sabato 8 febbraio 2014

Corriere 8.2.14
Pedofilia, replica del Vaticano: l’Onu ha trasceso i suoi compiti
Ginevra: esame obiettivo
di M.A.C.


ROMA — Botta e risposta tra il portavoce della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi («Il Comitato ha trasceso i suoi compiti») e il presidente del Comitato Onu per la tutela dei diritti dei minori, che mercoledì 5 febbraio ha pubblicato un durissimo atto di accusa contro il Vaticano sulla pedofilia, Kirsten Sandberg («Abbiamo fatto un esame obiettivo»). Il rapporto del Comitato Onu per i diritti dei bambini presenta «limiti gravi», ha detto ieri mattina padre Lombardi. «In particolare — ha spiegato — sembra grave la non comprensione della natura specifica della Santa Sede. Non si può non rilevare che le ultime raccomandazioni pubblicate dal Comitato appaiono presentare, a giudizio di chi ha ben seguito il processo che le ha precedute, limiti gravi», ha detto Lombardi, in una lunga nota per la Radio Vaticana. «In particolare — secondo padre Lombardi — sembra grave la non comprensione della natura specifica della Santa Sede». E ancora: «Non si è capaci di capire o non si vuole capire? In ambedue i casi si ha diritto a stupirsi», ha aggiunto il portavoce vaticano. Per padre Lombardi però «non è il caso di parlare di scontro fra l’Onu e il Vaticano. Le Nazioni Unite sono una realtà molto importante per l’umanità di oggi. La Santa Sede ha sempre dato un forte supporto morale all’Organizzazione delle Nazioni Unite come luogo d’incontro fra tutte le nazioni». Nel pomeriggio è arrivata la risposta a queste accuse da Ginevra. I membri del Comitato Onu sui diritti dell’infanzia hanno elaborato le loro raccomandazioni «dopo aver esaminato obiettivamente tutte le informazioni pertinenti relative all’attuazione della Convenzione e rispetto ai diversi articoli della Convenzione», ha affermato la presidente del Comitato Onu, Kirsten Sandberg.

l’Unità 8.2.14
Renzi promette: mai col Cav
Il leader del Pd esclude governi con Forza Italia e allontana le urne: «Convengono a me, non al Paese»
di Maria Zegarelli


Matteo Renzi mette due paletti il giorno dopo la direzione Pd: non andrà mai al governo con Berlusconi e non pensa al voto anticipato. «Siamo a un passo da una riforma storica. Senato, province, legge elettorale, titolo V. A me conviene votare, ma all’Italia no». Tutto, ovviamente, corre via twitter. Altra precisazione, questa volta dal portavoce della segreteria, Lorenzo Guerini, fedelissimo di Renzi che aggiunge che il partito è pronto a sostenere la ripresa dell’azione di governo, «senza nessuna preclusione nelle soluzioni».
Che vuol dire? Che Matteo Renzi sta valutando seriamente, molto seriamente, i pro e i contro di un suo ingresso a Palazzo Chigi al posto di Enrico Letta. La pressione in queste ore è fortissima, arriva dalle forze sociali e da una parte consistente dell’attuale maggioranza. Poco importa se Dario Nardella dichiara perentorio che il segretario Pd andrà a Palazzo Chigi solo dopo un passaggio elettorale, perché nella sostanza il clima politico è altro. I «contro» sono roba da far venire i brividi per uno come il sindaco di Firenze e questo al netto della sindrome D’Alema, per intenderci.
Gli elettori di centrosinistra non perdonano le larghe intese e Renzi potrebbe bruciarsi quell’enorme credito che ha guadagnato con le primarie e con le sue prime mosse da segretario del Pd, senza contare lo scoglio che potrebbe rappresentare il Colle che ritiene rischiosissima l’apertura di una crisi al buio. E infine le riforme. Andare al governo per portare avanti il processo di trasformazione dello Stato mettendo mano alle riforme istituzionali vorrebbe dire dover tenere in piedi il patto con il Cavaliere e qui scatta l’altra incognita. Se il Cavaliere dovesse far saltare il tavolo Renzi rischierebbe di restare con un pugno di mosche in mano e il contraccolpo potrebbe essere fatale. È su questo che il segretario sta ragionando con i suoi fedelissimi, diviso tra quelli che, come Paolo Gentiloni e Dario Nardella, lo mettono in guardia dalle «polpette avvelenate» e gli altri, come molti dei suoi, che lo spingono ad accettare la spinta ragionando su un governo che vada oltre il 2015.
L’ultima parola è probabile che si scriva il 20 febbraio, data della direzione che avrà un unico punto all’ordine del giorno. «Nel mio intervento in direzione ho ribadito che serve una ripartenza del governo. È evidente che c’è difficoltà nel rapporto tra Paese e governo. E non è solo Confindustria a dirlo. Mi sono permesso di dire che serve chiarezza. Letta vuole essere la guida della ripartenza? Indichi gli obiettivi e noi lo seguiremo. C’è un’alternativa? Discutiamone », dice Gianni Cuperlo che l’altro giorno ha deciso di intervenire in direzione dopo l’intervento di Letta. Quello che non è piaciuto alla minoranza del partito è stato il «basso profilo » tenuto dal premier durante il suo intervento in direzione. Enon è un caso che da Guglielmo Epifani, Matteo Orfini, Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre, ci sia stato quel crescendo di richiesta di chiarezza. Chiarezza nel Pd, prima di tutto. Chiarezza che fino a quel punto né il segretario né il premier avevano avuto. Ed è questo il risultato che porta a casa la minoranza, aver dato forma al convitato di pietra della direzione: il destino del governo Letta. Tema che nessuno dei protagonisti, premier e segretario, osavano materializzare in questa guerra fredda che combattono da mesi e che ormai è innegabile.
I segnali che arrivano dalle altre forze di maggioranza sono altrettanto chiari: «Noi non uccidiamo Letta ma neanche moriamo per Letta», commentano dallo stato maggiore di Ndc a metà mattina in un Transatlantico dove non si parla di altro. Ed è sul Nuovo centrodestra di Alfano che si concentra l’attenzione. Da lì potrebbe scoccare la scintilla per far saltare in aria l’attuale compagine governativa. Da Ndc raccontano che Angelino Alfano ha fatto sapere a Renzi che non ci sono preclusioni a ragionare su un Renzi 1. E in serata è lo stesso vicepremier a dire apertamente che sul tavolo le opzioni sono due: «La maggioranza sembra di fronte ad un bivio: «O un governo Letta bis oppure una staffetta con Renzi». Il leader Ncd ha tutto l’interesse a spostare in avanti la data delle elezioni, ma è evidente che le condizioni che si devono realizzare sono due: una maggioranza politica (questa, secondo Alfano) che tenga il governo in piedi possibilmente il più a lungo possibile e una maggioranza più larga, con Fi, per le riforme. Ma è evidente che una delle condizioni che pone Alfano è l’abbassamento della soglia di sbarramento prevista nell’Italicum. Richiesta di non poco conto, che potrebbe far saltare l’intesa con Berlusconi. Ma in queste ore c’’è chi fa la conta dei senatori: se ai 7 di Sel si dovessero aggiungere i dissidenti 5S Renzi potrebbe contare su una maggioranza anche senza Ncd. Un’altra maggioranza. Un rebus.
Intanto Sc, pur se divisa come una mela, manda messaggi espliciti: «Sc chiede al presidente del Consiglio di non perdere altro tempo - dice Stefania Giannini - Lunedì o martedì convochi i segretari dei partiti per discutere del Patto di coalizione perché bisogna cominciare a parlare di problemi e indicare le soluzioni. Il 20 febbraio è tardi, è tra due settimane e ne abbiamo già consumate almeno dieci. Sono troppe». «Ma Letta ci arriva al 20 febbraio come premier?», chiede un franceschianiano. «Letta non molla, se vogliono che vada via lo sfiducino in Parlamento», è il leit-motiv dei deputati vicini al premier.
E questo è l’altro argomento che appassiona gli addetti ai lavori. «Chi sarà a provocare l’incidente parlamentare? ». Non di sicuro il Pd, «sono d’accordo con chi dice che il Pd non possa permettersi di sfiduciare Letta in Parlamento: l’ipotesi non esiste», precisa Stefano Bonaccini. Ma Sc o Ndc sì che potrebbero.

il Sole 8.2.14
Fi. Varato ieri il comitato ristretto per le candidature in vista delle europee
Il Cavaliere attende le mosse del sindaco


Lasciare il Pd alle sue lotte interne e nessun appoggio a un eventuale governo Renzi. Portare a casa le riforme (in primis quella della legge elettorale) e preparare Fi, con una nuova struttura leggera, alle elezioni europee (battesimo del fuoco per le future politiche). La strategia di Silvio Berlusconi e Forza Italia si muove all'interno di questo perimetro.
Il Cavaliere anche ieri è restato alla finestra in attesa di capire le mosse del segretario Pd Matteo Renzi: è lui che deve muovere le pedine - è il ragionamento fatto con i suoi fedelissimi - noi dobbiamo continuare a essere silenti mentre nel Pd continuano a logorarsi. Il Cavaliere sa perfettamente che al di là della stima nei confronti del segretario Pd, appoggiare un governo guidato da sindaco fiorentino – ipotesi di cui si parla da qualche giorno – rischierebbe di spaccare Forza Italia e poi il leader del Pd non è disposto a governare con l'appoggio di Fi. Quello che all'ex capo del governo interessa è portare a casa le riforme e intestarsi insieme con Renzi il risultato. Non è un caso che nel fine settimana torneranno a incontrarsi a Firenze il sindaco con Denis Verdini, il braccio destro di Berlusconi che gestisce la partita della legge elettorale.
Intanto, ieri, abbandonata ancora una volta – per evitare di spaccare il partito tra vecchia guardia e nuove leve – l'idea di procedere alle nomine dell'ufficio di presidenza, il Cavaliere ha proceduto con l'annuncio ufficiale di un nuovo comitato, quello per le candidature e il programma politico delle elezioni europee, da lui presieduto e di cui fanno parte Denis Verdini, Giovanni Toti (neo consigliere politico di Berlusconi e di fatto suo delfino), i due capigruppo di Fi e Raffaele Baldassarre, capogruppo del partito a Strasburgo. Un comitato che mette in chiaro il progetto di Berlusconi: cioè la creazione di un partito leggero.
L'ex premier ha intenzione di affidare degli incarichi operativi a determinati esponenti azzurri - spiegano i suoi uomini - evitando strutture che richiamino alla vecchia politica. Ovviamente il ragionamento non piace a tutti. Giovedì Raffaele Fitto ha preso le distanze dalla sua nomina in un comitato che si occupa delle elezioni amministrative. Una presa di posizione che non sarebbe stata per nulla gradita da Berlusconi. Nelle file azzurre non si fa mistero che le nomine fatte ieri rappresentino di fatto il vero comitato ristretto a cui l'ex premier lavorava da tempo. I nomi scelti non sono casuali, a partire da Toti che secondo alcuni sarà delegato dal Cavaliere a presiederlo. Della partita però fa parte anche Baldassarri, leccese doc e uno degli uomini più vicini a Fitto. L'obiettivo di Berlusconi resta quello di tenere a freno le polemiche interne concentrandosi sulle amministrative: domani sono previsti dei collegamenti telefonici con Brescia e Alghero ed è proprio in Sardegna che il Cavaliere è atteso di nuovo per la chiusura la campagna elettorale di Cappellacci.

Repubblica 8.2.14
Almeno 12 i senatori tentati di sostenere un eventuale esecutivo guidato dal segretario del Pd
I dissidenti M5S pronti al dialogo “Matteo è coraggioso, ci ascolti”
di Tommaso Ciriaco


Una guerra fredda congela il Movimento cinque stelle. Da una parte gli ortodossi, ostili a ogni intesa. Dall’altra i dissidenti, aperti al dialogo. In mezzo lo scenario di un governo Renzi, capace di far riesplodere il conflitto. Perché a Palazzo Madama una pattuglia di colombe a cinquestelle è pronta a varcare il Rubicone, in nome di una legislatura costituente. «Renzi - confida il senatore Luis Alberto Orellana non è un politico vecchio stampo. La sua spinta, adesso, è forte. La osservo e vivo con inquietudine il fatto che non partecipiamo ». Il confronto è serrato, i contatti con Pd e Sel quotidiani. E proprio i sette senatori vendoliani sono disponibili a offrire ospitalità a chi deciderà di strappare, dando vita a un nuovo gruppo.
Un ponte l’ha costruito il senatore Peppe De Cristofaro (Sel). Non ha voglia di sbilanciarsi, però ammette: «Con alcuni colleghi del M5S parlo spesso. Ragioniamo di politica e del futuro ». La lista di chi ha voglia di confrontarsi con i nuovi scenari comprende almeno dodici senatori. Per molti la fiducia a un nuovo esecutivo resta un tabù. Li unisce però la volontà di rimettere in gioco il Movimento, senza chiusure preconcette. I più “esposti” sono Orellana, Lorenzo Battista, Laura Bignami e Monica Casaletto, in rotta con Gianroberto Casaleggio. Ma l’elenco dei dialoganti è più lungo. E molti hanno una storia “di sinistra”.
C’è Maria Mussini, ospite questa estate della festa dell'Unità, e ci sono i toscani Maurizio Romani e Alessandra Bencini. Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella e Francesco Molinari, vicini alla sinistra e al sindacato. E ancora, l'ex verde Roberto Cotti, Ivana Simeoni e Bartolomeo Pepe. Mille sfumature, ma convinti della necessità di sedere al tavolo del confronto. «Renzi vuole discutere? Benissimo, ci ascolti. Rispetto al nulla di Letta - sostiene Serenella Fucksia - qualsiasi mossa che ci tolga da questo immobilismo è positiva. Spero che il Movimento sia propositivo nei contenuti, senza traccheggiare».
Orellana, fin da marzo sponsor di un «governo per il bene del Paese», resta fiducioso: «Renzi è coraggioso, in prima battuta tendo a dargli fiducia». Campanella, invece, mette in guardia dai rischi: «Non vedo margini né dal punto di vista politico, né della convenienza politica». Li frena soprattutto l’aritmetica, perché in un esecutivo Renzi difficilmente risulterebbero determinanti.
Ortodossi e dissidenti, comunque, temono la prima mossa. Resta immobile, ad esempio, il guru Casaleggio. Informato delle manovre, ha valutato nuove espulsioni. Ma poi ha preferito farsi guidare dai sondaggi: «È meglio che siano loro a lasciare», ha spiegato all’ala dura. Di certo, il clima resta pesante. «Epurazioni? Non so - ammette Orellana non parlo con Casaleggio. Quando viene, riceve chi vuole...». L'ex capogruppo Nicola Morra, poi, quasi auspica una resa dei conti: «Il Movimento non è una prigione, porte aperte a chi vuole andarsene. I continui distinguo ci logorano». Anche perché la linea dei falchi non cambia: «Altro che fiducia a Renzi, l'esperienza di questi mesi ci rafforza nella convinzione che chi governa debba essere mandato a casa».

il Fatto 8.2.14
Ogni maledetto lunedì: gli anni d’oro di Renzi e Verdini
di Alessandro Robecchi


