sabato 1 dicembre 2018

Repubblica 1.12.18
Dall’arte africana al Partenone quando è giusto restituire
di Maurizio Bettini


Il dibattito innescato dall’annuncio di Macron va esteso ai tesori greci
Recentemente il presidente Macron ha annunciato di voler restituire al governo del Benin 26 statue reali di Abomey sottratte dall’esercito francese nel 1892 e attualmente custodite al Musée du Quai Branly. Primo gesto concreto del suo impegno verso una nuova “politica di scambio” con i paesi di provenienza relativamente al patrimonio artistico e culturale, a suo tempo sottratto ai legittimi possessori, e ora in possesso della Francia. Dato che le opere d’arte africane conservate nei musei francesi ammontano a circa 90mila, 70mila delle quali solo al Quai Branly, la proposta ha suscitato un dibattito molto vivace: restituzione totale?
Parziale? Temporanea? E poi, c’è da fidarsi delle strutture dei paesi riceventi? In linea di principio la restituzione costituisce un’azione eticamente ineccepibile, in questo modo però (si dice) la Francia verrebbe privata della possibilità di conoscere arte e cultura di popoli lontani, con un danno che paradossalmente si ritorcerebbe anche contro costoro. Prima però di chiederci se e perché queste opere dovrebbero essere restituite, sarebbe opportuno chiedersi perché noi occidentali ce le siamo andate a prendere.
Per la verità all’inizio non le abbiamo affatto prese, anzi. I missionari portoghesi che “evangelizzarono” la Guinea definirono le immagini dei locali col nome di “fetichos”, ossia fantocci di magia, e come tali si preoccuparono soprattutto di distruggerli. In seguito, con la nascita dell’antropologia, idoli, immagini, artefatti delle popolazioni “altre” vennero importati in Europa. Fra Otto e Novecento artisti e teorici vollero vedere nelle produzioni dell’“arte negra”, com’era chiamata, una fonte di ispirazione per la creazione contemporanea: quasi che i “feticci” distrutti un dì dai missionari si fossero mutati in un’epifania delle arti delle origini. Oggi però di “arte negra” non parliamo più. Al di là di questo, però, ci si è resi conto di qualcosa di ancor più importante, ossia che queste opere acquisiscono pienamente senso solo se reinserite nel proprio contesto culturale: fatto di gesti, formule, linguaggi, ritmi, azioni. Ecco dunque perché le opere di “arte negra” delle nostre collezioni vanno restituite non tanto, o meglio non solo, all’entità statale che ne è proprietaria, in una prospettiva “patrimoniale”; ma debbono essere soprattutto restituite alle “culture” entro le quali sono nate e che sole permettono loro di esprimere pienamente il proprio significato.
Ciò detto, questo stesso ragionamento potrebbe essere applicato ad esempio ai marmi del Partenone, conservati al British Museum? In una prospettiva patrimoniale sì, perché alla Grecia queste opere furono sottratte. Ma in una prospettiva di restituzione culturale? Dalla creazione di quei marmi sono passati 2.500 anni e da allora, si dice, la cultura greca è entrata a far parte a pieno titolo dell’intera tradizione occidentale. In un certo senso Fidia è come Omero o Platone, si dice, ormai appartiene a tutto l’Occidente, non avrebbe senso attribuire alle sue opere un certificato di cittadinanza.
Questo discorso però implica un sofisma da cui è bene guardarsi.
L’appropriazione di Omero o Platone è avventa attraverso un medium, la scrittura e poi la stampa. In questo senso è lecito dire che l’Odissea e il Simposio appartengono ormai a tutti — ossia a chiunque ne legge una copia o ne fa rivivere la presenza. I marmi del Partenone, invece, non sono simulacri, sono oggetti originali: costituiscono un «segno delle proprie origini», come diceva Umberto Eco. Per questo si può, anzi si deve dar loro un certificato di cittadinanza. Senza contare che, al momento in cui i marmi vennero portati in Inghilterra, paradossalmente gli europei non pensarono che quelle opere d’arte le sottraevano “davvero” alla Grecia. Per il semplice fatto che ai loro occhi i greci (di allora) non erano dei “veri” greci, quelli di Achille o di Socrate. Al contrario, inglesi e tedeschi si erano convinti di essere loro i “veri” greci. È difficile non pensare che simili atteggiamenti — in aggiunta al potere coloniale che gli europei erano in grado di esercitare — non abbiano contribuito a giustificare ai loro occhi le razzie che compivano in Grecia. Ma oggi?
Repubblica 1.12.18
La segretaria particolare tra Hegel e bondage
di Claudia Morgoglione


Sempre presente, efficiente, discreta, pronta a risolvere ogni problema. In una parola: rassicurante. E allora come mai la figura della segretaria, nell’immaginario degli ultimi anni, si trasforma – nei libri, nei film – in un concentrato di inquietudini, oscurità, morbosità di vario tipo, dai risvolti spesso sadomaso? Forse perché la sua prossimità col datore di lavoro è in grado di innescare – almeno nella finzione – reazioni opposte, ed estreme: desiderio, paura. O forse perché, come Hegel ci ha insegnato, in ogni relazione schiavo-padrone i ruoli si possono rovesciare, con ricaschi narrativi intriganti.
Il caso di scuola di questa ossessione è e resta Secretary, uscito nelle sale nel 2002.
Tratto da un racconto della raccolta Oggi sono tua di Mary Gaitskill (Einaudi), mette in scena il legame tra un avvocato (James Spader) e la sua assistente (Maggie Gyllenhaal). Con toni da commedia nera, rende bene l’atmosfera della loro dinamica bondage; giocando in modo scoperto con un classico topos maschile, quello della donna totalmente dipendente dal maschio e pronta a soddisfare qualsiasi capriccio, a obbedire a qualsiasi ordine. Una perfetta Justine con la macchina da scrivere.
Più recentemente, anche la letteratura superpop dell’era Internet si è esercitata intorno a questa fantasia. Come in Secretary di Alexis Blake, ebook di qualche anno fa diffuso in mezzo mondo, in cui ancora una volta “lui” fa scoprire a “lei” l’impero dei sensi. Più triste il destino di un’altra segretaria celebre, la Joan Holloway della serie tv cult Mad Men (interpretata da Christina Hendricks): nelle prime stagioni con la sua solidità, il suo carisma e le sue ben dosate prestazioni a letto sembra tenere in pugno tutti; poi però il creatore Matthew Weiner le riserva un destino triste, madre di un figlio non riconosciuto avuto col boss e vittima di stupro.
Ma il sesso non esaurisce l’immaginario morboso legato a questa figura. Come dimostra La segretaria (Piemme, traduzione di Rachele Salerno, pagg. 372, euro 19,90), nuovo thriller dell’inglese Renée Knight, già autrice del bestseller La vita perfetta. Da leggere d’un fiato, è la storia di una donna che per la datrice di lavoro annulla se stessa, cancella ogni affetto, è disposta a fare davvero di tutto, in un crescendo esponenziale di umiliazioni e degradazione in cui il masochismo c’entra eccome, malgrado l’ assenza di coinvolgimento fisico. Ma attenti, anche stavolta, a non sottovalutare il caro vecchio Hegel…
Repubblica 1.12.18
Lo studente anti Xi “Ci chiamano maoisti ma dai nostri campus sfidiamo il governo per aiutare i lavoratori”
di Filippo Santelli


PECHINO «La polizia ha portato via quindici dei miei compagni, nessuno sa dove siano, alcuni sono spariti da tre mesi. È illegale: vogliamo che le autorità li rilascino e che giustifichino tutto questo». Dong, lo chiameremo così, non si aspettava una reazione così violenta. Ma quando un gruppo di studenti delle migliori università cinesi ha raggiunto Shenzhen per unirsi alla protesta dei dipendenti di Jasic, un’azienda di macchinari industriali, nella mente del Partito è comparso lo spettro più inquietante: l’alleanza tra studenti e lavoratori, come a Tienanmen.
La prima retata contro gli attivisti è arrivata ad agosto a Shenzhen.
La seconda tre settimane fa, nei campus. Specie all’Università di Pechino, la più prestigiosa del Paese, dove Dong studia e dove il “Gruppo di supporto dei lavoratori Jasic” ha il suo cuore. Il ragazzo accetta il rischio di parlar: «aspettare passivi è peggio».
Come è nato il Gruppo?
«Lo scorso luglio, quando i dipendenti Jasic in sciopero sono stati arrestati, circa 60 tra lavoratori e studenti di varie università cinesi si sono organizzati spontaneamente per difendere i loro diritti. Ad agosto siamo andati a Shenzhen per distribuire volantini, sensibilizzare i cittadini e sporgere denuncia alle autorità. Eravamo in 40, dormivamo in un appartamento di 4 stanze».
Perché si è unito a loro?
«Nella mia famiglia ci sono molti lavoratori migranti (interni alla Cina, ndr), sono molto sensibile al tema. Organizzare dei sindacati per proteggere i diritti dei lavoratori è cruciale».
Vi definiscono maoisti.
«Non voglio parlare di ideologia.
Siamo persone che condividono un’idea per il futuro: che tutti i lavoratori cinesi godano di diritti e dignità, che la nostra società sia più giusta».
Quale è stata la reazione delle autorità?
«Il 24 agosto alle 4 di notte circa 200 poliziotti hanno fatto irruzione nell’appartamento, ci hanno caricati sulle volanti e portati in una scuola.
Lì c’erano i nostri genitori, personale dell’università e autorità locali. Ci hanno minacciato e chiesto di firmare dei documenti in cui ci dichiaravamo colpevoli, promettendo di non manifestare più».
Che minacce hai ricevuto?
«Di essere espulso. Alcuni hanno firmato, io no. Così mi hanno messo a forza in un’auto e portato nella mia città, scortato da 11 persone.
A casa mi hanno tolto il cellulare e vietato di lasciare la contea, una squadra di sicurezza locale mi seguiva. Mi hanno detto di non tornare a Pechino fino a ottobre, ma a un certo punto, quando mi hanno ridato il telefono, sono scappato e venuto qui per riprendere i corsi».
Conosce Yue Xin e Gu Jiayue?
«Sono neolaureati dell’Università di Pechino. Conosco bene Yue: è sparita dal 24 agosto, oltre tre mesi. Neppure sua madre sa dove si trovi o come stia. Gu invece dovrebbe essere detenuto nel Guangzhou. Pare che abbia degli avvocati, ma non lo hanno fatto vedere neanche a loro».
Nelle settimane successive molti studenti-attivisti, tra cui Zhang Shengye, hanno continuato a chiederne il rilascio.
Poi il 9 novembre che cosa è successo?
«Io non c’ero, ma ho parlato con dei testimoni. Verso le 22.30 alcuni studenti stavano uscendo da un caffè, all’improvviso una dozzina di persone molto grosse, con maschere e cappellini, li ha circondati. Un ragazzo è stato buttato per terra e colpito in testa, un altro preso per sbaglio buttato giù dalla macchina. Chi cercava di fare delle foto è stato minacciato o picchiato. Da allora Zhang non si sa dove sia. Le auto avevano le targhe coperte, sono entrate e uscite dal campus senza difficoltà».
Che cosa significa?
«Che avevano il supporto dell’università. Sono molto arrabbiato: non abbiamo violato la legge o danneggiato persone, e l’università ci colpisce».
Quante sono le persone del Gruppo detenute?
«Abbiamo perso contatto con 31 tra studenti e lavoratori, gli studenti sono 15. Sono scomparsi i neolaureati, quelli in corso come me sono tutti tornati al campus».
Vi controllano? Il Gruppo si è sciolto?
«Io ho ripreso a studiare, devo incontrare di tanto in tanto personale dell’università e ricevo spesso loro chiamate. Ad altri hanno detto che sanno tutto, dove vanno e cosa fanno. Ma c’è un sito web che viene aggiornato. E se necessario anche io parteciperò».
Gli altri studenti vi appoggiano?
«La maggior parte conosce questa storia e esprime simpatia per gli studenti portati via. Dai discorsi che faccio delusione e rabbia sono diffuse. Finora non ci sono state proteste pubbliche, ma se la situazione resta così potrebbero esserci».
Ha paura?
«Sono arrabbiato. Tutto questo è illegale, un oltraggio. Sono preoccupato per gli studenti arrestati, ma credo che esporre le loro sofferenze e i misfatti delle autorità sia meglio che aspettare passivi».
Che cosa chiede?
«Che abbiano supporto legale e che siano rilasciati il prima possibile. Le autorità devono giustificare quello che hanno fatto».
La Stampa 1.12.18
“Mio padre ammazzato ad Avola nella protesta dei braccianti
Dopo 50 anni nessun colpevole”
di Fabio Albanese


Il 2 dicembre del 1968, durante uno sciopero generale a sostegno della vertenza salariale dei braccianti agricoli di Avola, la polizia sparò sui manifestanti: due di loro morirono, altri 48 rimasero feriti, cinque in maniera grave. Per quelli che sono passati alla storia come “i fatti di Avola” non c’è mai stato un processo, non è mai stato individuato un colpevole.
Avola si prepara a commemorare i cinquant’anni da quel drammatico episodio che fece poi da apripista all’approvazione dello Statuto dei lavoratori e alla legge sul disarmo delle forze dell’ordine durante scioperi e manifestazioni. Paola Scibilia, figlia di Giuseppe, una delle due persone rimaste sul terreno quel giorno, invoca giustizia per il padre che, quando morì, aveva 47 anni e tre figli da crescere, e per l’altra persona uccisa, Angelo Sigona, 29 anni: «Non ce l’ho certo con lo Stato - dice la donna, 59 anni - noi abbiamo sempre avuto fiducia nello Stato, mio figlio è un poliziotto, ma vorremmo sapere chi è stato, chi ha ucciso mio padre e perchè».
Quel lunedì 2 dicembre di 50 anni fa Avola si era fermata. Da una decina di giorni i braccianti agricoli della zona sud della provincia di Siracusa, dove si coltivavano e si coltivano mandorle e olive, chiedevano agli agrari di equiparare la loro paga giornaliera di 3110 lire e l’orario di lavoro a quelli dei lavoratori della parte nord del Siracusano, dove si producono agrumi. Inutilmente, nonostante la mediazione della prefettura e nonostante la differenza fosse di 300 lire in più e di mezz’ora di lavoro in meno (da 8 ore a 7 ore e mezza). Un gruppo di manifestanti bloccava il transito sulla statale 115 alla periferia del paese, in contrada Chiusa di Carlo, lì dove ora sorge l’ospedale di Avola e dove un cippo e una lapide ricordano cosa accadde. C’era l’ordine di sgomberare e, come scrive lo storico locale Sebastiano Burgaretta che ai Fatti di Avola ha dedicato un libro e la vita, nonostante il tentativo di mediazione del sindaco dell’epoca, Giuseppe Denaro, che fu tra i testimoni, «intorno alle 14 il vicequestore di Siracusa dott. Samperisi dà ordine, e il reparto Celere fatto venire da Catania compie l’opera; dopo venticinque minuti di fuoco restano sul terreno due morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48 feriti, tra cui i più gravi sono cinque: Salvatore Agostino, detto Sebastiano, Giuseppe Buscemi, Giorgio Garofalo, Paolo Caldarella, Antonino Gianò». Sul terreno, disseminato di pietre lanciate dai manifestanti per difendersi, verranno raccolti oltre due chili di bossoli.
L’accordo
La procura di Siracusa aprì un’inchiesta, lo stesso fece il ministero dell’Interno che dopo poche ore destituì il questore di Siracusa. Il prefetto convocò subito i sindacati e gli agrari e la notte stessa fu siglato quell’accordo sul salario e l’orario di lavoro che fino a due giorni prima era stato negato. Ma poi non è accaduto più nulla. «Tutto insabbiato - dice Paola Scibilia - e noi non abbiamo mai avuto un sostegno, se si eccettua un piccolo vitalizio che la Regione Siciliana aveva accordato a mia madre, Itria Garfì, morta lo scorso agosto a cent anni sena vedere un po’ di giustizia».
Le denunce
Dall’inchiesta, infatti, non è mai scaturito un processo e le carte dell’indagine amministrativa del Viminale non sono mai state rese pubbliche. Piuttosto, vennero denunciati i braccianti che avevano manifestato: «Ci consigliavano di fare una causa - ricorda la signora Paola - mia madre non li ascoltava ma stava male. Noi siamo gente modesta. Temevamo, se le cose fossero andate male, di perdere la casa frutto dei sacrifici di una vita di mio padre e dove mia madre da sola doveva crescere tre figli». «Mio padre non era un rivoluzionario, era un lavoratore e un marito esemplare - racconta, ancora, la figlia di Giuseppe Scibilia - che amava i suoi figli e lavorava sacrificandosi. Lo hanno ammazzato come fosse un delinquente e ancora oggi c’è qualcuno che se lo porta sulla coscienza. Quel giorno io, che avevo 9 anni, lo aspettavo per pranzo sull’uscio della porta; l’ho visto agonizzante alla sera in un letto d’ospedale, con una grossa ferita di pallottola sul fianco destro. Sembrava già un cadavere, se ne andò durante la notte».
Ad Avola - dove nel bel teatro Garibaldi nei giorni scorsi si è tenuto un convegno sulla strage, il contesto in cui avvenne e il clima del ‘68 e nel municipio è in corso una mostra con i giornali dell’epoca - domenica prossima da Roma arriveranno i segretari generali di settore di Cgil, Cisl e Uil e da Palermo il presidente della Regione Nello Musumeci, per ricordare quel giorno terribile e dimenticato, una ferita aperta per gli avolesi, un semplice episodio della storia delle lotte sindacali del Dopoguerra per gli altri. Verranno portate, come ogni anno, corone d’alloro in contrada Chiusa di Carlo, poi verranno premiati i ragazzi delle scuole del paese che hanno partecipato a un concorso di scritti, disegni, lavori sui «Fatti», infine il sindaco Luca Cannata aprirà un convegno-commemorazione, per ricordare che è passato mezzo secolo da quel giorno senza giustizia: «Dal sacrificio di mio padre hanno avuto beneficio tutti i lavoratori italiani grazie allo Statuto dei lavoratori che il ministro del lavoro Brodolini preparò dopo essersi precipitato ad Avola - osserva Paola Scibilia, la cui figlia Ivana vorrebbe ora dedicare ai Fatti di Avola la sua tesi di laurea - solo noi non abbiamo avuto nulla. Senza l’accertamento dei fatti noi non siamo riconosciuti come familiari di vittime di una strage. A noi neanche un risarcimento, un vitalizio o un lavoro è mai arrivato dallo Stato».
Corriere 1.12.18
Moretti e il golpe in Cile
Quei 600 dissidenti salvati dall’ambasciata
di Paolo Mereghetti


