sabato 15 gennaio 2011

l’Unità 15.1.11
Oggi il direttivo della confederazione discuterà la nuova proposta sulla rappresentanza p Stare insieme I rapporti con la Fiom dopo la campagna per arginare l’attacco ai diritti
Il voto di Mirafiori arriva subito sul tavolo della Cgil
Oggi il direttivo Cgil per definire le regole sulla rappresentanza, da proporre a Cisl e Uil. Referendum vincolante e maggioranza qualificata per decidere. Riavvicinamento con la Fiom per definire la strategia comune
di Laura Matteucci


Si spogliano le schede fino a notte fonda a Mirafiori, e a Roma si prepara il rush finale sulle nuove regole in tema di rappresentanza e democrazia sindacale. Sul tavolo della Cgil arriva oggi il voto sull’accordo Fiat: confronto finale con la Fiom, ipotesi sulle strategie future per definire come rimanere in fabbrica (per questo comunque c’è tempo, i lavoratori vanno in cassa integrazione da lunedì per un anno), per un direttivo che dovrà varare la nuova proposta della confederazione da portare al confronto con Cisl e Uil prima e con Confindustria poi. Un’accelerazione voluta dalla Cgil di Susanna Camusso che guarda allo scontro sul voto dell’accordo di Mirafiori, e prima a quello sullo stabilimento di Pomigliano, che di fatto lasciano isolata la Fiom. Ferite aperte, accordi separati, che il sindacato vuole cercare di ricomporre ed interrompere rifondando il sistema di relazioni sindacali e di rappresentanza. Sarà con quel documento che potrebbero iniziare i primi contatti informali per la ripresa di un confronto con Cisl e Uil, come la segretaria Camusso ha ribadito ancora solo l’altro giorno da Milano. Il riavvicinamento con la Fiom è già segnato, si tratta di mettere a punto una strategia comune per non lasciare soli i lavoratori.
LA BOZZA
La strada del possibile riavvicinamento tra sindacati sulla rappresentanza, invece, resta in salita. Un ruolo lo giocherà anche Confindustria, interessata al tema per cercare di evitare la conflittualità diffusa nelle fabbriche, soprattutto dopo il voto torinese così tanto caricato di valori simbolici, «come se da lì fossero passati i destini del paese», ha detto Camusso. La bozza che disegna il cuore della proposta c’è già: soglia del 5% per considerare rappresentativo un sindacato, a livello nazionale, territoriale ed aziendale, misurato ad un mix tra peso associativo e peso elettorale, referendum vincolante per tutti a maggioranza semplice e verifica del mandato. Una verifica a trattativa aperta nel caso nascessero contrasti tra i negoziatori. Qualora sussistero reiterati dissensi e i sindacati favorevoli all’intesa non avessero la maggioranza qualificata (oltre il 51%) dei lavoratori si dovrà ricorrere al voto dei lavoratori. Prevista anche una sorta di clausola di salvaguardia del dissenso che prevede la possibilità di ricorrere ad un referendum abrogativo di un accordo firmato solo come estrema ratio.

l’Unità 15.1.11
«Per i lavoratori inizia un’altra lunga battaglia»
Parla Giorgio Airaudo: la Fiom ora è più forte Anche Susanna Camusso non ha più parlato di firma tecnica. La Cgil starà con i lavoratori
di Luigina Venturelli


Atarda sera lo spoglio delle schede è ancora alle battute iniziali, i primi scrutinii annunciano un testa a testa tra sì e no destinato a svelarsi solo agli ultimi voti. Ma dopo una giornata così, dopo un’intera settimana così, a fianco degli operai di Mirafiori nel più difficile momento della loro vita lavorativa, l’importanza del risultato è diventata relativa. «Perchè comunque vada, ognuno ha dato il voto che gli era possibile e adesso la Fiom è più forte di prima» ha ribadito il responsabile auto Giorgio Airaudo, onnipresente in queste settimane ai cancelli della fabbrica e nelle piazze di protesta torinesi. I metalmeccanici della Cgil sono stati gli unici a distribuire tra i lavoratori il testo integrale dell’accordo e a svolgere le assemblee in uno stabilimento tradizionalmente non facile per il sindacato rosso.
A spoglio ancora in corso, secondo lei qualcosa è già cambiato a Mirafiori? «Sulle spalle di questi 5.500 lavoratori è stata messa una responsabilità enorme che non meritavano di sobbarcarsi. Il peso della produttività dell’industria non può stare sulle spalle di chi guadagna 1.200 euro e deve rinunciare alla mensa e alle pause dalla catena di montaggio. Questo è avvenuto perchè sono stati lasciati soli dalla classe dirigente di questo Paese. Ma non dalla Fiom, che in queste settimane ha costruito con loro un legame emotivo. Loro hanno riconosciuto la nostra battaglia, e noi abbiamo riconosciuto le loro possibilità, i loro bisogni, le loro paure. Per questo non è tanto importante come si concluderà il referendum, ogni lavoratore ha dato il voto che gli era possibile dare». Prevede un’affermazione, pur di misura, dell’accordo?
«Anche nel caso vincessero i sì, la Fiat non si toglie un problema, ma
se ne sobbarca uno più grande. Il voto possibile è fatto di sì estorti, pieni di rabbia e di rancore, e edi no più consapevoli, che adesso vogliono risposte sul piano industriale e sui propri diritti. Non è così che si fanno le auto. Se Fiat avesse voluto negoziare, avrebbe trovato un accordo con tutti, ma con quello che uscirà da Mirafiori non si va molto avanti».
Come verrà speso il consenso conquistato dalla fiom nella nuova battaglia che si apre già da domani? «La Fiom e la Cgil non si possono dividere sulla vertenza Fiat. la confederazione deve mettere tutto il suo peso al fianco dei lavoratori di Mirafiori e della categoria per riaprire la trattativa e riconquistare negoziati veri. Cominceremo dallo sciopero generale del 28 gennaio, con iniziative per spiegare un modello sbagliato che creare solo magguiore conflittualità. E per ricordare a marchionne che anche un manager molto potente e molto arrogante, qualche volta può cambiare idea e sedersi a discutere con i sindacati e i lavoratori».

Corriere della Sera 15.1.11
La strategia di Camusso per rientrare nella trattativa
La tenuta della Fiom. Oggi il direttivo della Cgil
di Enrico Marro


ROMA — Per Susanna Camusso il difficile viene adesso. Il segretario della Cgil ha atteso il risultato del referendum di Mirafiori nella sua casa romana e poi ha fatto le necessarie correzioni alla relazione con la quale aprirà questa mattina la riunione del direttivo. All’ 1.30 di notte c’era una leggera prevalenza del no. Ma quelli scrutinati (circa la metà su 5.500) erano tutti voti espressi dal reparto montaggio, quello dove la catena è più dura e dove Fiom e Cobas sono più forti. Quindi era ancora possibile, anzi probabile secondo diversi sindacalisti, che alla fine vincesse il sì (sia pure con un margine inferiore alle attese), grazie al voto degli impiegati e dei lavoratori dei reparti dove i nuovi ritmi di lavoro previsti dall’intesa incidono meno. In ogni caso, all’ 1.30, il risultato era incerto e due scenari erano possibili. Partiamo da quello della vittoria del sì. Camusso fin dall’inizio della vertenza Mirafiori pensava che questo fosse il risultato più probabile e aveva messo sull’avviso la Fiom di Maurizio Landini e proposto una via d’uscita: prendere atto del voto e comportarsi di conseguenza per rientrare nell’accordo tra la Fiat e gli altri sindacati e non restare esclusi dalla fabbrica, che prevede rappresentanti sindacali solo per i firmatari. Ma non c’è stato verso. «Non firmeremo mai ha risposto Landini. La vittoria del sì, in teoria, dovrebbe indebolire il leader della Fiom. Ma se essa non fosse netta, non è detto. Camusso resterebbe comunque dell’idea che è necessaria una re-entry strategy, che prevede più tappe su diversi piani. All’interno per far cambiare gradualmente idea al vertice della Fiom, ma senza soluzioni traumatiche come il commissariamento dei ribelli. All’esterno per arrivare a un accordo con Confindustria, Cisl e Uil su nuove regole sulla rappresentanza e la democrazia sindacale, secondo la proposta che lo stesso direttivo della Cgil approverà oggi. Tutti questi passaggi richiedono tempo, ma questo ci sarebbe secondo la Cgil, perché è previsto che i lavoratori di Mirafiori stiano ancora per un anno in cassa integrazione, prima che partano le nuove produzioni previste dalla joint venture con la Chrysler. Bisognerà quindi aspettare che nella Fiom si aprano contraddizioni e maturino diversi equilibri. Forzature rispetto a un tale percorso prevedono l’ipotesi che siano le strutture locali della Fiom (dai delegati di fabbrica alla Fiom di Torino o del Piemonte) ad assumersi la responsabilità di firmare con la Fiat (sempre che l’azienda e gli altri sindacati lo accettino). Più difficile pensare invece alla Cgil che firmi al posto della Fiom, che, soprattutto se il risultato del referendum sarà un quasi pareggio, avrà molte carte ancora da giocare. Sul fronte esterno, invece, due le difficoltà. La prima è rappresentata dalla scarsa volontà di Cisl e Uil di offrire una sponda alla Cgil dopo uno scontro così aspro. La seconda dalle divisioni tra gli imprenditori sulla linea da seguire dopo la svolta Marchionne. Il secondo scenario possibile, sempre all’ 1.30 di notte, era invece quello della vittoria, a sorpresa, del no. In questo caso sarebbe anche la vittoria della Fiom di Landini. L’ipotesi della firma tecnica non avrebbe più ragione d’essere. Camusso probabilmente seguirebbe la linea del segretario generale dei metalmeccanici, che in questo caso chiederebbe una riapertura della trattativa con la Fiat. Ma è chiaro che entrerebbero in scena altre variabili. Forse il governo dovrebbe scendere in campo e si intensificherebbero le pressioni sull’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, affinché non attui la minaccia di spostare all’estero le produzioni previste per Mirafiori. In difficoltà sarebbero anche Cisl e Uil che hanno sostenuto il sì, mentre la Confindustria avrebbe forse qualche ragione per rimproverare a Marchionne di non aver seguito una linea più morbida.

il Riformista 15.1.11
Vincano i sì oppure i no oggi inizia la via crucis di Susanna Camusso
ANALISI. Landini ha in entrambi i casi più margine di manovra. Il segretario della Cgil riunisce il direttivo e torna a discutere di rappresentanza. Alla Cantone (pensionati) che chiedeva tem- po ha chiuso la bocca con un secco «adesso basta, il tempo delle mediazione si chiude sabato»

qui


l’Unità 15.1.11
Il segretario del Pd Bersani: «Per favore, ci vengano risparmiati ulteriori mesi di avvitamento»
Vendola «Sgombri il campo, stiamo marcendo». Di Pietro: «Si assuma le proprie responsabilità»
Marco Pannella
«Non c’è stupore, né preoccupazione: c'è nausea, perché questo riempie il vuoto della lotta politica»
«Un premier in fuga dal Paese, l’Italia non può permetterselo»
L’Italia non può restare prigioniera di un «premier in fuga da se stesso e dal Paese». È l’allarme lanciato dal segretario del Pd Pierluigi Bersani. Vergogna e preoccupazione per un premier che trascina l’Italia nel fango...
di Umberto De Giovannangeli


Un premier «in fuga da se stesso e dal Paese». Un Paese che non può restare prigioniero delle nuove vicende giudiziarie che hanno investito Silvio Berlusconi. A lanciare l’allarme è Pierluigi Bersani. Il segretario del Pd chiede «rispetto per le indagini» e che «per favore, ci vengano risparmiati ulteriori mesi di avvitamento dell'Italia sui problemi di Berlusconi. Abbiamo un premier in fuga dal Paese e da se stesso. Dal Paese perché il governo cosa sta facendo? E da se stesso perché costretto ad aggirare cose vere o presunte. Non possiamo permettercelo». Sulla stessa lunghezza d’onda si muove Massimo D’Alema: «La notizia non è nuova nel senso che chiunque sia in grado di vedere le cose così come sono e di giudicarle non sarà rimasto sorpreso. Certamente l’immagine del Paese all’estero è quella che può essere con un presidente del Consiglio in questa situazione», rimarca il presidente del Copasir, a margine del convegno con i democratici di tutto il mondo organizzato alla Camera, a proposito degli ultimi sviluppi del caso Ruby.
SDEGNO GENERALE
«Mi vergogno di avere un premier che si è comportato così», incalza dice il vicesegretario del Pd Enrico Letta parlando al Tg 3. «Il primo ad essere imbarazzato è stato il ministro dell’Interno, per il modo in cui il capo del Governo si è comportato nei confronti della questura di Milano.
Io credo aggiunge Letta che in qualsiasi Paese occidentale, il presidente del Consiglio, colto sul fatto, se ne sarebbe andato». Ma non sarà così con il Cavaliere. Piuttosto che farsi da parte, Berlusconi è pronto a giocare la partita finale con la «magistratura comunista», lacerando ancor più il Paese. «L’Italia vive in questo periodo un momento drammatico di cui la vicenda Fiat rappresenta il fenomeno più evidente. È davvero stucchevole vedere e sentire gli attacchi del Pdl alla magistratura, colpevole solo di svolgere il proprio dovere, rispetto a una vicenda squallida che non fa che danneggiare il nostro Paese», rimarca Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato. «Mi auguro che ci sia sacrosanto rispetto per le indagini.
Non possiamo permetterci di gingillarci di nuovo, e per mesi, con le questioni che riguardano Silvio Berlusconi e i suoi discutibili comportamenti. L'Italia chiude Finocchiaro ha bisogno di un governo che si occupi dei problemi concreti dei cittadini, cioè del lavoro, della crisi economica, del futuro dei giovani».
OMBRE SUL FUTURO
«La politica deve occuparsi dei problemi del Paese. Quando a una persona capitano dei guai giudiziari se ne occupano gli avvocati nelle sedi opportune. Non bisogna farli diventare dei problemi nazionali», avverte Piero Fassino. Le preoccupazioni del dirigenti Pd vengono rafforzate dalle dichiarazioni di guerra del Cavaliere. «È una vergogna avere un
presidente del Consiglio indagato anche per concussione e prostituzione minorile, un premier che si è messo in una condizione di tale gravità da gettare discredito sul Paese e sulle cittadine e sui cittadini italiani», sottolinea la senatrice Democratica Vittoria Franco.
Indignazione. E preoccupazione.
È il comune sentire dell’opposizione. «Come si fa a tenere in piedi questo governo, con che faccia? Con che lessico, con che dignità? Con che rapporto con il resto del mondo, con che rapporto con il Vaticano? Con che rapporto con la propria gente? Ma come si fa?», rimarca Nichi Vendola. «La vita privata del premier insiste il leader di Sinistra Ecologia e Libertà impedisce a noi di poter vivere la politica come una contesa anche civile e culturale sul futuro del Paese. Credo debba sgomberare il campo, il Paese sta marcendo grazie a Berlusconi». Duro è anche il commento di Antonio Di Pietro: «Ogni volta che deve assumersi le responsabilità dei suoi comportamenti il caimano si difende strillando di essere perseguitato, e i suoi parlamentari fanno a gara per urlarlo ancora più forte di lui», denuncia il presidente dell’Italia dei Valori.