I don’t like mondays, non amo i lunedì, cantavano i Boomtown Rats di Bob Geldof nel 1979. Matteo Renzi era troppo giovane anche per fare il boy scout e Denis Verdini non era ancora il plenipotenziario berlusconiano che è ora. Uno è spigliato, dicono simpatico, con quell’apparente franchezza da maledetto toscano; l’altro fa il sindaco di Firenze. Chi l’avrebbe mai detto che avrebbero finito per vedersi spesso e, a dar retta a certe voci, proprio al lunedì.
Non è una frequentazione recente, certo, dato che entrambi rappresentano diversi poteri in città: il Comune (e prima la Provincia) da una parte; qualche banca e qualche giornale dall’altra, e in una città che non è esattamente una metropoli prima o poi ci si incontra. Ma le parole di Silvio Berlusconi stupiscono lo stesso: “Matteo e Denis si vedono da anni ogni lunedì a Firenze”, ha detto Silvio. E va notato quel “da anni”, che getta una luce inquietante sia sul nuovo che avanza, sia sul vecchio che avanza anche lui. Un avanzamento incrociato, insomma.
Può essere l’età, chissà, oppure la confusione del momento, e l’anziano leader di Palazzo Grazioli potrebbe anche confondersi: magari con quei lunedì di Arcore che lui stesso passava con Bossi e il gotha della Lega, quando ancora non si sapeva di ragazzine, lauree albanesi, compravendite di diamanti e senatori. Lunedì tristanzuoli, quelli. Mentre sui lunedì di Renzi e Verdini nulla si sa e nulla trapela. Certo è che tra i due la conoscenza non è di oggi. Molti dicono che la scelta di candidare per la destra Giovanni Galli a sindaco di Firenze, nel 2009, fu tutta di Verdini, e fu un aiutino mica male per il giovane rampante Renzi, che vinse a man bassa contro un candidato inconsistente. Poi ci sono, per nulla negati né da una parte né dall’altra, i contatti per mettere a punto l’Italicum, affinare dettagli, limare accordi, stabilire paletti nella trattativa, con Renzi che fa Renzi e Verdini fa la controfigura di Berlusconi. Rimane il mistero su quel “da anni”, che, se vera, sarebbe una rivelazione non da poco. E poi, magari anche sulla scelta del giorno. Perché il lunedì: per iniziare bene la settimana? Per commentare le partite della Fiorentina? Per ricordare gli anni dorati di Aldo Biscardi e del suo “Processo”? Difficile: perché Verdini, pluri-indagato, alla parola “processo” è piuttosto allergico. E perché Renzi con i suoi tre incarichi (sindaco, segretario del Pd e capo dell’opposizione al governo Letta) dev’essere molto occupato. Anche al lunedì.

l’Unità 8.2.14
Camusso: Paese stremato, il governo non va
di Massimo Franchi


Continua e si arrichisce il fuoco di fila delle parti sociali contro il governo e il suo immobilismo sulle questioni di politica economica. Dopo l’aut aut del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi («O azioni subito o ci appelleremo al capo dello Stato»), ieri si sono registrate le prese di posizione dello stesso tenore di Cgil e Cisl.
Dopo la lettera scritta al premier sul tema specifico della riforma degli ammortizzatori in deroga e contro il decreto interministeriale che restringe i criteri di accettazione per la cassa integrazione in deroga, ieri Susanna Camusso ha usato parole forti contro l’esecutivo: «È un Paese stremato dopo sei anni di crisi, è un Paese che non può più aspettare. Il governo pare che abbia di fronte solo opposizioni e che non sia sostenuto da una maggioranza. Questa situazione lo costringe alla paralisi. Ma - continua Camusso - il Paese non può più aspettare, la politica degli annunci, soprattutto nel campo della politica economica e del lavoro, non può più essere sostenuta».
In mattinata anche Raffaele Bonanni si era unito all’ultimatum della Confindustria. «Mi unisco certamente - ha spiegato - perché siamo rimasti molto colpiti negativamente dal fatto che nonostante ci fosse una predisposizione, un impegno del governo e delle forze politiche per ridurre le tasse, a un certo punto non se n’è fatto nulla». E per questo i sindacati arrivarono a decidere per uno sciopero, seppur di 4 ore e territoriale. «È vero - ha aggiunto Bonanni - che abbiamo degli obblighi» in sede europea «però tutta la solerzia che si vede su altre vicende» come la legge elettorale «non si ha su una questione centrale come quella delle tasse. C’è una sfasatura di attenzione, il ceto politico guarda a se stesso, alle proprie regole, e non guarda all’economia che è alla base di tutto». Per Bonanni non si può arrivare fino a maggio, alle elezioni europee, senza interventi concreti sull’economia. «Ecco perché - ha spiegato il leader Cisl - il nostro appello è forte, il governo lo deve ascoltare. Letta ha la prima responsabilità, è chiaro, ma il nostro appello è a Letta e anche a tutti coloro che hanno da dire e da fare qualcosa sulla vicenda economica che per noi oggi coincide con la questione fiscale: è il governo che lo deve fare, ma il governo non è un'entità astratta, avulsa dalla realtà politica. Se il litigio e la disputa ci sono giorno per giorno e l'attenzione è su altro, è chiaro che non si ha la volontà» di mettere in campo misure per la ripresa, conclude Bonanni. La critica della Cisl non è quindi a Letta, ma a tutta la politica. A preoccupare è il clima di stallo, di una situazione politica sempre meno chiara.
«NESSUNA STRATEGIA O ASSE»
Nei giorni scorsi anche il leader Uil Luigi Angeletti aveva attaccato il governo con parole simili («Se andiamo avanti così non vedo necessità di avere questo governo»). Messe sul tavolo una dopo l’altra le dichiarazioni dei leader delle parti sociali possono sembrare un’escalation, una tenaglia studiata a tavolino. Niente di tutto ciò. A guidarle c’è solo la preoccupazione per una ripresa che non si vede e per un continuo perdere tempo. Le ipotesi di un possibile governo Renzi sono state valutate anche dai sindacati. Che però - con accenti diversi, ma una posizione comune - non vogliono entrare nella partita “nuovo governo o rimpasto?”. Le parti sociali vogliono solo un governo che agisca e non che prometta. Che a farlo sia Letta - alternativa di lunga preferita dalla Cisl - o un eventuale governo Renzi non importa: basta che si metta mano alla politica economica, partendo dal taglio del cuneo fiscale.

Repubblica 8.2.14
L’intervista
“Questo governo ormai è alla paralisi se continua così meglio che se ne vada”
Camusso sfida anche la Fiom: referendum sulla rappresentanza
di Roberto Mania


«Questo è un governo che ha solo opposizioni, il che significa un governo alla paralisi».
Dunque se continua così è meglio che se ne vada?
«Sì, il Paese non ha più tempo da perdere. Invece di agire si continuano a dare rassicurazioni mediatiche senza risolvere i problemi », risponde Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, seduta alla sua scrivania. Alle spalle il quadro di Carlo Levi che raffigura Giuseppe Di Vittorio in camicia bianca. Un pezzo di storia della Cgil che mai ha vissuto un momento così: perché lo scontro con la Fiom di Maurizio Landini non ha precedenti. Lo dirà più volte, con rammarico, in questa intervista Susanna Camusso. Lanciando la sua proposta e la sua sfida ai dissidenti fiommini: tornare al voto degli iscritti sul contrastato accordo con la Confindustria sulla rappresentanza. Poi «non ci potranno essere più alibi per nessuno».
Andiamo con ordine. Perché, di fatto, lei considera vicina al capolinea l’esperienza del governo Letta?
«Sono ormai circa due mesi che stanno definendo il programma di coalizione. Qualcuno sa qual è? La verità è che non c’è un’idea delle priorità. Lo abbiamo visto con la legge di Stabilità. Eppure sappiano tutti che la questione principale è quella del lavoro. Serve un piano per il lavoro. Dal governo non è arrivata alcuna risposta. La politica industriale è sconosciuta, sul versante della politica economica questo governo propone al massimo i conti del Ragioniere. Con tutto il rispetto del ruolo del Ragioniere, questa non è una politica. E poi: il governo aveva annunciato con enfasi la ripresa degli investimenti. Dove sono? È tutto coperto da una fitta coltre di nebbia. Purtroppo le uniche politiche che hanno adottato sono quelle dei tagli e delle tasse. Le politiche per lo sviluppo si sono fermate agli annunci».
Pensa che si debba andare alle elezioni, che sia sufficiente un rimpasto, oppure che Renzi debba sostituire Letta a Palazzo Chigi?
«Non spetta alle parti sociali dire che cosa si debba fare. Rimpasto, staffetta, elezioni sono scelte che competono alle forze politiche. Per noi non c’è più tempo da perdere. Pensi al dramma degli ammortizzatori sociali in deroga, cassa integrazione e mobilità. Il governo ha preparato un decreto che ne modifica i criteri di accesso che escluderebbe dalle tutele decine di migliaia di persone. E sa di quanto stiamo parlando? Di 300-350 euro al mese per la mobilità in deroga. È un provvedimento ingiusto che va cambiato».
Delusa da Letta?
«Il problema è che questo governo continua a non decidere, non la persona di Letta».
Probabilmente questo è un governo nato male. Prima le larghe intese, poi le intese più piccole.Sembra un governo senza maggioranza.
«Se è senza maggioranza è una responsabilità delle forze politiche. E sono loro a doverne trarne senza ambiguità le dovute conseguenze».
Senta, mentre l’Italia è, per una parte almeno, come lei la descrive, voi della Cgil vi state dilaniando sull’accordo sulla rappresentanza. Neanche voi vi occupate delle priorità.
«Mettiamo ordine. La Cgil è impegnata in una discussione con i suoi sei milioni di iscritti sulle mozioni congressuali. Una straordinaria prova di democrazia e di ascolto che affronta tutti i grandi temi del lavoro e proprio per questo non può essere rappresentata come uno scontro interno».
Veramente è lei che ha preso una decisione clamorosa: ha chiesto al Collegio statutario se Landini e la Fiom siano sanzionabili perché non si ritengono vincolati dalle decisioni del Direttivo della Cgil. Perché l’ha fatto?
«Ho posto un problema politico di fronte a un fatto inedito negli oltre cento anni della storia della Cgil: c’è ancora un vincolo di appartenenza? Se viene meno cosa si fa? Penso che se le decisioni del Direttivo e la democrazia della nostra organizzazione non valgono per tutti siamo di fronte a un cambiamento della nostra natura. Su questo dobbiamo interrogarci».
Vuole le sanzioni per Landini e la Fiom?
«Non esiste. Non ho mai pensato a interventi disciplinari. Ho posto un problema per evidenziare che le nostre regole non offrono soluzioni politiche a problematiche di questa natura. È un vuoto da colmare ».
Perché non fate votare almeno gli iscritti sull’accordo?
«Le cose vanno dette tutte e bene: gli iscritti alla Cgil, nella assemblee di base, stanno votando anche sul testo unico sulla rappresentanza sul quale peraltro si erano già espressi quando venne raggiunta la prima intesa (questa è la sua applicazione). L’80% fu favorevole. Ciò che non si può fare è gettare ombre sulla vita democratica della Cgil. Per questo la segreteria proporrà al Direttivo di tornare al voto degli iscritti. Sarà un voto sul testo unico ma anche sul nostro modello sindacale. E una volta espresso non ci saranno più alibi, tutti dovranno trarne le conseguenze».
Il voto degli iscritti è una vittoria di Landini. Non crede?
«Le pare possa essere questo il problema? No. Quello che conta è la salvaguardia della Cgil, della sua straordinaria democrazia e la responsabilità di tutti a non oscurarla ».

l’Unità 8.2.14
Scambi di lettere e segni di disgelo tra Cgil e Fiom
di Massimo Franchi


Segnali di disgelo. Dopo la lettera di Susanna Camusso, Maurizio Landini ha accettato di convocare il Comitato centrale della Fiom per il 26 o il 27 febbraio. Sarà quel giorno che metallurgici e segreteria confederale torneranno a confrontarsi «per ricondurre la nostra discussione nei luoghi deputati e non sui quotidiani o sui mass media, modalità che può solo alimentare un conflitto e non trovare soluzioni», come scriveva Camusso e come lo stesso Landini ha più volte rimarcato («vengo a sapere dai giornali che hai scritto una lettera per chiedere sanzioni contro di me»). Il tutto anticipato dall’impegno a «ulteriori valutazioni sul come trovare continuità positiva alla discussione in atto». Le pressioni per mettere fine alle schermaglie, per riaprire un dialogo, per ridare ai 6 milioni di iscritti una speranza per un congresso che sia realmente una prova di democrazia, di partecipazione e di confronto franco ma rispettoso di tutte le opinioni, sono venute da moltissime parti. A tre mesi esatti dal XVII congresso - previsto a Rimini per il 6-8 maggio con il titolo “Il lavoro decide il futuro - e con le assemblee sui luoghi di lavoro che vanno avanti da settimane, lo spettro di una divisione talmente profonda da mettere a repentaglio la stessa esistenza della confederazione è passata nelle menti di moltissimi dirigenti della Cgil. Sia a livello centrale che sul territorio, in questi giorni sono stati molti i pontieri, i pacificatori che hanno contattato le due parti in causa pregandole di mettere da parte le contrarietà personali e ritentare la via del dialogo. Il primo tentativo - il confronto chiesto e ottenuto dai delegati Fiom della Nuova Pignone di Firenze mercoledì - non ha avuto effetti: nonostante l’apertura di Susanna Camusso («Dopo il congresso siamo disponibili a riaprire il confronto sul Testo unico sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro»), la posizione di Maurizio Landini è rimasta ferma: senza un voto dei lavoratori, la Fiom non si sente vincolata a quell’accordo che viola lo Statuto della Cgil perché prevede sanzioni per gli Rsu e una commissione di arbitrato confederale che nega autonomia alle categorie.
LA CONTROLETTERA DI LANDINI Un concetto ribadito anche ieri, nell’assemblea tenuta alla Sevel di Atessa, fabbrica Fiat dove la Fiom Cgil è rientrata dopo la sentenza della Corte costituzionale del luglio scorso. «La Cgil deve sottoporre almeno ai suoi iscritti l’accordo che ha firmato sulla rappresentanza sindacale nelle fabbriche, altrimenti noi non ci sentiremo vincolati da quel testo. Non siamo di fronte a una questione personale tra me e la Camusso,  non è in discussione il segretario generale della Cgil, ma è in discussione che i lavoratori possano decidere sugli accordi che li riguardano», ha sottolineato Landini. L’unico passo avanti dunque riguarda l’accettazione del fatto che il “referendum” sul testo si tenga con il voto di tutti gli iscritti e non - come inizialmente chiesto dalla Fiom - con quello dei soli lavoratori appartenenti alle categorie coinvolte dall’accordo, quelle sotto Confindustria. Landini quindi nei prossimi giorni risponderà alla lettera di Camusso, accettando l’invito. Niente concessioni però. Tanto che oggi a Bologna la Fiom riunirà la sua consulta giuridica per valutare il testo dell’accordo e studiare eventuali mosse, senza escludere a priori un nuovo ricorso alla magistratura. Insomma, il dialogo ci sarà. Ma quale possa essere un compromesso fra due posizioni ancora opposte e ad oggi impossibile dirlo.

l’Unità 8.2.14
Tsipras a Roma, al via la lista della sinistra radicale
di Rachele Gonnelli


Tutti d’accordo, da Sel agli intellettuali- garanti a Rifondazione fino ai movimenti, la lista Tsipras si farà. Ha già 20 comitati locali, da Fano a Siena e dal 16 avrà anche candidati e simbolo per correre alle europee. Il simbolo sarà deciso online, per ora si sa che conterrà la parola Europa e il nome di Alexis Tsipras. Il giovane leader greco è sbarcato ieri a Roma a lanciarla. Salutato per ora da lontano, dalla Sardegna, da Nichi Vendola che vedrà domenica insieme al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti del Pd.
Al Teatro Valle Occupato il suo battesimo di folla: tutte le 660 sedie occupate e centinaia nel foyer in piedi di fronte allo schermo dello streaming. In prima fila, Stefano Rodotà, sparsi tra platea e palchetti, da Ferrero e Russo Spena di Rifondazione a Mussi e Fratoianni di Sel, a Furio Colombo e Diego Bianchi alias Zoro. Lui, Tsipras, ha parlato incessantemente, prima assediato dai giornalisti stranieri, specialmente tedeschi, e in serata da Lilly Gruber. All’inizio impostato e pallido, camicia azzurrina portata con la giacca senza cravatta, e alla fine sciolto, con battute e scenette a due con l’interprete italo-greco, il gomito plasticamente appoggiato sul cornicione del palco e i fogli nell’altra mano.
Il suo è gioco dello specchio tra Italia e Grecia, per far capire che «la crisi del debito non riguarda solo noi greci, è strutturale e ne possiamo uscire solo insieme ». Ha citato Gramsci, Togliatti, Enrico Berlinguer, i casi dell’Electrolux e della Fiat, Lampedusa. «Non per intromettermi nella politica italiana, non ho intenzione di formare un nuovo partito della sinistra italiana voglio solo portare l’esperienza di Syriza che solo due anni fa era un partitino del 6% e oggi stiamo per assumerci la responsabilità del governo». E ancora: «Voi della sinistra italiana siete stati un faro per noi e lo siete ancora, il fatto che io sia qui per una lista unitaria, ne è la dimostrazione ».
Il leader greco che dice «noi siamo il nuovo e il vecchio sta per morire» e che ha la stessa età di Matteo Renzi manda anche un messaggio al segretario del Pd. «Voglio dire a questo mio coetaneo che non basta mettere i giovani al posto dei vecchi e che vorrei capire se intende applicare anche lui le stesse politiche che ci hanno fatto impazzire finora». Le politiche che i ministri delle Finanze dei 27 stati membri - 28 per la verità con il recente ingresso della Croazia ndr- decidono «rinchiusi in una stanza e tanto fanno solo quello che dice la Merkel». I socialdemocratici e socialisti europei come gli altri. Martin Schulz , dice, «mi è simpatico» ma per lui vale la stessa domanda posta a Renzi. Ce n’è anche per Grillo, al quale fa i complimenti per l’alta percentuale di voti, ma «è facile prender voti quando si esprime solo il malcontento, per cambiare il quotidiano delle persone servono proposte alternative ». E c’è poco di alternativo nel proporre di tornare alle monete nazionali e alle svalutazioni competitive. Lui chiede un nuovo New Deal, una conferenza per la rinegoziazione dei debiti sovrani come fu per la Germania dopo la Guerra, politiche inclusive e a favore dei migranti. «Attenzione - avverte - ci possiamo anche svegliare con una vittoria delle forze razziste e neonaziste, la riserva del neoliberismo». Con a fianco Barbara Spinelli, figlia di Altiero, sembra proprio crederci quando dice «noi siamo i più europeisti» perché, aggiunge «l’Europa sarà democratica o non sarà».