«Santiago, Italia»: lo sguardo dell’autore sugli anni 70
Nanni Moretti è un regista che punta diritto al cuore, alla ricerca della strada più efficace e diretta. Una volta si sarebbe detto «economia di mezzi», oggi forse «essenzialità espressiva». Se vuole raccogliere i ricordi di un testimone lo fa sedere davanti alla macchina da presa e lo inquadra a metà tra il piano americano e il primo piano: in questo modo lo spettatore non è distratto da niente e ha l’impressione che la persona ripresa stia dialogando con lui, faccia a faccia. È così che ha costruito il suo documentario Santiago, Italia, presentato in chiusura del Torino Film Festival e da giovedì 6 dicembre nei cinema italiani. Ed è così che il film trova la sua forza e la sua emozione.
All’origine, c’è la scoperta di come l’ambasciata d’Italia a Santiago, nei giorni successivi al golpe di Pinochet, avesse dato asilo a molti militanti che cercavano rifugio dagli arresti e dalla repressione poliziesca. La notizia della disponibilità italiana ad accogliere i fuggiaschi si era diffusa, e in breve tempo sono stati quasi 600 gli asilados, i richiedenti asilo cileni, che hanno trovato riparo tra le mura italiane. Il merito era di due giovani funzionari, Piero De Masi e Roberto Toscano che, assente l’ambasciatore e di fronte al silenzio del Ministero degli Esteri (ai tempi guidato da Aldo Moro), aprirono le porte della nostra ambasciata. «Per una volta che avevamo fatto bella figura» aveva detto Moretti…
Da qui la voglia del regista di ritrovare chi quel muro l’aveva saltato davvero e aveva potuto lasciare il Cile grazie ai lasciapassare italiani. Niente voce off che introduce o spiega: solo le testimonianze di chi ha vissuto quei giorni drammatici con qualche spezzone giornalistico che ricostruisce l’elezione di Allende nel 1970, la breve esperienza del governo di Unidad Popular, il golpe dell’11 settembre 1973 e la successiva repressione.
Alcuni nomi noti come i registi Patricio Guzmán e Miguel Littin (entrambi arrestati subito dopo il golpe) aiutano a ricordare le speranze e le tensioni di quegli anni, ma sono soprattutto le persone comuni che interessano a Moretti. Di alcuni si intuisce la fede e la militanza partitica ma il regista ce li presenta con la semplice indicazione della loro professione. Non cerca intemerate ideologiche o politiche (e infatti le interviste più scontate sono proprio le più «militanti»), vuole invece ritrovare quella che con un pizzico di retorica potremmo chiamare «umanità» ma che dà meglio il senso delle parole che ascoltiamo. Ricordi di paura, di rassegnazione, anche di rabbia, il più delle volte di stupore e di dolore, dietro cui spunta una commozione che invano cercano di controllare e reprimere.
Con due eccezioni, le interviste a due militari: chi non ha debiti con la giustizia rivendica ancora oggi la legittimità del golpe «contro i comunisti», chi invece è in prigione per aver torturato e sequestrato si difende dietro il dovere dell’obbedienza, l’unico che spinge Moretti a entrare in scena, rivendicando la propria orgogliosa «parzialità» di fronte a quello che successe.
Un percorso di ricordi emozionanti, che si chiude sull’accoglienza di chi arrivò in Italia, accolto con generosità prima dal governo e poi da chi offrì un lavoro, permettendo un’integrazione che fa dire a un’artigiana dai capelli bianchi: «Noi siamo ricchi perché abbiamo due identità nazionali. Sono cilena per nascita ma il Cile è stato un patrigno cattivo. E invece l’Italia è stata una madre generosa e solidale».
Era il 1975…
Il Fatto 1.12.18
Moretti torna con il lutto di un’intera generazione
Al festival - Presentato “Santiago, Italia”
La fine di Allende – Il golpe dell’11.9. 1973 in Cile, la Moneda bombardata, la morte del presidente e il golpe di Pinochet sono al centro della storia
di Federico Pontiggia


Santiago, Italia: loro e noi, ieri e oggi. Il tramite della solidarietà, e il punto di vista: Nanni Moretti apre il documentario con Nanni Moretti che guarda, dall’alto, la città di Santiago del Cile. Lo vediamo di spalle, il montaggio perfeziona la semi-soggettiva: è la prospettiva del regista, ma anche la nostra, è un concorso di sguardi, e presa di coscienza.
Al 36° Festival di Torino, dove fu direttore, porta il suo quarto documentario: due proiezioni stampa, per l’estera (?) e l’italiana, e oggi alle 22.00 al Cinema Reposi l’unica per il pubblico, con saluto in sala. Dietro la macchina da presa Nanni mancava dal lungometraggio di finzione Mia madre del 2015, stavolta fa parlare solo il film, più o meno.
Santiago, Italia arriverà sugli schermi il 6 dicembre, tagliandoli con il lutto precipuo di una generazione: il golpe dell’11 settembre 1973 in Cile, la Moneda bombardata dall’aviazione nazionale, Salvador Allende forse morto suicida, comunque assassinato dal colpo di mano del generale Pinochet. Alla faccia de la izquierda unida jamás será vencida, in spregio di Neruda, el pueblo te saluda, a detrimento de l’Unidad Popular: gli statunitensi si spaventarono di un leader socialista democraticamente eletto, temerono il contagio all’Italia e alla Francia, e agirono di conseguenza, ché “è dimostrato dagli stessi documenti americani (gli archivi della Cia, il Rapporto Church del Senato, ndr) il ruolo fondamentale dei soldi Usa nella cospirazione e nella sedizione in Cile”. Lo attesta l’avvocato Carmen Hertz, tra i tanti intervistati da Moretti a comporre un fil rouge diacronico, un percorso storico e precipitato civile di testimonianze. Lo specchio è riflesso: “Come guardi ai tuoi anni di militanza?”, chiede il cineasta, “Se c’è qualcosa di bello in questa vita non è solo potersela guadagnare degnamente, ma farlo per gli altri”, gli rispondono, e non c’è divieto di inversione.
La consapevolezza, filtrata dall’estremo messaggio di Allende, che “non ci sarebbe stata nessuna resistenza, alcuna guerra civile, che finiva un’epoca”, il sergente che esplode un “Mierda, che stiamo facendo?”, gli agenti della famigerata Dina, la polizia segreta, che si beano delle P-38 “come nei B-movie coi nazisti”, le torture perpetrate a Villa Grimaldi, le scosse elettriche ai testicoli e le vagine straziate, e la migliore resistenza, quella della Chiesa cattolica. Allo scomparso cardinale Raúl Silva Henríquez Moretti tributa un doppio onore: è sua l’unica intervista d’archivio, è per lui la commozione del traduttore Rodrigo Vergara, che stigmatizza come fu “fatto fuori da Wojtyla appena compiuti i 75 anni” e da ateo ancora singhiozza “per la statura morale di questo prete, talmente grande che i giovani volevano farsi sacerdoti”.
Poi, i militari. L’ex portavoce di Pinochet, l’impunito generale Guillermo Garin, secondo cui “il golpe fu cosa buona, perché il paese era sull’orlo della guerra civile”, e che la logica vada a farsi fottere; Raúl Iturriaga, già a capo del centro di torture La Venda Sexy, condannato per sequestro e omicidio (anche in Italia, in contumacia, per il fallito assassinio del connazionale Bernardo Leighton a Roma, nel quadro dell’Operazione Condor), alle cui rimostranze sul metodo dell’intervista Moretti entra in campo e oppone un reiterato “Io non sono imparziale”. Legittimo, altroché, ma il più pericoloso dei due, quantomeno oggi, pare essere Garin, e che l’unico sconfinamento fisico di Nanni nel doc arrivi per il secondo, detenuto, lascia qualche perplessità, etica più che cinematografica.
Quindi, l’ambasciata italiana a Santiago, primo rifugio dei dissidenti. Saltandone il muro di recinzione, allora alto appena due metri, guadagnavano la salvezza, non la sicurezza: in loco potevano sempre rischiare di essere espulsi dal partito socialista per indisciplina, al rifiuto di pelare le patate. Complice il diplomatico Piero De Masi, e l’ambiguo silenzio-assenso alla richiesta di visti dell’allora ministro degli Esteri Aldo Moro, attraversavano la capitale e trasvolavano l’Atlantico, trovando un futuro nei campi dell’Emilia e nelle fabbriche a Milano: “Nessun lavoro nero, nessuna porcheria, mi hanno accolto, mi han permesso di integrarmi”, e il qui e ora è tangibile. Chiude l’imprenditore Erik Merino, che fu cardinale cileno in Habemus Papam: “Oggi viaggio per l’Italia e vedo che assomiglia sempre di più al Cile, nelle cose peggiori del Cile”.
Il problema, dice, è “l’individualismo”: l’individualità di Moretti è la soluzione?
il manifesto 1.12.18
Nel paese innamorato di Salvador Allende
Cinema. «Santiago, Italia», il nuovo film di Nanni Moretti, racconta il golpe nel Cile del ’73 ma si rivolge all’Italia di oggi
di Silvana Silvestri


C’è ancora chi ti domanda se in Cile ci siano problemi con la dittatura. In quel paese lontano geograficamente, nel tempo e nell’immaginario è tornato Nanni Moretti, ci chiedevamo perché proprio adesso che sembra così inattuale, non fosse per la sua consolidata democrazia, per avere avuto la prima donna presidente del latinoamerica, per essere oggi «la pantera» economica del continente. Nanni Moretti fa del suo viaggio un attualissimo intervento politico, specchio dei nostri tempi, rivolto a raccontare attraverso la storia qualcosa che non deve ripetersi. Ne fa una materia pulsante di vita e, senza quasi dare indicazioni, mostra come sia fragile la democrazia se non la si difende. Ci fa vedere in prospettiva come eravamo rispetto a come siamo diventati, come indica la dicotomia del titolo (Santiago,Italia). Oltre che l’amicizia tra i popoli indica anche un’allerta.
Se del documentario il film utilizza tutti i materiali come le interviste, gli spezzoni delle cineteche, delle televisioni e degli archivi, perfino talvolta la voce fuori campo, del cinema possiede la capacità di creare un’aspettativa crescente, di rendere emblematici i suoi personaggi, espanderne le parole nell’immaginazione, avanzare a colpi di scena, fare intravedere i fantasmi della Storia.
EPPURE quegli eventi si conoscono, tanti sono stati i film, molti li hanno vissuti: evidentemente non abbastanza se l’occidente intero flirta oggi con la destra, che non cambia mai. Non cambia soprattutto neanche in Cile, dove non solo i militari sotto processo si professano innocenti esecutori di ordini, ma strati della popolazione si dichiarano ancora di parte senza alcun dubbio.
Con un perfetto bilanciamento di materiali, anzi di etica cinematografica, la parola è data ai tanti militanti che vissero la stagione della dittatura, ben inquadrati e illuminati come veri protagonisti della storia, testimoni di episodi cruciali a cominciare dall’euforia del periodo di presidenza di Allende («era un paese innamorato») che Patricio Guzmán riprende nel suo film El Primer Año. Chi sono quegli imprenditori, operai, avvocate, giornaliste, educatrici, diplomatici che di fronte alla cinepresa raccontano in italiano i loro ricordi dell’11 settembre del ’73? Ognuno di loro ha una storia interessante, alcuni si riconoscono, altri la sveleranno nel momento chiave del racconto.
INIZIALMENTE, come prologo di una tragedia ecco le conquiste del primo paese socialista al mondo democraticamente eletto, con le politiche di alfabetizzazione, scuola gratuita e latte per i bambini, nazionalizzazione del rame e la brusca reazione della destra che riesce a bloccare il paese, dal commercio con il mercato nero, al fiancheggiamento della stampa fino alla potente macchina da guerra della Cia.
Nel film l’ultimo discorso del presidente assume un valore di testamento: «Non ho la vocazione del martire, voglio compiere una funzione sociale e non farò un passo indietro». Che sia stato assassinato non lo ha sostenuto solo Miguel Littin, quello di Allende è stato il più spettacolare assassinio in diretta della storia.
Mentre si susseguono le testimonianze, si sente per la prima volta l’intervento del regista con una sua domanda che fa ammutolire di commozione l’intervistato, un imprenditore a cui chiede «come guardi i tuoi anni di militanza?», e il silenzio che indica un grande conflitto interiore è rotto dalla considerazione inaspettata: «Non mi sono mai posto questa domanda» e sarà il primo indizio di una chiamata a raccolta.
POI ARRIVANO i racconti della rapidità del golpe, dello stadio dove sono ammucchiati i prigionieri politici (tra cui Guzmán e Paolo Hutter di Lotta Continua, Antonio Arevalo allora giovanissimo poi diventato l’addetto culturale del Cile), di Villa Grimaldi. La voce di Nanni Moretti prima appena accennata nelle interviste, si torna a sentire nell’incontro con un militare convinto di aver salvato il paese («il paese era sull’orlo della guerra civile e del resto Allende era stato eletto solo con il 36% dei voti»). E comparirà sullo schermo inaspettatamente in una dura scena girata in carcere a sovrastare un altro militare condannato che si proclama innocente e minimizza («in Argentina sono morti in 30mila, in Cile solo in 3mila»).
L’AMBASCIATA italiana a Santiago diventa il momento chiave del film, là dove molti dei personaggi intervistati trovarono rifugio scavalcando il muro di cinta (su questo eroico episodio Daniela Preziosi, Tommaso D’Elia, Ugo Adilardi realizzarono nel 2006 il documentario Calle Miguel Claro 1359), con racconti che nel passare del tempo ha assunto anche toni divertiti a dispetto dell’azzardo, del pericolo: l’Italia che non ha mai riconosciuto la giunta, aveva in sede i diplomatici De Masi e Toscano che decisero di accogliere a centinaia giovani, donne, intere famiglie di militanti, (e i bambini giocavano nel giardino a «el esiliado y el policia»), poi forniti di salvacondotto per l’Italia dove sono stati accolti con solidarietà per anni, la valigia sempre pronta per tornare. Immagine di un’Italia sparita.
Il Fatto 1.12.18
Ucraina-Russia: guerra di kalashnikov e preti
Poroshenko chiude le frontiere agli uomini russi e perquisisce i monasteri, mentre Putin arruola sacerdoti
Ucraina-Russia: guerra di kalashnikov e preti
di Michela Iaccarino


Russi, maschi, dai 16 ai 60 anni: vietato entrare in Ucraina. Lo ha deciso il presidente Poroshenko: perché Mosca “crea eserciti privati con rappresentanti delle sue forze armate”. Andry Demchenko, portavoce della Guardia di Frontiera, annuncia che anche l’ingresso in Crimea è proibito “per stranieri e ucraini, finché sarà in vigore la legge marziale”. Il cielo è cupo come il limbo politico che si allarga sopra la Rada di Kiev. “Se dovessimo usare misure a specchio, si andrebbe al collasso” ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, pensando ai milioni di ucraini residenti nella Federazione. Le ritorsioni del Cremlino sono altre: mentre nuove sanzioni vengono imposte contro Mosca dall’Ue, la Russia colpisce con la stessa arma 400 membri dell’élite ucraina che hanno business o proprietà nella Federazione, rende noto il premier Dimitry Medvedev.
Poroshenko, che si è fatto fotografare tra soldati e carri armati al fronte negli ultimi giorni, dice di avere le “prove di un rafforzamento dell’esercito russo al confine”, mostra foto aeree alle tv mentre tuona: “Voglio un mondo civile unito contro Putin, lui non ha una linea rossa, voglio sentire pressione coordinata, chi vi dice che lui non arriverà al Baltico?”. Appelli all’Unione europea, Nato e Fmi sembrano essere l’unica campagna elettorale dell’oligarca per le imminenti elezioni e con la crisi in atto, i sondaggi che lo davano perdente, non interessano più a nessuno. Stivali e kalashnikov tra icone e candele. L’Sbu, i servizi segreti ucraini, hanno fatto irruzione ieri nel millenario monastero di Kiev dove il metropolita Pavlo, fedele alla chiesa russa, è accusato “di incitamento all’odio”. Sono conseguenze dello scisma dei patriarcati ortodossi, ma anche “l’indipendenza della chiesa ucraina”, che ha deciso di allontanarsi da quella di Mosca “organo di propaganda del Cremlino, è parte del nostro progetto filo-europeo” ha assicurato Poroshenko. Nella versione slava del gioco dell’oca che si sta consumando dall’Azov alla Moscova, è desueto il passo di risposta della Difesa russa. Dai carri armati alle croci: una redenzione verde mimetico per la patria. Per “preparare i preti alle emergenze in battaglia, per addestrarli a guidare veicoli armati al fronte” gli ortodossi andranno in Siberia. Verrà costruita una “cattedrale militare”, mura colore delle divise e guglie d’oro. A fine giornata c’è spazio per l’agenzia meteorologica statale ai tg russi. C’è un record nell’innalzamento delle temperature: “Gli inverni a Mosca stanno diventando sempre più caldi”, come la guerra alle porte, sempre meno Fredda.
il manifesto 1.12.18
Messico, il primo banco di prova per Amlo sarà la carovana dei migranti Il primo atto da presidente potrebbe essere la redazione di una “nuova costituzione morale” concordata con la popolazione, una sorta di binario politicamente (anche se non legalmente) vincolante per il governo che sta per nascere
di Roberto Zanini


