sabato 6 novembre 2010

l’Unità 6.11.10
La manifestazione I vertici Pd ragionano sulla data. La più probabile è sabato 11 dicembre a Roma
«In piazza contro il governo» Oggi l’annuncio di Bersani
di Simone Collini


L’appuntamento sarà il culmine della campagna di mobilitazione che parte il prossimo fine settimana e che prosegue il 20 e 27 novembre. Un vademecum sarà distribuito oggi ai segretari di circolo.

Il Pd scenderà in piazza contro il governo Berlusconi. Bersani lo annuncerà oggi parlando ai duemila segretari di circolo riuniti a Roma. I vertici dei Democratici stanno ragionando sulla data più opportuna e al momento l’ipotesi più accreditata è di organizzare la manifestazione a Roma sabato 11 dicembre. L’appuntamento sarà il culmine della campagna di mobilitazione che parte il prossimo fine settimana e che prosegue il 20 e il 27 novembre (più l’Assemblea nazionale di Napoli del 4 dicembre). Il “porta a porta” sarà lo strumento per dare ampio respiro a un’operazione di contrasto al governo che finora si è giocata soprattutto a livello parlamentare. Bersani sa bene che i numeri alla Camera e al Senato sono dalla parte di Berlusconi. E dopo che ha visto cadere nel vuoto gli appelli a Fini a «staccare la spina», il leader del Pd ha deciso di non aspettare neanche il discorso di domani a Perugia del presidente della Camera e di dare un segnale di accelerazione.
Così oggi, chiudendo l’Assemblea nazionale dei segretari di circolo, farà un discorso d’attacco, difendendo «la politica» da chi la vuole far finire nel più totale discredito e anche l’azione di pressione su Fini: «Se si apre una crepa nella maggioranza è giusto che l’opposizione cerchi di allargarla». Ma ora, dirà incitando i segretari di circolo a lavorare nelle loro città e nei loro quartieri per allargare il consenso (verrà anche distribuito un vademecum su come impostare le operazioni di propaganda), è anche il tempo della mobilitazione.

l’Unità 6.11.10
«Scelte coraggiose per darci un’identità»
L’intervento di apertura dei lavori: «Sicuramente ci lasceremo alle spalle qualche pezzo, ma ne aggregheremo molti di più»
di Zoè Monterubbiano


Sono Zoè. Sono il Segretario del Circolo di San Marco–San Tommaso, il circolo più piccolo dell’Unione Comunale di Fermo, e forse anche d’Italia e sono stata appena riconfermata. Io, come tanti altri Segretari di Circolo che sono venuti oggi qui a Roma, ho creduto fin dal primo momento nel progetto del Partito Democratico. Sono stati tre anni di intenso lavoro, tante le cose che sono successe, tante le fasi difficili che abbiamo attraversato e superato, ma una cosa è certa: quell’entusiasmo di allora è rimasto invariato, anzi, oggi è ancora maggiore. (...) Il Partito che io vivo ha saputo superare ogni tipo di divisione interna, renden-
do vero e concreto quel tessuto unitario e consolidato che ci ha permesso di lavorare con grande impegno, di mantenere vivo il dialogo con le altre forze di sinistra che condividono i nostri ideali di uguaglianza, di solidarietà.
Inoltre, stiamo lavorando per una politica che abbia le mani libere e per un’Amministrazione comunale che possa ben governare e che non sia mai ricattabile. E questo si ottiene anche con una campagna elettorale finanziata in maniera trasparente. (...) Di fronte a tutto questo impegno, sommato alla concretezza delle proposte e alla freschezza delle idee che di sicuro non mancano, si registra comunque un malcontento. E non mi riferisco solo ai sondaggi che ci bombardano ormai quotidianamente. Mi riferisco al contatto diretto che ogni segretario di circolo ha con gli iscritti, con i simpatizzanti e i cittadini più indecisi del proprio quartiere. Contatto che mi fa capire che c’è bisogno di uno sforzo in più. Qual è allora l’anello mancante, tra il nostro buon operare e la “risposta elettorale” non adeguata ai nostri sforzi? Capire questo rappresenta secondo me lo snodo, la chiave di volta. Io credo, infatti, che se è vero che non ci sono più gli operai di una volta, probabilmente non ci sono più neanche i politici di una volta. Possiamo ancora accettare che per parlare di lavoro sia necessario salire su un carro-ponte? E su quale isola dovranno barricarsi ancora le partite iva strozzate, i giovani liberi professionisti, i precari dei call center, le mamme in cerca di asilo nido, e tanti tanti altri ancora? È poi possibile che per far avere figure femminili nei luoghi decisionali sia stato necessario imporre l’alternanza di genere? Io credo fermamente che, a partire dal gruppo dirigente, sia arrivato il momento di cominciare con chiarezza a costruire una identità ben definita del Partito Democratico. E questo si può fare solo scrollandoci di dosso i troppi freni e le troppe discriminazioni, lavorando in maniera libera e laica. E soprattutto serve il coraggio. Il coraggio di prendere una strada, con determinazione e in maniera dirompente. Sicuramente ci lasceremo qualche pezzo dietro alle spalle, ma sono altrettanto convinta che saranno molti di più i pezzi che riusciremo ad aggregare.

l’Unità 6.11.10
Forza donne: mandiamo a casa il sultano
di Susanna Cenni


Proprio bello il volto sorridente, gli occhi luminosi di Dilma Rousselff, neopresidente del Brasile, che nel suo primo discorso ha spesso ripetuto la frase «le donne possono»: possono studiare, lavorare, diventare Presidente. Difficile non pensare all’Italia, dove le donne che occupano le prime pagine dei giornali hanno spesso gli occhi nascosti da una pecetta nera, con il corpo, invece, ben esposto.
Il tema è, ancora una volta, il sollazzo del Premier, stavolta rivendicato con arroganza: l'arroganza del capo che si spende così tanto per tutti noi da meritarsi poi di rilassarsi come meglio crede.
Intanto dai media scompaiono le donne vere: quelle che non passano le loro giornate con tacchi vertiginosi o improbabili mise sadomaso; che non sono rappresentabili come l’anziana vittima del terremoto, che in diretta tv esprime gratitudine al Premier per la nuova dentiera; né come le ministre o sottosegretarie scelte dal capo, e a lui fedeli sempre e comunque.
Le donne italiane, quelle vere, hanno visto in questi anni la loro vita peggiorare, i loro diritti affievolirsi, la precarietà diventare permanente fino a trasformarsi in assenza di lavoro e futuro. Fino ai tagli contenuti nell’ultima Finanziaria, che minacciano gli asili nido,il tempo pieno nelle scuole, i servizi sanitari di prevenzione, la possibilità di accedere al part time.
Anche se forse, per le donne, il taglio più grave è quello alla loro dignità : il tentativo quotidiano di cancellare la loro identità per ridurle a un corpo, possibilmente bello da vedere e da fruire nei momenti di relax. E se fossero proprio loro a sfiduciare il Premier?
Noi parlamentari, per prime, dobbiamo tutte assieme renderci più riconoscibili. E le giovani, con la loro fantasia e creatività ;i talenti femminili di questo Paese, che lavorano o che hanno perso il lavoro,le studentesse: vorrei che tutte assieme dicessimo «Caro Presidente, le donne Italiane non ti vogliono a capo del governo».
Vorrei che un tam tam partisse ovunque, dai consigli comunali, dai mercati rionali, dalle scuole e dai luoghi di lavoro.
Vorrei che nei condomini si spengesse per una volta la Tv e che le donne si trovassero, si chiedessero come reagire e magari sacrificassero qualche lenzuolo da appendere alla finestra con una scritta.
Non possiamo delegare a nessuno la difesa della nostra stessa dignità. Non indugiamo oltre:le donne possono, ce lo ricorda la presidente brasiliana. E allora, care amiche, mandiamolo a casa.

l’Unità 6.11.10
«Pane e cultura» La mobilitazione Pd parte da lunedì


IN MOVIMENTO    Da lunedì 8 novembre, il partito Democratico si mobilita «in difesa del sistema culturale del nostro paese, in questi anni mortificato dal governo di centrodestra con continui e indiscriminati tagli, parole sprezzanti, battute che non fanno ridere e tanta propaganda». «La cultura sottolinea il partito di Bersani è un sistema che in Italia produce 40 miliardi di euro di pil e occupa circa 550 mila persone. nonostante ciò, troppo spesso chi vi lavora è un precario e la sua professionalità non è riconosciuta». «Per questo saremo presenti in tutto il territorio nazionale con “pane e cultura”, una mobilitazione per presentare le proposte del partito».

l’Unità 6.11.10
Disturbo narcisistico e leadership patologica
Il metodo diagnostico
Luigi Cancrini espone i nove criteri riconosciuti per l’individuazione dell’NPD dal «senso grandioso di importanza» alle «fantasie di illimitati successi» Il difficile rapporto con le donne e le responsabilità delle persone amiche
di Luigi Cancrini


Potenti ma fragili. Il successo predispone allo sviluppo del disturbo in età adulta