Corriere 8.2.14
Tsipras a Roma unisce per un giorno la sinistra radicale
di Alessandra Arachi


ROMA — Entra dentro il Teatro Valle occupato e, dice, si sente a casa. Basterà contare gli applausi della platea per dargli ragione: Alexis Tsipras ieri pomeriggio ha detto tutto quello che il pubblico voleva sentirsi dire. La giovane stella della sinistra radicale greca è arrivata nel posto giusto. 
Tsipras è sbarcato a Roma per unire la sinistra radicale europea. Primo obiettivo: fare una lista unitaria per le prossime elezioni del 25 maggio. Lo hanno appoggiato in sei: Paolo Flores D’Arcais, Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Marco Ravelli, Luciano Gallino, Guido Viale. Sarà lui il prossimo candidato alla Commissione Europea. 
«Io ho guardato sempre alla sinistra italiana perché la sua storia è stata un grande laboratorio da imitare... », dice il leader che alle ultime elezioni greche con la sua Syriza ha sfiorato lo scranno del governo. E nelle prime file si sentono borbottii di scetticismo. «Davvero imita la sinistra italiana?». E come li avesse sentiti, Tsipras tranquillizza: lui si riferiva a Palmiro Togliatti, a Enrico Berlinguer. Il pubblico tira un sospiro di sollievo. 
Ci sono i tanti delusi di tante sinistre, in platea. C’è Vittorio Agnoletto, Furio Colombo, Stefano Rodotà, Paolo Cento, Luciana Castellina, Paolo Ferrero. Tsipras trova parole tranquillizzanti anche per loro. Dando bordate alle due stelle più popolari in Italia. Matteo Renzi? «Non basta essere giovani per fare qualcosa di buono». Beppe Grillo? «Bisogna fagli i complimenti per gli ottimi risultati raggiunti, ma non si governa dicendo sempre no». Lui vuole governare rimanendo dentro l’Europa ma cambiando profondamente il suo aspetto neoliberista e cacciando Angela Merkel. Tsipras galvanizza la platea e tra un applauso e l’altro dispensa il suo consiglio più prezioso. «Per vincere dovete rimanere uniti e mettervi un obiettivo alto: dovete vincere perché chi è meglio di voi in Italia?».

Corriere 8.2.14
Tsipras il Greco, ultima icona di massimalisti a corto di miti
di Pierluigi Battista


Il nuovo papa straniero della sinistra massimalista italiana si chiama Alexis Tsipras. È un leader greco il cui partito, Syriza, ha preso un sacco di voti alle ultime elezioni, svuotando l’arsenale elettorale del Psoe. Tantissimi voti, alimentati dalla protesta contro i diktat europei che si sono abbattuti, nel nome di una spietata austerity, sulla Grecia in default. Mai tanti come quelli di Grillo in Italia, però. E non così tanti da impedire il boom elettorale di Alba Dorata, il partito dei neonazisti greci che soffiano sul fuoco del rancore antieuropeo ad Atene. Un curriculum politico di tutto rispetto, ma non così eclatante da fare di Tsipras un mito, un fulgido esempio, un capo cui affidare le sorti di una sinistra irriducibile al verbo renziano e decisa a conservare il suo vigoroso antagonismo anticapitalista. 
Ma la sinistra massimalista (o «radicale», come usava dire, però ben lontana dai Radicali) ha bisogno di miti come l’ossigeno. E il giovane e baldanzoso Tsipras sembra incarnare il modello della novità e persino del successo. Finita l’epoca in cui i modelli venivano direttamente dal comunismo al potere, smaltita la sbornia castrista, esaurita la fascinazione per un caudillo di estrema sinistra come Chávez, scomparso il subcomandante Marcos che con la sua maschera dava un’aura leggendaria all’oltranzismo anti-sistema, oggi è il turno di Che Guevara mite. Forte in Grecia ma, come greco, in grado di impersonare la parte della vittima dell’odioso intreccio economico-finanziario che nel cuore della tecno-burocrazia europea vuole soffocare i popoli. E perciò si moltiplicano gli appelli a Tsipras, le invocazioni di Tsipras, la richiesta Tsipras di diventare nelle prossime elezioni europee la bandiera di tutte le sinistre antiausterity. Un’immagine giovane e aggressiva che può ben rispondere a quella voglia di leadership che oggi sembra vitale per un’area politica che da Vendola a Di Pietro, da Rifondazione comunista in tutte le sue diramazioni scissionistiche a Ingroia, ha subito una serie di sconfitte che l’hanno resa orfana e depressa. Una leadership straniera che abbia anche un tocco esotico e globalizzato. Tutti per Tsipras, la nuova icona. L’ultima. Per adesso.

il Fatto 8.2.14
Il greco sfida l’Europa “speranza contro la paura”
Alexis Tsipras sbarca a Roma per presentare la lista che porta il suo nome
Una botta d’ossigeno per la sinistra divisa e i movimenti che lo acclamano
di Salvatore Cannavò


Tsipras ripropone anche in Italia il suo slogan fortunato della “speranza contro la paura” con l’idea di “cambiare l’Europa”. Venuto a Roma per sostenere il progetto di lista che porta il suo nome, promosso da Barbara Spinelli, Paolo Flores d'Arcais, Andrea Camilleri, Marco Revelli, Luciano Gallino e Guido Viale, è stato accolto come un capo di governo anche se per ora è solo all'opposizione. Ma i sondaggi in Grecia lo danno stabilmente sopra il 30% e non è un caso che oggi vedrà Enrico Letta. Anche per questo, la sala della Stampa estera a Roma è affollatissima così come il Teatro Valle in serata. Tsipras punta a modificare gli equilibri politici europei – “serve un cambio” – e a rafforzare una sinistra alternativa che provi a strappare i socialisti europei dalla logica delle larghe intese per sbloccare l'impasse dell’austerità europea. Battute secche contro Martin Shulz e Matteo Renzi – “alla fine sostengono la politica di Merkel” – e contro Beppe Grillo: “Bisogna fargli i complimenti, ma non basta dire solo dei ‘no’ occorre una proposta alternativa”.
Il programma di Tsipras è ambizioso a cominciare da una proposta-bomba come la “riduzione del debito di almeno il 60%”. Si tratterebbe solo di una “premessa” per allestire un vero “New Deal europeo”, un nuovo piano di sviluppo che permetta alla Ue “di uscire dalla lunga notte del neoliberismo”.
IL VOLTO GIOVANE e affascinante di Tsipras serve a dare sostanza a un’ipotesi politica che non se la passa bene, in particolare in Italia. Il leader di Syriza (acronimo di Coalizione della sinistra radicale) cerca di creare un’alternativa al Pse, per questo è stato già a Parigi dove ha incontrato il leader del Front de Gauche, Jean Luc Melenchon. A Roma è invece venuto a benedire , diventando il settimo garante, la lista lanciata da Spinelli e gli altri. Progetto ormai avviato, come dimostra la soddisfazione di tutti i partecipanti ieri al Valle: Paolo Ferrero del Prc, e Fabio Mussi di Sel, Stefano Rodotà e Luca Casarini. Con tutti questi, e quelli che si aggiungeranno, Tsipras propone di combattere sia l’euroliberismo che l’euroscetticismo. La strada è ancora “un’altra Europa”, come spiega chiaramente Barbara Spinelli.
Da ieri è attivo il sito listatsipras.it   mentre dalla prossima settimana gli aderenti, ormai 17 mila, saranno consultati su nome e simbolo. Martedì verrà creato un Comitato nazionale e un coordinamento operativo. Quanto alle liste, dovranno essere composte entro il 23 febbraio per consentire la raccolta di firme. Potranno presentare candidature tutti i gruppi di almeno 50 aderenti. A organizzare il tutto, il comitato nazionale ma la parola decisiva spetta ai sei garanti. Da ieri, sono sette.

Repubblica 8.2.14
Il leader greco: i Paesi del Sud Europa devono guidare il cambiamento
Bagno di folla per Tsipras a Roma “La sinistra unita batterà la Merkel”
di Mauro Favale


Una bandiera greca appesa su uno dei palchetti del terzo ordine, una grande rossa che lo accoglie fuori dal Valle Occupato e lui che entra e saluta tutti alzando in aria un pugno chiuso. Scrosciano gli applausi per Alexis Tsipras, ospite del teatro in attività più antico di Roma, in autogestione da due anni e mezzo. «Un luogo di lotta e di speranza», lo definisce il leader di Syriza, in tournée in Italia per lanciare la sua lista in vista delle Europee del 25 maggio.
In Grecia, il suo partito (oggi all’opposizione) è balzato in testa ai sondaggi. Un miraggio per la sinistra italiana che ieri pomeriggio ha riempito il Valle, con una lunga fila di delusi che non sono riusciti a entrare in un teatro stracolmo. Erano tutti curiosi di ascoltare dal vivo il candidato della Sinistra Europea alle prossime elezioni. Un leader a cui guarda la sinistra italiana in Parlamento (trail pubblico molti gli esponenti di Sel) ma anche fuori (presente Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione e Antonio Ingroia) fino a pezzi vari di movimentismo (gli ex Genoa Social Forum Luca Casarini e Vittorio Agnoletto). La visita di Tsipras, però, nasce soprattutto per lanciare una lista a suo sostegno pensata da un gruppo di intellettuali, da Barbara Spinelli a Luciano Gallino, da Flores D’Arcais ad Andrea Camil-leri, da Guido Viale a Marco Revelli. Altri se ne stanno aggiungendo ma, per ora, non Stefano Rodotà. Il professore, ieri in prima fila, non ha ancora deciso se firmare per Tsipras: «Vedremo, sono qui per ascoltare», dice.
Tsipras, dal canto suo, accoglie con piacere la stampella della sinistra italiana («A cui noi greci abbiamo sempre guardato con interesse per le sue scelte audaci», dice Tsipras scatenando tra il pubblico mormorii e risate) e non delude i suoi supporter. Lancia stoccate a Matteo Renzi, mai nominato ma etichettato come «il mio coetaneo», quello che pensa a un’Europa con le stesse ricette della Merkel, «che in questi anni ci hanno portato a un calvario di austerità». Si complimenta con Beppe Grillo per la percentuale raggiunta ma poi lo attacca: «Fischietta facendo il menefreghista e poi non sceglie». La sua ricetta per la sinistra è «unire tutti quelli che oggi il neoliberismo divide, mettere da parte le differenze per un comune obiettivo». Considerato dalla stampa tedesca «il nemico numero uno dell’Europa», Tsipras si definisce «euroscettico costruttivo». Non vuole uscire dalla moneta unica («troppo complicato») e, piuttosto, lancia una grande conferenza europea sul debito: «Non solo per salvare la Grecia ma per liberare risorse per lo sviluppo delle zone periferiche d’Europa».

Repubblica 8.2.14
I Centri come un limbo psicotico dove i “trattenuti” guardano la tv invece di vivere e lavorare
Dentro una gabbia di ferro aspettando Godot con le scarpe senza lacci
di Elena Stancanelli


LORO dicono che è anche peggio del carcere, perché è insensato. Finire in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) come quello di Ponte Galeria a Roma (erano undici, ne sono rimasti a pieno regime cinque in tutta Italia) significa precipitare in un mondo kafkiano, indecifrabile e insensato. Un universo concentrazionario, un non-luogo, il crocevia dove Vladimiro ed Estragone aspettano Godot. Arrivando in questo fabbricato sinistro, percorrendo i corridoi nati decrepiti, sedendo su panche inchiavardate sul cemento, si ha la sensazione di trovarsi in un luogo che la letteratura aveva previsto. Ecco quello che temevamo, il paesaggio partorito dal nostro novecentesco disagio. Ed ecco il rimosso, lo scarto di irrazionalità che le nostre società producono. Stavo lavorando, ci spiega uno dei ragazzi che incontriamo, stavo vendendo il pesce al porto di Pescara, e mi hanno portato via. Perché il mio permesso di soggiorno era scaduto. Non si arriva qui perché si è rubato, o ucciso, o spacciato, ma perché si è clandestini. Fino a oggi è un reato, nel nostro Paese, ma da domani potrebbe essere una vocazione, un destino avventuroso.
Lo è stato, lo è ancora in altri Paesi. Ti portano in un Centro ti tolgono i vestiti e ti consegnano una tuta da ginnastica, un paio di ciabatte o di scarpe senza lacci, ma ti lasciano il cellulare. Anche le regole dentro i Centri, rispetto al carcere, rispondono a criteri misteriosi. Non si possono tenere penne né libri, è consentito usare i fiammiferi ma non gli accendini, si possono incontrare i visitatori come noi senza il diaframma delle sbarre ma la struttura architettonica è formata da un sistema concentrico di sbarre di ferro.
Si entra in una gabbia, che contiene un’altra gabbia, che contiene un’altra gabbia... Una matrioska di disperazione, la chiama il senatore Luigi Manconi che ci accompagna e che ha il compito, tra gli altri, di recapitare ai “trattenuti” una lettera del presidente Napolitano in risposta alle loro richieste. Trattenuti. I Centri sono luoghi nei quali persino parole e cose si scollano. Si è detenuti ma non incarcerati, nell’eventualità che uno dovesse riuscire a fuggire non potrebbe essere perseguito per evasione, ma guardie e militari li sorvegliano esattamente come se stessero scontando una pena. Si mangia, ma non ci sono cucine. Il cibo entra nel Centro grazie a un catering garantito dalla società che ha in appalto la gestione. A differenza di quanto avviene nella carceri, non si può cucinare da soli. I fornelletti sono vietati, ma in cambio, con un buono da sette euro al giorno, è possibile comprare ricariche per il telefonino, caffè, patatine e dolcetti nel distributori automatici. Alle tre apre lo spaccio, a quell’ora le donne possono andare a rintracciare i loro oggetti personali, darsi un po’ di profumo per esempio, ma poi li devono restituire. I ragazzi, circa cinquanta uomini e venti donne, ci tengono a mostrare che parlano bene la nostra lingua. Uno di loro, originario della Tunisia, è in Italia da vent’anni. Stavo andando a fare la spesa, racconta, quando mi hanno fermato e portato qui. Due mesi fa. Due, tre dieci, fino a diciotto mesi secondo quando ha stabilito l’Unione europea come tetto massimo. Un tempo che dovrebbe servire soltanto a identificare le persone trattenute. Questo è lo scopo dei Cie: dare un nome alle persone. Attraverso consolati, relazioni coi paesi di origine che non collaborano, incroci di informazioni. Per farlo, ripeto, ci mettiamo anche un anno e mezzo. Il tempo di permanenza nel Centro è imprevedibile e quindi non può essere comunicato. I trattenuti stanno lì, in questo limbo psicotico, a non fare niente. Non sono previste attività, come avviene invece in un carcere. Un ragazzo marocchino, sbarcato a Lampedusa su un nave scampata al naufragio — l’altra, quella che viaggiava insieme alla sua, è affondata — non parla l’italiano. Era in Libia, lavorava come macellaio, ma è dovuto scappare dall’inferno di un paese a pezzi. L’italiano non lo imparerà, perché nessuno glie lo insegna. Non è previsto un suo reinserimento, a differenza di quanto avviene, almeno in teoria, in un carcere: sta lì in attesa di essere rimpatriato. E costa allo Stato una cinquantina di euro al giorno. Peccato che solo il 40% del trattenuti nel Centri finirà davvero sugli aerei che li riportano nel luogo dal quale sono scappati. Affrontando, come sappiamo, viaggi che sono vere ordalìe.
Un ragazzo algerino di ventotto anni racconta il suo: avevo tredici anni, e nessuna speranza. Mi sono attaccato sotto un camion, a Casablanca. Sono rimasto nascosto là sotto per sette giorni, fin quando non abbiamo raggiunto il confine tra la Spagna e la Francia (qui ha chiamato un numero di telefono, qualcuno gli ha dato un po’ di soldi ed è riuscito ad arrivare a Torino). Sono stato in una casa famiglia, sono scappato, mi hanno portato in un Centro, poi in un altro, e in un altro.
Sono palline di un flipper demente. Ognuno di loro è stato sballottato su è giù per l’Italia, è entrato e uscito da un Centro, ha perso anni e anni in balia di una giustizia incomprensibile. Anni in cui avrebbe potuto lavorare, fare figli, pagare le tasse. Invece non fanno altro che dormire, nelle camerate da otto letti c’è un televisore acceso a volume basso. Le ragazze guardano Masterchef, e hanno tappezzato le pareti con le pagine di una rivista. Gli uomini, ogni tanto, giocano a calcio. Perché, ci chiedono. Già, perché?

