sabato 24 marzo 2018

Corriere 24.3.18
«Rivoglio la vecchia Rai Radio 5 e la sua musica»
di Giulia Konig


Torno in Italia dopo un lungo soggiorno all’estero. Accendo la radio, mi sintonizzo sul mitico 100.3 della modulazione di frequenza, e scopro che Rai Radio 5, «figlia» della vecchia filodiffusione, non c’è più, sostituita da «Rai Radio Classica». Come la precedente, anche questo canale trasmette ininterrottamente, notte e giorno, musica sinfonica e operistica, da camera, solistica, religiosa. Ma con una differenza sostanziale. L’una aveva una sua logica interna in cui si coglieva la mano, la sensibilità e il gusto di un musicologo (non so chi fosse): scelte omogenee, composizioni integrali, attenta scelta delle incisioni e degli interpreti. La nuova è invece all’insegna di un fastidioso potpourri per blocchi di un’ora o due, e poi si ricomincia daccapo: mischiando tutto. Un esempio a caso: nella stessa ora si comincia con un paio di madrigali del ’500, segue una cabaletta di Verdi dalla Traviata, quindi una romanza di Beethoven, subito dopo brani di Stravinskij, sinfonie di uno dei tanti figli di J.S. Bach e altri coriandoli: a casaccio o per una studiata confusione? Il guaio è che si continua così per ventiquattr’ore filate, senza capo né coda. Non ci siamo. Chi ha deciso lo stravolgimento di Rai Radio 5? E perché? All’insegna di quale scelta «culturale»?
Repubblica 24.3.18
Paolo Rossi
“Torno in scena e improvviso come Best”
Intervista di Anna Bandettini


MILANO Ho smesso di bere due anni fa. Stavo in un bar, ho ordinato un gin tonic e ho sentito come una mano sulla spalla che mi teneva il braccio. Magari era solo una periartrite, io però ho guardato il bicchiere, l’ho spostato verso il barista. E da allora non ho più toccato alcol». Lo strano destino che ha fatto di un grande talento comico, un uomo caduto, sperso e ora di nuovo un artista maturo e consapevole, Paolo Rossi lo racconta sereno e senza schermi. Nel cortile del Piccolo Teatro ha l’aria disordinata di sempre, i capelli grigi arruffati, coppoletta nera, barba lunga, cappotto nero con le tasche rigonfie, in mano un sacchetto di libri. Eppure è trasformato: non più la vita un po’ delirante e frastornata. Ma un tempo più reale, tranquillo, vicino ai 3 figli, al padre novantenne che non sta bene. Il nuovo Paolo Rossi è quello di Sanremo che ha duettato con ironia con Lo Stato Sociale, che a gennaio alla Scala ha fatto morir dal ridere i melomani con un comizio politico nel ruolo del carceriere Frosch nel Pipistrello di Strauss. Ma anche il Paolo Rossi che è tornato nei locali, nei teatrini, senza scene e costumi, con il solo lusso del chitarrista Emanuele Dell’Acqua, senza un copione, solo con la memoria di gag, battute, lazzi in un recital davvero divertente, L’Improvvisatore 2. Da tempo la comicità per lui è soprattutto dialogo diretto col pubblico. E poi sogna di fare un’altra regia lirica: «Mi piacerebbe fare un Barbiere di Siviglia in un’osteria. Analcolica ovvio».
Allora è stata la periartrite a farla chiudere con la vita di prima?
«Credo proprio di no. A volte la vita è fatta di montagne russe. Se indago sulle cause di quello che ero, mi dico che era per i ritmi di lavoro, ma quelli ci sono anche adesso. Forse dovevo mettere in discussione qualcosa, esplorando i lati oscuri.
Ma credo nelle ritornanze e ora per me è una nuova fase. La lucidità è un grande regalo specie in una persona con la mia creatività. Scopri cose paradossali. Per esempio non ci s’immagina quante persone si perdono con la lucidità».
Ma come? Le relazioni dovrebbero migliorare.
«No, le perdi, a partire dal bar dove non ti parlano più, perché non stai più lì a sparare cazzate per due ore.
E poi tante persone con cui hai rapporti di lavoro: quando bevi sei più vulnerabile, sei più controllabile. Se sei lucido, per loro sei strano. È per via del money, i soldi».
Lei ne ha sperperati tanti?
«George Best diceva: io nella vita ho speso molto in alcol, donne e macchine. Il resto l’ho sperperato».
Come mai cita il calciatore di Belfast?
«Sarà nel sottotitolo del mio nuovo spettacolo: “da Moliere a George Best”. Perché? Perché Best è stato quello che ha inventato l’improvvisazione nel calcio. E perché era il soprannome che mi avevano affibbiato quando giocavo in una squadra satellite della Spal da ragazzino. Ero bravo? No, ma lo imitavo: capelli lunghi, calzettoni arrotolati, aria guascona».
Nello spettacolo si parlerà di Best?
«Lavorerò sull’improvvisazione. Mi interessa l’attore che non pensa o semmai lo fa col corpo, non con la testa. Questo facilita il dialogo col pubblico. Come comico o sei uno che rifà le battute del passato, o rincorri la cronaca, o cerchi di immaginare il futuro. Io debuttai con L’opera da tre soldi nel giorno in cui scoppiò Tangentopoli, ho scritto
L’ invincibile armata sul presidente di una squadra di calcio che vuole diventare politico prima che Berlusconi comprasse il Milan… qualche dote per il futuro ce l’ho. Il nuovo spettacolo sarà proiettato in avanti, poco fantasy e molto legato al reale. Debutteremo a giugno al Teatro Menotti di Milano».
Le piace la nuova satira, molto legata al web?
«Nel ’95 dopo Su la testa e Il Laureato ho detto questa satira è finita: mi riferivo alla parodia sui politici. Perché i politici, ma non solo loro, oggi recitano meglio degli attori. È la società dello spettacolo non nel senso di Guy Debord ma della profezia di Andy Warhol: tutti si esibiscono. L’attore allora deve trovare altre vie».
Le imitazioni?
«Non giudico i colleghi, ma un politico che non ha un imitatore, oggi non vale niente. All’inizio si arrabbiano, poi ti fanno i complimenti. Finisce che ti chiedono i consigli».
Una battuta su Di Maio o Salvini la farebbe?
«Dovrei essere molto stanco».
E di Grillo e il suo movimento che dice?
«Non mi piacciono i partiti, preferisco i movimenti. Ma i 5 Stelle no, non stimo chi entra in Parlamento. Sono anarchico e posso permettermelo perché non lavoro all’Ilva. Sono l’unico caso in cui, candidato per un equivoco, non sono andato a votarmi, perché mi sono guardato allo specchio e non mi fidavo di me stesso».
Il Fatto 24.3.18
Pistola elettrica, via alla sperimentazione. “Può uccidere”


“Bisogna fare molta attenzione, la possibilità che armi non letali producano effetti fatali è reale”. Così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commentando il via libera alla sperimentazione in Italia della pistola taser, che spara scariche elettriche in grado di immobilizzare fino a 7 metri di distanza, ora in dotazione a poliziotti e carabinieri. Si parte da Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia per testare l’arma, secondo le indicazioni contenute in una circolare della direzione anticrimine del 20 marzo scorso. Amnesty, da parte sua, monitora l’introduzione in Italia di queste armi capaci di evitare il “corpo a corpo” in caso di aggressione, raccomandando “la massima attenzione e preparazione da parte di chi la impugnerà”. Il rischio “di un cattivo uso con conseguenze letali”, è secondo Noury da tenere in alta considerazione. “Abbiamo studiato per anni l’uso della pistola taser negli Stati Uniti e in Canada e i morti sono stati centinaia – spiega il portavoce di Amnesty Italia –. Occorrono dunque formazione e regole precise, anche se poi rimarrà sempre il rischio di fare vittime”.
Corriere 24.3.17
L’appuntamento A Firenze una mostra racconta il fermento creativo del secondo ‘900. E si intitola «Nascita di una Nazione» perché è da lì che prese le mosse l’Italia moderna. Con linguaggi diversi, dalla pittura alle installazioni. Ma certe tensioni sono vive ancora oggi
la rivoluzione ha le ali fragili
bandiere rosse e pugni chiusi: così si consumò
il sogno di una generazione dal cuore diviso
di Marco Gasperetti


La prima sensazione è quella di un intrigante spaesamento. La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1955), il grande olio su tela di Renato Guttuso nel quale il Risorgimento s’ibrida con la Resistenza, trionfa dall’alto nella sua ortodossia, mentre proiezioni video in bianco e nero di quegli anni avvolgono il visitatore ai lati della stanza.
Ma basta abbassare lo sguardo per spezzare l’apparente quiete di un’improbabile armonia. Ecco le bandiere rosse, spiegate come vele, di Giulio Turcato, ( Il comizio , 1950) che ci spingono verso un antirealismo astrattista. E, soprattutto, ecco L’ultimo re dei re (1961), il décollage di Mimmo Rotella con il volto «strappato» di Mussolini e una scritta sui cinesi che si proietta nel futuro.
È l’inizio di un cammino che ci porterà indietro nel tempo, alla scoperta di quell’Italia del secondo dopoguerra che, non solo distrutta ma anche decostruita dalla guerra, inizia a ritrovare le sue identità e diventa nazione. Vent’anni di straordinario fermento culturale e artistico, tra gli anni ‘50, il ‘68 e l’inizio dei cupi presagi dell’epoca del terrorismo. Luca Massimo Barbero, il curatore di «Nascita di una Nazione, tra Guttuso, Fontana e Schifano», (Palazzo Strozzi sino al 22 luglio) ce li racconta attraverso 80 opere e una narrazione non sequenziale ma simile a un grande ipertesto.
Ogni sala, sono otto in tutto, non è solo una rappresentazione di stili che appaiono spesso opposti e di esperienze «altre» (Arte Informale, Arte Povera, Pop Art, Arte Concettuale), ma un salto di paradigma che prima scuote l’animo del visitatore e poi riesce a plasmarlo nelle fantasie dei nuovi mondi. Ed è anche un riassunto: ogni ambiente potrebbe essere una mostra.
Così, dopo la prima sala (Il Dopoguerra come nuovo Risorgimento) ecco Scontro di Situazioni, un balzo verso l’informalità. C’è l’opera di Emilio Vedova (che dà il titolo alla sala), tempera, carboncino e sabbia su tela.
C’è Alberto Burri ( Sacco e bianco 1953) con la juta, l’intonaco, la corda. E ancora ci sono i rifiuti meccanici di Ettore Colla, lo spazialismo di Lucio Fontana, la terracotta di Leoncillo.
Si prosegue nella terza sala Monocromo come libertà con le opere plasmate dalle «nuove materie anarchiche», come bende, plastica, cibo e quella Merda d’artista di Piero Manzoni che molto fece discutere ma molto insegnò alla sperimentazione di quei tempi, siamo nel 1961, e alla ricerca di un’arte rappresentata da oggetti concettuali, come i palloncini gonfiati d’aria.
Nella quarta ambientazione sono i nuovi simboli della «metafisica quotidiana» a svelarsi. Come la famosa Coda del cetaceo (1966) di Pino Pascali o Senza titolo (1961) di Kounellis.
Quasi contrapposti, come in un grande gioco emozionale, al concettuale Pistoletto ( Quadro da pranzo 1965) e soprattutto al sorprendente iperrealismo dalla prospettiva distorta di Domenico Gnoli, che racconta dettagli di abbigliamento improbabile eppure probabilissimo.
Eppure non immaginatevi una mostra cerebrale e cervellotica. Nascita di una Nazione ha anche una natura ludica. Perché l’impegno politico, che a volte sembra essere così permeante e indissolubile, si unisce alla sostenibile leggerezza del boom economico.
Piper e sezione del Pci, cortei a pugni alzati. Goliardica concezione di una vita accelerata e rallentata. Perché, come sottolinea Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi «la mostra non solo ricorda il fermento culturale e sociale legato al ’68 ma celebra lo straordinario momento creativo del secondo dopoguerra italiano».
L’avvertenza del curatore, Luca Massimo Barbero, è quella di non considerare la rassegna di Palazzo Strozzi come un libro. «Le sale riassumono le tensioni sociali, politiche, culturali e sociali di quei tempi — dice il curatore —, riuniscono assonanze e contrasti. Fotografano un dialogo ancora oggi vitale».
Come accade nelle quattro sale che seguono e concludono la mostra. Nelle quali figure e gesti, cronaca e politica, geografie possibili e l’immaginazione al potere ci accompagnano sino agli albori degli anni di Piombo.
Repubblica 24.317
Dietro le quinte
Monaco 1938. Salvate il soldato Chamberlain
È venuta l’ora di mostrarsi più solidali con lui, rivedendo la narrazione churchilliana
Lo scrittore ricostruisce le fasi che portarono all’accordo sul destino della Cecoslovacchia. E assolve l’allora premier inglese accusato (ora anche in libri e film) di essersi piegato alle volontà di Hitler
di Robert Harris


All’interno del Führerbau, come veniva chiamato il monumentale edificio in pietra bianca nel centro di Monaco, due scalinate gemelle in marmo rosso salgono alla galleria del primo piano. Un pesante portone conduce allo studio del Führer. In fondo alla stanza, ampia e cupa, con le pareti in boiserie, c’è ancora il camino in mattoni davanti al quale il 29 settembre 1938 Hitler e Mussolini discussero con Neville Chamberlain e il primo ministro francese Edouard Daladier, del destino della Cecoslovacchia.
A due chilometri di distanza l’appartamento di Hitler, al secondo piano di un palazzo elegante, mantiene i pavimenti in parquet, le porte, gli infissi e le scaffalature originali del 1930. Il Führerbau oggi è una scuola di musica. Di rado in un luogo ho avvertito la presenza di tanti fantasmi, era come se i protagonisti della drammatica conferenza di Monaco fossero appena usciti dalle stanze.
Lo storico John Lukacs ha intitolato Il Duello il suo eccellente saggio su Churchill e Hitler nell’estate del 1940, ma i due in realtà non si incontrarono mai. Il vero duello fu tra Hitler e Chamberlain, che si incontrarono in tre occasioni e che si detestavano cordialmente. Lo storico Joachim Fest osservava nel suo diario: «Albert Speer ci raccontò che, dopo la conferenza di Monaco del 1938, Hitler fu di cattivo umore per parecchi giorni e, contro ogni sua abitudine, dava sfogo gratuito alla rabbia.
Ovviamente nessuno osava chiedergliene il motivo e lui da parte sua taceva… Pian piano emerse che Hitler aveva l’impressione che l’atteggiamento conciliante delle altre potenze lo avesse depredato di una reale vittoria. Quindici giorni dopo, in un consesso ristretto, disse che era stato ingannato e non solo dalla codardia dei britannici e dei francesi. I tedeschi tergiversando si erano fatti infinocchiare. “I nostri cari tedeschi!” aggiunse amareggiato. “E proprio da quel Chamberlain!”».
È difficile ancora oggi negare il mito consolidato e convincere il pubblico che Hitler considerava l’accordo di Monaco un raggiro, addirittura uno smacco. Ma la realtà è evidente. Sorprende che tuttora non venga riconosciuta a Chamberlain la parte avuta nella vittoria britannica. Lungi dal corrispondere alla caricatura popolare che lo voleva debole, l’uomo con l’ombrello, il primo ministro britannico era a suo modo presuntuoso, cocciuto, dispotico, misterioso e messianico quanto Hitler.
Avvertito nel 1938 dai vertici dei servizi segreti che una seconda guerra mondiale avrebbe segnato la fine dell’Impero Britannico, e consapevole che, se la Germania avesse invaso la Cecoslovacchia, le opportunità di evitare il conflitto si sarebbero ridotte in modo drastico, scelse la strategia del faccia a faccia con Hitler.
Chamberlain si recò in volo a incontrare Hitler per la prima volta il 15 settembre. A Hitler chiese di esporgli le sue rivendicazioni nei confronti dei cechi e il Führer ne diede approfondita notifica, ricevendo da Chamberlain la promessa di tenerne conto e di fare il possibile. Nelle successive due settimane, Hitler – che puntava alla guerra, non al negoziato – cercò di liberarsi dall’amo cui aveva abboccato. Alzò la posta imponendo una scadenza irrealistica. Di fronte a un’assemblea di 15.000 fedelissimi, il 26 settembre a Berlino si scagliò farneticando contro il perfido governo di Praga. Ma il divario tra le rivendicazioni avanzate da Hitler nei confronti dei cechi e le concessioni che questi si dichiararono disposti a fare su pressione di Chamberlain era minimo, al punto che persino i falchi come Goebbels ammisero che l’invasione non poteva essere giustificata. A malincuore il Führer rinviò la mobilitazione e acconsentì al negoziato. Per dirla con Gerhard L. Weinberg, esimio studioso di quel periodo, «Hitler si ritrovò in trappola, costretto ad accontentarsi di ciò che aveva rivendicato, invece di ottenere quello che realmente voleva».
Chamberlain giunse a Monaco il 29 settembre, accolto come un eroe, in piena Oktoberfest.
Davanti all’hotel del primo ministro britannico si erano radunate decine di persone, trattenute da un cordone di camicie brune. Una banda di ottoni bavarese intonava un motivo popolare britannico The Lambeth Walk. Il New York Times riferì di «vere e proprie ovazioni da stadio ogni qualvolta Chamberlain, magro e vestito di nero, usciva sorridente dall’albergo a passi cauti».
Il fatto che Chamberlain ricevesse più applausi di Hitler – proprio a Monaco – non fece che peggiorare l’umore del Führer. A testimonianza del suo sdegno Hitler autorizzò una sola foto ufficiale, in cui appare imbronciato e a disagio.
La mattina successiva, prima di partire per Londra, Chamberlain si recò, non invitato, all’appartamento di Hitler e, inaspettatamente, produsse una dichiarazione congiunta che aveva redatto la mattina stessa.
Non aveva consultato nessuno.
Stando allo storico Max Domarus, il testo della dichiarazione si basava in gran parte sul discorso tenuto da Hitler al comizio di Berlino qualche giorno prima, in cui il Führer aveva esortato «entrambe le nazioni [a] scambiarsi solenne promessa di non dichiararsi mai più guerra».
Hitler firmò il documento di Chamberlain.
Davvero Chamberlain si fidava della parola di Hitler? Quella mattina il primo ministro britannico disse al suo assistente, nonché futuro premier, Alec Douglas-Home, che la sua prima intenzione era di mettere in trappola Hitler. «Se firma e rispetta l’impegno andrà tutto bene, ma se lo infrange gli americani capiranno di che pasta è fatto. Darò la massima pubblicità alla dichiarazione».
Appena atterrato all’aerodromo di Heston, Chamberlain avrebbe dato pubblica lettura del documento. E se si fosse limitato a questo, la sua reputazione in seguito forse avrebbe sofferto di meno. Invece, rientrato al numero 10, si affacciò da una finestra del primo piano e ripeté le parole pronunciate da Disraeli dopo il Congresso di Berlino: «Cari amici, è la seconda volta nella storia che dalla Germania a Downing Street torna la pace con onore. Sono convinto che sia pace per il nostro tempo».
Fu un grave errore. Home riferisce che Chamberlain se ne rese conto.
La settimana dopo alla camera dei Comuni si scusò per le parole usate «sull’onda dell’emozione».
Ma era troppo tardi. La frase «pace per il nostro tempo» da allora ha bollato la sua reputazione.
Chamberlain morì di cancro due anni dopo, prostrato dalle critiche alla sua integrità, ma fiducioso che la storia lo avrebbe vendicato.
Così non è stato. Sembra anzi sempre più consolidata, grazie a libri e film, la narrazione churchilliana della guerra che sarebbe stato possibile evitare e della nazione salvatasi solo per forza di volontà nell’estate del ’40.
Ma non è forse l’ora di mostrarsi più solidali con Chamberlain? A vent’anni dalla Grande Guerra, in cui persero la vita 750.000 britannici, era convinto che «i cittadini del nostro paese avrebbero perso comunque la loro fede spirituale» se non avessero visto i loro leader impegnarsi per evitare un nuovo conflitto. Se all’aeroporto di Heston Chamberlain avesse dichiarato che non si fidava di Hitler e che l’accordo di Monaco era stato siglato solo per l’incresciosa necessità di guadagnare tempo, perché la Gran Bretagna non era adeguatamente equipaggiata per la guerra, avrebbe minato qualunque speranza di pace.
Ma era la verità. Come ebbe a osservare Chamberlain, non si può giocare a poker con un criminale senza avere carte in mano. Per citare l’esempio più eclatante: nel settembre 1938 la Raf disponeva di 26 squadroni di aerei da combattimento, dei quali solo 6 dotati di moderni monoplani. L’anno successivo all’accordo di Monaco metà degli introiti del governo vennero destinati agli armamenti e, nel 1940, la Raf disponeva di una flotta di dieci volte superiore. Ma non basta. Nella cruciale battaglia del maggio 1940 in seno al Gabinetto, in cui il ministro degli esteri, Lord Halifax, era propenso ad aderire alle condizioni di pace proposte dai tedeschi, il sostegno di Chamberlain alla politica di Churchill, favorevole invece alla guerra, giocò un ruolo decisivo. A Chamberlain va reso merito più di quanto ne abbia mai ricevuto per aver contribuito alla nostra «ora più bella».
 © Robert Harris. Traduzione di Emilia Benghi
il manifesto 24.3.18
Pechino risponde ai dazi Usa colpendo la «base» di Trump
La guerra dei dazi. Sanzioni per 128 prodotti. Colpita l’agricoltura americana, cuore elettorale di «The Donald». Rischia grosso anche Apple
di Simone Pieranni