Proporre una diagnosi psichiatrica a proposito di una persona che non si conosce direttamente è possibile? È lecito? Belpietro e i suoi amici di Panorama hanno reagito con durezza alle cose che avevo scritto facendolo. Quella che vorrei presentare loro, molto semplicemente, è la lista dei criteri indicati dal DSM IV, il più importante e riconosciuto dei manuali psichiatrici per la diagnosi di “disturbo narcisistico di personalità” (NPD). Chiedendo loro se, dopo averli letti (meditati), non sono d’accordo anche loro con me nel porre questo tipo di diagnosi per un uomo come il nostro premier. I criteri, dunque, sono nove.
(1) Ha un senso grandioso d'importanza (per esempio esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore anche senza un’adeguata motivazione); (2) è assorbito da fantasie di illimitati successi, potere, fascino, bellezza, e di amore ideale; (3) crede di essere “speciale” e unico; (4) richiede eccessiva ammirazione; (5) ha la sensazione che tutto gli sia dovuto: cioè, la irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative; (6) sfruttamento interpersonale: cioè, si approfitta degli altri per i propri scopi; (7) manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri; (8) è spesso invidioso degli altri, o crede che gli altri lo invidino; (9) mostra comportamenti e atteggiamenti arroganti o presuntuosi.
Nel caso, poi, in cui loro non siano d’accordo con me, potrebbero spiegarmene il perché? Evitando, se possibile, gli insulti?
Le esperienze infantili che preparano l’hardware del disturbo narcisistico sono collegate regolarmente ad un clima familiare in cui il bambino ha ricevuto una adorazione e un amore disinteressati ma fuori misura in quanto non accompagnati da una sufficiente empatia e da una genuina presentazione dei fatti. Il futuro narcisista non è informato circa i sentimenti e i bisogni distinti dei propri genitori.
La lezione è che i genitori vogliono solo apparentemente bearsi dello splendore del soggetto: una lezione che interferisce con il processo di apprendimento del soggetto circa il fatto che gli altri hanno bisogni, punti di vista e desideri loro propri. Il modo in cui questa predisposizione si sviluppa nell’età adulta intorno al “successo” viene bene illustrata, d’altra parte, da una delle studiose più importanti dei disturbi di personalità, Lorna Smith Benjamin: la psicoanalisi sostiene che lo sviluppo del carattere viene fissato in tenera età, in genere nella prima infanzia ma Sullivan già nel 1953 osservò che le prime esperienze interpersonali non sono le uniche a formare il carattere.
L’aspetto programmabile (il “software”) dell’NPD si può acquistare anche più avanti.
Le persone ricche e famose sono particolarmente soggette a sviluppare l’NPD da adulte. Quanti ricevono gratificazioni per il successo raggiunto nell’ambito professionale cominciano a pronunciarsi su questioni ben lontane dalla loro sfera particolare! Stelle del cinema e imprenditori di successo si sentono improvvisamente adatti a concorrere per cariche politiche, che dovrebbero, invece, richiedere particolari capacità nell’unire, mobilitare e adempiere le volontà di persone molto diverse fra loro. Le capacità organizzative richieste per il buon governo sembrano non aver nulla a che fare con l’abilità di recitare o di guidare un’impresa.
Si badi, tuttavia. Non sono episodi sporadici di successo (e di consenso entusiasta) a far nascere il disturbo, ma è il loro ripetersi. La gente comune può offrire e offrirà adorazione incondizionata, come pure affetto deferente, ai ricchi e famosi. Se si verificano le condizioni adatte, non è mai troppo tardi per sviluppare l’NPD.
Una delle domande più comuni è quella che riguarda il modo in cui le persone che hanno un disturbo di questo tipo ottengono l’ammirazione incondizionata di tante persone. Scriveva in proposito Freud nel 1914: «Appare molto chiaro che il narcisismo di una persona esercita un certo fascino su quanti hanno rinunciato a parte del loro stesso narcisismo e che sono alla ricerca dell’oggetto d’amore; il fascino del bambino si basa in larga parte sul suo narcisismo, sulla sua autosufficienza e sulla sua inaccessibilità, proprio come il fascino di certi animali che sembrano non curarsi affatto di noi, come i gatti e i grandi predatori.
È come se invidiassimo loro la capacità di serbare uno stato di beatitudine, un’inattaccabile posizione di libido, alla quale noi abbiamo da tempo rinunciato». Carisma, nel tempo dei media, è sempre più questo e non richiede competenze reali sui problemi. È telegenico?, ci chiediamo, invece di chiederci: è davvero preparato e capace? E il più narcisista spesso vince.
Kernberg (1984) parla di come i narcisisti tendono ad essere promiscui in quanto entrano in relazione solo con delle parti del corpo. I problemi sessuali del maschio con NPD possono essere attribuiti, secondo lui, ad un’invidia inconscia e ad una smania di possesso per le donne. Questo genere di maschio desidera sciupare e svalutare le donne. L’autonomia che così spesso lo caratterizza, non è altro che una difesa. Rappresenta una via d’uscita dalla proiezione della propria smania di possesso nei confronti delle donne.
Il narcisista di successo reagisce alle contrarietà con la collera, con la denigrazione dell’altro o con la teoria del complotto. Entra davvero in crisi solo quando quello che accade è irreparabile, come nel caso della morte di una persona cara, della perdita di un legame importante o dall’incontro, inevitabile, con la vecchiaia del corpo. Il movimento depressivo può debordare, in questi casi, dando luogo ad una esasperazione caricaturale dei suoi comportamenti meno riusciti. Il disprezzo per gli altri (le altre), l’aggressività e la rabbia vengono allora in primo piano insieme ad un bisogno maniacale di rifugiarsi nel proprio mondo personale: un mondo in cui trovano posto solo i complici e gli adulatori, quelli che hanno bisogno di lui e che più o meno autenticamente lo ammirano. Quando le vicende della vita lo portano ad una terapia, invece, quello che si può tentare di fare è di aiutarlo a diventare consapevole della sua potenza distruttiva. La nuova consapevolezza di nutrire dei sentimenti ostili darà luogo a sensi di colpa e ad una depressione costruttiva. Via via che la terapia continua, verrà, poi, fuori una matura considerazione degli altri e dei loro sentimenti.
Voler bene a chi sta male vuol dire stargli vicino, sostenerlo, ascoltarlo ma, anche e a tratti soprattutto, confrontarlo sulle cose sbagliate e autodistruttive che fa. Amico del tossicodipendente da eroina è chi lo confronta per farlo smettere, non chi gli dà i soldi per comprarla. Amico di una persona che ha problemi di dipendenza dal sesso non è chi gli porta in casa le escort e le ragazzine: silenziosamente suggerendogli che lui è il Capo e può fare quello che vuole. Amico è chi, come fanno a volte le mogli, gli dice che sta sbagliando. Che deve smettere.
I guasti che un leader patologico può produrre nella struttura o nelle strutture di cui ha il comando o la responsabilità consistono essenzialmente nell’aumento della conflittualità all’interno di tali strutture, nella diminuzione brutale della loro efficienza e nel peggioramento forte della qualità della vita nelle persone che in esse operano.
Si tratta di conseguenza ampiamente descritte nella letteratura specialistica. Nelle organizzazioni in cui il potere è distribuito fra diverse persone o gruppi quello cui si va incontro in questi casi è una mobilitazione delle parti sane del gruppo che spinge per la deposizione e la sostituzione del leader. L’unificazione nelle sue mani di tutti i poteri può diventare in questa fase l’obiettivo primario del leader patologico.
L’esito di questa battaglia può arrivare ad essere, in alcuni casi di cui la storia del ventesimo secolo ci ha dato varie dimostrazioni (in Italia e in Germania, in Spagna e in Unione Sovietica) la scelta fra la tirannide o la democrazia.

l’Unità 6.11.10
Il «folle narcissico» di Gadda, ritratto immortale del “duke”
Da «Eros e Priapo», (Garzanti), ecco gli ultimi paragrafi del «saggio sulla psicologia e la fisiologia che permise vent'anni di dittatura fascista»
di Carlo Emilio Gadda


I tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro
Uno si crede Cesare perché fa inscrivere il nome Caesar sui sassi
Erezione perpetua. In lui tutto è relato alla prurigine erubescente dell’Io minchia
Lo jus è turibolo. L’ethos si ha da ridurre alla salvaguardia della sua persona

Qualunque si affacci alla vita presumendo occupare di sé solo la scena turpissima dell' agorà e istrioneggiarvi per lungo e per largo da gran ciuco, e di pelosissima orecchia, a tanta burbanza sospinto da ismodata autoerotia, quello, da ultimo, tornerà di danno a' suoi e talora a sé medesimo. Il folle narcissico è incapace di analisi psicologiche, non arriva mai a conoscere gli altri: né i suoi, né i nemici, né gli alleati. Perché ? Perché in lui tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell'Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo. E allora gli adulatori sono tenuti per genii: e per commilitoni pronti a morire col padrone, anzi prima di lui facendo scudo del loro petto. (In realtà, appena sentono odor di bruciato se la squagliano). I non adulatori sono ripudiati come persone sospette ed equivoche. I contraddittori sono delinquenti punibili con decine di anni di carcere. I derisori e gli sbeffeggiatori sono da appendere pel collo. Seconda caratterizzaione aberrante e analoga alla prima, è la loro incapacità alla costruzione etica e giuridica: poiché tutto l'ethos si ha da ridurre alla salvaguardia della loro persona, chè è persona scenica e non persona gnostica ed etica, e alla titillazione dei loro caporelli, in italiano capezzoli: e all'augumento delle loro prerogative, per quanto arbitrarie o dispotiche, o tutt'e due. Lo jus , per loro, è il turibolo: religio è l'adorazione della loro persona scenica; atto lecito è unicamente l'idolatria patita ed esercitata nei loro confronti; crimine è la mancata idolatria. Altra modalità dell'aberrazione narcisistica è la morbosa tendenza a 'innalzarsi', ad eccellere in forma scenica e talora delittuosa, senza discriminazione etica: senza subordinare l'Io a Dio. L'autofoja, che è l'ismodato culto della propria facciazza, gli induce a credere d'esser davvero necessari e predestinati da Dio alla costruzione e preservazione della società, e che senza loro la palla del mondo l'abbi rotolare in abisso, nella Abyssos primigenia mentre è vero esattamente il contrario: e cioè senza loro la palla de i'mondo la rotola come al biliardo e che Dio esprime in loro il male dialetticamente residuato dalla non-soluzione dei problemi collettivi: essi sono il residuo mal defecato dalla storia, lo sterco del mondo.
Il contenuto del pragma narcissico è limitato a quel groppo di portamenti e di gesti che ponno attuare la relazione (ottica, acustica) con la desiderata platea, che soli possono procurargli l'applauso. Groppo che diviene persona: la è tutta lì la "persona". Il Golgota non è scena, non è disonor del Golgota degno di lui. Per lui non il legno della croce, ma il cesso di lapislazzuli o il bidet di onice. Esibisce voci e canti da magnificar l'Io nella voce, nel frastorno. La voce è richiamo sessuale potente e gravita, per così dire, sull'ovaio alle genti. Il folle narcissico è desidera e brama le carte stampate, per quanto coartate e vane, i giornali magnificanti le su' glorie, e de' sua. Gli stessi annunci funebri, i soffietti pubblicitari se gli è privato uomo titillano la sua lubido narcissica. Morirebbe, "per andà in sul giornàal". Ma la nota dominante del pensiero, della parola e dell'atto è la menzogna narcissica. La menzogna narcissica è, nel procedere della storia, quel che è la dissipazione nella vita privata. Consiste nel negare una serie di fatti reali che non tornano graditi a messer "Io". La menzogna esce di getto dalla sua anima come dogma irruente, come uno spillo d'acqua da una manichetta de' pompieri sotto pressione. Si sente che nessuna remora, nessuna obiezione potrà fermarla. Lo stesso vediamo fare con resultati pressoché identici, alla isterica o all'ipocondriaco e in genere a quelli che sono smagati da un "delirio interpretativo" dei fatti reali. (Questo termine è dello psicologo francese Capgras).
Il dato ormone Se la isterica menta consapevole o no, è una delle questioni classiche dibattute dalla psicopatologia: e io non ho né dottrina né forze né tempo né carte da istruirne a questi anni per la millesima volta il dibattito. La menzogna narcissica, la reticenza narcissica, la calunnia narcissica direi, un po' a lume di naso, che pertengono alle zone conscie dell'Io: e pure comportano un che di ineluttabile, di "fatale", di teso: di biologicamente predeterminato quasi dall'eccessivo esondare di un dato ormone: esse rasentano certi stati di sogno, di utopia folle e felice che da non so quali stupefacenti si procacciano. Uno si crede Cesare perché fa inscrivere il nome Caesar su alcuni sassi. Sogna. Le genti sensate gli ridono in faccia. Allora il malato li fa prendere e li fa carcerare per decine di anni. Sul palco, sul podio, la maschera dell’ultra istrione e del mimo, la falsa drammaticità de' ragli in scena. I tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro.

l’Unità 6.11.10
«Percorso a punti» Idea bocciata senza appelli: «Lasciate perdere parole come “selezione”»
Immigrazione, Pd all’esame delle seconde generazioni
Ventenni, figli di immigrati. Chiedono al Pd parole chiare sull’immigrazione. Qualcuna c’è già. Livia Turco: «Dobbiamo fargli ritirare il decreto che prevede il test d’italiano con espulsione per chi non lo supera».
di Mariagrazia Gerina


Si potrebbe chiamare la «sveglia» che viene dalla Seconda generazione. E sta già producendo i suoi frutti. «Sull’immigrazione il Pd deve trovare messaggi chiari, diretti, parole semplici, la Lega non ha fatto chissà che, è stata sul territorio, con un messaggio semplice, noi democratici a volte dal territorio sembriamo spariti», fa le prove da giovane leader Youness Elorch, ventitré anni, cresciuto a Imola ma nato in Marocco, vicino a Casablanca. Youness studia giurisprudenza a Bologna e vuole fare l’avvocato, «o anche il questore, ma prima mi devono dare la cittadinanza». E poi c’è la politica: iscritto al Pd dal 2008, milita nei Giovani democratici e in una serie di associazioni che si occupano di integrazione scolastica. Consigli ai maggiorenti del partito: «In politica non devi mai perdere la speranza, noi immigrati stiamo facendo crescere questo paese, questo deve dire il Pd. A volte però sembra che abbiano paura di perdere l’elettorato e allora fanno proposte che si capiscono poco, non è così che conquisti voti».
La sala di via Sant’Andrea delle Fratte, convocata da Livia Turco, Marco Paciotti e Khalid Chouaki per il Forum sull’Immigrazione, è piena di ragazzi come lui. Ventenni, figli di immigrati, ma anche imolesi, bolzanini, padovani. E iscritti al Pd. Le parole «chiare» che gli interventi provano a rimettere in fila, in realtà, sono parecchie. Voto agli immigrati, cittadinanza ai ragazzi cresciuti in Italia. Livia Turco ne indica una, in particolare.
«Non si può pensare di espellere una persona che non superi il test di lingua e cultura italiana», spiega indicando l’abrogazione del decreto che introduce il test o l’espulsione, ora all’esame della Conferenza Stato-Regioni, come prossima battaglia «da vincere».
ITALIANO PER DIRITTO, NON PER FORZA
L’alternativa è promuovere davvero la conoscenza dell’italiano. Magari mettendoci qualche soldo. Quello che suggerisce la proposta di legge di cui lei è prima firmataria. Ispirata alle 150 ore, prevede meccanismi premiali per chi impara l’italiano e un permesso di tre ore settimanali per frequentare i corsi che il governo dovrà promuovere. Perché altrimenti metti anche questo in mano ai privati. E infatti conferma Filippo Miraglia, dell’Arci Immigrazione la speculazione è già partita. All’ordine del giorno dell’assemblea, però, c’è soprattutto, il documento approvato a Varese durante l’assemblea nazionale. L’idea che il destino di chi vuole venire in Italia si decida con un percorso «a punti», in particolare, non trova gradimento. Critica l’Arci: «I leader politici del Pd devono cambiare linguaggio, certe parole come “selezione” le lascino perdere», suggerisce Miraglia (Arci Immigrazione). Perplesse le Acli. «La mia paura è che anche nel Pd alcuni non avendo la forza di affrontare il tema dell’integrazione spostino il dibattito su proposte che non hanno molto senso», spiega lo stesso Couauki, che della rete G2 è un po’ l’artefice. «Dobbiamo decidere se il punto sono i diritti o l’utilità degli immigrati», spiega Sergio Gaudio, del Forum romano. «Siamo riusciti a dare alla Lega la sponda per essere d’accordo con noi, ma noi è all’elettorato leghista che dobbiamo guardare, quello lo catturi se stai sui problemi», spiega Ramzi Ben Romdhane, impiegato in una ditta metalmeccanica, 25 anni e un marcato accento reggiano, anche se è nato in Tunisia. Lui, per dire, eletto consigliere comunale del Pd a Quattro Castelle (Reggio Emilia), ha affrontato il più concreto dei problemi. Quello delle «puzze» nei condomini con un porta a porta per spiegare le differenze culinarie. Più della Lega lo preoccupano i tagli al welfare. «L’integrazione si fa con i servizi sociali ma se li tagli anche dove funzionano è finita», dice pensando al Centro di Quattro Castelle («un ex garage») dove le mamme immigrate possono studiare l’italiano mentre un educatere segue i loro bambini.
Welfare potenziato e aperto a tutti come alternativa alla Lega, lo schema è condiviso. «La risposta al “prima gli italiani” è fare una battaglia comune per difendere i servizi sociali, la scuola, i diritti sul lavoro», suggerisce Livia Turco. Poi, però, ribadisce, «dobbiamo rispondere anche alla domanda centrale: come si entra in questo paese? Certo non bloccando i flussi come ha fatto il governo». La sua idea spiegacontinua ad essere un criterio per ancorare gli ingressi al lavoro. E accanto all’idea dell’accesso a punti, di cui si continuerà a discutere, nel documento di Varese ce ne sono altre che trovano già ampia condivisione: l’ingresso per la ricerca di lavoro e quello garantito dagli sponsor. Prossimo appuntamento a febbraio: Conferenza sull’immigrazione.