il Fatto 8.2.14
Le pene del Pd: spaccati sull’ergastolo
Speranza presenta un disegno di legge per abolire la norma: la renziana Morani lo sconfessa
di Tommaso Rodano


Il Partito democratico vuole abolire l’ergastolo. Anzi no. Sul “fine pena mai”, in poche ore, la vecchia e la nuova segreteria del Pd scoprono di essere su distanze siderali. Senza nemmeno consultarsi. Il primo atto è in mattinata.
Il capogruppo Roberto Speranza e l’ex responsabile della Giustizia Danilo Leva partecipano a una conferenza stampa alla Camera, convocata dai Giovani Democratici. Titolo: “La Democrazia dietro le sbarre”. I due colgono l’occasione per presentare la proposta di legge, di cui sono i primi firmatari, per cancellare il carcere a vita. “L’abolizione dell’ergastolo – dice Speranza – è una battaglia di civiltà e di costituzionalità”. Una battaglia per cui si immagina sia pronto a combattere tutto il partito.
NIENTE AFFATTO. Basta una telefonata all’attuale responsabile Giustizia del Nazareno, Alessia Morani, fresca di nomina nella segreteria di Renzi. La sua sentenza è lapidaria: “Quella di Speranza e Leva è un’iniziativa personale, altrimenti avrei partecipato anch’io alla conferenza stampa. Stiamo lavorando per risolvere l’emergenza carceraria e l’abolizione dell’ergastolo non è in calendario . È evidente che le priorità della giustizia italiana, per il Partito democratico, sono altre”.
Informato della posizione di Morani, Speranza mette le mani avanti: “Non ho mai detto che la nostra fosse la posizione del Pd. È un tema che riguarda le coscienze individuali, non ho parlato a nome del partito. La conferenza non serviva a presentare la nostra iniziativa, che abbiamo scritto molti mesi fa”.
Evidentemente il bersaniano non si è messo d’accordo nemmeno con il cofirmatario. Ieri mattina, infatti, Danilo Leva ha chiesto esplicitamente di mettere subito in calendario la proposta di legge. Non una battaglia culturale, insomma, ma un’ipotesi legislativa da portare al più presto in Parlamento. La segreteria del Pd non ne era informata.
IL DIBATTITO sull’ergastolo si accende nell’opinione pubblica a intervalli regolari. Nel 1981 la proposta di abrogazione è stata bocciata da un referendum in cui i “no” si sono avvicinati all’80 per cento. Nel frattempo però gli ergastolani nelle carceri italiane sono cresciuti in modo esponenziale: oggi sono 1581.
Speranza ha citato l’articolo 27 della Costituzione : “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Non capisco quale possa essere la rieducazione – ha commentato il capogruppo Pd – in una pena che non permette il reinserimento nella società”.
GIÀ IN DUE occasioni la Corte Costituzionale ha decretato che il “fine pena mai” non è in contrasto con i princìpi della Carta: nel 1974 ne stabilì la legittimità indicando la possibilità per i detenuti di accedere alla libertà condizionale. Esiste però anche l’ergastolo “ostativo” (articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario), che non prevede in alcun modo il ritorno in libertà per coloro che rifiutino di collaborare con la giustizia. Nemmeno questo incostituzionale, secondo la Consulta (sentenza del 2003). L’ “ostativo” è considerato uno strumento di contrasto delle organizzazioni criminali (al punto che Totò Riina ne chiese l’abolizione nel suo “papello”). Danilo Leva nega che l’eventuale abrogazione possa essere gradita alle mafie: “Macché. È una battaglia di civiltà, dobbiamo liberarci del populismo giuridico”. Bisognerà chiedere al resto del partito.

il Fatto 8.2.14
Il decreto Svuota-carceri, la soluzione fragile
di Gian Carlo Caselli


Ritardare all’infinito la trattazione di gravi problemi significa farli marcire. Quando poi si interviene lo si fa con l’acqua alla gola. Aprendo spazi a chi voglia sfruttare la tecnica del “prendere o lasciare”, della chiamata alle armi come extrema ratio per salvare la casa che brucia: con lo scopo di far passare soluzioni che altrimenti sarebbero indigeribili. Una situazione che in questi giorni si può constatare sia sul versante della legge elettorale che della legge “svuota-carceri”.
PARLIAMO di quest’ultima e registriamone le obiettive radici di indifferibile urgenza, derivanti dalla necessità di impedire che scatti la mannaia della sentenza “Torreggiani” emessa nel gennaio 2013 dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), sospesa fino a maggio 2014 per dare tempo al nostro Stato di rimediare al sovraffollamento delle carceri. Se non si fa subito qualcosa, diverrà inesorabile una straziante gogna internazionale dell’Italia come “Stato torturatore”, oltre a dover pagare sanzioni pecuniarie imponenti per i quasi tremila ricorsi già presentati per detenzione disumana e degradante.
E se siamo arrivati a questo drammatico punto di non ritorno è perché è mancato un progetto globale che preveda – tra l’altro – un’effettiva separazione fra imputati e condannati, concrete misure di risocializzazione, il rilancio delle misure alternative, l’estensione del lavoro penitenziario da poche realtà (tipo Milano-Opera e Padova) alle altre carceri. Un libro dei sogni? Prospettive utopiche se si tiene conto che i fondi scarseggiano ogni giorno di più? No, se si considerano alcuni dati di base. Il rapporto numerico fra detenuti e popolazione del nostro Paese non si discosta molto dalla media della Ue. Abbiamo il miglior rapporto europeo fra detenuti e poliziotti penitenziari. Ottimo è anche il rapporto fra cubatura totale degli edifici penitenziari e metratura che conseguentemente potrebbe essere destinata ai detenuti. Francamente, a fronte di questi dati è paradossale che si parli ciclicamente di insufficienza degli organici della polizia penitenziaria pretendendo sempre nuove assunzioni (si noti che l’88% delle spese dell’amministrazione penitenziaria è assorbito dal personale). Così come è paradossale che possa verificarsi un sovraffollamento di dimensioni tali da causare la pesante condanna della Cedu. Sovraffollamento che viene percepito in maniera ancor più angosciosa per il fatto che l’organizzazione del nostro sistema carcerario è di tipo chiuso, vale a dire che salvo poche ore i detenuti sono costretti a trascorrere tutto il giorno in cella; e per il fatto che in cella, a volte, per stare un po’ di tempo in piedi si devono addirittura fare dei turni.
Vero è che ci sono nodi assai aggrovigliati che precedono e sovrastano il sistema carcerario. Per esempio, in Italia la risposta penale colpisce anche molti fatti che in altri paesi non sono reato e la sanzione carceraria è quella di gran lunga prevalente (anche se – attenzione – spesso essa non scatta subito, ma progressivamente: perché il sistema prevede via via la negazione della sospensione condizionale e delle attenuanti, oltre che dei benefici penitenziari, così da formare una catena che alla lunga imprigiona il soggetto). Altro nodo è che in Italia la disciplina delle misure alternative è certamente avanzata, ma la prassi applicativa è limitata rispetto agli altri paesi europei, anche per una certa “prudenza” della magistratura che obiettivamente risente della tendenza purtroppo “forcaiola” di ampi settori di opinione pubblica, che a sua volta si traduce nella carenza di sostegno esterno al reinserimento.
COSÌ, se in Italia sono circa 30.000 a scontare la pena all’esterno, in Francia sono 173.000 e 237.000 nel Regno Unito. Restano però in ogni caso – e pesano – i paradossi di cui sopra, sintomatici di una destinazione certamente non ottimale sia degli spazi disponibili (molte sono le sezioni non utilizzate), sia della polizia penitenziaria (senza sminuirne il quotidiano impegno). Ciò che rappresenta l’interfaccia e al tempo stesso il riscontro di quella mancanza di un progetto globale d’intervento che è l’esatto contrario delle misure ispirate a logiche emergenziali come la legge “salva carceri” approvata dalla Camera.

il Fatto 8.2.14
Concorso per docenti c’è il trucco anche nella selezione bis
Diritto Costituzionale, l’onorevole 5Stelle ha ricevuto a gennaio una lettera con i nomi dei prof che il Miur ha pubblicato due giorni fa: 37 su 40 idonei coincidono
di Carlo Di Foggia


Diffondere in anticipo i risultati sembra ormai essere una consuetudine nelle commissioni per l'abilitazione universitaria, in violazione del segreto d'ufficio. Dopo le rivelazioni del Fatto sul settore di Storia Antica, dove i nomi degli abilitati erano stati spediti al ministero mesi prima che fossero resi pubblici, anche in Diritto costituzionale gli aspirati docenti hanno saputo prima della pubblicazione di aver conseguito l'idoneità. Informazioni in possesso dei soli commissari. Cosa che fa sospettare che la selezione sia stata pilotata. In una raccomandata spedita nelle scorse settimane al deputato del M5S, Gianluca Vacca, compaiono i nomi di 40 candidati, 37 dei quali sono stati poi effettivamente promossi. Tra questi risulta anche l'assistente di studio del giudice della Corte costituzionale, Giuliano Amato. Un'idoneità che ha scatenato le ire di molti candidati bocciati. La missiva è datata 17 gennaio, ma i risultati sono stati pubblicati dal ministero solo due giorni fa.
PER IL DIRITTO Costituzionale le selezioni erano già finite al centro di numerosi scandali. Inchieste e denunce non sono bastate a invertire la rotta. Nel 2008 il concorso nazionale per i costituzionalisti è finito nel mirino della Procura di Bari e della Guardia di Finanza, che ha denunciato – con l’accusa di associazione per delinquere, corruzione, falso e truffa – ben 38 docenti universitari, tra i quali i 5 saggi nominati a suo tempo dal premier Enrico Letta per riformare la Costituzione. Una cupola avrebbe infatti pilotato i concorsi in diversi atenei. Per arginare la piaga dei concorsi truccati, dove spesso passava chi aveva il cognome giusto, è intervenuto il nuovo meccanismo di reclutamento dei docenti voluto dall'ex ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini: l'abilitazione nazionale. Ma, anche in questo caso, un collegio fantasma avrebbe operato al fianco della commissione nazionale (5 membri) prevista dal nuovo meccanismo. Tutto denunciato a suo tempo dal commissario esterno (proveniente dai paesi Ocse), Francisco Balaguer Callejon, professore di Diritto costituzionale all’Università di Granada. I criteri adottati sarebbero stati di volta in volta cambiati , modifiche di cui Balaguer veniva informato solo al momento di doverle ratificare, e a cui si è opposto inutilmente. A luglio del 2013, si è dimesso denunciando tutto in una lettera alla comunità accademica, già sconvolta dalle inchieste giudiziarie. Tutto svelato dal Fatto , che ha pubblicato la lettera del docente spagnolo. “Il 10 giugno misi al corrente il ministero – si legge –. All’interno della Commissione sono stati formati due collegi. Il primo ha funzionato normalmente. Nei periodi a cavallo delle sedute – quando nessun collegio dovrebbe funzionare – s’è formato un altro collegio, di cui non conosco le caratteristiche, così come le iniziative o decisioni che mi sono state trasmesse solo in seguito”. Una procedura per Balaguer, “irregolare” e “incompatibile con l’ordinamento giuridico”, il cui unico scopo era modificare i criteri per calibrarli sui candidati da piazzare. “In due occasioni il presidente della Commissione
– in rappresentanza del collegio più stretto, nel quale non ero presente – ha cercato di modificare i criteri. Mi sono rifiutato di accettare queste decisioni. La mia opposizione non è servita, i criteri sono stati comunque modificati, violando il principio di uguaglianza e la stabilità del meccanismo di valutazione”.
Le accuse sono state confermate da un'istruttoria avviata in agosto dal Miur. I risultati sono così stati annullati, e la procedura è ripartita da zero. Ma non la commissione, che è rimasta la stessa, così come i criteri iniziali. Dai verbali, emerge che i commissari, con il solo parere negativo di Balaguer, hanno deciso di considerare per la valutazione di merito delle pubblicazioni scientifiche, anche quelle antecedenti i dieci anni dalla presentazione della domanda, un limite che invece era stato imposto dal ministero. Diversi abilitati presentano infatti nel curriculum pubblicazioni più vecchie, a volte risalenti al 1992. Altri invece, si erano attenuti ai criteri ministeriali, finendo penalizzati. A metà giugno del 2013, Massimo Vallone, docente di Diritto costituzionale all'Università Federico II di Napoli, aveva chiesto lumi ai commissari sulle voci che circolavano nell'ambiente accademico. Il commissario Annamaria Poggi aveva replicato smentendo le accuse di Balaguer. Ma le anomalie, vista la lettera con i nomi, sono continuate.
LE PROROGHE hanno riguardato tutta la prima tornata, partita nel 2011. Ad oggi, mancano ancora i risultati di numerosi settori. L’onorevole Vacca di M5S depositerà nei prossimi giorni un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Istruzione, per verificare il rispetto dei tempi massimi previsti dal bando. Tempi che secondo i deputati non sarebbero stati rispettati. Se fosse confermato l’intera selezione sarebbe a rischio.