l’Unità 15.1.11
La discussione resta accesa. Il segretario Pd: «La minoranza si è presa la maggioranza sui giornali...»
L’ex segretario lancia il pagamento di quote per Modem, nasce l’associazione con gli incarichi
Bersani irritato: «Qual è la loro alternativa?» Ma Veltroni si organizza
Il giorno dopo la Direzione nel Pd si divaricano le distanze. Bersani nervoso per l’eccessivo protagonismo mediatico della minoranza. E Veltroni che organizza i suoi, con l’associazione e le cariche dirigenziali...
di S.C.

Un Bersani così nervoso raramente l’hanno visto al Nazareno. Colpa della lettura dei quotidiani. Delle cronache della Direzione di giovedì. Delle polemiche interne che si sono mangiate tutto lo spazio che il segretario Pd pensava sarebbe stato occupato dalle proposte per far uscire il paese dalla crisi, di quelle di riforma istituzionale. «Sono contento che la minoranza si sia presa le sue soddisfazioni diventando maggioranza nelle interviste sui giornali», dice guardando ai Fioroni e ai Gentiloni che trova sfogliando le pagine. Per non dire dei virgolettati attribuiti a Veltroni, non smentiti, che parlano di una relazione di Bersani «senza né capo né coda».
Il segretario del Pd prova a sbollire la rabbia, ma in tarda mattinata è ancora bella visibile, quando parlando a una conferenza stampa sulle iniziative del Pd per i 150 anni dell’Unità d’Italia, prima difende la “ditta” da «chi parla di un partito un po’ anarchico e che ha disperso la capacità organizzativa e di lavoro collettivo», poi rivendica che il Pd sulla Fiat ha «una posizione chiarissima che rifiuta la tifoseria da derby». Una replica alle critiche del centrodestra? Macché, a quelle proveniente dagli esponenti di Movimento democratico: «Noi diciamo che l’investimento ci vuole e ci auguriamo che i lavoratori siano in grado di sopportare il peso di quell’accordo. E poi, c’è un pezzo di quell’intesa che non va bene, dove si parla di meccanismi di partecipazione e rappresentanza. Se per essere chiari bisogna dire sì a tutto senza se e senza ma, io vorrei segnalare a tutti, compresa anche la nostra minoranza interna, che neanche gli imprenditori italiani la pensano così».
BERSANI NON VEDE LINEE ALTERNATIVE
È la prima volta che cita la «minoranza interna». Lo rifà di lì a poco rispondendo alla domanda se andrà al Lingotto 2, organizzato da Veltroni a Torino per sabato prossimo («Vediamo, vado ovunque si discuta di questioni che riguardano l’Italia e il nostro partito»), ma cogliendo l’occasione per lanciare un’altra bordata ai Modem, che contestano la sua decisione di far votare alla Direzione la sua relazione: «Io ho voluto che si votasse non per fare delle conte, ma per vedere se c’è un’altra linea. A mio giudizio non c’è. Non è emersa. Non basta punzecchiare una linea per affermarne un’altra». Parole che non fanno piacere a Veltroni e agli altri esponenti della minoranza, che un po’ sostengono che un’altra linea non c’è perché è Bersani che dopo aver «inseguito» un po’ Vendola un po’ Casini e Fini, ora si è spostato sulla loro posizione della vocazione maggioritaria, un po’ continuano a criticare il segretario per quella che Walter Verini definisce «un’occasione perduta»: «La forzatura del voto ha spostato l’attenzione da un Pd che parla all’Italia a un Pd diviso», dice il deputato Pd, amico di vecchia data di Veltroni.
AL LINGOTTO E OLTRE
L’ex segretario risponderà con il discorso che farà sabato a Torino, lanciando cinque proposte per rilanciare «l’idea di un grande Pd, un partito al centro della scena politica», capace di «parlare all’interà società». Con lui ci saranno ospiti italiani (tra gli altri il magistrato Raffaele Cantone e lo scrittore Francesco Piccolo) e stranieri (l’ex senatore americano democratico e candidato alle presidenziali nell’84 e nell’88 Gary Hart e il sociologo inglese Anthony Giddens).
Ma gli esponenti di Movimento democratico si stanno anche organizzando per il medio-lungo termine. È nata l’omonima Associazione, che ha eletto come presidente Gero Grassi, come vicepresidenti Roberto Giachetti e Achille Passoni e come tesoriere Francesco Ferrante. Il primo passo è stato chiedere un contributo volontario mensile di almeno 50 euro ai parlamentari aderenti. E per l’organizzazione del Lingotto (costo all’incirca 30 mila euro) ci sarà un’autotassazione di 200 euro.

Corriere della Sera 15.1.11
Bersani punge gli oppositori «una linea alternativa non c’è»
Prodi: non vorrei che un giorno rimpiangessimo le primarie
di Monica Guerzoni


ROMA — «Io ho voluto che si votasse non per fare conte, ma per vedere se c’è un’altra linea. Per me non è emersa. Non basta punzecchiare o criticare una linea per affermarne un’altra...» . Pier Luigi Bersani non cambia rotta. Rafforzato dalla drammatica conta in direzione, che ha spaccato il partito ma formalizzato la sua maggioranza, il segretario guarda al voto anticipato e avverte Fini e Casini: «Usciamo o no dal decennio berlusconiano? Oggi uno dice sì e uno no. Ma cos’altro propongono? Con tutti questi giochini può essere che ci teniamo Berlusconi, magari sullo scranno più alto...» . Per scacciare il suo incubo ricorrente, quello di un Cavaliere che varca il portone del Quirinale, il segretario si appella ancora una volta ai leader del Polo della Nazione. E si prepara a convincere gli italiani che il suo «progetto di dieci anni» , che metta insieme progressisti e moderati, è l’unica strada per portare il Paese fuori dalla crisi. Prima però deve chiudere i conti con Veltroni, Gentiloni e Fioroni, i leader della minoranza usciti al momento del voto: scongiurando una rottura insanabile, ma certificando l’inconciliabilità delle posizioni. Il 22 gennaio, al Lingotto, Walter Veltroni svelerà la sua ricetta per ritrovare l’orgoglio democratico. E la partecipazione del segretario è in forse: «Se vado a Torino? Vediamo, io vado ovunque si discute di oggetti che riguardano l’Italia e il partito» . I toni restano alti, Bersani in conferenza stampa scaglia pietruzze contro gli avversari interni. Ironizza sulla minoranza «diventata maggioranza nelle interviste sui giornali» e segnala che, sulla Fiat, «neanche gli imprenditori italiani» la pensano come Veltroni. E poiché il suo invito al bon ton è caduto nel vuoto, torna a chiedere agli «associati» di tenere comportamenti «coerenti con la responsabilità che il Pd ha verso il Paese» . Ma intanto Paolo Gentiloni condanna la «prova di forza» e bolla come «tragico miraggio» l’idea di un’alleanza da Vendola al terzo polo. Per Beppe Fioroni è accaduto un fatto grave: «Hanno provato a cacciarci. O quantomeno, a farci sentire ospiti sgraditi e paganti in casa nostra» . L’asprezza dell’ex ministro cade su un Dario Franceschini «stupefatto e amareggiato» , che nega di aver mai spinto gli ex popolari verso la scissione: «Ho sempre cercato l’unità... È ingiusto attribuirmi la folle volontà di cacciare qualcuno» . Eppure la guerra tra fratelli coltelli continua. Enrico Gasbarra assolve Bersani e se la prende con i «guastatori» della maggioranza, e Lucio D’Ubaldo, altro fedelissimo di Fioroni, sentenzia: «Hanno perso i pasdaran» . Lo stato d’animo di Walter Veltroni trapela dalle parole di Walter Verini. Il braccio destro dell’ex segretario torna a criticare la conta «inutile e dannosa» , che ha «alimentato atteggiamenti da curva» . Eppure, riconosce Verini, qualche passo avanti Bersani lo ha fatto, parlando di «ambizione maggioritaria» e garantendo, almeno a parole, il rispetto del pluralismo interno. Chi ha vinto? Massimo D’Alema non ha dubbi: «Dalla direzione esce un partito più unito intorno a una linea autorevole e incisiva, rispetto alla quale non mi pare sia stata proposta nessuna alternativa significativa» . E Romano Prodi, che da Bologna guarda con preoccupazione alle contorsioni del Pd, teme di dover rimpiangere un giorno le primarie: «Momenti di democrazia, anche se imperfetta...» .

Corriere della Sera 15.1.11
Veltroni «lontano dal partito». Ma resta
«Stiamo finendo in mano alle oligarchie, sulle consultazioni non possiamo cedere»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Pier Luigi Bersani sta procedendo al cambiamento del Pd versione Veltroni. L’ex segretario assiste, apparentemente imperturbabile, a quel che avviene. «Parliamo solo a noi stessi e non siamo più in grado di parlare al Paese» , è il suo cruccio. Ma c’è di più. L’idea di «consegnare il partito alle oligarchie e agli apparati» amareggia come non mai Veltroni. Per questa ragione fa fatica a trattenere parole e malumori quando sente i discorsi che ormai va facendo Bersani e che, secondo lui, non lasciano presagire niente di buono. «Nel 2011— è il ragionamento del segretario— sarà opportuno organizzare una conferenza nazionale sul partito, coinvolgendo tutti i circoli. Per 20, 30 anni in Europa abbiamo vissuto una fase di ridiscussione dei partiti di massa. Dopodiché, come per tutti i problemi, in Italia abbiamo avuto una vicenda molto particolare. In Europa i partiti si sono indeboliti, ma nessuno ha mai pensato, com’è avvenuto invece da noi, di negare la loro funzione costitutiva. Però dobbiamo sapere che per il Pd il populismo e la logica del "capo"non vanno bene: noi siamo un partito e questo è il nostro dna» . E ancora, sulle primarie: «Lo strumento ha una sua utilità, ma ha anche prodotto dei problemi. È un tema che va affrontato senza sollevare bandiere e senza spirito di tifoseria» . Per farla breve, addio partito aperto in cui gli elettori contano quanto contano gli iscritti. E la direzione di ieri ha avvicinato questo traguardo fissato da Bersani perché con il voto il segretario ha allargato la sua maggioranza. Quindi nell’autunno di quest’anno il Pd rivedrà tutte le sue regole interne nel corso di una conferenza programmatica. È uno scenario che non può non preoccupare Veltroni: «Sulle primarie noi non possiamo cedere» . E con lui è preoccupata tutta la componente dei 75. Ma la minoranza è divisa sulle possibili soluzioni. Paolo Gentiloni sembra ormai sempre più distaccato dal partito. «Siamo in un vicolo cieco, così non si può andare avanti» , continua a ripetere l’esponente del Pd. Nella cui casa si sono tenute nei mesi scorsi le riunioni dell’ala più «estremista» dei Modem, quella di chi pensa che sia giunto il tempo di mollare l’ancora e di uscire dal partito. C’è poi la componente degli ex popolari, che rappresenta una fetta importante della minoranza. Il leader di quest’area, Beppe Fioroni, al pari di Gentiloni ha commissionato un sondaggio alla Ipsos di Nando Pagnoncelli. L’obiettivo? Quello di capire quale sia il peso degli ex ppi all’interno del Partito democratico. Stando a quelle rilevazioni per il 44 per cento degli elettori Fioroni e i suoi possono «aiutare il Pd a conquistare voti moderati e centristi» . L’intento del sondaggio è chiaro: dimostrare che il Partito democratico deve mantenere le sue caratteristiche di soggetto politico plurale. «Perché — spiega lo stesso Fioroni— noi non possiamo più sentirci stranieri in casa nostra, come sta invece avvenendo in questi giorni. Io capisco che c’è chi vorrebbe vederci andare via per rendere definitiva la trasformazione del Pd in un partito di sinistra» . Parla così, il responsabile Welfare, e intanto intensifica i suoi conversari con il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Lui giura che non andrà via, ma c’è chi è convinto, anche tra i suoi, che stia solo aspettando che lo caccino gli altri— intendendo per tali Bersani, D’Alema e Franceschini — per dire definitivamente addio al partito. Diversa, invece, la posizione di Veltroni. In lui il riflesso di chi viene dalle fila dei Ds — e del Pci, prima — si fa sentire. Compiere uno strappo definitivo con il Pd per l’ex segretario è più difficile, anche se non fa fatica ad ammettere con gli amici di «sentirsi lontano da questo partito» . Per questa ragione Veltroni e gli esponenti della minoranza a lui più legati, come Walter Verini, Achille Passoni, Giorgio Tonini, Stefano Ceccanti, Marco Minniti ed Enrico Morando, non hanno ancora deciso il da farsi. Sono sospesi tra l’idea di portare avanti la battaglia dall’interno del partito e la tentazione di tagliarsi i ponti alle spalle. Per il momento prevale la prima opzione, e infatti i veltroniani si stanno dando un gran da fare per allargare la loro sfera d’influenza. Di qui la decisione di collaborare con alcuni esponenti della maggioranza che vivono con disagio questa fase, come il vice segretario Enrico Letta che, non a caso, sarà il 22 al Lingotto alla manifestazione organizzata dall’ex leader del Partito democratico. 

