sabato 9 dicembre 2017

Repubblica 9.12,17
Apparizioni
L’inviato del Papa firma la svolta su Medjugorje: culto autorizzato
Paolo Rodari,


CITTÀ DEL VATICANO C’erano una volta i pellegrinaggi a Medjugorje, il santuario della Bosnia- Herzegovina luogo, dall’ 81, di presunte apparizioni mariane, trasferte religiose organizzate anche da molti vescovi e cardinali con l’accortezza, tuttavia, di non dare troppo nell’occhio. Molti di loro erano e sono impauriti dall’ostilità di una parte delle gerarchie che non ha mai visto di buon occhio i milioni di fedeli che si recano lì ogni anno in cerca di guarigione, consolazione, un contatto con il soprannaturale. In incognito, ad esempio, è più volte andato nel paesino il cui nome significa semplicemente «tra le montagne» il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, discepolo di Joseph Ratzinger e nello stesso tempo punta di diamante di Francesco nella Mitteleuropa.
Ebbene, da oggi tutta questa prudenza non ha più motivo di esistere. Secondo, infatti, quando ha dichiarato alla rivista religiosa Aleteia monsignor Henryk Hoser, arcivescovo di Varsavia- Praga, inviato speciale del Papa per la pastorale nella stessa Medjugorje, «il culto è autorizzato » . E ancora: « Non è proibito e non deve svolgersi di soppiatto. Da oggi, le diocesi e altre istituzioni possono organizzare pellegrinaggi ufficiali. Non ci sono più problemi » . Hoser ha rilasciato la sua notevole dichiarazione nel giorno in cui lascia per limiti di età la sua diocesi per passare a tempo pieno come delegato papale nello stesso santuario.
Non sono trascorsi che pochi mesi dalle parole di fuoco che Francesco riservò ai presunti veggenti di Medjugorje di ritorno lo scorso maggio da Fatima: « Preferisco la Madonna Madre a quella che fa il capo di ufficio telegrafico che ogni giorno invia un messaggio », disse riferendosi ai messaggi che in varie parti del mondo dicono di ricevere da Maria. Eppure, l’annuncio di Hoser non è in contraddizione con il suo pensiero. Per il Papa, infatti, « il fatto spirituale e pastorale » di Medjugorje, e cioè l’evidenza che la gente « si converte » , « incontra Dio», «cambia vita», resta. E tutto ciò è da valorizzare a prescindere dall’ostilità di parte delle gerarchie. Disse in proposito il vaticanista Benny Lai: «La curia gioca il suo ruolo di istituzione monolitica. Cerca sempre di resistere fino all’ultimo ai visionari, veri o presunti tali. Ancora oggi le guarigioni di Lourdes sono guardate con sospetto».
Nelle mani del Papa c’è da tempo il resoconto finale della Commissione guidata dal cardinale Camillo Ruini sulle apparizioni. Il testo è positivo sulle prime manifestazioni: tredici voti favorevoli al riconoscimento della soprannaturalità delle prime sette, un voto contrario e uno sospensivo. Nel merito era il Sant’Uffizio, e in particolare l’ex prefetto Gerhard Müller, ad avere delle perplessità. Con lui, anche monsignor Ratko Peric, vescovo di Mostar, che ha dichiarato come la Madonna di Medjugorje sia una «figura ambigua » . « Non è la vera Madonna, la Madre di Dio » , ha detto. Oggi molti di questi dubbi restano, ma nello stesso tempo l’annuncio di Hoser segna un punto non da poco per il culto del luogo, per i pellegrinaggi, per tutti coloro che da anni partono per cercare il divino in questo paesino sperduto nella ex Jugoslavia. E non è escluso che presto la stessa Santa Sede si esprima pubblicamente anche sulle apparizioni, lasciando aperta la possibilità della loro veridicità.
Molta diffidenza di alcune gerarchie su Medjugorje è data dall’innegabile business che si è creato intorno al santuario. Il giro d’affari, infatti, si stima sia di oltre 11 miliardi di euro: 5 miliardi ascrivibile all’organizzazione dei pellegrinaggi, 3 miliardi agli introiti di bar, ristoranti e alberghi; altri tre miliardi a offerte e donazioni.

Corriere 9.12.17
Discussioni Lo studioso francese Emmanuel Faye chiarisce le sue critiche ad alcuni famosi intellettuali
Stregati dal pensiero di Heidegger Il suo fascino su Arendt e Lacan
di Emmanuel Faye


Secondo Élisabeth Roudinesco (intervenuta su «la Lettura» #312 del 19 novembre) io avrei sostenuto che Emmanuel Levinas, Jacques Derrida e Jacques Lacan sarebbero diventati «nazisti» sotto l’influenza dell’opera di Martin Heidegger. Nulla nelle mie pubblicazioni consente di sostenere un’accusa così insensata, anzi. Una tale affermazione priva di fondamento appare però emblematica di un problema culturale generale, e cioè che la ricezione del pensiero di Heidegger, malgrado la sua importanza internazionale, non è stata mai oggetto di analisi rigorose.
È esattamente per questa ragione che ho scritto Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée (Albin Michel), uno studio d’insieme sui due pensatori in cui, sulla base di lettere inedite, ricostruisco l’evoluzione del pensiero di Hannah Arendt dalla critica a Heidegger del 1946 sino al suo ribaltamento apologetico iniziato nel 1949, dopo essere rimasta affascinata dalla violenza con cui egli, nella Lettera sull’umanesimo del 1947, si apprestava a «far saltare con l’esplosivo» il pensiero e la cultura occidentale. A partire dagli anni Cinquanta, di concerto con la moglie di Heidegger Elfride, Arendt ha lavorato più di chiunque altro per divulgare e difendere l’opera del filosofo, sino ad incoronarlo «re segreto» del regno del pensiero (si veda il testo di Arendt, Martin Heidegger a quatre-vingts ans ). Il paradigma aristocratico e disegualitario della concezione arendtiana della politica deve molto all’influenza esercitata da quel re.
L’evoluzione di Lévinas appare molto differente. Egli non ha mai nascosto di provare una sorta di fascinazione per Essere e tempo , ma è necessario osservare cosa conservi di quel testo. Nello studio che gli dedica nel 1932 ( Martin Heidegger e l’ontologia ), Levinas si interessa alle prime descrizioni dell’esistenza, ma non proferisce parola a proposito della sezione cardinale sulla storicità. Là Heidegger riporta il destino «autentico» alla «comunità di popolo», critica «tutti i relativismi privi di suolo» e invita a lavorare «nello spirito del conte York», mentre, come ho già mostrato nel mio libro Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia (L’Asino d’oro), nella sua corrispondenza con Dilthey tale «spirito» si manifesta apertamente antisemita. Quando Lévinas ha compreso ciò che Heidegger realmente rappresentava gli ha dedicato alcune delle pagine più dure mai scritte contro di lui. Nel saggio del 1957 La filosofia e l’idea di infinito egli presenta la filosofia heideggeriana come «il culmine di una lunga tradizione di orgoglio, eroismo, dominazione e crudeltà», e inoltre la accusa di sostenere «un regime di potenza più disumano della meccanizzazione», il nazionalsocialismo, basato su «un’adorazione feudale di uomini asserviti ai padroni e ai signori che li comandano». L’etica levinasiana del rapporto con l’Altro è agli antipodi di Heidegger, fondata com’è su una metafisica dell’infinito inspirata da Cartesio, e vicina alla filosofia dell’infinito di Alexandre Koyré e alla metafisica dell’eternità sviluppata da Édith Stein, ugualmente avversa a Heidegger.
Derrida appare certamente meno lucido di Levinas quando, in Dello spirito del 1987, mette sullo stesso piano il «gesto ancora metafisico» di Heidegger e il suo impegno nazista. Tuttavia la mia riserva nei suoi confronti rimane limitata, in quanto è difficile rimproverargli di non aver visto ciò che oggi è manifesto con la lettura dei Quaderni neri , e cioè che l’«oltrepassamento della metafisica» vagheggiato da Heidegger non è un tema filosofico, ma una volontà di sostituire la metafisica con ciò che egli chiama «metapolitica del popolo storico», da compiersi in «un nuovo rapporto con l’essere» instaurato dal nazionalsocialismo «spirituale».
Il rapporto di Lacan con l’opera heideggeriana è ancora diverso. Egli la cita molto all’inizio del suo insegnamento, ma decisamente meno alla fine, e nel 1967 afferma di essersi rivolto a Heidegger solo «per trovarvi una forma verbale in grado di colpire».
Se quindi l’opposizione al razzismo e all’antisemitismo passa oggi anche attraverso una critica puntuale di Heidegger, lo studio dell’ampio spettro della sua influenza, da Arendt a Lévinas, esige analisi ben distinte.
(traduzione di Livia Profeti)

Repubblica 9.12,17
Le previsioni sul voto
Per metà elettori vincerà la confusione il picco dei pessimisti nel partito di Renzi
Roberto Biorcio Fabio Bordignon


Il bipolarismo fra centrosinistra e centrodestra sembra ormai superato, nelle attese degli elettori per le Politiche 2018, che prevedono invece un confronto tra la coalizione guidata da Berlusconi e Salvini da una parte e il M5S dall’altra. Anche se una quota maggioritaria, fra le persone intervistate da Demos per l’Atlante politico, immagina un risultato incerto, o addirittura un Parlamento “ingovernabile”, all’indomani del voto.
Le aspettative contano, e possono modificare significativamente i comportamenti elettorali, specie in un’epoca di appartenenze deboli ed elevata mobilità. Berlusconi cerca di utilizzare le aspettative di vittoria per innescare un effetto bandwagon: la tendenza a saltare sul carro del vincitore, o comunque di chi sembra avere maggiori chance. E si impegna a promuovere e cavalcare i timori per uno sfondamento del M5S, che promette invece di potersi affermare come primo partito. Sembra così riprodursi un meccanismo simile a quello in atto alle recenti regionali siciliane, con il centrosinistra diviso e fuorigioco. Gli elettori del M5S si dicono, in circa sei casi su dieci (59%), convinti di poter vincere. Più o meno lo stesso risultato si osserva anche per la coalizione di centrodestra, e in particolare per Forza Italia (60%).
Una dinamica speculare sembra invece riguardare il Pd, i cui elettori percepiscono il momento di difficoltà, il venire meno della spinta del “capo”, i problemi nel dare vita a una coalizione: di conseguenza, solo uno su quattro “scommette” sulla possibilità di successo della propria parte. Il richiamo al voto “utile” potrebbe quindi penalizzare il partito di Renzi, favorendo al contempo la neonata lista Liberi e Uguali, nell’ottica di un voto identitario e di contrapposizione alla leadership democratica.
Naturalmente, partiti e coalizioni hanno ancora di fronte una lunga campagna elettorale, nella quale sarà messa alla prova la loro capacità di (ri)mobilitare i propri elettori, o di attrarne di nuovi. Ma, a livello “di sistema”, potrebbero pesare non poco le previsioni di un voto orientato, esclusivamente, ad affermare le differenti posizioni politiche, senza considerare la possibilità di una maggioranza parlamentare. Il 23% degli intervistati prevede infatti un risultato poco chiaro, che renderà necessarie le “larghe intese”.
Un ulteriore 16% prefigura addirittura uno scenario di elezioni ripetute. Se si somma un ulteriore 9% di elettori che non sono in grado di formulare alcuna previsione, l’incertezza sull’esito del voto investe quasi una persona su due: un quadro che potrebbe incidere negativamente sulla partecipazione elettorale.
Solo un dem su 4 scommette sulla vittoria

Repubblica 9.12.17
Fascismo, per il 46% è un pericolo Pd in calo e M5S primo a quota 29
Nell’opinione pubblica forte percezione e allarme per gli atti di squadrismo degli ultimi mesi Intenzioni di voto: dem al 25%, buon risultato di Liberi e Uguali (7,6%), centrodestra al 33%
di Ilvo Diamanti


L’onda nera inquieta soprattutto gli studenti e gli elettori di centrosinistra (7 su 10).
Percentuali più basse in Forza Italia, Lega e FdI (30-35%) e nei 5Stelle (40%) Il disincanto dei cittadini colpisce il gradimento di tutti i leader. Gentiloni scende al 45%,
Di Maio è secondo con il 34, Grasso al terzo posto con il 32

Quasi metà degli italiani, per la precisione il 46%, pensa che il fascismo oggi sia (molto o abbastanza) diffuso nel Paese. È quanto emerge dal sondaggio di Demos, condotto nei giorni scorsi. È un dato sorprendente. In parte, inatteso.
Effetto delle ripetute iniziative estreme ed estremiste di CasaPound e dei suoi “amici” — e competitor. Per prima, Forza Nuova. Soggetti che si richiamano a una storia che pensavamo dimenticata. Comunque, condannata. Dalla “Storia” stessa.
E invece ritornano. Gruppi e formazioni che ostentano riferimenti al fascismo. Senza vergogna. Al contrario. Li esibiscono in modo convinto. E, per questo, esercitano la minaccia come strumento pubblico. Ma una “misura” tanto larga sottolinea come l’azione dei soggetti politici che si richiamano al fascismo vada ben oltre i gruppi estremisti che esibiscono apertamente questa bandiera. Si tratta, infatti, di componenti circoscritte. Però fanno molto “rumore”. A causa delle (provoc)azioni eclatanti. Ma, soprattutto, perché scavano nella memoria del Paese. Anche se la memoria del ventennio si affievolisce. Mentre il ricordo tragico delle stragi di matrice neo-fascista, avvenute fra gli anni 60 e 70, tende (purtroppo) ad appannarsi.
Ma il richiamo aperto e diretto alla tradizione “fascista” oggi appare molto forte. E, secondo i dati del sondaggio d Demos, suscita molta inquietudine.
Soprattutto fra i più giovani. E fra gli elettori di centro-sinistra. Soprattutto di sinistra. Il fascismo, infatti, viene percepito come un fenomeno diffuso da quasi il 60% degli studenti. Da 7 elettori di Centro-Sinistra su 10. Mentre nelle altre aree politiche questa sensibilità appare più limitata. Anche se mantiene misure rilevanti. Il fascismo, infatti, è molto presente in Italia secondo circa il 30-35% degli elettori di FI e della Lega. Pensa lo stesso un terzo della base dei Fd’I. E poco più del 40% fra chi vota M5s. A Destra, si osserva, dunque, la tendenza a ridimensionare il fenomeno.
In parte, almeno, per timore di esserne considerati responsabili. Stigmatizzati.
Mentre a sinistra avviene il contrario. Non solo per la ragione opposta: la stigmatizzazione del “nemico”. Ma perché l’antifascismo fa parte dell’identità storica — e politica — dei partiti di sinistra. Il ritorno, o meglio: il riemergere del fascismo, in effetti mai scomparso, offre loro “senso”. Gli elettori del M5s, infine, stanno a metà.
Come avviene spesso.
L’ombra nera del fascismo rende più acceso il clima della campagna elettorale, in vista delle prossime elezioni. Anche se non è ancora chiaro quando si svolgeranno. Tanto meno, chi vincerà. Meglio, se davvero vincerà qualcuno. E, soprattutto, se qualcuno riuscirà a governare. Dopo.
Quale partito, con quale coalizione. I dati del sondaggio non forniscono risposte chiare, al proposito.
Tuttavia, fanno emergere indicazioni interessanti.
Im-prevedibili, qualche mese addietro.
La tendenza più evidente è “la solitudine del Capo” e del suo partito. Renzi e il PdR. Mai così isolati. Negli ultimi mesi hanno subito un calo sensibile. Evidente. La fiducia verso Matteo Renzi: è calata di 8 punti, nell’ultimo trimestre.
Ma di oltre 15, rispetto a un anno fa. Oggi si è attestato al 27%. In assoluto il dato più basso da quando, nel 2012, abbiamo iniziato a “misurarne” il consenso.
Tuttavia, il disincanto coinvolge un po’ tutti i leader.
Anche i più popolari, come Gentiloni. Che, con il 45% del gradimento, resta, comunque il più accreditato. Il suo governo, peraltro, continua ad essere apprezzato da circa il 40% dei cittadini. Come al momento dell’incarico. Dopo il premier, in classifica, incontriamo Luigi Di Maio e Pietro Grasso. Il quale legittima, così, l’investitura ottenuta dalla Sinistra. E ne viene, al tempo stesso, sospinto.
Le stime di voto accentuano tendenze già visibili da tempo. Il Pd: ridotto al 25%. Per la prima volta, sotto alla soglia raggiunta da Bersani, nel 2013.Il dato più basso da quando è stato conquistato — e rifondato — da Renzi. Il PdR: ha fallito la sua “missione”, di unire la Sinistra e il Centro.
Sotto lo stesso tetto. Alla sua sinistra, in particolare, Liberi e Uguali, al debutto, raggiunge il 7,6%. Più della somma dei “soci fondatori”.
Tuttavia, non si vedono federatori in grado di riunire il mondo inquieto e diviso del Centrosinistra. L’ultimo a provarci, Giuliano Pisapia, ha già rinunciato. D’altronde, il grado di fiducia nei suoi confronti appare limitato (24%). E in calo significativo negli ultimi mesi (5 punti). A destra, invece, FI cresce ancora (15,2%, oltre 2 punti più di un anno fa) e supera la Lega. Insieme ai Fratelli d’Italia raggiungono il 33%. Una base importante, in vista delle prossime elezioni. È, però, il M5S a mostrare l’incremento più rilevante. Oggi è vicino al 29%. Primo partito. Davanti a tutti. Un segnale rivelatore.
Perché il principale incentivo elettorale del M5S è offerto dagli “altri”. Dai partiti di governo. Ma anche di opposizione. Il M5S: è una risposta all’insoddisfazione politica. Per citare Beppe Grillo: un argine al non-voto (e all’estremismo). Non peraltro si auto-definisce un non-partito.
Difficile ricavare uno scenario credibile, ma, soprattutto, chiaro, da queste stime. Da questi orientamenti. Come spiegano Roberto Biorcio e Fabio Bordignon nella loro analisi. Non per caso, la maggioranza degli elettori immagina che le prossime elezioni non avranno un vincitore. E, quindi, si dovrà ricorrere a “nuove” elezioni.
Oppure tentare la via tortuosa delle “grandi coalizioni”. In mezzo a tanta incertezza, il clima politico — e sociale — già molto caldo, si è ulteriormente surriscaldato. E rischia di avvampare, alimentato dalle divisioni interne al sistema politico. E alla società. Condizioni ideali al diffondersi di tentazioni anti-democratiche.
Riprodotte e amplificate dall’espandersi della minaccia fascista, rilevata e misurata in questo sondaggio. L’unica speranza è che si affermi, ancor più forte, un movimento e un sentimento opposto. Oggi, come ieri: resistenza.


Il Fatto 9.12.17
Via alla faida per Gerusalemme
Primo giorno di Intifada, un morto e 750 feriti. Israele intercetta un razzo Hamas: “Trump non può cambiare la verità storica, non finisce tutto con le manifestazioni”
Via alla faida per Gerusalemme
di Valerio Cattano


Il ritmo cantilenante della preghiera del venerdì in Cisgiordania lascia il posto a grida di dolore e collera: volano pietre, lacrimogeni, proiettili di gomma.
Hamas, braccio armato palestinese nella West Bank, chiarisce i termini con cui ha recepito la decisione del presidente americano Donald Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Ci vorranno due anni affinché la sede divenga operativa, e in questo spazio di tempo possono cambiare molte cose, ma Hamas ci tiene a sottolineare: “Né Trump né nessun altro potrà cambiare la verità storica e geografica e l’identità della Città Santa. Sogna chi pensa che tutto si esaurirà con le manifestazioni”, parola del capo dell’ ufficio politico Ismail Haniyeh, che aggiunge: “La santa intifada ha inoltrato due messaggi: il primo, che respingiamo la decisione del presidente Trump, e il secondo che siamo pronti ad immolarci per difendere Gerusalemme”. Il bilancio degli scontri fra Gerusalemme e Gaza è di un morto – un palestinese di 30 anni, Mohammad al-Masri, ucciso in scontri a est di Khan Younis – e 750 feriti.
Le cifre sono dalla Mezzaluna Rossa palestinese che accusa l’esercito israeliano di aver usato in alcuni casi proiettili di piombo e non di gomma. Tel Aviv lamenta due allarmi nel sud per lancio di razzi dalla Striscia: il sistema anti missili Iron Dome ne ha intercettato uno che aveva preso di mira l’area fra le città di Ashkelon e Sderot. Pronta risposta: colpi di cannone e attacchi aerei. I giorni della rabbia, dunque, non promettono nulla di buono. La politica gioca la sua partita. Il presidente russo, Vladimir Putin, lunedì 11 dicembre sarà in visita ufficiale in Turchia, per discutere con il presidente Recep Tayyip Erdogan degli sviluppi in Siria, e di Gerusalemme. Nella stessa giornata Putin dovrebbe andare anche in Egitto dove incontrerà il presidente Abdel Fattah al-Sisi; Mosca ha avuto un ruolo da protagonista nelle crisi di Siria e Iraq, e ora non vuole restare estromessa dalla mossa di Washington. Il Medio Oriente resta la scacchiera dove le grandi potenze giocano il loro Risiko, nelle strade restano le teste spaccate, la tensione dei soldati e le bandiere bruciate.il manifesto 9.12.17
Il miracolo di Trump: l’apparizione dell’ultrasionista antisemita
The Donald & The Bibi. L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti come il Bds (boycott, disinvest, sanction ), che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni e molti governi dell’Occidente sarebbero pronti a esaudire i desiderata di Bibi, anche al prezzo di pervertire ogni legge civile degna di questo nome

il manifesto 9.12.17
Il miracolo di Trump: l’apparizione dell’ultrasionista antisemita
The Donald & The Bibi. L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti come il Bds (boycott, disinvest, sanction ), che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni e molti governi dell’Occidente sarebbero pronti a esaudire i desiderata di Bibi, anche al prezzo di pervertire ogni legge civile degna di questo nome
di Moni Ovadia


Donald Fuck non cessa di esibire la sua programmatica dabbenaggine in gara con il suo quasi omonimo, l’irresistibile Donald Duck; non solo si misura in competizioni muscolari con il dittatore coreano Kim Jong-un – a rischio di farci saltare tutti per aria – ma non pago, si impegna nel tentativo di comporre l’annoso conflitto Israelo-palestinese spostando l’ambasciata statunitense nello Stato d’Israele da Tel-Aviv a Gerusalemme.
Un’idea davvero brillante, peccato che non sia stata capita e che stia ottenendo l’effetto contrario alle intenzioni dichiarate (dichiarate per i babbei che ci credono) dallo stesso Donald.
Lo scopo vero, ammantato dal nobile adempimento degli impegni programmatici, è stato quello di compiacere il suo elettorato più reazionario e fanatico che comprende certi cristiani evangelisti ultra sionisti, i quali, in ossequio a certe loro credenze millenariste, auspicano il ritorno di tutti gli ebrei nella Terra Promessa perché l’avvento finale possa compiersi con la seconda parusia di Gesù. Costoro, che rappresentano la più potente lobby pro-israeliana insieme a quelle di matrice ebraica come l’AIPAC, sono i migliori alleati di Bibi Netanyahu.
Insieme alla fattiva azione di The Donald, Bibi ha dato vita a un autentico capolavoro antropologico: l’apparizione dell’ultrasionista antisemita.
Ma sì! Parte dell’elettorato più oltranzista di The Donald, è dichiaratamente antisemita e, senza percepire la minima contraddizione, sostiene The Bibi senza se e senza ma.
The Donald and The Bibi potrebbero mettere su una  compagnia di giro rappresentando un musical di sicuro successo: «The antisemitic Zionist», per le coreografie potrebbero attingere a quelle di «The Producers» di Mel Brooks, fra il folto pubblico si potrebbero contare gli entusiasti neonazisti di tutto il mondo e i suprematisti bianchi, l’Italia sarebbe rappresentata degnamente da Casa Pound e da Forza Nuova e Revisionisti da Tolk (da leggere come scritto), ne potrebbero decretare il trionfo critico. Abbiamo scherzato? Mica tanto. La lepida sconcezza e improntitudine dei nostri «bordello Facebook times», accetta e metabolizza tutto.
Molti si rassicurano pensando che Hillary Clinton avrebbe fatto meglio. Certo sarebbe stata più cauta e diplomatica, ma avrebbe fatto marcire l’irrisolto conflitto mediorientale sostenendo, toto corde, le posizioni di Bibi. Del resto, persino Obama, l’annunciatore di speranza, Premio Nobel per la pace, non solo non ha promosso trattative serie, ma non è neppure riuscito a fermare la costruzione di un cesso illegale nei Territori Occupati. Solo il vecchio socialista Bernie Sanders avrebbe potuto prendere il toro per le corna.
A The Donald, bisogna tuttavia riconoscere un indiscutibile merito: la mancanza di ipocrisia: lui dice apertamente che se i palestinesi vogliono uno straccio di pace, devono accettare i diktat del governo fascistoide di Bibi, si devono dimenticare della soluzione «due Popoli/due Stati», quello palestinese con Gerusalemme come Capitale e accettare di vivere in Bantustan concessi dall’effendi sionista.
Questo è quello che pensa, senza avere il coraggio di dirlo, anche la maggioranza dei democratici statunitensi e degli esponenti dell’infame e vile sedicente «comunità internazionale».
L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti come il Bds (boycott, disinvest, sanction ), che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni e molti governi dell’Occidente sarebbero pronti a esaudire i desiderata di Bibi, anche al prezzo di pervertire ogni legge civile degna di questo nome.
Il nostro governo poi, pur di eccellere, cosa non farebbe! Ha accettato di fare partire il Giro d’Italia da Gerusalemme e in un primo momento aveva messo di fianco a Gerusalemme, l’extension «Ovest». Ma appena Bibi ha protestato in nome della millenaria storia del popolo ebraico, «Ovest» è stato tolto con tante scuse, in barba all’Onu, alle sue risoluzioni e all’idea di legalità internazionale. Grande timing del nostro esecutivo non c’è che dire. Chissà se non si sono messi d’accordo prima con The Donald.
Al prossimo governo suggerirei sommessamente (avverbio graditissimo alla signora Meloni) di pensare al trasferimento della nostra capitale da Roma a Gerusalemme, sarebbe un colpaccio mediatico senza pari.
Se invece non si vuole passare da zimbelli, assumiamoci la piena responsabilità davanti al diritto internazionale, cessiamo di scaricare i nostri complessi di colpa sui palestinesi che nulla hanno a che vedere con il crimine della Shoà.
E da ultimo, ci si ficchi nel cranio che si può essere molto ebrei e per nulla sionisti e altresì molto sionisti e per nulla ebrei.