Corriere 8.2.14
Il mercato nero delle lezioni private
di Lorenzo Salvia


Professore uguale evasore. O quasi. Sono 9 su 10 infatti gli insegnanti che danno lezioni private senza ricevuta. Il dato è dell’istituto di ricerca Eures, che colloca i docenti al primo posto tra le categorie che operano in nero. Di fare i conti all’industria delle ripetizioni si incaricano invece i consumatori del Codacons: fatturerebbe 850 milioni di euro. Il meccanismo dei voucher prepagati che i genitori dovrebbero fornire ai professori è praticamente ignorato.
D’accordo, siamo il Paese dall’evasione fiscale. Al primo posto in Europa in tutte le sue varianti, da quella in grande stile nei paradisi off shore a quella di piccolo cabotaggio con lo scontrino che non c’è. Eppure. Qualche mese fa l’istituto di ricerca Eures si è preso la briga di confrontare la percentuale di evasione tra le diverse categorie di lavoratori. Ed è venuto fuori che in cima alla classifica ci sono proprio loro, i professori: nove volte su dieci le ripetizioni che danno agli studenti sono senza ricevuta. Amanti del nero persino più degli idraulici. Un dato senza dubbio non «scientifico», perché tutto ciò che è sommerso sfugge per forza di cose ad ogni misurazione. Come «non scientifici» sono gli 850 milioni di euro che l’industria delle ripetizioni fatturerebbe ogni anno, secondo l’associazione dei consumatori Codacons. Lo stesso giro d’affari che ha nel nostro Paese il settore dell’olio d’oliva, tanto per farsi un’idea. 
Un’esagerazione? Forse, ma il problema esiste e finora nessuno è riuscito a risolverlo. 
In teoria ci sarebbe il meccanismo dei voucher, i buoni lavoro prepagati che dal 2012 possono essere utilizzati per saldare (regolarmente) i cosiddetti lavoretti. Quasi nessuno lo sa ma anche le ripetizioni rientrano in questa categoria. Sono i datori di lavoro, cioè i genitori, che li devono comprare nelle sedi Inps o nelle tabaccherie per poi girarli agli insegnanti. Nei dieci euro di un buono sono compresi i contributi a carico dell’Inps e dell’Inail, cioè pensione e assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Ma non le tasse, che in questo caso non vanno pagate. Anche perché per l’utilizzo dei buoni c’è un tetto di 5 mila euro l’anno per singolo lavoratore. In ogni caso, nella scuola nessuno li usa. 
In teoria ci sarebbe un’altra strada. Nel 2007, quando si tornò ai vecchi esami di riparazione, l’allora ministro Giuseppe Fioroni aveva previsto che fossero le stesse scuole ad organizzare, gratuitamente, i corsi per quei ragazzi che avevano bisogno di recuperare debiti formativi. Ma la realtà è molto diversa dalle intenzioni e quei corsi sono una rarità. Restiamo fedeli al fai da te, con i singoli insegnanti che al pomeriggio danno ripetizioni nel tinello di casa. C’è chi si fa pagare poco, chi troppo. Chi aiuta davvero gli studenti a recuperare il terreno perduto, chi pensa più che altro ad arrotondare lo stipendio. Ma — tolta qualche rarissima eccezione — l’intero settore fa parte integrante della nostra gloriosa economia sommersa. Possibile che non si riesca a trovare una soluzione? 
Tempo fa uno dei sindacati degli insegnanti, lo Snals Confsal, aveva proposto di estendere alla scuola il sistema dell’intra moenia, oggi utilizzato dai medici che lavorano in ospedale. Le ripetizioni verrebbero date dagli insegnanti direttamente a scuola, naturalmente non agli studenti della propria classe ma incrociando le sezioni fra loro. Il prezzo diventerebbe controllato. E la somma andrebbe divisa fra i professori che decidono volontariamente di aderire, e che dovrebbero aggiungerla nella loro dichiarazione dei redditi, e la scuola che avrebbe più costi dovendo allungare l’orario di apertura. I soldi che il fisco otterrebbe in più potrebbero essere trasformati in detrazioni per la famiglie, che potrebbero scaricare le ripetizioni dalle tasse. Ipotesi tutta da costruire, quest’ultima, visto che proprio gli sconti fiscali (i rimborsi che arrivano a luglio per le spese mediche e il mutuo, per capirsi) potrebbero essere tagliati per il solito problemino di far quadrare i conti pubblici e tenere buoni i controllori di Bruxelles. L’idea resta, però. E qualche piccola sperimentazione c’è anche stata. 
Naturalmente anche questo modello si accompagna a qualche rischio. L’intra moenia ha i suoi problemi negli ospedali, dove la sovrapposizione fra pubblico e privato ha portato qualche zona grigia. Probabilmente ne avrebbe anche nelle scuole. Ma non sarebbe meglio che restare fermi davanti al buco nero di adesso?

il Fatto 8.2.14
“Ha fatto bene”: a scuola tutti con la ragazza cattiva
Incredibili giustificazioni dei coetanei alla bionda picchiatrice che in chat rivendica il pestaggio della quattordicenne: “spero abbia capito la lezione”
di Davide Milosa


Lorenzo porta i jeans dentro a un paio di sneakers alte. Capelli rasati sui lati, maglietta grigia, collanina, piumino azzurro e un bel po’ di anelli alle dita. Sta nel lungo corridoio dell’istituto tecnico Primo Levi di Bollate in provincia di Milano. Poco dopo le dieci di ieri, intervallo per il cambio dell’ora. I ragazzi escono, parlano, urlano. Sono oltre duemila tra il Levi e l’Erasmo. Due scuole separate da una sola porta. Lorenzo chiacchiera con due amici. Dice: “Io so tutto e le cose non sono andate proprio come è stato scritto. A iniziare con gli insulti anche pesanti è stata Sara”. Si riferisce alla 14enne del Levi picchiata da una coetanea davanti ad almeno venti ragazzi che al posto di intervenire hanno riso, incitato, filmato e messo l’intera sequenza su Facebook. Giovanna, bionda, tuta grigia. E Sara, jeans, giacca marrone.
LA PRIMA PICCHIA, la seconda chiede aiuto, nessuno si muove, il video finisce con due terribili calci al volto. “Giovanna non è di questa scuola, lei sta con la malavita”. Lorenzo sorride, poi spiega: “È solo un modo di dire nostro”. E Giovanna della mala da strada utilizza gesti e linguaggio. “Pisciatura piangi”, urla a Sara dopo il pestaggio. Eppure a sentire Lorenzo, il filmato è solo l’ultimo capitolo di un litigio iniziato molto tempo prima. Alla base di tutto c’è un ragazzo: l’ex di Giovanna è l’attuale fidanzato di un’amica di Sara. “Lei non c’entrava niente, eppure si è messa di mezzo”. Insomma, dopo che il caso è finito sul tavolo dei carabinieri di Rho con una denuncia querela nei confronti della ragazzina bionda, le versioni degli studenti, pur condannando la violenza, ribaltano i fatti. E come spesso avviene, il giorno dopo la colpa ricade sulla vittima che ha provocato. Lorenzo inizia il racconto ma finisce subito. Interviene un assistente della presidenza. “I giornalisti non possono parlare con gli alunni”. La paura di finire nel tritacarne mediatico è alta. Fuori dal portone , sotto la tettoia che conduce al parcheggio, gli insegnanti scappano. Non parlano. Chi lo fa non dice il nome e nemmeno la materia che insegna. Solo si limita a dire: “I nostri studenti sono rimasti molto colpiti, è un fatto grave, ma certamente isolato”. Parla un po’ di più la preside Rosaria Pulia. “Ci siamo accorti giovedì del video e subito abbiamo chiamato i carabinieri”. E i genitori di Sara che fino a quel momento nulla sapevano. Si punta il dito contro “l’indifferenza” di chi non è intervenuto e contro “la non consapevolezza dell’uso dei social network”. A metà mattina la dirigenza invia un comunicato stampa che riassume le parole della preside, quindi alle 12:30 nell’aula multimediale l’incontro con i rappresentanti delle cento classi.
OLTRE UN’ORA di assemblea blindatissima e un’indicazione ferma: l’accaduto nulla ha a che vedere con questa scuola. Anche se poi a ben guardare, oltre a Sara, alunna di prima, tra gli spettatori del pestaggio c’erano molti studenti del Levi. “Gli schiaffi – dice un alunno di prima – quella se li è cercati”. Dalle aule ci si sposta davanti al cancellone giallo che separa il parcheggio da via Varalli. Qui i ragazzi parlano a ruota libera e tutti ripetono la stessa cosa. Sandy, origini calabresi, faccia tonda, occhi brillanti, ombrellino rosa sotto la pioggia è stata l’unica a intervenire dopo il primo calcione. “A quel punto stava esagerando”. Va avanti: “Non dico che Sara se l’è cercata, però nei confronti di Giovanna ha usato parole grosse”. Le dà della “troia e puttana”. Le dice: “Domani ti aspetto fuori dalla scuola”. Questo lunedì e ancora prima. Poi martedì pomeriggio l’appuntamento alla rotonda; la discussione, le spinte, i calci. Eppure nonostante il pestaggio e la denuncia, Giovanna non cambia idea e dal suo profilo su Ask rilancia: “Se lei non faceva la buffona, non mi insultava, non si intrometteva, tutto ciò non succedeva! Spero abbia capito la lezione!”. Il discusso social network, per molti il vero paradiso dei cyber-bulli, torna così al centro della cronaca. Era successo nell’estate 2013, quando su Ask si diedero appuntamento i ragazzi della maxi-rissa bolognese avvenuta nel settembre 2013. “È vero che domani vai ai Giardini con il lanciafiamme a bruciare la Bolofeccia?”. Racconti, ricostruzioni, qui a Bollate i ragazzi si dividono sulle responsabilità delle due, ma poi si uniscono nel condannare chi ha ripreso, riso, urlato (“Così, cattiva!”), postato tutto su Facebook, rilanciando il video in Italia e oltre. “In Calabria l’ha visto anche mia nonna”, racconta Sandy. “Anche i miei amici in Puglia”, dice un suo amico che conosce il fratello di Giovanna e confida: “Ora sta cercando chi ha girato il video e lo ha messo in rete”. Perché il vero squallore di questa vicenda sta nell’assistere alla violenza senza intervenire filmando tutto come fosse un gioco.

Corriere 8.2.14
Bollate, il bullismo, gli adolescenti così svanisce il senso della violenza
di Matteo Lancini


La diffusione degli strumenti di comunicazione tecnologica e di internet ha radicalmente modificato la nostra civiltà, il modo di vivere la gioia, il dolore, l’istante privato e quello pubblico. Il dramma personale diventa oggetto di spettacolarizzazione globale. La morte e la violenza ripresi in diretta sono tra i video più cliccati del web, registrano ascolti televisivi altissimi. A questo ormai siamo abituati, così come agli applausi che accompagnano i funerali. Nella società dell’immagine e della condivisione, tutto ciò che accade nella realtà può essere catturato, trasferito e diffuso in tempi rapidissimi. Sono soprattutto gli adolescenti, molto sensibili ai temi di visibilità e successo, bisognosi di sapere che esistono nella mente degli altri, a non occuparsi delle conseguenze che può avere la divulgazione di immagini e filmati attraverso la rete. Non solo. Il senso stesso della violenza sembra svanire, in nome della necessità di trasformare l’occasione drammatica in «spettacolo», da osservare, filmare, divulgare. Come nella mente degli adolescenti del «pestaggio» di Bollate: si è costruita una pericolosissima dinamica che ha portato quei terribili momenti a trasformarsi in «evento». Per un lungo periodo nessuno interviene per porre fine alla violenza, mostra indignazione, rifiuto. 
L’indifferenza tra gli individui è un fatto a cui assistiamo quotidianamente. La libertà delle scelte, dei comportamenti e dei valori di riferimento rende la nostra società «trasparente» rispetto ai principi dell’etica tradizionale. Quel che conta è assistere per esibire, non intervenire per soccorrere. Eppure gli affetti sono al centro della regolamentazione dei rapporti. L’etica familiare contemporanea promuove sensibilità agli affetti della società ristretta ma non sempre riesce a promuovere un’etica sociale in senso ampio. In famiglia si mettono a punto regole specifiche, valide per il singolo nucleo ma non associate a valori assoluti. È forse giunto il tempo di individuare una strada moderna che conduca a una nuova forma di «comunità educante»: i conducenti non possono che essere gli adulti che presidiano le agenzie educative e che governano le istituzioni politiche.

il Fatto 8.2.14
La lunga scia della dittatura
Nell’aula del processo di La Plata a venti militari aguzzini dell’Argentina di Videla
di Ugo Zamburru

Psichiatra e presidente Arci Torino

Il giudice Carlos Rozansky è un uomo coraggioso. C’è lui a presiedere la corte che il 5 febbraio 2014 ha avviato il processo a 20 militari e un civile argentini coinvolti nelle atrocità della dittatura. Si tratta delle sevizie e dell’uccisione di 147 persone nel campo clandestino “La Cacha”. Etchecolatz, l'ufficiale di polizia, respinge le accuse con tono sprezzante: “Sì, ho ucciso molte persone, ma non ho violato le leggi, anzi ho obbedito alle leggi di allora, c’era una guerra contro i terroristi in atto e io l'ho combattuta”. Etchecolatz aveva tra gli accusatori un sopravvissuto del lager, Julio Lopez. Dopo la seconda deposizione di Julio si sono perse le tracce, da oltre 6 anni è desaparecido.
Quello giorno sono iniziate le minacce al giudice Rozansky, titolare del processo che in altri procedimenti ha già condannato Etchecolatz, scrivendo nella sentenza che l'ergastolo era dettato dalla particolare atrocità che connotava il suo agire. La moglie del giudice è stata aggredita, lui ha la scorta ma “non posso permettermi di avere paura”, mi dice. L'unico civile che sale sul banco degli imputati, è Jaime Smart, avvocato: ex ministro del governo nella Provincia di Buenos Aires e come tale comandava la Polizia: molti degli accusati sono stati ai suoi ordini, Jaime si difende da solo, mellifluo e determinato: è stato il primo civile a essere condannato. Claudio Grande è il più giovane con i suoi 62 anni, lavorava come tutti gli imputati nell'intelligence, nega di essere quell'assassino che con lo pseudonimo di Pablo imperversava nel lager clandestino “La Cacha” e per oltre un'ora accusa, imputato e difesa si confrontano sulle prove, con Grande che protesta la sua innocenza e lo scambio di persona.
Gli altri militari imputati oscillano tra silenzio, arroganza, ossequiosità e lamentosità. La prossima udienza sarà oggi. Nelle precedenti udienze del Tribunale di La Plata ha testimoniato la signora Papaleo, vedova di un banchiere a nome Graiver, morto in un incidente aereo sospetto: la vedova ha riconosciuto tra gli imputati i militari che la sequestrarono, la torturarono con sevizie sessuali e l’obbligarono a vendere l’industria di carta per stampa ai militari a prezzi irrisori. Costoro vendevano ai pochi giornali consentiti allora, tra cui La Nacion e il Clarin, permettendone così l'esistenza. Clarin e Nacion sono oggi tra i più accesi nemici del governo.
Il processo di La Plata riveste una duplice valenza: da un lato dimostra sempre più l’alleanza tra militari e sistema finanziario (La Mercedes e la Ford sono già state condannate in altri processi per tali intrecci), dall'altro lancia il messaggio che il nemico è sempre lo stesso: gli allevatori e i latifondisti, nemici dichiarati di Cristina Kirchner, la presidenta, come allora erano vicini alla dittatura.
I golpe militari iniziati nel 1966 in Brasile, passando per la Bolivia nel 1970, l'Uruguay nel 1972 e il Cile nel 1973 arrivano al colpo di Stato del 24 marzo 1976 in Argentina. Le dittature cilena e argentina hanno visto i militari nelle vesti di autori materiali di un piano che prevedeva la sperimentazione di un modello neoliberista estremo, con privatizzazione di ogni bene dello Stato, libero mercato e assoluta condiscendenza a multinazionali, Fondo monetario e Banca mondiale. La soppressione d’ogni diritto civile e l'eliminazione di 30.000 oppositori (sacerdoti terzomondisti, sindacalisti, studenti, guerriglieri, con la creazione di oltre 300 lager clandestini) furono il viatico per trasformare l'Argentina in un immenso supermercato cui attinsero i capitali stranieri impoverendo il paese paralizzato dal terrore.
La fine della dittatura vide il presidente Alfonsin formare una commissione d'inchiesta che terminò i lavori accusando oltre mille militari di genocidio, torture, stupri e crimini contro l'umanità. La reazione si concretizzò nella Pasqua del 1987: l'insurrezione dei carapintada, militari che occuparono in armi il Parlamento, spaventarono il governo che con le leggi dell’“obbedienza dovuta” e del “punto final” amnistiò la quasi totalità dei colpevoli nel 1988, completando l'opera con l'indulto final del 1990. La lotta instancabile delle donne di Plaza de Mayo, le madri dei desaparecidos, dettò la resistenza dal 1977. Fino al 2003 quando Nestor Kirchner, divenuto presidente, promosse l'annullamento delle leggi salva-militari.