il Fatto 6.11.10
La Carta offesa a Predappio
Il raduno per celebrare la marcia su Roma realizza l’apologia del fascismo e offende gli italiani: la legge, sarebbe ora di capirlo, va difesa sempre, contro tutte le violazioni
di Maurizio Viroli


Domenica 31 ottobre, nella ridente cittadina di Predappio, qualche migliaio (ma i numeri hanno poca importanza) di individui hanno offeso pubblicamente la Costituzione rendendosi apertamente responsabili del reato di apologia del fascismo ai sensi della legge n. 645 del 1952, nota anche come legge Scelba (democristiano, è bene ricordarlo, non un fazioso comunista). Mi riferisco al raduno per celebrare la marcia su Roma che, a detta dei fascisti, portò Mussolini al governo (ma è una solenne cretinata perché Mussolini andò al governo chiamato da quel delinquente del re), e segnò l’inizio del regime che ha regalato all’Italia ventuno anni di totalitarismo, guerre coloniali combattute con crudeltà bestiale, una guerra mondiale e una guerra civile.
CHE UN EVENTO del genere insulti la coscienza di chiunque abbia ancora un minimo di intelligenza e di sensibilità morale non dovrebbe essere difficile da capire, visto che il fascismo è nato e vissuto per offendere in ogni modo la dignità della persona umana, imponendo il silenzio, uccidendo a freddo, torturando, imprigionando, condannando al confino. Ed è del pari facile capire perché oltraggia la Costituzione dato che tutta la nostra Carta fondamentale è antifascista e contiene una norma finale, la XII, dove si legge: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Che poi ci siano gli estremi di reato (con relative pene e multe, allora in lire) lo afferma la legge in questione. Art. 1: “Riorganizzazione del disciolto partito fascista. Ai fini della XII disposizione si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. Art. 4: “Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, indicate nell'articolo 1 è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 400.000 a lire 1.000.000. Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni”. Art. 5: “Manifestazioni fasciste. Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da 400.000 a 1.000.000 di lire”. Se, come è molto probabile, visti i precedenti, i partecipanti all’oscena parata di Predappio si sono resi responsabili dei reati così bene descritti mi pare evidente che devono essere perseguiti ai sensi della legge. E se la polizia e i carabinieri avessero ravvisato la volontà manifesta di delinquere non avrebbero dovuto vietare la manifestazione? Se non sbaglio, mi corregga Travaglio, vige in Italia l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 della Costituzione). E dunque le autorità preposte non si assumono, tollerando, una pesante responsabilità?
MA PRIMA della responsabilità penale c’è quella morale e c’è quella politica. La prima impone ad ogni essere umano (cittadino o non cittadino) di alzare una ferma, civile, pacata voce di protesta (e i cattolici e la Chiesa, taceranno anche questa volta di fronte a gente che offende la coscienza cristiana?). La seconda impone alle autorità politiche, a cominciare dai sindaci di Romagna, dal presidente della Provincia e dal presidente della Regione di esprimere almeno la più severa condanna e di invitare la magistratura ad intervenire. La legge, sarebbe ora di capirlo, va difesa sempre, contro tutte le violazioni. Solo in questo modo la lotta per la legalità acquista forza e credibilità.
LA VICENDA di Predappio, offre, per fortuna, anche una bella occasione. La vedova di uno dei figli ha minacciato di far traslare le ceneri di Mussolini da Predappio a Roma. Se fossi di Predappio accoglierei la proposta con entusiasmo e farei di più e meglio. Mi attiverei affinché le ceneri di Mussolini siano disperse in mare, fuori dalle acque territoriali italiane, come hanno fatto in Israele con le ceneri di Eichmann. Questo sarebbe vero atto di pietà per chi ha perso la vita e ha sofferto per colpa di quel criminale di Benito Mussolini e un dovuto atto di rispetto per l’Italia, che per il fascismo e del fascismo dovrà sempre e solo vergognarsi.

il Fatto 6.11.10
«La scena cambiò quando sulla terrazza entrò la madre e vidi quest'uomo infantilizzarsi, sdilinquirsi in bacini e bacetti, in un puci-puci imbarazzante. Era lì, come sempre, l'origine della sua omosessualità.»
Le colpe di Pier Paolo
di Massimo Fini


H o incontrato per la prima volta, nel settembre del 1974, Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre in questi giorni, mi pare senza particolari celebrazioni, il 35° anno dalla tragica morte, una morte molto pasoliniana. Lo andai a trovare nella sua casa romana, all'Eur, per intervistarlo sul "Fiore delle Mille e una notte" uscito da poco. Non c'era intorno a lui alcun odore di zolfo. Normale, piccolo borghese, era il quartiere dove abitava, così come la sua casa, con i centrini sotto i vasi di fiori, i ninnoli, i comodini e tutto quanto. Una casa piccolo borghese. Mentre parlavamo sulla terrazza, in un dolce mattino di fine estate, lo osservavo con attenzione. Non aveva, Pasolini, a differenza di tanti altri intellettuali italiani (parlo di quelli di allora, s'intende), la conversazione spumeggiante, il linguaggio pirotecnico, la citazione seducente, ma il modo di parlare piano, pacato, rettilineo, modesto di chi è profondamente consapevole della propria cultura e perciò non la esibisce. E in questa atmosfera anche le cose che diceva, le stesse che scritte suscitavano scandalo, irritavano o entusiasmavano, parevano cose normali, elementari e quasi banali. I gesti erano misurati, tranquilli. Solo il volto di Pasolini era un po' diverso, un volto profondamente segnato, un volto quasi da Cristo, ma un Cristo molto diverso dal terribile "Cristo putrefatto" di Matias Grünewald o, tanto meno, dal Cristo oleografico dell'iconografia cattolica. Insomma, anch'esso, un Cristo molto normale, un Cristo piccolo borghese.
Pasolini non aveva, nei gesti, nel parlare, nel modo di porgersi, nulla della "checca". Era anzi piuttosto virile. La scena cambiò quando sulla terrazza entrò la madre e vidi quest'uomo infantilizzarsi, sdilinquirsi in bacini e bacetti, in un puci-puci imbarazzante. Era lì, come sempre, l'origine della sua omosessualità. Mi invitò a pranzo. Per Pasolini infatti l'intervista non era, come di solito, una partita burocratica in cui l'intervistato cerca di stendere sul tappeto le proprie bellurie, disinteressandosi completamente dell'interlocutore. Era un incontro. Mi fece molte domande, su di me, sul mio lavoro, sulla mia vita. Nel pomeriggio arrivò Ninetto Davoli e cominciò a manifestarsi il Pasolini sulfureo. La sera mi caricò sulla sua Bmw e mi portò, come sarebbe accaduto un altro paio di volte, a cena in una bettola di un quartiere periferico, mi pare la Magliana. Ogni tanto si avvicinavano dei ragazzi, le classiche "marchette", e ci scambiava due chiacchiere. Uno di questi lo avrebbe ucciso. L'intellighentia di sinistra italiana, nella sua ipocrisia, non ha mai accettato che Pasolini fosse morto com'è morto. Come minimo doveva essere stato un complotto dei "fascisti", fantasticheria cui diede voce per prima la Fallaci che aveva orecchiato qualcosa dal parrucchiere. E invece andò proprio così. "Pino la rana" si ribellò a una richiesta sessuale particolarmente umiliante di Pier Paolo e contando sui suoi diciassette anni, nonostante Pasolini fosse ancora un uomo atletico (giocava a calcio, che gli piaceva moltissimo) lo ha ammazzato. Così come questa intellighenzia non ha mai capito che il fondo oscuro di Pasolini era proprio l'humus necessario al suo essere artista e, soprattutto, un grande, un grandissimo intellettuale. Non si può trattare qui, in poche righe, l'opera di Pier Paolo Pasolini, mi piace solo ricordarne una frase che scrisse nel 1962 inserita ne "Le belle bandiere": «Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell'uomo: l'epoca dell'alienazione industriale».

il Riformista 6.11.10
Ecco perché a Vendola piace tanto Don Verzè
di Samantha Dell’Edera

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http://www.scribd.com/doc/41252358

Terra 6.11.10
L’Unità nazionale tra cinema e tv
di Alessia Mazzenga

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http://www.scribd.com/doc/41251721