Da buona prima partner commerciale degli Stati uniti, la Cina non poteva certo rimanere immobile di fronte ai dazi decisi da Trump contro molte merci cinesi.
COSÌ, NELLA MATTINATA DI IERI, Pechino ha fatto sapere di avere già deciso una prima contro-mossa, andando a colpire 128 prodotti statunitensi con diversi tipi di sanzioni.
Si tratta di una prima risposta: forse Pechino aspetterà di tornare a discutere con Trump – di cui ha sofferto una decisione «unilaterale» – prima di optare per altre decisioni; la Cina infatti ha parecchie frecce al suo arco, a cominciare dal debito americano, per proseguire con la possibilità di rendere molto difficile il mercato cinese ad aziende statunitensi (pensiamo alla Apple).
NEL PRIMO MAZZO di prodotti americani sanzionati sono finiti per lo più merci derivanti dall’agricoltura. In un colpo solo la Cina fornisce una sberla di circa tre miliardi di dollari agli Usa e va a provocare le corde di quel mondo agricolo che ha contribuito non poco – insieme alle zone più industriali a rischio dismissione – all’elezioni alla presidenza di Donald Trump.
QUELL’AMERICA rimasta colpita dalla globalizzazione, così desiderosa di eleggere un presidente protezionista, sperimenterà questa guerra commerciale avviata dal «loro» presidente.
Anzi, viene colpito proprio un settore che, solo un anno fa, era stato esaltato da Trump come motore di una nuova relazione con la Cina, ovvero la produzione americana di carne. Cina e Usa avevano infatti stretto un accordo, proprio per diminuire il disavanzo commerciale Usa, per esportare in Cina la carne. E
ORA PECHINO ha imposto di tasse al 25% su otto prodotti, tra cui proprio l’importazione di carne di maiale. Ugualmente ha fatto sull’ alluminio riciclato. Colpiti con diversa sanzione, al 15%, altri cento prodotti tra cui frutta, il vino e i tubi di acciaio. Insomma siamo solo all’inizio delle danze, perché è ipotizzabile che a breve Pechio potrà irrigidire i controlli sdi sicurezza alimentare e sanitari su altri prodotti e procedere poi a sanzionarne altri.
Si è parlato dei Boeing, che da tempo la Cina pare voler sostituire e altre merci. In generale la Cina sembra voler rispondere colpo su colpo nonostante i tentativi di apertura provati fino a pochi minuti precedenti alla decisione di Donald Trump.
NON SOLO DAZI, però, perché le parole utilizzate ieri dal presidente americano a proposito del disavanzo commerciale con la Cina non hanno convinto tutti. Citando i dati forniti da economisti cinesi, il ministro del Commercio cinese, Zhong Shan ha sostenuto che il disavanzo commerciale annuo degli Stati uniti nei confronti della Cina sarebbe inferiore del 20 per cento a quanto affermato da Washington.
Lo scorso anno gli Usa hanno riportato un deficit commerciale di 375 miliardi nei confronti della Cina: una riduzione del 20 per cento farebbe comunque di quello con la Cina il deficit commerciale più vasto dell’economia Usa. Il ministro del Commercio cinese ha poi specificato che parte dello squilibrio commerciale agli ostacoli imposti da Washington alle esportazioni di prodotti tecnologici come supercomputer e materiali avanzati verso la Cina. Il governo Usa, invece, afferma da sempre, nell’era Trump, che quelle esportazioni ridurrebbero lo squilibrio commerciale di pochi punti commerciali, al costo però di possibili minacce alla sicurezza nazionale statunitense. Scatenato sul tema il quotidiano ultra nazionalista cinese, Global Times. Anche sulle sanzioni la sua posizione è irriducibile: «Washington dovrebbe abbandonare l’idea che la Cina si ritirerà in questa guerra commerciale, perché non troverà bandiere bianche a marcare la resa della Cina».
Repubblica 24.3.18
Il nuovo Consigliere per la Sicurezza nazionale
Bolton, il falco dell’America
di Vittorio Zucconi


Trump ha scelto un piromane per fare la guardia alla raffineria nucleare americana. John Bolton, il settantenne incendiario della destra più bellicosa, che vede nella guerra la soluzione di tutti i problemi e sogna di bombardare subito la Corea del Nord e l’Iran, è il nuovo Consigliere per la Sicurezza nazionale chiamato dal presidente a essere colui che affianca, consiglia e guida il Comandante supremo nelle decisioni di vita o di morte più delicate. È seduto al posto che nel film di Kubrick occupa il dottor Stranamore.
«La nomina di Bolton non deve preoccupare, deve terrorizzare» ha commentato il senatore democratico del Connecticut Chris Murphy e dietro l’iperbole politica di un oppositore di Trump c’è il curriculum di un fanatico che in tutta la sua vita e la sua lunga carriera nel governo e nelle fondazioni private ha sempre predicato l’uso della forza, senza curarsi delle conseguenze. Ieri, mentre si spargeva la voce che Bolton avesse “rinunciato” al proposito più volte ripetuto di attaccare la Corea del Nord e di raccomandare altre operazioni militari, lui stesso ha immediatamente smentito: «Non ho mai detto al presidente che non intendo suggerire di fare guerre». La guerra è l’orizzonte culturale e ideologico del “tricheco” come è stato soprannominato per i suoi baffoni, un tricheco mannaro.
Fanatico oltre i confini della realtà, ancora oggi accanito difensore della catastrofica invasione dell’Iraq alla caccia di inesistenti armi di distruzione di massa che pure Trump aveva condannato in altre epoche, cieco di fronte all’evidenza di fatti che contraddicano le sue opinioni — sostiene ancora oggi che quegli arsenali esistevano — il pilastro delle sue convinzioni è che gli Stati Uniti abbiano il diritto di intervenire militarmente dove e quando vogliono, incuranti delle conseguenze. Come tutti i “falchi” in abiti civili, che non hanno mai visto altre guerre che in televisione e dunque non ne conoscono i rischi e i costi umani, anche questo signore dall’aria ingannevolmente mite e paterna, gioca dal caldo del proprio ufficio un risiko nel quale loro non rischiano niente.
Prodotto del gruppo di nazionalisti ultraconservatori, i neocon che nella prima decade del Duemila infestarono e dominarono la politica estera di George W. Bush fino all’avventura irachena, Bolton sarà la persona che più di ogni altra frequenterà lo Studio ovale, il primo che lui incontra al mattino e l’ultimo che lascia alla sera. Trump lo ha scelto, al posto del severo generale Mc-Master, ultimo caduto di una Casa Bianca dove funzionari e assistenti volano ogni giorno come le poetiche foglie sugli alberi d’autunno, perché gli è simpatico, gli piace sul piano personale, perché ne ammirava le tirate polemiche soprattutto anti Obama — l’ossessione del presidente — dagli schermi della Fox News, l’universo asfissiante e fazioso nel quale il presidente respira quotidiane boccate di aria tossica per auto gratificarsi.
Dunque colui che vedrà Trump molto più della sempre più algida e lontana First Lady, colui che sussurrerà all’orecchio di un immaturo settantenne che subisce scarti d’umore da adolescente in preda a tempesta ormonale, è un teorico della guerra continua, dello sparare prima e poi vedere. Dagli studi della Fox, dalle pagine dei quotidiani ai quali manda i suoi esplosivi editoriali, ha invocato « cambio di regime » in Iran, la formula classica dei neocon che tanti effetti sciagurati ha prodotto nel mondo arabo, e annullamento del trattato per il controllo del riarmo atomico. Ha disegnato una tripartizione del problema palestinese risolto affidando la Striscia di Gaza all’Egitto, quello che resta dei Territori alla Giordania e cancellando ogni ipotesi di Stato sovrano per i palestinesi. Chiede da mesi un massiccio bombardamento della Corea del Nord, ignorando le stime del governo di Seul e del Pentagono che calcolano in 20 mila i morti soltanto nel primo giorno, in Corea del Sud per le rappresaglie del Nord. E questo mentre il suo nuovo boss — Trump — annuncia inaspettatamente l’incontro in maggio con Kim Jong- un, nel solito groviglio di contraddizioni che confonde questa amministrazione americana.
La nomina di un incendiario a guardia dell’arsenale nucleare, nella carica che Truman volle nel ’ 47 proprio per controllare senza consultazioni o approvazione del Parlamento, che non deve occuparsi della poltrona di Stranamore, le scelte di guerra o di pace, sta gettando nel panico anche la destra repubblicana più lucida, quella che si era illusa di essersi sbarazzata dell’ala allucinata del trumpismo con la cacciata di Steve Bannon, il deposto Rasputin della campagna elettorale. Bolton è un Bannon a mano armata, un guerriero che come tutti i guerrieri da scrivania evitò con cura di combattere, sfuggendo alla leva in Vietnam e che sogna una quotidiana sinfonia di bombe, missili, rovine, per affermare la potenza inarrestabile e incontrollabile dell’America, in un grande continuo incendio apocalittico. Lui figlio di un vigile del fuoco di Baltimora.
Repubblica 24.3.18
Bruxelles e Ankara
Se la Ue paga le armi della Turchia
di Marco Ansaldo


Sì all’erogazione alla Turchia della seconda tranche di fondi — altri 3 miliardi di euro — per contenere e aiutare i migranti che premono alla frontiera d’Europa. Ma con l’obbligo per Ankara, condannata per le «azioni illegali nel Mediterraneo e nel Mar Egeo», di «rispettare la legge internazionale e i rapporti di buon vicinato, normalizzare le relazioni con tutti gli Stati membri inclusa Cipro», invitandola a «una soluzione veloce e positiva delle questioni attraverso il dialogo». Insomma, un buffetto sulla guancia per Recep Tayyip Erdogan quello dato dal Consiglio europeo appena concluso a Bruxelles. Un gesto fatto di parole anche ferme, comunque respinte da Ankara che strilla di «critiche inaccettabili», ma recepito in realtà dai turchi come lieve rispetto all’entità della somma che sta per arrivare nelle loro casse.
Nessuno ha dubbi che da quando l’intesa è entrata in vigore nel 2016 il fenomeno migratorio sia stato, a ragione o no, fermato. E che per molto tempo la Turchia sia stata lasciata sola a gestire una massa di profughi, in maggior parte siriani, che di anno in anno si sono riversati sul suo territorio raggiungendo ora la ragguardevole cifra di 3,8 milioni.
In un Paese di nemmeno 80 milioni quei rifugiati significano addirittura il 5 per cento in più degli abitanti. Nessuno Stato ha mai sopportato un peso simile.
Le perplessità riguardano piuttosto la certezza sulla gestione di questo enorme flusso di danaro sborsato dai singoli Stati europei. L’Italia, ad esempio, è chiamata a versare 225 milioni di euro. L’inchiesta de L’Espresso, svolta con un pool investigativo internazionale, rivela che l’Unione europea ha già dato alla Turchia quasi 100 milioni di euro per comprare mezzi corazzati. Lo ha fatto nel pieno controllo delle frontiere, dotandosi dei fondi anti-profughi, ma Bruxelles non è in grado di sapere se questi mezzi — a prova di mina e dotati di apparati per stanare i cecchini — siano stati per caso usati nella presa di Afrin, l’enclave curda in Siria conquistata dall’esercito turco.
Uno di questi contratti risulta assegnato alla fabbrica bellica di un parlamentare del partito conservatore di origine religiosa fondato da Erdogan.
Proprio in questa area Ankara ha in mente due fasi. Da un lato, far tornare i profughi siriani, riportandoli nelle zone liberate militarmente, come in quella appena sgomberata di Afrin e nelle altre città in procinto di essere attaccate.
Dall’altro, proseguire la guerra contro i gruppi che considera terroristi (le unità curde) e jihadisti, rafforzando le milizie siriane ribelli sue alleate.
Una determinazione che la sta portando a stracciare l’altolà americano sull’intoccabilità dei combattenti curdi, ritenuti da Washington invece essenziali (vedi Kobane) nella lotta all’Isis.
Bene allora ha detto al vertice il premier greco Alexis Tsipras: «Dobbiamo essere molto diretti con la parte turca sui loro obblighi, specialmente sul rispetto della legge internazionale». La riunione di Bruxelles si sposta adesso lunedì a Varna, sul Mar Nero, nella Bulgaria presidente europea di turno, con il summit diretto fra Ue e Turchia e la definitiva luce verde all’erogazione della somma pattuita.
Erdogan annuncia la sua presenza e già batte cassa: «Non continuate a ritardare, dateci i soldi». Il mantra che risuona ad Ankara è pacta sunt servanda. Giusto.
Però occorre vincolare il Sultano non con semplici parole, ma con i fatti, costringendolo a impegni concreti e soprattutto verificabili. Arrivando magari a usare gli stessi codici comportamentali e un atteggiamento altrettanto duro. Pena il non rispetto, dalla controparte turca.
Repubblica 24.3.18
L’intervista. Dov’è finita la Sinistra
Arturo Lorenzoni, vicesindaco di Padova
“Che sia un marciapiede o un’idea dobbiamo ripartire dalla bellezza”
di Concita De Gregorio


Quando non è in giacca e cravatta, nella sua tenuta da prof, Arturo Lorenzoni sembra subito di nuovo l’apertura delle giovanili del Petrarca: polo e palla ovale sottobraccio, sorriso solidale, a chi bisogna dare sostegno oggi, dai ragazzi, c’è un compagno da mandare in meta. Solo più stempiato, certo: 50 anni. «Ho imparato tutto lì. Quello che non so dai libri l’ho imparato sul campo dei gesuiti, il Tre Pini. Che oggi non c’è più, ma io quando devo ragionare torno a sedermi qui, su questa panca».
In meta l’anno scorso è andato lui. Nuovo alla politica, ha preso il 22,8 per cento dei voti.
Lista: Coalizione civica. Oggi fa il vicesindaco di Sergio Giordani, Pd, che in campagna elettorale ha avuto un ictus e ha vinto (non solo, ma anche) grazie all’onda emotiva di sostegno popolare. A Padova.
Un ictus. In campagna elettorale. Non c’è stato chi non abbia pensato a Berlinguer.
Lorenzoni è di sinistra, ma non viene dal Pci. «Ho votato sempre a sinistra, sì, anche radicale qualche volta, ma sempre una sinistra cattolica».
È ingegnere, insegna Economia dell’energia all’Università di Padova. Due bisnonni in politica. Padre liberale.
Consulente di Confindustria, Enel, Cariplo. Per il rettore: delegato ai rapporti con la Cina. Per la Diocesi: nel comitato scientifico della Fondazione Lanza. La moglie Anna lavora in uno studio di commercialisti. Un uomo di sistema, votato in massa dai giovani dei centri sociali (a Padova c’è il Pedro, più antico del Leoncavallo. C’è radio Sherwood), dal mondo cattolico della finanza e del volontariato, dalla borghesia delle professioni.
È come se l’avessero votata, in una sola famiglia, il padre avvocato democristiano, la madre preside comunista, il figlio ribelle antagonista e lo zio prete.
«Effettivamente», ride.
Come ha fatto?
«Abbiamo allargato molto l’area del consenso concentrandoci su alcuni contenuti. Le priorità di programma erano: innovazione, inclusione sociale, sostenibilità ambientale e bellezza».
Bellezza, ha scritto nel suo programma politico?
«Certo. Aspirazione alla bellezza come cura del bene comune. Si è belli solo insieme. Dentro la bellezza che sta fuori. Tutta la storia d’Italia è costruita sulla bellezza. Se lasciamo quella priorità perdiamo la nostra identità. Da un marciapiede a un’idea urbanistica. Ma anche la bellezza di un edificio che non consuma energia, neutrale. La bellezza dà lavoro. Investire in bellezza impegna competenza, innovazione».
Mi racconta dei suoi bisnonni?
«Quello materno, Pasquale Colpi, veniva da una famiglia di Asiago, erano imprenditori del formaggio. È stato due volte sindaco di Padova, per la destra.
L’altro, quello paterno, amministrava terreni. Fu deputato nel primo parlamento dell’Italia Unita. Lorenzo Lorenzoni. Anche mio padre Luigi ha fatto politica negli anni Settanta, da liberale: era un gruppo di professionisti, avvocati e giornalisti da cui poi, negli anni ’90, è uscito Giancarlo Galan».
Un liberale negli anni Settanta a Padova… Se li ricorda quegli anni? Era molto giovane.
«Ero alle medie. Ricordo i miei fratelli più grandi che dicevano “andiamo a vedere la guerra in centro”, mia madre disperata metteva il divieto di uscire.
Gambizzavano i professori amici di famiglia. Io sono arrivato al liceo dopo il delitto Moro. Era già cambiato tutto. Ma la ferita di quegli anni in città è ancora aperta. Periodicamente qualcuno va a imbrattare le lapidi. Qui la contrapposizione fra destra e sinistra è ancora molto forte».
Eppure lei ha tenuto insieme una coalizione che va dai centri sociali a Forza Italia, ed è stato votato soprattutto da chi ha meno di quarant’anni. Ha assorbito anche i voti Cinquestelle.
«Forza Italia nella sua frangia liberale, quella che non poteva più convivere con la Lega.
Padova ha sofferto molto la guida leghista che lavorava sul conflitto. Si erano tanto inaspriti i rapporti. Da li è maturata l’idea che qualcuno di mondi ancora non coinvolti nella gestione politica di governo dovesse scendere per dare contributo».
È maturata in chi? Dove?
L’ex sindaco Zanonato e il Pd sostenevano Giordani.
«Amici diversi. Del rugby, dell’università. Ci si trovava la sera al pub Berlino, intorno a una botte. A Bologna era nata Coalizione civica. La giunta leghista qui intanto era stata sfiduciata. Il limite della sinistra tradizionale è sempre stata questa corsa all’esclusione: se ce lui in lista non ci sono io. Come succedeva da ragazzi negli inviti alle feste: prima dimmi chi c’è.
Una sinistra che continua a rompersi in mille rivoli che la rendono irrilevante. C’è sempre un trascorso, una storia passata che condiziona. Allora a un certo punto bisogna dire fuori tutti.
Bisogna mettere su carta le priorità condivise: quattro idee, un programma. Va bene anche uno che non è nessuno. Va bene anche Lorenzoni».
Torniamo ai centri sociali.
Hanno votato Coalizione civica.
«È verosimile. Alcuni, non tutti.
Molti giovani comunque, sì.
Abbiamo fatto un grande lavoro assembleare, ancora lo facciamo. Scrivere un programma insieme, identificare le esigenze. Anche i ragazzi che hanno un po’ di allergia alle regole si sono sentiti parte di un processo. Sono comunque fuori dal governo, non partecipano, ma c’è dialogo. Ciascuno ha i suoi mal di pancia, figuriamoci. D’altra parte cosa avevamo sul tavolo?
Complessivamente c’è stata molta determinazione: bisogna accendere i cuori, bisogna entusiasmare. Avere a cuore quello che la gente chiede».
E ha convinto anche la borghesia.
«Qui c’è una grande tradizione di impegno nel sociale, che è anche la mia storia. E di didattica, di studio. Per esempio: avevamo in lista con noi due o tre presidi di scuole superiori che gestiscono le scuole con intelligenza, conosciuti e apprezzati dalle famiglie. Contano sempre le persone di cui ti fidi, alla fine».
Cosa ha portato il Pd nazionale a un cosi misero risultato?
«Il Pd ha fatto prevalere criterio di appartenenza a quello di progettualità. Non ha trovato tre punti forti su cui entusiasmare».
Renzi sembrava aver entusiamato, al principio.
«Anche a me Renzi all’inizio piaceva molto, ma ha un ego troppo grande e non ha saputo moderarsi. Quando si governa l’interesse generale deve sempre prevalere sul proprio interesse: non esiste trucco per evitare che la gente si accorga che stai pensando più a te che a loro.
Però bisogna stare attenti: il Partito democratico rimane un attore imprescindibile. Uno dei problemi della sinistra è la costante rivalsa nel confronti del Pd. Il bisogno di segnalarsi come diversi. In questo la legge elettorale ha dato un colpo terribile: le modalità in cui vengono individuate le liste, era così visibile la lotta di potere».
Come legge il voto nazionale?
«A Nord ha lavorato la paura, a Sud il reddito di cittadinanza ha fatto la differenza. Hanno detto caspita, fantastico. Nessuno aveva un progetto che entusiasmasse. Ha prevalso la ricerca della sicurezza: economica, personale».
Comprensibile, dove c’è incertezza economica.
«C’è una parte della società, a Padova come in tutta Italia, molto conservatrice. Ogni cosa nuova spaventa. Cominciare un po’ a ragionare per rifondare il mondo democratico di questo paese è essenziale. Ragionare: cioè analizzare, studiare, comprendere. Mettere a frutto la conoscenza, generarne di nuova. Non servono persone abili e scaltre, servono persone dedite e competenti. Bisogna rigenerare la fiducia».
Come?
«Non lo so in assoluto. So come ho fatto io: ascolto, condivisione, cura. Bisogna ritrovare l’entusiasmo di un progetto. Ne dico uno: la sostenibilità (ambientale, economica) può diventare una guida per la crescita, l’inclusione. Può dare lavoro e costruire bellezza».
il manifesto 24.3.18
A sinistra si è perso l’attimo, il futuro è nella Carta
di Gaetano Azzariti


