietà a uno strumento farmacologico che banalizza una procedura così delicata come l’aborto, lascia sole le donne e deresponsabilizza i più giovani». Immediato il rilancio di Cota. Chiederà ai direttori generali delle Asl di bloccare l’impiego della Ru486 in attesa della sua entrata in carica e alle strutture sanitarie piemontesi di ospitare le associazioni Pro Vita. Non solo annunci,quindi, ma decisioni.
Era quello che la gerarchia ecclesiastica sperava di sentire. Immediato è giunto il plauso di monsignor Rino Fisichella, presidente della pontificia accademia per la Vita e accorto tessitore, anche nei momenti difficili, dei rapporti tra il partito di Bossi e Oltretevere. Un atto «concreto», improntato alla «difesa della vita e delle donne» ha commentato che manifesta «un’azione politica che ha certamente il supporto dell’elettorato». La Chiesa, o meglio una sua parte, ha trovato nuovi interlocutori, ritenuti finalmente affidabili? Per monsignor Fisichella c’è forse una ragione di soddisfazione in più. Questa sintonia può giovargli nella corsa alla successione de cardinale Tettamanzi alla guida dell’arcidiocesi di Milano.
Intanto, contro la Ru486 Coda e Zaia hanno fatto da apripista agli altri governatori del centrodestra: dal campano, Stefano Caldoro al calabrese, Giuseppe Scopelliti. Nella sottosegretaria al Welfare, Eugenia Roccella hanno una sponda sicura. Meno determinata parrebbe la neo presidente del Lazio, Renata Polverini: «Io ha spiegato sono a favore della vita e farò tutto quello che è necessario per difenderla nel rispetto della legge».❖

l’Unità 2.4.10
Intervista a Ignazio Marino
Un abuso di potere sulla testa delle donne
Il senatore Pd si tratta di un farmaco autorizzato da un’agenzia europea e dall’Aifa in tutta Italia Cota non decide percorsi clinici. La 194 va difesa
di Susanna Turco

Per Ignazio Marino, chirurgo e senatore del Pd, quello che minaccia di fare il governatore del Piemonte Roberto Cota, applaudito da monsignor Fisichella e imitato dal veneto Zaia, è semplicemente «abuso di potere». «Forse si sente un ginecologo», aggiunge senza ridere.
Senatore Marino, può il presidente di una regione decidere sulla distribuzione di un farmaco che ha concluso tutto l’iter per la commercializzazione? «No. Una volta che un farmaco è autorizzato, prima dall’agenzia europea, poi dall’Aifa, lo è per tutto il territorio nazionale: quindi non è più una questione che competa al governatore di una Regione».
Bene.
«Ma c’è di più».
Vale a dire?
«Non si capisce se Cota e gli altri vogliano fingere, oppure non comprendano davvero, che l’utilizzo dell’Ru486 non è una decisione di natura etica, bensì di clinica».
Già, perché parliamo di un farmaco.
«Quindi dal punto di vista etico sarebbe deontologicamente e clinicamente scorretto, per un ginecologo che si trovi di fronte a una donna giunta alla decisione sempre difficile e drammatica di interrompere una gravidanza, nascondere i diversi percorsi clinici che esistono. Quel ginecologo, al contrario, deve spiegare rischi e possibilità di ogni metodologia, e poi giungere a una conclusione che non può che scaturire dal colloquio tra medico e paziente. Non può essere Cota a decidere i percorsi clinici seguiti da una donna nel territorio nel quale governa». In effetti suona strano.
«E invece purtroppo questa destra tutta italiana immagina davvero che il fatto di aver vinto elezioni la metta nelle condizioni di entrare nella vita personale dei cittadini e addirittura di condizionarne le decisioni mediche. È un atteggiamento che lascia sgomenti».
A volte si ha l’impressione che la discussione sulla Ru486 debba ancora cominciare... «È il frutto dell’intolleranza di questa destra verso regole e leggi. La 194 si rispetta, anche se si è presidenti di regione, perché la legge è al di sopra degli eletti. Purtroppo questo concetto è innaturale per costoro, che pensano di poter sentenziare anche al di fuori di quel che la legge prevede».
La Roccella, però, dice che i governatori leghisti vogliono rispettarla, la 194. «Io so che Cota ha detto che non vuole distribuire la Ru486. Poi, se il sottosegretario è a conoscenza del fatto che il neogovernatore si rende conto di aver detto cose al di fuori della legge, e prevede che dirà “scusate mi sono sbagliato”, meglio».
Sempre Cota dice che a suo avviso la Ru486 non può che essere distribuita in ospedale. «Beh ma è chiaro: è ciò che è stabilito dalla legge, e anche dall’Aifa. A volte non si capisce se parlano per fare annunci o perché sanno di cosa stiano parlando».
Secondo lei lo sanno?
«Ho la sensazione che questa destra, non essendo nelle condizioni per affrontare problemi veri, preferisca lanciare diversivi: perché è chiaro che oggi sui giornali non ci sarà la disoccupazione o la povertà, ma la discussione tra Cota, Zaia, Roccella eccetera».
A forza di annunci riusciranno a bloccare davvero la Ru486? «Sono due anni che la pillola abortiva viene rilanciata come una pallina da ping pong, tra agenzie,commissioni e polemiche: di fatto, se non si è riusciti a impedire che un farmaco possa essere utilizzato, di certo si è riuscito a ritardarne l’ingresso per molto tempo».
Cosa pensa, da cattolico, del plauso a Cota di monsignor Fisichella? «Evidentemente i vescovi hanno il compito difficilissimo di educare le coscienze con il loro esempio, ma uno Stato laico deve avere una sua legge sull’aborto. La 194 è una legge equilibrata, che ha fatto dimezzare gli aborti nel nostro Paese. E dimezzare una tragedia così è un percorso di cui essere fieri».
Lo dice perché crede che l’obiettivo ultimo di queste polemiche sia rimetterla in discussione? «Credo che questa pulsione ci sia, in alcune aree della destra, anche se nessuno lo dice apertamente».