Repubblica 9.12.17
Intervista a Yael Dayan
“Mio papà Moshe non starebbe con Netanyahu Ci bastano i confini pre ’67”
di F. Caf.


GERUSALEMME Da oltre 50 anni, Yael Dayan è una delle protagoniste della vita pubblica israeliana: come figlia di uno dei padri della Patria, il generale Moshe Dayan, e stella del jet set nazionale prima; poi come scrittrice, parlamentare del Likud e sostenitrice di organizzatrici pacifiste come Peace Now e Bat Shalom. Da persona che ha lottato a fianco dei palestinesi e si è battuta per il riconoscimento dei diritti delle donne e degli omosessuali, non c’è da stupirsi se non si riconosca nell’idea di Israele di Benjamin Netanyahu.
Eppure la durezza dei suoi giudizi stupisce: se non altro perché su di essi la signora getta il mantello del padre, il ministro della Difesa che portò alla vittoria Israele nella Guerra dei sei Giorni. «Mio padre – dice – non sarebbe d’accordo con nessuna delle posizioni che Netanyahu ha preso in questi giorni riguardo ai palestinesi».
Signora Dayan, a 78 anni e con gravi problemi di salute, lei è ancora in prima linea: perché?
«Perché la direzione in cui sta andando Israele non mi piace affatto. In tutta la sua Storia questo Paese non è mai stato governato da una élite così corrotta come quella che abbiamo ora. Il primo ministro è coinvolto in indagini per corruzione, sua moglie e i suoi più stretti collaboratori anche. A causa di questo, Netanyahu non è riuscito a raccogliere alle elezioni una maggioranza decente e ora per governare si affida ai partiti religiosi e alla destra estrema. Questo fa male a tutti e le giornate che stiamo vivendo lo dimostrano».
In che modo?
«Ai religiosi di preservare la soluzione dei due Stati, uno israeliano e l’altro palestinese, uno a fianco dell’altro non interessa. Così lasciano all’estrema destra la possibilità di decidere su questo: e l’estrema destra vuole isolarci, tagliare ogni dialogo con i palestinesi. Netanyahu dipende da loro: e le parole con ha accolto il discorso di Trump lo dimostrano».
Netanyahu, come buona parte degli israeliani, considera suo padre un eroe. Ma sua padre è l’uomo che lasciò agli arabi libertà di preghiera sulla Spianata delle Moschee: questo all’attuale premier non è mai piaciuto.
«Certo. E del resto mio padre non sarebbe d’accordo con nulla di quello che fa Netanyahu. Era un militare, ma anche un uomo di dialogo. Parlò con re Hussein di Giordania, con le sue controparti militari, ma anche con gli impiegati e i contadini arabi. Mio padre non avrebbe mai sopportato 50 anni di occupazione e troverebbe intollerabile il fatto che i palestinesi oggi non abbiano un vero Stato. Noi israeliani possiamo vivere dentro i confini precedenti alla guerra del 1967. Le tecnologie odierne fanno sì che possiamo farli fruttare al meglio e renderli perfettamente abitabili.
Mio padre direbbe che lasciare i palestinesi in questa situazione fomenta l’estremismo. Il caso di Gaza lo dimostra».
È per questo che lei appoggia le manifestazioni contro Netanyahu delle ultime settimane?
«No. È per la sua corruzione. Non abbiamo mai avuto un primo ministro così tanto coinvolto in casi di corruzione. Per questo domani (oggi , n. d. r.) sarò di nuovo a manifestare. Per quello che posso. Con la mia sedia a rotelle e la mia bombola di ossigeno, visto che questa è la mia condizione».
Chi vorrebbe al posto di Netanyahu?
«La sinistra in Israele è debole e divisa. La posizione ondivaga che ha avuto sulla crisi provocata dalle parole di Trump lo dimostra. Non ci resta che il centro. Quel che importa è allontanare l’estrema destra, che è una minaccia per la democrazia. In Israele come in Europa».

Corriere 9.12.17
«Non siamo d’accordo con Trump» L’Italia con gli europei, strappo all’Onu
Al Consiglio di Sicurezza, dichiarazione di 5 Paesi su Gerusalemme. Usa: ostili a Israele
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON Lo strappo, ora, è un atto politico ufficiale e vistoso. Gli ambasciatori all’Onu di Francia, Italia, Gran Bretagna, Svezia e Germania hanno letto una dichiarazione comune davanti ai giornalisti dopo la riunione del Consiglio di Sicurezza: «Non siamo d’accordo con la decisione Usa di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele e di cominciare la preparazione per spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme». L’iniziativa è partita dalla rappresentanza francese che ha contattato Sebastiano Cardi e gli altri capi delle missioni europee presenti in questo momento nell’organo esecutivo delle Nazioni Unite. Al gruppo dei quattro (britannici e francesi sono membri permanenti) si è unita la Germania.
Pur se ammantata nel linguaggio diplomatico, il documento è pesante. La mossa di Donald Trump «non è in linea con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e non aiuta le prospettive di pace nella regione». In sostanza il blocco europeo accusa gli americani di violare le direttive concordate a livello mondiale. «Lo status di Gerusalemme — è scritto — deve essere determinato attraverso i negoziati tra israeliani e palestinesi. È una posizione costante dei Paesi dell’Unione Europea che, in questo quadro, Gerusalemme dovrebbe essere la capitale sia dello Stato di Israele che di quello palestinese. Fino a quel momento, noi non riconosceremo alcuna sovranità su Gerusalemme».
In apertura della riunione l’ambasciatrice americana, Nikki Haley, è stata durissima, accusando «l’Onu di essere ostile da molti anni a Israele». La decisione di riconoscere la Città Santa come capitale è «ovvia», mentre «le Nazioni Unite hanno fatto più danno alle possibilità di una pace in Medio Oriente, anziché farla progredire».
Il quadro internazionale della crisi, ora, si è complicato. Il Dipartimento di Stato, al di là delle ruvide parole di Haley sta cercando di spezzare l’isolamento. Ma il presidente palestinese Abu Mazen, non ritiene più «qualificati» gli Usa per «occuparsi del processo di pace». La Russia cerca spazio, offrendosi come mediatrice. L’Unione Europea si sta compattando. Con qualche difficoltà a Bruxelles. Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, sta lavorando a un documento simile a quello firmato dai 5 europei al Palazzo di Vetro. Ma ci risulta che nell’incontro preparatorio del Cops, il Comitato politico e di sicurezza, la discussione sia stata bloccata dall’Ungheria. Il premier Vicktor Orban si conferma grande estimatore di Trump e, almeno per ora, impedisce all’Ue di prendere una posizione unitaria sul tema.
Negli Usa, invece, la strategia di Trump non ha diviso politici e opinione pubblica come ormai accade su tutti gli altri dossier. Osserva David Makovsky, analista del Washington Institute e, nel 2009 coautore con Dennis Ross (ex consigliere di John Kerry) di un best seller sul Medio Oriente («Miti, Illusioni e Pace…», Viking/Penguin): «Parte del problema è nato perché Trump non ha preavvertito per tempo gli attori più coinvolti. Inoltre la comunicazione poteva essere molto migliore. Se si analizza bene il messaggio si vede che gli Usa mantengono aperta la questione dei confini tra Israele e Palestina. Penso che la Casa Bianca abbia spazio per spiegarsi meglio. Dovrebbe farlo subito con un grande sforzo rivolto soprattutto alla popolazione del Medio Oriente che segue con la tv satellitare gli “speech” del presidente».

Corriere 9.12.17
Putin e Erdogan veri vincitori della partita
di Franco Venturini


Era fatale che Trump, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e annunciando il trasferimento dell’ambasciata Usa, modificasse interessi e gerarchie delle potenze che si muovono nel grande disordine mediorientale. In attesa di capire se a sostegno della sua mossa filo-israeliana il Presidente riuscirà a proporre un piano di pace più equilibrato che accontenti anche i palestinesi e le capitali arabe (impresa che si annuncia ardua), due vincitori di questo ennesimo braccio di ferro su Gerusalemme possono sin d’ora essere identificati: si chiamano Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, che si incontreranno lunedì per discutere della situazione. La Russia di Putin aveva puntato tutte le sue carte sulla Siria, e ora che l’Isis è stato quasi completamente sconfitto, e che la guerra civile è in fase di superamento, il Cremlino può vantare un buon raccolto. Assad è ancora al suo posto e almeno per un certo tempo ci resterà, l’alleanza di guerra tra Russia, Turchia e Iran (con l’aggiunta dei libanesi sciiti di Hezbollah) controlla le vicende siriane assai più dei negoziati di Ginevra o degli Usa. L’iniziativa di Trump su Gerusalemme giunge come un regalo supplementare: all’influenza russa si aprono spazi insperati nei Paesi arabi che gli Usa hanno imbarazzato con il loro annuncio. L’Egitto è un buon esempio, ma non è il solo. La posta di una partita che comincia appena sarà il ritorno della Russia nel mondo arabo sunnita, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Il secondo vincitore, oggi stretto alleato del primo, è il Presidente turco. L’esponente cioè di un Paese non arabo ma islamico, che si sente offeso dalla mossa Usa. Per Erdogan l’occasione è duplice: accrescere il consenso interno e tornare a porsi come potenza mediorientale approfittando della consueta doppiezza delle capitali arabe che si scandalizzano per la sorte dei palestinesi ma ben poco fanno a loro sostegno. Ankara, come molti altri, dichiara di temere che Trump abbia involontariamente incoraggiato quel terrorismo che era stato appena sradicato con la sconfitta dell’Isis. Tema che fa drizzare molte orecchie, anche in Arabia Saudita. Lunedì Erdogan e Putin dichiareranno la loro preoccupazione, prima di brindare alla salute di Donald Trump.

Il Fatto 9.12.17
Luciana Castellina
“Ai miei tempi dire è una donna’ era come dire ‘è una minorata’”
intervista di Silvia Truzzi


Frugando tra le interviste e i ricordi di Luciana Castellina, c’è una frase da cui partire: “Per anni ho avuto enormi complessi d’inferiorità. M’iscrissi a Legge, io che adoravo Filosofia, perché ero convinta di non essere abbastanza intelligente”. Ed è perfetta in questa conversazione più femminile che politica (anzi: molto politica perché femminile), anche se la diretta interessata non è d’accordo: “Il complesso d’inferiorità non dipendeva dal fatto d’esser donna, ma dall’ambiente dove vivevo: i Parioli. Una caverna!”. Ma siamo ancora qui, in questa dimora pariolina piena di luce e di libri, “ereditata, non scelta”. C’è una premessa che la padrona di casa vuol fare: “L’obiettivo non deve essere diventare come gli uomini, il vero punto è dare valore alla differenza. Fare in modo che la società – nei suoi valori, nelle sue strutture, nei suoi diritti – si organizzi tenendo conto che non c’è un cittadino ‘neutro’, di fatto ricalcato sul modello maschile, ma uomini e donne. Dare un riconoscimento a esseri umani che sono diversi. È una truffa dire che uomini e donne sono uguali”.
Il welfare dovrebbe essere più centrato sulle esigenze delle donne?
Non basta, bisogna ripensare interamente la società. E ripensare il diritto, che è fondato sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: ma i cittadini sono disuguali! Tanto è vero che la nostra Costituzione, che è una bella Costituzione, è stata la prima a riconoscere che non bastava affermare un principio. Il secondo comma dell’articolo 3 dice: ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’.
La professoressa Carlassare ci ha raccontato la storia di quel secondo comma e anche che si deve alle donne, in particolare a Teresa Noce, quella locuzione “di fatto”. Non un dettaglio.
A Teresa Noce bisognerebbe fare un monumento in tutte le piazze d’Italia: è l’autrice della legge sulla maternità del 1950. Siamo stati il primo Paese a emanare una legge così moderna. Quando stavo nel Parlamento europeo presi parte a una commissione interpartitica di donne, scoprendo che siamo un Paese legislativamente molto avanzato nella tutela delle donne. Credo dipenda dal fatto che il sindacato in Italia non ha mai agito settorialmente, per aziende o categorie: ha avuto grande importanza la dimensione orizzontale, penso alle Camere del lavoro. È stato un grande aiuto per le donne, le cui rivendicazioni e necessità non dipendevano dall’azienda o dalla categoria.
Lei è stata testimone di un evento epocale, il suffragio universale.
Una gran parte degli uomini del Pci non voleva che le donne avessero accesso al voto. Fu Togliatti a imporsi, con un discorso bellissimo: “Chi se ne importa di un po’ di voti, che siano in più o in meno. Quel che serve è valorizzare il protagonismo delle donne in politica, che sarà il motore di un cambiamento sociale”. Un analogo problema si pose quando nacque l’Udi, l’Unione delle donne italiane, che era un’associazione non partitica, anche se era composta prevalentemente da donne socialiste e comuniste. Anche lì una parte dei dirigenti comunisti pensava che l’Udi dovesse far parte del partito. E Togliatti s’impose, sostenendo l’autonomia dell’Udi.
Lei ha partecipato al movimento femminista?
Sono troppo vecchia. Appartengo alla generazione dell’emancipazione, parola su cui vale la pena riflettere: chi si emancipava? Gli schiavi, i servi della gleba e poi le donne… Il femminismo l’ho scoperto che avevo già quarant’anni. Sono stata una recluta tardiva.
L’ ha cambiata?
Profondamente. Ricordo che mia figlia una volta mi disse: ma perché tu vai sempre a cena con uomini e mai con donne? Era vero, per me le donne non erano interlocutori analoghi agli uomini. Ma non ci avevo mai pensato… La storia è pesante, i retaggi sono duri a smaltire. Poi ho cominciato a uscire a cena anche con le donne.
Che madre è stata?
Domanda da ribaltare: sono i figli che educano le madri, come dimostra quello che ho appena raccontato.
Molte sue coetanee trovavano i cortei delle femministe sguaiati.
Erano anche molto allegri. Tutti i processi rivoluzionari hanno momenti di Carnevale.
La sua esperienza politica è stata condizionata dal fatto di essere donna?
Io ho cominciato a fare attività politica negli organismi rappresentativi dell’Università. Nel 1948 per la prima volta partecipavo al congresso nazionale degli studenti universitari. Sono salita sul palco, stavo per cominciare il mio intervento. Tra il pubblico c’erano quelli dell’Ugi, l’unione goliardica capeggiata da Pannella, e cominciarono a battere le mani, urlando: “Passerella, passerella”. Capito? Una donna che saliva su un palco poteva essere solo una soubrette o un’indossatrice che sfilava. Per fortuna io avevo la pelle dura, altrimenti non avrei mai più parlato in pubblico in vita mia.
E in Parlamento?
Ci sono andata tardi, alla fine degli anni Settanta. C’erano meno diffidenze, anche se eravamo ancora in poche.
Com’è stata la battaglia per divorzio e aborto?
Quando la legge sull’aborto passò era una delle più avanzate, perché l’aborto era garantito dalla sanità pubblica e quindi accessibile a tutte le donne. Oggi il tema dell’obiezione di coscienza dei medici, che in alcune regioni rende praticamente impossibile ricorrere all’aborto, è difficile da risolvere. All’epoca non ci siamo rese conto di quanto sarebbe stata diffusa l’obiezione di coscienza, che naturalmente nella maggioranza dei casi non è una scelta dettata da questioni religiose o etiche. Onestamente non so come si potrebbe risolvere da un punto di vista legislativo.
E il divorzio?
Allora lavoravo alla sezione femminile del Pci: siamo state accusate, come donne comuniste, di non aver sostenuto a sufficienza il divorzio o di averlo in qualche modo ritardato. Ma noi avevamo un’obiezione: e cioè che il divorzio, senza una riforma del diritto di famiglia, sarebbe stato un privilegio delle donne ricche o degli uomini. Bisognava assicurare anche alle donne, a tutte, alcune garanzie, come il diritto alla casa e al riconoscimento dell’apporto al patrimonio familiare con il lavoro casalingo e l’accudimento della prole. Poi si è fatta, con ritardo, la riforma del diritto di famiglia. Quella sull’aborto è stata una battaglia più facile, perché l’aborto è un’esperienza diffusissima e trasversale tra le donne.
Quote rosa sì o no?
Facciamole pure, ma sapendo che sono un simbolo. Il punto non è avere una maggiore percentuale di donne che fanno le stesse cose degli uomini, se poi tutta la società è organizzata in base alle esigenze dei maschi: i tempi di vita, i tempi del lavoro, gli orari dei negozi…
Silvia Vegetti Finzi dice che il lavoro ha dinamiche e tempi contrari agli interessi delle donne.
È verissimo: gli anni in cui una donna diventa madre – tra i 30 e 35 – sono anche anni cruciali per la carriera. Ricordo che ho dato lo scritto dell’esame da procuratore mentre ero incinta e l’orale mentre allattavo: un incubo.
Suo marito l’ha aiutata?
Quando avevamo i bimbi piccoli, Alfredo (Reichlin, ndr) dirigeva l’Unità, io il settimanale della Federazione giovanile comunista. Era più difficile che mancasse lui al giornale.
Questo Parlamento ha una buona presenza femminile. Il governo Renzi iniziò con lo slogan “Otto ministri e otto ministre”. Alcuni obiettano che conta solo il valore della persona, non il sesso.
Io credo nel valore dell’esempio: certe cose bisogna vederle, non basta saperle. E quindi vedere molte donne in ruoli di potere, istituzionali o no, ha un’importanza in sé. Penso aiuti le donne anche in termini di autostima.
Manca l’autostima alle donne?
In larga parte sì: ci sono ancora ragazze che, soprattutto dopo la maternità, restano a casa a fare la mamma e la moglie, a meno che non ci sia bisogno assoluto dello stipendio. Una cosa che un uomo non farebbe mai. Quindi vedere tante donne che hanno potere nella società aiuta a superare i pregiudizi. La rivoluzione delle donne è più profonda della parità dei diritti.
Ministra o ministro?
Ripeto: tutte le cose simboliche sono utili, basta non attribuire ai simboli troppo significato.
In un’intervista al Fatto però disse che da ragazzina voleva fare “il pittore”, al maschile.
A me viene da dire tutto al maschile, sono troppo vecchia: ho quasi novant’anni, ormai non cambio! È un riflesso condizionato. Però capisco la presidente della Camera. La pretesa del maschile che funziona da neutro sott’intende una mistificazione che cancella la differenza. Se anche il linguaggio aiuta a rivelare quest’imbroglio, ben venga.
Cosa pensa della questione molestie sessuali?
Mi ha colpito moltissimo la vastità, impressionante, del fenomeno. Facendo la tara a qualche caso magari dubbio, la mole di denunce è tale da suggerire un costume tristemente comune. Io credo ci sia sempre stata, questa bella abitudine maschile, ma che le donne prima si vergognassero di denunciare. Le vittime, come accade per le violenze sessuali, si vergognano. Le prime donne che hanno deciso di denunciare pubblicamente uno stupro sono state considerate delle eroine. Non dimentichiamoci che in un tempo non molto lontano le donne stuprate o venivano allontanate dalla famiglia o costrette a sposare l’uomo che le aveva violentate. È importante che se ne parli.
Alcuni uomini dicono che non si può più nemmeno fare un complimento galante…
Mi pare una difesa ridicola: un complimento non è una molestia. Per non parlare dei ricatti sessuali sul lavoro, che non è solo il dorato mondo di Hollywood. Nei decenni passati la fabbrica è stato il luogo principe delle molestie e dei ricatti sessuali ai danni delle operaie.
A lei è mai capitato?
Non ho mai dovuto subire un ricatto, vivevo in un ambiente da questo punto di vista privilegiato. Avance molte, ma del resto una volta erano gli uomini che corteggiavano. Se una donna si mostrava interessata a un uomo era una puttana.
È vero che le donne non sanno essere solidali tra loro?
Per niente. Il manifesto ha pubblicato un numero speciale in vendita a 3 euro il cui ricavato andava alla Casa internazionale delle donne di Roma, a rischio di sfratto. È andato esaurito in poche ore, perché tante donne hanno voluto testimoniare solidarietà alla Casa. In questi anni è cresciuta una consapevolezza collettiva, si è rafforzata. Io faccio un’altra critica alle donne, che è il tono lamentoso.
Cioè?
Prendiamo il femminicidio: il fenomeno che abbiamo sotto gli occhi è spaventoso. Nei primi dieci mesi di quest’anno c’è stato più di un episodio ogni tre giorni, e il numero di casi è in crescita (più 5,6% tra il 2015 e il 2016). Ma nella maggioranza dei casi si tratta di donne che hanno messo fine a una relazione, che hanno deciso di intraprendere una professione, insomma: una scelta di indipendenza. E questo è quello che per l’uomo è inaccettabile. Gli uomini sono entrati in crisi perché sentono di non avere più l’autorità. Ma nessun potere viene smantellato senza scorrimento di sangue. Questo tema deve essere raccontato come il tributo di sangue alla rivoluzione delle donne, non con commiserazione.
Le giovani donne hanno un rapporto troppo disinibito con l’immagine?
Mica è un problema delle donne, c’è un’ossessione trasversale dell’apparire. L’aspetto fisico conta tantissimo: la prima cosa che si dice di una donna è se è bella o brutta. Le donne subiscono questo condizionamento. Tanto più il femminismo è forte, tanto più ci si libera di questi retaggi.
Per lei la bellezza è stata un fardello o un privilegio?
La bellezza facilita i rapporti sociali, questo è sempre stato vero. Il pregiudizio però nella nostra generazione era potentissimo: se non avevi le gambe storte o un bel viso, eri cretina. Una donna brutta poteva essere intelligente, una donna bella no. C’era un modello di donna, bella, che finiva tutto nell’apprezzamento estetico. E comunque ai tempi in cui ero giovane, dire ‘è una donna’ equivaleva a dire ‘è una minorata’.
E come si è liberata del problema di essere bella?
Travestendomi da uomo. Noi abbiamo cercato di far passare in clandestinità la femminilità. Si nascondevano, metaforicamente, le tette.
Ha avuto dei modelli femminili?
Aleksandra Kollontaj, marxista, femminista, protagonista della rivoluzione d’ottobre. La prima donna al mondo a diventare ministro. E poi le combattenti della Resistenza: erano quelle a cui da giovane guardavo.
Il bilancio, nel 2017?
Le donne hanno acquistato più forza, ma sono ben lungi dall’aver cambiato la società. Abbiamo il diritto di assomigliare agli uomini. Alle giovani oggi forse basta poter fare tutto quello che fanno i loro coetanei maschi: uscire la sera, divertirsi, scopare, avere l’opportunità di studiare e realizzarsi sul lavoro. Non basta, si fidi di una che ha visto sfilare quasi un secolo…
I 5 Stelle salgono al 29,1%, centrodestra al 36 Pd ancora in calo, il partito di Grasso al 6,6%
Il Pd continua a calare: ora è al 24,4 per cento. Il nuovo movimento di Pietro Grasso, Liberi e uguali, arriva al 6,6%, un punto in più della somma di Mdp e Sinistra italiana. L’ultima rilevazione dell’istituto Ipsos si riferisce alle giornate 5 e 6 dicembre, prima quindi della decisione di Pisapia di fare un passo indietro. Il centrodestra sale al 36%, con Forza Italia che supera la Lega di due punti. Continua la crescita dei 5 Stelle che arrivano al 29,1%.
MILANO Alla sua prima quotazione ufficiale la lista Liberi e uguali registra un consenso del 6,6 per cento. Nelle intenzioni di voto (rilevate da Ipsos tra il 5 e 6 dicembre) la nuova creatura politica tenuta a battesimo domenica scorsa dal presidente del Senato Piero Grasso conquista oltre un punto in più della somma di Mdp, Sinistra italiana e Possibile. Un dato che premia il progetto di unificare le forze che stanno a sinistra del Partito democratico e che nel contempo sembra anche sfatare la tradizione che vuole sempre bocciata nelle urne la scelta di sommare soggetti diversi.
Il peso attribuito a Liberi e uguali è la primizia assoluta del sondaggio di Ipsos che peraltro è stato fatto il giorno precedente il doppio forfait — di Angelino Alfano sul fronte centrista e di Giuliano Pisapia su quello di sinistra — tra i possibili alleati di Matteo Renzi. Due rinunce che potrebbero avere riflessi sul consenso del Partito democratico che, comunque, con questa rilevazione fa registrare il minimo storico della gestione renziana, il 24,4 per cento, inferiore di un punto esatto rispetto a quanto ottenuto da Pier Luigi Bersani nel 2013 e di ben 16 nel confronto con le Europee del 2014.
Ben altra aria tira dalle parti del centrodestra, e soprattutto di Silvio Berlusconi. La crescita dello schieramento, pur con le sue diversità di toni e di contenuti, è lenta ma costante. Il centrodestra unito si attesta al 36 per cento, così suddiviso: Forza Italia 16,7 (più 0,6 rispetto al luglio scorso), Lega 14,4 (meno 0,8), Fratelli d’Italia 4,9 (più 0,4). I numeri parlano chiaro: il rinnovato impegno del leader azzurro, in ospitate televisive e partecipazioni ad iniziative pubbliche, sta producendo i suoi evidenti effetti, consentendo a Berlusconi di allargare le distanze dal competitor interno, Matteo Salvini. Per Forza Italia, in particolare, il dato registrato nei giorni scorsi è il più alto dalle elezioni Europee del 2014 quando le urne decretarono il 16,8 per cento.
Ma a scorrere le tabelle elaborate dall’istituto guidato da Nando Pagnoncelli emerge un’altra performance di tutto rilievo. Tra luglio ed oggi, il Movimento Cinque Stelle fa un balzo di quasi due punti, passando dal 27,5 al 29,1 per cento. Un risultato, tornato sui livelli di inizio anno quando lo «score» superava il 30 per cento, che assegna di gran lunga ai pentastellati il titolo di primo partito.
La mancata vittoria in Sicilia, le polemiche sulla sindaca di Torino Chiara Appendino e l’annuncio del «ritiro» dal Parlamento di Alessandro Di Battista non paiono aver danneggiato il Movimento, ora affidato alla guida del capo politico Luigi Di Maio. Resta da dire di ciò che si muove al centro dello schieramento politico. Alternativa popolare, alla vigilia dell’annuncio dell’addio di Alfano, si ferma al 2,7 per cento, poco sotto la fatidica soglia del 3 per cento che consente l’accesso alle Camere. Scelta civica, invece, è sparita dal radar dei rilevatori (ma nell’ultima occasione valeva solo lo 0,2 per cento).
Infine, il grande partito degli indecisi e dei non interessati al voto. Nel complesso siamo al 35,3 per cento, più di un elettore su tre.