il Riformista 15.1.11
«Sono pronto a un cantiere comune col Pd»
intervista. Nichi Vendola e il caso Fiat: «Non sono pentito di aver parlato di schiavismo né di essermi presentato ai cancelli di Mirafiori». Sulla “confluenza” col Pd: «Felice delle offerte di Bettini e Latorre per lavorare alla costruzione di un grande cantiere comune»
di Stefano Cappellini

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/327367/


l’Unità 15.1.11
Intervista a Moncef Marzouki
«Il regime è finito. Ora un governo di unità nazionale»
L’ex-detenuto politico, esule da anni in Francia: «Sono davvero frastornato ed emozionato Per il mio Paese questa è una giornata storica»
di Anna Tito


Poche ore prima della fuga di Ben Ali, Moncef Marzouki, concede all’Unità un’intervista che alla luce degli eventi maturati a fine giornata, appare profetica. «Sono davvero frastornato, emozionato in questa giornata storica -esulta Marzouki, esule in Francia, leader del Congrès pour la République, partito tunisino fuorilegge-. Stiamo assistendo alla fine della dittatura, manifestazioni sono in corso in tutto il Paese».
Signor Marzouki, le proteste continuano nonostante il Presidente abbia annunciato che le forze di sicurezza non spareranno più sui manifestanti, ordinato la riduzione del prezzo del pane, dello zucchero e del latte, e annunciato che non si ricandiderà nel 2014... «Ha mentito ancora una volta, e nessuno gli ha dato credito. Ma per fortuna tutto sta per finire. Si esigono con forza le dimissioni immediate di Ben. Ritengo imminente la fine del regime e non escludo che avvenga nelle prossime ventiquattr’ore». Quindi non sarebbe favorevole neanche a un governo di unità nazionale, come auspicato dal Ministro degli Esteri Kamel Morjane e dal capo del Partito democratico progressista, contro il “rischio di un bagno di sangue”? «Un governo di unità nazionale appare necessario, per far ripartire il Paese, poiché tutto è da rifare, dogane, polizia, giustizia, e organizzare libere elezioni. Ma va costituito senza Ben Alì e la sua cricca, specie della famiglia della moglie, i Trabelsi. L’unità nazionale non può avere inizio che con la caduta del dittatore, e sarà opera del Partito democratico». Due giorni fa aveva affermato che solo l’esercito avrebbe potuto deporre Ben Alì e gestire la transizione. Cos’e cambiato nel frattempo?
«È vero, mi ero dichiarato di questo parere, perché l’esercito si è rifiutato di sparare sui manifestanti, contrariamente alla polizia. Ma adesso il popolo ha preso in mano la situazione, e la transizione verso la democrazia sarà gestita unicamente dai cittadini. Quanto all’esercito, esso ha per il momento il dovere di proteggere il popolo dagli assassini di Ben Alì; in seguito potrà anche prendere parte, contribuire al processo di democratizzazione che però, lo ripeto, sarà opera nostra, non dei militari».
La repressione conferma quanto lei, contrariamente ad altri, ha sempre sostenuto, ovvero che il regime tunisino non era soltanto autoritario, ma una vera e propria dittatura?
«Infatti. Soltanto sotto una dittatura della peggiore specie si possono uccidere cento e più persone in un fine settimana. Il Paese ha vissuto per 23 anni sotto una dittatura poliziesca e mafiosa. Ma finalmente è in corso una rivoluzione, di quelle vere».
Questa rivoluzione, e non rivolta, come lei dice, è stata fatta dal popolo. Per protestare contro l’aumento del prezzo dei prodotti di prima necessità, o anche per la mancanza di prospettive, per i giovani in particolare?
«Stiamo vivendo una rivoluzione sociale, politica ed economica. Insomma, globale. Si combatte anche per finirla con la corruzione, che è causa della disoccupazione e della miseria, favorisce la fuga dei capitali all’estero, indebolisce gli investimenti interni ed esterni. Risolvendo il problema della corruzione, si risolve, almeno in parte, anche quello economico».
E dal punto di vista politico?
«I tunisini stanno lottando per la libertà, esigono una democrazia come quella di cui godono i popoli europei, occidentali. Si deve smettere di affermare che gli arabi non hanno bisogno di libertà, si tratta di un’assurdità. Equivale a dire che non hanno bisogno di amore o che non amano la musica, mentre amano la musica, vogliono l’amore, come tutti. E amano anche la libertà. Auspico che gli occidentali smettano di dire stupidaggini».
Per alcuni la repressione sarebbe stata causata dalla minaccia islamica. Qual è il suo parere? «Stupidaggini. In realtà Ben Alì ha distrutto, violando alla grande i diritti umani, un partito islamico conservatore e borghese, Ennadha, che era ben lungi dalla violenza della Jihad. In questa rivoluzione, gli integralisti islamici non esistono, basta ascoltare gli slogan laici scanditi dalla folla».
Il problema attuale della Tunisia le appare comune a tutti i Paesi arabi, come dice già il titolo della sua ultima opera Dictateurs en sursis (Dittatori in attesa di giudizio)? «Confermo appieno. Tutti i dittatori arabi sono in attesa di giudizio. Oggi tutti i Paesi arabi guardano a noi con speranza, pronti a imitarci se la nostra rivoluzione andrà a buon fine: in Algeria, ovunque, i popoli arabi si solleveranno contro le dittature per conquistare la libertà».

Corriere della Sera 15.1.11
La sponda sud che preme sull’Europa mediterranea
di  Cecilia Zecchinelli


Immigrazione spesso disperata, attentati che poi lasciano spazio a fasi di apparente stabilità, turismo più o meno esotico, materie prime e business (per gli addetti ai lavori). E i leader politici: dall’inossidabile Mubarak al riservato Mohammad VI, passando per il Colonnello Gheddafi. A parte questo, del Nord Africa si parla poco in Italia. E le rivolte scoppiate in Algeria e soprattutto in Tunisia, Paesi tanto vicini a noi, sono state per molti una sorpresa. La mancanza di un interesse continuativo e profondo delle opinioni pubbliche e dei media europei— con l’eccezione della Francia e in parte della Spagna — è riflessa in sostanza da quella dei governi. Il processo di Barcellona che nel 1995 lanciava la strategia comune europea per il Mediterraneo non ha dato frutti, al di là della creazione di nuove istituzioni, programmi culturali, qualche accordo di associazione, l’inizio del dibattito (rimasto tale) sull’area di libero scambio. E la nascita nel 2008, soprattutto per forte volere di Parigi, dell’Unione per il Mediterraneo: pure questa considerata da molti già fallita, per le divisioni sulla sponda Nord del Mediterraneo e, su quella Sud, per la presenza di Israele inaccettabile per alcuni Stati arabi. Anche ai difensori dell’Unione, comunque, è chiaro che il suo impatto sulle società e le economie del Nord Africa, se c’è, è trascurabile. Eppure, accanto alla grave e generale mancanza di democrazia, la situazione socioeconomica è da tempo esplosiva nella regione. Soprattutto, per il gap sempre più ampio tra le economie interne e il boom demografico: negli ultimi decenni, mentre le prime sono rimaste in mano a gruppi di potere chiusi, corrotti e spesso inefficienti, la crescita della popolazione è stata enorme. La capacità di assorbimento delle nuove generazioni da parte del mercato interno si è così dimostrata inversamente proporzionale alle aspettative dei giovani, più istruiti e globalizzati. Negli ultimi anni, segnalano gli economisti, il trend si è interrotto. Con l’eccezione dell’Egitto, primo nel mondo arabo per tasso demografico e terzo in Africa, nella regione le politiche dei governi unite alla massiccia scolarizzazione hanno causato un crollo delle nascite. Complessivamente, il numero medio di figli per donna che trent’anni fa era di 5,6 è sceso nell’ultimo decennio a 2,4. Ma sono proprio i nati negli anni Ottanta che oggi premono su sistemi sempre più deboli, nonostante la crisi globale li abbia colpiti meno di altri. Ognuno dei quali ha peraltro caratteristiche diverse. Egitto Tassi di crescita sostenuti (la Banca Mondiale prevede un 5,5%nel 2011), ancora in aumento gli investimenti esteri, tenuta del turismo e dell’export, ma allarme per il rialzo dei prezzi degli alimentari, l’elemento che ha scatenato le rivolte in Tunisia e Algeria. Dalle campagne continua la massiccia emigrazione nelle misere periferie delle città, dove la trasformazione verso l’economia di mercato non assorbe abbastanza mano d’opera, mentre la popolazione si avvia verso i 90 milioni, tre volte quella degli anni Sessanta. Accompagnata dalla forte repressione (le leggi speciali del 1981 sono ancora in vigore), la proverbiale stabilità del regime è a rischio. E a settembre si vota per il raìs. Libia Molto più ricca e meno popolata dei Paesi vicini, la Jamahiriya grazie al petrolio è in continua espansione economica. Confermati l’apertura agli investitori stranieri e lo sviluppo del settore privato avviati dopo la fine dell’embargo, il malcontento è più politico che economico. Ma il Colonnello, che due anni fa aveva promesso di distribuire a ogni libico la sua quota di entrate petrolifere (mai fatto), ha ora deciso di togliere tutte le tasse sui prodotti alimentari e invitato le banche a fare più crediti alle famiglie. Per prudenza. Tunisia L’ormai ex feudo di Ben Ali e famiglia non ha di fatto petrolio ma è ricco di fosfati, conta sul turismo (per ora in calo) e su una forte industria manifatturiera che esporta soprattutto in Europa e per questo colpita dalla recente crisi. Come ormai noto, il problema chiave è la discrepanza tra una generazione di diplomati e laureati (donne comprese) e le possibilità offerte dal Paese, dove i prezzi in forte aumento e la gestione corrotta dell’economia, uniti alla repressione, hanno fornito il terreno per la svolta. Algeria Il Paese più ricco in idrocarburi (30%del Pil, 95%dell’export), il meno impegnato sulla via delle privatizzazione e dell’apertura all’estero. Con un indebitamento minimo e riserve valutarie enormi potrebbe resistere agli scossoni della globalizzazione senza troppi problemi. Ma le infrastrutture sono carenti, l’esercito spesso inefficiente controlla tutto, anche qui i tantissimi giovani restano disoccupati. E la povertà di ampie zone del Paese è estrema quanto le entrate dello Stato. Marocco Bassa inflazione, buoni tassi di crescita, soprattutto una fase di riforme seguite alla salita al trono di Mohammad VI. La quinta economia dell’Africa, e la seconda del Maghreb dopo l’Algeria, gode il favore di investitori, economisti, mercati finanziari. Ma anche qui restano importanti sacche di povertà e scontento, e gran parte delle ricchezze del Paese sono controllate direttamente dal Re e dal suo entourage.