Un popolo è scomparso. Non un popolo astratto, bensì persone reali, vive e impegnate. Tutti quegli individui che – per discutere del futuro della «loro» costituzione – sono uscite dal torpore casalingo, dall’isolamento televisivo o da quello virtuale dei social.
Cittadini della Repubblica che hanno riempito le sale, intervenendo in discussioni pubbliche, con la voglia di comprendere e, infine, si sono schierate. Non più indifferenti, non solo rabbiosi, ma partecipi di una impresa collettiva.
Contro le tendenze di estraneazione in atto da tempo, un popolo è sceso in campo, si è riconosciuto ed ha assunto coscienza di sé. L’esito del referendum ha, da ultimo, dimostrato la forza della partecipazione attiva: per i cittadini è ancora possibile concorrere a determinare la politica nazionale, magari contro la volontà dei partiti maggioritari, in nome del popolo sovrano, nelle forme e nei limiti della costituzione.
È stata un’esperienza straordinaria, che è riuscita a dare nuova vita ai luoghi smorti della politica tradizionale, riempendo le sedi di partito e dei circoli associativi, affollando come mai prima le assemblee nei posti di lavoro e nelle università, gremendo teatri e occupando spazi aperti. Lunghi e appassionati confronti ove – spenti i cellulari e abbandonati i twits – si sono potute formare opinioni consapevoli, scuotere coscienze, ribaltare preconcetti e luoghi comuni.
Se ora si torna sui propri passi, in quei stessi luoghi si ha l’impressione di una festa finita: qualche manifesto invecchiato gettato per terra e pochi ostinati militanti che si attardano a discutere non si sa più bene di che.
Credo che ci si debba interrogare sulle ragioni della scomparsa dalla scena di queste persone reali. I giovani curiosi sono tornati su facebook, gli altri insofferenti dinanzi alle televisioni. Tutti a casa, dove basta un click per scaricare la propria tensione individuale, ma senza più una passione comune.
È trascorso solo un anno e il giorno delle elezioni le forze organizzate della sinistra sono state sconfitte. Hanno perduto elettori, ma soprattutto se stesse, perché non sono riuscite a proseguire il dialogo con un popolo che pure era venuto a cercarle. Una vasta comunità di donne e uomini concreti ha chiesto, ma non le è stato risposto; ha interrogato una cultura di sinistra (radicale o moderata che fosse) che era troppo impegnata a litigare, dividersi, accusarsi o riciclarsi.
A sinistra s’è perso l’attimo, non poteva che finire così. In questo modo si spiega anche perché a capitalizzare la nostra battaglia di ragione e di progresso siano stati altri: quelle forze che hanno combattuto la riforma costituzionale sul fronte dell’illusione populista. Ora si dovrà comunque ripartire. Più affaticati, ma indomiti, non fosse altro perché – come ci ricorda Walter Benjamin – le macerie del presente non possono arrestare il vento del progresso.
Marciare ancora, ma per andare dove? Con quali obiettivi? Se vogliamo imparare dalla piccola storia che è alle nostre spalle, la risposta ad entrambe le domande viene da sé. Andare in quelle case che si sono da poco richiuse per provare a riprendere il dialogo interrotto sulla «nostra» costituzione e sulla sua capacità di rappresentare un obiettivo comune per il quale vale la pena lottare. Cercare di nuovo quelle persone vive e impegnate con cui ci siamo incontrati e con cui, assieme, abbiamo sentito il dovere (forse anche il piacere) di uscire per strada nel momento in cui abbiamo avvertito come una minaccia la manomissione che si voleva compiere ai danni della costituzione democratica e pluralista.
La sfida è quella di tornare alla costituzione per provare a cambiare la vita delle persone, per discutere del bene comune, dei diritti concreti e dei poteri reali, non più esclusivamente dei propri affari privati, non più solo di persone, partiti o fazioni, non più solo di sé, bensì anche degli altri. Immaginare un futuro diverso nel nome della costituzione è possibile. Le idee non mancano, semmai il problema siamo noi. Le nostre deboli forze, i nostri smacchi, la nostra paura di metterci in gioco. Il timore di uscire allo scoperto, per cercare ancora.
Corriere 24.3.18
Calderoli e gli insulti a Kyenge «Potrà essere processato»


Non può godere dell’«insindacabilità» concessagli dal Senato Roberto Calderoli, che nel 2013 insultò l’allora ministro dell’Integrazione Cecilia Kyenge, chiamandola «orango». Lo ha deciso la Corte costituzionale, accogliendo il ricorso del Tribunale di Bergamo che aveva sollevato il conflitto di attribuzione nei confronti del Senato, in relazione alla deliberazione con cui l’assemblea di Palazzo Madama aveva affermato che le opinioni del senatore erano «espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni» e, dunque, «insindacabili». Kyenge — queste le parole del senatore — «sarebbe un ottimo ministro, ma dovrebbe esserlo in Congo non in Italia»; Calderoli aveva poi attribuito «sembianze di orango» alla ministra. Le opinioni espresse da Calderoli, rileva la Consulta, non hanno «alcun nesso funzionale con l’esercizio dell’attività parlamentare» .
Repubblica 24.3.18
Foto e disciplina nell’aula gialloverde delle matricole
Pd e Leu siedono in uno spicchio bonsai
Gli eletti dei Cinquestelle stavolta vestono come boiardi di Stato mentre la Lega è un’orchestra perfetta
La malinconia dei reduci.  E Gasparri immortala “chi c’era nel 1992”
di Alessandra Longo


ROMA Piccoli piccoli, quasi rannicchiati nei loro scranni. Bersani e Speranza alla Camera con altri 12, Vasco Errani e Loredana De Petris al Senato con un comitato ancora più ristretto. Fotografia impietosa del primo giorno della diciottesima legislatura. Le truppe di Liberi e Uguali sono queste: 14 a Montecitorio, 4 a Palazzo Madama. Nel conteggio sono inclusi i due ex presidenti delle Camere, Boldrini e Grasso, scesi dall’Olimpo, uguali fra gli uguali.
I posti non sono ancora assegnati, come per i biglietti low cost di Ryan Air. Ognuno può mettersi dove vuole. Ma la sinistra va a sinistra inseguendo l’istinto. Quelli di Leu, e subito accanto il Pd dimezzato, mutilato. Uno spicchietto infimo dell’emiciclo, l’immagine plastica e crudele dello tsunami elettorale, anche se poi Renzi gigioneggia al Senato come se non fosse successo nulla di tragico. Però, basta guardare le centinaia di scranni destinati a Lega e Cinque Stelle. Un Parlamento di neofiti per più del 60 per cento, ad alto tasso populista-sovranista. Il colpo d’occhio è molto diverso dalla precedente legislatura quando i giovani grillini arrivarono con gli zainetti, le magliette No Tav, e non applaudivano beffardi i passaggi istituzionali.
Neodeputati e neosenatori ora vestono come consumati boiardi di Stato. Solo qualche selfie da mandare agli amici, per il resto stile sobrio, disciplina ferrea. Al Senato i leghisti sono un’orchestra (nelle riunioni preliminari hanno dovuto abbandonare i cellulari nel guardaroba e rinunciare persino al bagno). Compattezza dimostrata subito con il voto alla Bernini. Pensare che Renato Brunetta aveva dettato il pronostico: «Fino a domani non succede nulla». Come se la ride adesso Calderoli, in scarpe da ginnastica. E quanto trafficano con i telefonini gli altri, spiazzati dalla mossa di Salvini. L’ormai leader assoluto del centrodestra passa per votare davanti a Renzi, circondato da Cirinnà, Fedeli e Pinotti. «Ti presento un pezzo di vera opposizione», gli dice l’ex premier. Piacere mio, risponde Matteo il sovranista, top player della giornata.
Riti surreali della politica. Il premio Nobel e senatore a vita Carlo Rubbia non capisce, non condivide: «Una giornata persa.
Per fortuna ho mangiato bene dalla Gina».
A Montecitorio, una volta i capannelli erano tutti per Berlusconi, ora le telecamere inseguono Emilio Carelli, star del M5s. Non ci sono più Rosy Bindi, né Gianni Cuperlo, resiste invece Nico Stumpo, ora Leu, che si prende anche due voti nel segreto dell’urna («Io non mi sono votato», precisa). Nichi Vendola, ospite, si aggira rabbioso in cappotto pensando alla Puglia di Emiliano: «È un pusillanime che non si prende mai una sola responsabilità».
Fende la ressa Renata Polverini, con tutore e stampelle. È inciampata in una buca della capitale. No, non c’è la leggerezza del primo giorno di scuola. «Che malinconia», confessa Beatrice Lorenzin ad Andrea Orlando, tutti e due ministri in uscita. Sull’onda dei ricordi Maurizio Gasparri, che pure non è un romantico, organizza al Senato la foto di chi c’era nel ‘92. Sorridono per l’obiettivo La Russa, Casini, Napolitano, che tiene sotto braccio Bossi, e Calderoli. Assenti ingiustificati Marcucci e Bonino.
L’album di famiglia è cambiato, per sempre. Riecheggiano pochi cognomi della storia politica passata. Ecco Stefania Craxi, senatrice. «Craxi presente», scandisce l’ufficio di presidenza.
Vota Isabella Rauti, Fratelli d’Italia. «Rauti presente!». E lei: «Penso a mio padre. Sono commossa». Dispiace molto ad Antonio Razzi non essere più della partita: «Se qualcuno penserebbe che non mi manca il Senato si sbaglia».
Casini, ormai insediato a Palazzo Madama, svela cosa gli è successo a Bologna: «Dovevo andare alla Casa del popolo e ho sbagliato piano. Sono finito, nello stesso edificio, ad una riunione di condominio». Risate. Intanto, nelle stesse ore, Salvini nel retropalco prepara il coup de theatre. E il Pd, chiuso nel suo spicchio bonsai di emiciclo, in condominio fisico con i compagni di Leu, sta a guardare.
Corriere 24.3.18
Le inedite «larghe intese»
Matteo & Luigi, le nuove larghe intese Embrione di governo per votare presto
Con gli altri divisi, Di Maio andrebbe alle consultazioni da forza di maggioranza relativa
di Francesco Verderami


Eccole le larghe intese. Solo che all’appuntamento con la storia non sono arrivati Renzi e Berlusconi ma Salvini e Di Maio, il vero vincitore della prima sfida giocata sulle presidenze delle Camere. Se oggi conquisterà lo scranno di Montecitorio per il suo Movimento, varrà il modo in cui il leader grillino l’avrà ottenuto: «Senza aver bisogno di Berlusconi».
Più che una questione di stile, era un obiettivo politico: riuscire a completare la missione facendo a meno dei voti del Cavaliere, voleva soprattutto dire esser riuscito a spaccare il centrodestra, separando Salvini dall’alleato. Così Di Maio potrà prepararsi alle consultazioni per il governo come partito di maggioranza relativa, senza più l’equivoco ingombro di un rassemblement che poteva invece presentarsi a Mattarella più forte del Movimento per voti e seggi. Perché è chiaro che Salvini — quando salirà al Colle — rappresenterà solo la Lega e non più l’intera alleanza.
Di Maio ha atteso che il capo del Carroccio consumasse la rottura con Berlusconi con una efferatezza che solo la politica conosce: decidendo in casa altrui. Quello di Salvini peraltro è stato un doppio affronto verso il Cavaliere, siccome gli ha rivolto contro a mo’ di arma proprio il nome della candidata su cui il leader di Forza Italia puntava: la Bernini era infatti la carta coperta di Berlusconi. E Salvini gliel’ha bruciata. È evidente che non sarebbe stata più spendibile, com’è evidente che Di Maio e Salvini avevano calcolato insieme anche questa mossa, lasciando uno spiraglio a una soluzione di mediazione come l’azzurra Casellati.
Ce n’è la prova nel comunicato con cui il leader grillino si diceva disponibile alla Bernini «o a un profilo simile». Ma un compromesso avrebbe sancito la resa di Berlusconi, il suo stato di minorità, il definitivo passaggio di consegne all’alleato: un fatto inaccettabile. Anche la sua reazione era stata messa in conto. E appena l’ex premier ha provato a scartare, Salvini ha reso noto che avrebbe votato per la presidenza della Camera un candidato del Movimento. Ecco il momento della rottura, questo era il punto decisivo: Forza Italia non avrebbe mai potuto sostenere un grillino, senza quel riconoscimento politico di Berlusconi che era stato chiesto a Di Maio.
I dioscuri della Terza Repubblica sono andati a vedere il «bluff» di Berlusconi, che — senza più assi dopo le elezioni — non poteva fare altro: dopo aver chiesto il vertice dei leader, d’intesa con Salvini, per tutta risposta aveva dovuto subire un vertice dei capigruppo voluto da Di Maio, d’intesa con Salvini. E se Salvini ha rotto gli indugi è perché si sente forte nell’area che fu il centrodestra: al Sud l’ex ministro De Girolamo racconta di «un fuggi fuggi» di dirigenti locali verso il Carroccio, al Nord il capo della Lega controlla quasi tutto il territorio, in Lombardia ha imposto al neo governatore Fontana di tenere appesi gli alleati per le deleghe al Pirellone, in Friuli ha appena strappato la candidatura per il suo Fedriga. C’è qualche azzurro che pensa di minacciare le sue giunte regionali?
Ognuno per la propria parte il capo del Movimento e il segretario della Lega hanno deciso di trasformare Forza Italia e Pd nel loro terreno di caccia. Le larghe intese sulle cariche istituzionali sembrano infatti prefigurare un accordo politico per una breve tregua: giusto per cambiare la legge elettorale, renderla nuovamente maggioritaria e sfidarsi poi per Palazzo Chigi. Gianni Letta vede avverarsi la sua tetra profezia: «Andranno al ballottaggio». Certo, Salvini dovrà accettare il ruolo dello junior partner con Di Maio, e immagina anche un passaggio all’opposizione nella prossima legislatura, quando l’alleato di strada diventerà l’avversario.
Quel passaggio — nelle sue proiezioni — gli servirà per strutturare qualcosa che non sarà più il centrodestra ma un Pdl 2.0, introiettando gli alleati di oggi in attesa di farne polvere domani. Salvini punta a ricostruire a sua immagine e somiglianza ciò che Berlusconi aveva distrutto perché il centrodestra rimanesse a sua immagine e somiglianza.
Ognuno trae interessi da questo accordo di sistema. Di Maio nel suo campo aveva già organizzato tutto: se si tornerà al voto entro un anno, nel Movimento non verranno rifatte le «parlamentarie», deputati e senatori saranno automaticamente ricandidati e sulla regola del doppio mandato prevarrà la deroga, così potrà lui ricandidarsi.Ecco le nuove larghe intese, che preludono a un nuovo bipolarismo. Si vedrà se Di Maio e Salvini saranno i fondatori della Terza Repubblica, di certo la sfida sulle cariche istituzionali era una sfida politica. E l’obiettivo era «fare a meno di Berlusconi».
Corriere 24.3.18
Volti sconosciuti (alcuni misteriosi)
Montecitorio, va in scena un mondo nuovo
di Aldo Cazzullo