Corriere 9.12.17
I 5 Stelle salgono al 29,1%, centrodestra al 36 Pd ancora in calo, il partito di Grasso al 6,6%
Il Pd continua a calare: ora è al 24,4 per cento. Il nuovo movimento di Pietro Grasso, Liberi e uguali, arriva al 6,6%, un punto in più della somma di Mdp e Sinistra italiana. L’ultima rilevazione dell’istituto Ipsos si riferisce alle giornate 5 e 6 dicembre, prima quindi della decisione di Pisapia di fare un passo indietro. Il centrodestra sale al 36%, con Forza Italia che supera la Lega di due punti. Continua la crescita dei 5 Stelle che arrivano al 29,1%.
di Cesare Zapperi


MILANO Alla sua prima quotazione ufficiale la lista Liberi e uguali registra un consenso del 6,6 per cento. Nelle intenzioni di voto (rilevate da Ipsos tra il 5 e 6 dicembre) la nuova creatura politica tenuta a battesimo domenica scorsa dal presidente del Senato Piero Grasso conquista oltre un punto in più della somma di Mdp, Sinistra italiana e Possibile. Un dato che premia il progetto di unificare le forze che stanno a sinistra del Partito democratico e che nel contempo sembra anche sfatare la tradizione che vuole sempre bocciata nelle urne la scelta di sommare soggetti diversi.
Il peso attribuito a Liberi e uguali è la primizia assoluta del sondaggio di Ipsos che peraltro è stato fatto il giorno precedente il doppio forfait — di Angelino Alfano sul fronte centrista e di Giuliano Pisapia su quello di sinistra — tra i possibili alleati di Matteo Renzi. Due rinunce che potrebbero avere riflessi sul consenso del Partito democratico che, comunque, con questa rilevazione fa registrare il minimo storico della gestione renziana, il 24,4 per cento, inferiore di un punto esatto rispetto a quanto ottenuto da Pier Luigi Bersani nel 2013 e di ben 16 nel confronto con le Europee del 2014.
Ben altra aria tira dalle parti del centrodestra, e soprattutto di Silvio Berlusconi. La crescita dello schieramento, pur con le sue diversità di toni e di contenuti, è lenta ma costante. Il centrodestra unito si attesta al 36 per cento, così suddiviso: Forza Italia 16,7 (più 0,6 rispetto al luglio scorso), Lega 14,4 (meno 0,8), Fratelli d’Italia 4,9 (più 0,4). I numeri parlano chiaro: il rinnovato impegno del leader azzurro, in ospitate televisive e partecipazioni ad iniziative pubbliche, sta producendo i suoi evidenti effetti, consentendo a Berlusconi di allargare le distanze dal competitor interno, Matteo Salvini. Per Forza Italia, in particolare, il dato registrato nei giorni scorsi è il più alto dalle elezioni Europee del 2014 quando le urne decretarono il 16,8 per cento.
Ma a scorrere le tabelle elaborate dall’istituto guidato da Nando Pagnoncelli emerge un’altra performance di tutto rilievo. Tra luglio ed oggi, il Movimento Cinque Stelle fa un balzo di quasi due punti, passando dal 27,5 al 29,1 per cento. Un risultato, tornato sui livelli di inizio anno quando lo «score» superava il 30 per cento, che assegna di gran lunga ai pentastellati il titolo di primo partito.
La mancata vittoria in Sicilia, le polemiche sulla sindaca di Torino Chiara Appendino e l’annuncio del «ritiro» dal Parlamento di Alessandro Di Battista non paiono aver danneggiato il Movimento, ora affidato alla guida del capo politico Luigi Di Maio. Resta da dire di ciò che si muove al centro dello schieramento politico. Alternativa popolare, alla vigilia dell’annuncio dell’addio di Alfano, si ferma al 2,7 per cento, poco sotto la fatidica soglia del 3 per cento che consente l’accesso alle Camere. Scelta civica, invece, è sparita dal radar dei rilevatori (ma nell’ultima occasione valeva solo lo 0,2 per cento).
Infine, il grande partito degli indecisi e dei non interessati al voto. Nel complesso siamo al 35,3 per cento, più di un elettore su tre.

La Stampa 9.12.17
Più oroscopi e meno psicologi
Il Giappone fa la fila dagli indovini
Nel Sol Levante ci sono amuleti per ogni occasione. Boom di chiromanti improvvisati E c’è chi fa sedute dalle fattucchiere per un consiglio sugli investimenti finanziari
di Cristian Martini Grimaldi


Mai camminare sul bordo di un tatami e mai guardare il corvo dritto negli occhi, ma soprattutto mai sposare una donna nata nell’anno del cavallo di fuoco (hinoeuma). Per quanto improbabile possa sembrare la superstizione, non esiste giapponese che non si crucci di prenderla seriamente in considerazione.
Un esempio? Nel 1966 ci furono mezzo milione di nati in meno, sia rispetto all’anno precedente sia a quello successivo. Un cataclisma di gigantesche proporzioni si era abbattuto sull’arcipelago. Ma non si trattava di uno tsunami, né di un terremoto di rara magnitudo. Semplicemente era un anno considerato particolarmente sfortunato, appunto l’anno del cavallo di fuoco e moltissime coppie volevano evitare che i propri figli nascessero in una fase astrale che risultava sfavorevole (il prossimo sarà nel 2026), quantomeno stando a un racconto di ben quattro secoli fa, dove ha avuto origine la superstizione.
Basta fare visita a un qualunque santuario shinto per rendersi conto di quanto in Giappone sia vasto e vario il mercato delle superstizioni. È possibile acquistare un amuleto per quasi tutto: il successo degli esami, un parto sicuro, la protezione dagli incidenti stradali. Per non parlare della pianificazione delle date favorevoli per i matrimoni e i funerali.
Secondo alcune statistiche addirittura un giapponese su quattro crede che la personalità sia determinata dal proprio gruppo sanguigno. Ad esempio il gruppo A rispecchierebbe una persona seria e scrupolosa, mentre un B è tendenzialmente egoista e poco socievole. Il gruppo AB rappresenta solo il 9% della popolazione, vuol dire che il soggetto avrà una personalità molto speciale, o estremamente geniale o molto stupido.
Insomma, il popolo che ha impostato l’organizzazione sociale e lavorativa sulla giustezza matematica - il ritardo anche di un solo minuto in un colloquio di lavoro è assolutamente ingiustificabile - quando si tratta di prendere decisioni importanti non è raro che faccia ricorso all’indovino. Nei ruggenti Anni 80, ovvero il periodo di massima prosperità economica, quando investire in azioni era diventato una tale consuetudine che le casalinghe ne facevano il loro passatempo preferito, se c’era da fare un grosso e rischioso investimento che avrebbe potuto consolidare il proprio patrimonio, o al contrario mandare sul lastrico un’intera famiglia, si cercava il parere di un fortune-teller, non di un consulente finanziario.
La storia più incredibile è quella di una donna di nome Nui Onoue, proprietaria di un ristorante di Osaka, che divenne il più grande broker di azioni del Paese (ricevette prestiti da istituzioni finanziarie per un valore di 1,7 miliardi di euro). Si pensava fosse dotata di speciali doti di chiaroveggenza e la gente gli affidava la cura dei propri risparmi, una sorta di Bernard Madoff dove al posto del curriculum del finanziere aveva quello della chiromante (per la cronaca, prese 12 anni di carcere e le due banche che gestivano i suoi fondi oggi non esistono più).
Gli oroscopi appaiono spesso sugli schermi dei treni e sempre di più si stanno diffondendo quelli personalizzati online, ma soprattutto la vecchia pratica dell’oroscopo via telefono sta avendo un successo straordinario. L’abitudine dei giapponesi di consultare gli astri sono radicate nel concetto che hanno di divinità. La credenza in un’unica entità divina tipica delle religioni monoteiste è piuttosto rara, più diffusa è una visione panteistica di dio, dove la natura è al centro, e tale mentalità promuove ineluttabilmente un atteggiamento di tipo fatalista, di qui il grande interesse per la «lettura» del proprio destino.
Anche nei momenti di depressione o stress sentimentale e lavorativo, i giapponesi preferiscono un fortune-teller a uno psichiatra, e non solo perché è molto più economico: una sessione dal chiromante costa mediamente 5.000 yen (più o meno 45 euro) per una durata di 30 minuti, contro i 200 euro che costerebbe una sessione di consulenza dallo psicoterapeuta. Non ci sono dati affidabili sul numero dei praticanti la professione divinatoria in Giappone perché in teoria chiunque può mettersi in proprio e diventare un fortune-teller, e nessuna licenza è necessaria per entrare in attività. Inoltre con l’avvento della digitalizzazione una quantità sempre crescente di contenuti legati agli oroscopi si è riversata online.
Il target dichiarato di questi siti sono per lo più persone di sesso femminile tra i 20 e 30 anni che cercano consigli sulla vita sentimentale. Guarda caso quella fascia di età in cui una donna giapponese è in cerca di marito: passati i 30, statistiche alla mano, solo il 5% di queste salirà sull’altare.

il manifesto 9.12.17
Manicomio addio, finalmente
Verità nascoste. La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos


La settimana scorsa al Centro Napoletano di Psicoanalisi è stato presentato Manicomio addio, un libro di Guelfo Margherita, psicoanalista con una storia importante nel campo della cura psichica, ex primario dell’ospedale psichiatrico Bianchi.
L’autore, protagonista del movimento che ha ridato dignità e diritto di cittadinanza ai reclusi nelle strutture manicomiali, descrive la propria esperienza esponendo i suoi presupposti teorici e clinici. Gli ampi resoconti del lavoro in gruppo, suo strumento privilegiato, ravvivano la memoria di un passato non remoto di passioni – che già appare preistorico nell’ambito della psichiatria attuale- rimettono in scena un patrimonio di curiosità, immaginazione, solidarietà colpevolmente disperso.
Erving Goffman (1961) ha definito le grandi strutture manicomiali come «istituzioni totali»: luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, allontanate dalla società per un periodo lungo di tempo, vivono insieme in un regime chiuso e inglobante che si amministra da sé secondo regole proprie.
Storicamente la funzione dei manicomi è stata quella di eliminare dalla società il fastidio e l’inquietudine provocati dal disordine della sofferenza psichica più grave e destrutturante e dal suo effetto contaminante, destabilizzante.
Un servizio di nettezza urbana del dolore che isolato nelle strutture di reclusione, veniva cloroformizzato, silenziato con tutti i mezzi a disposizione.
La cura manicomiale era una pratica violenta, riconosciuta come repressiva, ma supposta necessaria, di uniformazione, spersonalizzazione dell’esperienza, inclusa quella dei suoi operatori, scissi, nell’esercizio della loro funzione, dalla loro identità di cittadini «normali» proprietari di uno spazio privato e di una vita propria.
Coperta dalle sue motivazioni di contenimento repressivo, la cura manicomiale svolgeva, contemporaneamente, la funzione di dare forma concreta e legittimazione indiretta all’agire desoggettivante che sottende vaste aree della vita sociale.
Le mura dei manicomi rendevano ammissibile la conformazione a un ordine impersonale tra le pratiche di educazione sociale e, al tempo stesso, le negavano un riconoscimento aperto, la nascondevano.
Ci si può chiedere se a essere psicotici fossero i pazienti reclusi o piuttosto l’istituzione, come Margherita sostiene.
L’affermazione non è eccessiva. I soggetti che impropriamente chiamiamo psicotici, confondendoli con la loro reazione difensiva a forze desoggettivanti che minano precocemente l’integrità della propria esperienza, cercano spontaneamente di riappropriarsi di un senso personale di esistenza, accettando di rompersi. I loro deliri, allucinazioni e comportamenti irregolari, bizzarri mirano a riparare la rottura senza negare le sue ragioni, sono una spinta soggettivante.
La loro cura manicomiale, che annullava la loro soggettività, era, invece, psicotica, psicotizzante.
Come è accaduto con altre domande di cambiamento sociale dell’ultima parte del secolo scorso, anche la riforma della cura psichiatrica è stata accolta formalmente e tradita nella sostanza.
I grandi manicomi sono stati chiusi (anche se sopravvivono in dimensioni minori in varie forme), ma la reclusione, spersonalizzazione della sofferenza è stata introiettata dal corpo sociale. Vive in modo diffuso, più insidioso, in una nuova pratica di soffocamento del sintomo manifesto: l’uso massiccio, rigorosamente sedativo dei farmaci.
La compressione pura dell’angoscia che in questo modo si realizza, è del tutto omogenea alla psicosi asintomatica, devitalizzante diventata la più temibile, invisibile, forma di alienazione sociale.

Corriere 9.12.17
La mamma che ha ucciso i suoi bambini rifiuta le cure
La donna ha una ferita al torace, ma non è stato possibile operarla: «Ho fatto qualcosa di male»
S. P., G. B.


«Ho fatto qualcosa di male, voglio morire». Sono le parole che, dal suo letto all’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, ripete Antonella Barbieri, 39 anni, l’ex modella che ha soffocato con un cuscino la figlia Kim, 2 anni, e ucciso con un coltello da cucina il secondogenito Lorenzo, 5 anni, per poi tentare senza riuscirci di togliersi la vita.
La donna, arrestata con l’accusa di duplice infanticidio e sorvegliata a vista, ha una ferita al torace, ma non è stato possibile operarla perché rifiuta le cure. «È vigile e cosciente, le sue condizioni sono stabili. Sono state attivate tutte le consulenze del caso, compresi gli accertamenti psichiatrici», spiegano i sanitari. L’unico colloquio che ha avuto sinora è quello col magistrato, ma è stato interrotto perché la paziente è scoppiata più volte in lacrime. Antonella avrebbe sofferto in passato di crisi depressive e pare fosse in cura.
«Non era una delle persone più allegre», spiega Giuseppe Benatti, zio di Andrea, il marito della donna, campione di rugby che ha giocato nel Viadana (Mantova) e in Nazionale. Si è ritirato nel 2011 dopo il distacco della retina. «Antonella pareva avere un atteggiamento un po’ strano», dice il parroco di Suzzara, dove la donna si è trasferita un paio d’anni fa col marito dopo aver gestito a Viadana un negozio di telefonia e un centro estetico. Il ds del Viadana, Alberto Bronzini, non riesce a darsi pace: «Pensavo che conducessero una vita felice».

La Stampa TuttoScienze
L’evoluzione della prospettiva da Euclide a Brunelleschi
Piergiorgio Oddifreddi ci narra come Filippo Brunelleschi affronta il problema della rappresentazione scientifica della terza dimensione su un piano. Il Brunelleschi partendo dalle conoscenze dei greci e dai teoremi dell’ottica di Euclide riesce a risolvere il problema della rappresentazione dello spazio.
di Piergiorgio Odifreddi

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venerdì 8 dicembre 2017

Repubblica 8.12.17
Intervista a Gorbaciov
“Se Usa e Russia non fermano gli armamenti rischiamo la catastrofe”
di Rosalba Castelletti


MOSCA «Il mondo è sull’orlo di una catastrofe. Invito i presidenti di Russia e Stati Uniti a liberare il mondo dalle armi di sterminio di massa». Dallo studio moscovita della sua Fondazione, l’ottantaseienne Mikhail Gorbaciov lancia un appello ai leader delle due superpotenze mondiali perché seguano l’esempio suo e di Ronald Reagan. Trent’anni fa a Washington l’allora segretario del Partito comunista dell’Unione sovietica e l’allora presidente degli Stati Uniti sottoscrivevano il Trattato sulle armi nucleari a medio raggio (Inf), primo segnale concreto di disgelo. «Un passo decisivo che ha dato inizio al processo di disarmo nucleare», lo definisce in quest’intervista esclusiva a Repubblica. Fu l’inizio della fine dell’era degli euromissili e della guerra fredda.
Mikhail Sergeevic, come si arrivò a quella storica sigla?
«Le basi erano già state gettate a Reykjavik. Avevamo concordato i principali parametri dei futuri trattati sull’eliminazione dei missili a media e breve gittata e sulla riduzione del 50 per cento delle armi strategiche offensive.
Non riuscimmo a firmarli perché il presidente Reagan, “già che c’eravamo, oltre che sul resto”, voleva il mio consenso sul programma Sdi, lo Scudo spaziale, e sui test delle armi nello spazio. Non potevo acconsentire. Ciononostante, avemmo un lungo colloquio ed ebbi la sensazione che il presidente americano, sinceramente, non tollerasse le armi nucleari. Su questo avevamo una linea comune.
Dopo tre mesi gli proposi perciò di firmare “fuori pacchetto” un trattato sulla distruzione dei missili a media gittata.
Bisognava compiere un primo passo. E l’abbiamo fatto nel dicembre del 1987. È stato un passo decisivo che ha dato inizio al processo di disarmo nucleare.
Grazie a esso, a oggi è stato distrutto oltre l’80 per cento degli arsenali nucleari risalenti all’epoca della guerra fredda».
Come riusciste a superare le divergenze?
«Ci siamo riusciti perché avevamo una volontà politica.
C’erano tanti ostacoli. C’erano anche tanti nemici dell’avvicinamento tra Urss e Stati Uniti che tentavano continuamente di farci deviare dalla nostra via. Era una strada complicata, per niente piana e il cammino non era piacevole. Ma alla fine il senso di responsabilità e il buon senso hanno prevalso. È quello che desidero augurare ai nostri attuali successori».
Le relazioni tra Russia e Stati Uniti appaiono però più tese che mai. Si evoca spesso una “nuova guerra fredda”.
C’è modo d’invertire questo corso?
«Prima di tutto bisogna ricominciare a dialogare.
Bisogna preparare un summit con pieni poteri allargato a tutti i rappresentanti dei più alti vertici. E avviare un negoziato su un’agenda a tutto campo, non solo sui “focolai di tensione”.
Lancio un appello ai due presidenti a ridare un nuovo respiro al processo di liberazione del mondo dalle armi di sterminio di massa. La gente lo aspetta!».
È solo di pochi giorni fa l’ultimo test missilistico della Corea del Nord. Vede i rischi di un conflitto nucleare? Ed eventuali vie d’uscita?
«I rischi sono enormi. Non voglio esagerare, ma la nuova corsa agli armamenti è già realtà e può portare il mondo alla catastrofe. Come prevenirla?
Non esiste una panacea. Questa situazione non può essere risolta con un tocco di bacchetta magica. Per questo, voglio tornare a ribadire, mi appello ai leader mondiali, e ai presidenti di Stati Uniti e Russia innanzitutto, perché riprendano nelle loro mani il processo di disarmo nucleare.
Per iniziare, basta riconvalidare l’adesione al Trattato sui missili a medio e corto raggio e risolvere i problemi che si sono venuti a creare sul loro controllo. Sono convinto che si possono risolvere se c’è buona volontà.
E, poi, andare avanti. Oggi nel mondo si sono accumulate fin troppe armi».
Nel 1990 è stato insignito del Nobel per la pace.
Domenica verrà consegnato alla Campagna internazionale contro le armi nucleari. Come ha accolto quest’assegnazione?
«Con entusiasmo. Bisogna ricordare in continuazione che cos’è un’arma nucleare e cercare di ottenerne l’eliminazione. Un mondo senza arma nucleare!
Non ci può essere altro obiettivo! Mi preoccupa molto che, nelle dottrine militari, si torni a ipotizzare l’uso di armi atomiche. Voglio ricordare un’ennesima volta la dichiarazione congiunta che firmammo io e Ronald Reagan: la guerra nucleare è inammissibile, perché non può esserci un vincitore».
Nel libro autobiografico “Resto ottimista” ripercorre i momenti più significativi della sua vita, compresa la sua politica di rinnovamento, la perestrojka, che cambiò l’Urss e il mondo intero. Oggi che cosa pensa di quegli anni?
«Con l’andar del tempo alcuni giudizi possono cambiare. Ma la cosa essenziale è che allora sentivo che la gente aspirava ai cambiamenti, nel nostro Paese e nel mondo, e che ho cercato di far sì che i cambiamenti fossero profondi, radicali e che avvenissero senza spargimento di sangue. Per molti versi ci siamo riusciti. I cittadini hanno trovato la libertà. È cominciato il cammino verso la democrazia.
Abbiamo chiuso l’era della guerra fredda. E tutto questo è avvenuto in un breve lasso di tempo se commisurato con le leggi della storia».
Tra i “capitoli” della sua vita qual è il più felice? E quello più doloroso?
«Vorrei che le nuove generazioni leggessero il mio libro. Preferisco che siano loro a trovarci dentro le pagine felici, e dolorose, della mia vita».
Trent’anni fa il patto Reagan-Gorbaciov sui missili UNIVERSAL HISTORY ARCHIVE/ GETTY IMAGE