venerdì 5 novembre 2010

Corriere della Sera 5.11.10
Sondaggi e disagio dei moderati, Pd fra due fuochi
I dati: gli elettori bocciano l’alleanza con l’Udc, ma per l’area cattolica il partito è troppo a sinistra
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Non vogliamo le elezioni perché con questo sistema elettorale uno con il 34 per cento dei voti può fare il presidente della Repubblica». Quando Pier Luigi Bersani ha pronunciato questa frase, in una conferenza stampa, qualche giorno fa, i giornalisti hanno pensato a un lapsus — freudiano o meno — perché quelle parole equivalevano ad ammettere che il Pd teme ancora che, scandali o non scandali, Berlusconi possa vincere le elezioni.
Ma di lapsus non si è trattato, anche se, naturalmente, una frazione di secondo dopo il segretario ha tentato di rettificare. Già, i sondaggi riservati a disposizione del Partito democratico sono tutt’altro che confortanti e quindi quella frase dal sen fuggita è più che comprensibile. Non si tratta solo della percentuale attribuita al Pd, ma anche dell’immagine che quella forza politica rimanda all’esterno. E gli ultimi dati hanno fatto riflettere il gruppo dirigente.
Li ha portati mercoledì scorso, direttamente al leader, Giacomo Portas che per Contacta si occupa della divisione ricerche e sondaggi d’opinione. In genere la società lavora con le imprese un po’ in tutto il mondo, ma siccome Portas è anche un deputato, eletto con i Moderati per il Piemonte e iscritto al gruppo del Partito democratico, si fanno anche sondaggi che riguardano la politica italiana. I risultati non sono lusinghieri per il Pd. C’è quel 23-24 per cento entro cui oscilla il partito, senza un minimo accenno a una possibile inversione di tendenza. E c’è la percezione che gli elettori hanno del Pd: l’ottanta per cento degli intervistati vede il Pd come una forza decisamente di sinistra, non di centrosinistra, il restante lo percepisce come una forza troppo schiacciata su Casini e Fini.
Spiega Portas (che queste cose le ha dette anche a Bersani per un’ora e mezzo): «Noi abbiamo perso voti sul fronte moderato. Il Pd che con Veltroni inglobava pure quell’elettorato, ora lo ha perso. Del resto se siamo passati dal 33 e rotti per cento al 23-24 un motivo c’è». Bersani ha ascoltato con interesse anche un altro ragionamento, legato a un ennesimo sondaggio. La cui domanda era testualmente questa: «Se domani ci fossero le elezioni, lei voterebbe per un nuovo partito di centro moderato, alleato con il centrosinistra?». Domanda secca, risposta: l’11 per cento lo voterebbe. Ulteriore spiegazione di Portas a Bersani: «C’è un mercato di centro che il Pd non riesce più a cogliere: prima, quando Veltroni si è inventato il partito maggioritario, votavano per noi, ora non più e pensano piuttosto a una nuova formazione». Con Beppe Fioroni, che è suo amico, il deputato è stato ancora più esplicito su quei dati: «Il vestito che indossava Walter ora si è ristretto, prendiamone atto. E noi rischiamo di scendere anche fino al 20 per cento se continuiamo così, con il terzo polo che si presenta autonomamente e ci mangia altri voti. Invece possiamo sperare di risalire al 27-28». Ossia alle percentuali delle regionali. Bersani, comunque, ha ascoltato con attenzione il suo interlocutore. E non solo perché fa sondaggi: con il suo movimento Portas, che fino al 2005 militava in Forza Italia, è riuscito a superare l’Udc a Torino, quindi è un alleato prezioso in un capoluogo dove l’anno prossimo si tornerà a votare. E dove i Moderati torneranno a coalizzarsi con i Democrats, perché, spiega il deputato, «io stimo Bersani e per questo non ho firmato documenti, tipo quello dei 75».
«Se il Pd non riesce ad attrarre i moderati forse sarebbe il caso di creare un’altra gamba di centro — è stata la prosecuzione del ragionamento che Portas ha fatto con il segretario — ma non parlo dell’alleanza con Casini e tanto meno con Fini, che quella non la capiscono proprio. Gli elettori percepiscono l’Udc come ambiguo. Nelle Marche sta con il Pd, nel Lazio con il Pdl e Storace. E infatti nei sondaggi non aumenta. Ci vorrebbe una creatura politica nuova».
Il discorso si è chiuso qui. Ma nella testa di Bersani è suonato un campanello d’allarme. Non è che qualcuno sta seriamente pensando a una mini-scissione per organizzare un altro partito, nel caso in cui non vi siano elezioni? Del resto, molti ex popolari sono in sofferenza: Fioroni ha confidato ai colleghi di partito che «è sempre più difficile tenere tutti dentro: io faccio da freno, ma man mano che ci spostiamo a sinistra, faccio sempre maggior fatica a convincerli a non andarsene». E alcuni moderati, effettivamente, se ne sono già andati: diciotto parlamentari sono usciti dal Pd da quando Bersani è segretario, nonostante la passione e l’impegno con cui il leader sta assolvendo al suo ruolo. Ma non basta, evidentemente.

Repubblica 5.11.10
Pd, ora Bersani non esclude la piazza "Se Fli non rompe ci serve un piano B"
Si valuta la mozione di sfiducia, ma senza Fini è un´arma spuntata
"Se domenica Fini dirà andiamo avanti così toccherà a noi far ballare l´orso"
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Se domenica Fini dirà "andiamo avanti così" toccherà a noi far ballare l´orso». Pier Luigi Bersani prepara il piano B, il brusco cambio di strategia. Basta attendere Godot. Il presidente della Camera non stacca la spina? Toccherà ai democratici farsi sentire. Il punto è come. Lo strumento parlamentare è un´arma a salve. «Potremmo fare una mozione di sfiducia. Ma senza Fli non ci sono i numeri. Le chance sono minime». Il Pd ragiona allora sulla mobilitazione di piazza. «Vedremo. Davanti alla prospettiva del governo tecnico Berlusconi minaccia di portare il popolo in strada. La Lega annuncia la rivolta della sua gente - ricorda Bersani prima di infilarsi in auto dopo un convegno sul welfare - . Ma se davvero vanno avanti così saremo noi a dover usare un mezzo di quel tipo».
La speranza del governo istituzionale sta facendo pagare un prezzo pesante al Partito democratico. A quell´orizzonte complicato si devono in parte i dati allarmanti dei sondaggi e le voci critiche nel mondo del centrosinistra (Renzi e Vendola, innnanzitutto). Bersani non rinnega la proposta di un´alleanza costituzionale: «Se Fini dovesse fare lo strappo un po´ di merito andrebbe anche al nostro pressing». Se però tirano a campare? «Il Pd risponderà», garantisce Bersani. A Largo del Nazareno si ragiona perciò su una manifestazione nazionale. Con l´incognita di doverla organizzare a dicembre, periodo poco propizio per i cortei. Un´altra idea è trasformare l´assemblea convocata a Napoli il 4 dicembre in evento più grande, un raduno di denuncia dello stallo berlusconiano.
Certo, la piazza è uno strumento per niente gradito dai potenziali alleati del governissimo come l´Udc. Ma il Pd non può più permettersi di stare a guardare. Pierluigi Castagnetti lo ha scritto ieri su Europa. «Abbiamo accettato di subordinarci alla strategia di altri con risultati magri - scrive l´ex segretario del Ppi - . Adesso occorre giocare la nostra scommessa. Presentiamo una mozione di sfiducia anche se non funziona. Anzi, una la settimana».
Fino a domenica Bersani insisterà nel suo appello a tutti: a Berlusconi, alla Lega, a Fini. Staccate la spina, voltiamo pagina. «Non per tatticismo, ma per la situazione di non governo. E per un´indignazione anche personale», spiega. Per esempio: «E´ giusto che Berlusconi vada ad aprire la conferenza sulla famiglia? Non per ragioni etico-morali ma per ragioni politiche». Il voto in commissione Bilancio, dove una nuova maggioranza con Fli ha mandato sotto il governo, spinge Dario Franceschini ad annunciare: «La maggioranza non c´è più». Sono le stesse parole di Massimo D´Alema: «Bisogna prenderne atto e girare pagina». Bersani, mercoledì, ha voluto incontrare anche Walter Veltroni. Per serrare le fila del Pd. Dimenticate le polemiche sul gruppo dei 75, insieme hanno fatto il punto della situazione. E nel corso del seminario della fondazione Democratica, con Enrico Letta e Marco Follini, l´ex segretario del Pd rilancia il governo modello Ciampi come aveva fatto su Repubblica: «Andare al voto sarebbe un´avventura pericolosa». Ma Veltroni segnala anche la debolezza del Pd: «Manca un´alternativa vera. Questo dipende anche dal mutamento del Partito democratico». Anche Nicola Zingaretti ha dubbi sull´efficacia dell´azione democratica. «Bersani ha ragione: prima di tutto la ditta - dice a Repubblica Tv - . Ma per difenderla bisogna anche cambiarla. È evidente che c´è qualcosa che non va».

Corriere della Sera 5.11.10
Tra Londra e Israele manette e incidenti
di Francesco Battistini


Certe visite di Stato sembrano solo una photo opportunity. Quella in Israele di William Hague, ministro degli Esteri inglese, è stata un photo finish: una corsa sul filo per evitare che precipitassero i (già non buoni) rapporti fra i due Paesi. È stato all’ultimo minuto che Dan Meridor, vicepremier israeliano, ha dovuto cancellare un contemporaneo viaggio a Londra, perché una denuncia per «crimini di guerra» presentata da un gruppo filopalestinese rischiava di trasformarsi in un clamoroso ordine d’arresto; è stato all’ultimo istante che Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri israeliano, s’è vendicato sospendendo il «dialogo strategico» fra i due governi, ovvero una serie d’incontri periodici su difesa e sicurezza; è arrivata sul filo di lana la promessa inglese di rivedere la legge sulla competenza universale, ovvero quella norma che permette a un qualsiasi giudice Garzón del Regno, sulla base di qualsiasi denuncia, di processare qualsiasi leader straniero.
Incidente chiuso? Per nulla. In Gran Bretagna, dalla guerra di Gaza di due anni fa, il tintinnio delle manette per i politici israeliani è diventato una tradizione. Da Olmert a Tzipi Livni, per non dire di Barak che una volta fu quasi costretto alla fuga, il brivido è toccato a tutti. A Gerusalemme sono furiosi: o d’Israele viene riconosciuta una responsabilità penale internazionale, nel dossier Palestina, oppure non si vede perché i suoi dirigenti — quando entrano in quel pezzo dell’Ue — siano trattati come un Milosevic qualsiasi. Nelle università inglesi, tra l’altro, i capi di Hamas vengono invitati senza che rischino nemmeno un interrogatorio. Certo, gl’israeliani ci mettono del loro nello scansare le condanne Onu su Gaza o le inchieste imparziali sulla strage degli attivisti turchi. Ma ci sono altri strumenti per manifestare il dissenso dalle politiche di Netanyahu: Londra, per esempio, ricorre già con efficacia al boicottaggio dell’ortofrutta proveniente dalle colonie illegali. Perché se si vuole prenderli a pomodorate, è un diritto: prendere le impronte digitali, è una sciocchezza.

Corriere della Sera 5.11.10
Protesta contro i tagli alle mostre, il 12 novembre la serrata dei musei
di Edoardo Sassi


Modalità diverse in ogni città. Aderiscono Triennale di Milano, Capitolini, Maxxi, Fai

Porte chiuse per un giorno in un centinaio di musei e monumenti d’Italia, dalla Cappella degli Scrovegni di Padova, al Palazzo Ducale di Venezia, ai Musei Capitolini di Roma.
Anche il mondo della cultura si mobilita contro i tagli del governo Berlusconi, in parte già contenuti nella manovra finanziaria approvata in estate con la legge 122/2010, e sceglie l’Auditorium di Roma — dove fino a oggi si sta svolgendo il Festival del Cinema — per lanciare la sua protesta: un’inedita serrata bipartisan di una parte dei musei civici pubblici decisa per sabato 12 novembre. Un’iniziativa che seguirà dunque la già avvenuta occupazione del red carpet del Festival durante l’inaugurazione di giovedì scorso da parte di registi, attori e altri lavoratori del mondo dello spettacolo, anche loro mobilitati contro il governo.
Stavolta sotto accusa — e ad animare la protesta sono infatti soprattutto gli enti pubblici locali — c’è in particolare una norma della legge 112, quella che riduce al venti per cento (cioè taglia dell’80) il limite imposto alle spese per mostre e altre attività culturali di Regioni, Comuni e Province rispetto a quanto da loro stessi investito nel 2009.
Ad annunciare ieri la mobilitazione nazionale (denominata «12 novembre 2010, Porte chiuse e Luci accese sulla cultura»), con richiesta al ministro per l’Economia Giulio Tremonti di abrogare almeno alcune di queste norme, sono stati l’Anci (Associazione dei comuni italiani), tramite il suo delegato e assessore a Genova Andrea Ranieri, Umberto Croppi, assessore alla Cultura nella giunta Alemanno, e Roberto Grossi, presidente di Federculture, sigla che raggruppa 158 tra enti e aziende per la gestione di servizi legati a cultura e tempo libero (tra i principali e aderenti all’iniziativa, Fondazione Musica per Roma, Triennale di Milano, Maxxi, Fondazione Torino Musei).
Al loro fianco anche il Fai, Fondo ambiente italiano, che ha annunciato per il 12 novembre la chiusura dei suoi tredici siti di norma accessibili: Villa Gregoriana a Tivoli, Villa e collezione Panza di Biumo a Varese e Villa Necchi Campiglio a Milano, tra gli altri. Ampia ma diversificata per ora, data anche l’eterogeneità dei soggetti coinvolti, la partecipazione di amministrazioni, aziende, biblioteche e parchi. Tra i tanti soggetti che hanno già aderito alla protesta, oltre ai Comuni di Roma, Venezia, Torino, Padova e Bari, Unione delle Province, Conferenza delle Regioni e Associazione siti Unesco. E altre adesioni sono state annunciate per le prossime ore.
La serrata non riguarderà comunque musei e aree archeologiche statali dipendenti dal ministero per i Beni culturali (Colosseo, Uffizi, Brera, Pompei..) bensì una parte, neanche tutta, di quelli di competenza locale. Ci sono poi Comuni (e tra questi, stando a quanto detto ieri, Milano) che pur aderendo si stanno orientando verso una protesta più soft, ad esempio promuovendo aperture straordinarie gratuite per un giorno. Lo stesso farà l’Auditorium a Roma per un concerto già in programma. Mentre al Maxxi, Fondazione che dipende dallo Stato, sarà posticipato di un’ora l’ingresso.
L’auspicata serrata totale si scontra in realtà con resistenze politiche, sindacali, organizzative e legali (interruzione di pubblici servizi). Dunque ogni città farà a modo suo. Genova ad esempio chiuderà due musei, Palazzo Bianco e Palazzo Rosso, ma aprirà gratis gli altri. Roma, oltre ai Capitolini, chiuderà Macro e Palaexpò, ma non le Scuderie del Quirinale.