il Fatto 2.4.10
Patto di ferro col Vaticano
Polverini: “Sono a favore della vita e farò di tutto per difenderla”


il Fatto 2.4.10
Il papa presenta il conto
La Santa Sede trova nella Lega un interlocutore più affidabile di B.
Ottenuta la sconfitta di Bonino e Bresso Benedetto XVI chiede di boicottare la legge sull’aborto. I leghisti s’inginocchiano
di Marco Politi

Lega e berluscones pagano sull’unghia l’appoggio elettorale della Chiesa. Il Vaticano presenta il conto e, al segnale di Cota, parte la manovra nazionale per strozzare con ogni cavillo l’utilizzo della Ru486. La gerarchia Lega e berluscones pagano sull’unghia l’appoggio elettorale della Chiesa. Il Vaticano presenta il conto e, al segnale di Cota, parte la manovra nazionale per strozzare con ogni cavillo l’utilizzo della Ru486.
La gerarchia ecclesiastica plaude e incassa. La manovra è talmente sfacciata che assume il valore di un patto plateale. I leghisti, ex adoratori del dio Po e un tempo ribelli all’8 per mille e al Concordato, sono pronti a garantire al Vaticano la tutela politica dei “principi cristiani”. In cambio si aspettano che le gerarchie ecclesiastiche (seppure con qualche protesta sulle rozzezze anti-immigrati) non intralcino la presa del potere di Bossi nelle regioni del Nord e gli stravolgimenti costituzionali in arrivo. I leader pidiellini si muovono a rimorchio. Mentre il Papa, celebrando la messa del Giovedì Santo – dedicata ai sacerdoti – ignora del tutto gli scandali di pedofilia nella Chiesa e incita invece all’obiezione di coscienza sulla legge dell’aborto.
La tempistica è stata come dal notaio. Martedì mons. Rino Fisichella, presidente dell’Accademia vaticana per la Vita, un ruiniano di ferro ricevuto pochi giorni fa da Benedetto XVI, sottolinea sul Corriere della Sera la “presenza determinante” dei cattolici nella tornata elettorale, indica come modelli il ciellino Formigoni e il leghista Cota ed esalta la nuova linea della Lega: “Manifesta una piena condivisione con il pensiero della Chiesa”.
Mercoledì Cota lancia l’attacco alla pillola abortiva, promettendo di “contrastare nel Piemonte l’impiego della Ru486”. Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, allude alla possibilità che “tecnicamente” i presidenti delle Regioni possano impedire l’arrivo del farmaco negli ospedali. Giovedì seguono a cascata le dichiarazioni dei governatori leghisti e pidiellini, con l’intento di “costringere” le donne alla degenza in ospedale per usare la Ru486.
Si distingue per violenza di propositi il neo-governatore del Veneto Zaia. Si impegna perché la Ru486 “non arrivi mai” negli ospedali veneti. Sottolinea il suo essere “cattolico”. E come presidente di Regione – ed è questo il segnale che manda al Vaticano in nome della Lega – rivendica autonomia sulle questioni eticamente sensibili.
Zaia gioca in esplicita sintonia con le richieste vaticane. In mattinata Papa Ratzinger incita i cristiani a “rifiutarsi di fare” ciò che non è diritto, “ma ingiustizia” e indica il dovere di opporsi all’“uccisione di bambini innocenti non ancora nati”. Poche ore dopo Zaia esibisce pubblica attenzione all’“invito del Papa che stimola tutti noi a procedere secondo coscienza”. Chiude il quadro l’immediata benedizione del vescovo Fisichella: “Al neo-governatore Cota il mio plauso. Sono atti concreti che parlano da sé”. Cota viene incoraggiato a una “rigorosa applicazione delle leggi a tutela della vita”. Di fatto il neo-governatore del Piemonte promette già un altro regalo: installare i Centri per la Vita in ogni ospedale. Niente di improvvisato in questa operazione. Bossi ha gettato lucidamente le basi di questo patto Lega-Vaticano. A settembre dell’anno scorso, quando la debolezza di Berlusconi era al massimo per il caso Boffo (scatenato dal Giornale di famiglia) e per i postumi dello scandalo escort, il leader leghista cerca il filo diretto con le gerarchie ecclesiastiche. Il 3 settembre incontra per un’ora il presidente della Cei cardinale Bagnasco. Il 23 settembre fa il suo ingresso in Vaticano e resta a colloquio con il Segretario di Stato cardinale Bertone per un’altra ora. E’ presente nella delegazione il capogruppo leghista alla Camera Roberto Cota. Non è un caso se dopo il volgare attacco, lanciato dalla Lega ai primi di dicembre contro il cardinale Tettamanzi di Milano – tacciato di “imam” dalla Padania – il cardinale Bertone, trovandosi a fianco Cota in una tavola rotonda, non gli rivolga nemmeno il più blando appunto, elogiando anzi la Lega per il suo “radicamento sul territorio”. Il patto è preciso. La Chiesa, che da quindici anni dice di no a tutte le leggi destinate a regolare i nuovi fenomeni sociali (dalle coppie di fatto alla fecondazione artificiale), esige e ottiene dalla Lega la garanzia di un’opposizione militante al testamento biologico, alle unioni civili, alla distribuzione della pillola del giorno dopo e di quella abortiva. Alla fin fine le gerarchie ecclesiastiche hanno scoperto in Bossi un interlocutore “più forte” dell’impresentabile Berlusconi. Colpisce in questa manovra a largo raggio l’affiancarsi della Chiesa a quel lavoro di scardinamento degli ordinamenti giuridici in Italia, inaugurato dall’era berlusconiana. Se Berlusconi lo fa rozzamente a difesa dei propri diretti interessi, i vertici ecclesiastici sostengono la disapplicazione attiva della legalità dello Stato per imporre i principi che Ratzinger, già da cardinale, ha dichiarato non negoziabili. Di qui l’incitazione ai farmacisti a non vendere la pillola abortiva, l’incitazione al personale paramedico a un’obiezione di coscienza non prevista dalla 194 nelle operazioni di interruzione di gravidanza, il sabotaggio dell’uso della Ru486 nonostante l’approvazione da parte dell’Aifa.
Grave è il sostegno della gerarchia ecclesiastica ad una distorsione partitico-ideologica delle istituzioni. Ha iniziato Formigoni, benedetto dall’Avvenire, a vietare – contro ogni legalità – che Eluana Englaro fosse accolta in un ospedale della Lombardia per spegnersi secondo natura, come autorizzato dalla magistratura. E’ un gioco in cui non c’è più rispetto di leggi e di tribunali. Tutto per difendere la “trincea italiana”, l’unica in cui il Vaticano riesca ancora a imporre i suoi diktat legislativi. Sotto il vessillo di Bossi, Cota e Zaia ora le Regioni vengono usate per decidere o meno l’applicazione di un trattamento medico, previsto dalla legge e di cui hanno bisogno donne di ogni partito. Non è una strada luminosa quella imboccata su indicazione di Ratzinger.