È un mondo nuovo, non solo per lo sfregio di Salvini a Berlusconi e per la maggioranza Lega-Cinque Stelle che si profila, oggi per la presidenza delle Camere, domani forse per il governo. Entrare a Montecitorio rappresenta un’esperienza straniante: è un Parlamento di sconosciuti. Di facce non solo nuove, ma misteriose. Deputati scelti con 57 clic in rete. Altri designati dai capi partito per la loro presunta fedeltà.
M olti leader in Parlamento non ci sono, e infatti i giochi si fanno altrove: nei vertici a Palazzo Grazioli subito disattesi, sulla piattaforma Rousseau della Casaleggio&Associati, ma anche a Bruxelles, a Berlino, nei luoghi immateriali della finanza e della burocrazia europea, che oggi osserva preoccupata la partita ma domani si farà sentire, condizionando la nascita del governo com’è sempre accaduto anche prima di Monti ed Enrico Letta.
Non sono in Parlamento Berlusconi, Grillo, Davide Casaleggio, Di Battista, D’Alema (che ha provato invano a rientrare), Veltroni, e neppure la Bindi e la Finocchiaro. Entra nel Senato che voleva abolire Renzi, matricola proprio ora che non conta molto più di nulla; torna al Senato Bossi, unico leghista a non partecipare al blitz e a non votare la Bernini, per disperata lealtà verso l’amico Silvio.
Al di là del naturale e salutare ricambio, la legislatura parte con tanti punti interrogativi quanti sono i parlamentari ignoti ai loro stessi elettori. Del resto, i collegi senatoriali raccolgono tra 500 e 600 mila abitanti: troppi perché si crei un legame serio tra il rappresentante e i rappresentati. Erano molto più piccoli i collegi introdotti dal Mattarellum, la legge uscita dal referendum del 1993 con cui gli italiani abolirono il proporzionale e scelsero il maggioritario. Se davvero Lega e Cinque Stelle stringeranno un patto di governo, per prendere alcuni provvedimenti popolari — alleggerire le accise sulla benzina, abolire i vitalizi — e poi tornare al voto con nuove regole, c’è da augurarsi un ritorno alla legge che porta il nome dell’attuale capo dello Stato. L’alternativa è lasciare tutto così, con il rischio di risultati fotocopia, tranne un ulteriore travaso di voti da Forza Italia alla Lega. Oppure introdurre un premio di maggioranza: ma alla coalizione (ammesso che quella di centrodestra esista ancora) o alla lista più votata?
Di sicuro i nuovi parlamentari faranno di tutto per prolungare la legislatura. Ieri in molti, aggirandosi a naso in su tra gli arredi liberty di Montecitorio e di Palazzo Madama, si sono detti: «Quando mi ricapita?». Già, quando ricapita di trovarsi sotto i riflettori, con adeguato stipendio, grazie all’indicazione digitale di qualche amico di Facebook, o al rapporto fiduciario col capo (Berlusconi ha portato in Parlamento tre assistenti, ma gli altri non sono stati da meno)? Faceva quasi tenerezza, vedere i familiari orgogliosi osservare i neofiti dalle tribune, o i figlioletti incravattati pranzare a prezzo politico in mensa. Ma stabilire un rapporto diretto tra elettori ed eletti — sottoposti alla scelta, al controllo e al ricambio da parte dei cittadini — darebbe ai parlamentari un’autorevolezza che ora manca, anche a causa del loro numero, francamente esorbitante.
Ieri si è avuta la dimostrazione plastica che i padroni della Seconda Repubblica, usciti dalle elezioni sconfitti o ridimensionati, non hanno più il pallino in mano; devono attrezzarsi per una lunga maratona, o rassegnarsi a cedere lo scettro. Sarà interessante capire se la presunta Terza Repubblica è in grado di dar prova di una nuova moralità politica davanti agli italiani, se Salvini e Di Maio sanno fare patti nell’interesse di altri, oltre che di se stessi. Un governo capace di prendere provvedimenti economici dettati dalla razionalità anziché dalla demagogia, e di aprire il gioco della riforma istituzionale ed elettorale alle opposizioni, potrebbe avere il sostegno anche delle forze invisibili che hanno già dimostrato la propria influenza sulle cose italiane. Altrimenti pure i vincitori di ieri — che sono gli stessi del 4 marzo — dovranno rendersi conto che l’Italia non è sola al mondo, che i mercati globali e l’Europa esistono, e l’opinione pubblica non firma assegni in bianco a nessuno.
Repubblica 24.3.18
La sfida finale alla stagione del cavaliere
di Stefano Folli


Difficile immaginare una mossa più spregiudicata di quella compiuta ieri da Salvini (e non certo «per fare un favore a Berlusconi», come ha chiosato un altro esponente di primo piano della Lega, Giorgetti).
Fino a pochi mesi fa una sfida così irriverente non sarebbe stata nemmeno concepibile. Ma il 4 marzo rappresenta un cambio di stagione politica. La conseguenza è che per la prima volta a Berlusconi si vuole imporre non solo un candidato scelto in casa sua contro la sua volontà, ma soprattutto un ruolo subordinato nell’alleanza. Anna Maria Bernini è lo strumento più o meno inconsapevole di questa operazione: può fare la sua corsa lungo un sentiero inesplorato ovvero rendersi conto lei stessa dell’opportunità di ritirarsi. Ma le macerie restano. Per cui Berlusconi si trova a dover decidere in fretta cosa fare. La frattura del centrodestra può durare una notte e ricomporsi stamane con qualche cerotto intorno a una terza figura che non sia né la candidata imposta da Salvini né un Paolo Romani sottoposto alla logorante doccia scozzese in cui si riassume il tramonto del vecchio mondo berlusconiano.
Se Berlusconi pensa a ciò che più gli conviene, anziché all’orgoglio ferito, può voltare pagina e convergere su un nome nuovo che avrebbe la strada spianata: ad esempio Elisabetta Casellati.
Viceversa l’anziano leader può denunciare, come ha fatto a caldo, la spaccatura definitiva del centrodestra.
In tal caso ognuno dovrà badare a se stesso in una prospettiva tutt’altro che incoraggiante. Salvini con il suo 17 per cento sarà messo di fronte ai Cinque Stelle che hanno quasi il doppio dei voti, condannato quindi a essere il loro alleato minore (in una combinazione che non avrebbe peraltro i numeri parlamentari per governare). Berlusconi invece sarà spinto ai margini con il suo 14 per cento, non più in condizione di orientare gli eventi e di gestire i suoi interessi.
In genere nell’uomo ha sempre prevalso il pragmatismo, ma è pur vero che la vicenda attuale è senza precedenti.
Limitare i danni oggi significa che a destra tutti devono valutare i pro e i contro della divisione. A Salvini non può piacere di trovarsi a tu per tu con Di Maio se questo vuol dire mettere a rischio, o comunque in grave turbolenza, le alleanze con Forza Italia nelle grandi regioni del Nord. È chiaro che la strategia del leghista consiste nell’assorbire giorno dopo giorno i consensi berlusconiani e lo strappo di ieri rende l’idea in modo plastico. Ma affrettare i tempi, giusto all’inizio di una legislatura che si prevede breve se non brevissima, può essere controproducente.
La politica ha le sue logiche e ignorarle non sempre porta fortuna.
Quanto a Berlusconi, non può non sapere che un ballottaggio fra Romani e Anna Maria Bernini, nel momento in cui rende plateale e non più rimediabile la fine del centrodestra, consegnerebbe di sicuro la vittoria alla seconda, lungo l’asse Lega-M5S. Dopodiché sarebbe un’altra storia, senza che il vertice di Forza Italia — o ciò che ne rimane — sia in grado di inaugurare un “secondo forno” in tempi brevi. Il “forno”, ossia l’alleato alternativo, può essere solo Renzi, l’altro perdente del 4 marzo. Ma non è prevedibile una rapida convergenza fra i resti berlusconiani e il fronte renziano.
Prima occorre immaginare una scissione del Pd che oggi non è alle viste. Quindi i tempi sono sfasati anche per la nascita di un eventuale raggruppamento centrista. Che avrebbe bisogno anche di una legge elettorale adeguata. E qui si entra nel futuribile, mentre la cronaca racconta della guerra lampo di Salvini.
il manifesto 24.3.18
Palazzo Madama, la destra si fa la guerra e salta in aria
Saluti Romani. La Lega molla Romani e vota la forzista Berinini. Berlusconi furioso: rotta la coalizione. La candidata non ci sta. Fi: «Alla camera Giorgetti». Il leghista: «Pronti a votare un 5S» . Il torneo di oggi si apre al buio. Si vedrà nell’urna se rimettere insieme i cocci è ancora possibile
di Andrea Colombo


La bomba esplode nel tardo pomeriggio. Nessuno se l’aspettava. Solo Silvio Berlusconi era stato messo al corrente in anticipo della mossa dirompente decisa dal Carroccio: «Nella seconda votazione non voteremo scheda bianca ma Anna Maria Bernini. E’ l’unico modo per impedire l’abbraccio tra Movimento 5 Stelle e Pd». Risposta gelida: «Ne prendo atto».
QUANDO GIORGIO NAPOLITANO legge le schede, a votazione chiusa, quei voti ci sono davvero. Il nome della vicepresidente del gruppo forzista, sul quale avevano già espresso parere favorevole tutti prima che Forza Italia decidesse di puntare sull’unico nome considerato invotabile dai 5 Stelle, il capogruppo Paolo Romani, risuona 57 volte. I senatori leghisti sono 58 ma Umberto Bossi (il suo portavoce però smentisce) avrebbe sbagliato dimenticandosi la B: «Ernini».
La reazione di Silvio Berlusconi è durissima, tanto da non lasciare quasi spazio alla diplomazia. Quei voti «sono da considerarsi un atto di ostilità a freddo della Lega che da un lato rompe l’unità della coalizione di centrodestra e dall’altro smaschera il progetto per un governo Lega-M5S». Una dichiarazione di guerra che riflette la frase pronunciata da un Cavaliere fuori di sé dopo la telefonata di Matteo Salvini: «Lo sapevamo dall’inizio che avrebbe tradito».
«TRADIMENTO! TRADIMENTO!»: è la parola pronunciata più spesso nel consiglio di guerra che Berlusconi convoca subito dopo aver diramato il comunicato al tritolo. Proprio per costringere Salvini a provare la sua «fedeltà» viene decisa una mossa a modo suo subdola: Forza Italia accetterà di votare qualsiasi senatore azzurro, «a partire da Romani», purché il Carroccio, in cambio, si impegni a non votare alla Camera per il candidato dell’M5S eleggendo invece il leghista Giorgetti. Solo così Salvini dimostrerà di non essere un Giuda.
24desk bernini
E’ la stessa logica con la quale lo stato maggiore azzurro aveva deciso di puntare solo su Romani: usare l’elezione dei presidenti delle Camere per far saltare i ponti con M5S e ridimensionare così quel Salvini di cui ora Berlusconi dice apertamente che «si è montato la testa». Ma è anche la logica che ha spinto Salvini verso una mossa la cui valenza dirompente forse non aveva calcolato a fondo neppure lui: impedire che le nomine istituzionali siano usate come viatico per un’intesa tra destra e Pd. La diffidenza reciproca, la competizione per la leadership della coalizione, la distanza tra strategie opposte, una orientata verso M5S, l’altra verso il Pd, sono gli elementi che, miscelati, hanno portato alla spaccatura forse insanabile di ieri.
LA LEGA FA PASSARE ORE prima di replicare alla furiosa nota di palazzo Grazioli. Poi Salvini dichiara: «Vista la disponibilità dei 5 Stelle a sostenere un candidato del centrodestra alla presidenza del Senato, noi ne appoggeremo uno dei 5 Stelle alla Camera. Aspettiamo di conoscere nomi». Solo Giorgetti minimizza ironico rispondendo a Berlusconi: «Esagerato! Gli abbiamo fatto un favore».
Il Cavaliere, su tutte le furie, riunisce lo stato maggiore del suo partito. Convoca Anna Maria Bernini per chiederle di smarcarsi dall’«uso strumentale» che del suo nome sta facendo la Lega e infatti la candidata suo malgrado esce da palazzo Grazioli e poi twitta: «È evidente che sono indisponibile ad essere il candidato di altri senza il sostegno del presidente Berlusconi e del mio partito».
IL VERTICE INTANTO RIPIEGA verso il gioco d’astuzia consistente nel chiedere a Salvini la «prova d’amore» a Montecitorio.
M5S incassa soddisfatto. «Siamo disposti a votare Bernini o un profilo simile», taglia corto Di Maio senza neppure aspettare la riunione del gruppo convocata per questa mattina. «In fondo – spiegano i 5S – abbiamo detto no a Paolo Romani solo perché condannato». Problema che non si presenta nel caso di Anna Maria Bernini e neppure in quello di Elisabetta Alberti Casellati, il nome sul quale probabilmente meditava di convergere Salvini, come formula di mediazione, una volta convinto il Cavaliere a non irrigidirsi su Romani.
IL PD RESTA IMMOBILE. Renzi si schermisce: «Perché chiedete a me? Parlate con Martina». Poi però parla: «Tocca a loro risolvere. Lo dico da 5 marzo». Eppure, nonostante l’immobilismo, il possibile ruolo del Pd ha pesato nel determinare la precipitazione di ieri. Per ore si sono rincorse voci su una possibile «contromossa» di M5S: votare a favore del capogruppo uscente del Pd Luigi Zanda per mettere la destra alle corde. I numeri sarebbero bastati. Zanda sarebbe stato eletto. Impedire quel possibile passo, del quale non è però mai arrivata conferma, è stata infatti la spiegazione adoperata da Salvini per giustificare la rottura.
Il torneo di oggi si apre al buio. Si vedrà al momento dei voti se rimettere insieme i cocci della destra è possibile. Ma stavolta ci saranno per forza un vincitore e un vinto.
Il Fatto 24.3.18
Altro che Zucca il problema è la tortura
di Alessandro Mantovani


Il problema è Enrico Zucca, il pm del processo Diaz che spesso parla in modo urticante, o piuttosto non si riesce a sciogliere il nodo della tortura? Zucca è additato alla pubblica esecrazione e rischia un processo disciplinare al Csm per aver detto che l’Italia ha difficoltà a farsi consegnare dall’Egitto i torturatori di Giulio Regeni anche perché le nostre forze di polizia “non hanno consegnato nessuno dei torturatori” del G8 di Genova 2001, anzi “quelli che hanno coperto i torturatori erano e sono i vertici, o ai vertici, delle forze di polizia”. Uno dei primi ad attaccarlo è stato Franco Gabrielli, l’attuale capo della polizia, che con il G8 di Genova non c’entra e un anno fa aveva chiesto scusa per la Diaz, aveva reso onore allo stesso Zucca e aveva detto che Gianni De Gennaro, il capo della polizia dell’epoca, avrebbe fatto bene a dimettersi, suscitando forti malumori interni.
Eppure Zucca ha le sue ragioni. Il riferimento immediato, ancorché implicito, era a Gilberto Caldarozzi, uno dei dirigenti condannati per falso nel processo Diaz e ritenuto non meritevole di affidamento in prova al servizio sociale, ora reintegrato e nominato vicedirettore della Direzione investigativa antimafia (Dia). Il punto è che la Corte europea dei diritti umani ha qualificato i fatti della Diaz come tortura e, nel processo, è emerso che le molotov e gli altri falsi dei verbali probabilmente servivano anche a coprire le violenze. Ma la questione va ben oltre Caldarozzi, che peraltro ha pagato più di altri mentre De Gennaro è tuttora capo di Leonardo/Finmeccanica.
“Non ci hanno consegnato nessun torturatore” non è una battuta infelice ma la sintesi di quanto è accaduto per la Diaz e per tutti i fatti in cui le forze dell’ordine, il 20 e del 21 luglio 2001, agirono in spregio dei diritti costituzionali. I vertici, operativi e politici, coprirono tutto. Non hanno consegnato nemmeno il quattordicesimo firmatario dei falsi verbali della Diaz, un caso limite di ufficiale di polizia giudiziaria anonimo grazie a una firma illeggibile. Molti imputati sono stati promossi. Non c’è stato un solo procedimento disciplinare serio, un allontanamento, una destituzione (come invece può avvenire quando un poliziotto o un carabiniere vengono beccati con uno spinello). Vale per la polizia e anche per i carabinieri e la penitenziaria di Bolzaneto.
Del resto perfino la Procura genovese fu in parte complice della mattanza: basti pensare al differimento preventivo dei colloqui con gli avvocati senza il quale non sarebbe stato possibile l’inferno di Bolzaneto o allo scarso sostegno dei capi all’azione di Zucca e di altri pm. Non si può dire che la magistratura italiana fece sentire il suo peso. E oggi il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini attacca Zucca ancora prima di Gabrielli e il leader dell’Anm Eugenio Albamonte ne censura la presunta “animosità”.
Fu innanzitutto la politica – il governo Berlusconi ma anche i vertici Ds dell’epoca – a rendere possibile e a coprire, se non a ordinare, le violenze di Genova 2001, la repressione feroce di un movimento che contestava e ridicolizzava i vertici internazionali in cui si celebravano la globalizzazione e quello che allora si chiamava “pensiero unico”. Altre responsabilità le porta l’informazione che tesseva le lodi dei superpoliziotti piazzati da De Gennaro nei posti chiave e pizzicati col sacchetto delle molotov nel cortile della Diaz. Erano entrati nella scuola pochi minuti dopo l’inizio della mattanza, ma i torturatori sono rimasti senza nome.
L’Italia non è l’Egitto, come ha ovviamente sottolineato Zucca, per quanto siano avvenuti negli anni 70 e 80 fatti gravissimi di tortura ai danni di terroristi e presunti tali. Dopo Genova tante cose sono cambiate in materia di ordine pubblico e con Gabrielli, l’abbiamo visto, chi sbaglia paga. Ma nelle forze di polizia ci sono ancora sacche di autoritarismo fascistoide, impreparazione e scarso rispetto delle procedure. La magistratura è spesso disattenta, come ha dimostrato anche il caso di Stefano Cucchi: otto anni per iniziare il processo ai carabinieri. E il Parlamento uscente ha approvato una legge sulla tortura che non risponde ai principi della Corte di Strasburgo: non sarebbe applicabile neanche alla Diaz, a Bolzaneto o al caso Cucchi perché richiede comportamenti reiterati; non prevede la destituzione dei condannati. L’Europa va bene quando chiede tagli alla spesa pubblica, ma sui diritti umani e civili si fa come se non esistesse.
Corriere 24.3.18
Incinta al confine viene respinta. Salvo il bimbo, lei non ce la fa
Migrante fermata dalle autorità francesi. È morta dopo il cesareo a Torino
di Lorenza Castagneri


Torino C’è un giovane papà che arriva dalla Nigeria che da qualche giorno vive dentro l’ospedale Sant’Anna di Torino. Passa il tempo con il suo Israel, nato giovedì scorso, stretto al petto, sulla pelle nuda, per fargli sentire tutto il suo calore. È una pratica nata tanti anni fa, per i bambini prematuri, la chiamano «cura della mamma canguro». Perché questo lui dovrà essere per Israel: padre e madre.
Sua moglie Beauty è morta a 31 anni, subito dopo averlo dato alla luce, uccisa da un fibroma che non le ha dato scampo e di fronte al quale la Gendarmeria francese non ha avuto pietà: il 9 febbraio, gli agenti l’hanno respinta con il marito alla frontiera italiana mentre cercava di raggiungere Oltralpe la sorella su un pullman.
L’hanno lasciata alla stazione di Bardonecchia, nella notte, nonostante il pancione di sei mesi e nonostante non riuscisse quasi a respirare per colpa di quel tumore conseguenza di una trasfusione sbagliata fatta in Nigeria.
I primi ad accorgersi di lei sono stati i medici di Rain-bow4Africa, guidati da Paolo Narcisi, che, da inizio dicembre, prestano soccorso ai migranti al confine. Beauty è stata portata subito a Rivoli, l’ospedale più grande della zona, ai piedi della Val di Susa. Poi, il trasferimento al Sant’Anna, presidio ginecologico di riferimento, dove i medici hanno provato a studiare una strategia.
«La nostra priorità è salvare sempre mamma e bambino ma ci siamo chiesti se interrompere la gravidanza potesse essere utile», confida Tullia Todros, ginecologa responsabile del Servizio di gravidanze a rischio dell’ospedale. «Dato, però, che la signora voleva proteggere il suo piccolo, d’accordo con gli ematologi del dottor Umberto Vitolo abbiamo optato per la chemioterapia. È stato un tentativo, ma la mamma era ormai in fase terminale e giovedì scorso abbiamo praticato il taglio cesareo per salvare almeno il feto».
Beauty è entrata in sala operatoria con una anestesia totale. È morta poco dopo il parto. Non ha potuto piangere di gioia prendendo in braccio per la prima volta il suo piccolo. Fin dal primo momento di vita, Israel ha soltanto il suo papà, che non si stacca da lui nemmeno per un secondo. Il bambino è nato di 29 settimane. Pesava 700 grammi. «Sicuramente starà con noi per un po’ di tempo», racconta il professor Enrico Bertino, primario della Terapia intensiva neonatale del Sant’Anna. «Ma siamo ottimisti: ha già cominciato a prendere peso. Ora siamo a 960 grammi. Si nutre del prezioso latte della banca del latte che mamme generose hanno voluto donare».
Suo padre resta con lui fino alle sette di sera. Poi via, verso il dormitorio. Perché a Torino quest’uomo non ha nessuno. Viveva a Napoli, con sua moglie, poi il tentativo di andare in Francia e il gesto della Gendarmeria di cui Narcisi non si capacita. «I corrieri trattano meglio i loro pacchi». Intanto a Torino è scattata la gara di solidarietà.
Corriere 24.3.18
Incinta al confine viene respinta. Salvo il bimbo, lei non ce la fa
Migrante fermata dalle autorità francesi. È morta dopo il cesareo a Torino
di Lorenza Castagneri