Repubblica 15.1.11
Il dittatore laico
Da idolo del ceto medio a tiranno così Ben Ali ha costruito un incubo
di Bernardo Valli


Può darsi che i successori racimolati in gran fretta siano solo dei suoi pretoriani
Lui e la famiglia della seconda moglie Leila controllavano i media e tutte le attività economiche del paese

Zine el Abidine Ben Ali aveva appena cominciato il suo quinto mandato presidenziale. A 74 anni era stato rieletto trionfalmente nell´ottobre 2009 e nessuno dubitava, fino a qualche settimana fa, che nel 2014 si sarebbe riproposto come capo dello Stato, poiché era convinto di essere insostituibile.
per quasi un quarto di secolo i fatti gli avevano dato ragione. Poi, improvvisa, è esplosa la rivolta popolare. La pacifica, mite Tunisia, terra di turismo e con una lunga tradizione commerciale, non presidiata dai militari come la vicina Algeria, né grintosa come il Marocco, si è stufata di quel presidente autoritario e affarista. E l´ha cacciato a furor di popolo. Può darsi che i successori, racimolati di gran fretta dall´esercito per evitare un pericoloso vuoto di potere, siano in realtà dei pretoriani, pronti a difendere nei limiti del possibile gli interessi dell´esule. Ma resta il fatto che il Maghreb ha perduto un dittatore e che gli occidentali (Stati Uniti, Francia, Italia) hanno un alleato "laico" in meno nel mondo musulmano.
La notizia della precipitosa fuga di Ben Ali da Tunisi non è stata certo accolta con indifferenza nei palazzi presidenziali del Maghreb. È arrivata come un annuncio di possibili future sventure. E a Washington, a Parigi, a Roma, nonostante le caute dichiarazioni o i silenzi imbarazzati, si sta in queste ore rimpiangendo un alleato che non brillava per il suo fervore democratico, ma che era considerato un nemico sicuro dell´integralismo islamico. Quindi un amico. La gioia dei tunisini è altrove fonte di preoccupazione. Per noi, al di là del Mediterraneo si è manifestata in queste ore una volontà popolare che, nell´impossibilità di praticare la democrazia, ha condotto a una liberazione, sia pure ancora da identificare.
Quando ventitre anni fa, il 7 novembre 1987, prese il potere «senza violenza ed effusione di sangue», Ben Ali fu salutato con simpatia persino dagli islamisti, che pur lo conoscevano come un poliziotto esperto nella repressione. Era allora primo ministro e ministro degli Interni, dopo essere stato capo della polizia ma anche diplomatico. Tra l´altro ambasciatore in Polonia. Nato in una famiglia modesta, della città costiera di Hammam Sousse, aveva salito tutti i gradini della gerarchia militare, frequentando anche accademie militari in Francia e negli Stati Uniti. Parlava un pessimo francese con un accento arabo-americano. Habib Bourguiba, il padre della patria, era ormai afflitto da una progressiva senilità e Ben Ali, ritenendosi il suo delfino, lo relegò in una residenza sorvegliata, senza troppi complimenti. Si parlò di un «colpo di Stato medico».
Il nuovo presidente fu salutato come un salvatore della patria che versava in pessime condizioni economiche e che si diceva fosse insidiata da un partito integralista islamico (Ennahdha) impegnato in innumerevoli e imprecisati complotti. Lui, Ben Ali, rilanciò l´economia gettando le basi di un liberismo nuovo per il paese e schiacciò il partito integralista. Ebbe anche impennate democratiche, poiché abolì il principio della "presidenza a vita" del tempo di Bourghiba e limitò a tre il numero dei mandati, che poi aumentarono via via che prendeva gusto ad esercitare il potere. Promosse persino una politica sociale detta di solidarietà, istituendo fondi speciali destinati ai più poveri, o alla creazione di un sistema di sicurezza sociale. Sull´esempio del predecessore, che aveva fatto della donna tunisina una delle più libere del mondo arabo, si dedicò per un certo periodo anche all´emancipazione femminile.
Mentre diventava l´idolo delle classi medie, favorite dal rapido sviluppo economico (la crescita è stata per anni superiore al 5 per cento); Ben Ali sviluppava al tempo stesso, e con identico zelo, la sua inclinazione alla repressione poliziesca. Non soltanto nei confronti degli islamisti, ma anche di qualsiasi oppositore, subito definito di sinistra. Cosi ha creato un´atmosfera da incubo. Le intercettazioni telefoniche estese a tutte le classi sociali rendevano le conversazioni enigmatiche, fitte di sottintesi. Negli anni Novanta le prigioni tunisine si sono riempite di persone che avevano osato criticare il regime. I giornalisti e i sindacalisti erano le vittime preferite.
Grazie a uomini di fiducia, spesso parenti di Leila, la seconda moglie, il presidente si è impadronito dei principali mezzi di comunicazione: quotidiani, radio, televisione. Mentre la famiglia Trabelsi, quella della moglie, e i clan alleati, allungavano le mani su tutte le altre attività economiche del paese: le banche, le compagnie aree, le rappresentanze di automobili di lusso, spesso tedesche, le compagnie di navigazione, i cellulari e tutti gli strumenti elettronici. Senza contare le residenze più pregiate, sulla costa, verso Gabez o verso Biserta.
Uno dei pilastri del regime era Abdelwahab Abdallah, capo di un organismo incaricato di controllare i massmedia, nazionali e internazionali. Compito di Abdallah era di far apparire Ben Ali come uno scudo contro l´islamismo radicale. A questo fine venivano inventate crisi più o meno gravi, presentate come minacce alla laicità. Lo slogan, che non lasciava indifferenti le cancellerie occidentali, era: «Gli estremisti amici di Bin Laden vogliono il potere». E gli alleati occidentali abboccavano all´amo, al punto da trascurare il carattere sempre più poliziesco del regime, e l´abbandono progressivo di quella politica sociale che Ben Ali aveva abbozzato all´inizio del suo lungo potere. Che importava se le galere erano piene, dal momento che chi le riempiva era un fiero avversario dell´estremismo islamico? Nel 2007 l´economia tunisina era classificata la migliore dell´Africa, e al tempo stesso i difensori dei diritti umani giudicavano il regime tunisino uno dei più liberticidi. La crisi ha attenuato i vantaggi economici, mettendo ancor più in risalto la repressione. E la Tunisia è esplosa.


Repubblica 15.1.11
Ratzinger contro le unioni di fatto "Danneggiano le coppie sposate"


ROMA - Approvare le unioni di fatto penalizza le coppie sposate. Lo ha detto il Papa ricevendo gli amministratori di Roma e del Lazio, il sindaco Gianni Alemanno e i presidenti Nicola Zingaretti e Renata Polverini, per il tradizionale scambio di auguri di inizio d´anno. «Approvare forme di unione che snaturano l´essenza e il fine della famiglia, finisce per penalizzare quanti, non senza fatica, si impegnano a vivere legami affettivi stabili, giuridicamente garantiti e pubblicamente riconosciuti», ha detto il Papa. Tra i temi affrontati da Benedetto XVI, anche la tutela della vita, con l´impegno dei consultori contro l´aborto, e la necessità di politiche organiche a favore delle famiglie a partire dagli asili nido.

Repubblica 15.1.11
La circolare di Marangoni dopo la sentenza della Consulta che blocca le espulsioni degli indigenti. "Decisione concordata con i giudici"
"Non arrestate i clandestini se sembrano poveri" dal Questore di Milano stop alla linea dura
di Massimo Pisa


MILANO - Visto che non sono punibili, in presenza di un «giustificato motivo», evitiamo di arrestarli: basterà una denuncia in stato di libertà, d´ora in poi, per gli immigrati irregolari già colpiti da ordine di espulsione, «avendo cura di evidenziare negli atti le motivazioni che hanno determinato il mancato arresto in flagranza». È il senso, e la lettera, di una circolare interna del questore di Milano Alessandro Marangoni, la nuova prassi da osservare per gli agenti delle volanti e dei commissariati dopo la sentenza numero 359 della Consulta del 17 dicembre scorso, già oggetto di plauso (centrosinistra, finiani) e attacchi da Lega e ministro dell´Interno Maroni («Studieremo adeguate contromisure»). Non un ordine, tanto meno una indicazione generale del Dipartimento di pubblica sicurezza arrivata da Roma. Piuttosto «si invita il personale operante ad attenersi a tali indicazioni di carattere operativo». Tutti d´accordo, però, visto che le nuove linee di indirizzo, sottolinea Marangoni nella circolare, sono state «peraltro già concordate con l´Autorità giudiziaria».
Quali siano i casi di «giustificato motivo», viene specificato nella seconda delle due pagine del documento firmate dal questore. L´arresto, d´ora in poi e fino a nuova giurisprudenza, è previsto «a titolo esemplificativo, quando il cittadino straniero, sempre irregolare, sia trovato in possesso di adeguate risorse finanziarie che escludono il ricorrere di uno stato di indigenza, ovvero quando lo straniero sia proprietario di un´autovettura, o ancora quando lo stesso dichiari di vivere in un appartamento che appare dalle descrizioni fornite verosimilmente dignitoso, o se il soggetto abbia un coniuge in Italia o una famiglia in condizioni economiche non precarie». Casi precisi. «Nell´inversa ipotesi si procederà alla denuncia dello stesso in stato di libertà, previo parere concorde dell´Autorità giudiziaria». Toccherà all´agente, al suo occhio controllare, valutare e decidere. E poi circostanziare, nel verbale. Soprattutto nell´ovvia forbice che va dal clochard senza un euro in tasca e lo spacciatore fermato a bordo di un suv. «Ci semplificano il lavoro», commenta un funzionario.
Manette da evitare, se non è il caso, per accorciare la litania delle scarcerazioni cominciate a Milano lo scorso 28 dicembre, quando due egiziani di 18 e 21 anni vennero rimessi in libertà perché troppo poveri per pagarsi il biglietto fino al Cairo. Al provvedimento della Corte costituzionale, si era poi aggiunta la direttiva Ue del 24 dicembre che allunga a 30 giorni il periodo per eseguire l´espulsione, accorcia da 10 a 5 gli anni per rientrare in Italia e prevede la sospensione in caso di ricorso. Altre scarcerazioni erano seguite dai tribunali di Torino e Firenze.

Rari nantes in gurgite vasto
l’Unità 15.1.11
Rifugiati. L’Italia sempre più ostile
di Marco Pacciotti


Rari nantes in gurgite vasto” ovvero “sperduti naviganti nell’immenso gorgo”. Così Virgilio descriveva Enea e i suoi in vista dell’approdo sulle coste laziali. Enea e il suo manipolo di donne e uomini erano degli sconfitti in cerca di un luogo dove sopravvivere. Degli autentici profughi di guerra! L’epica letteraria offusca questo dato, ma è così. Proviamo a pensare se fossero esistiti allora i respingimenti in mare. Volendo credere al mito, probabilmente Roma non sarebbe mai esistita. Di uomini e donne rifugiati o sfollati, oggi nel mondo ce ne sono oltre 43 milioni. Migranti forzati, percepiti dal nostro opulento occidente come una minaccia per il nostro benessere. Una falsità. La giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, che la Chiesa celebra il 16 gennaio, dovrebbe servire, fra l’altro, a dare una corretta informazione e a smuovere le nostre coscienze. Questo popolo in fuga rappresenta solo una minoranza “fortunata” rispetto alle centinaia di milioni che invece non riescono a fuggire da guerre, persecuzioni e carestie. Fondamentale quindi mobilitarsi a sostegno di quelle organizzazioni che sostengono “l’urto” e in favore dei paesi che li accolgono. Paesi che contrariamente alla vulgata, non sono né ricchi né tutti situati nella ormai fobica Europa. Alla testa di questa classifica infatti svettano il Pakistan con quasi 2 milioni di rifugiati, la Siria con oltre 1 milione. Poi la Colombia, il Ciad, la Tanzania, il Kenya. La nostra Europa fa poco, nonostante vanti PIL stratosferici. L’Italia, poi, quasi nulla. Basti pensare che a fronte di una popolazione di 60 milioni, ne accogliamo circa 55.000, la piccola Olanda invece con 6 milioni di abitanti, ne accoglie oltre 80.000. Nel nostro Paese, inoltre, in molti vengono poi abbandonati a se stessi, come nel caso dei 150 somali che vivono nella ex ambasciata somala o degli eritrei a Ponte Mammolo o degli afghani accampati vicino al binario 15 ad Ostiense per citare realtà che conosco direttamente.
Tutto questo nonostante l’Italia aderisca alla Convenzione di Ginevra del 1951 e nonostante la nostra Costituzione all’articolo 10 tuteli i rifugiati. La famigerata politica dei respingimenti in mare dal 2008 ha ridotto la possibilità di richiedere asilo. Tant’è che l’Italia risulta essere l’unico Paese al mondo dove dal 2008 il numero di richieste è crollato di oltre il 50% a fronte di una tendenza a crescere generalizzata. C’è bisogno di modernizzare in chiave europea una legislazione che recepisca i principi espressi dalla nostra Costituzione, di sostenere le organizzazioni che operano nel mondo con l’UNHCR, di dare una mano a tutte quelle realtà che agiscono nel nostro Paese. Fra queste la Liberi Nantes, una società sportiva che in tre anni ha saputo dare un po’ di normalità e gioia di vivere a ragazzi e ragazze scappati per vivere, come fu per Enea.

il Fatto 15.1.11
Una conseguenza della crisi? L’aumento degli aborti
L’allarme parte dalla Sardegna: tra Iglesias e Carbonia nel 2009 ci sono state 344 interruzioni su 881 nascite
di Cinzia Simbula