Repubblica 8.12.17
Szydlo silurata
Un premier “forte” per la Polonia che guarda a Orbán
di Andrea Tarquini


Brusco rimpasto di governo nella Polonia delle svolte autoritarie e del boom economico in conflitto con l’Ue cui appartiene. Il leader della maggioranza conservatrice Jaroslaw Kaczynski ha di fatto licenziato su due piedi la debole e spesso iperclericale premier Beata Szydlo, che poche ore prima aveva superato un voto di fiducia in Parlamento. Nuovo capo dell’esecutivo è adesso il finora vicepremier e superministro delle Finanze e della politica economica, Mateusz Morawiecki. A metà legislatura, e nel giorno in cui la Ue ha deferito Polonia, Cechia e Ungheria alla corte europea per il no ai migranti e alle quote di ripartizione e i colpi autocratici allo Stato di diritto, Varsavia vuole mostrarsi forte e decisa.
Morawiecki, ex grande banchiere avrà un duplice ruolo formando il suo governo. Da un lato, dovrà rassicurare gli investitori stranieri – che lo stimano e infatti la Brexit li ha incoraggiati a spendere ancor più in Polonia spingendo persino Goldman Sachs e altre grandi banche a programmare traslochi da Londra a Varsavia – sulla continuità del boom nonostante lo scontro con Bruxelles. D’altra parte, Morawiecki, autore di un ambizioso piano di sviluppo e investimenti, è uno stimato economista fautore di più dirigismo e più spese per il welfare e maggior ruolo del settore pubblico nella prima economia del centroest, ma garantendo competenza economica agli operatori internazionali. Compensando così lo scontro con Bruxelles sull’esautorazione della magistratura da parte del partito di governo (PiS), a causa della quale secondo la Ue la democrazia polacca è in pericolo. «La nuova situazione richiede un cambio nel management politico», ha detto la portavoce della maggioranza Beata Mazurek. Negli ultimi tempi Kaczynski si è mostrato in crescente sintonia col premier ungherese Viktor Orbán.

La Stampa 8.12.17
Nei Territori scoppia la rivolta: “L’unico che ci difende è Erdogan”
Più di cento feriti negli scontri tra palestinesi e l’esercito israeliano. Tra i giovani sale la sfiducia verso Abu Mazen: ci ha venduti
di Giordano Stabile

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Corriere 8.12.17
Amos Oz: «Ma in questa terra è meglio non fare profezie»
di L. Cr.


«Devo ammettere che ancora non ho ben compreso i motivi che hanno spinto Donald Trump a fare questa dichiarazione su Gerusalemme. Non capisco se è dettata più da considerazioni di ordine internazionale, oppure di politica interna americana», dice Amos Oz dalla sua residenza non distante dall’Università di Tel Aviv. Da alcuni anni ormai il celebre scrittore israeliano ha lasciato la sua vecchia casa nel deserto del Negev. Le attrattive della metropoli non lo distolgono tuttavia dalle molte ore di lavoro alla scrivania. E a 78 anni continua a seguire con attenzione gli sviluppi della politica mediorientale. Per commentare la dichiarazione di Trump si è preso una notte di tempo. Ultimamente lo fa sempre più spesso. «Voglio darmi lo spazio per riflettere. In genere non sono una persona che reagisce a caldo», ci aveva ripetuto mercoledì sera alla richiesta per un’intervista. Ieri mattina infine ci ha dato un breve commento, con voce lenta, quasi stesse dettando un testo: «Il governo della Repubblica Ceca ha dichiarato poche ore fa che riconosce Gerusalemme Ovest, quella delimitata dalla cosiddetta linea verde che è il vecchio confine precedente la guerra del 1967, come la legittima capitale di Israele. Aggiunge inoltre che, al momento giusto, sarà ben contento di muovere la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme Ovest, come del resto sarà ben disposto ad aprire contemporaneamente una sua ambasciata per la Palestina a Gerusalemme Est. Ecco mi sembra di poter dire che il mio pensiero ben si riflette nella mossa del governo ceco».
Ma come vede le possibili conseguenze della mossa di Trump: aiuta la ripresa del negoziato tra israeliani e palestinese, oppure c’è il rischio che la paralizzi ulteriormente? «Mi sembra che la posizione della Repubblica Ceca contenga già una chiara risposta». Il mondo arabo tuttavia reagisce con critiche dure, i palestinesi annunciano mobilitazioni di protesta. Teme violenze? «Non voglio fare profezie in questa terra già colma di profeti e profezie».

Repubblica 8.12.17
La nuova Intifada
L’alleanza a tre e il nodo !ran
di Lucio Caracciolo


Nell’atto di riconoscere Gerusalemme quale capitale d’Israele, Donald Trump ha messo i suoi interessi politico-elettorali al di sopra di quelli del paese che rappresenta. Il presidente è concentrato più sulle elezioni parlamentari di mezzo termine, che fra meno di un anno potrebbero decidere del suo futuro politico, facendone “ un’anatra zoppa” a metà del suo primo e forse unico mandato, che sull’interesse nazionale. Nulla di straordinario, nella storia degli inquilini della Casa Bianca. Il cui primo obiettivo, una volta insediati nello Studio Ovale per quattro anni, è di assicurarsi il secondo mandato. Fatto è che pur di mantenere ( caso raro) una promessa fatta allo zoccolo duro del suo elettorato — schierato sempre e comunque con lo Stato ebraico in quanto paese più che alleato, gemello — “The Donald” ha rotto il tabù diplomatico che aveva permesso agli Usa di sceneggiare l’esistenza in vita di una mediazione fra palestinesi e israeliani morta e sepolta da quasi vent’anni.
Settori rilevanti dell’establishment americano, a cominciare dall’alta burocrazia militare e diplomatica, da alcuni laboratori strategici e d’intelligence, condannano la mossa come avventata. Inutilmente il pur influente ministro della Difesa, Jim “ Cane Matto” Mattis, e il del tutto ininfluente ex (?) petroliere Rex Tillerson, capo del fatiscente Dipartimento di Stato, hanno cercato di dissuadere Trump da questa “ opzione nucleare”. Convinti che avrebbe eccitato l’antiamericanismo non solo in Medio Oriente, minacciato la vita di civili e militari a stelle e strisce, alimentato la propaganda e il terrore jihadista.
Il rischio per gli Stati Uniti — che da tempo considerano il Medio Oriente scacchiere secondario ma non riescono ad emanciparsene, continuando a sprecarvi risorse militari, finanziarie e d’immagine — è di finire strumento dei loro due Stati di riferimento nella regione: Israele e Arabia Saudita. Il primo sentito consanguineo. Il secondo, alleato non sempre affidabile ma capace di dotarsi a pagamento di una tale rete di protezione nei meandri del potere a stelle e strisce da oscurare il fatto che ad abbattere le Torri Gemelle furono suoi sudditi.
Il triangolo Washington-Gerusalemme-Riad è concorde nel valutare Teheran unico nemico strategico tra Levante, Golfo e Asia centromeridionale. La questione palestinese è capitolo chiuso anche per gli altri leader arabi e musulmani, che pur fingono di interessarsene e protestano contro la sacrilega scelta di Trump. Sicché per Usa, Israele e Arabia Saudita è inutile investirvi tempo, soldi e soldati, da destinare invece al contrasto dell’imperialismo iraniano. Risultato: la Palestina non sarà mai vero Stato né Gerusalemme Est la sua capitale. Al massimo, ciò che resta dell’Autorità palestinese, tenuta artificialmente in vita dai suoi nemici israeliani, in collaborazione con americani, sauditi, petromonarchie minori del Golfo ed europei (solo nei panni di ufficiali pagatori), potrà fregiarsi di una statualità puramente decorativa, simbolica.
La retorica dei due Stati non punta ai due Stati. Serve a coprire l’espansione territoriale di Israele in Cisgiordania e nella Grande Gerusalemme. Dato di fatto irreversibile se non per improbabile inversione geopolitica o suicidio israeliano. Da ornare, al massimo, con qualche foglia di fico. Basta uno sguardo alla carta dei Territori occupati ( contestati, dal punto di vista israeliano), segmentati in mille frammenti, per rendersi conto che fondarvi un qualsivoglia Stato è vano. Figuriamoci centrarlo su Gerusalemme.
Lo strano triangolo che lega la massima potenza mondiale allo Stato ebraico e al feudo wahabita in cerca d’identità non solo petrolifera sembra aver deciso che è tempo di troncare anche formalmente l’equivoco palestinese. Stabilendo che Gerusalemme, tutta Gerusalemme, è capitale di Israele. Punto. Esattamente settant’anni dopo che David Ben-Gurion, accettato il piano di bipartizione della Palestina in uno Stato arabo e uno ebraico, aveva sacrificato la città santa in cambio dell’esistenza di Israele, accedendo all’idea di farne un “corpo separato” a gestione internazionale. Piano stracciato dagli arabi, a spese anzitutto dei palestinesi, convinti di rigettare a mare gli ebrei.
Un mese fa, il giovane e avventuroso leader saudita Mohammad bin Salman (noto come MbS) aveva fatto capire senza troppe cerimonie al figurativo presidente palestinese Mahmud Abbas (alias Abu Mazen), convocato a Riad, che il tempo era scaduto. Comunicazione secca: i palestinesi si adattino a uno staterello di facciata, collazione dei coriandoli di spazio cisgiordano su cui Israele non esercita un controllo diretto, privo di continuità territoriale. Con Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme Est, eretta a “capitale” della Palestina fantasma. Prendere o lasciare. Nel secondo caso, la casa saudita, d’intesa con israeliani e americani, avrebbe provveduto a installare Mohammed Dahlan ( Abu Fadi), avversario del vecchio Abu Mazen, a capo della pseudo- Palestina. Il colloquio, a quanto pare, si era interrotto bruscamente.
Resta da vedere se la peculiare costellazione formata dalla coincidenza degli interessi personali di Trump con le attuali strategie israeliana e saudita raggiungerà l’obiettivo di decretare la fine della questione palestinese. O se invece, per paradosso, rianimerà almeno per qualche tempo quella partita sapientemente sopita dalle diplomazie di tutto il mondo per evitare la definitiva umiliazione dei palestinesi. Così svelando che le strategie di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita non sono così convergenti come pretende chi oggi le orienta. E che quindi la demonizzazione dell’impero persiano, oggi reincarnato dall’Iran, non conviene a nessuno.

Corriere 8.12.17
Reportage nella città santa
Cent’anni (e tre mappe) Passeggiata con gli storici per capire Gerusalemme
dall’inviato a Gerusalemme
Dal borgo dove «non accadeva nulla» alla contesa tra fedi e politica
di Lorenzo Cremonesi


Ci sono pochi luoghi al mondo tanto carichi di storia e memoria. Un retaggio ricco, affascinante mosaico delle declinazioni del monoteismo nei secoli. Ma anche pesante, talvolta oppressivo, potenzialmente esplosivo. Il Muro del Pianto a poche decine di metri dalle moschee di Al Aqsa e della Roccia. Crocifissi armeni, cattolici, etiopi, protestanti, ortodossi appesi negli stessi mausolei. Il Santo Sepolcro a segnare il confine con la zona musulmana che conduce alla porta di Damasco, dove le mura sono più basse e si racconta vi abbiano fatto irruzione i cavalieri della Prima Crociata nove secoli fa. Cimiteri di fedi diverse, tombe, sinagoghe, chiese e moschee, parete a parete, divisi solo da un vicolo, ma anche in competizione gli uni con gli altri, in certi casi gli uni a spese degli altri. Basterebbe ricordare questa semplice realtà per sottolineare quanto Gerusalemme sia un nodo cruciale per la pace o la guerra nella regione.
Oggi i nuovi quartieri ebraici costruiti a colpi di palazzoni sempre più velocemente sui territori occupati da Israele al tempo della guerra del giugno 1967 hanno ingigantito la città a dismisura. Maalè Adumim, che solo venti anni fa pareva un isolato sobborgo sulle colline che divallano verso il Mar Morto, è adesso una gigantesca appendice meridionale della città che accerchia nel cemento i quartieri arabi più popolosi assiepati sulla provinciale per Gerico. E Har Homa, un’altra collina posta presso la strada che da kibbutz Ramat Rachel porta a Betlemme, è come se avesse dimenticato le infinite polemiche e battaglie che ne caratterizzarono la colonizzazione al tempo del primo governo Netanyahu, nella seconda metà degli anni Novanta, per diventare una ricca area residenziale con supermercati e fabbriche high tech. Un possibile polo di attrito che, con il ritorno degli scontri in seguito al discorso di Trump, ieri era fittamente presidiato dalla polizia.
Eppure, non è sempre stato così. Amos Elon, noto scrittore israeliano deceduto nel 2009, per cercare di sdrammatizzare la situazione usava citare alcune pagine celebri di Mark Twain, che nel suo Gli innocenti all’estero , la cronaca ironica del suo viaggio da turista in Terra Santa nel 1867, parlava di una «provincia abbandonata, povera e tediosa dell’Impero Ottomano, dove da decenni non accade assolutamente nulla». In toni simili si esprime anche Tom Segev, giornalista ma soprattutto storico sottile innamorato del paradosso sino alla provocazione. «Il conflitto in questa terra si disegna anche a colpi di mappe, date e confini apparentemente invalicabili, che però in realtà vengono continuamente cancellati e ridisegnati con il cambiare dei valori ideologici e dei riferimenti politici. Dalla fine della sovranità ottomana cento anni fa, al piano Onu per la partizione del 1947 e i risultati della guerra del 1948, sino alla guerra del 1967, seguita dalla restituzione israeliana del Sinai grazie alla pace con l’Egitto e il progetto di pace con i palestinesi nel 1993, non ci sono mai state frontiere intoccabili», sottolinea. A far da filo rosso è la sua ampia biografia di David Ben Gurion, la cui pubblicazione in ebraico è programmata per il prossimo febbraio. «Il padre della patria israeliana come tutti i primi sionisti non era affatto interessato a Gerusalemme. Arrivò giovane migrante dall’Europa dell’Est nel 1906 e subito andò a fare il contadino in Galilea. Visitò Gerusalemme per un impegno di lavoro solo tre o quattro anni dopo. Ma la città non lo attirava. C’erano troppi arabi per i suoi gusti. E soprattutto detestava gli ebrei ortodossi, gli ricordavano la realtà della diaspora che si era lasciato alle spalle per sempre». Un dato sottolineato all’infinito dai nuovi storici israeliani: per i primi sionisti laburisti che guidavano il movimento, e in effetti per la maggioranza dei loro partiti politici sino alla Guerra dei Sei giorni, le città dell’utopia realizzata nel nuovo ebreo produttore emancipato dai valori diasporici erano Tel Aviv, Petach Tikvah, Herzlya, le colonie agricole, certo non Gerusalemme, che sapeva di stantio, di vecchio e obsoleto. Aggiunge Segev: «Durante la guerra del 1948 Moshe Dayan, che allora comandava l’esercito, annunciò che la città vecchia di Gerusalemme poteva essere presa ai giordani manu militari. Ma Ben Gurion fu contrario, non voleva assumersi l’onere del controllo dei luoghi santi musulmani e cristiani. Fu persino pronto a rinunciare al Muro del Pianto, nonostante le violente proteste di Menachem Begin, l’allora leader dei sionisti conservatori. Salvo poi, appena dopo la formidabile vittoria del 1967, proporre di abbattere addirittura le mura ottomane antiche cinque secoli per annetterla integralmente, in barba alle opposizioni della comunità internazionale».
Della continuità dell’attaccamento palestinese alla propria terra parla invece Ghassam Khatib, intellettuale di Ramallah ed ex ministro nel governo di Abu Mazen: «Per noi Gerusalemme e la sua regione sono sempre state parte integrante della nostra identità nazionale naturale. Oggi ci dicono che abbiamo fatto l’errore nel 1948 di rifiutare il compromesso Onu per la divisione in due Stati con Gerusalemme autonoma sotto la garanzia internazionale. Ma noi allora avevamo tutto, qui stavano le nostre case, le memorie dei nostri avi, i nostri campi, la nostra acqua, perché mai avremmo dovuto cedere la metà senza difenderci e combattere?». Il tema torna d’attualità con l’approssimarsi del centenario dell’entrata a Gerusalemme del generale inglese Edmund Allenby. Accadde l’11 dicembre 1917: musulmani, cristiani ed ebrei furono per una volta tutti egualmente felici di liberarsi dell’oppressione ottomana, diventata terribile negli ultimi giorni della Grande Guerra. Però, solo pochi anni dopo, le simpatie di Londra per i sionisti portarono alla crescita delle prime organizzazioni nazionaliste palestinesi.
Quei movimenti vennero celebrati dai «giovani delle pietre» con lo scoppio della prima Intifada trent’anni fa, il 9 dicembre 1987. Settant’anni dividono quelle due date: ma la città ne rimane profondamente segnata, a dispetto dell’ironia disincantata di Mark Twain.

il manifesto 8.12.17
Leila Khaled: «Trump non può cancellare la Gerusalemme palestinese»
Israele/Palestina. Intervista all’attivista e membro del Pflp Leila Khaled: «È morta l’illusione sulla natura di Israele, progetto coloniale e razzista: la sola via d’uscita è una società laica e democratica. La sicurezza dei popoli si basa sulla lotta al capitalismo che trasforma i conflitti politici in conflitti settari e religiosi per annientare le cause giuste»
intervista di Chiara Cruciati