Corriere 8.1.14
la Svizzera, gli Stranieri e la Libertà ristretta
Libertà, tradizione e paura dell’altro La Svizzera non trova più se stessa Così cambia il Paese che domani vota sull’immigrazione di massa
di Gian Arturo Ferrari


La più stringente (è il caso di dirlo) argomentazione a favore del sì nel referendum di oggi, che dovrebbe limitare pesantemente l’immigrazione in Svizzera, è stata portata dal signor Marco Brenno, cittadino svizzero. Il quale, in un suo commento su swissinfo.ch, asserisce senza mezzi termini che la Svizzera è stretta. «Il nostro territorio — scrive — è troppo piccolo e prezioso: la superficie utile della Svizzera è solo del 15 per cento, tolte foreste, laghi, fiumi e strade! Se dovesse continuare la forte immigrazione come finora, avremmo disordini sociali certi, uniti a danni ambientali».
Che il problema sia, almeno nella propaganda, il Boden , la vecchia e cara terra — pudicamente travestita da «territorio» e priva del suo antico e abituale socio, il Blut , cioè il sangue — lo si evince dai manifesti della campagna referendaria. Dove si vede la Svizzera — piccolina, tutta rossa e con la sua bella croce bianca — calpestata da un’orda avanzante di grosse scarpacce nere. Che sarebbero gli emigranti, i richiedenti asilo, gli aspiranti al ricongiungimento, ma anche i frontalieri. Tutti insieme, si presume. I direttori di banca italiani di Lugano, i francesi che ogni mattina vanno a lavorare nell’orologeria di lusso di Ginevra, i camerieri, sempre italiani, dei grandi alberghi dell’Engadina, i rifugiati curdi, eritrei o di ogni altra provenienza. In un altro manifesto la Svizzera, sempre rossa e sempre con croce, è la terra, come fosse un vaso, in cui affondano le radici nere e serpentesche di un enorme albero anche lui nero che dà copiosi frutti, ma sulla chioma. Cioè fuori e lontano dalla Svizzera. Più di un secolo fa, nel 1906, era diversa la grafica, ma non troppo diversa la musica. «La Svizzera agli svizzeri», diceva con tautologica compunzione lo slogan ufficiale, ma il senso era tutto nella scritta «Giù le grinfie!» (Klauen weg! ) che sovrastava un eroe nibelungico con spadone, più un Sigfrido che un Guglielmo Tell, intenzionato a tagliare le molte teste e i molti artigli del drago dell’immigrazione.
A vedere i numeri non si direbbe però che in Svizzera si stia così stretti. In Lombardia, tanto per fare un paragone, siamo 10 milioni, un quarto in più degli svizzeri, o meglio dei residenti in Svizzera, che sono otto milioni. È vero che la Lombardia è per oltre il 40 per cento pianeggiante (anche se non scherza in fatto di laghi, fiumi ecc.), ma è anche vero che è per oltre un quarto più piccola della Svizzera, 28.360 contro 41.285 chilometri quadrati. Un quarto di abitanti in più sopra un quarto di superficie (terra?) in meno. Ma questi sono calcoli astratti, il punto dolente è che circa due (il 24,7 per cento) degli otto milioni di residenti in Svizzera sono nati all’estero. Cioè stranieri. E sono continuati a crescere di buon passo anche negli ultimi anni, dato che nel 2000 erano ancora sotto il 20 per cento. La ragione è semplicissima: l’economia svizzera non ha conosciuto la recessione, viaggia con una disoccupazione al 3,5 per cento, cioè al minimo fisiologico, e ha continuato ad attirare manodopera. Italiani in primo luogo, seguiti a ruota da tedeschi e, a maggiore distanza, da portoghesi. Ora, prima di stracciarsi le vesti sulla presunta xenofobia svizzera, pensiamo bene a che cosa vuol dire vivere in un Paese dove quasi un quarto della popolazione è formato da stranieri. Pensiamo, ad esempio, a come abbiamo reagito alla nostra di immigrazione, a quanto abbia inciso sulle nostre difese e sulle nostre paure. E adesso, per capire gli svizzeri, moltiplichiamo il tutto per quattro — difese, paure e reazioni — dato che noi siamo il Paese con il più basso tasso di stranieri, il 7,4 per cento, un quarto della Svizzera, oltre metà della Germania (12) e della Spagna (14,2). Tanto rumore — verrebbe da dire pensando ai casi nostri — se non per nulla per poco, per molto poco.
Il referendum «Contro l’immigrazione di massa» dovrebbe domani perdere nella Confederazione, ma vincere nel Canton Ticino. Anche qui la ragione non è oscura. I ticinesi, a parte gli stranieri residenti, hanno a che fare quotidianamente con la gran maggioranza dei frontalieri — nell’insieme circa sessantamila — cioè di coloro che vivono in Italia e lavorano in Svizzera. Varesotti e comaschi in prevalenza, più i chiavennaschi, che però commutano con i Grigioni. I frontalieri non sono l’obiettivo principale del referendum, anche se si chiede di imporre un tetto, ma certo l’aria che tira per loro non è delle migliori. I partiti a favore del sì nel referendum, l’Unione democratica di centro (Udc), il partito di destra che l’ha promosso, la Lega dei ticinesi, ancor più a destra, e i Verdi, di sinistra ma opportunisti e — loro pensano — furbi, non nascondono la loro insofferenza per i frontalieri. Per l’affollamento sui mezzi pubblici certo, ma soprattutto per i bassi salari che sono disposti (siamo disposti, poveretti noi...) ad accettare. Con grande gioia, è naturale, dei datori di lavoro, i quali si sono infatti dichiarati vigorosamente contrari al referendum.
In realtà il referendum non ha motivazioni precise, elencabili, identificabili. Non economiche, se non andando molto per il sottile, vista la quasi piena occupazione. Ma neppure antropologiche. Qui non c’è spazio per la mitica categoria del diverso, dell’altro da sé e del relativo — e deprecatissimo — rifiuto dell’altro. I varesotti e i comaschi non si presentano alla frontiera con veli e turbanti, non bruciano incensi, non parlano idiomi esotici. Parlano, mangiano, si vestono, si comportano esattamente come i ticinesi. Hanno lo stesso dialetto, lo stesso accento. Sono esattamente gli stessi. Forse pensano anche allo stesso modo. O forse no, non del tutto.
Gli svizzeri non sono i fabbricanti di orologi a cucù sbeffeggiati da Orson Welles nel Terzo uomo. Sono gente alpina, solida e tosta. Hanno praticato per secoli, con competenza e con onore, il mestiere delle armi. Si sono fatti uccidere per difendere, nel 1792, il re di Francia, cioè colui che li pagava. Durante la Seconda guerra mondiale hanno accolto 51 mila profughi civili, di cui 21 mila ebrei, che si sono così salvati. Hanno difeso ostinatamente la loro idea di indipendenza, di neutralità e di libertà. Ma anche di fedeltà alla tradizione, di democrazia diretta e di autogoverno. Che li ha portati a mantenere la divisione dei propri otto milioni di abitanti in ventisei, diconsi ventisei, repubbliche, i cantoni (altro che inutilità delle province...).
Ora, come è possibile che in un Paese così fatto, nel ricco centro e nel cuore dell’Europa, e per di più nel cantone più simile a noi, un referendum che non ha, se non debolissime, motivazioni economiche e non ne ha affatto di antropologiche, visto che è rivolto contro la propria immagine speculare, rischi di vincere? Come è possibile una guerra (metaforica, s’intende) tra ticinesi da una parte e comaschi e varesotti dall’altra? Una cosa ridicola, almeno in apparenza. Ma in realtà molto seria. Laggiù, nel profondo, una connessione essenziale ha ceduto, due piani si sono scollati. Valori universali e sensibilità individuali non vanno più d’accordo. Va bene essere aperti, inclusivi e accoglienti. Ma quando è troppo è troppo. Quando sembra che manchi l’aria, quando non ci si sente più padroni a casa propria, quando si vuole riprendere il controllo su quel che ci circonda, i grandi principi generali vanno a farsi benedire. Non è solo diritto all’egoismo, è un’idea più estesa e modulata di quel che si è, una nuova forma della soggettività. Occorrerebbe qualcuno che riadattasse le travi portanti della civiltà europea a questo nuovo modo di intendere sé stessi, i propri diritti e il proprio ambito, il proprio modo di sentirsi nel mondo. La sensibilità è cambiata, e non è un cambiamento da poco. Forse l’origine vera del referendum, che non è economica e neppure antropologica, è semplicemente culturale.

Repubblica 8.2.14
Bosnia, ora la guerra del pane la folla incendia i palazzi del potere
Cortei da Sarajevo a Mostar. La polizia carica: centinaia di feriti
di Paolo G. Brera


«RIVOLUZIONE!», urlano migliaia di persone in piazza a Sarajevo, e i cannoncini della polizia sparano ad altezza uomo: lacrimogeni e acqua, sì, ma gli ospedali sono gonfi di feriti e la Bosnia precipita negli incubi della sua storia. «Sembra di essere tornati al 1992», dice il professor Amira Sadikovic ricordando l’orrore della guerra mentre i suoi concittadini infuriati lanciano pietre, lattine e bottiglie contro le vetrate del palazzo del governo regionale a cui hanno appiccato il fuoco. Ma stavolta la furia non ha colori etnici e simboli religiosi: è una protesta per il pane e per il lavoro.
Tutto è cominciato mercoledì a Tuzla, estremo nord industriale del Paese, 500mila abitanti molti dei quali impiegati in quattro industrie statali di mobili e detersivi mal privatizzate, divorate dalla corruzione e dall’incapacità e finite in bancarotta: non pagano gli stipendi da mesi. Ma in un Paese uscito devastato dalla guerra e poi affogato dall’economia nepotista, che con le privatizzazioni ha impoverito la classe media e arricchito un’oligarchia di papaveri di Stato, la miccia delle manifestazioni in piazza ha fatto rapidamente divampare l’incendio. E non è solo una metafora: bruciano i palazzi dei governi localidi Tuzla e Zenica, di Travnik, Mostar e Sarajevo, la capitale in cui è stato appiccato il fuoco persino in un’ala del palazzo presidenziale.
Il tasso di disoccupazione paralizzato al 44,5% ha ucciso il sogno di una rivincita economica; ma la paura di riaccendere il conflitto dopo i centomila morti della guerra e il difficile guado politico degli accordi di Dayton stavolta sembra non bastare più a sedare la frustrazione. La protesta, esplosa con violenza, si è estesa in tutta la Federazione croato musulmana, ma è arrivato anche l’appoggio dei giovani scesi in piazza a Banja Luka, nel cuore della Repubblica serba di Bosnia e Erzegovina.
«È una vera e propria Primavera bosniaca — dice Almir Arnaut, economista disoccupato e attivista di Tuzla — e non abbiamo niente da perdere. Ci sono 550mila disoccupati in Bosnia, saremo sempre di più a scendere in strada». Ma è il fumo nelle strade e il fuoco nei palazzi di Sarajevo l’immagine più estrema. I ragazzi si danno appuntamento su Facebook, le strade sono presidiate dalla polizia che spara proiettili di gomma per arginare ondate di migliaia di protestanti. Hanno tentato di forzare l’ingresso della presidenza, non ci sono riusciti ma hanno comunque appiccato le fiamme, spente poco dopo dai vigili del fuoco. I feriti sono almeno un centinaio, metà dei quali agenti. E mentre bruciano i palazzi del governo a Zenica e a Mostar, dove migliaia di manifestanti hanno lanciato computer e mobili dalle finestre senza che la polizia intervenisse, a Banja Luka una marcia pacifica di centinaia di serbi urla gli stessi slogan accusando i «ladri» e invocando la «rivoluzione». Non è più il tempo delle quote etniche, è il tempo del pane e del lavoro.

l’Unità 8.2.14
Scienza
L’illusione della realtà...
...e del tempo: tutte le domande aperte della fisica
Carlo Rovelli ci spiega perché oggi, per progredire nella conoscenza, dobbiamo rivolgerci anche a filosofi, artisti, scrittori e perfino agli hippie
intervista di Cristiana Pulcinelli


DAL TITOLO CI FA SAPERE CHE È MEGLIO RASSEGNARCI PERCHÉ «LA REALTÀ NON È COME CI APPARE» (pagine 240, euro 22,00, Raffaello Cortina Editore). Rovelli, fisico teorico che insegna all’università di Aix-Marsiglia, ci porta a spasso lungo 25 secoli per spiegarci come è cambiata la nostra immagine del mondo grazie ad alcuni grandi visionari della storia. Aiutato da un’ottima capacità narrativa, ci fa arrampicare sulle vette del pensiero di Democrito e Lucrezio, di Galileo e Newton, ci fa digerire cose complesse come la meccanica quantistica e la relatività di Einstein e ci costringe addirittura a prendere seriamente in esame alcune idee «estremiste» emerse dai recenti studi sulla gravità quantistica, come quella secondo cui il tempo non esiste. «A livello fondamentale il tempo non c’è. (....) ci sono processi elementari in cui quanti di spazio e materia interagiscono tra loro in continuazione. L’illusione dello spazio e del tempo continui intorno a noi è la visione sfocata di questo fitto pullulare di processi».
Professor Rovelli, come possiamo accettare l’idea che il tempo non sia reale?
«Quello del tempo è un problema con cui ci si è scontrati lavorando sulle equazioni fondamentali. Dobbiamo farci i conti, ma forse è più semplice di quanto sembri a prima vista. In fondo noi viviamo in un mondo in cui c’è l’alto e il basso, ma sappiamo bene che si tratta di una distinzione locale e che non vale per tutto l’universo. Anche il tempo probabilmente è così: utile per descrivere fenomeni alla nostra scala, imprescindibile nella nostra esperienza quotidiana, ma che non vale per tutto l’universo».
Lei dice «probabilmente»: non abbiamo certezze al riguardo?
«No, ma la scienza non dà mai risposte certe, dà solo le migliori risposte del momento. Non è un male: possiamo vivere anche senza certezze assolute. Il che non vuol dire che non possiamo fidarci».
Quali sono i problemi aperti della fisica oggi? «In fisica fondamentale, ovvero la fisica che si occupa della descrizione delle cose più elementari, ci sono vari problemi aperti, ma ce n’è uno più bello degli altri: quello della gravità quantistica. Lungo tutto il Novecento abbiamo scoperto molte cose sul mondo grazie alla meccanica quantistica e alla relatività generale. Ma le immagini dell’universo fornite da queste due teorie sono difficili da mettere insieme, non si conciliano. La gravità quantistica tenta di farlo, ma per riuscirci dobbiamo cambiare l’idea che abbiamo di spazio e di tempo.
Oggi, dunque, si cercano teorie unificanti. È come se, dopo un periodo in cui la scienza è andata sempre più verso una dimensione specialistica, si volesse tornare ai grandi sistemi filosofici. È così?
«È così. Nei primi anni del secolo scorso abbiamo fatto passi da gigante nella comprensione del mondo: era l’epoca di Einstein, di Bohr, di Fermi. Poi c’è stato il nazismo e molti fisici si sono spostati dall’Europa agli Stati Uniti. Lì la fisica è rinata, ma non era più la stessa: era una scienza imbevuta di pragmatismo americano, finanziata anche dall’esercito. Con la Seconda Guerra Mondiale, che ha coinvolto molto i fisici, il fenomeno si è acuito. Questo ha creato una generazione di scienziati il cui interesse principale era fare i calcoli e far funzionare le cose. Del resto, la meccanica quantistica permetteva di fare moltissime cose: laser, conduttori, computer. E la relatività di Einstein si poteva impiegare per spiegare molti fenomeni in astrofisica, dai buchi neri alle stelle di neutroni. Così si è andati avanti senza chiedersi se ci fosse qualcosa da cambiare. Generazioni di fisici hanno lavorato seguendo il principio: calcola e non fare domande. Ora però è passato quasi un secolo, i nodi lasciati irrisolti vengono al pettine e la fisica sta tornando a un modo di pensare più approfondito per cercare di rispondere alle domande ancora aperte. Ma forse c’è anche qualcos’altro. Un paio d’anni fa è uscito un libro intitolato Come gli hippie hanno salvato la fisica, l’autore sostiene che molti fisici teorici contemporanei fanno parte di quella generazione che pensava in termini universali e che, probabilmente, hanno conservato quel “vizio”».
È passato un secolo da quando la relatività generale ha cambiato la natura dello spazio e del tempo, ma a noi sembra ancora strano immaginare il mondo secondo la fisica di Einstein. Forse aveva ragione Kant nel dire che Spazio e Tempo sono le forme a priori entro le quali solamente è possibile la nostra esperienza?
«Kant aveva ragione su quasi tutto. In particolare, oggi sappiamo che aveva ragione nel dire che quello che vediamo è il mondo esperito da un soggetto fatto così come è fatto. Ma la nozione di spazio che Kant considera naturale in realtà è quella nata nel 1670 con i Principia di Newton: lo spazio di Dante o quello di Aristotele non sono così. Bisogna allora prendere in considerazione la storia. La relatività ha cento anni, ma le sue basi sperimentali sono di oggi: quando andavo a scuola già mi insegnavano che, secondo la teoria di Einstein, un orologio su un tavolo corre più velocemente di uno a terra, ma solo recentemente sono stati creati orologi così precisi da provarlo. Cento anni sono pochi: in fondo Copernico è vissuto nel Cinquecento, ma nel Seicento solo alcuni visionari come Galilei pensavano di prendere sul serio le sue teorie».
Lei fa spesso riferimento all’arte e alla filosofia. Crede che ci sia un collegamento intimo tra i campi del sapere?
«L’idea delle due culture è una sciocchezza contemporanea. Letteratura, scienze, arte, filosofia sono gli strumenti concettuali migliori che la nostra cultura ha prodotto e approfondiscono la comprensione del mondo. La spaccatura è disastrosa perché crea due gruppi di persone più ignoranti e più stupide». Nel suo libro si nominano molti giovani ricercatori Italiani e ogni volta si puntualizza che lavorano all’estero. Sbaglio o c’è una nota polemica?
«Non sbaglia. Non è un male che gli italiani vadano in giro per il mondo, ma perché il confine viene attraversato in una sola direzione? Le persone più brave vanno dappertutto meno che in Italia e i nostri migliori emigrano, come accade in Africa. Ci stiamo autotrasformando in un deserto culturale».