La crisi nemica dei bambini. Ne nascono pochi e, in proporzione, gli aborti (tra volontari e spontanei) sfiorano il 40 per cento. Com’è difficile pensare a una famiglia quando le fabbriche chiudono, l’incubo della cassa integrazione e della mobilità non dà un attimo di tregua e il futuro appare sempre più grigio. Senza prospettive. E chi una famiglia già ce l’ha non pensa certo ad allargarla.
NEL SULCIS Iglesiente dilaniato dall’emergenza lavoro, un territorio con spiagge e vegetazione mozzafiato nella zona sud occidentale della Sardegna, dove gli abitanti sono circa 150 mila e l’esercito di disoccupati sfiora i 30 mila, le interruzioni di gravidanza volontarie avvengono prevalentemente per colpa della crisi. A confermare che le drammatiche condizioni socio-economiche sono determinanti nel momento in cui una donna sceglie di compiere un passo comunque sofferto, sono i medici del reparto Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Santa Barbara di Iglesias (città capoluogo insieme a Carbonia), unico nel territorio a praticare l’aborto volontario sulla base della legge 194.
“In effetti è così – ammette il primario Giuseppe Santeufemia – non è più come succedeva trent’anni fa, quando l’aborto veniva considerato quasi un’alternativa alla contraccezione. A indicare che la relazione con la situazione di crisi è forte sono le stesse donne quando vengono da noi, ma ce lo dicono anche i dati Istat, dai quali si evince la correlazione tra emergenza economica delle regioni del sud Italia e il tasso di abortività”.
AVERE un figlio, in certe situazioni, viene considerato un lusso che non ci si può permettere. Troppo rischioso pensare a una maternità quando l’incertezza la fa da padrona e, se ci si trova davanti a una gravidanza non programmata, il probabile lieto evento non è più tale. I dati sono eloquenti. Nel 2009, a livello provinciale, il numero complessivo di nascite (nei distretti ospedalieri di Iglesias e Carbonia) è stato pari a 881. Gli aborti sono stati, complessivamente , 344. Un tasso di abortività complessivo, rispetto alle nascite, pari al 39,05 per cento. Con un altro parametro di riferimento, ovvero il numero di donne in età fertile (dai 15 ai 48 anni), l’indice è invece del 10,4 per mille e quello delle nascite risulta del 26 per mille. I dati del 2010 non sono meno confortanti, seppure in questo caso siano parziali e comprendano solo il distretto di Iglesias. Su 362 nascite gli aborti sono stati 147, di cui 50 interruzioni volontarie. Altro dato importante è quello dell’età, generalmente superiore ai 30 anni. Nel Sulcis, sinora, non sono state praticate interruzioni di gravidanza con il metodo farmaco-logico (la più nota Ru486). Tutte, dopo avere letto e firmato il consenso informato, hanno scelto il metodo chirurgico.
Osservando i dati, emerge con chiarezza anche il numero elevato degli aborti spontanei che per i medici potrebbero essere legati a una questione ambientale. “Abbiamo sicuramente anche un tasso di aborti spontanei elevato – dice il primario Santeufemia –, il che la dice lunga sulla situazione, perché verosimilmente il fenomeno è legato alle problematiche ambientali”. Il condizionale è d’obbligo, dal momento in cui non esistono (come pure per molte patologie ricorrenti nel territorio) dati scientifici che possano confermare quelli che sono ora sospetti. Non a caso lo stesso Santeufemia evidenzia la necessità di compiere accertamenti e studi in grado di confermare, o smentire, quelli che per ora sono sospetti. “Sta agli enti competenti agire di conseguenza, promuovendo uno studio epidemiologico per fare emergere con certezza se esiste una correlazione tra aborti spontanei e inquinamento ambientale”.

l’Unità 15.1.11
Israele. Un Paese davvero normale
di Moni Ovadia


Il padre fondatore di Israele David Ben Gurion, quando seppe che un ebreo della nazione appena costituita era stato arrestato per furto, esultò dicendo:"ecco, siamo un paese normale come tutti gli altri". Chissà se colui che fu il primo premier dello Stato ebraico oggi esulterebbe di fronte all'ondata di maccartismo scatenata dal governo contro i militanti della sinistra israeliana, contro i movimenti pacifisti e contro le associazioni per la difesa dei diritti civili e dei diritti dei palestinesi. Ben Gurion definiva sprezzantemente fascisti i Begin e i Shamir, se vivesse oggi con quali appellativi descriverebbe gli esponenti di Israel Beitenu, il partito di governo di Avigdor Liberman, ministro degli esteri dell'esecutivo guidato da Bibi Netanyahu? Questi ultranazionalisti reazionari e razzisti, se non fosse loro capitato di nascere ebrei, incarnerebbero il prototipo dell'antisemita. Un esponente della loro squadra parlamentare ha chiesto una commissione d'inchiesta contro tutte le voci più onestamente critiche della società israeliana nei confronti della politica colonialista e repressiva del governo invocando come motivo, nel modo tipico di tutte le peggiori dittature fasciste, il pericolo per la sicurezza nazionale. Questi politici liberticidi stanno cantando il de profundis per i valori veri o presunti del'ideale sionista e sputano in faccia a tutti coloro che ci hanno creduto in solido con il coro muto delle altre forze della coalizione inclusi i sedicenti laburisti di Ehud Barak. Il mito di Israele come il glorioso piccolo Davide delle nazioni, quello della pretesa eccezionalità morale, se mai sono esistiti, sono morti e sepolti. L'etica della Torah non abita certo fra questi governanti israeliani. Israele è diventato un paese normale con un governo schifosamente normale.

l’Unità 15.1.11
«Suono la musica cancellata dal Nazismo»
Si chiama «Recovered Voices» ed è un progetto per riportare in vita le opere dei musicisti ebrei cancellate dal regime. Ne parla il celebre direttore d’orchestra che oggi e domani salirà sul podio a Piacenza e Parma
di Silvia Mendicino


Sono certo che pochi anni di governo politico e sociale nazionalsocialista porteranno ricche innovazioni nel campo della produzione artistica e grandi miglioramenti nel settore rispetto ai risultati degli ultimi anni del regime giudaico.(...) Per raggiungere tale fine, l’arte deve proclamare imponenza e bellezza e quindi rappresentare purezza e benessere. (...)Chiunque volesse giustificare i disegni o le sculture dei nostri dadaisti, cubisti, futuristi o di quei malati espressionisti, sostenendo lo stile primitivista, non capisce che il compito dell’arte non è quello di richiamare segni di degenerazione, ma quello di trasmettere benessere e bellezza». Con queste parole, e molte altre ahinoi, Adolf Hitler esprimeva, nel discorso tenuto al Congresso sulla cultura del 1935, la sua concezione di arte «degenerata», ossia qualsiasi forma di arte che non esaltasse lo stile di vita ariano. Il Regime nazista mise a tacere tutti gli artisti ebrei, e non solo. Si interessò di ogni forma d’arte, musica compresa. Costrinse al silenzio due generazioni di compositori che furono soppressi, oscurati o costretti alla fuga. Molti di quelli che morirono nei campi di concentramento o che si videro negata la libertà personale e la loro creatività, furono destinati all’oblio dopo la fine della guerra. Facciamo qualche nome: Alexander Zemlinsky, Franz Schreker, Viktor Ullmann, Pavel Haas, Erich Wolfgang Korngold, Berthold Goldsch-midt, Bohuslav Martinu, Kurt Weill. La lista dei nomi è lunga.
«Riportare in vita le loro opere è un dovere morale, storico e artistico», afferma James Conlon, direttore musicale della Los Angeles Opera, che da anni è impegnato nel progetto di riscoperta ed esecuzione di queste musiche. «Dobbiamo far rivivere la musica di quanti hanno avuto la sola colpa di essere ebrei, oppure contrari e pericolosi per il regime» continua il direttore d’orchestra che oggi e domani dirigerà la Filarmonica Arturo Toscanini nelle città di Piacenza e Parma. Il concerto del 16 è in ricordo della morte di Arturo Toscanini (New York 16 gennaio 1957). In programma anche la Kammersymphonie di Franz Schreker.
Maestro, come è nato il suo interesse per questa musica e come ha preso forma il progetto? «È nato circa dieci anni fa quando lavoravo in Germania. Ho avuto l’occasione di ascoltare un pezzo di Zemlinsky e ho cominciato subito ad interessarmi della sua musica. Da lì è nato l’interesse per i suoi contemporanei e gradualmente ha preso vita il progetto. Io non conoscevo questa musica e questa mancanza mi sembrava inaccettabile. Ho ini-ziato ad eseguire questi lavori e anche ad inciderli. Quando Placido Domingo mi ha chiesto di diventare Direttore Musicale della Los Angeles Opera io ho imposto come condizione la possibilità di eseguire queste musiche. E così è nato il progetto Recovered Voices che gode di finanziamenti privati, solo privati. Quando è possibile io porto questi lavori in giro per il mondo».
Qual è la reazione del pubblico?
«Dipende dai Paesi, ma generalmente il pubblico reagisce con grande interesse. Mi chiedono informazioni a riguardo. Ed io ci tengo molto a sottolineare l’esistenza di una Fondazione, Orel Foundation, nel cui sito è possibile trovare tutte le informazioni utili riguardo a questi compositori, alla loro vita e alle loro opere. Per molto tempo, troppo, non si è saputo nulla. Consiglio a tutti di visitare il sito».
Lei parla di una vera e propria frattura nella tradizione musicale tedesca causata dal regime nazista. «Esattamente, si tratta di una tradizione antica di secoli, che da Bach si è tramandata di generazione in generazione con grande fervore creativo. Fino all’arrivo del Nazismo e della famigerata lista dell’Entartete Musik (musica degenerata). Molti compositori sono scappati, altri sono stati uccisi nei campi di concentramento. I compositori di cui parlo non sono tutti ebrei, ma per la maggior parte si. E così tutta questa musica è stata dimenticata. È caduta nell’oblio. Noi non immaginiamo quanto fosse viva la vita musicale della prima metà del XX secolo. Molti dei compositori poi costretti al silenzio erano conosciuti e ben apprezzati nei primi decenni del Novecento».
Ad esempio Schreker?
«Sì, lui era un compositore di grande successo, quasi come Richard Strauss. Mi piace molto Schreker. Ognuno di questi musicisti ha la sua storia e il suo linguaggio musicale. Ma tutti, in maniere diverse, sono stati danneggiati dal Nazismo. Pensiamo anche a Viktor Ullmann, morto ad Auschwitz. Nel campo di concentramento di Terezin in due anni ha composto venti opere».
In un suo articolo lei ha scritto che ci sono tre motivazioni dietro a questo progetto. Quali? «C’è una motivazione storica che dovrebbe interessare soprattutto gli storici della musica del 900, ossia il bisogno di colmare questa lacuna enorme nella storia della musica colta. E c’è una ragione artistica che risiede nella bellezza di queste opere e che dovrebbe portare tutti i musicisti a prenderle in considerazione. Si tratta di veri e propri capolavori».
Molti pensano che non esistano capolavori dimenticati. «È vero, e questo rivela la nostra ignoranza. Dall’inizio della storia umana intere civiltà sono state distrutte dalle guerre insieme alle loro opere, ai loro capolavori. Ma questo cliché dipende anche dalla nostra cultura moderna che ci ha portato a credere che i prodotti famosi sono i migliori. Il marketing, la pubblicità, ci hanno convinto che se non sei conosciuto non sei nessuno, non vali nulla. E invece si dovrebbe sempre tenere presente la differenza tra il prodotto e la sua presentazione. Questa sfumatura nella società di oggi purtroppo è sparita».
E la terza ragione?
«La motivazione di ordine morale. Terza non per importanza. Ogni persona che abbia la possibilità di rovesciare un’ingiustizia ha il dovere morale di farlo. Questo è quello che i miei genitori mi hanno sempre insegnato fin da bambino. Per me è una regola fondamentale della vita. Noi non possiamo ridare la vita a questi compositori ed annullare le sofferenze che il Regime nazista ha causato loro, però possiamo ridare vita alle loro opere. La mia missione come uomo e come artista è quella da ridare voce a chi è stato vittima di un’ingiustizia. Tenendo viva la loro musica e quella di tutte le vittime del totalitarismo neghiamo ai regimi passati vittoria postuma».
A che punto è il progetto? Quanto manca ancora da riportare alla luce ed eseguire? «Ancora manca molto. Mi muovo da anni praticamente da solo, siamo in pochissimi a lavorare al progetto. Io non ne vedrò certamente la fine. Spero di lasciare il posto a qualcun altro animato da sete di conoscenza e giustizia».

il Fatto 15.1.11
Il nostro appello per Panahi
Il regista iraniano rischia il carcere Un simbolo della repressione del regime


Jafar Panahi rischia sei anni di carcere dopo la condanna del Tribunale di Teheran. Oltre alla galera, il regista Leone d’Oro per Il Cerchio rischia di non poter più lavorare per 20 anni. Nè girare film, nè scrivere sceneggiature. Panahi potrebbe essere arrestato nei prossimi giorni. Nell’intervista rilasciata al Fatto due giorni fa, il cineasta ha chiesto aiuto alle personalità del cinema italiano per un gesto di solidarietà umana e professionale che abbia la forza di influire sulla volontà del regime iraniano. Riprendiamo le sue parole per lanciare un appello alle singole persone, alle istituzioni, alla società civile affinchè sostengano la sua causa alla quale chiediamo di aderire.
Ieri abbiamo pubblicato le posizioni di alcuni registi italiani, tra cui Gianni Amelio e Pupi Avati, che si rivolgono alla politica – e in particolare al ministro delle Attività Culturali, Bondi, e al ministro degli Esteri, Frattini – per assumere un’iniziativa in difesa della libertà personale e d’espressione dell’autore iraniano.
Jafar Panahi informato delle reazioni dei suoi colleghi alla sua intervista, ha espresso gratitudine per la sensibilità dimostrata dai cineasti italiani.
Dopo una successiva conversazione con lui, il nostro collaboratore Hamid Ziarati – che è in contatto con l’entourage del regista – si dice convinto che la richiesta dei cineasti italiani per un’assunzione di responsabilità rivolta alla politica non potrà che avere un’eco positivo sul giudizio finale della Corte d’Appello del tribunale della Repubblica Islamica dell’Iran.
DA TEHERAN, chi conosce la linea ricattatoria della politica del governo Ahmadinejad, sottolinea però il rischio che ci sia un prezzo da pagare da parte del governo italiano per riuscire nel suo intento. E si ritiene che potrebbe essere più incisivo un atto concreto, non simbolico ma eclatante, che andasse al di là di appelli, assemblee o dibattiti in Italia.
Un’azione corporativa, insomma, in nome del cinema italiano – come riporta Ziarati – che ha tanto donato al cinema iraniano, e della libertà d’espressione; un atto portato fisicamente nel cuore della Repubblica Islamica dell’Iran da un loro rappresentante per far sentire un po’ meno isolati, non solo Panahi ma anche il suo collega Rasoulof (di fatto nella sua stessa situazione) e con loro tutti i cineasti e gli intellettuali iraniani che in questo momento sono costretti a imporsi il bavaglio o perire.
 I primi firmatari dell’appello sono Gianni Amelio, Pupi Avati, Roberto Faenza Daniele Luchetti.