«Gerusalemme è e resterà la capitale della Palestina; né Trump né tutta la potenza dell’esercito israeliano e dei coloni violenti e illegali potrà rompere questa connessione o cancellare l’identità araba della Gerusalemme occupata». Leila Khaled, storica attivista palestinese, membro del partito marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Pflp), non è spaventata dall’ultima mossa del presidente Trump.
Cosa significa per i palestinesi nell’immediato futuro la dichiarazione di Trump su Gerusalemme capitale di Israele?
La dichiarazione non sorprende, riflette il solito ruolo statunitense in relazione alla Palestina. Sono questo, partner chiave dell’occupazione israeliana in violazione dei diritti del nostro popolo. Gli Usa inviano tre miliardi di dollari l’anno all’esercito israeliano e la proclamazione del guerrafondaio e imperialista Trump sottolinea il ruolo nefasto giocato in Palestina e nella regione. Gerusalemme è e resterà la capitale della Palestina. E l’ondata di rabbia popolare tra i palestinesi e gli arabi in reazione a questa trovata colonialista mostra l’orrenda realtà del cosiddetto “processo di pace” guidato dagli Usa che ha portato solo devastazione al nostro popolo.
In questi giorni avrebbe dovuto essere in Italia ma l’ingresso le è stato impedito a seguito di pressioni politiche, ultima di una serie di censure contro eventi sulla questione palestinese. La Palestina fa paura?
Il rifiuto delle organizzazioni sioniste e dei gruppi di destra riflettono il loro permanente obiettivo di diffondere paura e odio. Non rappresentano la comunità ebraica nella sua interezza. Si tratta di gruppi politici sionisti che lavoravano attivamente per sopprimere l’organizzazione palestinese e diffondere razzismo. Combatterli è parte della più vasta battaglia anti-coloniale perché i colonizzatori cercano sempre di proiettare un’immagine del popolo oppresso come “spaventoso”, “barbaro”, “terrorista”. Noi dipendiamo dalla saggezza e la conoscenza delle masse, compreso il popolo italiano, per vedere oltre le bugie e lottare per la giustizia in Palestina e nel mondo. Le autorità possono impedirci fisicamente di raggiungere la nostra gente e i nostri amici in tutto il mondo, ma per fortuna la mia voce è stata ascoltata negli eventi previsti: ho partecipato con video conferenze alle iniziative di Cagliari, Roma e Napoli. Per noi, questa è vita quotidiana.
La cosa più importante è non accettarla e resistere in ogni possibile spazio che possiamo raggiungere per dire la nostra versione della storia, perché l’obiettivo del separarci dai movimenti di base è esattamente quello di sopprimere la narrativa palestinese e impedire che la nostra voce sia ascoltata. Ringrazio Udap (Unione democratica arabo-palestinese) e tutti per il supporto ricevuto da così tante organizzazioni e partiti politici, al di là delle nostre aspettative, da organizzazioni italiane, scrittori, sindacati e giornalisti.
Quest’anno i palestinesi commemorano due eventi che sono colonna portante dell’occupazione israeliana della Palestina storica: i 100 anni dalla dichiarazione Balfour e i 50 anni di occupazione militare dei Territori. Quel processo coloniale continua senza interferenze e quello che abbiamo di fronte è la creazione de facto di uno Stato unico, in cui un popolo gode di privilegi e diritti e un altro sotto un regime di apartheid. È la fine delle aspirazioni nazionali palestinesi?
È la fine delle illusioni sulla natura dello Stato di Israele e del progetto sionista. L’aspirazione del popolo palestinese a continuare la propria lotta per la libertà non cesserà mai. Negli ultimi decenni, hanno tentato di convincerci che Israele poteva essere un progetto democratico o un “partner” quando in realtà è un regime coloniale di insediamento, razzista e segregazionista. Chi nella “comunità internazionale” chiede ai palestinesi di sostenere la soluzione a due Stati allo stesso tempo non fa nulla per fermare la costruzione di colonie da parte di Israele, la confisca di terre, la demolizione di case, le diverse pratiche di pulizia etnica contro i palestinesi che si trovino a Haifa, Akka o Gerusalemme, senza contare Gaza.
Quello che è morto sono queste illusioni e la sola via d’uscita storica – che il Pflp sostiene – è la liberazione di tutta la Palestina storica e la creazione di una società democratica e laica, dove tutti vivano in eguaglianza, senza distinzione di colore, razza, sesso, religione o lingua. E siccome siamo convinti che uno “Stato” rappresenta una classe, noi siamo per il socialismo e uno Stato delle masse popolari, non uno Stato dei capitalisti, che siano essi palestinesi o israeliani.
Com’è possibile superare la divisione geografica e fisica del popolo palestinese realizzata da Israele? Oggi metà della popolazione palestinese nella Palestina storica ha meno di 20 anni: sono nati e cresciuti dopo gli Accordi di Oslo, con il muro e i checkpoint, impossibilitati a conoscersi. Una divisione che genera diverse forme di resistenza contro la stessa occupazione. Come i giovani possono superare tale divisione e ricostruire il movimento di liberazione nazionale, ucciso da Oslo e dall’indebolimento dell’Olp?
Una domanda molto importante. La nostra società, il nostro popolo è fatto di giovani e questo è un elemento di speranza in sé. I palestinesi hanno vissuto nella loro terra per migliaia di anni come un popolo unico, unito. La catastrofe vissuta nel 1948 – orchestrata e preparata – è stato proprio questo, lo sfollamento dalle terre dei palestinesi e l’impedimento al ritorno. Dopo il 1948 il nostro popolo si è ritrovato nei campi profughi in Libano, Siria, Giordania e in patria. Molti di loro sono migrati nei paesi del Golfo, in America Latina, Europa e Nord America, nel tentativo di vivere e fuggire dalla miseria e l’oppressione dell’esilio. Ci sono oltre 500mila palestinesi in Cile o che 250mila palestinesi sfollati vivono oggi come “internally displaced people” dentro Israele. Questa realtà è stata creata dai poteri coloniali e da Israele e il modo in cui i palestinesi possono unirsi è attraverso la loro rivoluzione e un progetto politico collettivo, un progetto di liberazione che assicuri diritti a tutti. E questi diritti vanno individuati, secondo noi, nel diritto al ritorno e nel diritto all’autodeterminazione sulla nostra terra, da praticare con volontà libera, scelte politiche e il futuro che scegliamo di costruire. Vale ancora oggi.
Creare isole e isolare enclavi di palestinesi è parte della creazione di uno stato di assedio che ogni segmento palestinese affronta. Tale assedio è orchestrato per restringere la loro abilità di combattere mentre cercano di sopravvivere – andare a scuola, mangiare, vivere. Si tratta di questioni esistenziali, individuali e collettive che impediscono ai palestinesi di mobilitarsi e combattere per la propria causa e la loro liberazione. I giovani palestinesi oggi sono alla ricerca di una nuova onda della permanente rivoluzione palestinese contro l’occupazione e per un progetto di liberazione. L’Olp ha bisogno di essere ricostruito interamente con le sue istituzioni – non dipendenti dall’Anp – e di essere guidato dai giovani e dalle donne che reclamano il proprio ruolo. Ricordo la mia energia e il mio entusiasmo da giovane, è lo spirito necessario a ricostruire il movimento di liberazione nazionale e direzionare la bussola palestinese, perché abbiamo bisogno di idee fresche, aria fresca e sangue fresco nelle vene della rivoluzione.
La sinistra palestinese, spina dorsale della resistenza nazionale, vive oggi una crisi? È ancora capace di formulare un’alternativa e di promuoversi tra i palestinesi, dentro la Palestina storica e nella diaspora?
Posso parlare del Pflp. Siamo consapevoli di vivere una crisi, già dal Quinto Congresso del Fronte nel 1993. Ci siamo detti che stavamo entrando in una crisi strutturale che includeva i livelli politico, militare, finanziare, teoretico. Quell’incontro è stato documentato, l’autocritica è disponibile. Non ci sono soluzioni magiche per uscire dalla crisi eccetto attraverso la lotta, su tutti i fronti. Siamo anche consapevoli di non poterci nascondere dietro le masse; al contrario, dobbiamo essere coinvolti con le masse perché il nostro popolo è il principale fattore di rinascita della sinistra palestinese, dobbiamo ascoltare il suo dolore e le sue domande. Ovviamente tale crisi non è separata dalla crisi del movimento di liberazione nazionale in Palestina e nella regione e da quello della sinistra nel mondo. Penso che sia tempo di superare la perdita dell’Unione Sovietica e del blocco socialista; è stato un momento critico ma dobbiamo andare oltre perché un mondo alternativo, per il quale combattiamo ancora, per cui tutta l’umanità combatte ancora, può essere realizzato attraverso il sostegno mutuale e la solidarietà internazionale che combatte ogni forma di oppressione, imperialismo, capitalismo, razzismo e sessismo.
Questo sottolinea il bisogno di un Fronte Popolare internazionale che ci coinvolga tutti. Sappiamo che l’autocritica è uno strumento rivoluzionario vitale, ma dovrebbe sempre essere praticato accanto alla lotta in sé contro le forze di oppressione e sfruttamento. Dobbiamo fare una differenza tra la perdita di un gruppo di Stati che una volta rappresentavano il socialismo e il movimento di persone nel mondo che guardano ad una società alternativa, un mondo più felice. E questo è l’obiettivo finale di tutti i rivoluzionari, dedicare la propria vita alla protezione dei bambini, la difesa dell’ambiente, la lotta al razzismo e al sessismo. Tutto ciò non va separato dalla lotta per la liberazione della Palestina. Sappiamo che costruire un movimento unito della sinistra è un compito complesso che può essere raggiunto solo da movimenti e individui rivoluzionari. Non so, forse abbiamo bisogno di un altro Lenin.
Come vede il processo di riconciliazione tra Hamas e Anp? Sembra manchi ancora una visione nazionale o una strategia comprensiva.
Qualsiasi strategia nazionale deve essere realizzata attraverso la resistenza e in un contesto di dialogo interno alla resistenza. Significa atti e pensieri, pratica e teoria, e non divisioni, scontri e violenza. La nostra posizione classica si basa sul termine “unità nazionale”. Pensiamo che quanto accaduto al Cairo, il dialogo tra diverse fazioni palestinesi, non sia abbastanza. I partiti rappresentano una porzione della società palestinese, ma qui c’è bisogno di un dialogo con tutti i settori e le organizzazioni, comprese quelle delle donne, i gruppi studenteschi e i giovani palestinesi. Come possiamo portare tutto il nostro popolo, di qualsiasi appartenenza, ad essere parte della discussione, parte vitale e importante molto di più delle fazioni?
Registriamo un gap tra il ruolo dei partiti e i bisogni della nostra gente e dobbiamo muoverci oltre per costruire un fronte unito nazionale. Ricordiamoci che Hamas e Fatah sono entrambi la destra del movimento di liberazione nazionale. Noi li vediamo come forze identiche, seppur si differenzino l’uno dall’altro. Dobbiamo rafforzare la sinistra del movimento di liberazione, ovvero il Pflp. Ricordate, un uccello non può volare solo con un’ala.
Israele è riuscito a dipingere la resistenza palestinese come forma di terrorismo islamista o jihadismo, una narrativa che la comunità internazionale ha accettato, accettando con essa il modello securitario israeliano contro specifici gruppi etnici e religiosi (come nel caso dei rifugiati in Europa). Quali sono gli strumenti in mano al movimento di liberazione per distruggere tale narrativa?
Israele ha sempre cercato di sfruttare l’alto livello di ignoranza che esiste oggi intorno all’Islam. Uguaglia l’Isis a organizzazioni come Hezbollah o Hamas, quando in realtà non hanno nulla a che fare e Hezbollah lo combatte sul campo mentre Israele ci condivide certi obiettivi. Tenta di proiettare un’immagine della resistenza come “islamista” e “jihadista”, sapendo dell’esistenza di un terreno fertile in Europa e nel mondo creato dalle forze fasciste e di destra (di cui alcune anche anti-ebraiche). Abbiamo visto crescere alleanze tra Israele e forze fasciste. Chiedo alla gente di leggere di più sui vari gruppi influenzati dall’Islam, perché sono tra loro molto diversi. È una generalizzazione fallace ingrandita da razzismo e colonialismo.
Voglio parlare su tre livelli differenti. Il primo è personale, non per egocentrismo ma perché la mia identità di laica, marxista, femminista in un’organizzazione di sinistra impegnata in azioni di resistenza diretta è un chiaro rifiuto di questo contesto. Gruppi come l’Isis o simili ci odiano quanto ci odia Israele. Oltre a ciò, Israele promuove la creazione e lo sviluppo di gruppi come l’Isis nella regione e condivide con loro obiettivi comuni di caos e distruzione. Israele tenta di fabbricare un’immagine falsa dei palestinesi e di venderla al mondo occidentale per poter dire che non siamo un popolo con una causa, dei diritti e una lotta giusta. Ma mi chiedo se davvero questa strategia funziona. La capacità della gente di verificare i fatti, nonostante tutte le fabbricazioni, la propaganda dei media e il lavaggio del cervello, è qualcosa che esiste ancora e può svelare queste bugie per quel che sono. Diversi mesi fa, c’è stata un’operazione palestinese a Gerusalemme contro i soldati israeliani. Le autorità israeliane sono subito corse a dire che era stato l’Isis, quando in realtà era stata realizzata da giovani che simpatizzavano per un gruppo laico di sinistra. L’Isis non esiste in Palestina e non ha mai attaccato Israele e i suoi interessi. L’Isis ha bruciato la bandiera palestinese.
In secondo luogo, i poteri coloniali cercando sempre un capro espiatorio per la crisi del sistema capitalista. Così ad esempio Trump con la sua campagna razzista contro gli afroamericani, i latini e i musulmani, prova a dire che sono “il problema” negli Stati uniti, mentre allo stesso tempo è partner dell’Arabia saudita, degli Emirati e di altri Stati reazionari che sostengono gruppi reazionari violenti in Siria. La crisi del sistema capitalista in Europa e negli Usa ha sempre cercato questi capri espiatori, come accadde durante l’era nazista e fascista in Europa attraverso l’uso di campagne razziste cominciate con discorsi di odio, articoli e libri che portarono a uccisioni di massa e all’Olocausto. Oggi, Israele tenta di usare i crimini del nazismo come giustificazione ai suoi stessi progetti razzisti di uccisione e esclusione e si appropria falsamente dell’eredità “della difesa del popolo ebraico” quando altro non è che un progetto coloniale razzista per l’espulsione dei palestinesi.
Terzo, i rifugiati sono costretti a venire in Europa per una ragione: le loro storie non cominciano quando arrivano sulle vostre coste. Eventi politici li spingono lì – massacri, interventi militari occidentali, dittature, bombardamenti. Un esempio classico è la storia delle relazioni tra Italia e Libia. I paesi occidentali sono guidati da una classe dirigente feroce che porta avanti una guerra contro il mondo arabo per il petrolio e il profitto. Quando si studia la storia di paesi come l’Iraq e la Siria, si viene a sapere che centinaia di migliaia di iracheni, siriani, afghani sono stati costretti a lasciare il proprio paese da guerre imposte su di loro. La gente non migra perché vive sotto una dittatura: migra per sopravvivere alle guerre. L’Europa ha una grande responsabilità, accanto a quella Usa e dei paesi arabi reazionari, nel creare queste guerre. Quando l’Europa sostiene le politiche di intervento promesse dagli Usa non deve poi aspettarsi altro.
La sicurezza delle persone di tutte le nazionali si fonda sulla lotta al capitalismo. Trasformare i conflitti politici in conflitti religiosi e settari beneficia solo l’imperialismo, perché cancella i diritti delle persone e le loro cause giuste e sposta la discussione su un piano vago, vuoto e superficiale. Questo è quello che vogliono i nostri nemici. I conflitti ci sono a causa di reali interessi – politici, economici e sociali – e non perché si è nati ebrei, musulmani o cristiani. Dovremmo considerare questa la base di un pensiero scientifico e di analisi.
Voglio approfittare di questa occasione per ringraziare il manifesto per avermi intervistato e per aver dato spazio alla nostra voce. Incoraggiamo i lettori a mobilitarsi per costruire un movimento forte e progressista che confronti il capitalismo, l’imperialismo e l’austerità e combatta per un’Italia democratica e socialista. Sappiamo che avete la vostra battaglia e vi sosteniamo.

il manifesto 8.12.17
All’orizzonte la terza Intifada palestinese
Gerusalemme. A invocarla è il leader del movimento islamico Hamas, Ismail Haniyeh, ma in ogni caso potrebbe essere la conseguenza inevitabile del riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele fatto da Trump. Oggi si annuncia una giornata di tensioni e scontri. Netanyahu intanto si dice certo che altri Paesi seguiranno gli Usa.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Imad è un torrente in piena, travolge gli argini. «Gerusalemme è la capitale della Palestina, lo sarà sempre. Donald Trump può annunciare ciò che vuole e Israele può attuare tutte le sue politiche ma noi non rinunceremo mai e poi mai a Gerusalemme». È perentorio Imad, proprietario di una libreria. «E i Paesi arabi e islamici? – domanda – Nessuna reazione vera, solo qualche frase scontata» si lamenta «Giordania ed Egitto hanno relazioni con Israele, almeno loro avrebbero dovuto ritirare gli ambasciatori e chiudere le ambasciate, invece restano a guardare». Intorno a noi c’è il silenzio di via Salah Edin, l’arteria commerciale di Gerusalemme Est, la zona araba della città, dove i negozianti hanno aderito in massa allo sciopero generale proclamato dopo il discorso con cui il presidente americano martedì ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. «Adesso i leader occidentali prendono le distanze da Trump, ma vedrete che faranno marcia indietro e rimarranno alleati di Israele anche se nega i nostri diritti. Che possibilità ci lascia il mondo?». Imad termina la sua sfuriata lasciandoci tra le mani questo pesante interrogativo.
Già, cosa resta da fare ai palestinesi che hanno perduto tutto e ai quali un uomo che per quasi tutta la vita si è occupato di hotel, casinò, campi da golf e gustato cocktail a party di stile berlusconiano, ora nega anche solo una parte di Gerusalemme. Il fatto che Trump nel riconoscere Gerusalemme capitale di Israele non abbia pronunciato le parole magiche “capitale unita e indivisivile” che piacciono al premier Benyamin Netanyahu, non lascia un vero margine ad una trattativa futura sullo status della città. Israele per decenni ha ripetuto che non restituirà la parte araba di Gerusalemme che ha occupato nel 1967 e ora che ha in tasca il riconoscimento di Trump perché dovrebbe dirsi pronto al compromesso politico. Non sorprende che ieri il premier israeliano si sia mostrato sicuro del fatto suo quando ha detto, durante un incontro al ministero degli esteri, che lo Stato ebraico è in contatto con altri Paesi pronti, a suo dire, a seguire Washington. Fra questi, secondo il quotidiano Haaretz, ci sarebbero le Filippine. Ma Israele punta più in alto, alla Russia che nei mesi scorsi ha fatto un mezzo riconoscimento della parte ebraica, ovest, di Gerusalemme come capitale di Israele.
Cosa fare? Molti palestinesi l’hanno deciso ieri quando si sono riversati nelle strade di Gerusalemme, di Cisgiordania e Gaza per manifestare contro Israele e gli Usa. «Trump Trump you will see, Palestine will be free», (Trump vedrai, la Palestina sarà libera), scandivano decine di donne che si sono unite a centinaia di palestinesi radunati alla Porta di Damasco, l’ingresso principale della città vecchia, per gridare la loro rabbia. Alla periferia di Gerusalemme Est, Shuffat, Ramallah, Betlemme, Tulkarem e nella isolata Qalqilya, completamente circondata dal Muro israeliano, le manifestazioni sono sfociate in scontri con i soldati. Colonne di fumo nero si sono alzate dalle strade e l’odore acre dei pneumatici dati alle fiamme da giovani dimostranti ha inondato le città palestinesi come non accedeva da tempo. Alto il bilancio dei feriti, 114 secondo la Mezzaluna Rossa. E non è meno rilevante lo sciopero generale rispettato ovunque ieri nei Territori occupati. Oggi saranno trent’anni dall’inizio della prima Intifada (8 dicembre 1987), la rivolta popolare contro l’occupazione israeliana che riportò sui tavoli delle diplomazie internazionali la questione palestinese e che terminò nel 1993 con gli Accordi di Oslo tra Israele e Olp. Un appello per una terza Intifada è stato lanciato ieri dal leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che ne ha già coniato il nome, “Intifada per la liberazione di Gerusalemme”. L’appello di Hamas sarà raccolto? Le previsioni non sono unanimi. Tuttavia gli scontri di ieri tra palestinesi e soldati israeliani sono un segnale preciso e potrebbero innescare un effetto domino. Israele ha aumentato le sue forze militari e di polizia in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e nella notte di mercoledì ha detenuto 36 palestinesi in Cisgiordania, a Nablus, Hebron, Betlemme, Ramallah, Salfit e Jenin.
Non si può non notare il fiuto politico del leader di Hamas. Mentre il presidente dell’Anp Abu Mazen è andava da re Abdallah di Giordania per consultazioni sui passi da fare dopo la dichiarazione di Trump, Haniyeh si è rivolto a tutti i palestinesi. Per mobilitarli e per sottolineare che mentre Hamas incita a lottare, Abu Mazen continua a ricercare sostegni improbabili e il coordinamento con leader arabi legati a doppio filo agli Stati Uniti. La Giordania da parte sua è unito a Israele da un accordo sulla sicurezza. Collaborazione di sicurezza con Israele che l’Anp non cessa nonostante le politiche portare avanti del governo Netanyahu. Non un analista politico ma un semplice dentista di Gerusalemme est, George Harb, ieri ci spiegava con estrema chiarezza vorrebbero i palestinesi dall’Anp di Abu Mazen dopo l’annuncio di Donald Trump. «Vogliamo che Abu Mazen smetta di incontrare gli inviati americani e interrompa definitivamente i contatti con Israele e Stati Uniti perché sono inutili e dannosi. E – ha concluso – che si unisca alle altre organizzazioni palestinesi per decidere insieme la strada che porterà la libertà al nostro popolo».
Ieri sera l’aviazione israeliana ha bombardato Gaza – pare senza fare vittime – dopo il lancio di due razzi, o forse colpi di mortaio, dalla Striscia verso il territorio meridionale dello Stato ebraico.

Il Fatto 8.12.17
La grande rabbia araba resuscita anche l’Onu
Intifada nei Territori occupati. Anche il Papa critica la scelta di Trump su Gerusalemme. Oggi riunione del Consiglio di sicurezza
di S. Ci.

È il risveglio della rabbia e delle coscienze. Dell’odio di strada dei palestinesi che lanciano pietre e incendiano bandiere americane e israeliane e del disappunto dei leader del mondo che la decisione di Trump su Gerusalemme ha compattato in un coro unico dalle sfumature mai troppo dissimili. Così mentre oltre cento feriti degli incidenti che si accendono con l’intervento dell’esercito israeliano finiscono negli ospedali della Cisgiordania, Putin, Erdogan, il Papa, Amnesty international, e tanti altri leader e istituzioni, criticano pesantemente l’annuncio del presidente americano di iniziare a costruire tra sei mesi la nuova ambasciata Usa a Gerusalemme, dandole lo status di capitale dello Stato di Israele. C’è in ballo “la stabilità regionale”, monitano in un colloquio telefonico il presidente russo e quello turco, fino all’altro ieri tornato buon alleato degli israeliani e ora alla guida della protesta mediorientale contro Washington e Gerusalemme.
Guarda ben più ad altezza d’uomo che di geopolitica il parroco di Ramallah, capitale dell’entità statale palestinese: “Dopo 50 anni di occupazione militare, è arrivato il tempo di mettere fine a questa occupazione, cominciare a fare giustizia e lasciare i palestinesi vivere in pace nel loro Stato indipendente”, dice alla tv dei vescovi italiani padre Jamal Khader, sintetizzando bene la posizione della Chiesa cattolica, una delle religioni che considera santa la Città Vecchia confine tra Gerusalemme Ovest (israeliana) e Gerusalemme Est (araba) annessa dallo Stato ebraico nel 1967.
Il Consiglio di sicurezza Onu è stato convocato per una riunione di emergenza, mentre la Lega araba (strumento politico-diplomatico pressoché in disuso in questi anni di “primavere arabe”) farà lo stesso domani. Intanto l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) chiederà alle Nazioni Unite di delimitare i confini di Gerusalemme Est in base alle frontiere precedenti alla Guerra dei 6 giorni del 1967.
Non hanno superato i confini di Gaza i due razzi lanciati da una fazione indipendente contro Israele (che ieri sera ha condotto in risposta operazioni contro postazioni di Hamas) nonostante il gruppo che controlla la Striscia litoranea palestinese avesse chiesto di evitare provocazioni nel primo dei “tre giorni della rabbia” proclamati. La giornata più sensibile è oggi, venerdì di preghiera e di certo le proteste assumeranno proporzioni ancora maggiori.
La risposta unanime contro l’annuncio trumpiano rinsalda il mondo islamico e riporta in auge la causa palestinese tanto da appianare almeno in queste ore nel nome della protesta le distanze tra paesi arabi e addirittura tra sunniti e sciiti: anche Hezbollah (il partito di Dio libanese foraggiato dalla teocrazia sciita iraniana) ha annunciato per lunedì una giornata di sollevazione.
Nessun paese occidentale ha intenzione di seguire l’esempio degli Stati Uniti: a iniziare dal Canada in molti hanno escluso lo spostamento delle ambasciate da Tel Aviv, anche se il premier israeliano Netanyahu si è detto certo che “altri seguiranno l’esempio di Trump”.

Il Fatto 8.12.17
La faida palestinese che ha favorito i piani di Netanyahu
Il leader dell’Anp Mazen in difficoltà. La linea radicale di Hamas a Gaza ha fornito al premier israeliano il nemico che serviva per rinsaldare il potere
di Roberta Zunini


Sia The Donald sia il premier israeliano Netanyahu, a capo di una coalizione di governo religiosa e di destra, sapevano che la decisione americana di riconoscere Gerusalemme, nella sua interezza, capitale dello Stato di Israele avrebbe ridato fiato agli strali di Hamas e indebolito ulteriormente la già consunta leadership palestinese in Cisgiordania. Il movimento islamico che dal 2007 guida la Striscia di Gaza dopo una guerra-lampo con Fatah – partito leader da sempre in Cisgiordania – ha del resto fin dall’inizio dell’attività politico-bellica servito gli interessi della destra religiosa ebraica e i suoi sostenitori nel mondo della diaspora.
Gli oltranzisti ebrei che occupano dal 2009 ministeri chiave e buona parte della Knesset (il Parlamento ebraico) fin dalla nascita dell’organizzazione armata islamica hanno avuto la strada spianata per imporsi. E, con il tempo, mettere in scacco il moderato Likud guidato da Netanyahu. Che dallo scorso anno, ovvero da quando si sono intensificate le inchieste per corruzione e abuso d’ufficio a carico suo e della onnipresente First Lady Sarah, è ancora più sottomesso ai voleri dei partner estremisti e pii della coalizione. Il loro sostegno è fondamentale per consentirgli di gridare al complotto.
Perciò Bibi ha bisogno più che mai di una Hamas che sprona alla Terza Intifada. Non c’è nulla di meglio di una minaccia alla sicurezza nazionale della “Terra Promessa” per stornare l’attenzione dell’opinione pubblica dai propri guai interni. Non è inoltre un segreto che Hamas abbia ricevuto finanziamenti ambigui provenienti, secondo molti analisti, dall’intelligence israeliana. Ed è adamantino che ad Hamas faccia comodo la pericolosa decisione del duo Trump-Netanyahu. Non solo perché può rinnovare le sue accuse contro lo stato ebraico, a suo avviso palesemente intenzionato a cambiare lo status quo di Gerusalemme, piuttosto per tentare di guadagnare la popolarità persa durante la gestione della Striscia. E ci sta riuscendo visto che anche i palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est a questo punto si rendono conto che Fatah e il suo anziano ed esausto rais Mahmud Abbas, più noto come Abu Mazen, non serve davvero più a nulla.
Se non a portare avanti l’illusione della ripresa del negoziato di pace per rassicurare la comunità internazionale, non certo i giovani palestinesi che non credono più da tempo all’ipotesi che Israele voglia davvero concludere l’occupazione e consentire la nascita di uno Stato palestinese viabile. Cioè con una continuità territoriale. Che non potrà mai esserci se le colonie ebraiche continueranno ad espandersi all’interno dei Territori palestinesi. La mossa di Trump annichilisce la dirigenza palestinese contro cui lo scorso anno c’erano state manifestazioni di piazza per la corruzione dilagante.
Intanto da due mesi le nomenklature di Hamas e di Fatah stanno lavorando assieme, si fa per dire, allo scopo di tradurre in decisioni e iniziative politiche la riconciliazione tra i due partiti avvenuta sotto l’ala di Al Sisi al Cairo.
Il vero leader, quello amato dai giovani palestinesi e dai duri e puri, ossia il 58enne Marwan Barghouti langue in prigione dal 2002 dopo le condanne a 5 ergastoli. Barghouti, che si rifiutò di presentare la propria difesa ai giudici israeliani non riconoscendone l’autorità, è ancora un membro di Fatah. Ma al proprio partito e agli avversari di Hamas il carismatico politico guerrigliero delle Brigate Tanzim, accusato di aver diretto la Seconda Intifada nata proprio sul timore del cambiamento dello status quo della città santa, è sgradito. Alle poltrone i rais palestinesi ci tengono. Tanto più con uno che potrebbe soffiare loro il posto non appena rimesso in libertà. Motivo per cui Barghouti finirà la propria vita dietro le sbarre.