Il giorno è arrivato, Andres Manuel Lopez Obrador assume oggi l’incarico di presidente del Messico. Dopo due elezioni letteralmente scippate, al terzo tentativo il leader di Morena (Movimento di rigenerazione nazionale) ha vinto e pronuncerà oggi la “protesta” – curioso messicanismo che vale promettere, giurare, ma senza il minimo significato religioso, eredità anticlericale dei rivoluzionari vittoriosi di inizio Novecento. Per arrivare alla residenza presidenziale di Los Pinos – che non userà come ufficio – Obrador ha dovuto battere molti primati: il più votato, nelle elezioni più partecipate, il solo esplicitamente di sinistra…
La promessa di Amlo è quella di cambiare radicalmente il Messico, lotta alla povertà e guerra alla corruzione sono le frecce principali nell’arco del neopresidente. Populista, è l’accusa consueta. Certamente la rabbia diffusa verso un potere sfacciato e profondamente inquinato ha giocato a suo favore. Quanto il vento possa cambiare, si potrà forse valutare da subito, con quella carovana dei migranti da giorni arenata a Tijuana, dove alcune donne hanno iniziato uno sciopero della fame.
Da presidente in pectore, Obrador aveva lasciato la patata bollente al condiscenente Peña Nieto, da oggi non potrà più permetterselo. L’ultimo atto del suo predecessore è stata la firma del trattato commerciale tra Messico, Stati uniti e Canada che sostituisce il Nafta, entrato in vigore in quel drammatico 1994 che vide il crollo del peso messicano, il dilagare di una crisi economica mondiale e l’arrivo contemporaneo dell’Esercito zapatista sulle montagne del Chiapas – solo il petrolio nazionalizzato negli anni Trenta salvò il paese dalla bancarotta, quello stesso petrolio che oggi una legge del governo uscente ha reso di nuovo privatizzabile, e sulla quale Obrador deve spendere le prime parole ufficiali. Anche se il primo atto da presidente potrebbe essere la redazione di una “nuova costituzione morale” concordata con la popolazione, una sorta di binario politicamente (anche se non legalmente) vincolante per il governo che sta per nascere.
E che nasce con le prime difficoltà: lo scrittore Paco Taibo II rischia il posto governativo di capo del Fondo de cultura economica (in pratica il ramo del governo che finanzia la cultura) per aver criticato gli avversari con un rotondo e goliardico “li abbiamo inchiappettati doppiamente”. Il riferimento è al tentativo di tenerlo fuori dal governo perché non messicano di nascita (è spagnolo, la famiglia fuggì per scampare a Franco): dopo la vittoria, Obrador ha promesso una legge ad hoc per imbarcarlo nell’esecutivo. Critiche di machismo e anti-femminismo anche da sinistra, scuse dello scrittore, situazione ancora sotto esame. Insomma, si comincia.
il manifesto 1.12.18
Messico, inizia l’era Obrador detto «l’uovo del serpente»
Una svolta storica. Così lo appello il Subcomandante Marcos. Si inaugura oggi la nuova presidenza, guidata da Andres Manuel Lopez Obrador che promette la “quarta trasformazione” del paese dopo l'indipendenza di Hidalgo, la riforma 

di Roberto Zanini

Il 1. dicembre finisce “el año de Hidalgo, chingue a su madre el que deje algo”. E non c’entra il padre della patria Miguel Hidalgo, a cui era dedicato quel brindisi che invitava a non dejar algo, non lasciare nulla nel bicchiere. C’entra la peculiare tradizione messicana per cui ogni politico al termine del mandato saccheggia tutto il saccheggiabile, dall’ultimo grande appalto ai rubinetti del bagno, e poi chiude la porta – se non ruba anche quella. Negli ultimi cinquant’anni l’año de Hidalgo è diventata prassi politica consolidata, diritto consuetudinario, poco o per nulla perseguito perché fino a poco tempo fa presidente uscente ed entrante appartenevano allo stesso partito, il favoloso ossimoro chiamato Partido revolucionario institucional. È andata così per 70 anni. Ora si cambia, dicono. È arrivato Andres Manuel Lopez Obrador.
La biografia del nuovo presidente del Messico e quella del suo drammatico paese raccontano bene l’evoluzione di una politica iniziata scrivendo pagine di storia e finita nella cronaca nera, l’ammaloramento di una rivoluzione. Quando Andres Manuel Lopez Obrador nasce nel ’54 a Tlalpan, nello stato meridionale di Tabasco, il Messico a suo modo socialista forgiato da Lazaro Cardenas ha una ventina d’anni, le multinazionali del petrolio sono state cacciate e i pozzi nazionalizzati, la democrazia autoritaria del partito-stato Pri è in pieno sviluppo. Quando il giovane Obrador si laurea in scienze politiche esiste un solo partito, il Pri, e il tabasqueño prova a farlo suo. Non ci riuscirà. Quando nel 1988 il figlio di Lazaro Cardenas, Cuauhtemoc, abbandona il Pri ormai inguardabile e fonda la speranza democratica, il Prd (Partito della rivoluzione democratica), Obrador è tra quelli che lo seguono, non tutti armati di oneste intenzioni.
Nel 1990 Cardenas junior sfida l’establishment alle presidenziali, l’uomo del Pri è Carlos Salinas de Gortari, forse il peggio che il vecchio Partito rivoluzionario abbia mai espresso. Nella notte si contano i voti, Cuauhtemoc è in testa… e salta la luce. Caida del sistema è l’eufemismo con cui il Pri battezza il suo primo enorme broglio elettorale: quando torna la corrente Salinas è primo e lo resterà. I riformatori ci riprovano nel 1994, mentre il Messico è sconvolto dalla crisi economica, l’”effetto tequila” terrorizza i mercati mondiali e il Pri è ormai diventato un mostro il cui dibattito politico si svolge a rivoltellate: il candidato riformatore Colosio viene freddato a colpi di 38 special durante un comizio, pochi mesi dopo sparano e uccidono il presidente del partito Ruiz Massieu, la paura riempie le urne del Pri e alla presidenza sale lo sconosciuto Ernesto Zedillo, selezionato con la vecchia pratica del dedazo ossia indicato a dito dal presidente Salinas, ormai in fuga verso gli ospitali Stati uniti.
Nel Tabasco, a Obrador accade come a Cardenas: è in testa in ogni sondaggio ma dalle urne esce il priista Roberto Madrazo. Un altro broglio e non sarà l’ultimo, mentre sui monti del Chiapas si affaccia un diverso tipo di speranza, porta passamontagna e fucile ma spara poco e parla molto, il suo portavoce diventa un’icona planetaria. Si fa chiamare Subcomandante Marcos.
Nel 2000 Cuauhtemoc ci riprova ma è una candidatura esausta, e il Prd ha imbarcato tali e tanti riciclati da esserne geneticamente modificato. Non servono neanche i brogli, contro un Pri a sua volta esausto la spunta l’uomo della destra liberista, il dirigente della Coca Cola Vicente Fox, e il suo Pan (Partido de accion nazional). Dopo settant’anni il Pri cede la presidenza e sembra chiudersi una storia iniziata con Pancho Villa e Emiliano Zapata. Ma Fox non è politicamente così diverso dai predecessori.
Obrador intanto si è candidato a governatore del Distrito federal, il territorio della capitale Città del Messico. Dall’enorme metropoli viene un quarto del pil del paese, vi risiedono 9 milioni di messicani e altri milioni nella cintura urbana. Obrador vince, e bene. Ormai lo chiamano Amlo oppure el peje, dal curioso e bruttissimo animale che popola le acque salmastre del Tabasco, il peje lagarto, qualcosa tra ittico e rettile dall’aspetto paleolitico. È una consacrazione, ma di quelle difficili. Al lavoro alle 6 del mattino, ogni mattina. Abolita l’auto blu, si sposta su una vecchia Nissan. Si riduce lo stipendio. Vara piani di welfare per gli anziani e di scolarizzazione per i giovani, traccia autostrade in quell’incubo urbano che è il traffico di Città del Messico – è proprio in quegli anni che dalla Volkswagen di Puebla esce l’ultimo escarabajo, l’immortale Maggiolino i cui fumi non catalizzati avvelenano la capitale a decine di migliaia – e progetti di restauro del magnifico e disastrato centro storico, in collaborazione con il re delle telecomunicazioni Carlos Slim, uno che da solo vale il pil di uno stato minore del G20.
Nel 2005 si dimette per affrontare le presidenziali. Di fronte ha di nuovo Roberto Madrazo, come sedici anni prima nel Tabasco, e lo spento panista Felipe Calderon. Ed è subito broglio: con una progressione aritmetica perfetta i 10 punti di vantaggio del primo rilevamento diventano cinque, tre, uno… Nella notte Calderon chiude davanti di mezzo punto. È una truffa e lo sanno tutti, ma ormai è pratica diffusa e sdoganata: poco più a nord, qualche anno prima, a Al Gore era accaduta la stessa cosa.
Lopez Obrador ci riprova nel 2012, più moderato, tanto che il Subcomandante Marcos in uno dei suoi lunghissimi articoli lo definisce “l’uovo del serpente”, un neoliberista travestito – ma non è più il Marcos che portava un milione di militanti nell’enorme zocalo capitalino, la piazza centrale di Città del Messico. Amlo riperde contro i soliti noti, e non serve a niente portare in tribunale le carte di credito prepagate Monex con cui il Pri ha comprato un bel po’ di voti per il suo uomo, Enrique Peña Nieto: la sentenza (colpevoli) arriverà solo nel 2017. Ma Obrador non l’ha attesa.
Dopo l’ennesima sconfitta fraudolenta dice addio al Prd, arma un vero grande movimento di protesta, organizza un governo parallelo, trasforma l’associazione civica Morena (Movimento di rigenerazione nazionale) in un partito vero e proprio e ingaggia una battaglia contro la corruzione, il potere sopraffattore della politica, l’ingombrante presidente degli Stati Uniti. Mentre i narcos messicani instaurano un sanguinoso feudalesimo che liquida l’esercito schierato dal presidente Peña Nieto – oltre 30mila morti lo scorso anno, mai così tanti, tanti quanti i morti dell’intera dittatura militare in Argentina – el peje batte il paese volando in classe turistica, spostandosi in camper e autobus, senza altra scorta che l’autista di turno.
Questa volta è una marcia trionfale, mai nessuno aveva vinto con tanto margine, non c’è broglio che tenga, in parlamento Morena ha la maggioranza e Lopez Obrador promette la “quarta trasformazione del Messico” dopo l’indipendenza di Hidalgo, la riforma di Benito Juarez, la rivoluzione di Villa e Zapata. Tutte rivolte armate.
il manifesto 1.12.18
Regeni, Fico costringe il governo italiano e il parlamento egiziano a reagire
Italia/Egitto. Dopo la sospensione dei rapporti parlamentari, i deputati del Cairo definiscono la mossa unilaterale e ingiustificata. La Farnesina convoca l'ambasciatore egiziano, ma Moavero non tocca l'expo di armi
di Chiara Cruciati


La sospensione dei rapporti tra Montecitorio e parlamento egiziano è comparsa solo in serata sui media governativi del paese nordafricano per riportare le reazioni del Cairo. Ieri il parlamento egiziano ha criticato la decisione del presidente della Camera Roberto Fico definendola «ingiustificata»: «Ha assunto una posizione unilaterale che va oltre le inchieste, non fa gli interessi dei due paesi né aiuta a giungere alla verità e alla giustizia», scrive l’Assemblea che si dice stupita che la sospensione (definita un’ingerenza nelle indagini) sia giunta a poche ore dall’ultimo vertice tra procure sull’omicidio di Giulio Regeni.
Eppure quel vertice si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto, a parte il solito «clima positivo» e «la volontà di collaborare» che i parlamentari egiziani ripetono, sulla falsa riga delle dichiarazioni stantie del presidente al-Sisi.
Di certo la mossa di Fico ha provocato uno scossone nel governo italiano, investito da un atto simbolico ma dal forte valore politico.
Ieri il ministro degli Esteri Moavero Milanesi ha convocato l’ambasciatore egiziano a Roma, Hisham Badr, per ribadire la necessità di giustizia e sottolineare che «gli esiti della riunione tra magistrati hanno determinato una forte inquietudine in Italia».
Ma non è intervenuto su una questione più stringente, la partecipazione di aziende italiane alla Egypt Defence Expo, il 3 dicembre: «Le aziende hanno un loro ambito di autonomia, ne parleremo a livello di governo – ha detto Moavero – Non c’è nessun paragone tra rapporti commerciali ed economici e la verità su un’uccisione così barbara». Strano modo di vedere le relazioni diplomatiche: i rapporti restano gli stessi anche con un regime che ha ucciso un concittadino e che è violatore seriale di diritti umani.
Interviene il vice premier Di Maio, chiamato in causa dal «collega» di partito Fico: «risposte efficaci» da parte egiziana o Roma trarrà «le conseguenze». «Quello che si fa come aziende in Egitto – ha detto ieri – riguarda il libero mercato, ma è chiaro che in un quadro di relazioni che riguardano anche l’economia, tutto risentirà delle mancate risposte sull’omicidio di Regeni».
Chiude in serata il premier Conte dal G20, sibillino: «Non appena rientrerò ci confronteremo e il governo assumerà le sue decisioni».
Repubblica 1.12.18
Il decreto sicurezza
Via alla stretta sui migranti fuori dai centri in 40mila
I prefetti scrivono ai gestori delle strutture: resta soltanto chi ha ottenuto l’asilo Mattarella: “La sfida riguarda l’Europa e il mondo, serve una responsabilità comune”
di A. Z.


Fuori dagli Sprar, come prevede la legge Salvini, ma anche fuori dai Cas e dai Cara, secondo una “ conseguenziale” interpretazione data dai prefetti di tutta Italia che, da qualche giorno, hanno cominciato a riunire i gestori dei centri comunicando loro che i titolari di protezione umanitaria dovranno lasciare anche le strutture di prima accoglienza. Tutti, comprese donne e famiglie con bambini. Già ieri 26 persone sono state invitate a lasciare immediatamente il Cara di Isola Capo Rizzuto in Calabria: tra loro una donna incinta e un bambino di cinque mesi, subito presi in carico dalla Croce Rossa. Tutti migranti regolari, tutti con documenti di identità e permesso di protezione umanitaria, tutti destinati alla strada come altri 40mila, questa la stima fatta dalle associazioni di settore, interessati dai provvedimenti dei prefetti che, chi con data perentoria chi con maggiore elasticità a difesa delle situazioni più vulnerabili, hanno così allargato a dismisura la portata della legge Salvini, di fatto privando di qualsiasi tipo di accoglienza i titolari di protezione umanitaria.
E proprio nel giorno in cui da Verona il presidente della Repubblica richiamava ad un senso di comune responsabilità nell’affrontare il problema dell’immigrazione «un fenomeno che non è più di carattere emergenziale ma strutturale e quindi costituisce una delle grandi sfide che si presentano all’Unione europea e a tutto il mondo ed è un’esigenza che richiama alla responsabilità comune » . Mattarella, facendo appello all’Unione europea ad « assumere questo fenomeno che non va ignorato ma affrontato » ha implicitamente invitato il governo italiano (che non intende sottoscriverlo) a leggere il Global Compact delle Nazioni Unite «prima di formulare un giudizio perché non si esprimono opinioni e giudizi per sentito dire».
Repubblica 1.12.18
La strategia del Viminale
L’offensiva contro i permessi umanitari ma ora 15mila italiani rischiano il lavoro
Chi oggi gode della protezione cancellata da Salvini presto sarà irregolare
Le associazioni: tutto scaricato sui sindaci per motivi elettorali
di Alessandra Ziniti


ROMA L’input è partito dalla Direzione libertà civili e immigrazione del Viminale, secondo una filosofia che era già stata esplicitata dalla prefetta Gerarda Pantalone quando aveva illustrato i criteri del taglio dei famosi 35 euro per la gestione dell’accoglienza di ogni singolo migrante: niente lezioni di italiano, niente formazione, niente servizi sociali per i titolari di protezione umanitaria, inutile investire risorse per integrare chi è destinato a non rimanere in Italia alla scadenza del permesso.
E, a quanto pare, “inutile” investire persino per dare un tetto a chi, comunque, in Italia in questo momento è da regolare, con documenti di identità e un permesso che, sulla carta, potrebbe alla scadenza essere trasformato in permesso di lavoro. Se solo, naturalmente, si desse la possibilità di compiere un percorso in questo senso.
E invece fuori tutti, donne e bambini compresi, nonostante le assicurazioni di Salvini. Le circolari inviate in questi giorni dai prefetti di tutta Italia ai gestori dei pochi centri per richiedenti asilo e dei circa 7.500 centri di accoglienza straordinaria non risparmiano proprio nessuno.
Neanche chi, per paradosso, se dovesse trovarsi oggi davanti ad una commissione territoriale, si vedrebbe riconosciuto un permesso speciale perché vittima di violenza e che invece, con il “vecchio” permesso umanitario, non solo non potrà più accedere al circuito di seconda accoglienza degli Sprar ma deve lasciare anche l’alloggio che ha finendo in strada da un giorno all’altro.
Leggiamo ad esempio la comunicazione con la quale la prefettura di Potenza ha invitato i gestori dei Cas a dare il benservito ai propri ospiti. Ricordando come la legge Salvini prevede che l’accoglienza negli Sprar sia riservata solo ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati, «si fa presente che cesseranno conseguentemente i servizi di accoglienza nei confronti di titolari di protezione umanitaria che dovranno pertanto essere invitati a lasciare le strutture.
Questa prefettura non corrisponderà dal primo dicembre il pagamento delle somme per i servizi di accoglienza nei confronti dei suddetti stranieri che dovessero rimanere nelle strutture».
Il cavillo è tutto in quell’avverbio “conseguentemente”: come dire che, visto che la nuova legge non prevede il trasferimento dei titolari di protezione umanitaria nel circuito Sprar, non c’è motivo di sostenere neanche i costi della prima accoglienza di persone che, a scadenza di quel permesso che è di fatto stato abolito, riceveranno nella maggior parte dei casi un provvedimento di espulsione.
«Un’interpretazione del tutto arbitraria quella dei prefetti — dice Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci, associazione che con la sua rete gestisce circa 120 centri di accoglienza — è come se una persona che va al pronto soccorso e che aspetta di essere ricoverata in un reparto, in assenza di un posto, viene cacciata via anche dal pronto soccorso. È una linea di estrema gravità quella del Viminale che si lava le mani del destino di migliaia di persone scaricando sui Comuni che, con le poche risorse che hanno, dovranno farsi carico dell’assistenza di un esercito di nuovi senza tetto. Tutto ciò si trasformerà presto in un disagio ben visibile sotto gli occhi di tutti con una raffica di conflitti e di interventi securitari che faranno comodo a chi ci farà su la campagna elettorale».
Da qualche giorno il numero verde 800905570 di assistenza ai migranti è preso d’assalto. Chiama Ibrahim, 20 anni, della Guinea Bissau. A lui il permesso umanitario lo hanno concesso da appena due mesi e gli scadrà nel 2020, ma gli hanno già notificato il provvedimento che gli intima di lasciare il Cas in provincia di Viterbo nel quale si era appena inserito. «Dove vado? Che devo fare? Ma io adesso sono in regola.
Volevo cominciare a imparare un lavoro». E come lui decine e decine di altri.
La galassia di associazioni che gestisce i centri in cui si prevede già la perdita del posto di lavoro per circa 15.000 italiani ha avviato un monitoraggio e interessato i legali per capire se esistono i presupposti di un ricorso. «Ma tutto questo — osserva ancora Miraglia — ha anche una grande valenza sociale e politica. Mentre prima queste persone, nell’iter dai centri di prima a quelli di seconda accoglienza, avevano una chance di entrare nel mondo del lavoro, adesso per loro è finita. Saranno solo manovalanza criminale. Il governo dovrà assumersi la responsabilità di trasformare potenziali lavoratori in casi sociali, gente che avrebbe potuto presto mantenersi da sola in un peso sociale».
Il Fatto 1.12.18
Cara Anpi, il dl Salvini è figlio di molti padri
di Tomaso Montanari