Corriere 8.2.14
Foibe, la terza via storica del «genocidio ideologico»
Né rivolta né vendetta: fu progetto politico
di Dario Fertilio


Dieci anni ben spesi, quelli dedicati al Giorno del Ricordo. Appesantita alla nascita da polemiche a sinistra e ipoteche di destra, con il rischio d’essere oscurata dalla Memoria della Shoah che si celebra appena due settimane prima, la solennità del 10 febbraio, nata per commemorare i massacri comunisti nelle foibe — e l’esodo dei giuliano-dalmati dalle loro case — si è trasformata progressivamente in appuntamento vero, capace di attraversare gli schieramenti, diffondere emozioni e superare le ideologie. 
Così sta avvenendo quest’anno: dalle 180 manifestazioni del 2006 e dopo le 500 dell’anno scorso, si raggiungeranno senz’altro cifre superiori. Colpisce anche la varietà delle iniziative: dalle celebrazioni più tradizionali alla Foiba di Basovizza, o a Redipuglia, all’incontro dei rappresentanti degli esuli con il Papa; dall’omaggio a Ottavio Missoni nel teatrino di Palazzo Grassi, a Venezia, alla «biblioteca di pietra» che si sporgerà idealmente dalla costa di Rimini verso quella opposta dell’Adriatico; dal concorso letterario «Tanzella», a Verona, riservato alle opere scritte nei dialetti delle popolazioni vittime, al concerto serale romano nella basilica di Sant’Andrea della Valle; e l’impatto popolare maggiore verrà probabilmente dallo spettacolo televisivo in programma su Rai 1, Magazzino 18 di Simone Cristicchi, accompagnato da un numero speciale di Porta a Porta . 
Tutto potrebbe sembrare, dunque, a suo modo, pacificato: meno forti sono a sinistra le iniziative dei «negazionisti» che vorrebbero derubricare il genocidio degli italiani istriani, triestini e dalmati a «vendetta di guerra» generata dall’odio per l’occupazione fascista; e parallelamente hanno perso l’iniziale carattere revanscista le prese di posizione rivolte a denunciare l’«odio slavo», come anche le discussioni — in particolare nel gruppo di lavoro presso il ministero della Pubblica Istruzione — sui libri di testo delle scuole, troppo timidi nel raccontare la verità, quando non addirittura reticenti. 
E invece la questione del tutto pacificata non è, a cominciare dal numero delle vittime: minimizzato da un lato a poche migliaia, dilatato dall’altro fino a 25 mila, mentre la cifra avanzata dagli storici più indipendenti, e prudenti, si aggira intorno alle 11 o 12 mila. 
Eppure, viene da chiedersi, sta proprio nel balletto dei numeri, il nocciolo della questione? O non va cercato piuttosto nel significato storico e morale da attribuire al genocidio? Fra gli storici si sta facendo largo una specie di «terza via» interpretativa, estranea alle opposte ideologie, e che idealmente viene riferita allo storico triestino, di cultura slovena, Elio Apih, scomparso nel 2005 e membro della commissione nominata dai governi di Roma e Lubiana. Per Apih, nel saggio postumo Le foibe giuliane pubblicato dalla Leg di Gorizia, va tolta di mezzo l’idea di una «insurrezione popolare» slava contro gli occupanti italiani, prendendo atto invece della «azione politica coordinata» messa in atto dai seguaci di Tito secondo le indicazioni giunte a suo tempo da Stalin (e anche non immemore del modo di procedere dei nazisti). Così si spiega l’organizzazione dei trasporti in corriere dai finestrini imbiancati a calce perché le vittime non fossero riconosciute; l’esecuzione di massa dei prigionieri legati tra loro ai polsi con filo spinato; l’istituzione di «tribunali popolari» con lo scopo non di accertare colpevolezze, ma di funzionare insieme come propaganda e tecnica del terrore. Non fu rivolta popolare, né pulizia etnica, né eliminazione di un gruppo nazionale: si trattò invece di genocidio ideologico, con lo scopo di spianare il terreno al nascente regime comunista jugoslavo. Tanto è vero che nelle foibe finirono anche croati, sloveni, serbi, tedeschi e persino qualche militare alleato. 
Tutto questo, e non un semplice omaggio alla bandiera, sarà quest’anno al centro del Giorno del Ricordo.

Corriere 8.2.14
Una palestra per mente e anima
Idee, concetti e ragionamenti sono come attrezzi per rafforzare le proprie abilità e resistere agli urti
di Armando Torno


Tra le tante definizioni che circolano sulla filosofia, ce n’è una di quello spirito inquieto che fu Emil Cioran. La scrisse ne L’inconveniente di essere nati : «La filosofia si insegna solo nell’agorà, in un giardino, o a casa propria. La cattedra è la tomba del filosofo, la morte di ogni pensiero vivo; la cattedra è lo spirito in gramaglie». Arthur Schopenhauer, che forse era ancora più cattivo del letterato romeno, nel suo attacco alla filosofia delle università (è nei Parerga e paralipomena ) raccomandò un secolo prima di non fidarsi assolutamente dei professori quando si esprimono in termini complicati o nebulosi. Intendeva colpire il sapere cattedratico degli idealisti e di Hegel in particolare. Il poco umile Arthur considerava il pensiero dell’odiato rivale un «vinaccio» tossico per anima e corpo. Aveva ragione? Inutile rispondere con un «sì» o un «no», quel che conta rileggendo storiche polemiche si può riassumere in una constatazione: le idee sono più belle (e più utili) senza polvere. 
D’Annunzio replicò agli studenti che lo pregavano di accettare la cattedra a Bologna ricordando loro che il suo spirito era libero soltanto sulle spiagge, in un bosco, a contatto con la natura. O accanto a belle donne. Parole che si potrebbero ripetere per la filosofia, che è vita; anzi diventa vita se non la si tratta come un cappone di allevamento, messo all’ingrasso in una stia. Si pensa sempre. Allorché ci si innamora e quando si provano sentimenti contrari. Si utilizzano le idee nei momenti di difficoltà, quando la politica non convince o i conti non tornano. Si ha bisogno di pensare in presenza del dolore o per meglio gestire un successo. Un colloquio di lavoro, ammesso che capiti, riesce meglio a coloro che hanno passato qualche ora esercitandosi nei buoni ragionamenti. 
Per questi e per simili motivi è nata la collana «Grandangolo». Volumi che desiderano far conoscere a un vasto pubblico i protagonisti del pensiero e proporli senza il linguaggio specialistico che sovente nasconde interessi di bottega. Si prefigge di introdurre nel mondo della filosofia, al quale, spesso senza accorgerci, chiediamo un prestito. Quando pronunciamo il termine «idea», per esempio, ci indebitiamo un pochino con Platone (anche se sono passati quasi due millenni e mezzo); parlando di tolleranza, a quasi tre secoli, dobbiamo riconoscere qualcosa al signor Voltaire. E «critica»? In tal caso si deve un tributo a Kant. Se si tratta di fede si accende un mutuo morale con Agostino. Lui viveva alla fine dell’Impero Romano, noi avvertiamo ormai il tramonto dell’Occidente, ma le sue questioni su male, grazia o sul rapporto che un uomo può avere con Dio non riescono a invecchiare. 
Bene: è tempo di conoscere meglio qualche fonte dei problemi, delle domande che ognuno si pone. Di un filosofo «Grandangolo» espone le idee, narra la vita e non dimentica di vedere quel che oggi resta di lui nel dibattito corrente o come è stato interpretato. Si segnala un film o uno sceneggiato televisivo che ha lasciato una certa immagine, magari lontana dalla realtà ma con cui dobbiamo fare i conti. D’altra parte quel che la maggioranza conosce del mondo antico si deve ai lungometraggi di Hollywood più che ai manuali scolastici: tanto vale sapere quel che ha pensato Liliana Cavani di Nietzsche o, ricordando il teatro, quel che Brecht intendeva mettendo in scena il dramma di Galileo. Di Wittgenstein circolano più le immagini del film dedicato al filosofo da Derek Jarman del 1993, piuttosto che le ultime scoperte dei suoi biografi. Una società basata sulla comunicazione non rispetta regole tradizionali fondate sull’autorità. 
Si avverte, inoltre, da più parti il bisogno di spiegazioni chiare riguardanti la filosofia. È giunto il tempo in cui essa deve entrare nella vita delle persone. Per aiutarle o semplicemente per recare loro qualcosa in più. Senza dimenticare quanto scrisse Søren Kierkegaard nel suo Diario : «La filosofia è la balia asciutta della vita, veglia sui nostri passi, ma non ci può allattare». Certo, non nutre, comunque aiuta a distinguere le buone pietanze dalle cattive e le cattive dalle pessime. Ricorda nelle sue Vite Diogene Laerzio che il filosofo greco Aristippo, un edonista che si rifaceva alla lezione di Socrate, invitato nella casa di un ricco citaredo, ebbe modo di ammirare cose lussuosissime. Alla fine dell’incontro sputò in faccia al padrone di quel patrimonio, scusandosi subito dopo il gesto di non aver trovato un posto più brutto per espletare la bisogna. Non fu un atto edificante ma era intriso di libertà, senza la paura dei potenti. Oggi, data l’aria che tira, cerchiamo almeno di sorridere con episodi come questo. 
La filosofia permette anche di non accettare supinamente tutto quello che desiderano imporci. Montaigne nei suoi Saggi , un’opera che almeno una volta nella vita occorre leggere, scrisse che «quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono». Conviene ricordare l’aurea sentenza allorché le giornate si dissolvono tra un briefing e qualcosa che sembra un meeting: si tratta sempre di una specie di riunione, seppure espressa con terminologia presa in prestito all’inglese per rendere più importante l’evento. C’è una legittima difesa intellettuale da scoprire, da utilizzare. 
La filosofia, infine, è un piacere. Così come ci si sente bene dopo essere usciti da una palestra, forse perché il corpo ha scaricato negli esercizi le sue tensioni, allo stesso modo il nostro spirito trae giovamento dalle buone riflessioni. E non si fa cogliere di sorpresa dalla voracità della vita frenetica. Accostarsi ai grandi pensatori significa anche raccogliere qui o là qualcosa del loro insegnamento, o meglio offrire ai nostri ragionamenti un ricostituente. Se dovessimo riassumere in una battuta tutte le ragioni qui indicate, potremmo dirvi: occupatevi della vostra anima. Non per una ragione o per l’altra, ma semplicemente perché conviene. Portatela in palestra insieme al cervello e tenetela pronta. Con un po’ di filosofia.

Corriere 8.2.14
A tu per tu con i maestri del pensiero dell’Occidente
di Ida Bozzi


Il pensiero dei maggiori filosofi della storia, insieme ai dati biografici di ciascun autore, all’ambiente, alle influenze e all’eredità intellettuale, con un ampio apparato di note e link utili: sarà in edicola da martedì 11 febbraio la nuova iniziativa editoriale del «Corriere della Sera», la collana «Grandangolo», con il primo volume su uno dei padri della filosofia, Platone (il primo volume è venduto al prezzo di € 1, le uscite successive a € 5,90). I 35 volumi sono dedicati a nomi notissimi della storia della filosofia, come Platone, Aristotele, Kant, Heidegger, e ad autori e autrici forse meno noti al grande pubblico ma non per questo meno importanti sia nel panorama antico sia nel mondo contemporaneo, si tratti di Plotino o di Simone Weil; e vi sono inoltre numerose personalità che travalicano l’ambito di una singola disciplina — ad esempio la teologia, oppure le scienze fisiche, come nei casi di Agostino o Einstein — per offrire una riflessione di rilievo filosofico. I volumi sono firmati da illustri studiosi e docenti (il primo volume è curato da Roberto Radice, con un’introduzione di Armando Torno), e sono suddivisi in parti ben distinte, per orientarsi nell’approccio a ciascun filosofo: il «panorama», su vita e ambiente, il «focus» su opere e influssi, e gli «approfondimenti» con pagine scelte dell’autore e una bibliografia commentata per chi vuol trovare altri libri o link sull’argomento. Ciascun volume sarà disponibile anche in formato ebook (da € 0,89 per la prima uscita, da € 3,59 per le successive).

Repubblica 8.2.14
L’arte declassata
È guerra alla riforma Bray che cancella il contemporaneo
Maxxi e Triennale confinati nella “Direzione spettacolo”
L’Archeologia con il “Paesaggio”. Eccesso di burocrazia. Il piano per i Beni culturali scontenta tutti
di Francesco Erbani e Dario Pappalardo


