sabato 1 settembre 2007

Repubblica 1.9.07
I diavoli tentatori
L’immagine di chi spaccia e di chi compra
di Umberto Galimberti


Due pesi e due misure: chi vende le sostanze "commette un reato" chi le compra è una "vittima
Il potere nega l'autocontrollo per esercitare sugli uomini il suo dominio
Un problema che va affrontato a livello di "storia delle idee", con uno sguardo filosofico

Negli anni Settanta, la psichiatria incominciò a interrogarsi non tanto sui «metodi» più idonei di cura, quanto sui «fondamenti» teorici che giustificavano quei metodi. Questo genere di interrogazioni suscitò reazioni ostili da parte della città, sempre affamata di soluzioni e mai di problemi, di risposte e mai di domande. A Socrate che, inaugurando la filosofia, aveva messo in circolazione una serie di domande, la città riservò la cicuta, una droga (phármakon) che, nel momento in cui veniva somministrata dallo Stato, diventava legale e contribuiva all´ordine.
Resta infatti da dimostrare che le droghe lecite, quelle autorizzate dallo Stato: alcol e tabacco, per non parlare di quella droga chiamata «gioco», mietono meno vittime di quelle illecite: hashish, ecstasy, eroina, cocaina, proibite dallo Stato.
In questa strana incongruenza sembra si annidi non solo una sorta di inganno ideologico che maschera quanto vi è di inconfessabile nell´intenzione politica, ma anche quella riduzione di libertà che l´uomo sperimenta su di sé non per effetto delle «strategie del potere» (cosa che gli uomini conoscono dall´inizio della loro storia), ma per effetto delle «persuasioni indotte dal sapere», rispetto a cui, come ci ricorda Foucault, le strategie del potere, per quanto accanite e brutali, sono povera cosa.
Con ciò non intendiamo puntare l´indice sulle delibere di questo o quel governo, ma focalizzare un passaggio storico, avvenuto in epoca illuministica, quando alla visione «mitico-religiosa» del mondo è subentrata quella «scientifica» e, nella fattispecie, quella «medica».
E´ noto che l´uomo non ha mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che le varie epoche storiche si sono incaricate di dare al mondo. Altro è vivere in un mondo i cui riferimenti sono mitici, altro in un mondo i cui riferimenti sono scientifici.
Nella descrizione «mitico-religiosa» del mondo c´era più considerazione per l´uomo non ancora ridotto, come nella descrizione scientifica del mondo, a semplice «organismo». Dicendo questo non si vuol assolvere nessuna delle crudeltà che in nome di Dio sono state inflitte agli uomini, ma semplicemente dire che sotto ogni crudeltà e punizione e tortura, fino al supplizio della morte, c´era sottesa l´idea che l´uomo è libero di fare sia il bene sia il male e, proprio per ridurre questa riconosciuta libertà, si rendevano necessarie crudeltà, punizioni e torture, fino al supplizio della morte.
La scienza non riconosce all´uomo la sua libertà, e questo non perché è giunta a scoperte incontestabili, ma perché non rientra nel suo metodo, regolato dal determinismo della ragione matematica, prendere le mosse da una simile ipotesi. Per queste sue esigenze di metodo, la scienza, a partire da Cartesio, fu costretta a trasformare il «corpo» in «organismo», e a indagare l´organismo come il fisico indaga un campo di forze.
Per effetto di questa oggettivazione, l´uomo è diventato una cosa, la cui espressione è leggibile nelle forze che la determinano. E come un ponte costruito per sostenere cinque tonnellate è impensabile che «si impegni» a reggerne dieci, così l´uomo, ridotto a organismo, è impensabile che «si impegni» a reggere una dose di droga. Una volta che si prescinde dal concetto di libertà si giunge al misconoscimento delle capacità di «autocontrollo» dell´uomo, che inevitabilmente porta, su base scientifica, al «controllo esterno» dell´uomo ridotto a cosa.
Nella visione mitico-religiosa l´uomo è visto come un attore responsabile delle sue azioni, che possono essere insidiate dalla «tentazione», a cui l´individuo può resistere o soccombere. Non c´è visione mitico-religiosa che non prenda le mosse da una tentazione originaria in cui, insieme alle catastrofi previste come conseguenza del cedimento alla tentazione, c´è una celebrazione della libertà dell´uomo. Nella visione scientifica del mondo l´uomo è un organismo che non agisce liberamente, ma si esprime come risultato di una «dinamica di forze» individuabili a un´attenta analisi psicologica se non addirittura biologica.
In questo scenario, dove il concetto di «tentazione» che si offre alla libertà dell´individuo è stato scientificamente tradotto in quello di «forza pulsionale» che agisce alle spalle dell´individuo, è ovvio che per il contenimento di quest´ultima non ci si potrà affidare all´autocontrollo che l´immagine della tentazione evoca, ma al controllo esterno evocato dall´immagine di forza pulsionale che agisce in un soggetto al di là della sua libertà.