Repubblica 15.1.11
I territori della psiche
Fede e ragioni la fisica di Dio diventa un giallo
a cura di Doriano Fasoli

Bruno Arpaia e un libro ambientato nel mondo della fisica Il Cern di Ginevra, scienziati in fuga, spie e terroristi

Nel 1985 Atlante occidentale, un romanzo di Daniele Del Giudice ambientato presso il Cern di Ginevra (L´Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare), attirò l´attenzione della critica per la particolare tessitura della trama. Nel solco tracciato da Primo Levi e Italo Calvino, Del Giudice raffigurava sul piano narrativo il confronto fra quelle che Charles P. Snow aveva chiamato, già nel 1959, "le due culture". Atlante occidentale metteva infatti in scena due personaggi rispettivamente chiamati a rappresentare il sapere scientifico (un giovane fisico italiano) e quello letterario (un anziano scrittore straniero in odore di Nobel). Proprio a partire da questo precedente, peraltro esplicitamente ricordato nella pagina dei ringraziamenti, Bruno Arpaia prende le mosse per una vicenda in apparenza molto simile a quella del suo modello.
L´energia del vuoto (Guanda, 262 pagine, 16,50 auro), si svolge infatti presso il Cern di Ginevra, e verte sull´incontro fra una bella reporter di Madrid, in realtà nota anche come scrittrice, e un gruppo di fisici. Parte del libro (forse la più prevedibile, benché ovviamente indispensabile al racconto) ruota appunto sulle ampie e dettagliate spiegazioni che una serie di scienziati, di diverse tendenze e nazionalità, offrono alla sprovveduta giornalista. In questo modo, il lettore è portato per mano lungo gli affascinanti dibattiti sulla natura dell´universo e della materia, immerso in un linguaggio tecnico ricchissimo, dove anche il termine più semplice, "Susy", nasconde un significato complesso ("Supersymmetry").
Al centro del plot sta l´inaugurazione del cosiddetto Lhc (Large Hadron Collider), ossia niente di meno che un potentissimo acceleratore di particelle, "la più grande macchina mai costruita dall´umanità". La sua presenza spicca solenne e minacciosa, al punto che qualcuno giunge a considerarla come un pericolo per la stessa umanità: «Era davvero un pozzo senza fondo, un buco circolare alto come un palazzo di quasi trenta piani». Ed ecco il commento di un tecnico: «Questo è l´anello di ventisette chilometri che corre sotto terra tra Svizzera e Francia. Fra qualche mese quel condotto sarà il posto più freddo dell´universo».
Rispetto al libro di Del Giudice, i ruoli sono invertiti: le istanze del romanzo vengono rappresentate dall´affascinante spagnola, quelle della scienza da un sessantenne teorico italiano. Le analogie, però, si fermano qui, in quanto, a differenza che in Atlante occidentale, il testo di Arpaia, accanto all´esposizione delle più svariate ipotesi fisiche, accanto alle prevedibili discussioni filosofiche, innesta un´avvincente romanzo d´azione. È senza dubbio questo l´autentico motore della narrazione, che funge veramente da acceleratore delle particelle-personaggi: come se i loro singoli destini fossero immessi nell´anello sotterraneo di Ginevra per giungere ad un punto di collisione. Pur senza svelare il finale, basti dire che un gruppo di fondamentalisti islamici (appoggiato da una sorta di fondamentalista della "teoria delle stringhe") progetta il sabotaggio dell´esperimento. Potremmo allora parlare di un "giallo gnoseologico"…
Con una scrittura tersa e sorvegliata, il racconto si svolge su due piani paralleli. Mentre gli scienziati si preparano al fatidico giorno in cui sarà inaugurato il nuovo apparecchio, la responsabile del Lhc, scopre che suo marito e suo figlio adolescente sono scomparsi. Fuggiti in piena notte dalla Svizzera, i due si dirigono in Spagna. Perché? Lo scopriremo solo al termine di molte peripezie, ma nel frattempo notiamo un curioso effetto di sovrapposizione: all´atmosfera fredda e cerebrale di Atlante occidentale, si va sostituendo il pathos e la concitazione di Era mio padre, un film di Sam Mendes del 2002. In quell´opera, un grande Tom Hanks, braccato da Paul Newman, era costretto a scappare per le sconfinate distese dell´America trascinandosi dietro il figlioletto. Allo stesso modo, Pietro, torturato da una crisi coniugale e convinto di essere pedinato da qualcuno, si porta dietro il piccolo Nico, assonnato e recalcitrante.
Sono pagine tese e insieme tenerissime, pervase dall´amore paterno e da una crescente disperazione. Il mondo intero, infatti, sembra crollare, come è crollata la Torre Eiffel a Parigi, distrutta da un attentato di Al Qaeda. Arpaia, dunque, sviluppando le avventure (anche sentimentali) che si svolgono attorno all´acceleratore nucleare, descrive le tappe dei due fuggiaschi. Ma a ciò si aggiungerà, nei capitoli successivi, un´inattesa guerra di nervi fra spie e polizia. Strani scherzi del linguaggio: in qualche modo non sarebbe errato definire L´energia del vuoto come la storia di una "talpa" nell´anello sotterraneo, «un mostro da dodicimilacinquecento tonnellate sepolto a cento metri sotto terra». Partiti dalla ricerca del bosone di Higgs, un elemento tanto minuscolo e fondamentale da essere soprannominata "la particella di Dio", i protagonisti del romanzo si ritroveranno così al centro di un complotto i cui mandanti agiscono in base a una granitica, inesorabile e barbarica "fede in Dio".

venerdì 14 gennaio 2011

l’Unità 14.1.11
«Vincere» di Bellocchio non può correre per gli Oscar
Non sarà eleggibile agli Oscar

«Vincere» di Marco Bellocchio (e quindi neanche Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi) perché da regolamento, per l'iscrizione all'Academy Award, non possono partecipare i film che in America escono in contemporanea in VOD (Video on Demand) e in sala, come è avvenuto per il film di Bellocchio distribuito in Usa dalla Ifc. Il film, che non è stato scelto a rappresentare l'Italia nel 2009 (bensì venne scelto «Baarìa»), avrebbe potuto teoricamente partecipare come film uscito in America nel 2010. «Ho un’età in cui si reggono ben altre delusioni», commenta Marco Bellocchio

Corriere della Sera 14.1.11
Delusione di Bellocchio Niente gara agli Oscar

ROMA— «Ho un’età in cui si reggono ben altre delusioni, questa è minima» : così Marco Bellocchio commenta la sua esclusione dagli Oscar. Il suo film Vincere che ha avuto critiche ottime in America, inserito tra i migliori film dell’anno dal NyMagazine, non ha i criteri di eleggibilità per l’Oscar essendo uscito in America contemporaneamente in sala e in vod, ossia in tv video on demand. L’illusione era stata alimentata nei giorni scorsi dal New York Times che aveva chiesto a tre dei suoi critici di stilare l’elenco delle proprie nomination e a sorpresa avevano indicato Vincere come miglior film, Filippo Timi come miglior attore non protagonista e Giovanna Mezzogiorno (nella foto con Timi) tra le attrici protagoniste.

l’Unità 14.1.11
La relazione del segretario del Pd approvata con 127 sì, due astensioni e due voti contrari
Programmi e alleanze passa la linea di Bersani
La relazione del segretario passa con 127 sì, due astensioni e due voti contro. Gli esponenti di movimento democratico non partecipano al voto. D’Alema: «Casi isolati». Veltroni non prende la parola.
di Simone Collini


«Scusate, ma qual è la proposta alternativa?». Bersani butta lì la frase dopo otto ore di discussione a porte chiuse, dopo che ha aperto i lavori della Direzione insistendo sul «progetto per la riscossa del paese» che il Pd «vuole discutere» con le forze di sinistra e di centro, dopo essere venuto a sapere che la minoranza di Movimento democratico vuole votare contro la sua relazione, dopo aver ascoltato Fioroni minacciare le dimissioni sue e di Gentiloni (che nulla sapeva della mossa del compagno) dagli incarichi di partito perché il franceschiniano Bressa ha sollevato il problema di come si possa mantenere un incarico «in un partito di cui non condividono la linea», e dopo aver continuato a scorrere sul suo Ipad (regalatogli a Natale dai suoi collaboratori) i siti web che per tutto il pomeriggio hanno parlato di un Pd spaccato.
OTTO LUNGHE ORE
Bersani per tutto il tempo ascolta gli interventi dei compagni di partito, quelli a sostegno della sua linea e quei «casi isolati», per dirla con D’Alema, che la contestano, osserva Veltroni andar via a metà pomeriggio senza prendere la parola (così come prima di lui Chiamparino e Renzi), registra la distanza tra la discussione sulle colpe del governo, sui problemi del paese, sulla Fiat che si fa nel salone al terzo piano del Nazareno e l’immagine del partito che esce all’esterno. Così nella replica finale Bersani un po’ fa delle aperture alle proposte dell’area Marino (verrà costituito un gruppo di lavoro per definire la linea del partito sulla legge per il biotestamento che si vota a febbraio e verrà organizzato un seminario sulle primarie a cui saranno invitati anche con consiglieri politici di Obama e della Clinton), un po’ disinnesca la polemica su dissenso e incarichi dei due Modem («erano in minoranza già prima, sono il segretario e non ho mai posto il problema, vedano loro»), un po’ rilancia la proposta «tutt’altro che politicista» di lavorare al progetto «per una riforma repubblicana e un patto per la crescita e il lavoro» da discutere con le altre forze dell’opposizione. Ma aggiungendo: «Non capisco quale sia la proposta alternativa alla mia, visto che per me il Pd deve stare al centro del campo delle opposizioni e nella sua autonomia lavorare a un progetto da discutere poi con gli altri. Vogliamo chiamare questo vocazione maggioritaria? Facciamolo, io non lo faccio perché non voglio un Pd da solo alle elezioni, anche se siamo gli unici in grado di tenere unito il paese». Parole forse anche più dure di quelle pronunciate in mattinata e che avevano irritato gli esponenti di Movimento democratico (aveva chiesto un voto alla sua relazione per fare «chiarezza» e aveva lanciato un «richiamo» per «uno stile di discussione composto e solidale»). Ma una rapida consultazione tra quelli della minoranza rimasti al quartier generale del Pd e Veltroni è stato sufficiente per far cambiare linea: niente voto contrario, non si partecipa e basta.
Così la linea di Bersani passa con 127 sì, due astenuti (gli ulivisti Zampa e Santagata, che temono una messa in discussione delle primarie anche se Bersani ha detto che quelle in programma per le amministrative si faranno e che in generale è necessaria una «revisione» per non logorare lo strumento) e due voti contrari (le calabresi Corea e Frascà, che contestano il commissariamento del partito regionale). Dopodiché le versioni divergono.
Lasciando il Nazareno i veltroniani spiegano il cambio di linea col fatto che hanno apprezzato, della replica finale, il cambio di tono e la ripresa di alcuni passaggi di Ichino sulla Fiat. I bersaniani spiegano che sulla Fiat il segretario non ha detto niente di diverso da quanto sostenuto aprendo i lavori (rispettare l’esito del referendum, attenzione agli investimenti) e che gli esponenti di Movimento democratico hanno solo puntato a tenere alta l’attenzione su di loro in vista del “Lingotto 2” (il 22 a Torino) ma hanno temuto di andare alla conta. Come che sia, quella siglata ieri rischia di essere solo una tregua. Bersani si dice soddisfatto, ma non a caso saluta i compagni di partito citando Papa Giovanni XXIII: «Quando tornate a casa... si ferma e sorride rendendosi conto dell’incipit della “carezza ai vostri figli” pensiamo a come il Pd può tirare fuori dai problemi il paese, sapendo che non si può vivere senza una visione e affetto. La visione del mondo posso aiutare a metterla, l’affetto non so come inventarlo, se non c’è non c’è».

l’Unità 14.1.11
Discussione Fioroni e Gentiloni offrono le dimissioni dagli incarichi, poi rientrate
«Vocazione maggioritaria» è la formula usata da Bersani che placa i veltroniani
La minoranza non strappa Ma lo scontro è solo rimandato
Tensione in Direzione. Ai Modem non piace la relazione di Bersani, Gentiloni annuncia il no, i franceschiani provocano: «Allora lasciate gli incarichi». Fioroni annuncia le dimissioni, poi Bersani media.
di Andrea Carugati