il Fatto 2.4.10
Via alla crociata
I neoeletti governatori di centrodestra si ‘sdebitano’
“Niente pillola abortiva nei nostri ospedali”

di Stefano Caselli

Pronti, via. Sono passati appena dieci giorni dalle parole del cardinale Angelo Bagnasco che subito i neo governatori Pdl, con particolare zelo da parte dei leghisti, si affrettano a passare all’incasso attaccando a testa bassa la Ru486, la “pillola abortiva” che gli ospedali – a partire dal primo di aprile – sono autorizzati ad ordinare. Il presidente della Cei, in piena campagna elettorale, aveva invitato i cattolici a indirizzare il loro voto verso “la difesa della vita umana, innanzitutto dal delitto incommensurabile dell’aborto, anche nella forma della pillola abortiva”. Il primo a cogliere la balla al balzo – raccogliendo il “plauso” di monsignor Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita – è stato il neo presidente della Regione Piemonte Roberto Cota, successore di Mercedes Bresso, sotto la cui amministrazione era stata autorizzata la sperimentazione della Ru486. Dopo aver annunciato l’intenzione di “far marcire nei magazzini” le confezioni del farmaco, Cota rincara la dose, invitando esplicitamente i direttori delle Asl a bloccare l’uso della pillola abortiva fino al suo insediamento. Peccato che l’utilizzo del farmaco sia stato regolarmente autorizzato, dopo lunga sperimentazione, nell’ambito della legge 194 (che regola l’interruzione volontaria di gravidanza) e che dunque il margine d’intervento delle Regioni sia pressoché nullo: “Una donna che sa che il farmaco è regolarmente registrato – dichiara Walter Arossa, direttore generale del Sant’Anna di Torino – e viene in ospedale per abortire con la Ru486 non può ricevere un rifiuto. Potrebbe rivolgersi al magistrato e chiedere che i suoi diritti siano rispettati”. Se Cota dichiara comunque che “rispetterà la legge”, il collega Veneto Luca Zaia non sembra più di tanto preoccupato: “Per quel che ci riguarda – sostiene Zaia – non daremmo mai l’autorizzazione ad acquistare e utilizzare questa pillola nei nostri ospedali. È una scelta di natura assolutamente etica e morale; ognuno ha la sua coscienza e io rispondo alla mia”. Quanto al come, Zaia rende noto che la Regione Veneto “studierà le modalità per far valere un punto di vista nettamente contrario a uno strumento farmacologico che banalizza una procedura così delicata come l’aborto, che lascia sole le donne e deresponsabilizza i più giovani”. Sulle stesse posizioni si allinea Stefano Caldoro, appena eletto in Campania: “La pillola abortiva deveessereprevistainregime di ricovero. Sono per la difesa della vita. Il ricovero ospedaliero è a tutela della salute della donna”. Parole ineccepibili, anche perché il ricovero ospedaliero non è mai stato messo in discussione, lo ha stabilito lo scorso 19 marzo il Consiglio superiore di Sanità: solo in ospedale si può procedere all’aborto farmacologico. L’unica variabile è l’alternativa day hospital o ricovero ordinario: “Si fa un po’ di confusione – dichiara il ginecologo torinese Silvio Viale, che da anni sperimenta la Ru486 – perché si tratta di due interventi distinti. C’è una prima somministrazione e due giorni dopo una seconda, nel frattempo la donna non corre alcun rischio particolare. Se c’è un’esigenza clinica, la si trattiene in ospedale, ma non c’è alcun obbligo di legge che impedisca al paziente di tornare a casa sotto la sua responsabilità”.
Ed è qui che potrebbero puntare gli oppositori della Ru486. Lo staff di Roberto Formigoni – che in un primo momento aveva scelto di non commentare, confermando che la Regione Lombardia avrebbe continuato, come sempre, ad applicare la legge – ha diffuso una nota: “La 194 – si legge – ha tra le sue finalità quello di non abbandonare la donna a vivere in solitudine il dramma dell’aborto. La Ru486 va nella direzione opposta ed è giuridicamente incompatibile con la legge, scritta per prevenire ed eventualmente regolare l’aborto chirurgico che necessariamente avviene in regime di ricovero. Nel caso di aborto farmacologico, essendo impossibile costringere una donna a un ricovero di più giorni, rischia di venir meno quanto previsto dalla legge per la sicurezza della donna”.
Della sicurezza delle donne, tuttavia, sembra curarsi un po’ di più Amedeo Bianco, presidente della Federazione degli ordini dei medici: “Intorno alla Ru486 – dichiara – ci sono troppe polemiche e non risulta che incentivi l’aborto. È necessario abbassare i toni e combattere l’unico vero rischio: la clandestinità delle procedure di assunzione della pillola”.