Repubblica 5.11.10
Il re del mondo
Controlla un quinto della popolazione del pianeta, può spostare fiumi e metropoli. Ecco perché Forbes "incorona" il leader cinese Hu Jintao
di Giampaolo Visetti


Il 2010 è stato un anno formidabile per i cinesi. Che si chiude con l´incoronazione del presidente da parte della rivista Forbes come l´uomo più influente del pianeta. È un passaggio di consegne personale tra lui e Obama, che scivola al secondo posto. Ma anche nazionale: la Cina rileva lo scettro detenuto per sessanta anni dagli Usa come motore del mondo Per gli analisti americani il leader "piega in vari modi la Terra alla sua volontà" Pechino ha il primato delle missioni sullo spazio e delle tecnologie Hu Jintao esercita un controllo dittatoriale su un quinto della popolazione mondiale, è alla guida del più grande esercito della Terra. È in grado di spostare fiumi, costruire e trasferire metropoli, mettere in carcere dissidenti, censurare Internet senza ingerenze burocratiche

Il 2010 sarà ricordato dai cinesi come un anno formidabile. Pechino ha frantumato tutti i record possibili ed è tornata ad essere l´epicentro del pianeta. L´anno della Tigre si era aperto con il sorpasso sul Giappone, che ha proiettato la Cina al secondo posto tra le potenze economiche globali. Si è chiuso idealmente ieri, con l´incoronazione del presidente Hu Jintao quale uomo più potente del mondo. È la prima volta nella storia che un leader cinese raggiunge il vertice della potenza politica, lasciando alle sue spalle i decisori dell´Occidente. Il fatto che a prendere atto di tale cambio di peso sia la rivista americana Forbes, bibbia del costume capitalista, è essenziale. La bussola degli Usa non sancisce solo la somma degli eventi che hanno segnato gli ultimi mesi. Stabilisce un passaggio di consegne. Personale, tra Hu Jintao e Barack Obama, scivolato al secondo posto. Ma soprattutto nazionale e globale, con la Cina motore dell´Oriente che rileva lo scettro detenuto per sessant´anni dagli Stati Uniti anima dell´Occidente.
Leggere una resa nella classifica di Forbes sarebbe però un errore. Che la locomotiva del pianeta, unica grande potenza ad essere uscita rafforzata dalla crisi del 2008, non possa essere condotta da un pilota di secondo piano, è una consapevolezza tardiva. Ma Forbes muove un passo più in là. Per la prima volta segnala che «il potere può essere usato per il bene, ma pure per il male». Evita di inserire Hu Jintao dalla parte dei cattivi, ma spiega i «criteri nuovi» che lo hanno spinto al primo posto tra i 68 individui che rappresentano i 6,8 miliardi che compongono l´umanità. Per i capi di Stato, gli analisti americani hanno considerato le dimensioni della popolazione controllata e la tendenza del Pil nazionale. Su questo piano, con 1,4 miliardi di abitanti e una crescita annua del 10%, la Cina e Hu non hanno rivali.
Forbes quest´anno ha cercato così di capire chi è «il leader che, in vari modi, piega il mondo alla sua volontà». Il segretario generale del partito comunista cinese è stato scelto perché «è il leader politico fondamentale più di chiunque altro per il maggior numero di persone, in quanto esercita un controllo pressoché dittatoriale su un quinto della popolazione mondiale». È un attacco che a Pechino, ancora scossa dal Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo, non è passato inosservato. La rivista Usa ha aggiunto infatti che, «a differenza dei suoi colleghi occidentali, Hu è anche alla guida del più grande esercito del mondo ed è in grado di deviare fiumi, costruire e spostare metropoli, mettere in carcere dissidenti e censurare Internet, senza ingerenze di fastidiosi burocrati, o di tribunali»
Per la Cina, che a tarda sera ha affidato all´agenzia di Stato l´unico commento ufficiale, è l´ennesima prova che «all´imperialismo occidentale non restano che premi simbolici per tentare di fermare la crescita dell´Oriente». La lettura cinese è che «la rivista del lusso in disarmo dell´America», abbia proiettato Hu Jintao sul tetto del mondo per «lanciare l´allarme sul pericolo che il pianeta si stia consegnando nelle mani di regimi autoritari». È una conclusione estrema ma Forbes, riferendosi agli «esseri umani comandati oggi da una sola persona», non ha rinunciato ad una sottolineatura inquietante. «La Cina - scrive la rivista - rifiuta di piegarsi alle pressioni per cambiare tasso di cambio della sua moneta e gestisce la più grande riserva mondiale di valute estere, pari a 2650 miliardi di dollari». Il leader cinese avrebbe cioè conquistato il primato del potere 2010 grazie alla volontà finanziaria di tenere in pugno il destino degli individui della terra attraverso il ricatto della svalutazione competitiva e dell´investimento nei debiti pubblici di Usa, Europa e Giappone.
Proposto sotto tale luce, lo scoop di Forbes è che il capo del regime post-comunista cinese regna già concretamente sul destino non solo dei cinesi, ma su quello di una comunità internazionale che non vuole rendersene conto.
Non sarebbe una buona notizia, per il mondo che cerca faticosamente di smarcarsi dall´unilateralismo americano. Ma è vera? E chi è realmente l´uomo più potente del pianeta, cos´è oggi la Cina che egli impone quale protagonista assoluto del secolo? I cinesi, che non confondono la figura del leader con le dimensioni della loro nazione, sanno che Hu Jintao non può comandare il mondo.
Le ragioni sono quattro. La Cina è ormai il Paese che fa meno figli della terra e, a differenza dell´India, entro trent´anni sarà una nazione di vecchi privi di assistenza. A Pechino non comanda il presidente, ma il «Partito», autentica e unica onnipotenza. Hu cesserà il suo mandato tra poco più di un anno e assieme a lui sarà sostituito anche il potere dei suoi protetti. Il prossimo leader cinese, Xi Jinping, non appartiene alla sua squadra di «tecnocrati riformisti», ma a quella avversaria, formata dai «principi rossi conservatori». Al posto dei «giovani nati poveri» che volevano «modernizzare la nazione», allievi di Deng Xiaoping, andranno i «figli dei rivoluzionari maoisti» decisi a «ristrutturare la patria», secondo le indicazioni di Jiang Zemin. Il fatto che il capo della Cina non venga eletto dal popolo, e che Hu a metà ottobre sia stato rottamato dalla maggioranza del «Partito», che ha voltato le spalle anche al premier Wen Jiabao, significa che Forbes propone all´attenzione globale un leader già sul viale del tramonto e ormai sotto tutela. Una classifica più analitica, decisa a portare il fenomeno-Cina all´attenzione internazionale, avrebbe ignorato la funzione e privilegiato la sostanza, assegnando il primato dell´influenza mondiale al «Partito comunista cinese», o a Xi Jinping, l´uomo oggi realmente più temuto dai cinesi, nonché quello che determinerà la nostra sorte fino al 2022. È chiaro però che nel 2010 l´attenzione non si è rivolta a un individuo, alle soglie dei settant´anni, ma all´universo che egli simboleggia. Hu Jintao è il più grigio burocrate a cui la Cina si sia affidata dopo la morte di Mao Zedong. Non un colpo d´ala, in quasi dieci anni di potere, non una scelta decisiva. I cinesi lo considerano un «reggente di transizione partorito dai veti incrociati dei nuovi lobbisti del business». Il resto del mondo lo ricorda invece per le repressioni in Tibet e nello Xinijang, per la censura e la violenza con cui ha stroncato ogni forma di dissenso. «Ha tenuto il posto - confidano i suoi stessi funzionari - deciso a lasciare ogni problema in eredità al successore».
Lo scenario cambia se si considera invece la Cina, destinatario effettivo della menzione di Forbes. La crescita della sua potenza, nel 2010, è stata impressionante. Tallona ormai gli Usa nell´economia, cresce del 10% da un decennio, è diventato il primo mercato dell´auto, dei treni ad alta velocità e del traffico aereo, il primo esportatore e il primo importatore di beni del mondo. Entro il 2025 sarà la nazione-guida del pianeta e in pochi mesi ha sottratto agli Stati Uniti lo scettro dell´energia verde, quello delle missioni nello spazio, del numero di miliardari e di appartenenti alla classe media. «Made in China» è per la prima volta il computer più veloce, la massa più grande di laureati, il record dei brevetti e la velocità della crescita di banche e mercati finanziari. La Cina si è riaffacciata militarmente nel Pacifico, rivendicando isole e tratti di mare che nel dopo-guerra erano finiti nell´orbita del Giappone, degli Usa, o di altre nazioni del Sudest asiatico.
È diventata il riferimento politico, l´esempio economico e lo sponsor militare delle nazioni emergenti, dall´Africa, all´America Latina, all´Asia.
Questa «Cina-Hu Jintao», dallo sfruttamento della mano d´opera a basso costo, si è spostata infine sull´alta tecnologia e sulla produzione delle nuove materie prime, indispensabili per l´industria del futuro.
Sotto questo aspetto, l´uomo che ufficialmente governa oggi la Cina domina sostanzialmente il presente di tutti. Il mondo però, come segnala Forbes indicando il potere di Bin Laden, o del dittatore nordcoreano Kim Jong-il e di suo figlio, o di un paio di criminali internazionali, non finisce con i tassi di crescita e le riserve delle banche centrali. Il 2010 sarà ricordato soprattutto come l´anno del Nobel a Liu Xiaobo, il dissidente cinese che dal carcere sta svelando l´impotenza reale di Hu Jintao. La reazione di Pechino al premio di Olso ha confermato la fragilità di un sistema, e di una classe dirigente, incapaci di tenere il passo della crescita e della società. L´uomo più potente del mondo ha paura di uno scrittore condannato a 11 anni per aver proposto «riforme politiche e rispetto dei diritti umani» ed è costretto oggi a tenere un premio Nobel in prigione e un altro, il Dalai Lama, in esilio. Ad arrestare e torturare chi esprime le proprie idee e professa la propria fede, a censurare Internet, a rinchiudere nei «campi di rieducazione» milioni di persone e a paralizzare le altre con la propaganda. Il leader che nel 2010 ha governato il pianeta, in patria è un vecchio funzionario prossimo alla pensione, ostaggio di un Partito-Stato sotto choc. Forbes segnala che questo mix di esplosione economica e implosione politica, privo di proposte e di culture nuove, inizia però a decidere per tutti. La Cina di Hu Jintao adesso è in testa: meglio saperlo, piuttosto che continuare a fingere di essere importanti.

Repubblica 5.11.10
 L´esperto Richard McGregor: l´attuale leader del Paese è solo il primo tra pari
"Sbagliato personalizzare chi comanda è il partito"
di Alessandra Baduel

"Questo riconoscimento è giusto, se guardiamo alla crescita impetuosa dell´economia e alla fiducia dei cinesi in se stessi"

«La trovo una scelta quasi esatta, però sarebbe stato meglio indicare il Comitato permanente dell´Ufficio politico del comitato centrale del Partito comunista cinese, perché è il gruppo di quelle nove persone a essere potente. Hu Jintao fra quei nove è un "primo fra pari", come diciamo noi». Richard McGregor è l´autore di The Party, The secret world of China´s Communist rulers, un libro che racconta il mondo segreto del vertice politico, per spiegare al resto del mondo quanto il Partito sia potente in ogni campo della vita cinese.
McGregor, l´idea di Forbes è giusta, allora?
«Sarebbe stato più accurato indicare quei nove tutti insieme, anche se non rientra nel metodo di Forbes, perché formano un circolo. Io li descriverei seduti intorno a un tavolo rotondo del quale il presidente occupa il posto principale, ma in cerchio con gli altri. Comunque sì, se guardiamo l´ondata di crescita impetuosa della Cina e la fiducia dei cinesi in se stessi, in confronto agli Stati Uniti, non si può non essere d´accordo. Hanno anche l´economia dalla loro parte».
Dunque Hu Jintao è davvero l´uomo più potente del mondo?
«L´America, è ovvio, ha una forza militare ben più grande e da quel punto di vista sarà la più potente ancora per molti anni, però il presidente Obama è uscito molto male da queste elezioni, lo sappiamo».
Il successore annunciato, Xi Jingping, erediterà anche il medesimo potere?
«Questo dipenderà dal Partito, dagli equilibri politici interni a un organismo che sa essere duro nel monopolio del potere, ma flessibile attraverso una rete di metodi amministrativi - e non soggetti alla legge».