Torino C’è un giovane papà che arriva dalla Nigeria che da qualche giorno vive dentro l’ospedale Sant’Anna di Torino. Passa il tempo con il suo Israel, nato giovedì scorso, stretto al petto, sulla pelle nuda, per fargli sentire tutto il suo calore. È una pratica nata tanti anni fa, per i bambini prematuri, la chiamano «cura della mamma canguro». Perché questo lui dovrà essere per Israel: padre e madre.
Sua moglie Beauty è morta a 31 anni, subito dopo averlo dato alla luce, uccisa da un fibroma che non le ha dato scampo e di fronte al quale la Gendarmeria francese non ha avuto pietà: il 9 febbraio, gli agenti l’hanno respinta con il marito alla frontiera italiana mentre cercava di raggiungere Oltralpe la sorella su un pullman.
L’hanno lasciata alla stazione di Bardonecchia, nella notte, nonostante il pancione di sei mesi e nonostante non riuscisse quasi a respirare per colpa di quel tumore conseguenza di una trasfusione sbagliata fatta in Nigeria.
I primi ad accorgersi di lei sono stati i medici di Rain-bow4Africa, guidati da Paolo Narcisi, che, da inizio dicembre, prestano soccorso ai migranti al confine. Beauty è stata portata subito a Rivoli, l’ospedale più grande della zona, ai piedi della Val di Susa. Poi, il trasferimento al Sant’Anna, presidio ginecologico di riferimento, dove i medici hanno provato a studiare una strategia.
«La nostra priorità è salvare sempre mamma e bambino ma ci siamo chiesti se interrompere la gravidanza potesse essere utile», confida Tullia Todros, ginecologa responsabile del Servizio di gravidanze a rischio dell’ospedale. «Dato, però, che la signora voleva proteggere il suo piccolo, d’accordo con gli ematologi del dottor Umberto Vitolo abbiamo optato per la chemioterapia. È stato un tentativo, ma la mamma era ormai in fase terminale e giovedì scorso abbiamo praticato il taglio cesareo per salvare almeno il feto».
Beauty è entrata in sala operatoria con una anestesia totale. È morta poco dopo il parto. Non ha potuto piangere di gioia prendendo in braccio per la prima volta il suo piccolo. Fin dal primo momento di vita, Israel ha soltanto il suo papà, che non si stacca da lui nemmeno per un secondo. Il bambino è nato di 29 settimane. Pesava 700 grammi. «Sicuramente starà con noi per un po’ di tempo», racconta il professor Enrico Bertino, primario della Terapia intensiva neonatale del Sant’Anna. «Ma siamo ottimisti: ha già cominciato a prendere peso. Ora siamo a 960 grammi. Si nutre del prezioso latte della banca del latte che mamme generose hanno voluto donare».
Suo padre resta con lui fino alle sette di sera. Poi via, verso il dormitorio. Perché a Torino quest’uomo non ha nessuno. Viveva a Napoli, con sua moglie, poi il tentativo di andare in Francia e il gesto della Gendarmeria di cui Narcisi non si capacita. «I corrieri trattano meglio i loro pacchi». Intanto a Torino è scattata la gara di solidarietà.

Il Fatto 24.3.18
Altro che Zucca il problema è la tortura
di Alessandro Mantovani


Il problema è Enrico Zucca, il pm del processo Diaz che spesso parla in modo urticante, o piuttosto non si riesce a sciogliere il nodo della tortura? Zucca è additato alla pubblica esecrazione e rischia un processo disciplinare al Csm per aver detto che l’Italia ha difficoltà a farsi consegnare dall’Egitto i torturatori di Giulio Regeni anche perché le nostre forze di polizia “non hanno consegnato nessuno dei torturatori” del G8 di Genova 2001, anzi “quelli che hanno coperto i torturatori erano e sono i vertici, o ai vertici, delle forze di polizia”. Uno dei primi ad attaccarlo è stato Franco Gabrielli, l’attuale capo della polizia, che con il G8 di Genova non c’entra e un anno fa aveva chiesto scusa per la Diaz, aveva reso onore allo stesso Zucca e aveva detto che Gianni De Gennaro, il capo della polizia dell’epoca, avrebbe fatto bene a dimettersi, suscitando forti malumori interni.
Eppure Zucca ha le sue ragioni. Il riferimento immediato, ancorché implicito, era a Gilberto Caldarozzi, uno dei dirigenti condannati per falso nel processo Diaz e ritenuto non meritevole di affidamento in prova al servizio sociale, ora reintegrato e nominato vicedirettore della Direzione investigativa antimafia (Dia). Il punto è che la Corte europea dei diritti umani ha qualificato i fatti della Diaz come tortura e, nel processo, è emerso che le molotov e gli altri falsi dei verbali probabilmente servivano anche a coprire le violenze. Ma la questione va ben oltre Caldarozzi, che peraltro ha pagato più di altri mentre De Gennaro è tuttora capo di Leonardo/Finmeccanica.
“Non ci hanno consegnato nessun torturatore” non è una battuta infelice ma la sintesi di quanto è accaduto per la Diaz e per tutti i fatti in cui le forze dell’ordine, il 20 e del 21 luglio 2001, agirono in spregio dei diritti costituzionali. I vertici, operativi e politici, coprirono tutto. Non hanno consegnato nemmeno il quattordicesimo firmatario dei falsi verbali della Diaz, un caso limite di ufficiale di polizia giudiziaria anonimo grazie a una firma illeggibile. Molti imputati sono stati promossi. Non c’è stato un solo procedimento disciplinare serio, un allontanamento, una destituzione (come invece può avvenire quando un poliziotto o un carabiniere vengono beccati con uno spinello). Vale per la polizia e anche per i carabinieri e la penitenziaria di Bolzaneto.
Del resto perfino la Procura genovese fu in parte complice della mattanza: basti pensare al differimento preventivo dei colloqui con gli avvocati senza il quale non sarebbe stato possibile l’inferno di Bolzaneto o allo scarso sostegno dei capi all’azione di Zucca e di altri pm. Non si può dire che la magistratura italiana fece sentire il suo peso. E oggi il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini attacca Zucca ancora prima di Gabrielli e il leader dell’Anm Eugenio Albamonte ne censura la presunta “animosità”.
Fu innanzitutto la politica – il governo Berlusconi ma anche i vertici Ds dell’epoca – a rendere possibile e a coprire, se non a ordinare, le violenze di Genova 2001, la repressione feroce di un movimento che contestava e ridicolizzava i vertici internazionali in cui si celebravano la globalizzazione e quello che allora si chiamava “pensiero unico”. Altre responsabilità le porta l’informazione che tesseva le lodi dei superpoliziotti piazzati da De Gennaro nei posti chiave e pizzicati col sacchetto delle molotov nel cortile della Diaz. Erano entrati nella scuola pochi minuti dopo l’inizio della mattanza, ma i torturatori sono rimasti senza nome.
L’Italia non è l’Egitto, come ha ovviamente sottolineato Zucca, per quanto siano avvenuti negli anni 70 e 80 fatti gravissimi di tortura ai danni di terroristi e presunti tali. Dopo Genova tante cose sono cambiate in materia di ordine pubblico e con Gabrielli, l’abbiamo visto, chi sbaglia paga. Ma nelle forze di polizia ci sono ancora sacche di autoritarismo fascistoide, impreparazione e scarso rispetto delle procedure. La magistratura è spesso disattenta, come ha dimostrato anche il caso di Stefano Cucchi: otto anni per iniziare il processo ai carabinieri. E il Parlamento uscente ha approvato una legge sulla tortura che non risponde ai principi della Corte di Strasburgo: non sarebbe applicabile neanche alla Diaz, a Bolzaneto o al caso Cucchi perché richiede comportamenti reiterati; non prevede la destituzione dei condannati. L’Europa va bene quando chiede tagli alla spesa pubblica, ma sui diritti umani e civili si fa come se non esistesse.

Il Sole 23.3.18
L’ex spin doctor di Trump
Cambridge Analytica, Bannon attacca Facebook: «Prende gratis le nostre vite e le rivende»
di Biagio Simonetta

qui

il manifesto 24.3.18
Palazzo Madama, la destra si fa la guerra e salta in aria
Saluti Romani. La Lega molla Romani e vota la forzista Berinini. Berlusconi furioso: rotta la coalizione. La candidata non ci sta. Fi: «Alla camera Giorgetti». Il leghista: «Pronti a votare un 5S» . Il torneo di oggi si apre al buio. Si vedrà nell’urna se rimettere insieme i cocci è ancora possibile
di Andrea Colombo


La bomba esplode nel tardo pomeriggio. Nessuno se l’aspettava. Solo Silvio Berlusconi era stato messo al corrente in anticipo della mossa dirompente decisa dal Carroccio: «Nella seconda votazione non voteremo scheda bianca ma Anna Maria Bernini. E’ l’unico modo per impedire l’abbraccio tra Movimento 5 Stelle e Pd». Risposta gelida: «Ne prendo atto».
QUANDO GIORGIO NAPOLITANO legge le schede, a votazione chiusa, quei voti ci sono davvero. Il nome della vicepresidente del gruppo forzista, sul quale avevano già espresso parere favorevole tutti prima che Forza Italia decidesse di puntare sull’unico nome considerato invotabile dai 5 Stelle, il capogruppo Paolo Romani, risuona 57 volte. I senatori leghisti sono 58 ma Umberto Bossi (il suo portavoce però smentisce) avrebbe sbagliato dimenticandosi la B: «Ernini».
La reazione di Silvio Berlusconi è durissima, tanto da non lasciare quasi spazio alla diplomazia. Quei voti «sono da considerarsi un atto di ostilità a freddo della Lega che da un lato rompe l’unità della coalizione di centrodestra e dall’altro smaschera il progetto per un governo Lega-M5S». Una dichiarazione di guerra che riflette la frase pronunciata da un Cavaliere fuori di sé dopo la telefonata di Matteo Salvini: «Lo sapevamo dall’inizio che avrebbe tradito».
«TRADIMENTO! TRADIMENTO!»: è la parola pronunciata più spesso nel consiglio di guerra che Berlusconi convoca subito dopo aver diramato il comunicato al tritolo. Proprio per costringere Salvini a provare la sua «fedeltà» viene decisa una mossa a modo suo subdola: Forza Italia accetterà di votare qualsiasi senatore azzurro, «a partire da Romani», purché il Carroccio, in cambio, si impegni a non votare alla Camera per il candidato dell’M5S eleggendo invece il leghista Giorgetti. Solo così Salvini dimostrerà di non essere un Giuda.
24desk bernini
E’ la stessa logica con la quale lo stato maggiore azzurro aveva deciso di puntare solo su Romani: usare l’elezione dei presidenti delle Camere per far saltare i ponti con M5S e ridimensionare così quel Salvini di cui ora Berlusconi dice apertamente che «si è montato la testa». Ma è anche la logica che ha spinto Salvini verso una mossa la cui valenza dirompente forse non aveva calcolato a fondo neppure lui: impedire che le nomine istituzionali siano usate come viatico per un’intesa tra destra e Pd. La diffidenza reciproca, la competizione per la leadership della coalizione, la distanza tra strategie opposte, una orientata verso M5S, l’altra verso il Pd, sono gli elementi che, miscelati, hanno portato alla spaccatura forse insanabile di ieri.
LA LEGA FA PASSARE ORE prima di replicare alla furiosa nota di palazzo Grazioli. Poi Salvini dichiara: «Vista la disponibilità dei 5 Stelle a sostenere un candidato del centrodestra alla presidenza del Senato, noi ne appoggeremo uno dei 5 Stelle alla Camera. Aspettiamo di conoscere nomi». Solo Giorgetti minimizza ironico rispondendo a Berlusconi: «Esagerato! Gli abbiamo fatto un favore».
Il Cavaliere, su tutte le furie, riunisce lo stato maggiore del suo partito. Convoca Anna Maria Bernini per chiederle di smarcarsi dall’«uso strumentale» che del suo nome sta facendo la Lega e infatti la candidata suo malgrado esce da palazzo Grazioli e poi twitta: «È evidente che sono indisponibile ad essere il candidato di altri senza il sostegno del presidente Berlusconi e del mio partito».
IL VERTICE INTANTO RIPIEGA verso il gioco d’astuzia consistente nel chiedere a Salvini la «prova d’amore» a Montecitorio.
M5S incassa soddisfatto. «Siamo disposti a votare Bernini o un profilo simile», taglia corto Di Maio senza neppure aspettare la riunione del gruppo convocata per questa mattina. «In fondo – spiegano i 5S – abbiamo detto no a Paolo Romani solo perché condannato». Problema che non si presenta nel caso di Anna Maria Bernini e neppure in quello di Elisabetta Alberti Casellati, il nome sul quale probabilmente meditava di convergere Salvini, come formula di mediazione, una volta convinto il Cavaliere a non irrigidirsi su Romani.
IL PD RESTA IMMOBILE. Renzi si schermisce: «Perché chiedete a me? Parlate con Martina». Poi però parla: «Tocca a loro risolvere. Lo dico da 5 marzo». Eppure, nonostante l’immobilismo, il possibile ruolo del Pd ha pesato nel determinare la precipitazione di ieri. Per ore si sono rincorse voci su una possibile «contromossa» di M5S: votare a favore del capogruppo uscente del Pd Luigi Zanda per mettere la destra alle corde. I numeri sarebbero bastati. Zanda sarebbe stato eletto. Impedire quel possibile passo, del quale non è però mai arrivata conferma, è stata infatti la spiegazione adoperata da Salvini per giustificare la rottura.
Il torneo di oggi si apre al buio. Si vedrà al momento dei voti se rimettere insieme i cocci della destra è possibile. Ma stavolta ci saranno per forza un vincitore e un vinto.

Repubblica 24.3.18
La sfida finale alla stagione del cavaliere
di Stefano Folli


Difficile immaginare una mossa più spregiudicata di quella compiuta ieri da Salvini (e non certo «per fare un favore a Berlusconi», come ha chiosato un altro esponente di primo piano della Lega, Giorgetti).
Fino a pochi mesi fa una sfida così irriverente non sarebbe stata nemmeno concepibile. Ma il 4 marzo rappresenta un cambio di stagione politica. La conseguenza è che per la prima volta a Berlusconi si vuole imporre non solo un candidato scelto in casa sua contro la sua volontà, ma soprattutto un ruolo subordinato nell’alleanza. Anna Maria Bernini è lo strumento più o meno inconsapevole di questa operazione: può fare la sua corsa lungo un sentiero inesplorato ovvero rendersi conto lei stessa dell’opportunità di ritirarsi. Ma le macerie restano. Per cui Berlusconi si trova a dover decidere in fretta cosa fare. La frattura del centrodestra può durare una notte e ricomporsi stamane con qualche cerotto intorno a una terza figura che non sia né la candidata imposta da Salvini né un Paolo Romani sottoposto alla logorante doccia scozzese in cui si riassume il tramonto del vecchio mondo berlusconiano.
Se Berlusconi pensa a ciò che più gli conviene, anziché all’orgoglio ferito, può voltare pagina e convergere su un nome nuovo che avrebbe la strada spianata: ad esempio Elisabetta Casellati.
Viceversa l’anziano leader può denunciare, come ha fatto a caldo, la spaccatura definitiva del centrodestra.
In tal caso ognuno dovrà badare a se stesso in una prospettiva tutt’altro che incoraggiante. Salvini con il suo 17 per cento sarà messo di fronte ai Cinque Stelle che hanno quasi il doppio dei voti, condannato quindi a essere il loro alleato minore (in una combinazione che non avrebbe peraltro i numeri parlamentari per governare). Berlusconi invece sarà spinto ai margini con il suo 14 per cento, non più in condizione di orientare gli eventi e di gestire i suoi interessi.
In genere nell’uomo ha sempre prevalso il pragmatismo, ma è pur vero che la vicenda attuale è senza precedenti.
Limitare i danni oggi significa che a destra tutti devono valutare i pro e i contro della divisione. A Salvini non può piacere di trovarsi a tu per tu con Di Maio se questo vuol dire mettere a rischio, o comunque in grave turbolenza, le alleanze con Forza Italia nelle grandi regioni del Nord. È chiaro che la strategia del leghista consiste nell’assorbire giorno dopo giorno i consensi berlusconiani e lo strappo di ieri rende l’idea in modo plastico. Ma affrettare i tempi, giusto all’inizio di una legislatura che si prevede breve se non brevissima, può essere controproducente.
La politica ha le sue logiche e ignorarle non sempre porta fortuna.
Quanto a Berlusconi, non può non sapere che un ballottaggio fra Romani e Anna Maria Bernini, nel momento in cui rende plateale e non più rimediabile la fine del centrodestra, consegnerebbe di sicuro la vittoria alla seconda, lungo l’asse Lega-M5S. Dopodiché sarebbe un’altra storia, senza che il vertice di Forza Italia — o ciò che ne rimane — sia in grado di inaugurare un “secondo forno” in tempi brevi. Il “forno”, ossia l’alleato alternativo, può essere solo Renzi, l’altro perdente del 4 marzo. Ma non è prevedibile una rapida convergenza fra i resti berlusconiani e il fronte renziano.
Prima occorre immaginare una scissione del Pd che oggi non è alle viste. Quindi i tempi sono sfasati anche per la nascita di un eventuale raggruppamento centrista. Che avrebbe bisogno anche di una legge elettorale adeguata. E qui si entra nel futuribile, mentre la cronaca racconta della guerra lampo di Salvini.

Corriere 24.3.18
Volti sconosciuti (alcuni misteriosi)
Montecitorio, va in scena un mondo nuovo
di Aldo Cazzullo


È un mondo nuovo, non solo per lo sfregio di Salvini a Berlusconi e per la maggioranza Lega-Cinque Stelle che si profila, oggi per la presidenza delle Camere, domani forse per il governo. Entrare a Montecitorio rappresenta un’esperienza straniante: è un Parlamento di sconosciuti. Di facce non solo nuove, ma misteriose. Deputati scelti con 57 clic in rete. Altri designati dai capi partito per la loro presunta fedeltà.
M olti leader in Parlamento non ci sono, e infatti i giochi si fanno altrove: nei vertici a Palazzo Grazioli subito disattesi, sulla piattaforma Rousseau della Casaleggio&Associati, ma anche a Bruxelles, a Berlino, nei luoghi immateriali della finanza e della burocrazia europea, che oggi osserva preoccupata la partita ma domani si farà sentire, condizionando la nascita del governo com’è sempre accaduto anche prima di Monti ed Enrico Letta.
Non sono in Parlamento Berlusconi, Grillo, Davide Casaleggio, Di Battista, D’Alema (che ha provato invano a rientrare), Veltroni, e neppure la Bindi e la Finocchiaro. Entra nel Senato che voleva abolire Renzi, matricola proprio ora che non conta molto più di nulla; torna al Senato Bossi, unico leghista a non partecipare al blitz e a non votare la Bernini, per disperata lealtà verso l’amico Silvio.
Al di là del naturale e salutare ricambio, la legislatura parte con tanti punti interrogativi quanti sono i parlamentari ignoti ai loro stessi elettori. Del resto, i collegi senatoriali raccolgono tra 500 e 600 mila abitanti: troppi perché si crei un legame serio tra il rappresentante e i rappresentati. Erano molto più piccoli i collegi introdotti dal Mattarellum, la legge uscita dal referendum del 1993 con cui gli italiani abolirono il proporzionale e scelsero il maggioritario. Se davvero Lega e Cinque Stelle stringeranno un patto di governo, per prendere alcuni provvedimenti popolari — alleggerire le accise sulla benzina, abolire i vitalizi — e poi tornare al voto con nuove regole, c’è da augurarsi un ritorno alla legge che porta il nome dell’attuale capo dello Stato. L’alternativa è lasciare tutto così, con il rischio di risultati fotocopia, tranne un ulteriore travaso di voti da Forza Italia alla Lega. Oppure introdurre un premio di maggioranza: ma alla coalizione (ammesso che quella di centrodestra esista ancora) o alla lista più votata?
Di sicuro i nuovi parlamentari faranno di tutto per prolungare la legislatura. Ieri in molti, aggirandosi a naso in su tra gli arredi liberty di Montecitorio e di Palazzo Madama, si sono detti: «Quando mi ricapita?». Già, quando ricapita di trovarsi sotto i riflettori, con adeguato stipendio, grazie all’indicazione digitale di qualche amico di Facebook, o al rapporto fiduciario col capo (Berlusconi ha portato in Parlamento tre assistenti, ma gli altri non sono stati da meno)? Faceva quasi tenerezza, vedere i familiari orgogliosi osservare i neofiti dalle tribune, o i figlioletti incravattati pranzare a prezzo politico in mensa. Ma stabilire un rapporto diretto tra elettori ed eletti — sottoposti alla scelta, al controllo e al ricambio da parte dei cittadini — darebbe ai parlamentari un’autorevolezza che ora manca, anche a causa del loro numero, francamente esorbitante.
Ieri si è avuta la dimostrazione plastica che i padroni della Seconda Repubblica, usciti dalle elezioni sconfitti o ridimensionati, non hanno più il pallino in mano; devono attrezzarsi per una lunga maratona, o rassegnarsi a cedere lo scettro. Sarà interessante capire se la presunta Terza Repubblica è in grado di dar prova di una nuova moralità politica davanti agli italiani, se Salvini e Di Maio sanno fare patti nell’interesse di altri, oltre che di se stessi. Un governo capace di prendere provvedimenti economici dettati dalla razionalità anziché dalla demagogia, e di aprire il gioco della riforma istituzionale ed elettorale alle opposizioni, potrebbe avere il sostegno anche delle forze invisibili che hanno già dimostrato la propria influenza sulle cose italiane. Altrimenti pure i vincitori di ieri — che sono gli stessi del 4 marzo — dovranno rendersi conto che l’Italia non è sola al mondo, che i mercati globali e l’Europa esistono, e l’opinione pubblica non firma assegni in bianco a nessuno.