Repubblica 2.4.10
Il dio del carroccio
di Adriano Prosperi

Molti si chiedono in questi giorni quale sia il segreto del successo della Lega. La risposta è sempre la stessa. Ce la ripetono con sufficienza i tanti profeti del giorno dopo: il rapporto col territorio. Territorio: parola misteriosa. Non è chiaro che cosa voglia dire. Non è la stessa cosa di quello che una volta si chiamava il "buongoverno" e che voleva dire una somma di virtù civiche e amministrative dominata dalla tutela delle persone e dei loro diritti e dal progresso dei valori civili nella comunità.
Qui sembrerebbe trattarsi invece di una speciale concentrazione sul piccolo mondo vicino e sui suoi abitanti, alzando barriere su chi viene da fuori, sui confini lontani della nazione e del mondo. Chi perde voti e seggi ci si arrovella e cerca di imitare parole d´ordine e politiche locali della Lega per strapparle consensi o almeno per ridurre l´emorragia elettorale. Ma in realtà il territorio di cui oggi si occupa la Lega non è la Padania, quale che sia il significato geografico che si vuole dare alla parola. E´ il Vaticano, un´isola eminente di quella Roma ladrona contro la quale la Lega si era dichiarata in guerra. A urne appena chiuse il vincitore del Piemonte dichiara che per quanto lo riguarda farà il possibile per ostacolare la pillola abortiva: "marcirà nei magazzini". Poche ore dopo lo segue sulla stessa strada il neogovernatore leghista del Veneto, Zaia ed entrambi ottengono la benedizione di Monsignor Fisichella, a confermare che l´alleanza politica stretta tra la Lega e il Vaticano gode ottima salute e che la gerarchia ecclesiastica ha le idee chiare sugli alleati da scegliere per la propria battaglia culturale.
Il Papa sostiene che è legittimo disobbedire a leggi ingiuste (e cioè l´aborto), e i governatori eseguono: il primo, fondamentale prezzo pagato dai vincitori è la dichiarata volontà di ostacolare in tutti i modi il ricorso all´aborto nelle regioni di loro spettanza: che ci si presentano oggi come un territorio che si vorrebbe libero dalle leggi della Repubblica, un territorio vaticanizzato in un´Italia mai così lontana dall´unità nazionale. E sono ancora una volta le donne a pagare il prezzo di un´alleanza stretta sopra la loro testa, pagata col dominio sui loro corpi, in spregio alle leggi esistenti e alle norme attentamente e accuratamente varate dalle agenzie competenti. Quella pillola - si dice - banalizza l´aborto. Non si capisce che cosa si voglia dire con questa espressione. Nessuna donna potrà mai banalizzare una scelta del genere, checché pensino gli uomini di un´esperienza da cui sono esclusi per natura e dai cui dintorni sono tenuti lontani da istintiva e incancellabile viltà.
Lo sforzo di civiltà del paese Italia fu compiuto con una legge e con un referendum che sancirono la volontà collettiva di attrarre l´aborto nella luce di un luogo di tutela della salute, ponendo termine al buio e ai pericoli della clandestinità. Era un primo fondamentale passo sulla via giusta. Bisognava andare avanti eliminando le cause che portavano all´aborto. Ma quelle cause non sono state rimosse, anzi sono state aggravate dai due contraenti di una nuova Santa Alleanza. Alla necessità di una diffusa e moderna educazione sessuale per evitare gravidanze indesiderate l´autorità papale ha opposto la condanna senza appello perfino dell´uso del profilattico. Dall´altra parte le norme di legge sui clandestini volute in prima persona dai leghisti sono state pagate con una quantità di aborti clandestini per definizione incontrollabile ma sicuramente molto vasta. Oggi il conto della vittoria della Lega viene presentato alle donne in termini di una aumentata pressione perché tornino al segreto e alle pratiche selvagge dell´aborto fai-da-te.
Forse alla Lega non importa se moriranno le immigrate, per definizione senza diritti e senza voto. Ma ci aspettiamo che gli uomini delle istituzioni, i garanti dei diritti costituzionali, le forze di un´opposizione finora incredibilmente timida su questo terreno facciano sentire la loro voce. E questo prima che si riproduca nello scenario italiano lo spettacolo della fanatizzazione deliberata delle masse. Quello che abbiamo visto all´epoca della pur recentissima vicenda di Eluana Englaro è stato un esempio di quali costi debba affrontare chi segue la propria coscienza e vuole semplicemente ottenere la tutela di diritti naturali dell´individuo affidandosi con fiducia alle sentenze dei magistrati. Abbiamo visto di quali risorse di determinazione e di pazienza abbia dovuto dar prova un uomo in quel caso. Per questo le dichiarazioni dei nuovi governatori leghisti debbono ricevere una risposta ferma e all´altezza della sfida. Lasciamo alle coscienze degli italiani decidere se quello della pillola abortiva sia il problema dei problemi per chi desidera davvero tutelare la vita nascente, la vita indifesa.