Ma allora spontanea sorge la domanda: la droga è mortale perché più forte della libertà del soggetto, o perché la visione scientifica dell´uomo, non ospitando la categoria della libertà ma solo quella della dinamica delle forze, visualizza la droga come una forza a cui nulla si oppone se non una forza esterna superiore e contraria?
Come ci ricorda Thomas Szasz ne Il mito della droga (Feltrinelli) altra cosa è infatti vedere nel drogato una «persona» che liberamente cede a una tentazione, altro è vederlo come una «vittima» che non può non soccombere a una forza irresistibile. La visione mitico-religiosa dell´uomo riconosce al drogato la libertà, dal cui cattivo uso scende la punizione, anche nelle forme più crudeli che la storia testimonia. La visione scientifica dell´uomo, invece, è disposta a restituire al drogato l´innocenza (è una vittima), solo perché prima non gli ha riconosciuto la libertà di autodeterminarsi e di autocontrollarsi, avendo visualizzato la droga non come una «tentazione», ma come una «forza irresistibile».
Analoga sorte spetta allo spacciatore. In uno scenario mitico-religioso lo spacciatore occupa il posto del diavolo tentatore o di una Eva tentatrice che mette alla prova Adamo. «Mettere alla prova» non è di per sé qualcosa di diabolico o di esecrabile, ma è semplicemente il passaggio necessario richiesto per uscire dall´infanzia attraverso l´esercizio della libertà. Se aboliamo il concetto di tentazione che sottintende quello di libertà, lo spacciatore è colui che innesca la «forza irresistibile» a cui la vittima non può che cedere. E allora nasce quella politica a due pesi e a due misure per cui il tentatore non «mette alla prova», ma «commette un reato», e il tentato che cede non è un «colpevole», ma gode dell´innocenza della «vittima».
I risultati di questa visione scientifica dell´uomo sono visibili in tutte le strade della nostra città, dove la prostituta in quanto «tentatrice» è perseguitata dalla legge, mentre il cliente, in quanto cede a una forza a cui non può resistere, è «innocente» o al massimo, indipendentemente dalla sua volontà, è «disturbato nella sua condotta» e quindi di nuovo innocente. Lo stesso dicasi per il drogato che non può fare a meno di comportarsi come fa, e quindi è innocente, mentre lo spacciatore, in quanto tentatore, è un criminale diabolico.
Ma perché si mantiene la categoria mitico-religiosa della «tentazione» per lo spacciatore e per la prostituta, e si adotta invece la categoria psico-biologica della «forza irresistibile» per il drogato e il cliente della prostituta? Per sottrarre al drogato e al cliente anche la sola ipotesi di avere a disposizione la libertà dell´«autocontrollo», perché solo persuadendo gli uomini che non si possono autocontrollare, si può esercitare su di loro il «controllo esterno», a cui il potere per sua natura tende.
E così, concedendo a spacciatori e prostitute la prerogativa della «libertà», è possibile adottare nei loro confronti tutta quella serie di controlli, punizioni e reclusioni di cui la storia mitico-religiosa offre una ricca documentazione, mentre, adottando per il drogato e per il cliente della prostituta la categoria scientifica della «forza irresistibile», da cui scaturisce la loro innocenza, è possibile applicare ad essi, con la benedizione della scienza medica, quel controllo esterno che è il dovere della cura.
Con due pesi e due misure, utilizzando insieme due visioni del mondo, quella mitico-religiosa e quella scientifica tra loro antitetiche, il potere raggiunge in entrambi i casi il suo scopo che è quello di negare l´autocontrollo, come prerogativa inalienabile dell´uomo, per esercitare sugli uomini il suo controllo.
Il problema della droga non può essere affrontato solo a livello sociologico dove, tra test e campionature, lo sguardo resta in superficie senza mai azzardare uno strato di profondità; e neppure a livello psicoanalitico perché, non essendo ancora riuscita a emanciparsi dal seno materno, la psicoanalisi vede latte succhiato dal seno sia nel bicchiere dell´alcolista, sia nella siringa del drogato.
Il problema della droga va affrontato anzitutto a livello di «storia delle idee», quindi con uno sguardo filosofico, che può sembrare inutile ed essere trascurato per negligenza, per pigrizia o per una certa fatica che tutti avvertiamo di fronte all´astrattezza, ma non può essere evitato, se non si vuol scambiare per «razionale» ciò che è semplicemente conseguente a una determinata visione del mondo, dalla cui insidia non ci difenderà mai la nostra ignoranza.
(5. continua)