Corriere 24.3.18
Le inedite «larghe intese»
Matteo & Luigi, le nuove larghe intese Embrione di governo per votare presto
Con gli altri divisi, Di Maio andrebbe alle consultazioni da forza di maggioranza relativa
di Francesco Verderami


Eccole le larghe intese. Solo che all’appuntamento con la storia non sono arrivati Renzi e Berlusconi ma Salvini e Di Maio, il vero vincitore della prima sfida giocata sulle presidenze delle Camere. Se oggi conquisterà lo scranno di Montecitorio per il suo Movimento, varrà il modo in cui il leader grillino l’avrà ottenuto: «Senza aver bisogno di Berlusconi».
Più che una questione di stile, era un obiettivo politico: riuscire a completare la missione facendo a meno dei voti del Cavaliere, voleva soprattutto dire esser riuscito a spaccare il centrodestra, separando Salvini dall’alleato. Così Di Maio potrà prepararsi alle consultazioni per il governo come partito di maggioranza relativa, senza più l’equivoco ingombro di un rassemblement che poteva invece presentarsi a Mattarella più forte del Movimento per voti e seggi. Perché è chiaro che Salvini — quando salirà al Colle — rappresenterà solo la Lega e non più l’intera alleanza.
Di Maio ha atteso che il capo del Carroccio consumasse la rottura con Berlusconi con una efferatezza che solo la politica conosce: decidendo in casa altrui. Quello di Salvini peraltro è stato un doppio affronto verso il Cavaliere, siccome gli ha rivolto contro a mo’ di arma proprio il nome della candidata su cui il leader di Forza Italia puntava: la Bernini era infatti la carta coperta di Berlusconi. E Salvini gliel’ha bruciata. È evidente che non sarebbe stata più spendibile, com’è evidente che Di Maio e Salvini avevano calcolato insieme anche questa mossa, lasciando uno spiraglio a una soluzione di mediazione come l’azzurra Casellati.
Ce n’è la prova nel comunicato con cui il leader grillino si diceva disponibile alla Bernini «o a un profilo simile». Ma un compromesso avrebbe sancito la resa di Berlusconi, il suo stato di minorità, il definitivo passaggio di consegne all’alleato: un fatto inaccettabile. Anche la sua reazione era stata messa in conto. E appena l’ex premier ha provato a scartare, Salvini ha reso noto che avrebbe votato per la presidenza della Camera un candidato del Movimento. Ecco il momento della rottura, questo era il punto decisivo: Forza Italia non avrebbe mai potuto sostenere un grillino, senza quel riconoscimento politico di Berlusconi che era stato chiesto a Di Maio.
I dioscuri della Terza Repubblica sono andati a vedere il «bluff» di Berlusconi, che — senza più assi dopo le elezioni — non poteva fare altro: dopo aver chiesto il vertice dei leader, d’intesa con Salvini, per tutta risposta aveva dovuto subire un vertice dei capigruppo voluto da Di Maio, d’intesa con Salvini. E se Salvini ha rotto gli indugi è perché si sente forte nell’area che fu il centrodestra: al Sud l’ex ministro De Girolamo racconta di «un fuggi fuggi» di dirigenti locali verso il Carroccio, al Nord il capo della Lega controlla quasi tutto il territorio, in Lombardia ha imposto al neo governatore Fontana di tenere appesi gli alleati per le deleghe al Pirellone, in Friuli ha appena strappato la candidatura per il suo Fedriga. C’è qualche azzurro che pensa di minacciare le sue giunte regionali?
Ognuno per la propria parte il capo del Movimento e il segretario della Lega hanno deciso di trasformare Forza Italia e Pd nel loro terreno di caccia. Le larghe intese sulle cariche istituzionali sembrano infatti prefigurare un accordo politico per una breve tregua: giusto per cambiare la legge elettorale, renderla nuovamente maggioritaria e sfidarsi poi per Palazzo Chigi. Gianni Letta vede avverarsi la sua tetra profezia: «Andranno al ballottaggio». Certo, Salvini dovrà accettare il ruolo dello junior partner con Di Maio, e immagina anche un passaggio all’opposizione nella prossima legislatura, quando l’alleato di strada diventerà l’avversario.
Quel passaggio — nelle sue proiezioni — gli servirà per strutturare qualcosa che non sarà più il centrodestra ma un Pdl 2.0, introiettando gli alleati di oggi in attesa di farne polvere domani. Salvini punta a ricostruire a sua immagine e somiglianza ciò che Berlusconi aveva distrutto perché il centrodestra rimanesse a sua immagine e somiglianza.
Ognuno trae interessi da questo accordo di sistema. Di Maio nel suo campo aveva già organizzato tutto: se si tornerà al voto entro un anno, nel Movimento non verranno rifatte le «parlamentarie», deputati e senatori saranno automaticamente ricandidati e sulla regola del doppio mandato prevarrà la deroga, così potrà lui ricandidarsi.Ecco le nuove larghe intese, che preludono a un nuovo bipolarismo. Si vedrà se Di Maio e Salvini saranno i fondatori della Terza Repubblica, di certo la sfida sulle cariche istituzionali era una sfida politica. E l’obiettivo era «fare a meno di Berlusconi».

Repubblica 24.3.18
Foto e disciplina nell’aula gialloverde delle matricole
Pd e Leu siedono in uno spicchio bonsai
Gli eletti dei Cinquestelle stavolta vestono come boiardi di Stato mentre la Lega è un’orchestra perfetta
La malinconia dei reduci.  E Gasparri immortala “chi c’era nel 1992”
di Alessandra Longo


ROMA Piccoli piccoli, quasi rannicchiati nei loro scranni. Bersani e Speranza alla Camera con altri 12, Vasco Errani e Loredana De Petris al Senato con un comitato ancora più ristretto. Fotografia impietosa del primo giorno della diciottesima legislatura. Le truppe di Liberi e Uguali sono queste: 14 a Montecitorio, 4 a Palazzo Madama. Nel conteggio sono inclusi i due ex presidenti delle Camere, Boldrini e Grasso, scesi dall’Olimpo, uguali fra gli uguali.
I posti non sono ancora assegnati, come per i biglietti low cost di Ryan Air. Ognuno può mettersi dove vuole. Ma la sinistra va a sinistra inseguendo l’istinto. Quelli di Leu, e subito accanto il Pd dimezzato, mutilato. Uno spicchietto infimo dell’emiciclo, l’immagine plastica e crudele dello tsunami elettorale, anche se poi Renzi gigioneggia al Senato come se non fosse successo nulla di tragico. Però, basta guardare le centinaia di scranni destinati a Lega e Cinque Stelle. Un Parlamento di neofiti per più del 60 per cento, ad alto tasso populista-sovranista. Il colpo d’occhio è molto diverso dalla precedente legislatura quando i giovani grillini arrivarono con gli zainetti, le magliette No Tav, e non applaudivano beffardi i passaggi istituzionali.
Neodeputati e neosenatori ora vestono come consumati boiardi di Stato. Solo qualche selfie da mandare agli amici, per il resto stile sobrio, disciplina ferrea. Al Senato i leghisti sono un’orchestra (nelle riunioni preliminari hanno dovuto abbandonare i cellulari nel guardaroba e rinunciare persino al bagno). Compattezza dimostrata subito con il voto alla Bernini. Pensare che Renato Brunetta aveva dettato il pronostico: «Fino a domani non succede nulla». Come se la ride adesso Calderoli, in scarpe da ginnastica. E quanto trafficano con i telefonini gli altri, spiazzati dalla mossa di Salvini. L’ormai leader assoluto del centrodestra passa per votare davanti a Renzi, circondato da Cirinnà, Fedeli e Pinotti. «Ti presento un pezzo di vera opposizione», gli dice l’ex premier. Piacere mio, risponde Matteo il sovranista, top player della giornata.
Riti surreali della politica. Il premio Nobel e senatore a vita Carlo Rubbia non capisce, non condivide: «Una giornata persa.
Per fortuna ho mangiato bene dalla Gina».
A Montecitorio, una volta i capannelli erano tutti per Berlusconi, ora le telecamere inseguono Emilio Carelli, star del M5s. Non ci sono più Rosy Bindi, né Gianni Cuperlo, resiste invece Nico Stumpo, ora Leu, che si prende anche due voti nel segreto dell’urna («Io non mi sono votato», precisa). Nichi Vendola, ospite, si aggira rabbioso in cappotto pensando alla Puglia di Emiliano: «È un pusillanime che non si prende mai una sola responsabilità».
Fende la ressa Renata Polverini, con tutore e stampelle. È inciampata in una buca della capitale. No, non c’è la leggerezza del primo giorno di scuola. «Che malinconia», confessa Beatrice Lorenzin ad Andrea Orlando, tutti e due ministri in uscita. Sull’onda dei ricordi Maurizio Gasparri, che pure non è un romantico, organizza al Senato la foto di chi c’era nel ‘92. Sorridono per l’obiettivo La Russa, Casini, Napolitano, che tiene sotto braccio Bossi, e Calderoli. Assenti ingiustificati Marcucci e Bonino.
L’album di famiglia è cambiato, per sempre. Riecheggiano pochi cognomi della storia politica passata. Ecco Stefania Craxi, senatrice. «Craxi presente», scandisce l’ufficio di presidenza.
Vota Isabella Rauti, Fratelli d’Italia. «Rauti presente!». E lei: «Penso a mio padre. Sono commossa». Dispiace molto ad Antonio Razzi non essere più della partita: «Se qualcuno penserebbe che non mi manca il Senato si sbaglia».
Casini, ormai insediato a Palazzo Madama, svela cosa gli è successo a Bologna: «Dovevo andare alla Casa del popolo e ho sbagliato piano. Sono finito, nello stesso edificio, ad una riunione di condominio». Risate. Intanto, nelle stesse ore, Salvini nel retropalco prepara il coup de theatre. E il Pd, chiuso nel suo spicchio bonsai di emiciclo, in condominio fisico con i compagni di Leu, sta a guardare.

Corriere 24.3.18
Calderoli e gli insulti a Kyenge «Potrà essere processato»


Non può godere dell’«insindacabilità» concessagli dal Senato Roberto Calderoli, che nel 2013 insultò l’allora ministro dell’Integrazione Cecilia Kyenge, chiamandola «orango». Lo ha deciso la Corte costituzionale, accogliendo il ricorso del Tribunale di Bergamo che aveva sollevato il conflitto di attribuzione nei confronti del Senato, in relazione alla deliberazione con cui l’assemblea di Palazzo Madama aveva affermato che le opinioni del senatore erano «espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni» e, dunque, «insindacabili». Kyenge — queste le parole del senatore — «sarebbe un ottimo ministro, ma dovrebbe esserlo in Congo non in Italia»; Calderoli aveva poi attribuito «sembianze di orango» alla ministra. Le opinioni espresse da Calderoli, rileva la Consulta, non hanno «alcun nesso funzionale con l’esercizio dell’attività parlamentare» .

il manifesto 24.3.18
A sinistra si è perso l’attimo, il futuro è nella Carta
di Gaetano Azzariti


Un popolo è scomparso. Non un popolo astratto, bensì persone reali, vive e impegnate. Tutti quegli individui che – per discutere del futuro della «loro» costituzione – sono uscite dal torpore casalingo, dall’isolamento televisivo o da quello virtuale dei social.
Cittadini della Repubblica che hanno riempito le sale, intervenendo in discussioni pubbliche, con la voglia di comprendere e, infine, si sono schierate. Non più indifferenti, non solo rabbiosi, ma partecipi di una impresa collettiva.
Contro le tendenze di estraneazione in atto da tempo, un popolo è sceso in campo, si è riconosciuto ed ha assunto coscienza di sé. L’esito del referendum ha, da ultimo, dimostrato la forza della partecipazione attiva: per i cittadini è ancora possibile concorrere a determinare la politica nazionale, magari contro la volontà dei partiti maggioritari, in nome del popolo sovrano, nelle forme e nei limiti della costituzione.
È stata un’esperienza straordinaria, che è riuscita a dare nuova vita ai luoghi smorti della politica tradizionale, riempendo le sedi di partito e dei circoli associativi, affollando come mai prima le assemblee nei posti di lavoro e nelle università, gremendo teatri e occupando spazi aperti. Lunghi e appassionati confronti ove – spenti i cellulari e abbandonati i twits – si sono potute formare opinioni consapevoli, scuotere coscienze, ribaltare preconcetti e luoghi comuni.
Se ora si torna sui propri passi, in quei stessi luoghi si ha l’impressione di una festa finita: qualche manifesto invecchiato gettato per terra e pochi ostinati militanti che si attardano a discutere non si sa più bene di che.
Credo che ci si debba interrogare sulle ragioni della scomparsa dalla scena di queste persone reali. I giovani curiosi sono tornati su facebook, gli altri insofferenti dinanzi alle televisioni. Tutti a casa, dove basta un click per scaricare la propria tensione individuale, ma senza più una passione comune.
È trascorso solo un anno e il giorno delle elezioni le forze organizzate della sinistra sono state sconfitte. Hanno perduto elettori, ma soprattutto se stesse, perché non sono riuscite a proseguire il dialogo con un popolo che pure era venuto a cercarle. Una vasta comunità di donne e uomini concreti ha chiesto, ma non le è stato risposto; ha interrogato una cultura di sinistra (radicale o moderata che fosse) che era troppo impegnata a litigare, dividersi, accusarsi o riciclarsi.
A sinistra s’è perso l’attimo, non poteva che finire così. In questo modo si spiega anche perché a capitalizzare la nostra battaglia di ragione e di progresso siano stati altri: quelle forze che hanno combattuto la riforma costituzionale sul fronte dell’illusione populista. Ora si dovrà comunque ripartire. Più affaticati, ma indomiti, non fosse altro perché – come ci ricorda Walter Benjamin – le macerie del presente non possono arrestare il vento del progresso.
Marciare ancora, ma per andare dove? Con quali obiettivi? Se vogliamo imparare dalla piccola storia che è alle nostre spalle, la risposta ad entrambe le domande viene da sé. Andare in quelle case che si sono da poco richiuse per provare a riprendere il dialogo interrotto sulla «nostra» costituzione e sulla sua capacità di rappresentare un obiettivo comune per il quale vale la pena lottare. Cercare di nuovo quelle persone vive e impegnate con cui ci siamo incontrati e con cui, assieme, abbiamo sentito il dovere (forse anche il piacere) di uscire per strada nel momento in cui abbiamo avvertito come una minaccia la manomissione che si voleva compiere ai danni della costituzione democratica e pluralista.
La sfida è quella di tornare alla costituzione per provare a cambiare la vita delle persone, per discutere del bene comune, dei diritti concreti e dei poteri reali, non più esclusivamente dei propri affari privati, non più solo di persone, partiti o fazioni, non più solo di sé, bensì anche degli altri. Immaginare un futuro diverso nel nome della costituzione è possibile. Le idee non mancano, semmai il problema siamo noi. Le nostre deboli forze, i nostri smacchi, la nostra paura di metterci in gioco. Il timore di uscire allo scoperto, per cercare ancora.