“Con l’approvazione del decreto Sicurezza si stravolge di fatto la Costituzione”. La voce dell’Associazione Nazionale Partigiani ancora una volta si leva per dire la verità. E la dura, triste verità è che festeggiamo l’ottantesimo delle leggi razziali con una legge francamente razzista. Non solo sul piano del colore della pelle, ma anche su quello sociale. L’aspetto più odioso della legge Salvini è forse proprio l’evidente odio verso i poveri. Torna la tassa (già introdotta dalla Lega nel 2009 e poi abrogata) sulle rimesse dei migranti. Sì: non sulle transazioni finanziarie, non sui grandi capitali. Ma sui soldi che i poveri mandano a casa.
E poi l’idea di città, una città sicura solo per alcuni: i negozi etnici diventano diversi da quelli italiani; i vigili urbani col taser; i daspo urbani che si allargano; la perdita dell’asilo politico anche per i furti in appartamento; il raddoppiamento del tempo in cui i migranti possono essere inghiottiti nei non-luoghi dei Centri di permanenza per il rimpatrio; pene più severe per chi occupa immobili abbandonati; il carcere per chi chiede l’elemosina con insistenza, e per i parcheggiatori abusivi. È una condanna della marginalità sociale, una persecuzione del disagio. Il “degrado” delle città viene fatto coincidere con la povertà: che non si cura, ma si punisce. Fino al vertice simbolico dello smontaggio della stessa idea di cittadinanza, che ora si può revocare per terrorismo, ma solo a chi non l’ha acquisita per nascita. Colpire, nascondere, sorvegliare la città e la cittadinanza dei poveri: tenerla distinta e separata da quella dei ricchi, in una regressione secolare. Ora, tutto questo non si combatte con un “fronte repubblicano”, o comunque lo si chiami. Ed è per questo, che con tutta la mia devozione all’Anpi, non condivido l’appello “alle forze politiche democratiche” cui l’Associazione dice: “Basta divisioni, discussioni stucchevoli, rese dei conti”. Credo che l’egemonia culturale della destra salviniana – perché di questo si tratta – non si combatta con l’unità dei pochi militanti, ma con un discorso di verità.
E la verità è che “l’Italia entra nell’incubo dell’apartheid giuridico” (così ancora l’Anpi) non oggi, col decreto Salvini. È una storia più antica, i cui protagonisti negativi sono in larga parte proprio quelli che oggi (del tutto strumentalmente) si affollano dietro la bandiera della resistenza civile alla barbarie. In un piccolo, prezioso libro di dieci anni fa (Lavavetri, Terre di Mezzo 2009) Lorenzo Guadagnucci ha raccontato come la retorica della sicurezza e del decoro urbano siano nate nella Firenze – largamente pre-renziana – del sindaco Leonardo Domenici e del suo assessore-sceriffo Graziano Cioni. Nel luglio del 2008 (nel pieno delle campagne sulla sicurezza del governo Berlusconi), la giunta “di sinistra” fiorentina varava un Regolamento di Polizia Urbana nel quale è possibile leggere in chiaro non solo la radice, ma un bel tratto della malapianta che oggi fiorisce grazie a Salvini.
Guadagnucci racconta come il fiorentino Pier Luigi Vigna, allora procuratore nazionale antimafia, e la stessa Procura di Firenze furono costretti a intervenire smentendo l’amministrazione: nessuna reale esigenza di sicurezza giustificava la stretta anticostituzionale contro i lavavetri e i rom fiorentini. Mentre alcuni preti digiunavano sotto Palazzo Vecchio con cartelli che dicevano “bisogna combattere la povertà, non i poveri”, il governo Berlusconi varava il pacchetto sicurezza di Maroni, che ricalcava in larga parte quello lasciato dal governo Prodi e non approdato al Parlamento per la crisi dell’esecutivo. Nell’introduzione a quest’ultimo si leggeva che, pur diminuendo i reati, bisognava rispondere all’“insicurezza percepita”. Era il 2007 quando il segretario del Pd e sindaco di Roma Veltroni teorizzava che la sinistra doveva “rispondere al bisogno di legalità” con “fermezza e assoluta severità”. È qui che nasce l’egemonia culturale della destra: quando la sinistra smette di dire e di pensare che la sicurezza (di tutti, e non solo dei “salvati”) si costruisce con la giustizia sociale, non con la repressione.
La cattiva strada era stata imboccata molto prima: per esempio con la legge Turco Napolitano del 1998, definita da Giuliano Amato “una sfida alla nostra coscienza e alla nostra stessa Costituzione”. È questa strada che porta fino all’abisso di Minniti, che togliendo (tra l’altro) ai migranti il terzo grado di giudizio sancisce formalmente quell’apartheid giuridica che oggi si denuncia.
In sintesi: non esiste una soluzione di continuità, ma solo una terribile escalation tra Salvini e ciò che ha detto e fatto il centrosinistra quando ha governato le città e il Paese. O si capisce questo, e si agisce di conseguenza, o l’egemonia di Salvini durerà davvero a lungo. Per sconfiggerlo ci vogliono altri pensieri e altre parole: nessuna resistenza è possibile senza la verità.
il manifesto 1.12.18
Una libertà per tutti gli ex luoghi manicomiali
di Franco Rotelli


In un bellissimo libro fotografico dal titolo rievocativo Asylum, qualche anno fa Cristopher Payne ha pubblicato più di duecento immagini, di sorprendente potenza, riprendendo facciate ed interni di grandi (a volte immensi) ospedali psichiatrici americani, dismessi e abbandonati verso la fine del secolo scorso.
Negli anni Cinquanta erano quasi seicentomila gli internati negli ospedali pubblici degli Stati Uniti. Qualcuno capace di cinquemila posti letto.
Le immagini potenti di luoghi vuoti, a volte di grande bellezza architettonica, si alternano alle foto di infinite suppellettili, indumenti, oggetti d’uso della quotidianità abbandonati come all’improvviso, come in un macabro racconto di Stephen King. In effetti il vento formidabile del liberismo non fu certo meno potente di una devastante generale epidemia.
Nessun nobile intento nella politica di deospedalizzazione selvaggia dell’epoca laggiù, ma l’incontro tra una versione dissennata dell’antipsichiatria e l’abbandono di qualsiasi forma (anche perversa) di protezione sociale dei più deboli. Ancora oggi strade della California, Los Angeles, S. Francisco, ospitano quel folto popolo disperso, espulso dai falansteri giudicati alla fine solo inutilmente costosi.
Italia 1978: la legge 180 decide del destino a termine degli ospedali psichiatrici. Per tutt’altri motivi, dentro un nuovo paradigma, rovesciando il passato remoto e prossimo. Erano settanta e ci vollero vent’anni e un nuovo ministro, Rosy Bindi, per vuotarli davvero in un lento percorso tra pratiche nobili e ignavie colpevoli.
Qualcuno ha voluto chiedersi che ne è di quei luoghi. A Trieste, Giancarlo Carena ha curato un convegno con tante voci, un incrocio di architetti, storici, sociologi, psichiatri, giornalisti, paesaggisti, cittadini.
Con nobili intenti e ammirevole attenzione vent’anni fa la Fondazione Benetton aveva esteso a tutto il Paese una ricerca, producendo una cartografia dei settanta compendi che doveva stimolare l’attenzione al loro destino da parte dei pubblici poteri. Comprensori spesso di grande pregio architettonico, collocati sovente in aree pregiate delle città, potenzialmente dedicabili come beni comuni a usi ben più apprezzabili di quello prodotto dalla nefasta (grandiosa) utopia dei costruttori dei manicomi.
In molte città quei luoghi hanno ancora un nome potente non dissolto. S. Maria della Pietà, Paolo Pini, San Salvi, S. Giovanni, il Romcati, il Sant’Orsola San Servolo e San Clemente il Frullone il Bianchi, Collegno San Lazzaro, Monbello, Colorno, Nocera Volterra, Aversa, Girifalco, Castiglione, nomi di intere cittadine o di siti entrati nel linguaggio comune come stereotipi evocativi tuttora di quell’identità (e dei relativi fantasmi). Pochi casi di rigenerazione totale: Treviso, S.Clemente e poco d’altro, parziale recupero a S. Maria della Pietà e pochi altri. In molti casi o per gran parte dei singoli compendi, su di loro è davvero sceso una sorta di inverno perenne. Da Genova Quarto a Colorno, al Pini, da Pesaro a Napoli incuria abbandono: «non si sa bene di chi è», «non si sa bene che farne», si mescolano ad una qualche epochè di chiara matrice. Per vari anni le Amministrazioni locali avevano qua e là anche immaginato che «a da passà a nuttata» e che questa follia italiana avrebbe dovuto tornare ben presto sui suoi passi e quei luoghi avrebbero, per forza di cose, e di ragione, dovuto tornare al loro destino.
Poi è prosperata, condita dalla cattiva fama dei siti, l’ignavia ormai paradigmatica italiana delle opere che non si fanno mai, al massimo si progettano, non vanno mai a gara, se vanno a gara si ricorre, e alla fine non ci sono più né interesse né quattrini per fare..
La struggente bellezza e potenza degli edifici storici di Quarto, gli infiniti spazi del San Salvi a Firenze, il parco del Pini a Milano restano popolati di ombre del passato e di qualche struttura di second’ordine delle aziende sanitarie.
Ma non è neanche breve la lista delle azioni di resilienza e delle pratiche buone che si giocano li.. Come non citare lo straordinario lavoro politico del teatro di Claudio Ascoli e di collettivi giovanili nel San Salvi di Firenze, il dinamismo imprenditorial culturale di Olinda e di Thomas Emmenegger al Pini di Milano, il lavoro teatrale di Claudio Misculin a Trieste, il Quarto Pianeta a Genova… Ma poi, a Trieste il Parco culturale di S. Giovanni: il Museo dei bambini, Il Posto delle Fragole, la cooperativa Lister, le sedi eleganti dell’Azienda sanitaria, dell’Università e del Comune, Teatro, bar, laboratori culturali e le seimila rose parlano davvero d’altro, mantenendo vivo un luogo normale e anomalo, bello e ancora potente, rinnovato pur ancora con sue forti ferite.
In Italia musei e archivi un po’ ovunque, forse troppi e dispersi; disperse le pratiche anche se il filo rosso di un pensiero divergente, unisce tanti posti diversi.
Potrebbero essere molti di più. Per una più ricca ed aperta “normalità” per dei luoghi che qui qualcuno ha definito antropoietici, produttori di umanità.
Il Convegno è stato un ricco e riuscito invito a architetti, urbanisti, giovani artisti, associazioni, cooperative, amministratori pubblici a occupare questi straordinari spazi, farli uscire dalla penombra, onorarne la memoria con usi rovesciati. Parchi culturali che facciano di maggior libertà la propria bandiera, perché questi luoghi, testimoniando in concreto la restituzione alla società di tutto quello che veniva negato chiudendolo dentro, ci ricordino sempre che, come sta scritto da quarant’anni sul muri di uno di essi «La libertà è terapeutica».
Per realizzare un segnale forte di tutto questo Domenico Luciani, padre nobile di una grande idea di recupero, invita tutti a ritrovare memoria di pertinenti leggi sugli usi civici e i beni comuni. Evocando la comunità responsabile che potrebbe, come prevede quella legislazione, assumere il governo di questi straordinari patrimoni di storia, cultura e urbana ricchezza.
il manifesto 1.12.18
Italia   
Il destino degli ex manicomi tra beni comuni e speculazione
Legge 180. Convegno a Trieste fa il punto su spazi urbani e non, spesso vuoti e senza destinazione
Marino Calcinari


TRIESTE Nel 1978 a Trieste la lotta per la chiusura dell’ospedale psichiatrico provinciale di san Giovanni (Opp) si saldò con quella del comitato di quartiere di san Sabba, che protestava contro la nocività delle polveri e fumi dell’inceneritore e delle industrie inquinanti, c’era esigenza di rinnovamento, di partecipazione per una migliore qualità della vita e per costruire più ampli spazi di democrazia, contro il privilegio e l’esclusione; in quel contesto sorse la cooperativa agricola di Monte san Pantaleone che ieri ha chiamato a Trieste – in un convegno per fare il punto e trarre un bilancio di quell’esperienza di liberazione – i tanti, diversi soggetti a vario titolo impegnati sia a mantenere vivo un percorso di de-istituzionalizzazione di quell’esperienza sia a progettare con un incessante lavoro di recupero, riuso e valorizzazione di quegli spazi materiali, politiche sociali di inclusione, apertura al territorio, accoglienza e riparo per le nuove povertà ed emarginazioni che la crisi produce.
OGGI LE STRUTTURE dell’ex frenocomio comunale austriaco costruito nel 1908 (34 edifici su una superficie di oltre 160mila metri quadri) sono diventate laboratori di imprenditoria sociale, sede di cooperative, del distretto sanitario locale e dell’azienda ospedaliera, ma ci sono anche due facoltà universitarie, la scuola «Ziga Zois» con lingua d’insegnamento slovena, l’alloggio per anziani, spazi per la cultura e gli eventi, un bar e il Teatro rinnovato, che fino al 1992 era stato deposito di detersivi per l’ ospedale.
Ma non dovunque è stato così, non sempre «è stato possibile costruire benessere nei luoghi della follia» – ha detto nel suo intervento lo psichiatra Roberto Mezzina, direttore del dipartimento salute mentale dell’ azienda sanitaria triestina – «ma l’ apertura alla comunità con i laboratori, il riuso sanitario non psichiatrico, l’insediamento delle cooperative, gli eventi culturali ormai consolidati negli spazi del parco, hanno consentito la rigenerazione di tutto l’ex Opp». «Per questi motivi – ha sostenuto Nico Luciani, architetto a Venezia – l’ex Opp di Trieste si merita il premio Nobel, proposta avanzata da Giovanni Fraziano dell’Università di Trieste, che ha sottolineato l’esemplarità della’iter triestino «che ha consentito a una enclave utopica di diventare, da luogo di segregazione e dolore, un nuovo campus di esperienza e rigenerazione».
LA DISCUSSIONE si è quindi sviluppata sulle forme e modalità di intervento delle rimanenti realtà che a tutt’oggi racchiudono la memoria di un vasto patrimonio umano e culturale, ma che in molti casi hanno subìto la logica delle cartolarizzazioni e quindi la svendita e l’abbandono. Così è toccato in gran parte agli edifici e al parco di san Osvaldo a Udine, il cui manicomio ospitava sino al 1978 4.500 persone. E al manicomio dell’isola di San Clemente a Venezia, del 1873, trasformato in un resort di lusso – 51mila metri quadri di verde – dopo al svendita del 1992. È convinzione condivisa dai più, nei molti interventi che si sono susseguiti, che gli enti locali si siano dimostrati irresponsabili verso i beni comuni, mentre oggi sarebbe doveroso riconoscerne il valore e regolarne gli usi, per difendere e valorizzare quanto resta di questo inestimabile patrimonio architettonico, storico e ambientale.
C’È UN PORTALE – «Gli spazi della follia» – che illustra la mappatura dei siti interessati, sinora 43 su oltre 70 dismessi, e di quelli riportati a nuova vita: ne parla l’ architetto e ricercatore Gerardo Doti. A Pesaro l’ospedale di San Benedetto ha modificato lo stesso spazio urbano con un progetto di riconversione, pur permanendo alcune zone di criticità, mentre «l’ospedale Bianchi di Napoli, oggi completamente chiuso, versa in abbandono», ci informa Angelo de Agostino, docente all’università Federico II di Napoli. A Gorizia il progetto di rigenerazione di quel che resta del Parco, stenta a decollare, mentre il «padiglione delle agitate (edificio del 1911) cade a pezzi», ha ricordato Giuseppina Scavuzzo dell’università di Trieste.
C’È CHI, COME NUNZIA, ha realizzato nell’ex Opp della Maddalena, ad Aversa, percorsi di inserimento lavorativo per migranti, precari, disoccupati ed ex carcerati. O come Rosario Cutuli che all’ex Opp Paolo Pini ha trasformato, con la coop sociale «La fabbrica di Olinda», la (ex) camera mortuaria in bar e ristorante, che oggi danno lavoro a una cinquantina di persone. All’ex Opp di Firenze il collettivo «Percorso Psiche» – ne ha parlato Margherita Festini – è tornato ad abitare, con mille iniziative e con percorsi auto-formativi, gli spazi vuoti di quel vasto comprensorio «perché dove oggi ci sono solitudini vanno costruiti luoghi antropologici e soprattutto antropoietici» .
Con le note di je so pazzo – e con l’auspicio di Giancarlo Carena, presidente della Cna di Trieste, che l’ex Opp sia «la casa del popolo del terzo millennio» – il convegno è terminato. Ma si aggiornerà a breve, perché i tempi lo richiedono e qui tutti ne sono consapevoli.
il manifesto 1.12.18
Italia   
Il destino degli ex manicomi tra beni comuni e speculazione
Legge 180. Convegno a Trieste fa il punto su spazi urbani e non, spesso vuoti e senza destinazione
Marino Calcinari