Repubblica 1.9.07
La biografia del filosofo di Tilmann Buddensieg
L’Italia di Nietzsche
È Torino l’unica grande città
di Francesca Bonoli


Dopo il 1869, Nietzsche visse per brevi periodi in Germania. Le condizioni di salute in cui versava - gravi difficoltà alla vista - lo videro costretto ad abbandonare ogni fissa dimora, alla ricerca di luoghi e climi più adatti per poter convivere con la sua malattia. Nietzsche in viaggio verso il Sud, verso l´Italia: Napoli, Genova, Venezia, Firenze, Nizza e Torino. L´Italia di Nietzsche, di Tilmann Buddensieg (Scheiwiller, pagg. 270, euro 18) non è un semplice approfondimento biografico, bensì un´analisi dei luoghi e delle loro specificità climatiche, architettoniche, artistiche e sociali. Nel 1877 Nietzsche è a Napoli. Da subito comprende di non "avere più energie sufficienti per il Nord" e così, quando per la prima volta vide scendere la sera sulla città, ebbe la sensazione di dare, solo a partire da quel momento, "inizio alla sua vita".
È la prima impressione sull´Italia. Grazie a Napoli esperisce il lento dardo della bellezza che non ci "affascina tutta in un colpo, ma esercita una presa che si insinua lentamente e, dopo essersi annidata con discrezione nel nostro cuore, essa si impadronisce di noi", così scrive in Umano troppo umano. Quello slancio romantico di fronte al tramonto che aveva caratterizzato il soggiorno napoletano, Nietzsche lo traduce, a Genova, in un´esperienza più radicale: la rottura di tutti i legami con il passato. "L´assoluta solitudine", scrive Nietzsche, ha reso possibile un "nuovo inizio, da zero". Simbolo di questo risorgere era la "ripida strada costellata di palazzi" in cui abitava. Così nella Gaia scienza scrive: "mi dà una felicità malinconica vivere in mezzo a questa confusione di stradicciole, di voci: una ebbrezza di vita". Rimane affascinato da un nuovo modo di concepire gli spazi cittadini, infatti nella Gaia scienza osserva: "tutta quest´area è pervasa da una insaziabile ricerca egoistica del piacere del possesso".
A Genova si realizza per lui quel massimo grado di percezione in cui "tutte le cose viste, dopo essere state vissute, devono venire riespresse necessariamente in azioni e opere". E il "camminare" sotto i loggiati, diventa "passeggiare" dentro di noi. E a Venezia? Musica e arti visive si fondono. "Quando cerco un´altra parola per musica, trovo sempre soltanto la parola Venezia". Si tratta sempre della musica di Wagner che per Nietzsche ha dominato l´esperienza veneziana. L´armonia d´insieme dei più diversi suoni, forme e colori, scenari, edifici dà un´orchestrazione alle multiformi sensazioni veneziane del filosofo. Quando Nietzsche parla del Trionfo di Venezia del Veronese e del Ratto di Europa nel Palazzo dei Dogi, sceglie aggettivi forti, appartenenti alla retorica delle sensazioni: turgido, caldo, fiero. Nietzsche incontra Roma tra le rovine di templi, tra i ruderi di chiese, cercando di attribuire un significato al rapporto tra linee e masse che però trovava del "tutto estranee alle leggi meccaniche dell´architettura".
La più viva testimonianza di una più intima appropriazione di un´opera d´arte romana, è rappresentata dal Canto della notte, inserito nello Zarathustra II, ispirato alla fontana del Tritone in Piazza Barberini: "Oh infelicità di tutti i donanti!", è la tristezza del Tritone che emette acqua e il cui dono dell´acqua ricade su di lui come il vano gesto di chi vuole donare. Nietzsche vede se stesso nel Tritone: è inappagato come lui, inappagabile dello struggersi, del getto d´acqua che il solitario Tritone fa ricadere su di sé. Nietzsche e Firenze: Palazzo Pitti. Per il filosofo quest´ultimo è l´espressione di un "grande stile" che non si era più visto dopo la Controriforma.
E la Nizza di Nietzsche? E´ "pura follia"; in sé questa città gli "fa orrore." Il senso di disgusto che ha provato ripetutamente a Nizza durante la stesura dello Zarathustra III, è entrato chiaramente nel testo de La grande città ed poi diventato il "disgusto" di Zarathustra. L´unica grande città è stata invece Torino. Ne decanta la pianificazione unitaria propria di una città del XVII secolo. A Torino vive a mezzo tra il flâneur alla Baudelaire e l´ammiratore dei Passages parisiens alla Benjamin. Qui scopre un nuovo genere di architettura: la galleria dell´Industria Subalpina e la Mole Antonelliana. Città, luoghi, spazi esperiti attraverso un "confuso intrico di idee casuali e di osservazioni arbitrarie sull´arte e sul bello", così aveva letto Heidegger il viaggio di Nietzsche. Ed aveva ragione.