Repubblica 24.3.18
L’intervista. Dov’è finita la Sinistra
Arturo Lorenzoni, vicesindaco di Padova
“Che sia un marciapiede o un’idea dobbiamo ripartire dalla bellezza”
di Concita De Gregorio


Quando non è in giacca e cravatta, nella sua tenuta da prof, Arturo Lorenzoni sembra subito di nuovo l’apertura delle giovanili del Petrarca: polo e palla ovale sottobraccio, sorriso solidale, a chi bisogna dare sostegno oggi, dai ragazzi, c’è un compagno da mandare in meta. Solo più stempiato, certo: 50 anni. «Ho imparato tutto lì. Quello che non so dai libri l’ho imparato sul campo dei gesuiti, il Tre Pini. Che oggi non c’è più, ma io quando devo ragionare torno a sedermi qui, su questa panca».
In meta l’anno scorso è andato lui. Nuovo alla politica, ha preso il 22,8 per cento dei voti.
Lista: Coalizione civica. Oggi fa il vicesindaco di Sergio Giordani, Pd, che in campagna elettorale ha avuto un ictus e ha vinto (non solo, ma anche) grazie all’onda emotiva di sostegno popolare. A Padova.
Un ictus. In campagna elettorale. Non c’è stato chi non abbia pensato a Berlinguer.
Lorenzoni è di sinistra, ma non viene dal Pci. «Ho votato sempre a sinistra, sì, anche radicale qualche volta, ma sempre una sinistra cattolica».
È ingegnere, insegna Economia dell’energia all’Università di Padova. Due bisnonni in politica. Padre liberale.
Consulente di Confindustria, Enel, Cariplo. Per il rettore: delegato ai rapporti con la Cina. Per la Diocesi: nel comitato scientifico della Fondazione Lanza. La moglie Anna lavora in uno studio di commercialisti. Un uomo di sistema, votato in massa dai giovani dei centri sociali (a Padova c’è il Pedro, più antico del Leoncavallo. C’è radio Sherwood), dal mondo cattolico della finanza e del volontariato, dalla borghesia delle professioni.
È come se l’avessero votata, in una sola famiglia, il padre avvocato democristiano, la madre preside comunista, il figlio ribelle antagonista e lo zio prete.
«Effettivamente», ride.
Come ha fatto?
«Abbiamo allargato molto l’area del consenso concentrandoci su alcuni contenuti. Le priorità di programma erano: innovazione, inclusione sociale, sostenibilità ambientale e bellezza».
Bellezza, ha scritto nel suo programma politico?
«Certo. Aspirazione alla bellezza come cura del bene comune. Si è belli solo insieme. Dentro la bellezza che sta fuori. Tutta la storia d’Italia è costruita sulla bellezza. Se lasciamo quella priorità perdiamo la nostra identità. Da un marciapiede a un’idea urbanistica. Ma anche la bellezza di un edificio che non consuma energia, neutrale. La bellezza dà lavoro. Investire in bellezza impegna competenza, innovazione».
Mi racconta dei suoi bisnonni?
«Quello materno, Pasquale Colpi, veniva da una famiglia di Asiago, erano imprenditori del formaggio. È stato due volte sindaco di Padova, per la destra.
L’altro, quello paterno, amministrava terreni. Fu deputato nel primo parlamento dell’Italia Unita. Lorenzo Lorenzoni. Anche mio padre Luigi ha fatto politica negli anni Settanta, da liberale: era un gruppo di professionisti, avvocati e giornalisti da cui poi, negli anni ’90, è uscito Giancarlo Galan».
Un liberale negli anni Settanta a Padova… Se li ricorda quegli anni? Era molto giovane.
«Ero alle medie. Ricordo i miei fratelli più grandi che dicevano “andiamo a vedere la guerra in centro”, mia madre disperata metteva il divieto di uscire.
Gambizzavano i professori amici di famiglia. Io sono arrivato al liceo dopo il delitto Moro. Era già cambiato tutto. Ma la ferita di quegli anni in città è ancora aperta. Periodicamente qualcuno va a imbrattare le lapidi. Qui la contrapposizione fra destra e sinistra è ancora molto forte».
Eppure lei ha tenuto insieme una coalizione che va dai centri sociali a Forza Italia, ed è stato votato soprattutto da chi ha meno di quarant’anni. Ha assorbito anche i voti Cinquestelle.
«Forza Italia nella sua frangia liberale, quella che non poteva più convivere con la Lega.
Padova ha sofferto molto la guida leghista che lavorava sul conflitto. Si erano tanto inaspriti i rapporti. Da li è maturata l’idea che qualcuno di mondi ancora non coinvolti nella gestione politica di governo dovesse scendere per dare contributo».
È maturata in chi? Dove?
L’ex sindaco Zanonato e il Pd sostenevano Giordani.
«Amici diversi. Del rugby, dell’università. Ci si trovava la sera al pub Berlino, intorno a una botte. A Bologna era nata Coalizione civica. La giunta leghista qui intanto era stata sfiduciata. Il limite della sinistra tradizionale è sempre stata questa corsa all’esclusione: se ce lui in lista non ci sono io. Come succedeva da ragazzi negli inviti alle feste: prima dimmi chi c’è.
Una sinistra che continua a rompersi in mille rivoli che la rendono irrilevante. C’è sempre un trascorso, una storia passata che condiziona. Allora a un certo punto bisogna dire fuori tutti.
Bisogna mettere su carta le priorità condivise: quattro idee, un programma. Va bene anche uno che non è nessuno. Va bene anche Lorenzoni».
Torniamo ai centri sociali.
Hanno votato Coalizione civica.
«È verosimile. Alcuni, non tutti.
Molti giovani comunque, sì.
Abbiamo fatto un grande lavoro assembleare, ancora lo facciamo. Scrivere un programma insieme, identificare le esigenze. Anche i ragazzi che hanno un po’ di allergia alle regole si sono sentiti parte di un processo. Sono comunque fuori dal governo, non partecipano, ma c’è dialogo. Ciascuno ha i suoi mal di pancia, figuriamoci. D’altra parte cosa avevamo sul tavolo?
Complessivamente c’è stata molta determinazione: bisogna accendere i cuori, bisogna entusiasmare. Avere a cuore quello che la gente chiede».
E ha convinto anche la borghesia.
«Qui c’è una grande tradizione di impegno nel sociale, che è anche la mia storia. E di didattica, di studio. Per esempio: avevamo in lista con noi due o tre presidi di scuole superiori che gestiscono le scuole con intelligenza, conosciuti e apprezzati dalle famiglie. Contano sempre le persone di cui ti fidi, alla fine».
Cosa ha portato il Pd nazionale a un cosi misero risultato?
«Il Pd ha fatto prevalere criterio di appartenenza a quello di progettualità. Non ha trovato tre punti forti su cui entusiasmare».
Renzi sembrava aver entusiamato, al principio.
«Anche a me Renzi all’inizio piaceva molto, ma ha un ego troppo grande e non ha saputo moderarsi. Quando si governa l’interesse generale deve sempre prevalere sul proprio interesse: non esiste trucco per evitare che la gente si accorga che stai pensando più a te che a loro.
Però bisogna stare attenti: il Partito democratico rimane un attore imprescindibile. Uno dei problemi della sinistra è la costante rivalsa nel confronti del Pd. Il bisogno di segnalarsi come diversi. In questo la legge elettorale ha dato un colpo terribile: le modalità in cui vengono individuate le liste, era così visibile la lotta di potere».
Come legge il voto nazionale?
«A Nord ha lavorato la paura, a Sud il reddito di cittadinanza ha fatto la differenza. Hanno detto caspita, fantastico. Nessuno aveva un progetto che entusiasmasse. Ha prevalso la ricerca della sicurezza: economica, personale».
Comprensibile, dove c’è incertezza economica.
«C’è una parte della società, a Padova come in tutta Italia, molto conservatrice. Ogni cosa nuova spaventa. Cominciare un po’ a ragionare per rifondare il mondo democratico di questo paese è essenziale. Ragionare: cioè analizzare, studiare, comprendere. Mettere a frutto la conoscenza, generarne di nuova. Non servono persone abili e scaltre, servono persone dedite e competenti. Bisogna rigenerare la fiducia».
Come?
«Non lo so in assoluto. So come ho fatto io: ascolto, condivisione, cura. Bisogna ritrovare l’entusiasmo di un progetto. Ne dico uno: la sostenibilità (ambientale, economica) può diventare una guida per la crescita, l’inclusione. Può dare lavoro e costruire bellezza».

Repubblica 24.3.18
Bruxelles e Ankara
Se la Ue paga le armi della Turchia
di Marco Ansaldo


Sì all’erogazione alla Turchia della seconda tranche di fondi — altri 3 miliardi di euro — per contenere e aiutare i migranti che premono alla frontiera d’Europa. Ma con l’obbligo per Ankara, condannata per le «azioni illegali nel Mediterraneo e nel Mar Egeo», di «rispettare la legge internazionale e i rapporti di buon vicinato, normalizzare le relazioni con tutti gli Stati membri inclusa Cipro», invitandola a «una soluzione veloce e positiva delle questioni attraverso il dialogo». Insomma, un buffetto sulla guancia per Recep Tayyip Erdogan quello dato dal Consiglio europeo appena concluso a Bruxelles. Un gesto fatto di parole anche ferme, comunque respinte da Ankara che strilla di «critiche inaccettabili», ma recepito in realtà dai turchi come lieve rispetto all’entità della somma che sta per arrivare nelle loro casse.
Nessuno ha dubbi che da quando l’intesa è entrata in vigore nel 2016 il fenomeno migratorio sia stato, a ragione o no, fermato. E che per molto tempo la Turchia sia stata lasciata sola a gestire una massa di profughi, in maggior parte siriani, che di anno in anno si sono riversati sul suo territorio raggiungendo ora la ragguardevole cifra di 3,8 milioni.
In un Paese di nemmeno 80 milioni quei rifugiati significano addirittura il 5 per cento in più degli abitanti. Nessuno Stato ha mai sopportato un peso simile.
Le perplessità riguardano piuttosto la certezza sulla gestione di questo enorme flusso di danaro sborsato dai singoli Stati europei. L’Italia, ad esempio, è chiamata a versare 225 milioni di euro. L’inchiesta de L’Espresso, svolta con un pool investigativo internazionale, rivela che l’Unione europea ha già dato alla Turchia quasi 100 milioni di euro per comprare mezzi corazzati. Lo ha fatto nel pieno controllo delle frontiere, dotandosi dei fondi anti-profughi, ma Bruxelles non è in grado di sapere se questi mezzi — a prova di mina e dotati di apparati per stanare i cecchini — siano stati per caso usati nella presa di Afrin, l’enclave curda in Siria conquistata dall’esercito turco.
Uno di questi contratti risulta assegnato alla fabbrica bellica di un parlamentare del partito conservatore di origine religiosa fondato da Erdogan.
Proprio in questa area Ankara ha in mente due fasi. Da un lato, far tornare i profughi siriani, riportandoli nelle zone liberate militarmente, come in quella appena sgomberata di Afrin e nelle altre città in procinto di essere attaccate.
Dall’altro, proseguire la guerra contro i gruppi che considera terroristi (le unità curde) e jihadisti, rafforzando le milizie siriane ribelli sue alleate.
Una determinazione che la sta portando a stracciare l’altolà americano sull’intoccabilità dei combattenti curdi, ritenuti da Washington invece essenziali (vedi Kobane) nella lotta all’Isis.
Bene allora ha detto al vertice il premier greco Alexis Tsipras: «Dobbiamo essere molto diretti con la parte turca sui loro obblighi, specialmente sul rispetto della legge internazionale». La riunione di Bruxelles si sposta adesso lunedì a Varna, sul Mar Nero, nella Bulgaria presidente europea di turno, con il summit diretto fra Ue e Turchia e la definitiva luce verde all’erogazione della somma pattuita.
Erdogan annuncia la sua presenza e già batte cassa: «Non continuate a ritardare, dateci i soldi». Il mantra che risuona ad Ankara è pacta sunt servanda. Giusto.
Però occorre vincolare il Sultano non con semplici parole, ma con i fatti, costringendolo a impegni concreti e soprattutto verificabili. Arrivando magari a usare gli stessi codici comportamentali e un atteggiamento altrettanto duro. Pena il non rispetto, dalla controparte turca.

Repubblica 24.3.18
Il nuovo Consigliere per la Sicurezza nazionale
Bolton, il falco dell’America
di Vittorio Zucconi


Trump ha scelto un piromane per fare la guardia alla raffineria nucleare americana. John Bolton, il settantenne incendiario della destra più bellicosa, che vede nella guerra la soluzione di tutti i problemi e sogna di bombardare subito la Corea del Nord e l’Iran, è il nuovo Consigliere per la Sicurezza nazionale chiamato dal presidente a essere colui che affianca, consiglia e guida il Comandante supremo nelle decisioni di vita o di morte più delicate. È seduto al posto che nel film di Kubrick occupa il dottor Stranamore.
«La nomina di Bolton non deve preoccupare, deve terrorizzare» ha commentato il senatore democratico del Connecticut Chris Murphy e dietro l’iperbole politica di un oppositore di Trump c’è il curriculum di un fanatico che in tutta la sua vita e la sua lunga carriera nel governo e nelle fondazioni private ha sempre predicato l’uso della forza, senza curarsi delle conseguenze. Ieri, mentre si spargeva la voce che Bolton avesse “rinunciato” al proposito più volte ripetuto di attaccare la Corea del Nord e di raccomandare altre operazioni militari, lui stesso ha immediatamente smentito: «Non ho mai detto al presidente che non intendo suggerire di fare guerre». La guerra è l’orizzonte culturale e ideologico del “tricheco” come è stato soprannominato per i suoi baffoni, un tricheco mannaro.
Fanatico oltre i confini della realtà, ancora oggi accanito difensore della catastrofica invasione dell’Iraq alla caccia di inesistenti armi di distruzione di massa che pure Trump aveva condannato in altre epoche, cieco di fronte all’evidenza di fatti che contraddicano le sue opinioni — sostiene ancora oggi che quegli arsenali esistevano — il pilastro delle sue convinzioni è che gli Stati Uniti abbiano il diritto di intervenire militarmente dove e quando vogliono, incuranti delle conseguenze. Come tutti i “falchi” in abiti civili, che non hanno mai visto altre guerre che in televisione e dunque non ne conoscono i rischi e i costi umani, anche questo signore dall’aria ingannevolmente mite e paterna, gioca dal caldo del proprio ufficio un risiko nel quale loro non rischiano niente.
Prodotto del gruppo di nazionalisti ultraconservatori, i neocon che nella prima decade del Duemila infestarono e dominarono la politica estera di George W. Bush fino all’avventura irachena, Bolton sarà la persona che più di ogni altra frequenterà lo Studio ovale, il primo che lui incontra al mattino e l’ultimo che lascia alla sera. Trump lo ha scelto, al posto del severo generale Mc-Master, ultimo caduto di una Casa Bianca dove funzionari e assistenti volano ogni giorno come le poetiche foglie sugli alberi d’autunno, perché gli è simpatico, gli piace sul piano personale, perché ne ammirava le tirate polemiche soprattutto anti Obama — l’ossessione del presidente — dagli schermi della Fox News, l’universo asfissiante e fazioso nel quale il presidente respira quotidiane boccate di aria tossica per auto gratificarsi.
Dunque colui che vedrà Trump molto più della sempre più algida e lontana First Lady, colui che sussurrerà all’orecchio di un immaturo settantenne che subisce scarti d’umore da adolescente in preda a tempesta ormonale, è un teorico della guerra continua, dello sparare prima e poi vedere. Dagli studi della Fox, dalle pagine dei quotidiani ai quali manda i suoi esplosivi editoriali, ha invocato « cambio di regime » in Iran, la formula classica dei neocon che tanti effetti sciagurati ha prodotto nel mondo arabo, e annullamento del trattato per il controllo del riarmo atomico. Ha disegnato una tripartizione del problema palestinese risolto affidando la Striscia di Gaza all’Egitto, quello che resta dei Territori alla Giordania e cancellando ogni ipotesi di Stato sovrano per i palestinesi. Chiede da mesi un massiccio bombardamento della Corea del Nord, ignorando le stime del governo di Seul e del Pentagono che calcolano in 20 mila i morti soltanto nel primo giorno, in Corea del Sud per le rappresaglie del Nord. E questo mentre il suo nuovo boss — Trump — annuncia inaspettatamente l’incontro in maggio con Kim Jong- un, nel solito groviglio di contraddizioni che confonde questa amministrazione americana.
La nomina di un incendiario a guardia dell’arsenale nucleare, nella carica che Truman volle nel ’ 47 proprio per controllare senza consultazioni o approvazione del Parlamento, che non deve occuparsi della poltrona di Stranamore, le scelte di guerra o di pace, sta gettando nel panico anche la destra repubblicana più lucida, quella che si era illusa di essersi sbarazzata dell’ala allucinata del trumpismo con la cacciata di Steve Bannon, il deposto Rasputin della campagna elettorale. Bolton è un Bannon a mano armata, un guerriero che come tutti i guerrieri da scrivania evitò con cura di combattere, sfuggendo alla leva in Vietnam e che sogna una quotidiana sinfonia di bombe, missili, rovine, per affermare la potenza inarrestabile e incontrollabile dell’America, in un grande continuo incendio apocalittico. Lui figlio di un vigile del fuoco di Baltimora.

il manifesto 24.3.18
Pechino risponde ai dazi Usa colpendo la «base» di Trump
La guerra dei dazi. Sanzioni per 128 prodotti. Colpita l’agricoltura americana, cuore elettorale di «The Donald». Rischia grosso anche Apple
di Simone Pieranni


Da buona prima partner commerciale degli Stati uniti, la Cina non poteva certo rimanere immobile di fronte ai dazi decisi da Trump contro molte merci cinesi.
COSÌ, NELLA MATTINATA DI IERI, Pechino ha fatto sapere di avere già deciso una prima contro-mossa, andando a colpire 128 prodotti statunitensi con diversi tipi di sanzioni.
Si tratta di una prima risposta: forse Pechino aspetterà di tornare a discutere con Trump – di cui ha sofferto una decisione «unilaterale» – prima di optare per altre decisioni; la Cina infatti ha parecchie frecce al suo arco, a cominciare dal debito americano, per proseguire con la possibilità di rendere molto difficile il mercato cinese ad aziende statunitensi (pensiamo alla Apple).
NEL PRIMO MAZZO di prodotti americani sanzionati sono finiti per lo più merci derivanti dall’agricoltura. In un colpo solo la Cina fornisce una sberla di circa tre miliardi di dollari agli Usa e va a provocare le corde di quel mondo agricolo che ha contribuito non poco – insieme alle zone più industriali a rischio dismissione – all’elezioni alla presidenza di Donald Trump.
QUELL’AMERICA rimasta colpita dalla globalizzazione, così desiderosa di eleggere un presidente protezionista, sperimenterà questa guerra commerciale avviata dal «loro» presidente.
Anzi, viene colpito proprio un settore che, solo un anno fa, era stato esaltato da Trump come motore di una nuova relazione con la Cina, ovvero la produzione americana di carne. Cina e Usa avevano infatti stretto un accordo, proprio per diminuire il disavanzo commerciale Usa, per esportare in Cina la carne. E
ORA PECHINO ha imposto di tasse al 25% su otto prodotti, tra cui proprio l’importazione di carne di maiale. Ugualmente ha fatto sull’ alluminio riciclato. Colpiti con diversa sanzione, al 15%, altri cento prodotti tra cui frutta, il vino e i tubi di acciaio. Insomma siamo solo all’inizio delle danze, perché è ipotizzabile che a breve Pechio potrà irrigidire i controlli sdi sicurezza alimentare e sanitari su altri prodotti e procedere poi a sanzionarne altri.
Si è parlato dei Boeing, che da tempo la Cina pare voler sostituire e altre merci. In generale la Cina sembra voler rispondere colpo su colpo nonostante i tentativi di apertura provati fino a pochi minuti precedenti alla decisione di Donald Trump.
NON SOLO DAZI, però, perché le parole utilizzate ieri dal presidente americano a proposito del disavanzo commerciale con la Cina non hanno convinto tutti. Citando i dati forniti da economisti cinesi, il ministro del Commercio cinese, Zhong Shan ha sostenuto che il disavanzo commerciale annuo degli Stati uniti nei confronti della Cina sarebbe inferiore del 20 per cento a quanto affermato da Washington.
Lo scorso anno gli Usa hanno riportato un deficit commerciale di 375 miliardi nei confronti della Cina: una riduzione del 20 per cento farebbe comunque di quello con la Cina il deficit commerciale più vasto dell’economia Usa. Il ministro del Commercio cinese ha poi specificato che parte dello squilibrio commerciale agli ostacoli imposti da Washington alle esportazioni di prodotti tecnologici come supercomputer e materiali avanzati verso la Cina. Il governo Usa, invece, afferma da sempre, nell’era Trump, che quelle esportazioni ridurrebbero lo squilibrio commerciale di pochi punti commerciali, al costo però di possibili minacce alla sicurezza nazionale statunitense. Scatenato sul tema il quotidiano ultra nazionalista cinese, Global Times. Anche sulle sanzioni la sua posizione è irriducibile: «Washington dovrebbe abbandonare l’idea che la Cina si ritirerà in questa guerra commerciale, perché non troverà bandiere bianche a marcare la resa della Cina».