TRIESTE Nel 1978 a Trieste la lotta per la chiusura dell’ospedale psichiatrico provinciale di san Giovanni (Opp) si saldò con quella del comitato di quartiere di san Sabba, che protestava contro la nocività delle polveri e fumi dell’inceneritore e delle industrie inquinanti, c’era esigenza di rinnovamento, di partecipazione per una migliore qualità della vita e per costruire più ampli spazi di democrazia, contro il privilegio e l’esclusione; in quel contesto sorse la cooperativa agricola di Monte san Pantaleone che ieri ha chiamato a Trieste – in un convegno per fare il punto e trarre un bilancio di quell’esperienza di liberazione – i tanti, diversi soggetti a vario titolo impegnati sia a mantenere vivo un percorso di de-istituzionalizzazione di quell’esperienza sia a progettare con un incessante lavoro di recupero, riuso e valorizzazione di quegli spazi materiali, politiche sociali di inclusione, apertura al territorio, accoglienza e riparo per le nuove povertà ed emarginazioni che la crisi produce.
OGGI LE STRUTTURE dell’ex frenocomio comunale austriaco costruito nel 1908 (34 edifici su una superficie di oltre 160mila metri quadri) sono diventate laboratori di imprenditoria sociale, sede di cooperative, del distretto sanitario locale e dell’azienda ospedaliera, ma ci sono anche due facoltà universitarie, la scuola «Ziga Zois» con lingua d’insegnamento slovena, l’alloggio per anziani, spazi per la cultura e gli eventi, un bar e il Teatro rinnovato, che fino al 1992 era stato deposito di detersivi per l’ ospedale.
Ma non dovunque è stato così, non sempre «è stato possibile costruire benessere nei luoghi della follia» – ha detto nel suo intervento lo psichiatra Roberto Mezzina, direttore del dipartimento salute mentale dell’ azienda sanitaria triestina – «ma l’ apertura alla comunità con i laboratori, il riuso sanitario non psichiatrico, l’insediamento delle cooperative, gli eventi culturali ormai consolidati negli spazi del parco, hanno consentito la rigenerazione di tutto l’ex Opp». «Per questi motivi – ha sostenuto Nico Luciani, architetto a Venezia – l’ex Opp di Trieste si merita il premio Nobel, proposta avanzata da Giovanni Fraziano dell’Università di Trieste, che ha sottolineato l’esemplarità della’iter triestino «che ha consentito a una enclave utopica di diventare, da luogo di segregazione e dolore, un nuovo campus di esperienza e rigenerazione».
LA DISCUSSIONE si è quindi sviluppata sulle forme e modalità di intervento delle rimanenti realtà che a tutt’oggi racchiudono la memoria di un vasto patrimonio umano e culturale, ma che in molti casi hanno subìto la logica delle cartolarizzazioni e quindi la svendita e l’abbandono. Così è toccato in gran parte agli edifici e al parco di san Osvaldo a Udine, il cui manicomio ospitava sino al 1978 4.500 persone. E al manicomio dell’isola di San Clemente a Venezia, del 1873, trasformato in un resort di lusso – 51mila metri quadri di verde – dopo al svendita del 1992. È convinzione condivisa dai più, nei molti interventi che si sono susseguiti, che gli enti locali si siano dimostrati irresponsabili verso i beni comuni, mentre oggi sarebbe doveroso riconoscerne il valore e regolarne gli usi, per difendere e valorizzare quanto resta di questo inestimabile patrimonio architettonico, storico e ambientale.
C’È UN PORTALE – «Gli spazi della follia» – che illustra la mappatura dei siti interessati, sinora 43 su oltre 70 dismessi, e di quelli riportati a nuova vita: ne parla l’ architetto e ricercatore Gerardo Doti. A Pesaro l’ospedale di San Benedetto ha modificato lo stesso spazio urbano con un progetto di riconversione, pur permanendo alcune zone di criticità, mentre «l’ospedale Bianchi di Napoli, oggi completamente chiuso, versa in abbandono», ci informa Angelo de Agostino, docente all’università Federico II di Napoli. A Gorizia il progetto di rigenerazione di quel che resta del Parco, stenta a decollare, mentre il «padiglione delle agitate (edificio del 1911) cade a pezzi», ha ricordato Giuseppina Scavuzzo dell’università di Trieste.
C’È CHI, COME NUNZIA, ha realizzato nell’ex Opp della Maddalena, ad Aversa, percorsi di inserimento lavorativo per migranti, precari, disoccupati ed ex carcerati. O come Rosario Cutuli che all’ex Opp Paolo Pini ha trasformato, con la coop sociale «La fabbrica di Olinda», la (ex) camera mortuaria in bar e ristorante, che oggi danno lavoro a una cinquantina di persone. All’ex Opp di Firenze il collettivo «Percorso Psiche» – ne ha parlato Margherita Festini – è tornato ad abitare, con mille iniziative e con percorsi auto-formativi, gli spazi vuoti di quel vasto comprensorio «perché dove oggi ci sono solitudini vanno costruiti luoghi antropologici e soprattutto antropoietici» .
Con le note di je so pazzo – e con l’auspicio di Giancarlo Carena, presidente della Cna di Trieste, che l’ex Opp sia «la casa del popolo del terzo millennio» – il convegno è terminato. Ma si aggiornerà a breve, perché i tempi lo richiedono e qui tutti ne sono consapevoli.

il manifesto 1.12.18
Una libertà per tutti gli ex luoghi manicomiali
di Franco Rotelli


In un bellissimo libro fotografico dal titolo rievocativo Asylum, qualche anno fa Cristopher Payne ha pubblicato più di duecento immagini, di sorprendente potenza, riprendendo facciate ed interni di grandi (a volte immensi) ospedali psichiatrici americani, dismessi e abbandonati verso la fine del secolo scorso.
Negli anni Cinquanta erano quasi seicentomila gli internati negli ospedali pubblici degli Stati Uniti. Qualcuno capace di cinquemila posti letto.
Le immagini potenti di luoghi vuoti, a volte di grande bellezza architettonica, si alternano alle foto di infinite suppellettili, indumenti, oggetti d’uso della quotidianità abbandonati come all’improvviso, come in un macabro racconto di Stephen King. In effetti il vento formidabile del liberismo non fu certo meno potente di una devastante generale epidemia.
Nessun nobile intento nella politica di deospedalizzazione selvaggia dell’epoca laggiù, ma l’incontro tra una versione dissennata dell’antipsichiatria e l’abbandono di qualsiasi forma (anche perversa) di protezione sociale dei più deboli. Ancora oggi strade della California, Los Angeles, S. Francisco, ospitano quel folto popolo disperso, espulso dai falansteri giudicati alla fine solo inutilmente costosi.
Italia 1978: la legge 180 decide del destino a termine degli ospedali psichiatrici. Per tutt’altri motivi, dentro un nuovo paradigma, rovesciando il passato remoto e prossimo. Erano settanta e ci vollero vent’anni e un nuovo ministro, Rosy Bindi, per vuotarli davvero in un lento percorso tra pratiche nobili e ignavie colpevoli.
Qualcuno ha voluto chiedersi che ne è di quei luoghi. A Trieste, Giancarlo Carena ha curato un convegno con tante voci, un incrocio di architetti, storici, sociologi, psichiatri, giornalisti, paesaggisti, cittadini.
Con nobili intenti e ammirevole attenzione vent’anni fa la Fondazione Benetton aveva esteso a tutto il Paese una ricerca, producendo una cartografia dei settanta compendi che doveva stimolare l’attenzione al loro destino da parte dei pubblici poteri. Comprensori spesso di grande pregio architettonico, collocati sovente in aree pregiate delle città, potenzialmente dedicabili come beni comuni a usi ben più apprezzabili di quello prodotto dalla nefasta (grandiosa) utopia dei costruttori dei manicomi.
In molte città quei luoghi hanno ancora un nome potente non dissolto. S. Maria della Pietà, Paolo Pini, San Salvi, S. Giovanni, il Romcati, il Sant’Orsola San Servolo e San Clemente il Frullone il Bianchi, Collegno San Lazzaro, Monbello, Colorno, Nocera Volterra, Aversa, Girifalco, Castiglione, nomi di intere cittadine o di siti entrati nel linguaggio comune come stereotipi evocativi tuttora di quell’identità (e dei relativi fantasmi). Pochi casi di rigenerazione totale: Treviso, S.Clemente e poco d’altro, parziale recupero a S. Maria della Pietà e pochi altri. In molti casi o per gran parte dei singoli compendi, su di loro è davvero sceso una sorta di inverno perenne. Da Genova Quarto a Colorno, al Pini, da Pesaro a Napoli incuria abbandono: «non si sa bene di chi è», «non si sa bene che farne», si mescolano ad una qualche epochè di chiara matrice. Per vari anni le Amministrazioni locali avevano qua e là anche immaginato che «a da passà a nuttata» e che questa follia italiana avrebbe dovuto tornare ben presto sui suoi passi e quei luoghi avrebbero, per forza di cose, e di ragione, dovuto tornare al loro destino.
Poi è prosperata, condita dalla cattiva fama dei siti, l’ignavia ormai paradigmatica italiana delle opere che non si fanno mai, al massimo si progettano, non vanno mai a gara, se vanno a gara si ricorre, e alla fine non ci sono più né interesse né quattrini per fare..
La struggente bellezza e potenza degli edifici storici di Quarto, gli infiniti spazi del San Salvi a Firenze, il parco del Pini a Milano restano popolati di ombre del passato e di qualche struttura di second’ordine delle aziende sanitarie.
Ma non è neanche breve la lista delle azioni di resilienza e delle pratiche buone che si giocano li.. Come non citare lo straordinario lavoro politico del teatro di Claudio Ascoli e di collettivi giovanili nel San Salvi di Firenze, il dinamismo imprenditorial culturale di Olinda e di Thomas Emmenegger al Pini di Milano, il lavoro teatrale di Claudio Misculin a Trieste, il Quarto Pianeta a Genova… Ma poi, a Trieste il Parco culturale di S. Giovanni: il Museo dei bambini, Il Posto delle Fragole, la cooperativa Lister, le sedi eleganti dell’Azienda sanitaria, dell’Università e del Comune, Teatro, bar, laboratori culturali e le seimila rose parlano davvero d’altro, mantenendo vivo un luogo normale e anomalo, bello e ancora potente, rinnovato pur ancora con sue forti ferite.
In Italia musei e archivi un po’ ovunque, forse troppi e dispersi; disperse le pratiche anche se il filo rosso di un pensiero divergente, unisce tanti posti diversi.
Potrebbero essere molti di più. Per una più ricca ed aperta “normalità” per dei luoghi che qui qualcuno ha definito antropoietici, produttori di umanità.
Il Convegno è stato un ricco e riuscito invito a architetti, urbanisti, giovani artisti, associazioni, cooperative, amministratori pubblici a occupare questi straordinari spazi, farli uscire dalla penombra, onorarne la memoria con usi rovesciati. Parchi culturali che facciano di maggior libertà la propria bandiera, perché questi luoghi, testimoniando in concreto la restituzione alla società di tutto quello che veniva negato chiudendolo dentro, ci ricordino sempre che, come sta scritto da quarant’anni sul muri di uno di essi «La libertà è terapeutica».
Per realizzare un segnale forte di tutto questo Domenico Luciani, padre nobile di una grande idea di recupero, invita tutti a ritrovare memoria di pertinenti leggi sugli usi civici e i beni comuni. Evocando la comunità responsabile che potrebbe, come prevede quella legislazione, assumere il governo di questi straordinari patrimoni di storia, cultura e urbana ricchezza.

Il Fatto 1.12.18
Cara Anpi, il dl Salvini è figlio di molti padri
di Tomaso Montanari


“Con l’approvazione del decreto Sicurezza si stravolge di fatto la Costituzione”. La voce dell’Associazione Nazionale Partigiani ancora una volta si leva per dire la verità. E la dura, triste verità è che festeggiamo l’ottantesimo delle leggi razziali con una legge francamente razzista. Non solo sul piano del colore della pelle, ma anche su quello sociale. L’aspetto più odioso della legge Salvini è forse proprio l’evidente odio verso i poveri. Torna la tassa (già introdotta dalla Lega nel 2009 e poi abrogata) sulle rimesse dei migranti. Sì: non sulle transazioni finanziarie, non sui grandi capitali. Ma sui soldi che i poveri mandano a casa.
E poi l’idea di città, una città sicura solo per alcuni: i negozi etnici diventano diversi da quelli italiani; i vigili urbani col taser; i daspo urbani che si allargano; la perdita dell’asilo politico anche per i furti in appartamento; il raddoppiamento del tempo in cui i migranti possono essere inghiottiti nei non-luoghi dei Centri di permanenza per il rimpatrio; pene più severe per chi occupa immobili abbandonati; il carcere per chi chiede l’elemosina con insistenza, e per i parcheggiatori abusivi. È una condanna della marginalità sociale, una persecuzione del disagio. Il “degrado” delle città viene fatto coincidere con la povertà: che non si cura, ma si punisce. Fino al vertice simbolico dello smontaggio della stessa idea di cittadinanza, che ora si può revocare per terrorismo, ma solo a chi non l’ha acquisita per nascita. Colpire, nascondere, sorvegliare la città e la cittadinanza dei poveri: tenerla distinta e separata da quella dei ricchi, in una regressione secolare. Ora, tutto questo non si combatte con un “fronte repubblicano”, o comunque lo si chiami. Ed è per questo, che con tutta la mia devozione all’Anpi, non condivido l’appello “alle forze politiche democratiche” cui l’Associazione dice: “Basta divisioni, discussioni stucchevoli, rese dei conti”. Credo che l’egemonia culturale della destra salviniana – perché di questo si tratta – non si combatta con l’unità dei pochi militanti, ma con un discorso di verità.
E la verità è che “l’Italia entra nell’incubo dell’apartheid giuridico” (così ancora l’Anpi) non oggi, col decreto Salvini. È una storia più antica, i cui protagonisti negativi sono in larga parte proprio quelli che oggi (del tutto strumentalmente) si affollano dietro la bandiera della resistenza civile alla barbarie. In un piccolo, prezioso libro di dieci anni fa (Lavavetri, Terre di Mezzo 2009) Lorenzo Guadagnucci ha raccontato come la retorica della sicurezza e del decoro urbano siano nate nella Firenze – largamente pre-renziana – del sindaco Leonardo Domenici e del suo assessore-sceriffo Graziano Cioni. Nel luglio del 2008 (nel pieno delle campagne sulla sicurezza del governo Berlusconi), la giunta “di sinistra” fiorentina varava un Regolamento di Polizia Urbana nel quale è possibile leggere in chiaro non solo la radice, ma un bel tratto della malapianta che oggi fiorisce grazie a Salvini.
Guadagnucci racconta come il fiorentino Pier Luigi Vigna, allora procuratore nazionale antimafia, e la stessa Procura di Firenze furono costretti a intervenire smentendo l’amministrazione: nessuna reale esigenza di sicurezza giustificava la stretta anticostituzionale contro i lavavetri e i rom fiorentini. Mentre alcuni preti digiunavano sotto Palazzo Vecchio con cartelli che dicevano “bisogna combattere la povertà, non i poveri”, il governo Berlusconi varava il pacchetto sicurezza di Maroni, che ricalcava in larga parte quello lasciato dal governo Prodi e non approdato al Parlamento per la crisi dell’esecutivo. Nell’introduzione a quest’ultimo si leggeva che, pur diminuendo i reati, bisognava rispondere all’“insicurezza percepita”. Era il 2007 quando il segretario del Pd e sindaco di Roma Veltroni teorizzava che la sinistra doveva “rispondere al bisogno di legalità” con “fermezza e assoluta severità”. È qui che nasce l’egemonia culturale della destra: quando la sinistra smette di dire e di pensare che la sicurezza (di tutti, e non solo dei “salvati”) si costruisce con la giustizia sociale, non con la repressione.
La cattiva strada era stata imboccata molto prima: per esempio con la legge Turco Napolitano del 1998, definita da Giuliano Amato “una sfida alla nostra coscienza e alla nostra stessa Costituzione”. È questa strada che porta fino all’abisso di Minniti, che togliendo (tra l’altro) ai migranti il terzo grado di giudizio sancisce formalmente quell’apartheid giuridica che oggi si denuncia.
In sintesi: non esiste una soluzione di continuità, ma solo una terribile escalation tra Salvini e ciò che ha detto e fatto il centrosinistra quando ha governato le città e il Paese. O si capisce questo, e si agisce di conseguenza, o l’egemonia di Salvini durerà davvero a lungo. Per sconfiggerlo ci vogliono altri pensieri e altre parole: nessuna resistenza è possibile senza la verità.