L’antichità sparisce e il contemporaneo è declassato. È il paradossale effetto della riforma che Massimo Bray propone per il ministero dei Beni culturali. Una riforma che incontra resistenze fortissime e che rallenta il suo cammino. Fra i primi a protestare ci sono, quasi su ideali fronti opposti, gli archeologi e chi lavora con l’arte contemporanea. «Questo ministero nasce dalla Direzione generale antichità e belle arti, fondata nel 1881. E ora questo stesso ministero vorrebbe farla sparire la parola antichità», dice Piero Guzzo, per quindici anni soprintendente a Pompei, archeologo di fama ora in pensione, mentre è appoggiato al portone d’ingresso dei Beni culturali, al Collegio romano. Insieme ai suoi colleghi, una cinquantina, protesta contro la riforma che, riorganizzando la struttura interna, accorpa l’archeologia al paesaggio e al patrimonio storico- artistico. Senza neanche nominarla.
Era previsto che la riforma andasse in Consiglio dei ministri, anche solo in lettura. Ma non sarà così. All’incontro con i sindacati, al posto di Bray c’erano il capo di gabinetto e il capo dell’ufficio legislativo (qui sembra profilarsi una piccola apertura: la parola antichità, prima sparita, potrebbe ricomparire). Il Pd, il partito del ministro, non guarda con favore a questo testo e piuttosto solidarizza con chi si oppone. Oltre sessanta fra soprintendenti e dirigenti del ministero chiedono di sospendere tutto e di avviare una trattativa.
“Incomprensibile”. “Ritorno al passato”. “Divorzio non consensuale”. Sono le parole con cui, il mondo dell’arte contemporanea commenta il “declassamento” che, di fatto, colpisce il settore nella bozza del mi-nistro Bray. I funzionari del Mibac preferiscono non esporsi singolarmente, ma il clima è teso. Non ci stanno a finire sotto una Direzione generale che non distingue tra arte contemporanea, spettacolo ed eventi effimeri come fiere e sagre. Ieri, sul blog della “Conferenza dei dirigenti del Mibac”, è comparsa la richiesta di sospensione dell’iter di approvazione della bozza di riforma e di apertura di un confronto tecnico. Perché il progetto non sembra «rispondere adeguatamente a quelle esigenze di semplificazione ed efficacia nella tutela dei beni culturali del Paese avvertite da più parti». Anzi, si rileva tutta la sua «fragilità come strumento per un effettivo rilancio del patrimonio culturale italiano». La bocciatura, insomma, appare netta.
Per qualcuno il provvedimento è pieno di passaggi oscuri. Anna Mattirolo, direttore del Maxxi Arte di Roma, commenta: «Sono rimasta un po’ stupita. Però voglio leggere bene tutto il testo, prima di entrare nel merito. L’arte e l’architettura contemporanea devono mantenere il loro spazio importante e fare parte di un sistema produttivo e sano. Come è avvenuto quando c’era la Direzione generale per l’Architettura e l’arte contemporanea (Darc)». La Darc non esiste più. E, se il progetto di Bray si realizzasse, l’attuale Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanea (PaBAAC) farebbe la stessa fine.
«Trasferire l’arte contemporanea alla Direzione generale dellospettacolo? Rimango esterrefatta », commenta Gabriella Belli, direttore della Fondazione musei civici veneziani, e una lunga esperienza nel settore. «Invece di semplificare, hanno trasferito una competenza. Ma che riforma è? È vero che l’arte contemporanea è anche performativa, ma lo consideriamo spettacolo? E dire che ci sono voluti anni perché in Italia il contemporaneo si sedesse al tavolo di tutte le altre arti, perché si creasse un rapporto di osmosi con l’antico. Adesso si divide quello che si è cercato di unire. Si toglie all’arte contemporanea il valore della storia e la si equipara agli eventi effimeri. Questa frattura può creare un grave dissesto culturale. Mi auguro che alla fine questo tradimento non avvenga e che il ministro ascolti i funzionari».
Confinare l’arte contemporanea nello spettacolo è una visione antiquata dei beni culturali? Secondo Achille Bonito Oliva, sì: «Questa distribuzione – spiega – corrisponde a pregiudizi scolastici e a una vecchia impostazione idealistica per cui è la storia che dà valore all’arte. Ma l’arte ha uno spirito del proprio tempo, problematico, ma non incerto. Bisogna evitare che questi pregiudizi, frutto di una mentalità antiquariale, sviluppino scetticismo e sottovalutazione del contemporaneo».
Francesco Bonami, che qualcuno dà per candidato alla guida del museo Macro di Roma («Ma nessuno me l’hai mai chiesto», puntualizza lui) sembra condividere: «Quali sarebbero i vantaggi di questa riforma? Risparmiare? Compli-care, piuttosto. L’arte contemporanea dovrebbe andare sotto la direzione della ricerca e della formazione culturale. La cosa che preoccupa è l’idea che tutta la cultura, oltre che la politica, debba diventare “spettacolo”. Guy Debord scrisse La società dello spettacolo.Nel nostro caso, si dovrebbe scrivere “La società dell’avanspettacolo” ».
Gli archeologi non sono da meno. Al sit-in romano Piero Guzzo ha in mano un cartello rosso, come tutti gli altri manifestanti. C’è scritto «L’archeologia? Chi l’ha vista?». Dal portone esce Massimo Bray, ha il volto scuro e a occhi bassi supera il drappello di contestatori. Non solo archeologi, però. Con Guzzo c’è Mario Lolli Ghetti, ex direttore generale di architettura, paesaggio e belle arti, e poi Anna Maria Moretti, ex direttrice del Museo di Villa Giulia a Roma ed ex soprintendente del Lazio, e ancora Elizabeth Fentress dell’American Academy in Rome, presidente dell’International Association of Classical Archaeology. Quando, giovedì scorso, è circolata la notizia che l’archeologia avrebbe fatto tutt’uno con paesaggio e patrimonio storico-artistico, le caselle di posta elettronica di chi scava da Nord a Sud sono state inondate di mail. Proteste sono arrivate anche dal mondo universitario.
Le novità della riforma investono anche il sistema museale. L’articolo 32 stabilisce che il ministero elenchi un certo numero di musei sganciandoli dalle soprintendenze e assegnandone la guida a dirigenti (attualmente i direttori sono equiparati ai funzionari e guadagnano non più di 1.800 euro al mese). Ma quali saranno questi musei? Le interpretazioni divergono. Secondo qualcuno sono i più grandi e quelli con più visitatori. Secondo altri, invece, non sono i musei che già appartengono al sistema dei poli museali (gli Uffizi o Pitti del polo fiorentino, Borghese o Barberini di quello romano). Comunque un numero imprecisato di musei avrà maggiore autonomia, il che garantirà vantaggi, ma farà perdere, di fatto, il rapporto stretto con il territorio che storicamente li ha alimentati, una caratteristica tutta italiana, a differenza di altri paesi.
Un altro punto controverso riguarda il regime dei vincoli, fra i principali strumenti della tutela sia paesaggistica che storico-artistica o architettonica. Finora era la direzione regionale a emettere il provvedimento, su proposta e dopo un’istruttoria condotta dalle soprintendenze. Ora invece, almeno per i vincoli storico-artistico e architettonico, tutto torna in capo alle soprintendenze, mentre le direzioni regionali conservano quelli paesaggistici. Un modo per snellire le procedure o un modo per complicare la vita a funzionari stremati, ormai anziani, ridotti nel numero e soggetti a pressioni insopportabili?

Repubblica 8.2.14
Ho ucciso il mio analista
Julia Deck: “Un noir per sfatare l’ultimo tabù”
Intervista all’autrice esordiente di un romanzo che sta avendo grande successo in Francia Le nevrosi di oggi spiegate attraverso la crime story
di Anais Ginori


PARIGI - «Non sei del tutto certa, ma hai l’impressione di aver fatto, quattro o cinque ore fa, qualcosa che non avresti dovuto fare». Una donna uccide l’analista con il coltello offertole dalla madre il giorno del suo matrimonio. È lei ma non è lei, depista gli altri e se stessa in un vertiginoso gioco di depersonalizzazione.
Viviane Élisabeth Fauville è il primo romanzo di Julia Deck. Un esordio apprezzato da gran parte della critica francese, ora pubblicato da Adelphi con una traduzione (di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco) che riesce ad adattare il particolare stile di Deck, con repentini cambi della voce narrante. Il racconto comincia alla seconda persona plurale, quel “voi” ancora in uso nelle conversazioni formali, tradotto nell’edizione italiana con un più empatico “tu”. «La scelta del Voi è un modo di mettere una distanza tra me e il personaggio» spiega Deck, 39 anni, che ha studiato letteratura e psicologia, e scrive nel tempo libero dal lavoro da segretaria di redazione per diversi editori. Insieme a Viviane Élisabeth Fauville, brillante dirigente della comunicazione per un’azienda, da poco madre separata, il lettore precipita in un dramma psicologico intorno a una delle ultime religioni della borghesia: la psicoanalisi.
Perché immaginare l’assassinio di un analista?
«Sono da tempo interessata al dibattito sulla presunta efficacia della psicoanalisi. In Francia, sono stati pubblicati saggi per demonizzare Freud e i suoi discepoli. Mi piaceva giocare intorno ad alcuni cliché sui pazienti che sentono sempre parlare dell’uccisione simbolica del padre o della madre. Mi sono domandata: e perché non uccidere direttamente l’analista? Era una fantasia letteraria. A sorpresa, pochi giorni prima della pubblicazione del romanzo, sui giornali è stata pubblicata la notizia di un analista ucciso da un paziente».
Come fa Viviane a sfuggire alla polizia?
«Volevo scrivere la storia di un crimine impunito, senza che ci fosse mai un giudizio moralista, ispirandomi da lontano a Delitto e Castigo. Ancor prima di iniziare il manoscritto sapevo che Viviane non sarebbe mai finita in prigione. La trama riflette il problema dell’invisibilità. È una donna che non fa nulla per nascondersi. Ha lasciato molti indizi eppure non è davvero sospettata dalla polizia. Riesce a seminare, senza volerlo, i potenti mezzi tecnologici usati nelle inchieste criminali. È metafora di una solitudine contemporanea. Viviane è tagliata fuori dalla società perché è ancora in congedo parentale, non va al lavoro, suo marito l’ha ap-pena lasciata. Si ritrova in una forma di isolamento totale».
La maternità è il detonatore della follia?
«L’unica persona con cui Viviane ha una relazione è la sua bambina. Un rapporto non verbale visto che è una neonata di soli tre mesi. Ma prima che madre, Viviane è una figlia. Gli analisti dimenticano troppo spesso questa doppia dimensione della maternità. L’arma del crimine è un coltello donato dalla mamma di Viviane».
È un noir psicologico? «Ho tentato di creare una certa suspense per inchiodare il lettore più che alla trama criminale, che in fondo è sottile, al percorso di follia del personaggio. Nella sua ricerca di identità, Viviane comincia a pedinare le persone sospettate dalla polizia per l’omicidio dell’analista. Spia gli altri per ritrovare se stessa».
Ha voluto descrivere una patologia precisa?
«La scrittura del romanzo ha coinciso con la ripresa dei miei studi di psicologia. Ho letto diversi manuali clinici che descrivono i vari sintomi delle patologie dissociative, con personalità multiple. A un certo punto, mi sono accorta che il testo era appesantito da troppi termini scientifici. Ho lasciato da parte i manuali e mi è bastato rileggere Samuel Beckett».
In epigrafe c’è una citazione de L’innominabile.
«La sua meravigliosa prosa riesce a restituire in modo coerente il delirio interiore. Un soliloquio logico in mezzo al nulla. Non posso certo paragonarmi a Beckett ma L’innominabile e altri testi mi hanno ispirato maggiore libertà per l’ultima versione del romanzo. Ho capito che era inutile tentare di spiegare. Bisognava solo seguire Viviane nel suo assurdo girovagare, rendendola anche simpatica e talvolta grottesca».
Perché i movimenti di Viviane dentro Parigi sono così dettagliati?
«Ogni spostamento è stato calcolato con precisione. Avevo bisogno che le descrizioni di strade, fermate delmétro, corrispondessero esattamente alla realtà. Una forma maniacale, probabilmente dovuta al fatto che sono una scrittrice debuttante. Alla fine, ho scoperto che era anche un modo di ancorare la follia degenerativa del personaggio in una dimensione di spazio e tempo, come un’argine fisico contro l’insanità mentale».
E perché trasformare continuamente la voce narrante?
“Anche se non giudico mai Viviane, mi è sembrato un espediente per mettere una certa distanza tra noi due. Durante la scrittura, mi sono resa conto che questo sdoppiamento non poteva reggere per tutto il romanzo. Tra l’altro, esiste già un celebre romanzo con il Voi narrante: è La Modificazione di Michel Butor. Così ho cambiato più volte il pronome personale durante la stesura. Ero convinta che alla fine avrei uniformato tutto, facendo una scelta chiara. E invece mi sono accorta che questo racconto a più voci rappresenta esattamente l’inafferrabilità del personaggio».
Aveva già in mente il titolo mentre scriveva?
«Pensavo a Mobile, con un gioco di parole su mobilità e movente. Ho scoperto poi che era un titolo già usato da Michel Butor, tra gli autori della mia casa editrice, Les Editions de Minuit. Il nome della protagonista invece, Viviane Élisabeth Fauville, è arrivato subito, sin dalle prime righe. Volevo un nome composto, borghese, desueto. Potrebbe essere un personaggio di Maupassant ».

Repubblica 8.2.14
I dati Ads (dicembre) confermano il successo del quotidiano
Repubblica prima in edicola è in crescita l’edizione tablet


Anche nell’ultimo mese del 2013, La Repubblicasi conferma nel ruolo di quotidiano più venduto nelle edicole italiane.
Secondo l’indagine mensile curata da Ads e relativa al dicembre scorso, il giornale diretto da Ezio Mauro ha toccato la quota di 280 mila e 482 copie vendute in media, contro le 265 mila e 100 registrate dal Corriere della Sera, le 174 mila 127 de La Stampa, le 120 mila 046 de Il Messaggero e le 115 mila 859 vendute nelle edicole da Il Sole 24 Ore.
Nel dato cumulato, il quotidiano riesce a superare in edicola il livello delle 360mila copie quando è in abbinamento con Il Venerdì e la quota delle 423 mila copie se si considerano le vendite digitali (che hanno raggiunto quota 62 mila). Buona anche la performance del settimanale D La Repubblica delle Donne che permette al quotidiano di “volare” oltre l’asticella delle 331 mila copie.
Infine, sempre secondo i dati resi noti da Ads e relativi al dicembre dello scorso anno, il settimanale l’Espresso raggiunge una diffusione media – tra carta e digitale - di oltre 221 mila copie.

il Sole 8.2.14
I dati Ads su diffusioni e vendite
Sole 24 Ore, continua la corsa Primo quotidiano digitale
Con 149mila copie su tablet e pc, in crescita del 29,1%
di Andrea Biondi


Con i dati resi disponibili ieri da Ads si conclude il primo anno di rilevazione delle diffusioni, comprensive anche delle copie digitali.
Un anno in cui, a guardare i numeri, ben pochi dubbi possono esserci sul fatto che le copie diffuse attraverso pc, smartphone, tablet hanno portato acqua al mulino di una editoria comunque malandata, su cui negli ultimi mesi hanno picchiato fortissimo la crisi economica, la concorrenza dei giganti del web e gli investimenti pubblicitari crollati solo nell'ultimo anno (dati Fcp) del 19,4% per i quotidiani (in valore assoluto sono stati "bruciati" quasi 200 milioni di euro).
In tale contesto, l'offerta digitale sembra sempre di più connotarsi come una forma di contrasto al declino, pur senza presentare una massa critica per riportare in nero l'ultima riga dei conti economici. È una questione di numeri, ma anche di regole. Di numeri perché le copie digitali nel loro complesso (445mila a dicembre) valgono in quantità ancora solo il 12% degli oltre 3,76 milioni di "totale vendita pagata": le copie cartacee vendute (abbonamenti compresi). Ma è anche una questione di regole perché gli editori hanno stabilito che per essere certificate le copie digitali possono essere vendute con un prezzo non inferiore al 30% di quello medio di copertina, se si tratta di copie digitali singole o multiple (quelle vendute ai grandi clienti) o del 50% se vendute in abbinata carta-digitale.
Detto questo, i numeri complessivi restituiscono anche spiragli di positività. Il Corriere della Sera, per esempio – che anche a dicembre si conferma il primo quotidiano in Italia per vendite e diffusione – nell'ultimo mese dell'anno ha messo agli atti 415.700 copie, fra cartacee e digitali, vendute in media giornalmente (abbonamenti compresi); a ottobre 2012 (un mese a caso fra quelli in cui ancora non erano rilevate le copie «2.0») ha chiuso a quota 371.468. La Repubblica - secondo quotidiano italiano per diffusione e vendite, ma che continua a essere il più venduto in edicola (280.482 copie) – ha anch'essa migliorato, seppur di poco, il totale vendita cartacea più digitale dalle 351.031 copie di media a ottobre 2012 alle 357.511 di dicembre 2013. Il Sole 24 Ore a sua volta nello stesso periodo è passato da 255.055 copie a 292.316.
Insomma, dal punto di vista numerico un'operazione riuscita e che, nel corso del 2013, è stata portata avanti con differenti velocità dai player del mercato editoriale italiano. Il quotidiano del Gruppo 24 Ore ha chiuso dicembre 2013 con 149mila copie «2.0» di media, con un aumento del 29,1%, confermandosi il primo quotidiano digitale italiano e il terzo nazionale per diffusione (a quota 343.562). Il divario con i primi due quotidiani nazionali si è così ancora maggiormente assottigliato, con Il Sole 24 Ore a 42mila copie di distanza da La Repubblica.
Guardando ai numeri del terzetto di testa, il quotidiano di via Solferino ha chiuso con 99.145 copie digitali (+3,9% rispetto a novembre 2013) mentre quello diretto da Ezio Mauro con 61.590 (+4,9%).
La distanza fra battistrada e inseguitori su questo fronte è enorme visto che in quarta posizione la Gazzetta dello Sport non va oltre le 21.111 copie (+0,3%) e in quinta posizione bisogna scendere fino alle 13.145 copie del Fatto Quotidiano (-3,5%) su cui ha pesato anche il -6,2 di vendite e abbonamenti cartacei, scesi a 47.253 (la totale vendita cartacea-digitale è scesa a 60.937: -5,7%). A dicembre il quotidiano diretto da Antonio Padellaro ha tuttavia riconquistato il quinto posto nella classifica dei quotidiani più digital a scapito di Italia Oggi, le cui copie digitali sono scese a quota 11.022 dalle 18.157 di novembre (-39,3%), pesando non poco sul -6,5% delle vendite complessive (62.746).
Guardando infine alle diffusioni complessive Il Sole 24 Ore con 343.562 copie presenta una crescita del +8,9% su novembre a fronte del -1,4% del Corriere della Sera; +0,7% di Repubblica; +1% della Gazzetta dello Sport; -0,1% della Stampa e -0,3% del Messaggero. Andando nelle ultime posizioni della "top ten" Avvenire (+6% su diffusione e vendite) ha scalzato Il Giornale dal nono posto (+1%).