Repubblica 2.4.10
Il peccato delle donne
di Natalia Aspesi

Le donne sono diventate l´anello più floscio della società. E la Lega le colpisce, prima di evasori e criminali

Potevano essere altri, più fiammeggianti e costruttivi, più remunerativi e sperati, insomma vere proposte di libertà, i primi solenni impegni presi dagli scalpitanti nuovissimi governatori del povero Nord che si avvia malconcio a precipitare nella Padania. Roberto Cota e Luca Zaia, due non brutti giovanotti in cravatta verde, sono stati eletti a furor di popolo anche da frotte di ammiratrici che ne adorano il celodurismo di partito.
Ebbene, i due si sono subito dimostrati soprattutto devoti, tradizionalisti, forse nostalgici della messa in latino, e soprattutto ben diversi dai faciloni loro alleati pdl, che si sono fatta la brutta fama di perdigiorno dietro escort ambosessi e sempre a gridare su pratiche di giustizia che non interessano ad anima viva tranne una.
Si sa che ormai le donne sono diventate l´anello più floscio della società, loro che pareva avessero in mano il mondo e adesso invece non basta un bel sedere per far carriera, se non sai almeno praticare l´igiene dentale. Quindi prima che agli evasori, agli inquinatori, ai criminali, ai fannulloni e persino ai clandestini, i nuovi ras della Padania hanno preso subito a randellate le donne; che se non ci fossero non ci sarebbe l´aborto, quindi l´obbligo di perder tempo con un grattacapo epocale irrisolvibile, reso stordente dal continuo martellare ecclesiastico che ogni mattina si sveglia, dà un veloce sguardo annoiato sulla montagna impolverata di pratiche pedofile che riguardano i suoi pii fratelli in tutto il mondo, e subito gli viene un diavolo per capello pensando all´infame dal nome innominabile, la diavolessa RU486, che gli fa passare anche la voglia del cappuccino.
Quella pozione luciferina ha qualcosa di veramente abominevole: procura l´aborto senza che chi la ingoia quasi se ne accorga, la paziente non subisce ferri chirurgici o aspiratori, non si sente strappare le viscere, non si dissangua, non prova che lievi dolori. Ignominia su ignominia, i nemici del farmaco sostengono che con questo metodo sbrigativo la peccatrice non ha tempo di sentirsi quello che è, un´assassina, e di continuare a soffrire e chiedere perdono per tutti i suoi giorni. Questo non è vero, perché se non in termini così apocalittici, non c´è aborto che non lasci una ferita in una donna, che sempre si chiederà a cosa ha rinunciato e chi sarebbe stato quella rinuncia una volta diventata persona. Certo, l´interruzione di gravidanza, voluta dalla legge 194 e necessariamente cruenta, piace di più ai nemici dell´aborto, in quanto punitiva: anche se poi, quel che davvero si meriterebbero le donne sarebbe un bel ritorno all´aborto clandestino, quando almeno le malvagie assassine spesso morivano come meritavano.
A questo punto risulta chiarissimo, e senza condizionali, che le parole dei vescovi alla vigilia delle elezioni erano un ordine cui non si poteva disubbidire. E i vincitori hanno subito risposto come dovevano, rassicurato le gerarchie, in cambio dell´appoggio alla vittoria: a questo punto, la morte della RU486, potrebbe anche preludere a una revisione della legge 194. Ci sono ministri mistici o governatori tutto casa e chiesa che si svegliano pensando ai feti, e giù lacrime, e già si armano per mettere definitivamente le donne al tappeto con una legge che renda una interruzione legale più difficile che un Nobel al pensoso erede Bossi. Il problema è che i feti di Cota, Zaia e tutti gli altri governatori spaventati e inetti, non hanno nessuna riconoscenza; se ne stessero lì, buoni, feti per sempre, non darebbero fastidio: ma pretendono di diventare bambini, di crescere e farsi noiosi e ingombranti e pieni di pretese: e si lamentano dei preti pedofili, e non si accontentano di pane e acqua alla refezione scolastica, e fan fare brutte figure ai giovanotti che li ammazzano di botte, e strillano se li vendono per la prostituzione o li usano per ricavarne organi sani. Cota e amici, giusto martellare la cattiva pillola, ma magari una vostra premurosa occhiata leghista su come vivono i bambini, non potreste sprecarla più per i bambini che per i feti?