Repubblica 1.12.18
La strategia del Viminale
L’offensiva contro i permessi umanitari ma ora 15mila italiani rischiano il lavoro
Chi oggi gode della protezione cancellata da Salvini presto sarà irregolare
Le associazioni: tutto scaricato sui sindaci per motivi elettorali
di Alessandra Ziniti


ROMA L’input è partito dalla Direzione libertà civili e immigrazione del Viminale, secondo una filosofia che era già stata esplicitata dalla prefetta Gerarda Pantalone quando aveva illustrato i criteri del taglio dei famosi 35 euro per la gestione dell’accoglienza di ogni singolo migrante: niente lezioni di italiano, niente formazione, niente servizi sociali per i titolari di protezione umanitaria, inutile investire risorse per integrare chi è destinato a non rimanere in Italia alla scadenza del permesso.
E, a quanto pare, “inutile” investire persino per dare un tetto a chi, comunque, in Italia in questo momento è da regolare, con documenti di identità e un permesso che, sulla carta, potrebbe alla scadenza essere trasformato in permesso di lavoro. Se solo, naturalmente, si desse la possibilità di compiere un percorso in questo senso.
E invece fuori tutti, donne e bambini compresi, nonostante le assicurazioni di Salvini. Le circolari inviate in questi giorni dai prefetti di tutta Italia ai gestori dei pochi centri per richiedenti asilo e dei circa 7.500 centri di accoglienza straordinaria non risparmiano proprio nessuno.
Neanche chi, per paradosso, se dovesse trovarsi oggi davanti ad una commissione territoriale, si vedrebbe riconosciuto un permesso speciale perché vittima di violenza e che invece, con il “vecchio” permesso umanitario, non solo non potrà più accedere al circuito di seconda accoglienza degli Sprar ma deve lasciare anche l’alloggio che ha finendo in strada da un giorno all’altro.
Leggiamo ad esempio la comunicazione con la quale la prefettura di Potenza ha invitato i gestori dei Cas a dare il benservito ai propri ospiti. Ricordando come la legge Salvini prevede che l’accoglienza negli Sprar sia riservata solo ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati, «si fa presente che cesseranno conseguentemente i servizi di accoglienza nei confronti di titolari di protezione umanitaria che dovranno pertanto essere invitati a lasciare le strutture.
Questa prefettura non corrisponderà dal primo dicembre il pagamento delle somme per i servizi di accoglienza nei confronti dei suddetti stranieri che dovessero rimanere nelle strutture».
Il cavillo è tutto in quell’avverbio “conseguentemente”: come dire che, visto che la nuova legge non prevede il trasferimento dei titolari di protezione umanitaria nel circuito Sprar, non c’è motivo di sostenere neanche i costi della prima accoglienza di persone che, a scadenza di quel permesso che è di fatto stato abolito, riceveranno nella maggior parte dei casi un provvedimento di espulsione.
«Un’interpretazione del tutto arbitraria quella dei prefetti — dice Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci, associazione che con la sua rete gestisce circa 120 centri di accoglienza — è come se una persona che va al pronto soccorso e che aspetta di essere ricoverata in un reparto, in assenza di un posto, viene cacciata via anche dal pronto soccorso. È una linea di estrema gravità quella del Viminale che si lava le mani del destino di migliaia di persone scaricando sui Comuni che, con le poche risorse che hanno, dovranno farsi carico dell’assistenza di un esercito di nuovi senza tetto. Tutto ciò si trasformerà presto in un disagio ben visibile sotto gli occhi di tutti con una raffica di conflitti e di interventi securitari che faranno comodo a chi ci farà su la campagna elettorale».
Da qualche giorno il numero verde 800905570 di assistenza ai migranti è preso d’assalto. Chiama Ibrahim, 20 anni, della Guinea Bissau. A lui il permesso umanitario lo hanno concesso da appena due mesi e gli scadrà nel 2020, ma gli hanno già notificato il provvedimento che gli intima di lasciare il Cas in provincia di Viterbo nel quale si era appena inserito. «Dove vado? Che devo fare? Ma io adesso sono in regola.
Volevo cominciare a imparare un lavoro». E come lui decine e decine di altri.
La galassia di associazioni che gestisce i centri in cui si prevede già la perdita del posto di lavoro per circa 15.000 italiani ha avviato un monitoraggio e interessato i legali per capire se esistono i presupposti di un ricorso. «Ma tutto questo — osserva ancora Miraglia — ha anche una grande valenza sociale e politica. Mentre prima queste persone, nell’iter dai centri di prima a quelli di seconda accoglienza, avevano una chance di entrare nel mondo del lavoro, adesso per loro è finita. Saranno solo manovalanza criminale. Il governo dovrà assumersi la responsabilità di trasformare potenziali lavoratori in casi sociali, gente che avrebbe potuto presto mantenersi da sola in un peso sociale».

Repubblica 1.12.18

Il decreto sicurezza
Via alla stretta sui migranti fuori dai centri in 40mila
I prefetti scrivono ai gestori delle strutture: resta soltanto chi ha ottenuto l’asilo Mattarella: “La sfida riguarda l’Europa e il mondo, serve una responsabilità comune”
di A. Z.


Fuori dagli Sprar, come prevede la legge Salvini, ma anche fuori dai Cas e dai Cara, secondo una “ conseguenziale” interpretazione data dai prefetti di tutta Italia che, da qualche giorno, hanno cominciato a riunire i gestori dei centri comunicando loro che i titolari di protezione umanitaria dovranno lasciare anche le strutture di prima accoglienza. Tutti, comprese donne e famiglie con bambini. Già ieri 26 persone sono state invitate a lasciare immediatamente il Cara di Isola Capo Rizzuto in Calabria: tra loro una donna incinta e un bambino di cinque mesi, subito presi in carico dalla Croce Rossa. Tutti migranti regolari, tutti con documenti di identità e permesso di protezione umanitaria, tutti destinati alla strada come altri 40mila, questa la stima fatta dalle associazioni di settore, interessati dai provvedimenti dei prefetti che, chi con data perentoria chi con maggiore elasticità a difesa delle situazioni più vulnerabili, hanno così allargato a dismisura la portata della legge Salvini, di fatto privando di qualsiasi tipo di accoglienza i titolari di protezione umanitaria.
E proprio nel giorno in cui da Verona il presidente della Repubblica richiamava ad un senso di comune responsabilità nell’affrontare il problema dell’immigrazione «un fenomeno che non è più di carattere emergenziale ma strutturale e quindi costituisce una delle grandi sfide che si presentano all’Unione europea e a tutto il mondo ed è un’esigenza che richiama alla responsabilità comune » . Mattarella, facendo appello all’Unione europea ad « assumere questo fenomeno che non va ignorato ma affrontato » ha implicitamente invitato il governo italiano (che non intende sottoscriverlo) a leggere il Global Compact delle Nazioni Unite «prima di formulare un giudizio perché non si esprimono opinioni e giudizi per sentito dire».

il manifesto 1.12.18
Regeni, Fico costringe il governo italiano e il parlamento egiziano a reagire
Italia/Egitto. Dopo la sospensione dei rapporti parlamentari, i deputati del Cairo definiscono la mossa unilaterale e ingiustificata. La Farnesina convoca l'ambasciatore egiziano, ma Moavero non tocca l'expo di armi
di Chiara Cruciati


La sospensione dei rapporti tra Montecitorio e parlamento egiziano è comparsa solo in serata sui media governativi del paese nordafricano per riportare le reazioni del Cairo. Ieri il parlamento egiziano ha criticato la decisione del presidente della Camera Roberto Fico definendola «ingiustificata»: «Ha assunto una posizione unilaterale che va oltre le inchieste, non fa gli interessi dei due paesi né aiuta a giungere alla verità e alla giustizia», scrive l’Assemblea che si dice stupita che la sospensione (definita un’ingerenza nelle indagini) sia giunta a poche ore dall’ultimo vertice tra procure sull’omicidio di Giulio Regeni.
Eppure quel vertice si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto, a parte il solito «clima positivo» e «la volontà di collaborare» che i parlamentari egiziani ripetono, sulla falsa riga delle dichiarazioni stantie del presidente al-Sisi.
Di certo la mossa di Fico ha provocato uno scossone nel governo italiano, investito da un atto simbolico ma dal forte valore politico.
Ieri il ministro degli Esteri Moavero Milanesi ha convocato l’ambasciatore egiziano a Roma, Hisham Badr, per ribadire la necessità di giustizia e sottolineare che «gli esiti della riunione tra magistrati hanno determinato una forte inquietudine in Italia».
Ma non è intervenuto su una questione più stringente, la partecipazione di aziende italiane alla Egypt Defence Expo, il 3 dicembre: «Le aziende hanno un loro ambito di autonomia, ne parleremo a livello di governo – ha detto Moavero – Non c’è nessun paragone tra rapporti commerciali ed economici e la verità su un’uccisione così barbara». Strano modo di vedere le relazioni diplomatiche: i rapporti restano gli stessi anche con un regime che ha ucciso un concittadino e che è violatore seriale di diritti umani.
Interviene il vice premier Di Maio, chiamato in causa dal «collega» di partito Fico: «risposte efficaci» da parte egiziana o Roma trarrà «le conseguenze». «Quello che si fa come aziende in Egitto – ha detto ieri – riguarda il libero mercato, ma è chiaro che in un quadro di relazioni che riguardano anche l’economia, tutto risentirà delle mancate risposte sull’omicidio di Regeni».
Chiude in serata il premier Conte dal G20, sibillino: «Non appena rientrerò ci confronteremo e il governo assumerà le sue decisioni».

il manifesto 1.12.18
Messico, inizia l’era Obrador detto «l’uovo del serpente»
Una svolta storica. Così lo appello il Subcomandante Marcos. Si inaugura oggi la nuova presidenza, guidata da Andres Manuel Lopez Obrador che promette la “quarta trasformazione” del paese dopo l'indipendenza di Hidalgo, la riforma 

di Roberto Zanini

Il 1. dicembre finisce “el año de Hidalgo, chingue a su madre el que deje algo”. E non c’entra il padre della patria Miguel Hidalgo, a cui era dedicato quel brindisi che invitava a non dejar algo, non lasciare nulla nel bicchiere. C’entra la peculiare tradizione messicana per cui ogni politico al termine del mandato saccheggia tutto il saccheggiabile, dall’ultimo grande appalto ai rubinetti del bagno, e poi chiude la porta – se non ruba anche quella. Negli ultimi cinquant’anni l’año de Hidalgo è diventata prassi politica consolidata, diritto consuetudinario, poco o per nulla perseguito perché fino a poco tempo fa presidente uscente ed entrante appartenevano allo stesso partito, il favoloso ossimoro chiamato Partido revolucionario institucional. È andata così per 70 anni. Ora si cambia, dicono. È arrivato Andres Manuel Lopez Obrador.
La biografia del nuovo presidente del Messico e quella del suo drammatico paese raccontano bene l’evoluzione di una politica iniziata scrivendo pagine di storia e finita nella cronaca nera, l’ammaloramento di una rivoluzione. Quando Andres Manuel Lopez Obrador nasce nel ’54 a Tlalpan, nello stato meridionale di Tabasco, il Messico a suo modo socialista forgiato da Lazaro Cardenas ha una ventina d’anni, le multinazionali del petrolio sono state cacciate e i pozzi nazionalizzati, la democrazia autoritaria del partito-stato Pri è in pieno sviluppo. Quando il giovane Obrador si laurea in scienze politiche esiste un solo partito, il Pri, e il tabasqueño prova a farlo suo. Non ci riuscirà. Quando nel 1988 il figlio di Lazaro Cardenas, Cuauhtemoc, abbandona il Pri ormai inguardabile e fonda la speranza democratica, il Prd (Partito della rivoluzione democratica), Obrador è tra quelli che lo seguono, non tutti armati di oneste intenzioni.
Nel 1990 Cardenas junior sfida l’establishment alle presidenziali, l’uomo del Pri è Carlos Salinas de Gortari, forse il peggio che il vecchio Partito rivoluzionario abbia mai espresso. Nella notte si contano i voti, Cuauhtemoc è in testa… e salta la luce. Caida del sistema è l’eufemismo con cui il Pri battezza il suo primo enorme broglio elettorale: quando torna la corrente Salinas è primo e lo resterà. I riformatori ci riprovano nel 1994, mentre il Messico è sconvolto dalla crisi economica, l’”effetto tequila” terrorizza i mercati mondiali e il Pri è ormai diventato un mostro il cui dibattito politico si svolge a rivoltellate: il candidato riformatore Colosio viene freddato a colpi di 38 special durante un comizio, pochi mesi dopo sparano e uccidono il presidente del partito Ruiz Massieu, la paura riempie le urne del Pri e alla presidenza sale lo sconosciuto Ernesto Zedillo, selezionato con la vecchia pratica del dedazo ossia indicato a dito dal presidente Salinas, ormai in fuga verso gli ospitali Stati uniti.
Nel Tabasco, a Obrador accade come a Cardenas: è in testa in ogni sondaggio ma dalle urne esce il priista Roberto Madrazo. Un altro broglio e non sarà l’ultimo, mentre sui monti del Chiapas si affaccia un diverso tipo di speranza, porta passamontagna e fucile ma spara poco e parla molto, il suo portavoce diventa un’icona planetaria. Si fa chiamare Subcomandante Marcos.
Nel 2000 Cuauhtemoc ci riprova ma è una candidatura esausta, e il Prd ha imbarcato tali e tanti riciclati da esserne geneticamente modificato. Non servono neanche i brogli, contro un Pri a sua volta esausto la spunta l’uomo della destra liberista, il dirigente della Coca Cola Vicente Fox, e il suo Pan (Partido de accion nazional). Dopo settant’anni il Pri cede la presidenza e sembra chiudersi una storia iniziata con Pancho Villa e Emiliano Zapata. Ma Fox non è politicamente così diverso dai predecessori.
Obrador intanto si è candidato a governatore del Distrito federal, il territorio della capitale Città del Messico. Dall’enorme metropoli viene un quarto del pil del paese, vi risiedono 9 milioni di messicani e altri milioni nella cintura urbana. Obrador vince, e bene. Ormai lo chiamano Amlo oppure el peje, dal curioso e bruttissimo animale che popola le acque salmastre del Tabasco, il peje lagarto, qualcosa tra ittico e rettile dall’aspetto paleolitico. È una consacrazione, ma di quelle difficili. Al lavoro alle 6 del mattino, ogni mattina. Abolita l’auto blu, si sposta su una vecchia Nissan. Si riduce lo stipendio. Vara piani di welfare per gli anziani e di scolarizzazione per i giovani, traccia autostrade in quell’incubo urbano che è il traffico di Città del Messico – è proprio in quegli anni che dalla Volkswagen di Puebla esce l’ultimo escarabajo, l’immortale Maggiolino i cui fumi non catalizzati avvelenano la capitale a decine di migliaia – e progetti di restauro del magnifico e disastrato centro storico, in collaborazione con il re delle telecomunicazioni Carlos Slim, uno che da solo vale il pil di uno stato minore del G20.
Nel 2005 si dimette per affrontare le presidenziali. Di fronte ha di nuovo Roberto Madrazo, come sedici anni prima nel Tabasco, e lo spento panista Felipe Calderon. Ed è subito broglio: con una progressione aritmetica perfetta i 10 punti di vantaggio del primo rilevamento diventano cinque, tre, uno… Nella notte Calderon chiude davanti di mezzo punto. È una truffa e lo sanno tutti, ma ormai è pratica diffusa e sdoganata: poco più a nord, qualche anno prima, a Al Gore era accaduta la stessa cosa.
Lopez Obrador ci riprova nel 2012, più moderato, tanto che il Subcomandante Marcos in uno dei suoi lunghissimi articoli lo definisce “l’uovo del serpente”, un neoliberista travestito – ma non è più il Marcos che portava un milione di militanti nell’enorme zocalo capitalino, la piazza centrale di Città del Messico. Amlo riperde contro i soliti noti, e non serve a niente portare in tribunale le carte di credito prepagate Monex con cui il Pri ha comprato un bel po’ di voti per il suo uomo, Enrique Peña Nieto: la sentenza (colpevoli) arriverà solo nel 2017. Ma Obrador non l’ha attesa.
Dopo l’ennesima sconfitta fraudolenta dice addio al Prd, arma un vero grande movimento di protesta, organizza un governo parallelo, trasforma l’associazione civica Morena (Movimento di rigenerazione nazionale) in un partito vero e proprio e ingaggia una battaglia contro la corruzione, il potere sopraffattore della politica, l’ingombrante presidente degli Stati Uniti. Mentre i narcos messicani instaurano un sanguinoso feudalesimo che liquida l’esercito schierato dal presidente Peña Nieto – oltre 30mila morti lo scorso anno, mai così tanti, tanti quanti i morti dell’intera dittatura militare in Argentina – el peje batte il paese volando in classe turistica, spostandosi in camper e autobus, senza altra scorta che l’autista di turno.
Questa volta è una marcia trionfale, mai nessuno aveva vinto con tanto margine, non c’è broglio che tenga, in parlamento Morena ha la maggioranza e Lopez Obrador promette la “quarta trasformazione del Messico” dopo l’indipendenza di Hidalgo, la riforma di Benito Juarez, la rivoluzione di Villa e Zapata. Tutte rivolte armate.

il manifesto 1.12.18
Messico, il primo banco di prova per Amlo sarà la carovana dei migranti Il primo atto da presidente potrebbe essere la redazione di una “nuova costituzione morale” concordata con la popolazione, una sorta di binario politicamente (anche se non legalmente) vincolante per il governo che sta per nascere
di Roberto Zanini


Il giorno è arrivato, Andres Manuel Lopez Obrador assume oggi l’incarico di presidente del Messico. Dopo due elezioni letteralmente scippate, al terzo tentativo il leader di Morena (Movimento di rigenerazione nazionale) ha vinto e pronuncerà oggi la “protesta” – curioso messicanismo che vale promettere, giurare, ma senza il minimo significato religioso, eredità anticlericale dei rivoluzionari vittoriosi di inizio Novecento. Per arrivare alla residenza presidenziale di Los Pinos – che non userà come ufficio – Obrador ha dovuto battere molti primati: il più votato, nelle elezioni più partecipate, il solo esplicitamente di sinistra…
La promessa di Amlo è quella di cambiare radicalmente il Messico, lotta alla povertà e guerra alla corruzione sono le frecce principali nell’arco del neopresidente. Populista, è l’accusa consueta. Certamente la rabbia diffusa verso un potere sfacciato e profondamente inquinato ha giocato a suo favore. Quanto il vento possa cambiare, si potrà forse valutare da subito, con quella carovana dei migranti da giorni arenata a Tijuana, dove alcune donne hanno iniziato uno sciopero della fame.
Da presidente in pectore, Obrador aveva lasciato la patata bollente al condiscenente Peña Nieto, da oggi non potrà più permetterselo. L’ultimo atto del suo predecessore è stata la firma del trattato commerciale tra Messico, Stati uniti e Canada che sostituisce il Nafta, entrato in vigore in quel drammatico 1994 che vide il crollo del peso messicano, il dilagare di una crisi economica mondiale e l’arrivo contemporaneo dell’Esercito zapatista sulle montagne del Chiapas – solo il petrolio nazionalizzato negli anni Trenta salvò il paese dalla bancarotta, quello stesso petrolio che oggi una legge del governo uscente ha reso di nuovo privatizzabile, e sulla quale Obrador deve spendere le prime parole ufficiali. Anche se il primo atto da presidente potrebbe essere la redazione di una “nuova costituzione morale” concordata con la popolazione, una sorta di binario politicamente (anche se non legalmente) vincolante per il governo che sta per nascere.
E che nasce con le prime difficoltà: lo scrittore Paco Taibo II rischia il posto governativo di capo del Fondo de cultura economica (in pratica il ramo del governo che finanzia la cultura) per aver criticato gli avversari con un rotondo e goliardico “li abbiamo inchiappettati doppiamente”. Il riferimento è al tentativo di tenerlo fuori dal governo perché non messicano di nascita (è spagnolo, la famiglia fuggì per scampare a Franco): dopo la vittoria, Obrador ha promesso una legge ad hoc per imbarcarlo nell’esecutivo. Critiche di machismo e anti-femminismo anche da sinistra, scuse dello scrittore, situazione ancora sotto esame. Insomma, si comincia.