Repubblica 8.12.17
E intanto Erdogan va alla conquista del Medio Oriente
Marco Ansaldo


Istanbul «Ehi Trump, cosa stai provando a fare?». Il tono è brusco, diretto, come del resto l’usuale approccio del leader turco. E la crisi di Gerusalemme diventa la grande occasione di Recep Tayyip Erdogan. Insperata, dopo i recenti dissapori con l’amministrazione americana che quasi avevano messo la Turchia in un angolo. Ma al Sultano si può imputare di tutto, tranne il fatto di essere un animale politico dall’enorme fiuto. E con i Paesi arabi formalmente uniti nella condanna, ma concretamente divisi nella risposta, il presidente turco si è insinuato come un falco nella divaricazione, ergendosi a nuovo player del Medio Oriente.
Con un attivismo espresso a 360 gradi. Mentre ieri stava con un piede sulla scaletta dell’aereo che l’avrebbe portato in Grecia nella prima visita di un Presidente turco da 65 anni ( quando non era ancora nato), al mattino aveva già dispiegato la sua strategia mollando sul tavolo l’asso: la telefonata con il Papa. «Proseguo i miei colloqui telefonici non solo con i leader degli Stati arabi e musulmani. Perché Gerusalemme è sacra anche per i cristiani e devo discutere la questione con il Papa». La diplomazia turca gli aveva prontamente segnalato che Francesco si era detto a favore dello status quo nella Città santa. Una posizione che, secondo fonti ufficiali di Ankara, Erdogan avrebbe condiviso ieri pomeriggio con il Pontefice al telefono e poche ore dopo ha fatto lo stesso anche con il presidente russo Vladimir Putin.
Allo Zar che il Sultano sente ormai più vicino dell’inquilino della Casa Bianca — da cui è rimasto deluso ( per appoggio ai curdi, mancata estradizione dell’imam Fethullah Gulen accusato del golpe, crisi dei visti consolari) — ha spiegato perché ha convocato il 13 dicembre in Turchia l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Quindi si è avviato verso altri colloqui telefonici, con i capi di Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania.
Come un vero ras del Medio Oriente, il leader turco conosce difatti a menadito i personaggi che aleggiano nella regione. E al di là delle condanne formali da loro pronunciate, ha colto al volo le differenze fra l’asse che per convenienze di vario tipo sostiene Trump ( composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein, Egitto) e quello che lo avversa (Giordania, Iran, Siria, Iraq, Hezbollah). A tutti loro, il Sultano che guarda con nostalgia al ritorno dell’Impero ottomano ha detto: «Riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele equivale a gettare il Medio Oriente in un cerchio di fuoco ». La Turchia si è subito riversata in piazza. Da Istanbul all’Anatolia, dal Mar Nero fino al Sud est.
A mezzogiorno si è infilato sul jet di Stato e in meno di un’ora era ad Atene. Per una visita di 48 ore ricca di attese e nodi da sciogliere. Ha chiesto l’estradizione di otto ufficiali considerati golpisti. Suggerito “ l’aggiornamento” del Trattato di Losanna che definisce i confini di Turchia e Grecia. Affrontato la questione dell’isola di Cipro. Poi, affari e commerci per gli interscambi bilaterali. Instancabile, stamane sarà nella regione della Tracia divisa a metà con la Grecia, per incontrare la minoranza musulmana e partecipare alla preghiera islamica del venerdì nella Moschea Vecchia di Komotini. Con l’obiettivo di compattare intorno a sé, nel segno della religione, tutti i seguaci. Quelli vecchi e i nuovi da conquistare.

Repubblica  8.12.17
Assaf Gavron
“La mossa degli Stati Uniti è l’ultima cosa che ci serviva. Così vince soltanto la destra estrema”
di Anna Lombardi


ROMA «Il riconoscimento di Gerusalemme capitale da parte di un presidente razzista e che ha strizzato l’occhio a gruppi neonazisti come Donald Trump era proprio l’ultima cosa che a noi israeliani serviva». Assaf Gavron, 48 anni, è uno degli scrittori contemporanei più affermati del Paese. Nei suoi libri, da La mia storia, la tua storia a La collina da tempo racconta le ragioni di entrambi, israeliani e palestinesi.
Non le sembra un riconoscimento simbolico importante?
«Gerusalemme è già di fatto riconosciuta dal mondo come capitale, visto che è lì che presidenti e premier da sempre vanno a incontrare i leader israeliani. Dunque è un riconoscimento inutile: che interessa soprattutto all’estrema destra israeliana e naturalmente al mondo arabo, che si sta già infiammando. E compattando».
Hamas già chiama alla nuova intifada.
«Non ho più paura di tante altre volte, ma ci sono già scontri e violenze: gli effetti negativi si sentono già e se ci scapperà anche solo un morto, com’è facile in una situazione come questa, sarà la conferma che non ne è valsa la pena. Trump ha fatto un gesto che non cambia nulla, visto che alla fine non sposterà nemmeno l’ambasciata. E probabilmente l’ha fatto proprio per far dimenticare che non sposta l’ambasciata: una delle sue promesse elettorali. Per molti israeliani, insomma, una situazione bizzarra».
Trump lo ha fatto per compiacere i donatori pro Israele e compattare la destra che lo sostiene: così almeno sostiene il “New York Times”.
«Ne sono convinto. Una mossa cinica fatta per sé stesso.
Accontenta i donatori, certo. Ma soprattutto distoglie l’attenzione dal Russiagate e dai suoi guai. Una mossa, in questo senso, che fa comodo anche a Bibi Netanyahu».
Cosa intende?
«Proprio come per Trump, anche a lui un po’ di caos servirà a distogliere l’attenzione dall’indagine per corruzione che lo riguarda. Poi, certo, per la destra israeliana è un riconoscimento dei propri valori: e dunque in questo senso è un successo. Ma non so se lo sarà sulla lunga durata».
Perché?
«Trump potrebbe chiedere un prezzo per quel gesto che ora la destra tanto acclama. Nello stesso discorso in cui ha riconosciuto Gerusalemme ha anche detto che crede nella soluzione dei due Stati: potrebbe dunque chiedere compromessi tipo, che so, lo smantellamento di alcuni insediamenti. Questo alla destra non piacerebbe certo. Anche perché, ed è triste constatarlo, all’attuale governo di Israele il processo di pace interessa sempre meno».

il manifesto 8.12.17
Visita storica di Erdogan a Tsipras ma tra i due leader restano le distanze
Grecia-Turchia. Il presidente turco insiste, inutilmente, per rivedere il Trattato di Losanna
di Theodoro A. Synghellakis, Fabio Veronica Forcella


Il presidente Erdogan ha iniziato ieri la sua visita ufficiale in Grecia, che si conclude oggi nella Tracia occidentale. Si tratta del primo viaggio di un presidente turco ad Atene dopo 65 anni. Un invito formulato nel quadro di una real-politik volta a migliorare i rapporti con un vicino ingombrante, che spesso si allontana dal rispetto degli standard di legalità internazionali.
Nella migliore delle sue tradizioni, Erdogan ha usato un doppio registro, evidentemente a uso e consumo della propaganda all’interno della Turchia. Nel corso del colloquio con il presidente della repubblica greca, Prokòpis Pavlòpoulos ha alzato i toni, dichiarando davanti ai giornalisti che «per quel che riguarda il Trattato di Losanna, ci sono delle questioni rimaste in sospeso, che non sono state comprese nel modo giusto».
Si tratta, appunto, del trattato del 1923 con cui sono stati definiti i confini tra i due paesi, lo status del Patriarcato Ecumenico di Istanbul e si è deciso quali zone dovessero riguardare lo scambio di popolazioni. Un punto di riferimento essenziale, quindi, per i rapporti tra i due paesi, che la Turchia cerca di rimettere in discussione (Erdogan ha parlato della necessità di «aggiornamenti») minando, di fatto, il diritto internazionale.
La risposta del presidente greco non si è fatta attendere: in diretta tv, Pavlòpoulos gli ha detto chiaramente che «il Trattato di Losanna non è oggetto di discussione e trattativa» e che non si può parlare né di un suo aggiornamento, né di una sua revisione.
Mentre, nel corso dell’incontro con Alexis Tsipras, il «neo sultano» di Ankara ha deciso di ammorbidire, in parte, i toni, pur rimanendo netta la distanza tra i due paesi per quel che riguarda questioni di primaria importanza.
Ha ripetuto che «ultimamente si parla molto di una riforma del trattato di Losanna», ha chiesto l’estradizione di otto militari rifugiatisi in Grecia e accusati dal suo governo di aver preso parte al fallito golpe del 2016 ed ha sottolineato che gli abitanti musulmani della Tracia occidentale hanno un reddito più basso della media dei cittadini greci.
Tsipras ha risposto, senza troppi sotterfugi diplomatici, che «il rinnovamento dei rapporti tra i due paesi può avvenire solo nel quadro del totale rispetto del Trattato di Losanna» e quindi «del diritto internazionale».
Quanto agli otto militari turchi (che hanno chiesto asilo politico) ha ripetuto che «in Grecia vige la divisione dei poteri» e che quindi «la giustizia è indipendente e le sue decisioni vengono rispettate da tutti».

Il Fatto 8.12.17
Scudi umani a difesa di sua altezza Boschi
di Daniela Ranieri


Difendere l’indifendibile, nello specifico la sottosegretaria Boschi dal sospetto di incarnare un conflitto di interessi in quanto rappresentante del governo e insieme curatrice delle questioni relative al fallimento della banca vicepresieduta dal suo babbo, è un’impresa titanica che non riuscirebbe nemmeno al chiacchierone contaballe Matteo Renzi (che infatti se ne guarda bene). Perciò al Nazareno ogni martedì si tiene una sessione di schiaffo del soldato. A turno, ogni parlamentare, ministro e dirigente, fino all’ultimo galoppino del Pd, viene fatto voltare verso il muro mentre un altro gli sferra uno schiaffo sulla nuca. Se lo schiaffeggiato indovina chi è stato, si salva. Quello che prende più schiaffi viene inviato nei talk della sera.
Martedì è stata una strage di scudi umani. Esentato Fiano (specializzato nella difesa di babbo Renzi, perinde ac cadaver), nel pomeriggio finisce a SkyTg24 tale Federico Gelli – che di schiaffi deve averne presi parecchi, per essere mandato con quel cognome a difendere una tizia chiacchierata di far parte di un cerchio che emana uno “stantio odore di massoneria”. Naturalmente scout, ovviamente toscano, eletto con Renzi nel 2013 (col Porcellum, come la Boschi), para i colpi di Fabio Rampelli di FdI con una vocazione al martirio da cavaliere medievale, blaterando di “inchiesta politica”, “gogna” e “garantismo” come neanche i berlusconiani si sognano più di fare davanti a testimoni.
A sera, a #cartabianca finisce disgraziatamente Ivan Scalfarotto. Sul perché il pm di Arezzo Roberto Rossi (ex consulente del governo Renzi) avrebbe mentito o omesso alla Commissione d’inchiesta sulle banche circa altre indagini a carico di babbo Boschi, Scalfarotto enuncia: “Ma perché un magistrato dovrebbe mentire?”. Dal che si evince che la linea di difesa al Pd la scrive l’usciere. Con la salivazione azzerata, davanti alle logiche domande di Berlinguer e De Bortoli, Ivan farfuglia delle altre banche fallite oltre a Banca Etruria, come se il punto non fosse che la Boschi, come scrive De Bortoli nel suo libro, da ministra delle Riforme (incompetente in vari sensi) si rivolse all’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni per chiedergli di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria, giurando poi in Parlamento di non essersi mai occupata del dossier. Nell’intento di compiacere il capo e la di lui amica ma impossibilitato dal principio di realtà, Scalfarotto balbetta, ha la lingua felpata, grida: “Se la smettiamo di fare processi sui giornali… vogliamo parlare di Consip?”. Poi dà la colpa ai giornali per la mancata vigilanza sulle banche. Chiude dicendo “la Boschi non ha mai annunciato una causa per diffamazione”, il che è chiaramente, pateticamente falso. Verso le 23, viene rinvenuto in via Teulada in evidente stato confusionale.
In contemporanea, al funereo Ettore Rosato tocca la difesa d’ufficio a DiMartedì. Poveretto! Ripete a pappagallo il copione contenuto nel kit dello scudo umano della principessina Boschi: Etruria è stata commissariata dal governo Renzi (falso: da Bankitalia); la colpa è dei giornali che fanno la guerra al Pd diffamando Boschi (che peraltro non si sente affatto diffamata, visto che non ha querelato De Bortoli per diffamazione ma l’ha denunciato per danni). E, soprattutto, babbo Boschi non ha ricevuto alcun avviso di garanzia (siamo alla fase freudiana della negazione), o forse sì, ma per “falso in prospetto”, reato risibile inventato apposta per fregarlo.
Premio della critica a Beppe Severgnini, ospite di Otto e mezzo. Senza manco essere sotto schiaffo, si sente lo stesso il friccico del protettore di rango: dice di credere a De Bortoli, suo amico e direttore, e però, contestualmente, lamenta un “linciaggio mediatico” nei confronti della Boschi. Povera stella. Come se stesse scritto da qualche parte che questa “giovane donna” (fosse un anziano signore lo si potrebbe pure linciare) deve avere ruoli rilevanti nel governo del Paese. Come se la innocua fanciulla non avesse tentato di “riformare” la Costituzione, o non si potesse metterne in discussione il “merito”, uno dei feticci falsi di questa pseudo-classe di miracolati toscani a vario titolo legati a Renzi. Vediamo quanti voti prenderà, questo genio incompreso della Repubblica (anche se proprio Rosato ha scritto una legge che consentirà di farla agevolmente “eleggere” nel listino bloccato del proporzionale).

Il Fatto 8.12.17
Arriva la norma per portare Bonino nella coalizione
Un emendamento alla manovra taglia del 75% le firme necessarie per presentarsi alle Politiche: una richiesta dei Radicali
di Marco Franchi


Tutte le difficoltà in cui si dibatte il Pd in questa fase nascono da una bizzarra scelta di fondo: distruggere la propria coalizione e contemporaneamente proporre una legge elettorale in cui un terzo dei seggi vengono assegnati da collegi uninominali (in cui servono le coalizioni). Accortisi della stranezza, i democratici stanno tentando di costruirsi in fretta qualche alleato, ma la faccenda è complicata: Giuliano Pisapia ha mollato per l’eccessiva inconsistenza del suo stesso progetto (fare il lato sinistro di Renzi mentre c’è una scissione a sinistra); Alfano e i centristi non hanno voti e in sostanza non esistono più. Ora verranno partorite due liste raccogliticce: una centrista (cioè all’ingrosso democristiana), una “laica” coi rimasugli dei rimasugli. Ci saranno ex sindaci arancione, qualche verde, qualche vendoliano, qualche socialista e, visto che nella manovra è stata inserita la norma ad hoc sulle firme, anche i Radicali italiani di Emma Bonino & C (sarebbe la lista “+Europa”).
Ieri sera una delegazione dei “piùeuropeisti” – composta dal sottosegretario Benedetto Della Vedova e dal segretario dei Radiali Riccardo Magi – è stata pure ricevuta da Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi: il tema dell’incontro era proprio quello delle troppe firme da raccogliere (oggi 750 in ognuno dei 63 collegi plurinominali in cui si vuole presentare una lista). “Abbiamo ribadito al presidente del Consiglio la questione di rendere praticabile un campo che oggi è impraticabile, quello della partecipazione alle elezioni”, ha dichiarato alla fine Della Vedova. Quanto all’accordo col Pd, “al momento non è in programma alcun incontro: La condizione per ogni decisione è che il campo delle elezioni sia praticabile”. In sostanza, prima vedere cammello.
E il cammello, per così dire, è in arrivo. Ieri i democratici hanno presentato un emendamento a prima firma Alan Ferrari che fa scendere le firme da raccogliere per singolo collegio a 375, obiettivo abbordabile e che soddisfa la costituenda lista radicale più altri sparsi. Sempre Della Vedova: “C’è stata una iniziativa del Parlamento in questo senso. La via maestra è quella, vediamo cosa accade nei prossimi passaggi”. Comunque prima vedere cammello.
Pure con questa “Rosa nel pugno 2.0” da una parte e i democristiani che metterà insieme da Pier Ferdinando Casini dall’altra non proprio un’invincibile armata. Quel che pare pensare anche Romano Prodi, che ieri mattina a Roma ha lanciato due o tre granate in direzione Nazareno: “Non tutte le frittate finiscono col venir bene… Quella di Pisapia non è stata una defezione, perché non aveva deciso: ha studiato il campo e poi ha concluso che non era cosa”. Il Professore sembra guardare al futuro, ma forse non al 2018: “Il processo va avanti. Si tenterà di nuovo perché è un processo importante ed utile al Paese. Pisapia ha esplorato e non ha trovato in se stesso o nel gruppo di riferimento motivazioni per andare avanti. E questo mi dispiace”. E quindi? “Il problema – secondo Prodi – è che bisognerebbe ricominciare da capo. Io a suo tempo non ho inventato granché, ma c’era un disegno preciso di mettere insieme forze e contenuti. Mi criticarono per il programma di 400 pagine, ma quello di 140 caratteri non è molto più soddisfacente. Un programma politico può anche essere di sei volumi. Ma con una coalizione ampia si deve scrivere. È realismo”. Parole che l’accenno a Twitter garantiscono rivolte a Renzi: un progetto politico non si costruisce così.

Il Fatto 8.12.17
Il vero voto utile è andare a votare
di Antonio Padellaro


Mettiamoci nei panni di un cittadino elettore sufficientemente informato (meno di un tempo ma ne esistono ancora), che decida di mettere in fila le notizie politiche delle ultime settimane per capirci qualcosa. Fatta la somma e tirata una riga, come potrebbe non abituarsi all’idea che, molto probabilmente, il voto di primavera (compreso il suo) sarà pressoché ininfluente rispetto al prossimo governo (o non governo) del Paese? Vediamo perché.
Il sistema elettorale, innanzitutto, che sembra tagliato su misura per evitare la creazione di maggioranze politiche certe, come ci dicono concordemente i sondaggi con immutabile cadenza. Quanto al partito che avrà preso più voti degli altri – prevedibilmente il M5S – non è detto che riceva dal Quirinale l’incarico di formare il nuovo governo se non dimostrerà, prima, di avere tutti i numeri per ottenere la fiducia dalle Camere. “Le elezioni non sono mica la Milano-Sanremo dove chi arriva primo vince” (Massimo Bordin, Radio Radicale). Quindi, per cortesia, Luigi Di Maio stia pure sereno.
Il sistema finanziario che tifa apertamente per soluzioni di governo “istituzionali”, approvate dall’Europa e a bassa intensità partitica. Michael Hartnett (Merrill Lynch-Bank of America) ha dichiarato nei giorni scorsi a Radiocor Plus: “Noi e i nostri clienti abbiamo un interesse enorme nelle elezioni italiane. Non c’è dubbio che il mercato sia posizionato presupponendo che Mario Draghi continui a vincere e la politica continui a perdere in termini di impatto sui mercati”. Più chiaro di così? Del resto, sono sei anni che, con il beneplacito di Bruxelles, a Roma si succedono governi nominati a garanzia del gigantesco debito pubblico italiano. E presidenti del Consiglio indicati (commissariati) dall’alto: da Mario Monti a Enrico Letta a Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. L’ultimo premier eletto dal popolo è stato Silvio Berlusconi e sappiamo come andò a finire.
Il sistema parlamentare che ha perso la propria centralità. Farsi eleggere in Parlamento non è più la condizione prioritaria per “comandare”. Al contrario, i leader più influenti degli ultimi anni sono in qualche modo extraparlamentari: Berlusconi, Renzi, Beppe Grillo. Colpisce che con storie diverse e per ragioni diverse, personaggi come Angelino Alfano, Carlo Calenda, Giuliano Pisapia abbiano deciso di giocare le proprie carte stando fuori da Montecitorio o da Palazzo Madama. Scelte di vita (Alfano che vuole “cercarsi un lavoro”, mah)? Oppure calcolo oculato? Ovvero: con una legislatura breve come potrebbe essere la prossima non è meglio stare fermi un giro? Per poi ripresentarsi freschi come boccioli. È un conto che si fanno anche nella sinistra-sinistra di Rifondazione comunista (più No Tav e centri sociali) che non confluirà nel cartello elettorale della sinistra di “Liberi e Uguali” guidato da Pietro Grasso. Piuttosto che dilaniarsi per un pugno di seggi preferiscono stare fuori. In attesa di Luigi De Magistris.
Il sistema Gattopardo del tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. È la formula della prorogatio dell’attuale governo (Antonio Polito, Corriere della Sera) che prevede uno scenario “spagnolo” dopo la chiusura delle urne. Basta che Paolo Gentiloni non finisca sfiduciato per qualche motivo ed ecco che il suo esecutivo, in mancanza di un’alternativa praticabile, potrebbe rimanere in carica, di proroga in proroga, fino all’estate. Qualcuno azzarda perfino l’ipotesi di una staffetta con Mario Draghi (vedi auspici di Merryll Lynch) ma qui saremmo in pieno fantasy visto che il presidente della Bce scade il 31 ottobre 2019.
Il sistema Renzi: ovvero meglio perdersi che perdere tutto. Non bastasse il calo costante nei sondaggi e il fallimento del partitino della Nazione, snobbato perfino da Alfano e Pisapia, il segretario del Pd non c’è rimasto bene quando ha appreso che le cose peggiori che gli rimprovera la base del suo stesso partito sono accidenti la riforma della scuola e il Jobs Act (la migliore: le unioni civili). Proprio le “riforme” che è andato sbandierando per la penisola a bordo del fischiatissimo treno. Disastri a vagonate che tuttavia non sembrano scuoterlo troppo. Da tempo lo statista di Rignano ha capito che non toccherà più a lui dare le carte della politica italiana. Si accontenta perciò di essere ammesso, quando sarà, al tavolo delle possibili larghe intese con un 20/25 per cento dei voti, sufficienti per contare qualcosa. Poi si vedrà.
A questo punto il nostro ipotetico elettore-elettore potrebbe domandarsi: se questo è il quadro, se tutto è già scritto, a cosa può servire il mio voto? Attenzione, il voto ininfluente si fonda proprio sull’astensionismo della rassegnazione e dell’indifferenza. Se per assurdo dovesse votare anche solo il 10 per cento del popolo italiano, la torta da spartire sarebbe sempre la stessa. Mentre un’affluenza alle urne, tra il 60 e il 70 per cento, sui livelli del referendum di un anno fa, sicuramente scombinerebbe i giochi di chi considera le elezioni cosa loro. Il vero voto utile è questo.