Repubblica 5.11.10
Pio XII
Pacelli e Hitler quel Papa lacerato tra attrazione e paura
Il Vaticano auspicava un Terzo Reich forte ma era spaventato dai rischi di guerra
Per la Curia la Germania doveva essere una barriera contro la Russia sovietica
di Marco Ansaldo


«Pacelli ha chiarito che certi sviluppi del nazionalsocialismo lo preoccupano. La Chiesa si è sempre prodigata per la pace nell´interesse dei popoli, in particolare ora».
È il 16 dicembre 1943, esattamente due mesi dopo la grande razzia degli ebrei il 16 ottobre nel ghetto di Roma. Ed Ernst Kaltenbrunner, capo della Polizia di sicurezza a Berlino invia con urgenza un rapporto ricevuto da Roma a Joachim von Ribbentrop, il ministro degli Esteri tedesco. Il documento è classificato come segreto. Oggetto: "La posizione del Papa sull´attuale situazione bellica e sullo Stato nazionalsocialista". «Il Papa - si legge nel dattiloscritto che arriva sul tavolo del ministro del Terzo Reich - è convinto che, fino a questo momento, la controparte tedesca non ha manifestato la seria intenzione di mutare atteggiamento nei confronti della Chiesa».
Possiamo fidarci di Hitler?, si chiede Pio XII a questo punto della guerra. L´atroce dissidio interiore sulla posizione da prendere durante il conflitto è l´ultima traccia che esce dagli archivi sulla figura di Eugenio Pacelli. Una serie di documenti dai quali emerge rafforzato il profondo dilemma del Papa, e soprattutto il suo amore - travagliato - per la Germania.
Il dramma si consuma nell´Appartamento papale, davanti agli occhi dei suoi interlocutori, come si evince dai comunicati che i "V-Mann", cioè gli informatori, le spie dei nazisti in Vaticano, telegrafano subito dopo a von Ribbentrop. «Il Papa si trova ora - si legge in una pagina dedicata a un colloquio che un agente in incognito ha avuto con il vescovo di Friburgo - in un conflitto interiore straordinariamente grave in rapporto alle sue posizioni nei confronti della situazione mondiale e, in specie, del nazionalsocialismo e del bolscevismo».
L´atteggiamento di Pacelli nei confronti dell´Urss è noto («il Papa nutre una profonda diffidenza nei confronti di Stalin - è scritto ancora - che egli considera una persona su cui non è possibile riporre alcuna fiducia»). E in questi estratti, sequestrati dalle truppe alleate a Berlino nel 1945, e reperiti da Mario J. Cereghino dell´Archivio Casarrubea di Partinico presso i National Archives di Kew Gardens a Londra, non ci sono riferimenti diretti alla comunità ebraica. Ma emerge qui, in tutta la sua forza, la vicinanza del Papa alla Germania - una passione dovuta anche al periodo trascorso come nunzio a Monaco di Baviera - e capace di costringerlo spesso a difenderla a ogni costo.
Il 3 settembre 1943 l´ambasciatore presso la Santa Sede, Ernst von Weizsaecker, scrive: «Un vescovo della Curia mi ha confidato che secondo il Papa, per il futuro della Chiesa è assolutamente necessario un Reich tedesco forte. E da una trascrizione attendibile di un colloquio avuto da un pubblicista politico italiano con il pontefice, apprendo che questi, a una domanda sui tedeschi, ha così risposto: "È un grande popolo. Nella lotta contro il bolscevismo ha versato il suo sangue non solo a beneficio dei suoi alleati, ma anche dei suoi attuali nemici"».
L´8 ottobre lo stesso ambasciatore annota che «l´aspetto più inequivocabile della politica estera vaticana è oggettivamente l´avversione al bolscevismo. Come minimo, la Curia desidera che la Germania sia forte, una barriera contro la Russia sovietica».
È il comunismo la preoccupazione di Pacelli. Lo conferma un´informativa spedita il 23 febbraio 1943 dall´Ufficio esteri tedesco di Bruxelles a Berlino, dove si ricorda che «il Papa è angosciato innanzitutto dalla minaccia bolscevica». Alla fine del 1943 l´Office of Strategic Services Usa redige un documento segreto sulla situazione nella Santa Sede al 13 dicembre. Dove durante un colloquio con Weiszaecker, Pio XII parlando, come d´uso, in terza persona dice: «Il Papa si augura che i nazisti mantengano le posizioni sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario, il comunismo sarà l´unico vincitore in grado di uscire dalla devastazione bellica». Pacelli ha dunque valutato le forze in campo e operato una scelta tra quelle più affidabili per il cattolicesimo. Sono forze che, nella schematizzazione ideologica di Pio XII, si oppongono, soprattutto, al comunismo.


l’Unità 5.11.10
Il paradosso di Pier Paolo
La poesia di Pasolini sugli incidenti di Valle Giulia denunciava l’italica tendenza al fratricidio. Invece fu letta come aggressione ai poliziotti-proletari
di Luigi Manconi


«Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo borghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano».

Trentacinque anni fa moriva Pier Paolo Pasolini. Qui mi interessa evidenziare uno, e uno solo, dei passaggi importanti della sua straordinaria biografia culturale e politica, che corrisponde peraltro a un grave travisamento del suo pensiero. Col trascorrere dei decenni Pasolini e una sua poesia sono stati piegati, strapazzati e manipolati a tal punto da produrre uno stereotipo che sembra dominare incontrastato. Lo stereotipo presto detto è quello di “Pasolini contro gli studenti”. Di quella celeberrima poesia, Il Pci ai giovani (l’Espresso 16 giugno 1968, poi in Nuovi Argomenti), si è fatto un uso tanto disinvolto da proporla come bandiera di un presunto conflitto, profondo e insuperabile, tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista (che si riconosce nel movimento detto “del ‘68”), e il proletariato e il sottoproletariato identificati nel mestiere e nella vita dell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere in qualche modo. Questa falsa rappresentazione non è stata mai messa in discussione ed è diventata dunque una sorta di verità storico-letteraria accettata dall’intero establishment in tutte le sue componenti culturali e politiche. Eppure di essa c’è da dubitare, eccome. Un bravissimo regista, Davide Ferrario, ha voluto indagare sulla questione e ne ha ricavato una interpretazione tutt’affatto differente. Secondo Ferrario, il senso di quella poesia sarebbe stato completamente ribaltato, da letture interessate, rispetto all’ispirazione originaria. Fu lo stesso Pasolini ad argomentarlo puntualmente. A proposito di quei versi così sprezzanti (riportati all’inizio di questo articolo) scrisse: «Nessuno (...) si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore... su ciò che veniva dopo... dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (...) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti: le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica», (il Tempo, 17 maggio 1969).
Certo, si può maliziosamente ipotizzare che questa “lettura autentica” a opera dello stesso Pasolini fosse ispirata anche dalla preoccupazione per le reazioni, talvolta assai aspre, che la sua poesia determinò. E tuttavia, come è potuto accadere che l’interpretazione, offerta dalla fonte più autorevole, ovvero l’autore, venisse totalmente ignorata? Resta da fare una considerazione: quella interpretazione «antistudentesca» (e reazionaria, in senso letterale), che ha prevalso in questi decenni conteneva un grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel 1945 il poeta Umberto Saba: «gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Pasolini mostrava come, negli eventi della fine degli anni ’60 emergesse – intrecciata alla frattura destra/sinistra – una frattura infragenerazionale «di classe». E non perché il movimento degli studenti fosse sociologicamente, o politicamente, borghese o piccolo-borghese (antagonista, dunque, dei «Proletari in Divisa»); ma perché quella stessa lacerazione sociale, che attraversava sotterraneamente il movimento studentesco al suo interno, si riproduceva anche nel rapporto tra il movimento studentesco e gli «altri»: i possibili, riottosi alleati (gli operai, gli «sfruttati» tutti) e i certi, aggressivi nemici (i poliziotti, i carabinieri, i fascisti). Il sovrapporsi di tali fratture (quella destra/sinistra e quella sociale) all’interno della medesima generazione contribuisce a produrre, appunto, una sorta di dinamica fratricida. Il Sessantotto fu anche questo.

il Fatto 5.11.10
Vittorio Sgarbi: “Sono il maestro del sessuoberlusconismo”
di Luca Telese


Ride Vittorio Sgarbi: “Silvio ha scoperto il dongiovannismo tardi. Ha iniziato a praticare la ‘seduzione di massa’ solo dopo la separazione da Veronica. Diciamo pure che oggi si avvicina alla vita che io faccio da anni. Ha l’entusiasmo del neofita, con qualche errore di precipitazione, e gli inevitabili incidenti di percorso di chi improvvisa”. Come si finisce alle 4 del mattino a raccogliere da Sgarbi un incredibile trattato sulla sessualità berlusconiana?
Semplice: scopri da Novella 2000 che il 27 ottobre, il giorno del “Caso Ruby” Vittorio era con Veronica Lario. Una singolare coincidenza, non l’unica, nell’incredibile cortocircuito di vite tra il libertino impenitente di sempre e il libertino premier. Lo chiami di mattina Sgarbi per chiedergli di raccontare. Lui accetta: “Vediamoci all’una”. Gli chiedi dove pranzi, lui ti risponde: “Nooo! All’una di notte!”. Il calendario di Sgarbi merita di essere ricostruito: atterra a Roma, si affaccia a Raidue, passa a Canale 5 Matrix (registrata, che va in onda dopo), esce da Matrix e si fionda ad Exit da Ilaria D’Amico (in diretta, va in onda prima). Esce dagli studi de La7 e va a cena con Gianni Barbacetto e Gioacchino Genchi (erano ospiti con lui). A metà cena scompare. Dov’è andato? Si è seduto ad un tavolo con una coppia di lesbiche. Torna. E l’intervista? “La facciamo ora, mentre andiamo a prendere una ragazza”. Che ragazza? Corsa nella notte, fino al Tuscolano, dove vive la fanciulla in questione, una vecchia fiamma (anche se giovane di età). Si torna verso il centro. La ragazza, che chiameremo “Giulia” è spiritosa e intelligente. Sorride: “Parlate di Berlusconi? Vittorio, perché non racconti di quella volta che nel 2006 mi hai portato da lui?”. Sgarbi si illumina: “Già! La notte della sconfitta”. Giulia: “Che volgare... Appena mi vide, mi palpò i fianchi: ‘Tu che ci fai con Vittorio? Venissi in bagno ti metterei al tappeto’...”. Giulia sospira: “Simpatico, ma molto, molto rozzo. Lui non sa nemmeno cosa sia, l’eleganza di Vittorio con le donne!”. La lezione sul sessuoberlusconismo inizia con un altro colpo di scena.
Tema: le Silvio-girl? (Sorride). Vuoi sapere una cosa curiosa? Certo. Quando i giornali rivelarono di Fini e della Tulliani, feci un salto. Come è noto l’avevo frequentata, nelle notti romane. Lei che mi ossessionava per avere la tessera della Freccia alata...
E Nadia che c’entra?
Vedo la sua foto, un flash: “Anche lei è stata con me!”. Sgarbi con una escort? Non potrei mai pagare una donna! Con me era venuta gratis... Non so lui, ma se io pago non mi tira l’uccello.
Che ricordo hai?
Ci frequentammo, un paio di volte... C’era simpatia. Mi seguì addirittura in un viaggio in Sardegna, concluso da un litigio furibondo.
Litigio furibondo?
Caspita. A Su Gologone, alle tre del mattino, in albergo lei mi tirava di tutto, a partire da piatti e porcellane... Poi era scappata nel bosco. L’abbiamo ritrovata dopo un’ora.
Dove l’avevi conosciuta?
(Ride). “La verità? A Milano, una sera, nel bagno del Bolognese. Ci eravamo rifugiati lì dopo sguardi di intesa.
Quindi hai incrociato sia la Tulliani che la Macrì? Già. Io sono un amatore incallito, loro sono agli inizi, il delta della foce, rispetto alla fonte della sorgente...
Quando è entrato nella... satiriasi Berlusconi? Dopo la fine del matrimonio con Veronica. Nei primi anni 2000 lui vedeva la mia strana libertà e mi rimproverava. Diceva addirittura che Sabrina, la mia fidanzata, era “una martire”.
Vero. Merita una medaglia...
Il nostro è un rapporto non conformista. La cosa più divertente è che per spiegare a Berlusconi la mia teoria, gli ho fornito la legittimazione delle sue future gesta.
E la teoria quale era?
Ci sono uomini che nascono per essere posseduti, come Fini, oggi di proprietà della Tulliani. E uomini che nascono per essere visitati dalle donne, come i musei. Io e te, gli ho detto,
apparteniamo alla seconda categoria. E lui cosa ti ha risposto?
(Sorriso) Vittorio, hai ragione! Credo che in questo periodo, e in questo campo, mi consideri un maestro. Che gusto c’è a cambiare una donna ogni notte?
La chiave della seduzione, per Silvio, è la lusinga. Le donne lo corteggiano, lo cercano, questo lo gratifica.
Semplice, no?
Se a ognuna lascia 7 mila euro, ti credo...
Non vanno solo per soldi, quella è la suburra. Molte cercano vantaggi diversi: comparsate, carriere tv...
Quando inizia tutto?
Credo nel 2005, quando era all’opposizione. Il primo segnale è l’invito a cena di Mara Venier, Bud Spencer e Loredana Lecciso, all’epoca era sulla cresta dell’onda. Per quale altro motivo Berlusconi avrebbe dovuto incontrare Loredana? Però con la D’Addario era già al governo.
Lo so: ma quando inizi non ti fermi più. Alla Lario hai detto questo? Di più. E cioè che secondo me lei poteva essere l’unica vera anti-Berlusconi. L’unica vera antagonista.
Davvero?
...E che il vaso di Pandora che aveva reso pubbliche le mille amanti era stato scoperchiato dalla sua lettera a Repubblica... E lei?
Ha annuito. Però...
Cosa?
Quel giorno, il 27, le ho detto: “Se prendi 3,5 milioni di euro al mese di alimenti cessi di essere antagonista e torni ad essere sottoposta come tutte le altre. Di lusso, certo, ma pure tu sottoposta.
Cosa ha detto lei?
Mi ha guardato con i suoi occhioni, sconcertata. Senza dire nulla.