Repubblica 24.317
Dietro le quinte
Monaco 1938. Salvate il soldato Chamberlain
È venuta l’ora di mostrarsi più solidali con lui, rivedendo la narrazione churchilliana
Lo scrittore ricostruisce le fasi che portarono all’accordo sul destino della Cecoslovacchia. E assolve l’allora premier inglese accusato (ora anche in libri e film) di essersi piegato alle volontà di Hitler
di Robert Harris


All’interno del Führerbau, come veniva chiamato il monumentale edificio in pietra bianca nel centro di Monaco, due scalinate gemelle in marmo rosso salgono alla galleria del primo piano. Un pesante portone conduce allo studio del Führer. In fondo alla stanza, ampia e cupa, con le pareti in boiserie, c’è ancora il camino in mattoni davanti al quale il 29 settembre 1938 Hitler e Mussolini discussero con Neville Chamberlain e il primo ministro francese Edouard Daladier, del destino della Cecoslovacchia.
A due chilometri di distanza l’appartamento di Hitler, al secondo piano di un palazzo elegante, mantiene i pavimenti in parquet, le porte, gli infissi e le scaffalature originali del 1930. Il Führerbau oggi è una scuola di musica. Di rado in un luogo ho avvertito la presenza di tanti fantasmi, era come se i protagonisti della drammatica conferenza di Monaco fossero appena usciti dalle stanze.
Lo storico John Lukacs ha intitolato Il Duello il suo eccellente saggio su Churchill e Hitler nell’estate del 1940, ma i due in realtà non si incontrarono mai. Il vero duello fu tra Hitler e Chamberlain, che si incontrarono in tre occasioni e che si detestavano cordialmente. Lo storico Joachim Fest osservava nel suo diario: «Albert Speer ci raccontò che, dopo la conferenza di Monaco del 1938, Hitler fu di cattivo umore per parecchi giorni e, contro ogni sua abitudine, dava sfogo gratuito alla rabbia.
Ovviamente nessuno osava chiedergliene il motivo e lui da parte sua taceva… Pian piano emerse che Hitler aveva l’impressione che l’atteggiamento conciliante delle altre potenze lo avesse depredato di una reale vittoria. Quindici giorni dopo, in un consesso ristretto, disse che era stato ingannato e non solo dalla codardia dei britannici e dei francesi. I tedeschi tergiversando si erano fatti infinocchiare. “I nostri cari tedeschi!” aggiunse amareggiato. “E proprio da quel Chamberlain!”».
È difficile ancora oggi negare il mito consolidato e convincere il pubblico che Hitler considerava l’accordo di Monaco un raggiro, addirittura uno smacco. Ma la realtà è evidente. Sorprende che tuttora non venga riconosciuta a Chamberlain la parte avuta nella vittoria britannica. Lungi dal corrispondere alla caricatura popolare che lo voleva debole, l’uomo con l’ombrello, il primo ministro britannico era a suo modo presuntuoso, cocciuto, dispotico, misterioso e messianico quanto Hitler.
Avvertito nel 1938 dai vertici dei servizi segreti che una seconda guerra mondiale avrebbe segnato la fine dell’Impero Britannico, e consapevole che, se la Germania avesse invaso la Cecoslovacchia, le opportunità di evitare il conflitto si sarebbero ridotte in modo drastico, scelse la strategia del faccia a faccia con Hitler.
Chamberlain si recò in volo a incontrare Hitler per la prima volta il 15 settembre. A Hitler chiese di esporgli le sue rivendicazioni nei confronti dei cechi e il Führer ne diede approfondita notifica, ricevendo da Chamberlain la promessa di tenerne conto e di fare il possibile. Nelle successive due settimane, Hitler – che puntava alla guerra, non al negoziato – cercò di liberarsi dall’amo cui aveva abboccato. Alzò la posta imponendo una scadenza irrealistica. Di fronte a un’assemblea di 15.000 fedelissimi, il 26 settembre a Berlino si scagliò farneticando contro il perfido governo di Praga. Ma il divario tra le rivendicazioni avanzate da Hitler nei confronti dei cechi e le concessioni che questi si dichiararono disposti a fare su pressione di Chamberlain era minimo, al punto che persino i falchi come Goebbels ammisero che l’invasione non poteva essere giustificata. A malincuore il Führer rinviò la mobilitazione e acconsentì al negoziato. Per dirla con Gerhard L. Weinberg, esimio studioso di quel periodo, «Hitler si ritrovò in trappola, costretto ad accontentarsi di ciò che aveva rivendicato, invece di ottenere quello che realmente voleva».
Chamberlain giunse a Monaco il 29 settembre, accolto come un eroe, in piena Oktoberfest.
Davanti all’hotel del primo ministro britannico si erano radunate decine di persone, trattenute da un cordone di camicie brune. Una banda di ottoni bavarese intonava un motivo popolare britannico The Lambeth Walk. Il New York Times riferì di «vere e proprie ovazioni da stadio ogni qualvolta Chamberlain, magro e vestito di nero, usciva sorridente dall’albergo a passi cauti».
Il fatto che Chamberlain ricevesse più applausi di Hitler – proprio a Monaco – non fece che peggiorare l’umore del Führer. A testimonianza del suo sdegno Hitler autorizzò una sola foto ufficiale, in cui appare imbronciato e a disagio.
La mattina successiva, prima di partire per Londra, Chamberlain si recò, non invitato, all’appartamento di Hitler e, inaspettatamente, produsse una dichiarazione congiunta che aveva redatto la mattina stessa.
Non aveva consultato nessuno.
Stando allo storico Max Domarus, il testo della dichiarazione si basava in gran parte sul discorso tenuto da Hitler al comizio di Berlino qualche giorno prima, in cui il Führer aveva esortato «entrambe le nazioni [a] scambiarsi solenne promessa di non dichiararsi mai più guerra».
Hitler firmò il documento di Chamberlain.
Davvero Chamberlain si fidava della parola di Hitler? Quella mattina il primo ministro britannico disse al suo assistente, nonché futuro premier, Alec Douglas-Home, che la sua prima intenzione era di mettere in trappola Hitler. «Se firma e rispetta l’impegno andrà tutto bene, ma se lo infrange gli americani capiranno di che pasta è fatto. Darò la massima pubblicità alla dichiarazione».
Appena atterrato all’aerodromo di Heston, Chamberlain avrebbe dato pubblica lettura del documento. E se si fosse limitato a questo, la sua reputazione in seguito forse avrebbe sofferto di meno. Invece, rientrato al numero 10, si affacciò da una finestra del primo piano e ripeté le parole pronunciate da Disraeli dopo il Congresso di Berlino: «Cari amici, è la seconda volta nella storia che dalla Germania a Downing Street torna la pace con onore. Sono convinto che sia pace per il nostro tempo».
Fu un grave errore. Home riferisce che Chamberlain se ne rese conto.
La settimana dopo alla camera dei Comuni si scusò per le parole usate «sull’onda dell’emozione».
Ma era troppo tardi. La frase «pace per il nostro tempo» da allora ha bollato la sua reputazione.
Chamberlain morì di cancro due anni dopo, prostrato dalle critiche alla sua integrità, ma fiducioso che la storia lo avrebbe vendicato.
Così non è stato. Sembra anzi sempre più consolidata, grazie a libri e film, la narrazione churchilliana della guerra che sarebbe stato possibile evitare e della nazione salvatasi solo per forza di volontà nell’estate del ’40.
Ma non è forse l’ora di mostrarsi più solidali con Chamberlain? A vent’anni dalla Grande Guerra, in cui persero la vita 750.000 britannici, era convinto che «i cittadini del nostro paese avrebbero perso comunque la loro fede spirituale» se non avessero visto i loro leader impegnarsi per evitare un nuovo conflitto. Se all’aeroporto di Heston Chamberlain avesse dichiarato che non si fidava di Hitler e che l’accordo di Monaco era stato siglato solo per l’incresciosa necessità di guadagnare tempo, perché la Gran Bretagna non era adeguatamente equipaggiata per la guerra, avrebbe minato qualunque speranza di pace.
Ma era la verità. Come ebbe a osservare Chamberlain, non si può giocare a poker con un criminale senza avere carte in mano. Per citare l’esempio più eclatante: nel settembre 1938 la Raf disponeva di 26 squadroni di aerei da combattimento, dei quali solo 6 dotati di moderni monoplani. L’anno successivo all’accordo di Monaco metà degli introiti del governo vennero destinati agli armamenti e, nel 1940, la Raf disponeva di una flotta di dieci volte superiore. Ma non basta. Nella cruciale battaglia del maggio 1940 in seno al Gabinetto, in cui il ministro degli esteri, Lord Halifax, era propenso ad aderire alle condizioni di pace proposte dai tedeschi, il sostegno di Chamberlain alla politica di Churchill, favorevole invece alla guerra, giocò un ruolo decisivo. A Chamberlain va reso merito più di quanto ne abbia mai ricevuto per aver contribuito alla nostra «ora più bella».
 © Robert Harris. Traduzione di Emilia Benghi

Corriere 24.3.17
L’appuntamento A Firenze una mostra racconta il fermento creativo del secondo ‘900. E si intitola «Nascita di una Nazione» perché è da lì che prese le mosse l’Italia moderna. Con linguaggi diversi, dalla pittura alle installazioni. Ma certe tensioni sono vive ancora oggi
la rivoluzione ha le ali fragili
bandiere rosse e pugni chiusi: così si consumò
il sogno di una generazione dal cuore diviso
di Marco Gasperetti


La prima sensazione è quella di un intrigante spaesamento. La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1955), il grande olio su tela di Renato Guttuso nel quale il Risorgimento s’ibrida con la Resistenza, trionfa dall’alto nella sua ortodossia, mentre proiezioni video in bianco e nero di quegli anni avvolgono il visitatore ai lati della stanza.
Ma basta abbassare lo sguardo per spezzare l’apparente quiete di un’improbabile armonia. Ecco le bandiere rosse, spiegate come vele, di Giulio Turcato, ( Il comizio , 1950) che ci spingono verso un antirealismo astrattista. E, soprattutto, ecco L’ultimo re dei re (1961), il décollage di Mimmo Rotella con il volto «strappato» di Mussolini e una scritta sui cinesi che si proietta nel futuro.
È l’inizio di un cammino che ci porterà indietro nel tempo, alla scoperta di quell’Italia del secondo dopoguerra che, non solo distrutta ma anche decostruita dalla guerra, inizia a ritrovare le sue identità e diventa nazione. Vent’anni di straordinario fermento culturale e artistico, tra gli anni ‘50, il ‘68 e l’inizio dei cupi presagi dell’epoca del terrorismo. Luca Massimo Barbero, il curatore di «Nascita di una Nazione, tra Guttuso, Fontana e Schifano», (Palazzo Strozzi sino al 22 luglio) ce li racconta attraverso 80 opere e una narrazione non sequenziale ma simile a un grande ipertesto.
Ogni sala, sono otto in tutto, non è solo una rappresentazione di stili che appaiono spesso opposti e di esperienze «altre» (Arte Informale, Arte Povera, Pop Art, Arte Concettuale), ma un salto di paradigma che prima scuote l’animo del visitatore e poi riesce a plasmarlo nelle fantasie dei nuovi mondi. Ed è anche un riassunto: ogni ambiente potrebbe essere una mostra.
Così, dopo la prima sala (Il Dopoguerra come nuovo Risorgimento) ecco Scontro di Situazioni, un balzo verso l’informalità. C’è l’opera di Emilio Vedova (che dà il titolo alla sala), tempera, carboncino e sabbia su tela.
C’è Alberto Burri ( Sacco e bianco 1953) con la juta, l’intonaco, la corda. E ancora ci sono i rifiuti meccanici di Ettore Colla, lo spazialismo di Lucio Fontana, la terracotta di Leoncillo.
Si prosegue nella terza sala Monocromo come libertà con le opere plasmate dalle «nuove materie anarchiche», come bende, plastica, cibo e quella Merda d’artista di Piero Manzoni che molto fece discutere ma molto insegnò alla sperimentazione di quei tempi, siamo nel 1961, e alla ricerca di un’arte rappresentata da oggetti concettuali, come i palloncini gonfiati d’aria.
Nella quarta ambientazione sono i nuovi simboli della «metafisica quotidiana» a svelarsi. Come la famosa Coda del cetaceo (1966) di Pino Pascali o Senza titolo (1961) di Kounellis.
Quasi contrapposti, come in un grande gioco emozionale, al concettuale Pistoletto ( Quadro da pranzo 1965) e soprattutto al sorprendente iperrealismo dalla prospettiva distorta di Domenico Gnoli, che racconta dettagli di abbigliamento improbabile eppure probabilissimo.
Eppure non immaginatevi una mostra cerebrale e cervellotica. Nascita di una Nazione ha anche una natura ludica. Perché l’impegno politico, che a volte sembra essere così permeante e indissolubile, si unisce alla sostenibile leggerezza del boom economico.
Piper e sezione del Pci, cortei a pugni alzati. Goliardica concezione di una vita accelerata e rallentata. Perché, come sottolinea Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi «la mostra non solo ricorda il fermento culturale e sociale legato al ’68 ma celebra lo straordinario momento creativo del secondo dopoguerra italiano».
L’avvertenza del curatore, Luca Massimo Barbero, è quella di non considerare la rassegna di Palazzo Strozzi come un libro. «Le sale riassumono le tensioni sociali, politiche, culturali e sociali di quei tempi — dice il curatore —, riuniscono assonanze e contrasti. Fotografano un dialogo ancora oggi vitale».
Come accade nelle quattro sale che seguono e concludono la mostra. Nelle quali figure e gesti, cronaca e politica, geografie possibili e l’immaginazione al potere ci accompagnano sino agli albori degli anni di Piombo.

Il Fatto 24.3.18
Pistola elettrica, via alla sperimentazione. “Può uccidere”


“Bisogna fare molta attenzione, la possibilità che armi non letali producano effetti fatali è reale”. Così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commentando il via libera alla sperimentazione in Italia della pistola taser, che spara scariche elettriche in grado di immobilizzare fino a 7 metri di distanza, ora in dotazione a poliziotti e carabinieri. Si parte da Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia per testare l’arma, secondo le indicazioni contenute in una circolare della direzione anticrimine del 20 marzo scorso. Amnesty, da parte sua, monitora l’introduzione in Italia di queste armi capaci di evitare il “corpo a corpo” in caso di aggressione, raccomandando “la massima attenzione e preparazione da parte di chi la impugnerà”. Il rischio “di un cattivo uso con conseguenze letali”, è secondo Noury da tenere in alta considerazione. “Abbiamo studiato per anni l’uso della pistola taser negli Stati Uniti e in Canada e i morti sono stati centinaia – spiega il portavoce di Amnesty Italia –. Occorrono dunque formazione e regole precise, anche se poi rimarrà sempre il rischio di fare vittime”.

Repubblica 24.3.18
Paolo Rossi
“Torno in scena e improvviso come Best”
Intervista di Anna Bandettini


MILANO Ho smesso di bere due anni fa. Stavo in un bar, ho ordinato un gin tonic e ho sentito come una mano sulla spalla che mi teneva il braccio. Magari era solo una periartrite, io però ho guardato il bicchiere, l’ho spostato verso il barista. E da allora non ho più toccato alcol». Lo strano destino che ha fatto di un grande talento comico, un uomo caduto, sperso e ora di nuovo un artista maturo e consapevole, Paolo Rossi lo racconta sereno e senza schermi. Nel cortile del Piccolo Teatro ha l’aria disordinata di sempre, i capelli grigi arruffati, coppoletta nera, barba lunga, cappotto nero con le tasche rigonfie, in mano un sacchetto di libri. Eppure è trasformato: non più la vita un po’ delirante e frastornata. Ma un tempo più reale, tranquillo, vicino ai 3 figli, al padre novantenne che non sta bene. Il nuovo Paolo Rossi è quello di Sanremo che ha duettato con ironia con Lo Stato Sociale, che a gennaio alla Scala ha fatto morir dal ridere i melomani con un comizio politico nel ruolo del carceriere Frosch nel Pipistrello di Strauss. Ma anche il Paolo Rossi che è tornato nei locali, nei teatrini, senza scene e costumi, con il solo lusso del chitarrista Emanuele Dell’Acqua, senza un copione, solo con la memoria di gag, battute, lazzi in un recital davvero divertente, L’Improvvisatore 2. Da tempo la comicità per lui è soprattutto dialogo diretto col pubblico. E poi sogna di fare un’altra regia lirica: «Mi piacerebbe fare un Barbiere di Siviglia in un’osteria. Analcolica ovvio».
Allora è stata la periartrite a farla chiudere con la vita di prima?
«Credo proprio di no. A volte la vita è fatta di montagne russe. Se indago sulle cause di quello che ero, mi dico che era per i ritmi di lavoro, ma quelli ci sono anche adesso. Forse dovevo mettere in discussione qualcosa, esplorando i lati oscuri.
Ma credo nelle ritornanze e ora per me è una nuova fase. La lucidità è un grande regalo specie in una persona con la mia creatività. Scopri cose paradossali. Per esempio non ci s’immagina quante persone si perdono con la lucidità».
Ma come? Le relazioni dovrebbero migliorare.
«No, le perdi, a partire dal bar dove non ti parlano più, perché non stai più lì a sparare cazzate per due ore.
E poi tante persone con cui hai rapporti di lavoro: quando bevi sei più vulnerabile, sei più controllabile. Se sei lucido, per loro sei strano. È per via del money, i soldi».
Lei ne ha sperperati tanti?
«George Best diceva: io nella vita ho speso molto in alcol, donne e macchine. Il resto l’ho sperperato».
Come mai cita il calciatore di Belfast?
«Sarà nel sottotitolo del mio nuovo spettacolo: “da Moliere a George Best”. Perché? Perché Best è stato quello che ha inventato l’improvvisazione nel calcio. E perché era il soprannome che mi avevano affibbiato quando giocavo in una squadra satellite della Spal da ragazzino. Ero bravo? No, ma lo imitavo: capelli lunghi, calzettoni arrotolati, aria guascona».
Nello spettacolo si parlerà di Best?
«Lavorerò sull’improvvisazione. Mi interessa l’attore che non pensa o semmai lo fa col corpo, non con la testa. Questo facilita il dialogo col pubblico. Come comico o sei uno che rifà le battute del passato, o rincorri la cronaca, o cerchi di immaginare il futuro. Io debuttai con L’opera da tre soldi nel giorno in cui scoppiò Tangentopoli, ho scritto
L’ invincibile armata sul presidente di una squadra di calcio che vuole diventare politico prima che Berlusconi comprasse il Milan… qualche dote per il futuro ce l’ho. Il nuovo spettacolo sarà proiettato in avanti, poco fantasy e molto legato al reale. Debutteremo a giugno al Teatro Menotti di Milano».
Le piace la nuova satira, molto legata al web?
«Nel ’95 dopo Su la testa e Il Laureato ho detto questa satira è finita: mi riferivo alla parodia sui politici. Perché i politici, ma non solo loro, oggi recitano meglio degli attori. È la società dello spettacolo non nel senso di Guy Debord ma della profezia di Andy Warhol: tutti si esibiscono. L’attore allora deve trovare altre vie».
Le imitazioni?
«Non giudico i colleghi, ma un politico che non ha un imitatore, oggi non vale niente. All’inizio si arrabbiano, poi ti fanno i complimenti. Finisce che ti chiedono i consigli».
Una battuta su Di Maio o Salvini la farebbe?
«Dovrei essere molto stanco».
E di Grillo e il suo movimento che dice?
«Non mi piacciono i partiti, preferisco i movimenti. Ma i 5 Stelle no, non stimo chi entra in Parlamento. Sono anarchico e posso permettermelo perché non lavoro all’Ilva. Sono l’unico caso in cui, candidato per un equivoco, non sono andato a votarmi, perché mi sono guardato allo specchio e non mi fidavo di me stesso».

Corriere 24.3.18
«Rivoglio la vecchia Rai Radio 5 e la sua musica»
di Giulia Konig


Torno in Italia dopo un lungo soggiorno all’estero. Accendo la radio, mi sintonizzo sul mitico 100.3 della modulazione di frequenza, e scopro che Rai Radio 5, «figlia» della vecchia filodiffusione, non c’è più, sostituita da «Rai Radio Classica». Come la precedente, anche questo canale trasmette ininterrottamente, notte e giorno, musica sinfonica e operistica, da camera, solistica, religiosa. Ma con una differenza sostanziale. L’una aveva una sua logica interna in cui si coglieva la mano, la sensibilità e il gusto di un musicologo (non so chi fosse): scelte omogenee, composizioni integrali, attenta scelta delle incisioni e degli interpreti. La nuova è invece all’insegna di un fastidioso potpourri per blocchi di un’ora o due, e poi si ricomincia daccapo: mischiando tutto. Un esempio a caso: nella stessa ora si comincia con un paio di madrigali del ’500, segue una cabaletta di Verdi dalla Traviata, quindi una romanza di Beethoven, subito dopo brani di Stravinskij, sinfonie di uno dei tanti figli di J.S. Bach e altri coriandoli: a casaccio o per una studiata confusione? Il guaio è che si continua così per ventiquattr’ore filate, senza capo né coda. Non ci siamo. Chi ha deciso lo stravolgimento di Rai Radio 5? E perché? All’insegna di quale scelta «culturale»?