Il Fatto 1.12.18
Ucraina-Russia: guerra di kalashnikov e preti
Poroshenko chiude le frontiere agli uomini russi e perquisisce i monasteri, mentre Putin arruola sacerdoti
Ucraina-Russia: guerra di kalashnikov e preti
di Michela Iaccarino


Russi, maschi, dai 16 ai 60 anni: vietato entrare in Ucraina. Lo ha deciso il presidente Poroshenko: perché Mosca “crea eserciti privati con rappresentanti delle sue forze armate”. Andry Demchenko, portavoce della Guardia di Frontiera, annuncia che anche l’ingresso in Crimea è proibito “per stranieri e ucraini, finché sarà in vigore la legge marziale”. Il cielo è cupo come il limbo politico che si allarga sopra la Rada di Kiev. “Se dovessimo usare misure a specchio, si andrebbe al collasso” ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, pensando ai milioni di ucraini residenti nella Federazione. Le ritorsioni del Cremlino sono altre: mentre nuove sanzioni vengono imposte contro Mosca dall’Ue, la Russia colpisce con la stessa arma 400 membri dell’élite ucraina che hanno business o proprietà nella Federazione, rende noto il premier Dimitry Medvedev.
Poroshenko, che si è fatto fotografare tra soldati e carri armati al fronte negli ultimi giorni, dice di avere le “prove di un rafforzamento dell’esercito russo al confine”, mostra foto aeree alle tv mentre tuona: “Voglio un mondo civile unito contro Putin, lui non ha una linea rossa, voglio sentire pressione coordinata, chi vi dice che lui non arriverà al Baltico?”. Appelli all’Unione europea, Nato e Fmi sembrano essere l’unica campagna elettorale dell’oligarca per le imminenti elezioni e con la crisi in atto, i sondaggi che lo davano perdente, non interessano più a nessuno. Stivali e kalashnikov tra icone e candele. L’Sbu, i servizi segreti ucraini, hanno fatto irruzione ieri nel millenario monastero di Kiev dove il metropolita Pavlo, fedele alla chiesa russa, è accusato “di incitamento all’odio”. Sono conseguenze dello scisma dei patriarcati ortodossi, ma anche “l’indipendenza della chiesa ucraina”, che ha deciso di allontanarsi da quella di Mosca “organo di propaganda del Cremlino, è parte del nostro progetto filo-europeo” ha assicurato Poroshenko. Nella versione slava del gioco dell’oca che si sta consumando dall’Azov alla Moscova, è desueto il passo di risposta della Difesa russa. Dai carri armati alle croci: una redenzione verde mimetico per la patria. Per “preparare i preti alle emergenze in battaglia, per addestrarli a guidare veicoli armati al fronte” gli ortodossi andranno in Siberia. Verrà costruita una “cattedrale militare”, mura colore delle divise e guglie d’oro. A fine giornata c’è spazio per l’agenzia meteorologica statale ai tg russi. C’è un record nell’innalzamento delle temperature: “Gli inverni a Mosca stanno diventando sempre più caldi”, come la guerra alle porte, sempre meno Fredda.

il manifesto 1.12.18
Nel paese innamorato di Salvador Allende
Cinema. «Santiago, Italia», il nuovo film di Nanni Moretti, racconta il golpe nel Cile del ’73 ma si rivolge all’Italia di oggi
di Silvana Silvestri


C’è ancora chi ti domanda se in Cile ci siano problemi con la dittatura. In quel paese lontano geograficamente, nel tempo e nell’immaginario è tornato Nanni Moretti, ci chiedevamo perché proprio adesso che sembra così inattuale, non fosse per la sua consolidata democrazia, per avere avuto la prima donna presidente del latinoamerica, per essere oggi «la pantera» economica del continente. Nanni Moretti fa del suo viaggio un attualissimo intervento politico, specchio dei nostri tempi, rivolto a raccontare attraverso la storia qualcosa che non deve ripetersi. Ne fa una materia pulsante di vita e, senza quasi dare indicazioni, mostra come sia fragile la democrazia se non la si difende. Ci fa vedere in prospettiva come eravamo rispetto a come siamo diventati, come indica la dicotomia del titolo (Santiago,Italia). Oltre che l’amicizia tra i popoli indica anche un’allerta.
Se del documentario il film utilizza tutti i materiali come le interviste, gli spezzoni delle cineteche, delle televisioni e degli archivi, perfino talvolta la voce fuori campo, del cinema possiede la capacità di creare un’aspettativa crescente, di rendere emblematici i suoi personaggi, espanderne le parole nell’immaginazione, avanzare a colpi di scena, fare intravedere i fantasmi della Storia.
EPPURE quegli eventi si conoscono, tanti sono stati i film, molti li hanno vissuti: evidentemente non abbastanza se l’occidente intero flirta oggi con la destra, che non cambia mai. Non cambia soprattutto neanche in Cile, dove non solo i militari sotto processo si professano innocenti esecutori di ordini, ma strati della popolazione si dichiarano ancora di parte senza alcun dubbio.
Con un perfetto bilanciamento di materiali, anzi di etica cinematografica, la parola è data ai tanti militanti che vissero la stagione della dittatura, ben inquadrati e illuminati come veri protagonisti della storia, testimoni di episodi cruciali a cominciare dall’euforia del periodo di presidenza di Allende («era un paese innamorato») che Patricio Guzmán riprende nel suo film El Primer Año. Chi sono quegli imprenditori, operai, avvocate, giornaliste, educatrici, diplomatici che di fronte alla cinepresa raccontano in italiano i loro ricordi dell’11 settembre del ’73? Ognuno di loro ha una storia interessante, alcuni si riconoscono, altri la sveleranno nel momento chiave del racconto.
INIZIALMENTE, come prologo di una tragedia ecco le conquiste del primo paese socialista al mondo democraticamente eletto, con le politiche di alfabetizzazione, scuola gratuita e latte per i bambini, nazionalizzazione del rame e la brusca reazione della destra che riesce a bloccare il paese, dal commercio con il mercato nero, al fiancheggiamento della stampa fino alla potente macchina da guerra della Cia.
Nel film l’ultimo discorso del presidente assume un valore di testamento: «Non ho la vocazione del martire, voglio compiere una funzione sociale e non farò un passo indietro». Che sia stato assassinato non lo ha sostenuto solo Miguel Littin, quello di Allende è stato il più spettacolare assassinio in diretta della storia.
Mentre si susseguono le testimonianze, si sente per la prima volta l’intervento del regista con una sua domanda che fa ammutolire di commozione l’intervistato, un imprenditore a cui chiede «come guardi i tuoi anni di militanza?», e il silenzio che indica un grande conflitto interiore è rotto dalla considerazione inaspettata: «Non mi sono mai posto questa domanda» e sarà il primo indizio di una chiamata a raccolta.
POI ARRIVANO i racconti della rapidità del golpe, dello stadio dove sono ammucchiati i prigionieri politici (tra cui Guzmán e Paolo Hutter di Lotta Continua, Antonio Arevalo allora giovanissimo poi diventato l’addetto culturale del Cile), di Villa Grimaldi. La voce di Nanni Moretti prima appena accennata nelle interviste, si torna a sentire nell’incontro con un militare convinto di aver salvato il paese («il paese era sull’orlo della guerra civile e del resto Allende era stato eletto solo con il 36% dei voti»). E comparirà sullo schermo inaspettatamente in una dura scena girata in carcere a sovrastare un altro militare condannato che si proclama innocente e minimizza («in Argentina sono morti in 30mila, in Cile solo in 3mila»).
L’AMBASCIATA italiana a Santiago diventa il momento chiave del film, là dove molti dei personaggi intervistati trovarono rifugio scavalcando il muro di cinta (su questo eroico episodio Daniela Preziosi, Tommaso D’Elia, Ugo Adilardi realizzarono nel 2006 il documentario Calle Miguel Claro 1359), con racconti che nel passare del tempo ha assunto anche toni divertiti a dispetto dell’azzardo, del pericolo: l’Italia che non ha mai riconosciuto la giunta, aveva in sede i diplomatici De Masi e Toscano che decisero di accogliere a centinaia giovani, donne, intere famiglie di militanti, (e i bambini giocavano nel giardino a «el esiliado y el policia»), poi forniti di salvacondotto per l’Italia dove sono stati accolti con solidarietà per anni, la valigia sempre pronta per tornare. Immagine di un’Italia sparita.

Il Fatto 1.12.18
Moretti torna con il lutto di un’intera generazione
Al festival - Presentato “Santiago, Italia”
La fine di Allende – Il golpe dell’11.9. 1973 in Cile, la Moneda bombardata, la morte del presidente e il golpe di Pinochet sono al centro della storia
di Federico Pontiggia


Santiago, Italia: loro e noi, ieri e oggi. Il tramite della solidarietà, e il punto di vista: Nanni Moretti apre il documentario con Nanni Moretti che guarda, dall’alto, la città di Santiago del Cile. Lo vediamo di spalle, il montaggio perfeziona la semi-soggettiva: è la prospettiva del regista, ma anche la nostra, è un concorso di sguardi, e presa di coscienza.
Al 36° Festival di Torino, dove fu direttore, porta il suo quarto documentario: due proiezioni stampa, per l’estera (?) e l’italiana, e oggi alle 22.00 al Cinema Reposi l’unica per il pubblico, con saluto in sala. Dietro la macchina da presa Nanni mancava dal lungometraggio di finzione Mia madre del 2015, stavolta fa parlare solo il film, più o meno.
Santiago, Italia arriverà sugli schermi il 6 dicembre, tagliandoli con il lutto precipuo di una generazione: il golpe dell’11 settembre 1973 in Cile, la Moneda bombardata dall’aviazione nazionale, Salvador Allende forse morto suicida, comunque assassinato dal colpo di mano del generale Pinochet. Alla faccia de la izquierda unida jamás será vencida, in spregio di Neruda, el pueblo te saluda, a detrimento de l’Unidad Popular: gli statunitensi si spaventarono di un leader socialista democraticamente eletto, temerono il contagio all’Italia e alla Francia, e agirono di conseguenza, ché “è dimostrato dagli stessi documenti americani (gli archivi della Cia, il Rapporto Church del Senato, ndr) il ruolo fondamentale dei soldi Usa nella cospirazione e nella sedizione in Cile”. Lo attesta l’avvocato Carmen Hertz, tra i tanti intervistati da Moretti a comporre un fil rouge diacronico, un percorso storico e precipitato civile di testimonianze. Lo specchio è riflesso: “Come guardi ai tuoi anni di militanza?”, chiede il cineasta, “Se c’è qualcosa di bello in questa vita non è solo potersela guadagnare degnamente, ma farlo per gli altri”, gli rispondono, e non c’è divieto di inversione.
La consapevolezza, filtrata dall’estremo messaggio di Allende, che “non ci sarebbe stata nessuna resistenza, alcuna guerra civile, che finiva un’epoca”, il sergente che esplode un “Mierda, che stiamo facendo?”, gli agenti della famigerata Dina, la polizia segreta, che si beano delle P-38 “come nei B-movie coi nazisti”, le torture perpetrate a Villa Grimaldi, le scosse elettriche ai testicoli e le vagine straziate, e la migliore resistenza, quella della Chiesa cattolica. Allo scomparso cardinale Raúl Silva Henríquez Moretti tributa un doppio onore: è sua l’unica intervista d’archivio, è per lui la commozione del traduttore Rodrigo Vergara, che stigmatizza come fu “fatto fuori da Wojtyla appena compiuti i 75 anni” e da ateo ancora singhiozza “per la statura morale di questo prete, talmente grande che i giovani volevano farsi sacerdoti”.
Poi, i militari. L’ex portavoce di Pinochet, l’impunito generale Guillermo Garin, secondo cui “il golpe fu cosa buona, perché il paese era sull’orlo della guerra civile”, e che la logica vada a farsi fottere; Raúl Iturriaga, già a capo del centro di torture La Venda Sexy, condannato per sequestro e omicidio (anche in Italia, in contumacia, per il fallito assassinio del connazionale Bernardo Leighton a Roma, nel quadro dell’Operazione Condor), alle cui rimostranze sul metodo dell’intervista Moretti entra in campo e oppone un reiterato “Io non sono imparziale”. Legittimo, altroché, ma il più pericoloso dei due, quantomeno oggi, pare essere Garin, e che l’unico sconfinamento fisico di Nanni nel doc arrivi per il secondo, detenuto, lascia qualche perplessità, etica più che cinematografica.
Quindi, l’ambasciata italiana a Santiago, primo rifugio dei dissidenti. Saltandone il muro di recinzione, allora alto appena due metri, guadagnavano la salvezza, non la sicurezza: in loco potevano sempre rischiare di essere espulsi dal partito socialista per indisciplina, al rifiuto di pelare le patate. Complice il diplomatico Piero De Masi, e l’ambiguo silenzio-assenso alla richiesta di visti dell’allora ministro degli Esteri Aldo Moro, attraversavano la capitale e trasvolavano l’Atlantico, trovando un futuro nei campi dell’Emilia e nelle fabbriche a Milano: “Nessun lavoro nero, nessuna porcheria, mi hanno accolto, mi han permesso di integrarmi”, e il qui e ora è tangibile. Chiude l’imprenditore Erik Merino, che fu cardinale cileno in Habemus Papam: “Oggi viaggio per l’Italia e vedo che assomiglia sempre di più al Cile, nelle cose peggiori del Cile”.
Il problema, dice, è “l’individualismo”: l’individualità di Moretti è la soluzione?

Corriere 1.12.18
Moretti e il golpe in Cile
Quei 600 dissidenti salvati dall’ambasciata
di Paolo Mereghetti


«Santiago, Italia»: lo sguardo dell’autore sugli anni 70
Nanni Moretti è un regista che punta diritto al cuore, alla ricerca della strada più efficace e diretta. Una volta si sarebbe detto «economia di mezzi», oggi forse «essenzialità espressiva». Se vuole raccogliere i ricordi di un testimone lo fa sedere davanti alla macchina da presa e lo inquadra a metà tra il piano americano e il primo piano: in questo modo lo spettatore non è distratto da niente e ha l’impressione che la persona ripresa stia dialogando con lui, faccia a faccia. È così che ha costruito il suo documentario Santiago, Italia, presentato in chiusura del Torino Film Festival e da giovedì 6 dicembre nei cinema italiani. Ed è così che il film trova la sua forza e la sua emozione.
All’origine, c’è la scoperta di come l’ambasciata d’Italia a Santiago, nei giorni successivi al golpe di Pinochet, avesse dato asilo a molti militanti che cercavano rifugio dagli arresti e dalla repressione poliziesca. La notizia della disponibilità italiana ad accogliere i fuggiaschi si era diffusa, e in breve tempo sono stati quasi 600 gli asilados, i richiedenti asilo cileni, che hanno trovato riparo tra le mura italiane. Il merito era di due giovani funzionari, Piero De Masi e Roberto Toscano che, assente l’ambasciatore e di fronte al silenzio del Ministero degli Esteri (ai tempi guidato da Aldo Moro), aprirono le porte della nostra ambasciata. «Per una volta che avevamo fatto bella figura» aveva detto Moretti…
Da qui la voglia del regista di ritrovare chi quel muro l’aveva saltato davvero e aveva potuto lasciare il Cile grazie ai lasciapassare italiani. Niente voce off che introduce o spiega: solo le testimonianze di chi ha vissuto quei giorni drammatici con qualche spezzone giornalistico che ricostruisce l’elezione di Allende nel 1970, la breve esperienza del governo di Unidad Popular, il golpe dell’11 settembre 1973 e la successiva repressione.
Alcuni nomi noti come i registi Patricio Guzmán e Miguel Littin (entrambi arrestati subito dopo il golpe) aiutano a ricordare le speranze e le tensioni di quegli anni, ma sono soprattutto le persone comuni che interessano a Moretti. Di alcuni si intuisce la fede e la militanza partitica ma il regista ce li presenta con la semplice indicazione della loro professione. Non cerca intemerate ideologiche o politiche (e infatti le interviste più scontate sono proprio le più «militanti»), vuole invece ritrovare quella che con un pizzico di retorica potremmo chiamare «umanità» ma che dà meglio il senso delle parole che ascoltiamo. Ricordi di paura, di rassegnazione, anche di rabbia, il più delle volte di stupore e di dolore, dietro cui spunta una commozione che invano cercano di controllare e reprimere.
Con due eccezioni, le interviste a due militari: chi non ha debiti con la giustizia rivendica ancora oggi la legittimità del golpe «contro i comunisti», chi invece è in prigione per aver torturato e sequestrato si difende dietro il dovere dell’obbedienza, l’unico che spinge Moretti a entrare in scena, rivendicando la propria orgogliosa «parzialità» di fronte a quello che successe.
Un percorso di ricordi emozionanti, che si chiude sull’accoglienza di chi arrivò in Italia, accolto con generosità prima dal governo e poi da chi offrì un lavoro, permettendo un’integrazione che fa dire a un’artigiana dai capelli bianchi: «Noi siamo ricchi perché abbiamo due identità nazionali. Sono cilena per nascita ma il Cile è stato un patrigno cattivo. E invece l’Italia è stata una madre generosa e solidale».
Era il 1975…

La Stampa 1.12.18
“Mio padre ammazzato ad Avola nella protesta dei braccianti
Dopo 50 anni nessun colpevole”
di Fabio Albanese