il Fatto 5.11.10
I missionari di B.
Difensori d’ufficio in azione nei salotti televisivi pronti a tutto pur di coprire le malefatte del premier
di Carlo Tecce

(...)
E poi l’ex direttore di Liberazione e oggi di Calabria Ora, Piero Sansonetti che, per i criteri dei “missionari di B.”, figura come ambidestro. Un giocatore duttile e camaleontico: può partire da sinistra e ritrovarsi a destra, o viceversa. Da giovane sessantottino, dice, non può criticare i costumi trasgressivi. I colleghi sì, però: “La stampa è diventata una ciofeca”.
8...)

il Fatto 5.11.10
Per Tremonti il diritto allo studio va garantito: ai cattolici
Trovati i soldi per le paritarie, ma non per la scuola pubblica
di Caterina Perniconi


É servita addirittura una precisazione ufficiale per rassicurare i cattolici: “Per prassi consolidata – ha scritto il ministero del Tesoro in una nota – negli anni il finanziamento statale alle scuole paritarie è stato sistematicamente integrato con provvedimenti ‘ad hoc’. Sarà così, è già previsto che sia così, anche sul 2011”. Insomma, niente paura, i soldi per le scuole non statali ci saranno. Col plauso del Vaticano che incassa una promessa nero su bianco.
Non statali e cattoliche
INFATTI la legge di stabilità aveva previsto per il prossimo anno un taglio ai finanziamenti per le scuole paritarie di 253 milioni di euro su un totale di 534, ovvero il 47% in meno. “Una parte di questi soldi – spiega Pier Paolo Baretta, capogruppo del Partito democratico in Commissione Bilancio alla Camera – sono relativi alle scuole non statali, come gli asili comunali. Ma la stragrande maggioranza riguardano le scuole cattoliche, a partire dalle primarie. L’ammontare che Tremonti ha proposto per ripianare il taglio sono
proprio 250 milioni, praticamente tutti”. Il titolare del dicastero di via XX Settembre, per l’occasione, si occuperebbe personalmente di tirare fuori i soldi dalle pieghe del suo ministero. La modifica, dato che tutti gli emendamenti alla Finanziaria sono stati respinti, avverrebbe in un decreto successivo, il cosiddetto “milleproroghe”. É toccato al viceministro Giuseppe Vegas parlare con i deputati della Commissione Bilancio e spiegare che in 15 giorni potranno visionarlo. “I bisogni sono sempre superiori alle risorse” ha ammesso Vegas. Quindi in quel decreto di soldi per l’istruzione quanti ce ne saranno? Perché i tagli a scuola e università sono elevatissimi. Il Fondo per il Finanziamento ordinario degli atenei, per esempio, verrà ridotto di 1,5 miliardi, mentre il diritto allo studio subirà il colpo più grosso: dai 246 milioni dello scorso anno si passerà ai 25,7 del prossimo e ai 12,9 di quello successivo. All’università, quindi, ci andrà solo chi se lo potrà permettere, in barba all’articolo 34 della Costituzione, secondo il quale “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Per loro, il 90% di borse in meno, che già oggi erano disponibili solo per il 60% degli idonei.
Promesse impossibili
LA SITUAZIONE è aggravata dal taglio delle risorse agli enti locali. Perché anche le Regioni contribuiscono autonomamente ad aumentare il fondo per il diritto allo studio. Ma da quest’anno hanno dovuto annunciare a loro volta pesanti riduzioni.
“Vi assicuro che non ci sarà alcun taglio delle borse di studio” ha dichiarato ieri il Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Ma forse non ha fatto i conti con Giulio Tremonti, che sembra avere altre priorità. “Quelle della Gelmini sono ordinarie menzogne di un governo impegnato solo a difendere un indifendibile premier – ha dichiarato la responsabile Scuola del Pd, Francesca Puglisi – per aiutare davvero le ragazze e i ragazzi a raggiungere risultati eccellenti occorrono investimenti, non tagli. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, rimarranno al palo, grazie a un governo che riduce il diritto allo studio del 90%, cancella il fondo di 103 milioni di euro per la gratuità dei libri di testo nella scuola dell’obbligo e alle superiori. Le smentite
del ministro non trovano riscontro nei riferimenti normativi della legge di stabilità”.
D’accordo anche la democratica Manuela Ghizzoni: “Se il ministro Gelmini avesse letto le norme che ha approvato in pochi minuti nel Consiglio dei ministri, si sarebbe accorta che il fondo di intervento integrativo da ripartire tra le regioni per la concessione dei prestiti d’onore e l’erogazione delle borse di studio attualmente ha una dotazione di 25,7 milioni di euro. Con un taglio così il diritto allo studio viene sfregiato”.
L’Unione degli Universitari ha promosso per il 10 e l’11 novembre due giornate di mobilitazione nazionale “per denunciare come il governo stia letteralmente cancellando un diritto costituzionale pilastro fondamentale per il futuro dei giovani e del Paese”.

il Fatto 5.11.10
Fede e Ragione
Dalle crociate  contro eutanasia e aborto all’omertà sulla pedofilia: perché la Chiesa ha chiuso il dialogo con il mondo laico
Ratzinger: ritorno all’oscurantismo

di Paolo Flores d'Arcais

PUBBLICHIAMO alcuni brani del confronto pubblico tra Joseph Ratzinger e Paolo Flores d’Arcais avvenuto nel 2000 e che costituisce la seconda parte del libro, in uscita oggi per l’editore Ponte alle Grazie, “La sfida oscurantista di Josep Ratzinger”.

PAOLO FLORES D’ARCAIS
Il cristianesimo ritiene che le sue verità siano al tempo stesso le verità naturali. Non tutte le sue verità – vi sono poi altre verità a cui la ragione non può arrivare. Ma certamente la retta ragione non può entrare in conflitto, non può dirci cose diverse da quello che ci dice la fede cattolica. Laddove la ragione arrivasse a delle conclusioni opposte, vorrebbe dire che non è retta ragione, ma è una ragione che sta “sbarellando”, cioè che non funziona. E da qui nascono tutti i possibili conflitti.
La chiave di tutto questo è l’idea di legge naturale, legge morale naturale. La norma naturale e morale sarebbe già iscritta nell’essere, nella realtà stessa, costituirebbe una sorta... le norme naturali costituirebbero una sorta di cromosomi dell’universo e della realtà. Per cui si tratterebbe solo, con la nostra ragione, di scoprirle e di obbedire a queste norme.
Io credo che questo sia assolutamente falso e insostenibile. Credo che non esista nessuna legge naturale, che esistano tante leggi umane, che spesso nel corso della storia hanno dei tratti comuni, ma che non hanno mai tutti i tratti comuni, e che quindi la pretesa di identificare con una legge naturale una particolare morale, per quanto alta e nobile, porti con sé tutti i rischi di intolleranza.
Perché credo che non si possa parlare di una legge naturale? Naturale, intendiamo riferita alla natura umana. Se per legge naturale intendiamo qualcosa che tutti gli uomini di fatto hanno sempre saputo fosse male, anche se poi l’hanno violata, bè, questo qualcosa non esiste. Nella storia dell’uomo, l’uomo ha considerato norme valide, addirittura supreme – e nel corso della storia dell’uomo quasi sempre queste norme morali erano anche norme religiose – le cose più diverse. Neanche [la proibizione del]l’omicidio è stato considerato una norma naturale.
Qui, mi piacerebbe avere sottomano una citazione di Pascal che uso sempre, perché è proprio Pascal che dice: l’uomo ha considerato degno di venerazione ogni norma e il suo contrario, e fa un elenco, parricidio, incesto eccetera, delle cose terribili, dicendo: ci sono uomini che le hanno considerate dei valori, non solo le hanno tollerate, le hanno proprio considerate dei valori.
D’altro canto in tante società primitive – erano uomini anche loro! – il cannibalismo rituale è stato considerato un dovere etico-religioso. E potremmo continuare. Quindi, se per natura intendiamo ciò che si intende normalmente, cioè tutti gli appartenenti alla specie Homo sapiens, certamente non vi è una sola norma che sia stata condivisa sempre da tutti gli uomini. Ripeto, non nel senso che sapevano che era bene ma poi la violavano, ma nel senso che non lo consideravano bene, consideravano bene delle cose assolutamente diverse e incompatibili fra di loro.
E allora in che senso diciamo «legge naturale»? Se noi stabiliamo a priori che una parte dell’umanità era contro natura e l’altra parte – guarda caso quella che condivide le nostre norme – quella era vera umanità, capite che facciamo una operazione che ciascuno di noi può fare, con i suoi valori, ma che ha come conseguenza quello di dire che chi non ha condiviso o non condivide quei valori, non solo pecca, ma è addirittura fuori dall’umanità: questa è la logica conseguenza.
(...)