Repubblica 1.9.07
Decadenza del cinema? Torniamo ai valori
di Ermanno Olmi


Caro direttore, quando è uscito il mio ultimo film centochiodi ho annunciato che col cinema narrativo avevo chiuso: ma non è perché il cinema italiano – e non solo italiano – sia in crisi. È tutta la società che in questo momento è in crisi – e non solo quella italiana. Stiamo attraversando un periodo di grandi trasformazioni necessarie per affacciarci a nuove soglie del futuro. Trasformazioni che non abbiamo ancora del tutto metabolizzate. Uso questo termine, anche se un po´ scaduto, ma che mi torna in mente ora per indicare quei particolari momenti della storia in cui necessari e inevitabili cambiamenti creano necessarie e inevitabili condizioni di crisi. È un po´ come succede con il corpo umano, quando da bambini si diventa adolescenti e il corpo si carica di turbolenze e ancora non si ha la consapevolezza né di essere bambini né di essere adulti. Questa è oggi la nostra società. Così tutte le società cosiddette «avanzate». Pensiamo di essere già grandi ma non siamo ancora davvero adulti. Ed è questo che ci mostra il cinema: la condizione della nostra realtà in uno stato piuttosto confusionale e disorientata. E anche il cinema è parte di questa realtà.
Ma è da quando ho cominciato la mia avventura nel cinema – e sono oramai più di cinquant´anni – che sento lamenti di crisi del cinema italiano dopo la gloriosa stagione del neorealismo e dei suoi grandi padri. È vero: quei maestri segnarono la scena mondiale del cinema italiano, quello fu il momento più alto del nostro cinema, ma perché? Proprio perché c´erano stati cinque anni di guerra, appunto. Tragedie e sofferenze comuni che avevano creato un sentimento comune. Anni che furono una scuola poderosa, una scuola che ci costringeva a cercare valori essenziali. Primo fra tutti quello della vita. Eravamo individui in mezzo ad altri individui che avevano fame di pane e civiltà. Ma a quel tempo, tutto era coinciso con la rinascita dalle macerie, con la ricostruzione, con una speranza nuova, col sogno di un mondo più umano, di bella convivenza.
È durato poco. Già nei primi anni ‘50 si faceva avanti la crisi del contrappasso determinata dal boom economico – così si chiamava – e che alla fine durò un istante. Come sempre, lo slancio della ricchezza cancella le tensioni morali e, per quanto riguarda il grande schermo, spinge anche il cinema verso la commedia – giustamente, per carità! – e poi, pur con capolavori di grande maestria, verso una spensieratezza che non vuole saperne di nuovi segnali di insofferenze e crisi mondiali. Le guerre "lontane" non ci riguardano. Ma ecco la morte di Kennedy, il Sessantotto, la Guerra Fredda cova tra le grandi Potenze. Sono cominciati in quegli anni i grandi cambiamenti del mondo e da allora a oggi tutte le nostre società stanno vivendo queste fisiologiche trasformazioni. Che possono anche produrre esiti devastanti, come fu da noi il terrorismo di casa, o come è oggi il terrorismo internazionale.
Dunque trovo che quello che hanno scritto Galli Della Loggia sul Corriere della sera o Lizzani e Bellocchio su Repubblica ci sollecita una giusta considerazione sul cinema. La segnalazione di una crisi – che si intende di inadeguatezza – dei film italiani nei confronti della realtà in cui viviamo. Giusto.
Tuttavia, la medesima domanda dobbiamo porla alla letteratura, alle arti, alla politica dei nostri governi e all´economia del denaro. Non è forse in crisi questa economia? Quella italiana e non solo? Abbiamo forse un disegno economico che rappresenta l´anelito ideale di questo nostro paese?
Via! I dati che ci fanno vedere sono fasulli. Ma non perché non sanno fare i conti coi numeri. Non sanno fare i conti coi "valori". Non hanno ancora capito – o non vogliono capire – quanto vale una zolla di terra e un bicchiere di buona acqua. Viviamo da ricchi in una condizione di miseria di beni naturali. Ma appena il baraccone delle ambiguità comincerà a scricchiolare, saranno, come si dice a Roma, ... amari.
Il cinema non è un dopolavoro idilliaco dove nel tempo libero si celebrano le smanie artistiche di quattro giovanotti – come eravamo noi del tempo passato. Il cinema di ieri come quello di oggi, vive il sentimento della realtà.
Ecco perché il senso di crisi. Non c´entra niente dire che non ci sono più buoni autori. Perché non è vero. Anzi, i germogli della nuova generazione ci sono, eccome. Ho visto film bellissimo di Giorgio Diritti, Il vento fa il suo giro, e questa è una delle tante conferme. Lo vada a vedere, Galli della Loggia: mi ringrazierà. E diciamo anche che quest´anno alla Mostra di Venezia ci sono tre giovani italiani eccellenti che faranno sicuramente onore al nostro cinema, all´arte, al dovere civile.
Per questo, con simpatia e con calore, ribalto io la domanda a Repubblica e al Corriere. Forse i giornali italiani stanno davvero rappresentando la realtà italiana? Sono all´altezza del compito che gli compete? O sono vincolati dalla pubblicità e la servono devotamente? Non è anche questo un segno di crisi?

Corriere della Sera 1.9.07
Diliberto non cede: noi in piazza ci saremo
I centristi cercano scuse per far cadere Prodi