Il Fatto 8.12.17
Banca Etruria. L’audizione di Ghizzoni che spaventa Maria Elena Boschi
di Alessandro Ianni


La testimonianza dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni è essenziale per risolvere il contrasto tra Maria Elena Boschi e De Bortoli sull’intervento (richiesto?) di Unicredit in Banca Etruria. Poiché sembrerebbe che la Commissione d’inchiesta non abbia il tempo di audirlo, non sarebbe comunque opportuno (necessario) che Ghizzoni si esprima comunque al riguardo? Non potrebbe inviare alla Commissione una dichiarazione giurata in cui chiarire se le cose sono andate (o non andate) come ha scritto De Bortoli nel suo libro? Ciò, tra le altre cose (in primis, se la Boschi ha mentito in Parlamento), farebbe luce anche su questa azione civile che la Boschi ha anticipato di voler intraprendere contro De Bortoli.
Caro Ianni,siccome non ogni giorno, ma ogni minuto ha la sua pena, io non saprei proprio dirle se Ghizzoni verrà audito dalla Commissione banche o no. Al momento, mentre scrivo (sono le ore 18.17 del 7 dicembre), parrebbe di sì, visto che il suo nome è nella lista approvata l’altroieri dai commissari. Ma è pur vero che quella lista include un’infinità di persone, più o meno da Adamo ed Eva in giù, dunque è sempre possibile che i renziani tentino qualche manovra dilatoria per allontanare dalla Boschi l’amaro calice di un’audizione che potrebbe smentire la sua versione. Che, fra l’altro, non è ben chiara. Inizialmente la Boschi negava sdegnosamente di aver chiesto a Ghizzoni di salvare, fra le 7 banche decotte, proprio quella vicepresieduta da suo padre. Poi Renzi, nel suo libro, scrisse che non c’è nulla di male se un ministro parla di banche con un banchiere (sorvolando sul fatto che De Bortoli non ha scritto che la Boschi parlava di banche con Ghizzoni, ma gli chiedeva di salvarne una, guardacaso proprio Etruria, senza peraltro avere alcun titolo per occuparsi di dossier finanziari). L’altra sera, a Porta a Porta, la Boschi è parsa correggere il tiro, negando di aver mai “fatto pressioni”: ma De Bortoli non parlava di pressioni, bensì di una semplice richiesta (che poi, provenendo da un ministro di primissimo piano, almeno all’epoca dei fatti, era ben più di una pressione, oltreché un’entrata a gamba tesa in pieno conflitto d’interessi). Non credo che Ghizzoni possa inviare, se nessuno glielo chiede, una dichiarazione giurata con la sua versione, essendo vincolato da un patto di segretezza sottoscritto all’uscita da Unicredit. Solo una convocazione in commissione (che ha i poteri della magistratura) o una richiesta di intervento scritto può liberarlo da quel “voto di silenzio”.

La Stampa 8.12.17
Le illusioni dei partitini svaniscono
di Lucia Annunziata

qui

Repubblica 8.12.17
Intervista
Giuliano Pisapia
“Ho provato a unire due sinistre sorde Ora finirà male come in Sicilia”
intervista di Stefano Cappellini


ROMA Pisapia, cominciamo dalla fine. La sua scelta di non candidarsi alle politiche è un ritiro dalla contesa elettorale? O addirittura dalla politica?
«La parola ritiro non l’ho mai usata.
Già la scorsa primavera avevo dichiarato che non mi sarei candidato. Per me la politica è quello che diceva don Milani, uscire insieme dai problemi, non solo competere per un seggio. Quella è la politica che continuerò a fare, perché dall’impegno civile non ci si ritira».
I suoi critici le obiettano che da mesi era chiaro che un’unità tra il campo renziano e anti-renziano era impossibile. È stata un’ingenuità sperarci?
«Quando, nel dicembre 2016, è nato Campo progressista, il mondo della sinistra non era ancora così drammaticamente diviso. E ancora non era neppure ipotizzata una legge elettorale devastante come quella approvata dal Parlamento.
Era giusto provarci».
Il Pd ha virato sul Rosatellum proprio per tornare alle coalizioni.
«Questa legge non prevede coalizioni vere, ma apparentamenti. Non ci sono primarie, non c’è un candidato premier comune, non c’è un programma condiviso. Sarebbe servito, quantomeno, il voto disgiunto. Lo dissi a Gentiloni, in tempi non sospetti, che questa legge elettorale era una follia».
Eppure l’alleanza con il Pd pareva quasi fatta. E’ stato lo slittamento dello Ius soli in Senato a far precipitare tutto?
«No. Personalmente ho apprezzato l’impegno di Piero Fassino e di altri esponenti del Pd: aperture ci sono state sulla legge di stabilità, come la progressiva eliminazione dei superticket sanitari e l’estensione della cassa integrazione per le aziende in crisi, ma su temi fondamentali quali il precariato, la tutela del lavoro, la cittadinanza, il perimetro delle alleanze, non c’è stata alcuna certezza. Per noi non era possibile avere come alleati chi contrastava l’approvazione di leggi di civiltà come biotestamento e ius soli e ha una visione diametralmente diversa dai valori della sinistra. In molti, dei nostri è aumentata la sfiducia nella possibilità di un accordo. Ho preso atto di questa divisione e ne ho tratto le conseguenze».
Minniti dice che sullo Ius soli è ancora tutto aperto.
«Per fare un accordo servono certezze. Se lo Ius soli sarà legge non possiamo saperlo il giorno prima di fare le liste».
Si parla molto dei “rancori personali”, però l’impressione è che ormai esista davvero un fossato tra le sinistre in termini di programma.
«In generale, penso che non sia una buona idea rottamare. Né le persone né i provvedimenti. Non si costruisce demolendo, ma accettando con umiltà le critiche e migliorando. Il paradosso è che molte delle cose che dividono sono state votate da entrambi».
Dice Tabacci: Renzi non ha mai creduto davvero alla coalizione.
«Questo andrebbe chiesto a Renzi.
Posso dire che se da un lato il Pd ha dato prova di voler ascoltare la nostra voce, dall’altro non vi è mai stata una seppur timida autocritica sulle politiche degli ultimi anni.
Campo Progressista chiedeva discontinuità, non abiure».
Un passo avanti di Gentiloni, o di un altro candidato premier con un programma rinnovato, l’avrebbe convinta a restare in campo?
«Sarebbe stato un segno di discontinuità importante, ma con i “se” non si fa la storia».
Per mesi l’hanno rappresentata come un pendolo tra le due sinistre. Ha mai davvero preso in considerazione l’idea di candidarsi con i fuoriusciti dem contro il Pd?
«No, mai. Ho sempre pensato che due sinistre, incapaci di arrivare a sintesi, sono destinate a perdere. Il mio progetto originario è sempre stato quello del modello Milano, e di tante altre amministrazioni locali, dove è stata sconfitta la coalizione di destra e il Movimento cinque stelle non ha toccato palla. È per questo che ho lavorato con caparbietà e non ho mai cambiato idea. Forse mi sono fidato troppo di chi ci ha chiesto di fare un percorso con noi, dicendo che condivideva il nostro progetto, ma che, in buona o cattiva fede, aveva altri obiettivi».
Come giudica la scesa in campo di Grasso?
«Confido che il presidente Grasso, col quale ho un rapporto di stima e di amicizia, farà di tutto per attenuare le già troppe divisioni esistenti. Bisogna evitare quanto meno che la campagna elettorale si trasformi in una lotta fratricida».
È vero che, nel vostro colloquio privato al Senato, lei gli sconsigliò di accettare una leadership di parte?
«No, e comunque non sono abituato né a dare consigli non richiesti né a riferire in pubblico il contenuto di conversazioni private. Certo, la presenza di una personalità di rilievo alla testa di tre soggetti politici che faticavano a trovare una leadership nuova, ha creato un effetto di attrazione».
Perché la destra riesce a compattarsi pur in presenza di divergenze forti al suo interno mentre la sinistra è vocata al frazionismo?
«Questo è un cruccio di molti. Penso che a destra non si vada tanto per il sottile pur di arrivare al potere.
Potere inteso come aggettivo, non come verbo. Ma è impossibile poter fare le cose che si dicono quando si dicono cose così diverse. Purtroppo la destra e i populisti stanno raccogliendo il consenso cavalcando le paure delle persone e forse perché sono dotati di una dose di cinismo superiore alla nostra».
Ha sentito cosa dice Prodi del suo tentativo? “Non sempre le frittate riescono”.
«Prodi è stato carino con me, sa tutto l’impegno che c’ho messo».
Gli elettori di centrosinistra devono rassegnarsi ad assistere alla contesa tra Berlusconi e Grillo?
«I sondaggi segnano questa tendenza. E purtroppo in Sicilia è andata proprio così. Temo che la lezione non sia servita».
Si rimprovera qualcosa? C’è qualcosa che non rifarebbe o, al contrario, qualcosa che avrebbe dovuto fare?
«Non ho mai creduto nell’uomo solo al comando e ho sempre cercato il dialogo e il confronto. Credo ancora che solo un centrosinistra radicalmente innovativo, che sappia unire anime e storie diverse, che hanno però lo stesso obiettivo, sia l’unico modo per dare una speranza a chi ha perso ogni speranza e per evitare che alla fine vinca il partito dell’astensione. Certamente ho fatto anche io errori ma non sono pentito di aver provato a indicare la strada dell’unità. Ma prendo atto che oggi non è percorribile».

La Stampa 8.12.17
Resa dei conti sul Jobs act
Blitz della minoranza Pd e il governo finisce battuto
Più risarcimenti ai licenziati. Marcia indietro dopo il flop con Pisapia
di Carlo Bertini


«Ma che davvero volete mandare sotto il governo a due mesi dalle elezioni sul Jobs act?», aveva chiesto incredula, alla riunione del gruppo Pd della commissione Lavoro, Irene Tinagli, ex Scelta Civica, fiera sostenitrice dell’attuale impianto della riforma. Ma è quello che puntualmente è avvenuto ieri: il governo, nella persona di Luigi Bobba, sottosegretario del ministro Poletti, chiede il ritiro e poi si dichiara contrario a due emendamenti della commissione. Uno sulla governance dell’Inps (che introduce una riforma ordinamentale tramite la legge di bilancio), l’altro sul raddoppio degli indennizzi ai lavoratori per i licenziamenti senza giusta causa. Il presidente della Commissione, Cesare Damiano, però non lo ritira e il testo viene approvato con i voti Pd.
La materia è bollente ed è entrata due settimane fa nella trattativa con Giuliano Pisapia. Non solo: con la premessa «non rinneghiamo ciò che abbiamo fatto», nella dichiarazione di voto contro il ripristino dell’articolo 18 chiesto da Mdp, Ettore Rosato in aula alla Camera aveva detto che il Pd era disponibile a ragionare, dati alla mano, su un aumento degli indennizzi, se fosse stato utile per la coalizione. Insomma era il punto di mediazione con la sinistra.
Ma ieri è deflagrato il cortocircuito: Damiano è uno dei big della minoranza che fa capo a Orlando. Con questa piattaforma, mirata a rendere meno conveniente per le imprese licenziare, ha accompagnato Fassino quando tentò di far entrare Mdp nella coalizione. E ora la rivendica. Quando la trattativa con Pisapia era al suo apice, dal governo informalmente vi fu una cauta apertura su questa correzione al Jobs act, sgradita alle imprese. «Ma oggi che con Pisapia è finita la storia, il governo tira i remi in barca e non accetta più una modifica che Renzi non ha mai amato», ammette un pezzo grosso del Pd per spiegare cosa sia successo.
Fatto sta che il Partito democratico in Commissione va in ordine sparso e il risultato è un caos: al momento clou, esponenti della maggioranza Pd di varie correnti, Rotta, Gribaudo, Tinagli, Di Salvo, Lavagno, Arlotti, Rostellato, non votano il raddoppio da 4 a 8 mesi delle mensilità minime e da 24 a 36 di quelle massime come risarcimento per i licenziati nelle aziende con più di 15 dipendenti. L’emendamento a prima firma Damiano dunque passa però con i voti degli altri membri della commissione, che fanno capo tutti alla minoranza. Un fattaccio tutto «interna corporis» al Pd, visto che in Commissione non c’era nessuno delle opposizioni, presenti solo Prataviera e Auci del Misto. «La minoranza ha forzato la mano sapendo che il governo sarebbe andato sotto», commenta una deputata sdegnata. La Rotta è imbarazzata. «Speriamo che tutto si chiarisca, non esiste che Commissione e governo vadano in due direzioni diverse».
Il paradosso è che i deputati della maggioranza Pd che non sono contrari sul merito, non potendo andare contro il governo per gli evidenti riflessi politici, preferiscono non partecipare allo scrutinio. Ma non lasciano agli atti un voto contrario.
Anche tra i renziani meno ortodossi c’è chi sostiene che «non si possono fare ritorsioni per quanto successo con Pisapia e bisogna correggere il Jobs act». Fatto sta che questo emendamento non si trasformerà in norma: la Commissione Bilancio boccerà tutto. «Abbiamo voluto dare un segnale di correzione all’attuale normativa perchè oggi licenziare costa troppo poco ed è troppo facile», dice soddisfatto Damiano. Ma al di là della bandiera piantata dalla minoranza Pd, il caso è sintomatico della confusione che regna sovrana tra i dem dopo il flop delle trattative a sinistra.

La Stampa 8.12.17
“Rottamiamo i pasdaran attorno a Renzi o andiamo a sbattere contro un muro”
Cuperlo: giusto alzare l’indennità, il governo deve ascoltare
di Andrea Carugati


«Se non c’è subito una correzione di rotta, il Pd alle elezioni rischia di andare contro un muro», avverte Gianni Cuperlo, della sinistra dem.
Che giudizio dà sul ritiro di Giuliano Pisapia dalla coalizione?
«Provo amicizia e stima verso Giuliano. Si è proposto come federatore di un campo che invece è imploso. Bisogna prenderne atto e affrontare la campagna elettorale con due sinistre di governo divise. La sola certezza da non rimuovere è che l’avversario è a destra e non la forza più vicina a noi».
Renzi sostiene che si possa andare comunque avanti con altri partner minori.
«Vorrei che rispondessimo a un principio di verità. A oggi il centrosinistra non c’è più ma se siamo arrivati a questo è anche per ragioni che precedono il tentativo di Pisapia. Penso a tante, troppe, rotture fino allo strappo sulla legge elettorale. Avevo supplicato il Pd di aprire al voto disgiunto perché era il modo di non chiudere ogni spiraglio verso una coalizione più ampia e flessibile. Si è pensato che fatta la legge tutti sarebbero scesi a patti. Che miopia!».
Di chi è la responsabilità ?
«Quando ci si spezza, una quota di responsabilità ricade su ciascuno. Ma se parliamo del Pd vedo una inadeguatezza e una mancanza di sensibilità del gruppo dirigente che ha portato all’isolamento di adesso. Il referendum e le urne lo hanno certificato più volte ma si è preferito non vedere».
Renzi rivendica i risultati del suo governo e di quello attuale. E’ mancata l’autocritica?
«Io rivendico le cose positive di questi anni. Ora chiedo a Renzi e Gentiloni di non mollare la presa e approvare fine vita e ius soli. Ma non si possono ignorare limiti e errori che hanno segnato riforme vissute da molti come delle ferite. Di questo non ci si è voluto far carico, ma non puoi per anni ignorare o aggredire la sinistra, dentro e fuori al Pd, salvo poi mandare Fassino a cercare un’intesa a tempo scaduto».
Crede che Renzi dovrebbe fare un passo indietro e lasciare la guida della coalizione ad altri?
«Credo che si dovrà discutere di tutto. Al gruppo dirigente chiedo buon senso e cura verso un progetto, il Pd, che non è proprietà di qualcuno».
Se verrà convocata una direzione in tempi rapidi quali critiche e suggerimenti muoverà?
«Si cambi registro sulle riforme. Se diciamo “meno tasse per tutti” tanti voteranno l’originale. Noi siamo quelli che devono colpire gli evasori e allargare i diritti. Non si fanno vere riforme senza la parte di società che scegli di promuovere e se vuoi rappresentare la sinistra non puoi denigrare la Cgil, additandola per anni come ostacolo tra mercato e modernità. Si rottamino i pasdaran che troppi danni hanno prodotto. Sarebbe la premessa per poter ricostruire il giorno dopo».
Si sente ancora a casa nel Pd?
«Ho scelto di restare dicendo dei sì e dei no. Alcuni mi sono costati, ma non ho mai piegato le mie convinzioni all’opportunismo o al trasformismo. Quando ti accorgi che stai andando contro un muro devi fermarti e invertire marcia: è quello che chiedo ora».
Alla Camera, contro il parere del governo, il Pd ha votato un emendamento che aumenta l’indennità per i licenziati.
«Un fatto positivo, che ha migliorato la manovra. Si è rispettata l’autonomia del Parlamento. Il governo ora deve prenderne atto».

La Stampa 8.12.17
«Non tutte le frittate riescono bene»

«Non tutte le frittate finiscono con il venir bene...». È l’analisi di Romano Prodi sulla situazione del centrosinistra dopo il passo indietro di Giuliano Pisapia. A chi ieri gli ha chiesto se l’ex sindaco di Milano abbia fatto bene, il fondatore dell’Ulivo ha risposto «non lo so». No comment anche sui futuri scenari all’interno del centrosinistra: «Aspettiamo». Prodi ieri ha visto Piero Fassino e ha avuto contatti anche con Renzi. La linea del Professore è quella di proseguire con l’esperienza di Campo Progressista anche senza Pisapia.

La Stampa 8.12.17
Il soccorso di Prodi e Veltroni l’ultima carta per salvare i dem
di Marcello Sorgi


Prodi e Veltroni al capezzale del Pd, dopo la rinuncia di Pisapia e il ritiro di Alfano. Il tentativo è quello di salvare il salvabile dell’alleanza larga, dai centristi alla sinistra, che Fassino per conto di Renzi stava cercando di ricostruire. Il Prof ha avuto parole di comprensione verso l’ex sindaco di Milano («Ha capito che non era cosa») e non ha nascosto le difficoltà («La colla non ha funzionato») di tentare egualmente di rimettere insieme attorno al Pd la coalizione, evitando che gli esponenti della sinistra che hanno impedito a Pisapia di fare l’accordo con Renzi vadano a ingrossare le file di «Liberi e uguali», l’alleanza di Mdp, Si e Possibile guidata dal presidente del Senato Grasso.
L’affanno dell’ex sindaco di Milano nell’impresa di stabilire un ponte tra le varie componenti di «Campo progressista» e il Pd era emerso da tempo. Ed è evidente che la rottura sullo spostamento dello Ius soli in fondo al calendario dei lavori del Senato, con un’implicita rinuncia a discutere e approvare la legge sulla cittadinanza dei figli degli immigrati, è stato, se non proprio un pretesto, un’occasione scelta ad hoc per tirarsi fuori da una trattativa ormai da tempo ferma al palo.
L’ostacolo di fronte al quale il confronto s’è arenato non era solo di tipo programmatico, ma di prospettiva: il timore, cioè, che dopo il voto, in mancanza di una maggioranza chiara, Renzi potesse dar vita a un nuovo governo di larghe intese con Berlusconi: scelta inaccettabile per «Campo progressista», che si sarebbe trovata a dover rompere l’intesa dopo aver fatto una campagna elettorale sulle ragioni dell’unità a sinistra.
Meno difficile si presenta il recupero dell’accordo con i centristi, anche se l’uscita di scena di Alfano potrebbe dare il via alla diaspora di Ap verso il centrodestra e l’ipotesi di tenere insieme le varie componenti schierandosi al centro, senza alleanze organiche a destra o a sinistra, si scontra con la difficoltà, stando ai sondaggi, di superare la soglia di ingresso in Parlamento del 3 per cento stabilita dal Rosatellum.

Corriere 8.12.17
Ci riprova Nencini il «pedalatore»
Il suo Psi ha perso anche Bobo Craxi


Il suo sito personale è in costruzione, come la coalizione di Renzi. Il testo recita mestamente: «Riprovare più tardi». E il passista Riccardo Nencini, nipote della leggenda del ciclismo Gastone, ci riproverà. Anzi, ci sta già riprovando. Pedala da tempo, andatura costante, direzione Senato. Il gruppo, nel frattempo, si dirada. C’è chi scarta e chi si ferma.
Dal 2009 Nencini è il leader del Psi che fu di Turati e Bissolati. Di diaspora in diaspora, si è fatto sottile, quasi invisibile, perdendo persino Bobo Craxi. Fino a poche ore fa Nencini confidava in Giuliano Pisapia. Il dispiacere per l’addio è misurato: «Il Psi ha l’1% nei sondaggi. Giuliano aveva lo 0,5. Ricorda?». Abbandonato senza rimpianti Pisapia, Nencini guarda avanti: «Solo? Ma no: ex malo bonum» (dal male nasce il bene). Il «bene» è in arrivo: «Lavoriamo alla terza gamba del centro sinistra. Nome e simbolo li saprete a ore». È la lista degli ex Sel? «C’è Massimo Zedda. Ma come bravo sindaco di Cagliari, non come ex Sel». Si candiderà in questa lista? «È l’ultimo dei problemi».
Sarà affrontato, al momento necessario. Per ora Nencini pedala. Da viceministro è in tour per l’Italia. Passa da un convegno sugli appalti a una visita in viadotto, senza disdegnare una mostra del tartufo e un raduno di massoni. Negli intervalli, tiene una rubrica sull’ Avanti (tra i titoli, Lettera di un trifoglio a una mangrovia e Il cecchino e il velociraptor ). E scrive libri, come Il Fuoco dentro , sull’amica Oriana Fallaci, e Il magnifico ribelle , su Giotto. Nella sua biografia, c’è la coerenza laica e socialista. C’è un duro discorso contro la ‘ndrangheta. che gli valse la scorta. E c’è la vittoria della Cialtron Cup, assegnata al liceo Dante di Firenze (lo stesso di Renzi) ai calciatori più scarsi del liceo. Nencini ne è sempre stato fiero. Ma da allora, senza scomporsi, è salito sulla bicicletta e non ha più smesso di pedalare.