Germania, a Treviri va in tilt il centralino sugli abusi:4.459 chiamate il primo giorno
Dagli Usa le accuse lambiscono anche Paolo VI. Ancora nuovi casi in Francia
l’Unità 2.4.10
Pedofilia, denunce su denunce Il Vaticano: falsi scoop dal Nyt
Centralini in tilt al numero verde antipedofilia della Chiesa in Germania che lancia l’operrazione trsaperenza. Levada accusa il New York Times: falsi scoop sul Papa. L’arcivescovo di Vienna: non ha mai insabbiato.
di Roberto Monteforte

Oltre quattromilacinquecento chiamate giunte nel primo giorno di attività al numero verde messo a disposizione dalla Conferenza episcopale tedesca per raccogliere le denuncie delle vittime dei preti pedofili.
Oltre un migliaio, tra vittime o familiari, hanno chiesto di parlare con gli operatori. Un record inquietante, molto al di sopra delle previsioni. «Un simile assalto non era previsto» ammette il direttore della sala operativa, a Treviri, Andreas Zimmer. Va avanti la scelta «operazione verità» su Chiesa e pedofilia de vescovi tedeschi. «Così spiega il vescovo Ackermann vogliamo incoraggiare le vittime a farsi avanti, indipendentemente dal fatto che si tratti di casi recenti oppure prescritti. Vogliamo sapere, e stare vicini alle vittime nell’elaborazione delle conseguenze». La risposta c’è stata. Segno che la linea di denuncia e di aperta collaborazione
con le autorità civili funziona. Ieri il cancelliere Angela Merkel l’ha pubblicamente apprezzata: «Non vi sono alternative alla verità e alla trasparenza». Nuovi casi vengono denunciati in Francia: a Rouen, in Normandia, padre Jacques Gaimard, direttore dell’agenzia locale di radio Rcf (Radio Cristiana di Francia), è stato incriminato per violenze sessuali su un ragazzo di 15 anni e padre Philippe Richir, parroco di Saint Martin de Canteleu, è stato fermato nell’ambito della stessa inchiesta, per «detenzione di immagini pedopornografiche». I due sono stati sospesi. E una lettera, scrive Ap, aveva informato anche Paolo VI: l’aveva scritta nel 1063 il reverendo Gerard M.C. Fitzgerald, capo dell'ordine dei Servi del Paraclito.
Sull’accertamento della verità e le responsabilità della Chiesa, compreso il ruolo svolto da Papa Ratzinger, la polemica resta alta. Il Vaticano critica apertamente le ricostruzioni del New York Times sul coinvolgimento dello stesso pontefice in casi di copertura di preti pedofili. «Falsi scoop» e «frutto di pregiudizi» le ricostruzioni sul «caso Murphy» afferma il cardinale William Joseph Levada. Critiche simili le muove l’arcivescovo di New York, Dolan. Sono accuse che Radio Vaticana rilancia. Riporta anche la posizione del Daily News che «pur rivolgendo critiche alla Chiesa, bolla senza mezzi termini come “false” le accuse del NYT contro Benedetto XVI».
RADIO VATICANA ATTACCA
Per l’arcivescovo di Vienna, cardinale Schoenborn «il Papa ha sempre avuto una chiara linea contraria all’insabbiamento», anche se questo «non è sempre piaciuto in Vaticano». Linea ferma anche per il patriarca di Venezia, cardinale Scola. «Contro la pedofilia occorre lottare con rinnovato impegno, senza tentennamenti e minimizzazioni, a rendere conto di ognuno di questi misfatti, decisi a non nascondere nulla». «In ottemperanza alle direttive ribadite dal Papa aggiunge sia attraverso le procedure canoniche che mediante una leale collaborazione con le autorità dello Stato»

l’Unità 2.4.10
Scuola, il governo del fare
Licenziati 25.600 professori
Ad un giorno dal voto la prima conferma sulla direzione di marcia del governo. La bozza sugli organici della scuola è netta: oltre 25mila insegnanti l’anno prossimo non avranno cattedra.
di F. L.

Conferme sui tagli dalla prima bozza sugli organici presentata dal ministero ai sindacati
Sono le conseguenze della cosiddetta riforma delle superiori. Difficoltà per i disabili

Una conferma puntuale, la prima, degli obiettivi del governo del fare. A ventiquattr’ore dal voto i sindacati della scuola hanno incontrato i funzionari del ministero dell’Istruzione e hanno avuto con geometrica potenza la determinazione di quel che sarà: 25.600 posti in meno per i professori a partire dal prossimo anno scolastico. Notizia perlopiù ignorata dalla stampa (tranne l’Unità). Che segue di qualche giorno l’annuncio che saltano i tetti degli alunni per classe, e si aggiunge al grido di dolore dei presidi rimasti senza soldi e costretti a chiedere centinaia di euro alle famiglie sotto forma di contributo volontario.
LA CIRCOLARE SUGLI ORGANICI
La bozza di circolare sugli organici contiene i tagli. La riduzione che l’amministrazione intende realizzare, anche tenendo conto dell’andamento della previsione degli alunni, comporterà una contrazione di organico di circa 8.700 unità nella scuola primaria, di circa 3.700 nella scuola secondaria di primo grado e di circa 13.750 nella secondaria di secondo grado.
Per questo intervento il ministero, oltre a tener conto dell’andamento degli alunni agirà sull’innalzamento del rapporto alunni/classi, sul dimensionamento della rete scolastica e sul riordino dei cicli di studio: anche oltre trenta ragazzi per classe se serve a ridurre organico.
Nella scuola dell’infanzia è previsto il consolidamento dell’organico di fatto dell’anno scolastico in corso che prevede un incremento nel diritto di 560 posti. Per quanto riguarda il sostegno verrà recepita la sentenza della Corte Costituzionale, dello scorso 22 febbraio che abroga i limiti del tetto massimo: le famiglie con disabili sono avvertite, si va verso il sostegno apparente se un insegnante ne seguirà più di cinque. Sempre per il sostegno verrà confermato l’incremento triennale dell’organico di diritto che verrà determinato in 63.348 unità. Rispetto alla riduzione complessiva dell’organico l’amministrazione è orientata ad agire, in parte, anche nell’organico di fatto: su un totale di 25.600 posti 22.000 verrebbero ridotti in organico di diritto e 3.600 in quello di fatto.
FUTURO NERO
Comunicazioni secche, gelide. La stessa nettezza usata per dire ai presidi che non si devono lagnare e che l’anno prossimo avranno mille euro per scuola, quanto basta per comprare la carta delle fotocopie, nemmeno i toner. Un Gelmini rimbrotto dal sapore demagogico: prendetevi questo e cancellate il contributo volontario. Ecco, con quei soldi i dirigenti scolastici mandano avanti gli istituti, vantando crediti per circa un miliardo di euro che lo Stato non gli restituirà mai.
SUPERIORI SENZA LEGGE
Infine. La riforma delle superiori non è ancora legge, benché le iscrizioni siano chiuse. Ha firmato il Capo dello Stato, ma non c’è ancora il parere della Corte dei Conti né la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.