intervista di Enrico Marro


ROMA — Onorevole Diliberto, il segretario dell'Udeur, Clemente Mastella, dice che se alla manifestazione del 20 ottobre contro la precarietà parteciperanno ministri, sarà crisi di governo.
«Mastella mi sta pure simpatico, ma non vedo chi sia per lanciare ultimatum», risponde il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto.
È uno che se esce dal governo, lo fa cadere.
«Sì, ma al massimo dovrebbe essere il presidente del Consiglio, Romano Prodi, a porre un problema, non Mastella. Il punto è che è in atto un'operazione neocentrista, trasformistica rispetto al mandato elettorale: stanno cercando ogni scusa per far cadere il governo».
A questo punto si voterà a maggio?
«Se Mastella vuol far cadere il governo, immagino di sì. Io lavorerò perché duri cinque anni».
Perché Mastella dovrebbe volere la caduta del governo?
«Perché la sinistra nell'esecutivo dà fastidio. Su tutte le questioni sociali la nostra presenza impedisce un'ulteriore sterzata in senso moderato, cioè che sia Confindustria a dettare la linea. Comunque, tornando alla manifestazione, è noto che noi non abbiamo ministri iscritti al Pdci. Alessandro Bianchi (ministro dei Trasporti, ndr.) è un indipendente e io rispetterò la sua scelta».
Ha già detto che lui il 20 non scenderà in piazza.
«Ma i Comunisti italiani ci saranno. Non contro il governo, ma per essere di stimolo al governo».
Lei sa benissimo che una parte della piazza manifesterà per far cadere il governo.
«La grande maggioranza della piazza sarà di Rifondazione, dei Comunisti italiani, dei Verdi e io spero ancora della Sinistra democratica di Fabio Mussi, cioè di formazioni che stanno pienamente nella maggioranza. Se poi ci saranno frange contro il governo, questo è del tutto ininfluente. E poi, scusi, vogliamo parlare del Family day?».
Prego.
«In quella occasione settori della maggioranza e lo stesso ministro Mastella sono scesi in piazza contro un disegno di legge del governo, non so se mi spiego.... E io non ho minacciato la crisi. Non vedo ora la ragione di due pesi e due misure. Noi vogliamo aiutare il governo a recuperare i delusi di sinistra, che quando hanno votato per noi si aspettavano altre politiche sociali ».
Ma vi conviene tirare la corda col rischio che si spezzi?
«Non vedo questo rischio. Del resto Mastella ha parlato di ministri, no?»
E quindi se oltre a Bianchi e Mussi, come è possibile, non ci saranno neppure Ferrero e Pecoraro- Scanio, non c'è problema.
«Appunto».
Però resta il rischio, dice Mussi, di una manifestazione comunque autolesionista per la sinistra. E dice che sarebbe meglio fare una grande assemblea?
«Non sono d'accordo. Sembra quasi che si possa manifestare solo se sei all'opposizione mentre se sei al governo no».
Ma uno potrebbe dire: se sei al governo, governa.
«Se sei al governo, governi e lotti perché l'esecutivo faccia delle cose migliori. Il partito di lotta e di governo lo ha inventato Enrico Berlinguer».
Però all'epoca il Pci stava all'opposizione, obietta Veltroni.
«È stato anche nella maggioranza, negli anni Settanta. E comunque, ripeto, la manifestazione aiuta il governo».
Ma come si fa a fare una manifestazione che uno la guarda, magari ci partecipa e dice: non è contro il governo.
«Con le parole d'ordine, gli slogan, con la compostezza della manifestazione e con i comizi finali: chi parla e che cosa dice».
E come si fa con tutti quelli che vogliono venire con l'obiettivo di far cadere il governo?
«Intanto chi viene aderisce a una piattaforma che non è contro il governo».
Se la piattaforma è l'appello dei promotori, certo non è a favore del governo.
«È un appello che tiene insieme un elemento di unità del centrosinistra e un elemento di critica, ma dall'interno della coalizione. Se vogliamo avere la maggioranza degli italiani con noi, dobbiamo coprire anche i settori della sinistra. Se si tiene conto soltanto dell'opinione della Confindustria di Montezemolo, siamo destinati a perdere le elezioni ».
Anche lei vede un asse Veltroni-Montezemolo o piuttosto Mastella-Montezemolo?
«L'una cosa non esclude l'altra. La posizione di Mastella è comprensibilissima, se non fosse che contraddice il mandato che abbiamo ricevuto dagli elettori. Veltroni guarda più in là, alla configurazione di classe del Partito democratico, che è palesemente non più di sinistra».

l’Unità 1.9.07
Mussi «frena», ma non convince Rifondazione
Propone un’assemblea al posto del corteo. Ferrero: «Difendo il 20 ottobre, ma non so se ci sarò»
di Wanda Marra


Mussi getta il sasso nello stagno e le acque della Sinistra democratica prima, e di tutta la sinistra radicale poi, si agitano.
Il leader della Sd lo dice al Corriere della sera: «Proporrò di fare al posto della manifestazione una grande iniziativa di massa. Una grande assemblea in cui non si dia solo sfogo ai giusti malumori, ma si costruisca una piattaforma sul lavoro affinché‚ la sinistra abbia il giusto peso nella coalizione». Ma la proposta ottiene subito il sonoro stop di Rifondazione (che propone di fare prima un corteo poi un’assemblea) e del Pdci. E anche dentro la stessa Sd, Salvi in testa, la trasformazione ipotizzata dal Ministro dell’Università non convince. «La manifestazione del 20 ottobre non è assolutamente in contrasto o in contraddizione con la proposta di Mussi. Anzi. Subito dopo il 20 ottobre in una data da decidere insieme, Rc è assolutamente d’accordo a dare vita a questa assemblea», dichiara il Segretario, Giordano. E il Ministro Ferrero: «Facciamole tutte e due: l'assemblea sul lavoro e la manifestazione del 20 ottobre». Ci va giù duro Marco Rizzo del Pdci: «Mussi è una delusione. Noi ci saremo. Col meno peggio la sinistra muore». Su una linea diversa da Mussi, anche Cesare Salvi, capogruppo di Sd al Senato: «Mi pare del tutto secondaria la questione se la manifestazione si debba svolgere all'aperto con un corteo o al chiuso con una grande assemblea». D’accordo col Ministro, invece, Titti Di Salvo, capogruppo di Sd alla Camera: «Mussi avanza proposte importanti che parlano a tutto il popolo della sinistra e guarda avanti verso la sua ricomposizione. Infatti, non è utile mescolare l'agenda politica immediata col progetto politico futuro, come rischia di fare la proposta della manifestazione del 20 ottobre».
Se il leader di Sd non commenta le reazioni non esattamente entusiaste alla sua proposta, nel suo entourage si mette l’accento sul bicchiere mezzo pieno: si è aperto, dicono, un dibattito sulle modalità e gli obiettivi della manifestazione del 20 ottobre, che poi era quello che Sd aveva chiesto dal primo momento. In realtà, le posizioni dentro il movimento nato dall’uscita dell’area di Mussi e Angius dai Ds, sono tutt’altro che omogenee. La componente Angius ha dichiarato fin da subito che scendere in piazza il 20 ottobre sarebbe stato un errore. E adesso sembra veleggiare verso altri lidi. Angius, insieme a Boselli e a Valdo Spini, ha infatti lanciato un appello «a quanti sono disponibili alla costruzione di un nuovo partito socialista in Italia» per una forza «riformista, laica e di governo che possa vivere e radicarsi nella società». Non si è ancora arrivati alla scissione di Sd, ma che la componente Angius guardi ormai non solo allo Sdi, ma anche a qualche deluso dal Pd, come Bordon o la Sbarbati, non è più un mistero. Ieri c’è stata anche una riunione dei “vertici” di Sd con Mussi, Di Salvo, Salvi, Nerozzi, Spini e Nigra, che ha evidenziato le diverse posizioni sul corteo. Nella componente Mussi il dibattito è aperto. E si potrebbe anche arrivare alla scelta di non scendere in piazza, differenziando, comunque, questa scelta dal percorso della Cosa Rossa. Dal canto suo, dichiara Valdo Spini: «L’elezione del leader del Pd il 14 ottobre e una manifestazione contro il governo il 20 potrebbero mettere in serio pericolo Prodi».
E in chiusura di giornata il dibattito sulla manifestazione si è infuocato, dopo le dichiarazioni di Mastella: «Se ministri scendono in piazza il 20 ottobre, è crisi di governo». «Eccessivi» i toni di Mastella, secondo Ferrero, che precisa però di non aver ancora preso una decisione sulla sua personale presenza in piazza il 20 ottobre. Per Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi alla Camera, le parole del segretario dell'Udeur «sono incoerenti e non credibili».