Corriere 8.12.17
Mattia tra deliri religiosi e fobie 

La madre: si era isolato dal mondo
di Federico Berni e Cesare Giuzzi


Due anni fa aveva perso il lavoro e usciva dalla sua stanza solo per mangiare
I giorni passati al computer, la crociata in casa contro l’uso del telecomando
Milano «Mattia, come hai fatto ad avvelenarli, dove hai nascosto il veleno?».
«Mi dispiace maresciallo, rimarrà con questo dubbio tutta la vita».
Mattia Del Zotto ha gli occhi scuri, il viso magro coperto da una barba di un paio di centimetri. Indossa una felpa scura a collo alto e una tuta. Non piange, non si dispera neanche quando i carabinieri gli elencano le prove raccolte contro di lui. «Non ho bisogno di un’altra persona per difendermi, potete scegliere l’avvocato che più vi aggrada. Sono stato io. Non saprete mai perché l’ho fatto. Non voglio collaborare con la vostra istituzione o con altre istituzioni di questo Stato».
La prima vita di Matteo Del Zotto finisce a 25 anni. Studia ragioneria, lavora in un call center, poi come manovale e magazziniere. Non ha vizi né strani giri. Una sola passione: la palestra. I pochi amici lo ricordano come un ragazzo muscoloso, «uno grande e grosso», come si dice in Brianza. Ma non come un ragazzo violento. La mamma Cristina Palma, interrogata dai carabinieri, dice che la prima vita di Mattia finisce due anni fa quando perde il lavoro in un supermercato di Paderno Dugnano: «Da quel momento abbiamo avuto un rapporto difficoltoso con nostro figlio. È diventato introverso e ha intrapreso un percorso di chiusura relazionale con tutti».
Nelle parole fredde del verbale si nasconde il dramma di due genitori che forse non si sono resi conto del buio che in questi mesi stava inghiottendo il loro unico figlio: «Abbiamo provato a proporgli l’aiuto di uno psicologo, ma lui stava bene così». I Del Zotto allora si rivolgono a Wimala, una cromoterapeuta: «È venuta a casa nostra, ha parlato con Mattia». Ma nulla cambia. Anzi. Il 27enne non esce più dalla camera se non per mangiare. «Era sempre al computer, diceva che stava cercando lavoro o che aveva delle collaborazioni via Internet».
Il ragazzo viene travolto da fobie e manie di persecuzione: «Dalla camera ha tolto tutto, soprammobili o robe simili, lasciando solo i vestiti. Le cose essenziali. Quando termina di utilizzare qualcosa di elettrico, deve togliere per forza tutte le prese. Se dopo aver usato il microonde lascio l’adattatore attaccato alla spina, lui deve toglierlo e riporlo in un cassetto. In camera non vuole la tv, ma se io e mio marito la guardiamo e c’è la pubblicità, lui cambia canale: si alza e deve farlo direttamente dalla tv perché è contro l’uso del telecomando...».
Mattia smette di guidare («Non sopportava l’idea che una macchina da dietro potesse fare gli abbaglianti o suonare il clacson») e anche di usare i mezzi pubblici («Dice che sopra ci sono persone arroganti e che bestemmiano»). Il ragazzo non ha amici, neppure una fidanzata. Quando gli inquirenti gli chiedono se abbia mai avuto una ragazza o abbia fatto sesso lui alza le spalle: «Non sento questo impulso».
Alle manie si aggiunge il deliro mistico. «Ci ha detto di non essere più cattolico e che sta seguendo una religione di cui non ci ha dettagliato», racconta la madre: «La mia deduzione è che si tratti di una specie di setta... questo stile di vita è ispirato da un gruppo chiamato “Concilio Vaticano II”. Una volta mi ha fatto vedere un video di papa Francesco che guardava una coppia ballare il tango e ha criticato l’atteggiamento del Pontefice. Eppure sono anni che non entra in una chiesa, ai funerali dei nonni e della zia Patrizia non è neppure venuto...». Il ragazzo confermerà poi ai carabinieri di essersi «avvicinato da tre anni alla religione ebraica».
La madre, che ancora non sa dei sospetti degli investigatori, però difende il figlio: «Ultimamente ce l’ha con il mondo intero. Però non credo sia in grado di fare del male a nessuno. Suppongo che nel caso si sarebbe rivolto prima contro me e mio marito». Il padre Domenico, figlio e fratello delle tre vittime, conferma che Mattia non esce dalla sua stanza se non per mangiare: «Caratterialmente non è propenso ad avere contatti con le persone». Il profilo che emerge dalle 29 pagine di ordinanza firmate dal gip Federica Centonze, è drammaticamente simile a quello dei mass murder americani. Agli investigatori ha detto soltanto di avere ucciso «esseri impuri».
Per acquistare il tallio (aveva cercato informazioni anche sull’arsenico) crea l’account di posta elettronica fittizio a nome «Davide Galimberti». Decide di rivolgersi a un’azienda di Padova, la sola che accetta pagamenti in contanti e ritiro di persona. A un certo punto, in una mail, si lamenterà perché nella fattura gli viene addebitata due volte l’Iva. Va a Padova a ritirare il tallio il 15 settembre. Il giorno del suo 27esimo compleanno.

Repubblica 8.12.17
I muscoli e la setta tutte le ossessioni di Mattia il solitario
Dal rifiuto di guidare alla mania per il pc Ma in paese nessuno sospettava di lui
di Massimo Pisa


Ci ha detto che segue una religione di cui non ha dato dettagli — spiega la madre ai carabinieri — Mi ha fatto sentire anche un audio di una voce metallica, faceva paura Con lui ho conservato un buon rapporto — mette a verbale la nonna dall’ospedale — Ma ci vediamo poco, da quando sono ricoverata non è mai venuto a trovarmi

NOVA MILANESE «Mio fratello, che fa l’allenatore e lo conosceva, è convinto: troppi anabolizzanti, poi si è sgonfiato di colpo. Qualcosa devono avergli fatto, alla testa. Quel ragazzo è stato sempre uno strano». Il vicino di casa che accetta di fare due passi davanti alle Poste di Nova ha una sua teoria. Come tutti, qui in paese. E come tutti, Mattia Del Zotto non lo conosceva. Patrizia, la zia, quella sì: «L’avevo vista il 15 settembre — racconta — di ritorno da Ischia, aveva male alle gambe. Ma ci abbiamo scherzato. Chi poteva dire...». E anche ora che i tg fanno rimbalzare i dettagli degli omicidi al tallio, chi potrebbe dire qualcosa di quel 27enne autorecluso e muto? La dirimpettaia della villetta dei Del Zotto, in via Fiume, si affaccia al cancello per ribadire la sua: «Continuo a pensare a una disgrazia». Non un pensiero malevolo, in questi mesi, su Mattia, anche perché chi poteva dire di averlo visto negli ultimi due anni? Di ricordarselo? Due domande discrete al Carrefour della confinante Paderno Dugnano, l’ultimo suo posto di lavoro da magazziniere, producono solo aria interrogativa e teste scosse. Idem nelle due palestre, sotto casa e sulla strada per quel lavoro perduto, dove Mattia andava a pompare i pettorali, prima di dimagrire. E al bar La Piazzetta in centro a Nova, un euro per un “bianchino” all’ora dell’aperitivo sotto al campanile di Sant’Antonino. Qui nonno GioBatta aveva dato una mano a sistemare il dehors e zio Enrico, uno degli scampati al veleno, era segretario del disciolto Inter Club. E il ragazzo?
«Mai visto».
Nel piccolo mondo antico di Nova, 20mila anime tra Milano e Brianza con le targhe in dialetto all’ingresso delle corti, Mattia era riuscito ad allontanarsi da tutto e tutti. Famiglia compresa. Mamma Cristina, a verbale coi carabinieri di Desio il 16 novembre, se ne doleva: «Da due anni abbiamo un rapporto difficoltoso, è improvvisamente diventato introverso». Ostile. Tanto da denunciare una volta papà Domenico, che gli toglie le chiavi di casa e medita di cacciarlo, «ma io mi sono opposta». Cuore di mamma. Che vede Mattia sprofondare nelle sue ossessioni: «Non guida più perché non sopportava che un’altra vettura potesse fare gli abbaglianti o suonare il clacson. Non utilizza i mezzi perché a suo dire ci sono persone arroganti e che bestemmiano. Per l’ordine è maniacale. Ultimamente ce l’ha col mondo intero, ma non credo sia in grado di far male a nessuno: nel caso si sarebbe rivolto prima contro me e mio marito, con gli altri parenti non c’erano ostilità».
Manie. Fobie. Spegnere il pc e staccare la spina. Termosifone spento. Staccare le prese.
Cambiare canale se c’è la pubblicità, ma senza usare il telecomando. Mattia Del Zotto approda al delirio mistico dopo il fallito tentativo dei genitori di portarlo dallo psicologo. Papà Domenico coi carabinieri lo giustifica: «Non è propenso ad avere contatti con altre persone».
Vano il colloquio con la cromoterapeuta di famiglia Wimala, infine l’avvicinamento a un gruppo misterioso, dopo aver criticato papa Francesco per aver assistito a un’esibizione di tango: «Ci ha detto che sta seguendo una religione di cui non ha dato dettagli — è ancora mamma Cristina a parlare — se non ricordo male un gruppo chiamato Concilio Vaticano II. La mia deduzione è che si tratti di una specie di setta. Mi ha fatto ascoltare un audio di una voce metallica, mi faceva quasi paura». Ma coi carabinieri Mattia sosterrà la sua conversione all’ebraismo da tre anni. E per i familiari il ragazzo ha solo parole di ghiaccio: «Per il semplice fatto che siano miei parenti, non devo necessariamente avere un rapporto di affetto. Con i miei genitori non ho un rapporto di profondo dialogo». Ai funerali dei nonni paterni non va. Dagli altri lo trascinano. Eppure, dice la nonna materna Maria Lina Pedon, intossicata, «con lui ho sempre conservato un buon rapporto. Ma è molto tempo che non viene a trovarci, da quando sono ricoverata non è mai venuto per una visita». Così zia Laura, che lotta ancora contro il veleno: «Si esprime poco, è poco espansivo, molto chiuso in casa a seguito del forte dispiacere per la mancanza di un lavoro».
E zio Enrico: «Mio figlio Andrea con suo cugino non ha un gran rapporto, è sempre stato un tipo chiuso, poco espansivo e timido». Mai un vero sospetto, su Mattia lo sconosciuto.

Corriere 8.12.17
La mamma uccide il figlio di 5 anni A casa aveva soffocato la sorellina
Mantova, la donna ha provato a togliersi la vita. Il padre è un ex rugbista azzurro
di Giusi Fasano


Come se la coperta potesse nascondere il male che aveva fatto. Antonella l’ha posata sul corpo ormai senza vita di Lorenzo Zeus, il suo bambino di cinque anni, e ne ha tenuto un lembo anche per lei. A modo suo si è nascosta al mondo mentre provava a morire con lo stesso coltello usato per uccidere il piccolo.
È stato un pastore a notare quell’auto ferma nell’area di golena fra Guastalla e Luzzara, in provincia di Reggio Emilia. Da lontano si vedeva la sagoma di qualcuno al posto di guida. Immobile. Il pastore si è fatto largo fra il bestiame al pascolo e ha deciso di andare a controllare. Dentro l’auto c’era una donna che non dava segni di vita, sotto una coperta. Pochi minuti dopo i carabinieri di Reggio Emilia hanno scoperto il resto. Lei aveva il coltello ancora nel petto, quando sono arrivati. Ha avuto la forza di sfilarlo e di farfugliare qualcosa, poi si è lasciata soccorrere. I medici dicono che dovrebbe salvarsi.
Mentre un’ambulanza la portava in ospedale i documenti hanno rivelato la sua identità: Antonella Barbieri, 39 anni, un indirizzo a Suzzara, in provincia di Mantova, sposata con Andrea Benatti, 38 anni, e madre di due bambini. Due.
Nella sua vita c’era anche una bambina di due anni, Kim. Hanno temuto e allo stesso tempo hanno sperato, gli uomini dell’Arma. Una corsa con la sirena fino a casa della famiglia Benatti e nella testa di tutti un solo pensiero: «Dio, fa’ che non abbia ucciso anche lei». E invece l’aveva fatto, Kim era morta soffocata.
Antonella è da tempo in cura psichiatrica: è il primo dettaglio annotato nelle carte dell’inchiesta affidata ai comandi dei carabinieri di Reggio Emilia e Mantova. Il colonnello Fabio Federici e il collega Antonino Buda stanno cercando di capire se esiste un motivo scatenante della furia omicida di Antonella o se è da cercare semplicemente nelle sue fragilità mentali.
«Antonella aveva problemi» hanno detto i nonni dei piccoli e ha ripetuto Andrea, suo marito, che aveva appena finito di lavorare e stava rientrando a casa quando ha ricevuto la chiamata che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Gli chiedevano di correre in caserma, a Mantova. E lui ha capito subito che era successo qualcosa di irreparabile.
Andrea è un ex giocatore di rugby. Ha giocato come terza linea negli Aironi, in Celtic league, nel Viadana, con cui ha vinto lo scudetto 2002, e in Nazionale. Nel 2011 — quando giocava negli Aironi — ha però dovuto ritirarsi per problemi alla retina e adesso lavora nell’officina meccanica di famiglia, a Motteggiana, pochi chilometri di distanza da casa sua. Chi gli è stato accanto ieri sera racconta di «un uomo che non esiste più». Non è più un padre, non più un marito, non sarà mai più quello che ha fretta di tornare a casa per giocare con i suoi bimbi.

Corriere 8.12.17
Manovra, governo battuto sui licenziamenti
Cambia la governance dell’Inps. No agli stipendi in contanti. Arriva la proroga dell’Ape social
di Mario Sensini


ROMA Uno scivolone riparabile, un segno evidente della sfilacciatura nel Partito democratico. In commissione Lavoro della Camera, dove la minoranza ha più membri della componente fedele al segretario Matteo Renzi, il governo è stato battuto ieri due volte sulla legge di Bilancio. La prima che prevede il superamento dell’attuale vertice monocratico dell’Inps, guidata da Tito Boeri, l’altra che porta da quattro a otto mesi le mensilità di indennizzo a favore dei lavoratori licenziati nelle imprese con oltre 15 addetti.
Due misure che difficilmente passeranno al vaglio della commissione Bilancio, e poi dell’Aula. Nel caso dell’Inps il governo ha espresso parere contrario perché la norma è «ordinamentale» e nella legge di Bilancio non potrebbe entrare. Nel merito il governo «conviene» sull’esigenza di andare verso un diverso assetto dei poteri dell’Ente, ma in Commissione il suo «no» è stato sconfitto. Come sull’aumento degli attuali indennizzi per i licenziamenti, che invece l’esecutivo considera «equilibrati». Due temi, insiste il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, anch’egli della minoranza Pd, «su cui il partito dovrebbe fare una battaglia, perché oggi alle imprese costa meno licenziare piuttosto che mettere in cassa integrazione».
Entra nella manovra, invece, la proroga al 2019 dell’Ape sociale e l’inclusione di marittimi, pescatori, lavoratori agricoli e siderurgici, già esclusi dall’aumento dell’età pensionabile, tra le categorie che possono accedere al nuovo regime.
In commissione Lavoro passa invece lo stop al pagamento degli stipendi in contanti. Potranno essere versati solo in assegni, o anche in denaro liquido, ma solo presso uno sportello bancario. Serve per evitare che i lavoratori ricevano cifre più basse di quelle dichiarate nella busta paga (anche se la firma del lavoratore per ricevuta, secondo la Cassazione, già ora non è prova dell’avvenuto pagamento). Sempre in commissione Lavoro passano norme che estendono le tutele contro le donne che subiscono molestie nei luoghi di lavoro, ed arriva la proroga a fine giugno per i lavoratori in mobilità delle aziende in crisi a fine 2017.
La commissione Finanze ha deciso lo slittamento al 2019 dei nuovi indici di affidabilità fiscale, che sostituiranno gli studi di settore. Per le imprese si profila una maggior deducibilità dell’Imu sugli immobili produttivi. Possibile la cedolare secca sugli affitti dei negozi nei centri storici per le attività artigianali. Oggi la manovra arriva in commissione Bilancio, dove si cominceranno a tirare le somme: sul tavolo oltre 5 mila emendamenti.

Corriere 8.12.17
Il «placing out»
Quando il treno degli orfani lasciava New York
di Valeria Luiselli


Adesso è difficile immaginarlo, ma nel 1850 c’erano più di 30 mila bambini che vivevano nelle strade di New York: mangiavano ciò che trovavano nella spazzatura, si aggiravano come branchi famelici, dormivano sotto i ponti o tra i ponteggi degli edifici in costruzione. I genitori erano morti, o più semplicemente li avevano abbandonati. Molti erano bambini appena sbarcati dai transatlantici europei: bambini tedeschi, irlandesi, italiani.
La città di New York risolse il problema di questi bambini con una trovata disumana: perché non metterli tutti sui treni che ogni giorno partivano diretti verso l’enorme e ancora spopolato West? Lì, forse, avrebbero trovato una famiglia adottiva che si sarebbe presa cura di loro. L’idea riprendeva una soluzione già presa qualche anno prima, nel 1830, quando era iniziata l’espulsione di decine di migliaia di indigeni americani dalle loro terre che, a bordo di treni, erano stati trasportati fino alle riserve dove avrebbero vissuto confinati. L’idea funzionò: tra il 1854 e il 1929, più di 200 mila bambini partirono da New York e dalle città vicine diretti verso l’interno del Paese.
Il meccanismo venne chiamato placing out («sistemare fuori»). Ma «sistemare» è un verbo molto più gentile rispetto all’azione di mettere dei bambini su un treno sperando che uno sconosciuto li accolga per farli vivere poi chissà come. Qualche bambino «sistemato fuori» della città trovò una famiglia che effettivamente lo adottò. Ma molti finirono vivendo in condizioni di schiavitù, sottoposti ad abusi inimmaginabili, come mano d’opera gratuita nelle fattorie e nelle piantagioni.
Non è sorprendente che sia stato usato un eufemismo del genere. La storia statunitense è piena di eufemismi sulla violenza istituzionale esercitata contro gruppi di persone espulse dal grande sogno americano. Nel XIX secolo, per esempio, al posto di «schiavitù» si utilizzava l’espressione «la nostra peculiare istituzione». I due verbi che si utilizzarono per descrivere lo sterminio e le deportazioni degli indigeni americani furono «trasferire» e «rimuovere». Ancora oggi si usa l’eufemismo «rimuovere». Ma non significa più «espellere e confinare gli indigeni nelle riserve», ma «deportare gli stranieri».
Forse si può raccontare la storia di una società attraverso i suoi eufemismi: ciò che non vuole dire del suo passato e del suo presente. Gli eufemismi nascondono e, facendolo, permettono che si perpetuino gli atti di violenza che pretendono di nascondere. I governi degli Stati Uniti hanno «rimosso» più di 2,5 milioni di persone e «sistemato fuori» migliaia di bambini — solo che ora viaggiano in aereo e non in treno. Un eufemismo di successo è più che una strategia retorica: è un’arma molto pericolosa.
L’incontro Valeria Luiselli presenterà il suo libro Dimmi come va a finire (La Nuova frontiera, traduzione di Monica Pareschi, pp. 96, euro 13) a Roma, alla fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi, domenica 10 dicembre (ore 16, Sala Luna, Nuvola dell’Eur). Con l’autrice interverranno Melania Mazzucco e Antonella Inverno (Save The Children)

Corriere 8.12.16
Sarà il 6 marzo
Giornata dei Giusti, l’Italia è il primo Paese ad approvarla
di Alessia Rastelli


Una giornata per «mantenere viva e rinnovare la memoria di quanti, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno fatto del bene salvando vite, si sono battuti in favore dei diritti umani durante i genocidi e hanno difeso la dignità della persona rifiutando di piegarsi ai totalitarismi e alle discri-minazioni». Il Senato ha approvato ieri in via definitiva la legge per l’istituzione della «Giornata in memoria dei Giusti dell’umanità», il 6 marzo. L’Italia è il primo Paese ad aderire ufficialmente alla Giornata europea dei Giusti che fu istituita nel 2012 dal Parlamento europeo dopo l’appello dell’associazione «Gariwo, la foresta dei Giusti», presieduta da Gabriele Nissim. La legge incoraggia le scuole a organizzare per il 6 marzo attività che educhino i giovani alla responsabilità personale attraverso le storie dei Giusti; amministrazioni ed enti pubblici possono contribuire creando Giardini dei Giusti o patroci-nando incontri e mostre. In Italia il primo Giardino, in cui ogni albero è intitolato a un Giusto, è nato nel 2003 a Milano, sul Monte Stella, e da poco si è costituito GariwoNetwork, che unisce gli 80 Giardini nel nostro Paese e nel mondo. «La legge ha un valore particolare — dice Nissim — di fronte alle crescenti derive dell’oggi: nazionalismi, razzismi, rischi di guerra, terrorismo. È necessario riaffermare i valori del dialogo, della pace, dell’inclusione. Quello dell’Italia è un grande messaggio all’Europa e al mondo».

Repubblica 8.16.17
Il rapporto che accusa Pell 

Un teste: “Denunciai abusi e lui riattaccò il telefono”
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO L’ultimo report della Commissione australiana d’inchiesta che lavora sulle risposte delle istituzioni del Paese agli abusi sessuali commessi su minori è impietosa per le diocesi nelle quali ha operato il cardinale George Pell, uno dei nove porporati del Consiglio di Papa Francesco, dal 2014 prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede. Il testo, rilasciato in queste ore, dice che il desiderio di evitare scandali e di proteggere la reputazione dei sacerdoti e della stessa Chiesa cattolica ha condotto a un « fallimento straordinario » rispetto a ciò che invece sarebbe stato doveroso fare. E cioè proteggere i minori dai terribili abusi perpetrati da parte del clero nelle diocesi di Ballarat e Melbourne, nello stato australiano di Victoria. Ballarat e Melbourne, le città dove Pell è stato prima sacerdote poi vescovo. Il suo incarico in Curia scade nel febbraio del 2019, mentre la prima sentenza della Corte australiana a suo carico arriverà nel marzo prossimo: comunque vadano le cose, il suo ritorno a Roma è improbabile.
Per la Commissione le due diocesi hanno mancato di rispondere adeguatamente a denunce di abusi sessuali su minori nel corso di almeno tre decenni. La loro risposta «ha anche rivelato una tendenza a trattare le lamentele o asserzioni in modo sprezzante e a favore del sacerdote che era l’oggetto delle asserzioni ». Le dichiarazioni di un testimone, Graeme Sleeman, rilasciate durante i lavori della Commissione nel novembre 2015 riportano la risposta che diede il cardinale Pell di fronte alle sue richieste. « Mi attaccò il telefono», dice Sleeman.
La prassi era quella usata in diverse parti del mondo nel corso di interi decenni: in seguito a lamentele, i sacerdoti venivano trasferiti in altre parrocchie, dove commettevano nuovi abusi. La Commissione ha ascoltato testimonianze sia di vittime sia di trasgressori, fra i quali il vescovo di Ballarat Ronald Mulkearns, poi deceduto e dello stesso Pell il quale, oltre alle accuse di aver coperto i pedofili, è in attesa di giudizio per presunti abusi commessi personalmente, secondo un’email della polizia di Victoria, «a Ballarat tra il 1976 e il 1980 e a Melbourne, tra il 1996 e il 2001 » . Pell si è sempre dichiarato innocente. Ma molto si chiarirà il prossimo 14 dicembre quando un secondo report della Commissione sarà reso pubblico proprio in merito a queste specifiche accuse.
Pell era deciso a non tornare in Australia per affrontare la giustizia del Paese, ma poi, complice probabilmente anche Francesco, ha ceduto. In tutto la Commissione parla di 450 denunce in 35 anni. Pell era stato nominato vescovo ausiliario di Melbourne nel maggio del 1987, responsabile della Regione meridionale che comprendeva la parrocchia di Doveton, teatro di uno dei casi più gravi, quello di un prete pedofilo seriale, padre Peter Searson. Nove anni dopo, nel 1996, Pell divenne arcivescovo della città, succedendo a Thomas Francis Litte. Quest’ultimo è accusato di aver « lasciato cadere o ignorato » prove e indizi contro i preti pedofili, lasciandoli liberi di abusare. Il tutto senza che nessuno dei suoi collaboratori facesse nulla per impedirlo. Pell ha detto che l’inerzia era solo del suo predecessore. Oltre che di abusi, il report parla di minori costretti ad assistere a torture su animali minacciati con delle pistole, a vegliare morti nelle bare: « Per gioco » , hanno risposto gli accusati.
In Vaticano le inchieste australiane sono monitorate quotidianamente. La vulgata ripetuta da tutti è che Pell si trova «in congedo prolungato ». E che vi rimarrà fino alla prossima pensione.