Il 2 dicembre del 1968, durante uno sciopero generale a sostegno della vertenza salariale dei braccianti agricoli di Avola, la polizia sparò sui manifestanti: due di loro morirono, altri 48 rimasero feriti, cinque in maniera grave. Per quelli che sono passati alla storia come “i fatti di Avola” non c’è mai stato un processo, non è mai stato individuato un colpevole.
Avola si prepara a commemorare i cinquant’anni da quel drammatico episodio che fece poi da apripista all’approvazione dello Statuto dei lavoratori e alla legge sul disarmo delle forze dell’ordine durante scioperi e manifestazioni. Paola Scibilia, figlia di Giuseppe, una delle due persone rimaste sul terreno quel giorno, invoca giustizia per il padre che, quando morì, aveva 47 anni e tre figli da crescere, e per l’altra persona uccisa, Angelo Sigona, 29 anni: «Non ce l’ho certo con lo Stato - dice la donna, 59 anni - noi abbiamo sempre avuto fiducia nello Stato, mio figlio è un poliziotto, ma vorremmo sapere chi è stato, chi ha ucciso mio padre e perchè».
Quel lunedì 2 dicembre di 50 anni fa Avola si era fermata. Da una decina di giorni i braccianti agricoli della zona sud della provincia di Siracusa, dove si coltivavano e si coltivano mandorle e olive, chiedevano agli agrari di equiparare la loro paga giornaliera di 3110 lire e l’orario di lavoro a quelli dei lavoratori della parte nord del Siracusano, dove si producono agrumi. Inutilmente, nonostante la mediazione della prefettura e nonostante la differenza fosse di 300 lire in più e di mezz’ora di lavoro in meno (da 8 ore a 7 ore e mezza). Un gruppo di manifestanti bloccava il transito sulla statale 115 alla periferia del paese, in contrada Chiusa di Carlo, lì dove ora sorge l’ospedale di Avola e dove un cippo e una lapide ricordano cosa accadde. C’era l’ordine di sgomberare e, come scrive lo storico locale Sebastiano Burgaretta che ai Fatti di Avola ha dedicato un libro e la vita, nonostante il tentativo di mediazione del sindaco dell’epoca, Giuseppe Denaro, che fu tra i testimoni, «intorno alle 14 il vicequestore di Siracusa dott. Samperisi dà ordine, e il reparto Celere fatto venire da Catania compie l’opera; dopo venticinque minuti di fuoco restano sul terreno due morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48 feriti, tra cui i più gravi sono cinque: Salvatore Agostino, detto Sebastiano, Giuseppe Buscemi, Giorgio Garofalo, Paolo Caldarella, Antonino Gianò». Sul terreno, disseminato di pietre lanciate dai manifestanti per difendersi, verranno raccolti oltre due chili di bossoli.
L’accordo
La procura di Siracusa aprì un’inchiesta, lo stesso fece il ministero dell’Interno che dopo poche ore destituì il questore di Siracusa. Il prefetto convocò subito i sindacati e gli agrari e la notte stessa fu siglato quell’accordo sul salario e l’orario di lavoro che fino a due giorni prima era stato negato. Ma poi non è accaduto più nulla. «Tutto insabbiato - dice Paola Scibilia - e noi non abbiamo mai avuto un sostegno, se si eccettua un piccolo vitalizio che la Regione Siciliana aveva accordato a mia madre, Itria Garfì, morta lo scorso agosto a cent anni sena vedere un po’ di giustizia».
Le denunce
Dall’inchiesta, infatti, non è mai scaturito un processo e le carte dell’indagine amministrativa del Viminale non sono mai state rese pubbliche. Piuttosto, vennero denunciati i braccianti che avevano manifestato: «Ci consigliavano di fare una causa - ricorda la signora Paola - mia madre non li ascoltava ma stava male. Noi siamo gente modesta. Temevamo, se le cose fossero andate male, di perdere la casa frutto dei sacrifici di una vita di mio padre e dove mia madre da sola doveva crescere tre figli». «Mio padre non era un rivoluzionario, era un lavoratore e un marito esemplare - racconta, ancora, la figlia di Giuseppe Scibilia - che amava i suoi figli e lavorava sacrificandosi. Lo hanno ammazzato come fosse un delinquente e ancora oggi c’è qualcuno che se lo porta sulla coscienza. Quel giorno io, che avevo 9 anni, lo aspettavo per pranzo sull’uscio della porta; l’ho visto agonizzante alla sera in un letto d’ospedale, con una grossa ferita di pallottola sul fianco destro. Sembrava già un cadavere, se ne andò durante la notte».
Ad Avola - dove nel bel teatro Garibaldi nei giorni scorsi si è tenuto un convegno sulla strage, il contesto in cui avvenne e il clima del ‘68 e nel municipio è in corso una mostra con i giornali dell’epoca - domenica prossima da Roma arriveranno i segretari generali di settore di Cgil, Cisl e Uil e da Palermo il presidente della Regione Nello Musumeci, per ricordare quel giorno terribile e dimenticato, una ferita aperta per gli avolesi, un semplice episodio della storia delle lotte sindacali del Dopoguerra per gli altri. Verranno portate, come ogni anno, corone d’alloro in contrada Chiusa di Carlo, poi verranno premiati i ragazzi delle scuole del paese che hanno partecipato a un concorso di scritti, disegni, lavori sui «Fatti», infine il sindaco Luca Cannata aprirà un convegno-commemorazione, per ricordare che è passato mezzo secolo da quel giorno senza giustizia: «Dal sacrificio di mio padre hanno avuto beneficio tutti i lavoratori italiani grazie allo Statuto dei lavoratori che il ministro del lavoro Brodolini preparò dopo essersi precipitato ad Avola - osserva Paola Scibilia, la cui figlia Ivana vorrebbe ora dedicare ai Fatti di Avola la sua tesi di laurea - solo noi non abbiamo avuto nulla. Senza l’accertamento dei fatti noi non siamo riconosciuti come familiari di vittime di una strage. A noi neanche un risarcimento, un vitalizio o un lavoro è mai arrivato dallo Stato».

Repubblica 1.12.18
Lo studente anti Xi “Ci chiamano maoisti ma dai nostri campus sfidiamo il governo per aiutare i lavoratori”
di Filippo Santelli


PECHINO «La polizia ha portato via quindici dei miei compagni, nessuno sa dove siano, alcuni sono spariti da tre mesi. È illegale: vogliamo che le autorità li rilascino e che giustifichino tutto questo». Dong, lo chiameremo così, non si aspettava una reazione così violenta. Ma quando un gruppo di studenti delle migliori università cinesi ha raggiunto Shenzhen per unirsi alla protesta dei dipendenti di Jasic, un’azienda di macchinari industriali, nella mente del Partito è comparso lo spettro più inquietante: l’alleanza tra studenti e lavoratori, come a Tienanmen.
La prima retata contro gli attivisti è arrivata ad agosto a Shenzhen.
La seconda tre settimane fa, nei campus. Specie all’Università di Pechino, la più prestigiosa del Paese, dove Dong studia e dove il “Gruppo di supporto dei lavoratori Jasic” ha il suo cuore. Il ragazzo accetta il rischio di parlar: «aspettare passivi è peggio».
Come è nato il Gruppo?
«Lo scorso luglio, quando i dipendenti Jasic in sciopero sono stati arrestati, circa 60 tra lavoratori e studenti di varie università cinesi si sono organizzati spontaneamente per difendere i loro diritti. Ad agosto siamo andati a Shenzhen per distribuire volantini, sensibilizzare i cittadini e sporgere denuncia alle autorità. Eravamo in 40, dormivamo in un appartamento di 4 stanze».
Perché si è unito a loro?
«Nella mia famiglia ci sono molti lavoratori migranti (interni alla Cina, ndr), sono molto sensibile al tema. Organizzare dei sindacati per proteggere i diritti dei lavoratori è cruciale».
Vi definiscono maoisti.
«Non voglio parlare di ideologia.
Siamo persone che condividono un’idea per il futuro: che tutti i lavoratori cinesi godano di diritti e dignità, che la nostra società sia più giusta».
Quale è stata la reazione delle autorità?
«Il 24 agosto alle 4 di notte circa 200 poliziotti hanno fatto irruzione nell’appartamento, ci hanno caricati sulle volanti e portati in una scuola.
Lì c’erano i nostri genitori, personale dell’università e autorità locali. Ci hanno minacciato e chiesto di firmare dei documenti in cui ci dichiaravamo colpevoli, promettendo di non manifestare più».
Che minacce hai ricevuto?
«Di essere espulso. Alcuni hanno firmato, io no. Così mi hanno messo a forza in un’auto e portato nella mia città, scortato da 11 persone.
A casa mi hanno tolto il cellulare e vietato di lasciare la contea, una squadra di sicurezza locale mi seguiva. Mi hanno detto di non tornare a Pechino fino a ottobre, ma a un certo punto, quando mi hanno ridato il telefono, sono scappato e venuto qui per riprendere i corsi».
Conosce Yue Xin e Gu Jiayue?
«Sono neolaureati dell’Università di Pechino. Conosco bene Yue: è sparita dal 24 agosto, oltre tre mesi. Neppure sua madre sa dove si trovi o come stia. Gu invece dovrebbe essere detenuto nel Guangzhou. Pare che abbia degli avvocati, ma non lo hanno fatto vedere neanche a loro».
Nelle settimane successive molti studenti-attivisti, tra cui Zhang Shengye, hanno continuato a chiederne il rilascio.
Poi il 9 novembre che cosa è successo?
«Io non c’ero, ma ho parlato con dei testimoni. Verso le 22.30 alcuni studenti stavano uscendo da un caffè, all’improvviso una dozzina di persone molto grosse, con maschere e cappellini, li ha circondati. Un ragazzo è stato buttato per terra e colpito in testa, un altro preso per sbaglio buttato giù dalla macchina. Chi cercava di fare delle foto è stato minacciato o picchiato. Da allora Zhang non si sa dove sia. Le auto avevano le targhe coperte, sono entrate e uscite dal campus senza difficoltà».
Che cosa significa?
«Che avevano il supporto dell’università. Sono molto arrabbiato: non abbiamo violato la legge o danneggiato persone, e l’università ci colpisce».
Quante sono le persone del Gruppo detenute?
«Abbiamo perso contatto con 31 tra studenti e lavoratori, gli studenti sono 15. Sono scomparsi i neolaureati, quelli in corso come me sono tutti tornati al campus».
Vi controllano? Il Gruppo si è sciolto?
«Io ho ripreso a studiare, devo incontrare di tanto in tanto personale dell’università e ricevo spesso loro chiamate. Ad altri hanno detto che sanno tutto, dove vanno e cosa fanno. Ma c’è un sito web che viene aggiornato. E se necessario anche io parteciperò».
Gli altri studenti vi appoggiano?
«La maggior parte conosce questa storia e esprime simpatia per gli studenti portati via. Dai discorsi che faccio delusione e rabbia sono diffuse. Finora non ci sono state proteste pubbliche, ma se la situazione resta così potrebbero esserci».
Ha paura?
«Sono arrabbiato. Tutto questo è illegale, un oltraggio. Sono preoccupato per gli studenti arrestati, ma credo che esporre le loro sofferenze e i misfatti delle autorità sia meglio che aspettare passivi».
Che cosa chiede?
«Che abbiano supporto legale e che siano rilasciati il prima possibile. Le autorità devono giustificare quello che hanno fatto».

Repubblica 1.12.18
La segretaria particolare tra Hegel e bondage
di Claudia Morgoglione


Sempre presente, efficiente, discreta, pronta a risolvere ogni problema. In una parola: rassicurante. E allora come mai la figura della segretaria, nell’immaginario degli ultimi anni, si trasforma – nei libri, nei film – in un concentrato di inquietudini, oscurità, morbosità di vario tipo, dai risvolti spesso sadomaso? Forse perché la sua prossimità col datore di lavoro è in grado di innescare – almeno nella finzione – reazioni opposte, ed estreme: desiderio, paura. O forse perché, come Hegel ci ha insegnato, in ogni relazione schiavo-padrone i ruoli si possono rovesciare, con ricaschi narrativi intriganti.
Il caso di scuola di questa ossessione è e resta Secretary, uscito nelle sale nel 2002.
Tratto da un racconto della raccolta Oggi sono tua di Mary Gaitskill (Einaudi), mette in scena il legame tra un avvocato (James Spader) e la sua assistente (Maggie Gyllenhaal). Con toni da commedia nera, rende bene l’atmosfera della loro dinamica bondage; giocando in modo scoperto con un classico topos maschile, quello della donna totalmente dipendente dal maschio e pronta a soddisfare qualsiasi capriccio, a obbedire a qualsiasi ordine. Una perfetta Justine con la macchina da scrivere.
Più recentemente, anche la letteratura superpop dell’era Internet si è esercitata intorno a questa fantasia. Come in Secretary di Alexis Blake, ebook di qualche anno fa diffuso in mezzo mondo, in cui ancora una volta “lui” fa scoprire a “lei” l’impero dei sensi. Più triste il destino di un’altra segretaria celebre, la Joan Holloway della serie tv cult Mad Men (interpretata da Christina Hendricks): nelle prime stagioni con la sua solidità, il suo carisma e le sue ben dosate prestazioni a letto sembra tenere in pugno tutti; poi però il creatore Matthew Weiner le riserva un destino triste, madre di un figlio non riconosciuto avuto col boss e vittima di stupro.
Ma il sesso non esaurisce l’immaginario morboso legato a questa figura. Come dimostra La segretaria (Piemme, traduzione di Rachele Salerno, pagg. 372, euro 19,90), nuovo thriller dell’inglese Renée Knight, già autrice del bestseller La vita perfetta. Da leggere d’un fiato, è la storia di una donna che per la datrice di lavoro annulla se stessa, cancella ogni affetto, è disposta a fare davvero di tutto, in un crescendo esponenziale di umiliazioni e degradazione in cui il masochismo c’entra eccome, malgrado l’ assenza di coinvolgimento fisico. Ma attenti, anche stavolta, a non sottovalutare il caro vecchio Hegel…

Repubblica 1.12.18
Dall’arte africana al Partenone quando è giusto restituire
di Maurizio Bettini


Il dibattito innescato dall’annuncio di Macron va esteso ai tesori greci
Recentemente il presidente Macron ha annunciato di voler restituire al governo del Benin 26 statue reali di Abomey sottratte dall’esercito francese nel 1892 e attualmente custodite al Musée du Quai Branly. Primo gesto concreto del suo impegno verso una nuova “politica di scambio” con i paesi di provenienza relativamente al patrimonio artistico e culturale, a suo tempo sottratto ai legittimi possessori, e ora in possesso della Francia. Dato che le opere d’arte africane conservate nei musei francesi ammontano a circa 90mila, 70mila delle quali solo al Quai Branly, la proposta ha suscitato un dibattito molto vivace: restituzione totale?
Parziale? Temporanea? E poi, c’è da fidarsi delle strutture dei paesi riceventi? In linea di principio la restituzione costituisce un’azione eticamente ineccepibile, in questo modo però (si dice) la Francia verrebbe privata della possibilità di conoscere arte e cultura di popoli lontani, con un danno che paradossalmente si ritorcerebbe anche contro costoro. Prima però di chiederci se e perché queste opere dovrebbero essere restituite, sarebbe opportuno chiedersi perché noi occidentali ce le siamo andate a prendere.
Per la verità all’inizio non le abbiamo affatto prese, anzi. I missionari portoghesi che “evangelizzarono” la Guinea definirono le immagini dei locali col nome di “fetichos”, ossia fantocci di magia, e come tali si preoccuparono soprattutto di distruggerli. In seguito, con la nascita dell’antropologia, idoli, immagini, artefatti delle popolazioni “altre” vennero importati in Europa. Fra Otto e Novecento artisti e teorici vollero vedere nelle produzioni dell’“arte negra”, com’era chiamata, una fonte di ispirazione per la creazione contemporanea: quasi che i “feticci” distrutti un dì dai missionari si fossero mutati in un’epifania delle arti delle origini. Oggi però di “arte negra” non parliamo più. Al di là di questo, però, ci si è resi conto di qualcosa di ancor più importante, ossia che queste opere acquisiscono pienamente senso solo se reinserite nel proprio contesto culturale: fatto di gesti, formule, linguaggi, ritmi, azioni. Ecco dunque perché le opere di “arte negra” delle nostre collezioni vanno restituite non tanto, o meglio non solo, all’entità statale che ne è proprietaria, in una prospettiva “patrimoniale”; ma debbono essere soprattutto restituite alle “culture” entro le quali sono nate e che sole permettono loro di esprimere pienamente il proprio significato.
Ciò detto, questo stesso ragionamento potrebbe essere applicato ad esempio ai marmi del Partenone, conservati al British Museum? In una prospettiva patrimoniale sì, perché alla Grecia queste opere furono sottratte. Ma in una prospettiva di restituzione culturale? Dalla creazione di quei marmi sono passati 2.500 anni e da allora, si dice, la cultura greca è entrata a far parte a pieno titolo dell’intera tradizione occidentale. In un certo senso Fidia è come Omero o Platone, si dice, ormai appartiene a tutto l’Occidente, non avrebbe senso attribuire alle sue opere un certificato di cittadinanza.
Questo discorso però implica un sofisma da cui è bene guardarsi.
L’appropriazione di Omero o Platone è avventa attraverso un medium, la scrittura e poi la stampa. In questo senso è lecito dire che l’Odissea e il Simposio appartengono ormai a tutti — ossia a chiunque ne legge una copia o ne fa rivivere la presenza. I marmi del Partenone, invece, non sono simulacri, sono oggetti originali: costituiscono un «segno delle proprie origini», come diceva Umberto Eco. Per questo si può, anzi si deve dar loro un certificato di cittadinanza. Senza contare che, al momento in cui i marmi vennero portati in Inghilterra, paradossalmente gli europei non pensarono che quelle opere d’arte le sottraevano “davvero” alla Grecia. Per il semplice fatto che ai loro occhi i greci (di allora) non erano dei “veri” greci, quelli di Achille o di Socrate. Al contrario, inglesi e tedeschi si erano convinti di essere loro i “veri” greci. È difficile non pensare che simili atteggiamenti — in aggiunta al potere coloniale che gli europei erano in grado di esercitare — non abbiano contribuito a giustificare ai loro occhi le razzie che compivano in Grecia. Ma oggi?

https://spogli.blogspot.com/2018/12/il-manifesto-1.html