l’Unità 1.9.07
Adolescenti virtuali
I giovani e Internet
di Giovanni Bollea


Intervento pronunciato da Giovanni Bollea al Congresso europeo di neuropsichiatria infantile di Firenze

Cosa penso dell’adolescenza attuale? Ebbene, io sono sempre più convinto che pensare all’adolescenza oggi, significhi soprattutto pensare all’importanza biologica dei processi del pensiero: percezione, memoria, immaginazione, che sfociano, appunto, nel pensiero dal quale poi parte l’azione; il mondo interiore ha, quindi, un’importanza vitale per la formazione della personalità che si forma attraverso un processo di adattamento, il quale a sua volta si manifesta in due momenti: ritiro dal mondo esterno e ritorno ad esso con la propria padronanza e capacità di critica.
Ma il mondo della percezione e quello del pensiero sono entrambi fattori di regolazione dell’io e di quel processo di adattamento che consiste, appunto, nel ritirarsi prima dalla realtà per poterla criticare, e poi ritornarvi per poterla dominare meglio.
Ma oggi, in particolare, l’adolescente ha bisogno che la percezione e l’immaginazione lo aiutino a orientarsi nelle visoni spazio-temporali, dalle quali è continuamente stimolato. Un processo di interiorizzazione che deve creare un rapporto tra adattamento, sintesi e differenziazione della realtà. Ma è il pensiero che, già nell’adolescenza, deve subito creare un ponte fra tutti questi elementi! E quanto più un ragazzo si differenzia e si autonomizza nelle sue percezioni meditate, tanto più diventa indipendente dagli stimoli eccessivi e scoordinati dell’ambiente e dalle tecnologie che lo influenzano. È così che si crea il suo rapporto con l’azione: azione che, per questo motivo, potrà essere negativa o positiva. Ma se le funzioni come il controllo selettivo, l’esame della realtà, la possibilità di vedere il mondo in modo obiettivo e l’astrazione controllata sono disturbate, a tutto ciò corrisponderà un insuccesso nell’adattamento, perché la conoscenza è sempre legata alle condizioni esistenziali di ogni individuo. L'adolescente deve, quindi, essere aiutato a raggiungere una funzione ottimale del suo pensiero razionale che è determinato dalla sua maturità, dalla sua forza e dalla struttura del suo «io». Tutto questo per poter arrivare a un vero adattamento alla realtà in cui vive.
Ma quando vediamo i ragazzi vivere, invece, vite parallele come nel mondo virtuale di Internet o in un programma come «Second life», che fortunatamente va diminuendo, nei blog o nei loro interminabili viaggi nella rete, questo equilibrio si rompe, perché manca il collegamento tra percezione e pensiero. E non solo: mancando la critica nell’accettazione fra elementi razionali ed elementi irrazionali, la loro ragione può soccombere di fronte all’irrazionalità. Questo è il vero pericolo.
I nuovi neuropsichiatri devono quindi organizzarsi per creare nei bambini e ragazzi un processo di conoscenza e di critica nelle relazioni con l’ambiente e con le nuove tecnologie, che adesso per molti di loro, ormai, sostituiscono addirittura la vita affettiva e cioè la famiglia. È perciò sempre valido il significato che Freud dava alle parole «ragione», «intelligenza» e «spirito scientifico», usandole come sinonimi. Dobbiamo subito lavorare tutti per capire e lottare contro l’irrazionalità implicita nella psicologia di massa, con la quale i nostri bambini e adolescenti devono scontrarsi ogni mattina, quando si alzano dai loro sonni sempre meno tranquilli.
Mi sembra che, dal lato pragmatico e pratico la nuova Neuropsichiatria infantile debba lavorare affinché la scuola sia modernizzata e si cambino i programmi che devono diventare realisticamente internazionali. Una scuola aperta a nuove sollecitazioni positive e mai negative, che guidi i giovani in questo salto epocale, ma sempre con l’aiuto dei genitori.
Ecco come aiutare oggi l’adolescenza!
Questo rapporto genitori-scuola deve essere molto più frequente, almeno tre o quattro sedute mensili organizzate dalle scuole con la costante presenza della madre. Per informarsi sulle novità negative e positive delle realtà che circondano i loro figli. Il genitore inoltre ne deve sempre conoscere amici e compagni e dare possibili giudizi, negativi o positivi, sul gruppo scolastico. Sapere se c’è e come è formato il «branco» e inoltre informarsi sulle famiglie e il lavoro dei genitori.