JOSEPH RATZINGER
Questo è un punto sul quale esiste già una controversia stampata tra Flores d’Arcais e me, in quanto Flores d’Arcais aveva condannato duramente un passo dell’enciclica – adesso non so, Evangelium vitae, e forse anche Fides et ratio – dove il Santo Padre dice: ci sono delle cose sulle quali una maggioranza non può decidere, perché sono in gioco valori che non sono a disposizione di maggioranze che cambiano, ci sono delle cose dove finisce il diritto della maggioranza di decidere, perché si tratta dell’umanesimo, del rispetto dell’essere umano come tale.
E Flores d’Arcais aveva risposto: qui il papa si dimostra realmente anti-illuminista – era nell’enciclica, adesso mi ricordo, Fides et ratio – e dimostra che con tutta la sua filosofia non ha da dire niente alla filosofia, alla cultura di oggi, perché si oppone a questa cultura di oggi. A questo ho risposto che io difendo decisamente il fatto che esistono dei valori sottratti al parere e all’arbitrio delle maggioranze. Noi tedeschi abbiamo conosciuto un esempio molto forte, visto che presso di noi è stato detto... noi abbiamo deciso che esistevano vite che non avevano il diritto di vivere e, perciò abbiamo preteso il diritto di “purificare” il mondo da queste vite indegne, per creare la razza pura e l’uomo superiore del futuro. Qui, giustamente il Tribunale di Norimberga dopo la guerra ha detto: ci sono dei diritti che non possono essere messi in discussione da nessun governo. E se fosse anche un intero popolo a volerlo, rimarrebbe comunque ingiusto. E perciò si sono potute condannare, giustamente, delle persone che avevano eseguito leggi di uno Stato che formalmente erano state emanate in modo corretto. Cioè esistono dei valori – e penso che proprio questo è anche un risultato dell’illuminismo: la dichiarazione dei diritti umani inviolabili e validi per tutti in tutte le circostanze, poi definiti nel ‘48 con maggiore precisione, per quanto mi ricordo. È stato un grande progresso dell’umanità, e non dobbiamo perdere questo progresso. Perciò non sono d’accordo con l’argomento “storico”, che per tutti i valori esiste nella storia anche una presa di posizione contraria, e non c’è nessuna cosa considerata da una civilizzazione come crimine che non sia stata considerata in un’altra come valore da eseguire. Questo fatto statistico dimostra il problema della storia umana e dimostra la fallibilità dell’essere umano.
Origene, un padre della Chiesa, si era espresso in questo senso all’inizio del III secolo: io so che presso gli abitanti del Mar Nero esistono leggi che legittimano crimini e, se uno vive in quel contesto, deve ribellarsi contro la legge, perché esiste una realtà assolutamente intoccabile alla quale non possono opporsi le leggi, e le leggi che si oppongono sono male. E mi sembra che questo, almeno, ormai lo sappiamo, dopo questo secolo e i suoi orrori: che c’è la sacralità assoluta della vita    umana,    e    che    le leggi che nel mondo sono sempre esistite – che    si    oppongono    a questa    inviolabilità delle sue... della sua dignità e dei diritti che a questa dignità conseguono, sono ingiuste anche se decise ed emanate in modo formalmente corretto. Perciò mi sembra che questa istanza (che la maggioranza per certe cose non ha l’ultima parola, ma deve rispettare quanto è umano) è fondamentale per il futuro della nostra civilizzazione.
Altra questione, due altre questioni. La prima è: qual è il fondamento di questa inviolabilità di alcuni diritti? La tradizione cattolica dice: è la creazione. Hanno introdotto poi, dalla filosofia greca, la parola “natura”: physis. E forse si potrebbe sostituire questa parola con una parola migliore, non vorrei discutere qui sulla terminologia. Ma l’idea fu che la physis, la natura, non è prodotto di un caso cieco, di una evoluzione cieca, ma nonostante lo svolgersi dell’evoluzione, dietro c’è una ragione, e c’è quindi una moralità dell’essere stesso. Ho trovato molto bella l’espressione di Flores d’Arcais, che quasi sarebbero presenti gli elementi morali nei cromosomi della realtà. Questo non vuol dire che la natura empirica vada canonizzata come legge naturale, ma che esiste una priorità dello spirito rispetto all’irrazionale, ed esiste quindi un fondamento morale che mette barriere a certi comportamenti. Quindi questo è il primo punto: quale è il fondamento della inviolabilità di alcuni diritti e della inammissibilità di certe leggi, quale è il fondamento di questo limite del nostro potere legislativo. Noi diciamo la creazione, la provenienza da una mente, da un logos.
(...)

PAOLO FLORES D’ARCAIS
Io condivido perfettamente l’idea che non basta la maggioranza per decidere qualsiasi cosa. Anzi, io credo che dobbiamo aver chiaro che proprio in democrazia, dove la regola della maggioranza è lo strumento fondamentale per prendere le decisioni, anche e soprattutto in democrazia, non è vero che la maggioranza può prendere qualsiasi decisione. Non a caso, le democrazie moderne sono fondate su delle Costituzioni che pongono dei limiti a qualsiasi maggioranza (...) Quindi, sotto questo profilo l’accordo è totale. Il problema è su che cosa le maggioranze non possono decidere. Cioè: questi diritti umani o civili che fondamento hanno e chi lo stabilisce? (...) Ora, il cardinal Ratzinger ha detto in modo assolutamente esplicito che il fondamento di quelli che vengono chiamati diritti naturali non è la natura, vocabolo che potrebbe essere equivoco, ma ha detto esplicitamente: è la creazione. Questo sarebbe il fondamento di un nucleo di diritti-doveri che nessuna maggioranza può toccare. Ma proprio questo è assolutamente problematico, perché stabilire che il nucleo intoccabile di valori, e quindi di diritti-doveri di ciascuno di noi, è la creazione, significa stabilire un principio religioso. Che non regge, in una società non più fondata sulla religione come principio primo (...) Dove molti non credono, e dove molti pensano che l’universo in cui noi viviamo è nato dal famoso Big Bang, e ha avuto uno sviluppo che non era definito a priori. La scienza, per i suoi più recenti approdi, ci dice che vi è stata un’evoluzione nell’universo che non era stabilito a priori, poteva prendere altre vie. Uno dei più grandi scienziati e divulgatori, Stephen Jay Gould, ha ricostruito ben sette momenti cruciali dell’evoluzione, dal Big Bang alla nascita dell’uomo, in cui l’evoluzione poteva prendere direzioni totalmente diverse e, dice lui, se l’avesse prese – e non c’era nessuna probabilità a favore di quella che ha preso, ne poteva prendere altre – noi non saremmo qui a discuterne.
Quindi da questo punto di vista gli scienziati oggi riconoscono quello che un grandissimo biologo del nostro tempo, Jacques Monod, diceva qualche decennio fa, e cioè: siamo il frutto del caso e della necessità.
E allora, noi non possiamo mettere la creazione a fondamento di questi diritti-doveri inalienabili. Ecco perché io credo che non possiamo oggi dire: sono diritti umani, dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che sono diritti civili, il che non li rende meno irrinunciabili, ma ci fa capire che per affermarsi – due-tre secoli fa – quei valori hanno avuto bisogno di una forma di religione laica, cioè di dire: sono connaturati alla natura dell’uomo. In realtà erano così poco connaturati alla natura dell’uomo, che l’uomo ha vissuto per millenni calpestandoli, e ci sono volute lotte durissime, sacrifici di generazioni e generazioni, per farli provvisoriamente riconoscere. Sono diritti civili, cioè sono una nostra scelta su cui fondare la convivenza (...) è stato fatto l’esempio dell’aborto, ce ne saranno anche altri ancora più drammatici forse, sotto questo profilo... certamente tante persone, non solo qui, avrebbero difficoltà ad andare a cena con qualcuno che si vantasse, che si vantasse, che raccontasse tranquillamente di aver fatto fuori varie persone, di aver ammazzato dei bambini... penso che nessuno di noi accetterebbe di andare a cena, non so, con un ex SS che ci raccontasse come lui buttava i bambini ebrei nei forni crematori. Però ritengo anche che invece normalmente noi andiamo a cena con persone che hanno abortito e possiamo essere d’accordo o non d’accordo [con la loro scelta] e sappiamo che furono in alcuni casi scelte dolorose non pensiamo affatto di andare a cena con degli assassini.
E allora, innanzi tutto è sicuro che esiste una convinzione razionale profonda e diffusa che l’assassinio e l’aborto non sono sullo stesso piano. Certo, per chi crede nella creazione – ma non nella semplice creazione, bensì in tutta una serie di interpretazioni della creazione – questo può essere vero. Perché fra chi crede e chi non crede non ci sarebbe solo questa discrepanza su che cosa sia omicidio. A me, ad esempio, addirittura ripugna l’idea di considerare omicidio un aborto, mai e poi mai lo considererei alla stessa stregua, e trovo anche – io personalmente – trovo immorale chi sostiene una cosa del genere.
Ma anche nell’ambito dei cristiani vi sono opinioni diversi, perché noi siamo abituati a pensare: cristiani uguale cattolici. Ma i cristiani valdesi in Italia non ritengono che l’aborto sia un infanticidio, non ritengono neanche che sia inaccettabile l’eutanasia, tema che dovremmo toccare. E tanto è vero che un cardinale altrettanto importante del cardinal Ratzinger, cioè il cardinal Tettamanzi, che è uno dei grandi studiosi cattolici di bioetica, critica i valdesi proprio su questo (...) Vedete come è assurdo pretendere che un punto di vista di uno dei cristianesimi coincida con la norma naturale. È una pretesa che inevitabilmente porta a disconoscere il pluralismo.

JOSEPH RATZINGER
Ma, per rispondere brevemente. Io ho cercato di mostrare perché per un cristiano si può parlare, a prescindere dalla fede, della priorità della ragione rispetto alla materia, quindi della presenza della ragione nella materia, e quindi della creazione. Ma naturalmente Flores d’Arcais ha ragione, questa convinzione della creazione non è convisa... condivisa da tutti.
In questo senso non sarebbe un fondamento che potrebbe garantire un’azione comune. Perché era già nell’antichità così, cioè i padri della Chiesa hanno tradotto una parola della fede in una parola filosofica, natura, che non è una parola della fede, ma una parola della filosofia, e convenivano su questo punto con lo stoicismo che non conosceva un creatore, neppure una creazione. Però vedeva una certa, diciamo, qualità divina nell’essere stesso, e un messaggio valido per tutti, e perciò quindi la parola “natura” era un veicolo applicabile, accessibile oltre il limite della fede. E questo è il motivo perché la parola “natura” è entrata nel vocabolo della teologia, del magistero, come una indicazione dell’elemento filosofico, di per sé anche separabile da una visione più profonda della fede. In questo senso mi sembra si dovrebbe anche in futuro discutere sulla utilità e sulla razionalità di questo concetto, natura, il quale esprime la convinzione che le realtà portano in sé un messaggio morale e mettono limiti alle nostre disposizioni. E mi sembra che il movimento ecologico, davanti alle distruzioni del mondo e davanti ai pericoli che ci minacciano, ha capito questo: che la natura ci porta un messaggio, e dobbiamo essere attenti a questo messaggio della natura. E penso che forse oggi, proprio con le nostre esperienze di una natura abusata, possiamo, in un modo nuovo, capire questo concetto comune che è un concetto di ragione e di esperienza, essere più attenti a questo messaggio che ci dà un fondamento per il nostro agire, e indica anche un limite per il nostro arbitrio.
E perciò non posso essere d’accordo che questi diritti inviolabili, indicati dai grandi documenti, frutto dell’illuminismo, questi diritti sarebbero solo diritti civili, scelte nostre. Se sono scelte nostre possono essere cambiate. E invece non devono essere cambiate, per non distruggere l’umanità e il senso del rispetto dell’altro. E l’argomento che secoli, forse migliaia di anni, non hanno vissuto questi valori, e allora non potrebbero essere naturali, per me non conta, perché l’uomo è capace di vivere contro la natura, e lo vediamo. Ma il fatto che [l’uomo] non vuole accettare il messaggio della natura, non implica che questo non sarebbe realmente un messaggio. A me sembra che non dovrebbe essere così difficile capire che l’uomo è una creatura, un essere speciale che porta in sé una dignità che dobbiamo rispettare sempre nell’altro, anche se ci appare senza grande valore, antipatico o qualcosa di diverso.
E vorrei dire ancora una parola. Flores d’Arcais ha detto che chi considera l’aborto come omicidio commette un fatto immorale. Questo non l’accetto. Io posso capire le sue esitazioni su questo punto, ma che affermare che c’è di per sé una evidenza che si tratta di un essere umano molto debole, dipendente, e che quindi ucciderlo è uccidere un uomo, mi sembra che dire questo – e così fare appello alla coscienza, alla riflessione dell’altro – non può essere caratterizzato come immorale. E perciò, in conclusione, se [Flores d’Arcais] dice che nessuno dei valori cristiani sarebbe un valore che dovrebbe essere tenuto come valore comune... chiamiamoli cristiani oppure no, questi diritti umani – che sono, penso, il fondamento della civiltà proprio illuminista – sono maturati nel cristianesimo, ma sono al tempo stesso realmente valori umani, e sono la grande eredità della nostra civilizzazione, che dobbiamo difendere con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra ragione.

Il libro
Il 21 settembre 2000, al teatro Quirino di Roma, oltre duemila persone assistettero a un confronto tra Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, e un ospite d’eccezione: Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il futuro papa Benedetto XVI spiegò come il cattolicesimo facesse “appello alla coscienza e alla ragione”. In un lungo saggio che precede la trascrizione integrale di quell’incontro, Flores d’Arcais affronta il tema della “sfida oscurantista” dell’attuale pontefice contro la modernità illuminista in tre capitoli, sotto il profilo della cronaca (“Empiria”), dell’analisi filosofico-teologica (“Teoria”) e della prospettiva storica (“Futuro”). “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger”, Ponte alle Grazie 153 pagg, 13 euro è in libreria da oggi.