«Vocazione maggioritaria». Eccola qui, la formula magica, simbolo dell’epoca aurea del Pd veltroniano, che Pierluigi Bersani tira fuori dal cilindro che sono ormai passata le sei di sera, dopo quasi otto ore di discussione tesa nella grande sala all’ultimo piano della sede Pd del Nazareno. Forse non è quel «miracolo» invocato da Franco Marini per rimettere insieme i cocci della “ditta”, ma qualche effetto lo produce. E infatti i veltroniani di Modem, udita la formula magica, sotterranno l’ascia di guerra: niente voto contrario, la quarantina di Modem (da settembre riuniti attorno a Veltroni, Fioroni e Gentiloni), decidono di non partecipare al voto, in segno di distensione (Veltroni aveva già lasciato l’assemblea). Rientra anche la “minaccia” di Fioroni e Gentiloni di rimettere i loro incarichi nel partito, che era scattata nel primo pomeriggio, con un duro intervento dell’ex ministro dell’Istruzione contro chi «criminalizza il dissenso». Cos’era successo? Gianclaudio Bressa, deputato molto vicino a Franceschini, aveva invitato i dissidenti a essere coerenti, e in caso di voto contrario alla relazione di Bersani, lasciare i loro incarichi di coordinatori dei Forum su Welfare e Information Technology. Segno molto chiaro della tensione fortissima che ormai corre tra franceschiniani e veltroniani, alleati di ferro nella fase di avvio del Pd e anche nella campagna congressuale contro Bersani, fino allo strappo di pochi mesi fa. «Se siamo elementi di disturbo ci dimettiamo», ha attaccato Fioroni nel suo intervento. «Ma sappiate che è inutile dire che va tutto bene, ormai non perdiamo solo le elezioni ma pure le primarie. E perseverare sarebbe diabolico...». Clima tesissimo, dunque, soprattutto tra ex diccì. Con Fioroni che ai suoi confida: «Dario vuole cacciarci». E il veltroniano Sarubbi che affonda: «È lo stesso stile di Berlusconi contro Fini».
TREGUA IN ZONA CESARINI
Bersani recupera solo alla fine, quando cita la formula magica («Per me vuol dire che il Pd è al centro del campo delle opposizioni...»), respinge la proposta di Bressa sugli incarichi da lasciare («Non ho mai posto questo problema») e cita «il positivo contributo di Pietro Ichino sulla Fiat». E il veltroniano Minniti apprezza i «passi avanti». Già, perché tra i motivi di profonda «insoddisfazione» dei Modem, denunciati da Gentiloni, c’è anche «la scarsa chiarezza su Fiat e alleanze, dobbiamo dire con chiarezza che siamo per il sì a Mirafiori». Altro motivo di disagio la richiesta di un voto sulla relazione, che Bersani avanza all’inizio del suo intervento. Ma, agli occhi dei Modem, casus belli è soprattutto l’intervento di Franceschini, che rivendica in pieno la linea di dialogo con Fini e Casini. «Una linea fallita, già respinta dal Terzo polo», replica a caldo il braccio destro di Veltroni Walter Verini. «Il problema è che non abbiamo un profilo riformista credibile, la conta interna non serve a nulla».
La tregua arriva dopo che da ore i principali siti titolano sul Pd spaccato. E rischia di essere di breve durata, perché i nodi restano sul tavolo. I Modem li riproporranno nell’assemblea del Lingotto il 22 gennaio, dove pre-
senteranno le 5 proposte su lavoro, economia, legalità, istituzioni e innovazione. Smentita seccamente un’indiscrezione che era circolata ieri su un sondaggio commissionato da Fioroni per valutare il peso di un nuovo partito dopo una scissione dal Pd. «Non esiste, condividiamo l’appello di Bersani a voler bene a questo Pd», dice il neopresidente dell’associazione Modem Gero Grassi. Sì alla relazione dall’Area Marino, che ha apprezzato la proposta di Bersani di costruire un gruppo di lavoro sui diritti civili coordinato da Rosy Bindi. Molto delusi i rottamatari e gli ulivisti di Parisi. Per i primi Renzi ha fatto solo una toccata e fuga e Pippo Civati, lasciando la direzione prima della conclusione, ha detto: «Se fossi rimasti avrei votato contro, vogliono affossare le primarie senza dirlo». L’ulivista Santagata si è astenuto, e Parisi non ha partecipato al voto: «Se dentro la formula “vocazione maggioritaria” si riconoscono due linee contrapposte da anni abbiamo ormai anche un problema di linguaggio...». Astenuta in polemica anche la prodiana Sandra Zampa: «Nessun problema è stato risolto. O Bersani ferma la deriva delle correnti come mini-partiti o il Pd implode».

l’Unità 14.1.11
Battaglia su Mirafiori
Chiamparino se ne va «Dovevamo dire sì»
Il sindaco di Torino lascia in anticipo la riunione L’appello del segretario: «Sulla Fiat non comportiamoci come tifoserie. Il Pd rispetterà l’esito del referendum»
di Virginia Lori


Bersani lancia l’appello, per invitare «a non affrontare questo problema come se fossimo delle tifoserie di Milan o Inter». Ma sulla Fiat il Pd resta diviso e su questo terreno non conosce eccezioni l’appuntamento della direzione nazionale. Anzi. Con un segretario criticato dai veltroniani per una posizione che a loro dire «poco decisa», ma che il leader del partito conferma anche nelle sue conclusioni, quando tornando sul tema dice che «il caso Fiat è complesso. Non ho mai visto un operaio Fiat che chiede ai politici di pronunciarsi con un sì o con un no».
Nel suo intervento, Bersani ha attaccato con decisione il governo, per aver lasciato soli i lavoratori: «Berlusconi avrebbe dovuto farsi spiegare dalla Merkel come ha gestito la crisi dell’auto e della Opel. Anche Obama ha fatto lo stesso e così Sarkozy. Solo Berlusconi è stato con le mani conserte». Ma conferma che rispetterà l’esito del referendum di Mirafiori, qualunque sarà: «seguiamo con rispetto questa consultazione che ha esiti anche drammatici. Noi teniamo molto agli investimenti e i lavoratori stanno mettendo in gioco parte delle loro condizioni in nome di quegli investimenti e quindi del loro futuro». Una posizione difesa a chiare lettere da Massimo D’Alema, che concorda: «Un partito non può invadere il campo del confronto sindacale, soprattutto in un momento così delicato, ma Bersani ha fatto bene a sottolineare che manca un’azione della politica».
E che però non è condivisa dai veltroniani, Chiamparino in testa. «Da Bersani mi aspettavo una posizione più netta a favore del sì all’accordo, perché se vince il sì restano aperte tutte le possibilità di investimento. Se invece vince il no, temo una sorta di limbo. In un Paese diverso, la politica avrebbe un altro atteggiamento su Marchionne», ha detto il sindaco di Torino, uscendo dalla sede del Pd. Sulla stessa onda, Enrico Letta, il vicesegretario del Pd fautore della «vittoria del sì al referendum di Mirafiori, come condizione per l’attuazione degli investimenti promessi, e auspico una fase di riforme delle regole della rappresentanza».
Nettamente a favore del “sì” anche Piero Fassino, per restituire certezza di lavoro a 5000 dipendenti Fiat e altri migliaia dell’indotto. Certo l’accordo rende più onerose e più aspre le condizioni di lavoro. Per questo dobbiamo chiedere che diritti fondamentali siano garantiti. Ma se non ci saranno nuovi investimenti lo stabilimento è destinato a chiudere», riflette Fassino, che pure invoca rispetto per tutti gli operai, comunque votino, e considera inaccettabile la pretesa della Fiat di disconoscere la Fiom e il suo diritto di rappresentanza. E Paolo Gentiloni, alla testa di Movimento Democratico con Veltroni e Fioroni, individua più nella Fiat che nella scelta delle alleanze il tema clou della direzione («magari Bersani avesse detto quello che ha detto Fassino») «perchè su questa vicenda ne va dell’identità del Pd, identità che ora appare schiacciata sulla Cgil mentre in origine il Pd era il partito dell’unità dei sindacati». E allora, secondo Gentiloni «il punto non è stare dalla parte di Marchionne. Ma il Pd dovrebbe essere a sostegno del sì all’accordo in maniera esplicita». Differenze che rientrano dopo le conclusioni del segretario del Pd, come dice Minniti, sempre dal fronte dei Modem, nel momento in cui Bersani, sulla Fiat, esprime apprezzamento per le parole di Ichino.

il Fatto 14.1.11
La vocazione masochistica dei democratici
Litigi e annunci di dimissioni poi la Direzione vota per Bersani
di Wanda Marra


Quando Beppe Fioroni esce dalla porta del Nazareno e si staglia plasticamente con tutta la sua stazza, sostenendo che “sbagliare è umano, perseverare è diabolico”, e dunque “non si può continuare a fare finta che tutto va bene”, per un momento il clima della direzione del Pd si incattivisce e lo strappo annunciato sembra consumarsi. L’area veltroniana si avvia verso il no alla relazione del segretario Pier Luigi Bersani, mentre Paolo Gentiloni e lo stesso Fioroni rimettono gli incarichi di partito. A far degenerare il clima l’intervento del franceschiniano Bressa, che nel suo intervento, a nome di Area democratica, solleva dubbi sul fatto che chi non condivide la linea del segretario possa continuare ad avere incarichi nel Pd. Ma alla fine, invece del muro contro muro e della conta voluta da Bersani, con la richiesta del voto sulla sua relazione, si arriva a un non voto: il segretario ottiene 127 sì, 2 no (di due esponenti calabresi) e 2 astenuti (Arturo Parisi e Sandra Zampa) . “Sono molto contento e soddisfatto, perché alla fine, con grande nettezza, è venuto fuori un partito che si prende le responsabilità, che propone un progetto al Paese con l’ambizione di mettersi alla testa di una riscossa del Paese”, spiega Bersani in conferenza stampa, con un’espressione provata e scarica che smentisce le parole.
IN MEZZO quella che si è consumata è l’ennesima guerra di posizionamento all’interno di un partito che sceglie il giorno della sentenza della Consulta sul legittimo impedimento per mettere ancora una volta in scena e in piazza le proprie divisioni. La giornata era iniziata con il segretario impegnato a ribadire la sua linea: il né con la Fiom, né con la Fiat sul referendum, la riproposizione, seppure in maniera sfumata, delle alleanze con tutti, l’annuncio di una Conferenza programmatica da tenersi entro l’anno, in cui “ripensare” le primarie. È Franceschini nel suo intervento a radicalizzare le affermazioni del segretario: Berlusconi può essere tentato di andare alle urne, e dunque il Pd deve guardare a Fini e Casini. È a questo punto che i Modem dicono no: “Abbiamo apprezzato alcuni passaggi della relazione, ma non ci sentiamo di sottoscriverla e condividerla nel suo insieme spiega Gentiloni il Pd dovrebbe essere a sostegno del sì all’accordo di Mirafiori in maniera esplicita”. E poi: “L’idea di una coalizione che va da Di Pietro al terzo polo mi sembra irrealistica”. Spiazzati dalla perseveranza del segretario nel chiedere il voto come dicono le facce perplesse di Verini e Tonini a questo punto i Modem strappano. Veltroni però non parla e in assoluto l’area si espone poco, in termini di proposte. Si aspetta quello che nella “vulgata” è già diventato il Lingotto 2: l’incontro convocato da Veltroni a Torino il 22. L’occasione per rimettersi in gioco anche elettoralmente: che per i Modem la scissione sia più che un’ipotesi remota lo dice il fatto che Gentiloni ha commissionato un sondaggio a Pagnoncelli per capire la propria forza elettorale. Le esitazioni sono spiegate anche dai risultati: la componente avrebbe potenzialità elettorali altissime, ma buona parte del popolo del Pd non reagirebbe bene a una ennesima divisione. Nel dubbio, allora, meglio cercare di conquistare posti in lista (visto che a deciderli con questa legge elettorale sono le segreterie dei partiti) in vista di eventuali elezioni. Con il consueto sprezzo, D’Alema blocca entusiasmi e fughe in avanti: “Non si vota, il tema alleanze non è stato stressato perché non è all’ordine del giorno”. Mentre in generale fuori dalla sede del Pd, il clima oscilla tra teso e plumbeo, si nota qualche comparsata. Matteo Renzi passa un attimo e poi va a Palazzo Chigi “a prendere i soldi per Firenze”, come informa il collega (o ex collega) rottamatore, Pippo Civati, annunciando: “Voterei no, ma sto partendo”. Poi spiega: “Parlare di riformare le primarie vuol dire abolirle. Avrebbero fatto meglio a dire che Vendola detto Nichi non può partecipare e così esorcizzare la loro paura”. E Sergio Chiamparino, pure, spara a zero (avrebbe voluto una linea meno schiacchiata sulla Cgil) e se ne va.
DENTRO, la miccia la accende Bressa. Evidentemente anche i franceschiniani hanno tutto l’interesse a far passare il messaggio che senza di loro la maggioranza non va da nessuna parte. E che dunque i posti in lista li rivendicano a maggior diritto. Dopo l’exploit: “Dai Modem solo risentimento, ma nessuna linea politica alternativa”, Gentiloni e Fioroni rimettono il mandato. Ma lo strappo dura solo un paio d’ore. Il segretario respinge le dimissioni. Soprattutto, nella relazione finale, aggiusta il tiro. Almeno a sentire l’interpretazione di Marco Minniti (che parla da ventriloquo di Veltroni): “Bersani ha fatto passi in avanti su tre questioni importanti come il lavoro, la centralità del Pd in fatto di alleanze e gli incarichi interni occupati dalle minoranze”. Alla fine i Modem non partecipano al voto (evidentemente non solo loro, visto che sono circa 40). A cantare vittoria sono un po’ tutti. Difficile capire perché.

il Riformista 14.1.11
Alleluia: Bersani mette ai voti una linea
Il Pd si divide, buona notizia
Il leader trasforma la direzione in una resa dei conti con la minoranza. Inizia l’operazione premiership.
127 a 2. Il risultato finale paro degno del «ti piace vincere facile?». La verità che, da ieri, nel Pd c’è un uomo al comando. Ma non è solo.
di Tommaso Labate


http://www.scribd.com/doc/46844808

il Riformista 14.1.11
Così le asce di guerra diventarono astensione
Veltroniani. I MoDem avevano annunciato la posizione contraria alla relazione del segretario. Poi alla conta preferiscono evitare la spaccatura. Fioroni e Gentiloni rimettono gli incarichi ma vengono confermati nel mandato.
di Ettore Colombo


il Riformista 14.1.11
Finalmente s’è rotto il tabù dell’unità
di Stefano Cappellini


il Riformista 14.1.11
Fa discutere la proposta Bettini di un tetto comune con Vendola
di Sonia Oranges


l’Unità 14.1.11
Lo spettro di Nichi aleggia in sala. Letta: «Mai nostro leader»
L’ironia di Civati: «Allora farò un emendamento che escluda il signor Vendola per salvare le primarie». La prodiana Zampa «Che fine ha fatto il Nuovo Ulivo con Sel e Idv?»
di A. C.