Il rapporto padre-figlio, come insisto da anni, deve allargarsi: il genitore deve parlare della vita sociale e di quella politica. Dei doveri e dei compiti di un buon cittadino e aiutare a sviluppare vari tipi di associazioni. E non solo quelle educative e sportive, ma culturali, artistiche, musicali; creando nello stesso tempo spazi di aggregazione per i ragazzi e associazioni che si occupino dei più bisognosi, le quali possono così avviarli a un vero volontariato, sviluppandone varie forme.
Ma soprattutto scoprire a ogni costo se e come circola la droga fuori e dentro la scuola, individuandone gli studenti spacciatori per poi denunciarli. Insegnare a non fidarsi completamente dei figli tranquilli e cosiddetti «puliti». Perché tali si mostrano ai propri genitori, mentre sono attentissimi a non farsi scoprire sotto l’effetto di alcol e droga. Oggi hanno imparato infatti a nascondersi in maniera così accorta da trasformare i genitori nei loro più convinti difensori. Nonostante tutto ciò, dovete fare leva su quella parte positiva e valida che le statistiche ci danno all’86%, appartenenti comunque a famiglie con genitori non separati. Diamo loro stimoli e interessi pratici e realistici, considerandoli perciò dei veri cittadini già a 16anni, preparandoli al voto amministrativo, che li aiuterà a prendere coscienza delle loro responsabilità in campo sociale votando poi a 18 anni alle politiche.
Personalmente sto lottando dal 2001 affinché questa mia richiesta diventi una legge ben codificata e strutturata.
Voi però dovete anche lottare affinché il «branco» non si imponga e i reality show vengano trasmessi il meno possibile, che il programma «Sècond life» sia abolito in quanto portatore di atteggiamenti schizoidi, derivati da un vero e proprio pericolo di sdoppiamento della personalità.
Ma attenzione ai blog: l’uso deve essere controllato, ma non demonizzato, essendo ormai diventati i sostituti del diario personale che, se una volta era segreto e nascosto, oggi è visitato da chiunque possa dare loro l’impressione di strapparli a quella pericolosa solitudine che li allontana sia dall’autorealizzazione, sia dall’autoaffermazione. Se sappiamo tutti che internet è uno strumento prezioso, sappiamo anche che può allontanare sempre di più l’individuo da quell’autonomia dell’io che se si lascia influenzare dalle percezioni e dagli istinti, deve anche riuscire lui stesso a influenzarli, con i propri personali metodi di difesa. Ecco i miei pensieri sull’adolescenza attuale. Pensieri che sono iper-semplificazioni da elaborare, ma ricordatevi che le misure correttive non sono mai sufficienti.
E se quanto ho proposto potesse realizzarsi varrebbe ancora il leit-motiv dominante nella mia lunga esperienza di neuropsichiatra infantile. «Un bambino felice sarà un adulto maturo». E, riguardo all’adolescenza, «un adolescente felice sarà un cittadino maturo».
Ed ora voglio aggiungere che un consiglio, un aiuto ben dato sono come una poesia che libera la tensione e fa sentire più felici. Il mio messaggio è perciò questo: aiutare i bambini e ragazzi a stare meglio insieme agli altri e a vivere nel gruppo. Per far questo dovete imparare a prevenire in loro lo sviluppo delle tendenze antisociali senza ricorrere a proibizioni categoriche e scontate e non convincenti. Imparate a gestire i loro sensi di colpa lasciando nei bambini quella piccola ma sana aggressività spontanea che li difenderà nella vita sia prima che dopo l’adolescenza. Ricordatevi che fallire l’assistenza di un bambino significa perdere una battaglia ma non la guerra, e quindi continuate a lottare senza arrendervi mai anche dopo una terapia che non si è risolta come speravate. Imparate a trasmettere loro la capacità di stare soli che è il contrario dell’angoscia di «essere» soli, cercando sempre di entrare in contatto con il loro vero Sé. Tenendo però sempre conto del loro falso Sé. E ricordatevi inoltre che oggi esiste una larga fascia di adolescenti molto positivi che reagisce agli input negativi riuscendo a combattere le spinte autodistruttive più aggressive e a far migliorare i rapporti con famiglia, scuola e società. La mia speranza solo apparentemente scontata è che troviate giorno dopo giorno la stessa forza per far varare e poi osservare quelle leggi che ho chiesto poc’anzi. Senza usare violenza ma con la convinzione: attraverso la cultura del linguaggio.
E non dimenticate mai quello che ho già detto: un bambino felice e un adolescente felice saranno uomini e cittadini maturi.