l’Unità 2.4.10
Quel dramma che il centrosinistra non riesce a vedere
I prof fanno meno notizia degli operai Ma poi votano...
I docenti che perderanno il lavoro in settembre si sentono soli Un ceto sociale descritto sempre con i peggiori luoghi comuni Chi oggi valuta le astensioni parta anche da qui
di Fabio Luppino

fLe corde morali e politiche vibrano ancora quando si vedono operai sui tetti, al freddo, esposti al pericolo, soli e mal rappresentati, costretti all’estremo gesto per la difesa di un diritto costituzionale, il lavoro. Non sale alcuna voce, al contrario, non si nota alcuna convinta, duratura battaglia politica quando si tratta di insegnanti. Sono anche saliti sui tetti, si sono anche messi in mutande, ma non hanno suscitato altro che sorrisi e temporanea simpatia. Venticinquemila persone in carne e ossa sanno già che tra pochi mesi non avranno più un lavoro. Un dramma epocale frutto di una riforma della scuola devastante per loro e per il futuro dei ragazzi. Un dramma relegato alla solitudine di chi lo vive e alle chiacchiere con gli amici. Un dramma che riguarda famiglie, mogli, mariti, figli. Molti, moltissimi saranno cinquantenni che finiranno di insegnare e non sanno fare altro. Lo scrivono all’Unità quasi ogni giorno.
In settembre avverrà nella storia repubblicana del nostro Paese una prima assoluta: un licenziamento di massa da parte dello Stato. Immaginate se Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, annunciasse la cassaintegrazione senza ritorno per 25mila operai. Il centrosinistra, almeno a parole e con qualche fatto, lì ancora c’è (ma non basta un’alba davanti ai cancelli Fiat).
Gli insegnanti sono soli, sentono di esserlo. Per decenni la politica tutta ha destrutturato l’immagine dei docenti, sparando nel mucchio con luoghi comuni che, sempre, hanno suonato a sfregio per chi quel lavoro svolge con coscienza, sacrificio, attenzione pedagogica oltre che didattica, con scarsissimi riconoscimenti sociali ed economici. Messaggi negativi che oggi sono convinzioni diffuse nell’opinione pubblica: i professori sono inetti, inutili, parassiti sociali. Conclusione: licenziare un insegnante non è un danno sociale, nemmeno 25mila (più 15mila bidelli e addetti di segreteria che pure la scuola la fanno). Il silenzio della politica nei mesi in cui il governo preparava la riforma delle superiori è stato totale. L’impegno a difesa della scuola pubblica, efficiente, come reale ascensore sociale non c’è stato. E gli appelli di queste ultime settimane, anche del Pd, in cui questo impegno è sembrato riemergere, sono apparsi tardivi, inutili, quasi una beffa a quegli insegnanti che nessuno ha salvato da un destino scritto nei testi Gelmini.
La scuola pubblica andava migliorata, non progressivamente sconvolta. Nell’analisi del voto tutti, a partire dal Pd, vadano a leggere le astensioni anche degli insegnanti (e degli operai, con anche tra loro caso una percentuale di voti che se n’è andata a destra, soprattutto al Nord), che in altri tempi hanno riposto grande fiducia, tradita, nel centrosinistra.
Lasciamo alla riflessione di tutti stralci di un appello apparso il 26 marzo sul sito del Cidi (Centro iniziativa democratica degli insegnanti): «Ci sono dei momenti in cui bisogna avere il coraggio e la forza di dire No. No alla scuola pubblica che va al massacro. No alla scuola delle quote per gli alunni non italiani. No ad assolvere l’obbligo nella formazione professionale. No a lavorare a 15 anni nell’apprendistato. No a risparmiare sulle supplenze. No a dividere gli alunni nelle varie classi quando manca l’insegnante. No a classi troppo numerose. No alla dissipazione della scuola primaria. No alle iscrizioni al buio. No a Indicazioni nazionali per i licei che impoveriscono la mente e il cuore. No a intimidire i dirigenti. No a impaurire i docenti. No alla scuola dei ricchi e a quella dei poveri. No al mercato dei master di fantomatiche università on line. No alla valutazione che sanziona e punisce. No e ancora No.
Gli insegnanti del Cidi sono sempre stati in prima fila in tutti i momenti più significativi della vita della scuola con l’ostinata convinzione che l’istruzione sia strumento di libertà e di emancipazione e la scuola un bene pubblico di cui aver rispetto e cura». Rispetto e cura, è già un programma politico.

l’Unità 2.4.10
Due Israele
60mila coloni prenderebbero le armi contro gli sgomberi
Il 54% non riconosce l’autorità del governo e strappa terra e acqua nei Territori Su Gaza volantini annunciano una rappresaglia
di Umberto De Giovannangeli

uNon riconoscono l'autorità del Governo. Sono pronti a tutto, anche ad usare le armi, per difendere il loro «diritto» a insediarsi dovunque a Eretz Israel, la Sacra Terra d'Israele. Sono i coloni oltranzisti dello Stato (ombra) di Giudea e Samaria, nomi biblici della Cisgiordania. Spaccato inquietante quello che emerge da un sondaggio condotto dall'Università Ebraica di Gerusalemme, che dà conto di una radicalizzazione che mette a rischio non solo la tenue speranza di una ripresa del processo di pace israelo-palestinese, ma insidia lo stesso tessuto democratico d'Israele. Il 21% dei coloni che vivono negli insediamenti ebraici ritiene che ogni mezzo sia lecito, incluse le armi, per impedire lo sgombero delle colonie in Cisgiordania, rileva la ricerca. In uno studio simile cinque anni fa solo il 15% diede la medesima risposta. Dal sondaggio emerge che il 54% dei coloni non riconosce l'autorità del governo di ordinare lo sgombero degli insediamenti; il 63% pensa che si tratti di una decisione che richieda un referendum e non solo una decisione della Knesset. Ma anche in questo caso, il 49% non accetterebbe lo sgombero nemmeno se autorizzato da un referendum approvato dalla maggioranza ebraica di Israele. Da notare che fra la popolazione israeliana nel suo insieme il 72% riconosce invece l'autorità del governo di imporre l'abbandono delle colonie e il 60% è pure favorevole (un punto in più rispetto al 2005); tra i coloni solo il 23% sarebbe d'accordo (cinque anni fa erano il 30%).
Oltre 60mila coloni (sui più di 300mila che vivono in Cisgiordania) si dicono dunque pronti a tutto, anche a impugnare le armi, per difendere i loro insediamenti. Un rapporto di Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, sottolinea che una minoranza radicale potrebbe ricorrere alla violenza: la «minaccia numero 1» è un blitz nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme, terzo luogo sacro dell' Islam.
Un vero e proprio esercito. Agguerrito, motivato ideologicamente, sostenuto finanziariamente dalla parte più conservatrice della comunità ebraica americana, convinto di essere dalla parte giusta: quella della Torah. Un esercito che è anche una potente lobby elettorale, sostenendo partiti o candidati che con più convinzione supportino i “desiderata”, degli oltranzisti. Il sondaggio dell'Università Ebraica ha ancor più valenza politica se integrato con un altro studio, quello di Rubi Nathanson, del «Centro Macro di politica economica», sugli insediamenti israeliani. Nelle colonie, secondo Nathanson, sono stati costruiti 55.708 alloggi. I 300 mila coloni utilizzano 868 edifici pubblici, 717 stabilimenti industriali, 555 scuole, 321 centri sportivi, 271 sinagoghe e 187 centri commerciali. Il valore di infrastrutture e costruzioni nelle colonie israeliane in Cisgiordania, stima il rapporto, vale 17,5 miliardi di dollari.
Gli oltranzisti hanno già sperimentato varie tecniche di attacco. Tra queste, c'è «il prezzo da pagare»: se il governo invia forze di polizia o militari a smantellare un avamposto in costruzione, i coloni fanno in modo che siano i palestinesi a pagarne il prezzo. Il «prezzo da pagare». Sempre più alto per la popolazione palestinese. Il prezzo dell'oppressione.
Confisca delle terre, ma non solo. «Israele consente ai palestinesi di accedere solamente a una piccola parte delle risorse idriche, che si trovano per la maggior parte nella Cisgiordania occupata, dove invece gli insediamenti illegali dei coloni ricevono acqua in modo illimitato» denuncia Amnesty International.
Nella maggior parte degli insediamenti (circa il 75%) le opere edilizie sono realizzate senza licenze, o in contrasto con le licenze concesse. In più di 30 insediamenti sono stati costruiti edifici e infrastrutture (strade, scuole, sinagoghe, seminari rabbinici e perfino commissariati) su terreni che appartenevano a palestinesi residenti in Cisgiordania. Da uno Stato ombra a una Striscia
assediata. L'aviazione israeliana ha lanciato ieri migliaia di volantini in aree della Striscia di Gaza lungo il confine con Israele, per avvertire la popolazione palestinese che è vicina una dura rappresaglia per l'uccisione di due soldati israeliani, lo scorso venerdì. A riferirlo sono fonti palestinesi a Gaza.
Sarebbero stati lanciati due tipi di volantini. In uno, in cui c’è la foto di un bambino con in mano una rosa, è scritto: «aspettate la risposta domani», oggi per chi legge; in un altro si avverte che ci sarà una dura risposta, si invita la popolazione a tenersi lontana da “terroristi” e a chiamare un numero di telefono per dare in forma anonima informazioni utili alle forze armate dello Stato ebraico.