Liberazione 1.9.07
La ministra dice di difendere la normativa, ma vuole rivedere i limiti temporali
Legge 194, le donne trattate come auto e Livia Turco dà ascolto all'Avvenire
di Angela Azzaro


In questi anni di offensiva teodem ne abbiamo sentite di tutti i colori, ma mai si era arrivati a questo punto: la legge 194 trattata come una macchina a cui, dopo trent'anni, è necessario fare un tagliando di revisione. Il messaggio dell' Avvenire e dei vescovi è chiaro, la macchina in realtà non è la legge, ma sono le donne che vengono considerate alla stregua di un contenitore, di un oggetto il cui unico scopo dovrebbe essere quello di produrre figli e figlie a prescindere dal loro volere. Le donne che scelgono, la loro libertà, è quello che non si sopporta perché rompono il disegno, poco divino e molto umano, del potere della Chiesa cattolica. Rifiutando di essere contenitori rifiutano anche un intero sistema di potere che fa di tutto per imporsi di nuovo, per ristabilire l'ordine costituito. E' questa la posta in gioco e, a partire dal valore della 194, parla ancora una volta della libertà delle donne, della difesa della loro autodeterminazione come la linea di confine tra un paese civile e laico e un paese incivile e fondamentalista. Ecco perché le recenti polemiche sulla legge per l'interruzione volontaria della gravidanza riguardano tutte e tutti, e da tutte e tutti richiedono attenzione, massima vigilanza per impedire a una politica più attenta alle sirene vaticane che agli appelli delle cittadine di fare qualche passo sconsiderato.
Il pretesto da cui nasce la querelle ultima, perché di pretesto si tratta, racconta bene il livello dello scontro. Due genitori denunciano la ginecologa che, durante l'intervento, sbaglia feto e pratica l'aborto su quello sano e non su quello affetto da sindrome di Down. Ma l'attenzione si sposta soprattutto su di loro, sulla scelta fatta di rinunciare a uno dei due gemelli. L'aborto terapeutico è consentito dalla normativa e difficilmente si potrà trovare, anche un cattolico e soprattutto una cattolica, che pensi a quei genitori come assassini. Lo ha scritto molto bene Miriam Mafai su La Repubblica . Se un genitore decide di allevare un figlio affetto da sindrome di Down avrà tutta la nostra stima e dovrà avere tutto l'aiuto dal sistema sanitario e sociale. Ma la stessa stima andrà ai genitori che facciano una scelta opposta. Nessuno può giudicare scelte così importanti nella vita di chiunque. Nessuno, fuorché la Chiesa che parla addirittura di eugenetica e da lì scatena la sua offensiva contro tutte le donne e contro la normativa: l'idea astratta di vita, avulsa da qualsiasi pietà anche cristiana, viene imposta per cancellare le vite reali, il loro stare al mondo, le scelte e le libertà, le sofferenze che ogni singola esistenza si porta con sé. Se questo non è fondamentalismo, che altro è?
Lo scopo delle gerarchie vaticane è quello di colpire la legge nella sua complessità e nel suo valore simbolico. E' per questa ragione che la risposta del governo di centrosinistra appare ambigua, subito disposta a mediare con quanto gli si chiede al di là del Tevere. Non basta che la ministra Turco dica di stare dalla parte della legge, quando poi parla di rivedere le linee guida a partire dalla distinzione tra feto e nascituro. E' un passo falso, che potrebbe portare a conseguenze molto gravi.
La ministra affronta così uno dei temi più scottanti, al centro della contesa: quando è che inizia la vita? Quando inizia la differenza tra feto e nascituro? E' evidente che riaprire una discussione di questo tipo potrebbe portare a peggiorare di molto la situazione, fino a mettere in discussione tutta la 194. Se l'embrione è vita, come dice la legge sulla fecondazione assistita, c'è poco spazio per qualsiasi mediazione. E non rassicura il fatto di voler affidare i nuovi limiti temporali alla comunità scientifica, perché la comunità scientifica non è un luogo neutro, al di sopra delle ideologie.
Il movimento delle donne chiede altro, da anni: fine della discriminazione nei confronti dei medici che fanno le interruzioni di gravidanza, una campagna contro gli obiettori di coscienza in balìa dei grandi professori che decidono anche per la coscienza degli altri, più finanziamenti ai consultori ormai ridotti in molti casi a ambulatori polivalenti oppure chiusi, senza appello. Ma per la ministra questi non sono problemi urgenti.
Se le linee guida sono un fatto formale, non si capisce perché tirarle in ballo ora, nel pieno di una polemica estiva che ha come obiettivo la libera scelta delle donne nella procreazione. Se invece sono un atto politico, come realmente sono, allora vanno contrastate subito. In generale va contrastata l'azione dei vescovi e una politica sempre pronta a dargli ragione. ll 14 gennaio di quasi due anni fa molte donne e tanti uomini hanno manifestato in difesa della legge 194. Hanno manifestato per dire che la politica deve essere di donne e uomini, che non se ne può più di uno spazio pubblico invaso dal potere maschile. E' stata una grande manifestazione. Più di duecentomila per le vie di Milano. Ma non è bastato.