Il fantasma di Nichi Vendola aleggia come non mai all’ultimo piano del Nazareno, prima durante e dopo la direzione Pd. E a metà pomeriggio Pippo Civati, 35enne leader dei rottamatori, lasciando l’assemblea super deluso, si concede una battuta: «Io le primarie le voglio per davvero. E forse basterebbe un emendamento con scritto “può partecipare chiunque tranne il signor Vendola Nicola detto Nichi” per ottenere questo risultato...». Un modo per ironizzare sull’«ossessione», dice sempre Civati, che attanaglia i dirigenti del Pd. Enrico Letta, che con il leader di Sel si è sempre scontrato, tanto che il suo pupillo Francesco Boccia è stato per due volte sacrificato alle primarie pugliesi, non usa giri di parole. Cercando di convincere i Modem di Veltroni a non votare no, usa questo argomento: «Le primarie vanno rilanciate, non congelate, e vanno anche estese alla scelta dei parlamentari. Ma non possono essere usate come un modo per risolvere problemi politici: per capirci, l’ipotesi di una nostra colazione guidata da Vendola non è tra le opzioni possibili». Il concetto è chiaro, ma non condiviso da tutti. Franceschini, ad esempio, ci gira intorno: «Bisogna insistere con Fini, se andiamo solo con Vendola e Di Pietro non siamo attrattivi». Gero Grassi, neopresidente dei Modem, ironizza: «Non è che possiamo abolire le primarie solo perché qualcuno rischia di essere più forte di noi. Se abbiamo questa paura, evidentemente, è perché non abbiamo un buon candidato...». E ancora: «Solo chi non conosce Vendola vuole evitarlo. Ha smesso da un pezzo di mangiare i bambini, e comunque li mangiava con molti ex Pci che ora sono nel Pd». La prodiana Sandra Zampa pone una domanda: «Che fine ha fatto il nuovo Ulivo di cui parlava Bersani? Perché non ci si confronta con Vendola una volta per tutte in modo serio? Lui e Di Pietro sono i nostri alleati naturali, non escludo che si possa fare una proposta anche a Casini, ma bisogna partire da chi ci è più vicino». Tra i bersaniani, sono le donne a essere più fiduciose sulle chances di Bersani in una sfida con il governatore: «Le primarie le vince Pieluigi», dicono in coro Rosy Bindi e Barbara Pollastrini. Persino Civati è di questo avviso: «Sembrerà strano, ma continuo a credere che Pierluigi possa farcela...».

Corriere della Sera 14.1.11
Conta nel Pd, Bersani vince Ma il partito è spaccato
I veltroniani scelgono di non votare. La «riforma» delle primarie
di  Roberto Zuccolini


ROMA — Fuori c’è la Consulta alle prese con il legittimo impedimento, il referendum sulla Fiat e l’offensiva berlusconiana sui deputati «responsabili» che dovrebbero garantire, a spese di terzo polo e Idv, la maggioranza parlamentare necessaria per governare. Dentro il Nazareno, sede del Pd, si consuma invece una direzione che tiene, sì, conto di ciò che sta accadendo nel Paese, ma che in realtà suona molto come braccio di ferro interno. Alla fine, dopo otto ore di dibattito prevale la linea dettata da Pier Luigi Bersani con 127 «sì» , 2 astensioni (gli ulivisti Giulio Santagata e Sandra Zampa) e il voto contrario di Caterina Corea e Liliana Frascà, due esponenti calabresi della direzione in aperta contestazione per il commissariamento del partito regionale. Mentre il Modem di Veltroni, Fioroni e Gentiloni ha scelto di non votare. In questo modo non è stato «certificato» il loro peso all’interno della direzione del Pd (anche se si sa che corrisponde ad una cinquantina di delegati), ma la scelta non ha comunque evitato di far incassare al segretario la forza necessaria per andare avanti con la sua linea che, oltre alla scelta delle alleanze (fra terzo polo, Sel e Idv) prevede anche un punto non digeribile per i veltroniani: la riforma delle primarie. L’assemblea che si è svolta ieri è stata una delle più tese dall’inizio del partito, nato dalla fusione di Ds e Margherita. «Sono alla ricerca del massimo di unità visto il passaggio delicato che viviamo» , ha premesso Bersani nell’aprire i lavori, ma «serve anche chiarezza e chiederò che la direzione si assuma le sue responsabilità attraverso un voto» . È questa la scelta che ha reso drammatico la scontro: la decisione di arrivare alla conta. Quando poi Gianclaudio Bressa (Area Democratica, quindi Dario Franceschini) nel suo affondo contro la minoranza ha messo in discussione anche le cariche interne assegnate agli esponenti di Modem, il responsabile del Welfare, Giuseppe Fioroni, è letteralmente insorto: «Si tratta di parole gravissime: io e Gentiloni rimettiamo il nostro mandato» . E così hanno fatto. Mandato restituito prontamente da Bersani nella replica. «Erano in minoranza già prima, io sono il segretario e non mi è mai passato per la testa di porre il problema» , ha ricordato. Il discorso di Bersani è stato tutto improntato alla necessità di «mettersi alla guida della riscossa italiana» per evitare «la disgregazione del Paese» , convinto che solo il Pd possa farlo. Altrettanto consapevole, però, delle questioni che dividono non solo l’Italia, ma il suo stesso partito, come la Fiat: «Seguiamo con rispetto questa consultazione che ha esiti anche drammatici: non possiamo affrontarlo come fossimo tifosi dell’Inter e del Milan» . Sulle alleanze, altro tema caldo sul fronte interno, non sceglie per l’uno o per l’altro, ma tiene la porta aperta a tutti i possibili compagni di viaggio: «Dialogheremo sia con le forze di sinistra e centrosinistra interessate ad una stringente e non ambigua prospettiva di governo, sia con le forze di opposizione di centro che si dichiarino di centro» . E le primarie? «Nessuno le vuole abolire, ma per salvarle bisogna riformarle» . Annuncia poi che nel 2011 ci sarà una conferenza nazionale. Commenta alla fine Massimo D’Alema: «C’è stata una larga convergenza sulla relazione di Bersani» . E anche Dario Franceschini è soddisfatto: «È giusto dire che bisogna allargare il campo delle possibili alleanze per battere Berlusconi» . Tra chi non ha votato c’è invece anche Sergio Chiamparino, che ha lasciato la riunione prima del tempo: «Se votassi, mi asterrei: non c’è nessun passo avanti significativo» . E non votano i «rottamatori» : Matteo Renzi ha fatto appena un’apparizione e Pippo Civati se n’è andato prima della fine. Precisa poi: «Avrei votato no» .

Corriere della Sera 14.1.11
Linea dura del segretario. E Fioroni: vogliono cacciarci
Letta avverte: se Vendola vince le consultazioni non ci sto
di Maria Teresa Meli


ROMA— «Per fortuna che dovevano parlare al Paese: hanno finito per fare una conta interna» : il sindaco di Firenze Matteo Renzi sintetizza così, con un amico, l’esito della Direzione del Pd. «Difficile dargli torto» , ammette Beppe Fioroni, uno dei protagonisti della riunione di ieri. Che aggiunge: «Si diceva che con la sentenza sul legittimo impedimento sarebbe caduto il governo Berlusconi, e invece ci siamo divisi noi, perché qualcuno, alla Stalin, ha pensato che epurandosi un partito si rafforza» . La citazione di una delle frasi del dittatore sovietico può apparire eccessiva, ma effettivamente quel che è successo ieri in casa pd è stato il tentativo da parte della maggioranza interna di stabilire una volta per tutte che il consenso attorno al segretario è ormai molto più ampio di quello con cui venne eletto alle primarie. «La maggioranza si è allargata e la minoranza si è ristretta» , spiegava con più di una punta di soddisfazione Massimo D’Alema. Il quale si è complimentato con Ignazio Marino (ormai soprannominato al Nazareno il Moffa del Pd) che dall’opposizione interna è passato nel fronte bersaniano. Ed è passata in maggioranza anche un’altra fetta della minoranza, quella di Franceschini e Fassino. Di fatto aveva già traslocato, ma con il voto la cosa viene ufficializzata. Con grande contentezza di Franco Marini, un altro che con D’Alema e Bersani voleva la conta: «Ora c’è più chiarezza» . Il segretario mirava al voto e lo ha detto subito: «Ci vuole un momento di chiarezza. Abbiamo già fatto una Direzione senza votare e tanto il partito si è diviso lo stesso. Veniamo accusati, anche all’interno del partito, di non decidere? Bene ora decidiamo. Perché è troppo facile dire che non bisogna scontrarsi, siglare una tregua e poi romperla, come è già avvenuto» . E ogni riferimento a Veltroni e ai suoi è assolutamente non casuale. D’accordo Fassino: «Bisogna mettere un punto, non è che ogni volta si può riaprire la discussione, lo so bene io che ho fatto il segretario» . Chi avrebbe voluto non votare, invece, era Enrico Letta, che soffre non poco il protagonismo di Franceschini. Anche Veltroni, che se n’è andato ben prima della conclusione della riunione, puntava a evitare la conta. Ma non tutto è andato secondo i piani di Bersani e dei suoi. Franceschini, dopo che era stato fatto 30, ha cercato di fare 31 per schiacciare la minoranza, facendo chiedere dal fido Gianclaudio Bressa le dimissioni dagli incarichi di partito di Gentiloni e Fioroni. Però ha esagerato: su tutti i siti Internet si raccontava di un partito spaccato e il Pd in periferia, dopo queste notizie, era entrato in fibrillazione. Così Bersani è stato costretto a correre ai ripari e ad aggiustare un po’ il tiro nella replica che ha chiuso i lavori. «Il tentativo di forzare di Franceschini non ha avuto risultati» , spiega a sera Veltroni. E Fioroni va giù duro: «Dario ha sbagliato. Voleva estremizzare perché questo era l’unico modo per avere un ruolo, ma gli è andata male. Però è chiaro che nella maggioranza la tentazione di cacciarci dal Pd è forte» . E quest’ultima frase non è un’esagerazione. Nell’assemblea dei bersaniani dell’altro ieri sera alcuni non hanno demonizzato un’eventuale scissione. Anzi. Per i pasdaran del segretario potrebbe essere un elemento di chiarezza. Comunque in Direzione Bersani ha ottenuto diversi risultati: la sua maggioranza è più ampia e più solida di prima, la sua leadership è più salda e la minoranza di Veltroni, Gentiloni e Fioroni, che non ha votato per non contarsi, è apparsa in difficoltà. È anche vero, però, che si tratta di una vittoria tutta interna al partito, a cui in molti sembrano non credere più tanto, come dimostra il fatto che da Renzi a Chiamparino, passando per Veltroni, alcuni degli esponenti di spicco del Pd non hanno seguito tutta la Direzione. «Che motivo c’era? Non si parlava di progetti e politica ma si faceva solo una conta tutta interna» , ironizza Arturo Parisi. E c’è pure da dire che questo esito è stato possibile perché Bersani nella sua relazione ha evitato di approfondire i nodi politici. Su quelli il dissidio è interno anche alla maggioranza. Un esempio per tutti, l’intervento di Letta, in cui il vicesegretario ha annunciato: «Se Vendola vince le primarie, io non ci sto» . Diverso l’approccio di Bersani: «Dobbiamo tenere insieme Vendola e Casini» , è stato il suo monito. Intanto, però, il leader si accontenta di tenere insieme la sua maggioranza su una linea che porterà il partito a modificare in modo radicale le primarie entro quest’anno, «perché ci chiamiamo Partito democratico e non Popolo democratico» . Il che significa che quelle consultazioni non saranno più la ragion d’essere del partito e che strada facendo verranno accantonate. Il cauto Veltroni su questo punto non potrà diffondere prudenza a piene mani, come in genere è solito fare. Ma quando verrà il momento darà battaglia: «Non si può consegnare il Pd nelle mani delle oligarchie» .

Corriere della Sera 14.1.11
Il Pd logorato che evita la conta
di Pierluigi Battista


Non è un dramma un partito che si divide. È però un dramma un partito che si divide sul nulla. Un Pd che si attorciglia nella spirale delle infinite discussioni procedurali, dell'annosa e oramai degenerata questione delle «primarie» , è un partito non consapevole del rischio di un declino irreversibile. Ma se sulla questione Mirafiori emergono linee contrapposte, meglio la chiarezza della divisione che un finto unanimismo.
Il Pd ieri si è apertamente diviso nella riunione di Direzione. C’è ancora un tatticismo paralizzante, con i «veltroniani» che prima annunciano il voto contrario sul documento del segretario Bersani e poi decidono di disertare la conta. C’è ancora una scomposta, e per l’opinione pubblica sempre più incomprensibile, feroce e inestinguibile resa dei conti tra «bersaniani» o «dalemiani» , «veltroniani» , «franceschiniani» , «ex popolari» , ma ora «renziani» e anche «civatiani» . C’è ancora la vertigine di un dilemma non sciolto, quello che dovrebbe finalmente costringere il Pd, appannata la sua originaria «vocazione maggioritaria» , a scegliere tra l’alleanza con la rossa sinistra di Vendola e con il viola giustizialismo di Di Pietro da una parte, e quella con il neonato terzo polo dall’altra. Ma se si esce dai binari rituali di un partito in congresso permanente da anni, in balia perenne di correnti e «componenti» , si scorge pur sempre nelle divisioni riemerse ieri un primo, coraggioso passo verso un sano conflitto sui contenuti. La spaccatura su Mirafiori, sul referendum in fabbrica, sulle posizioni dei sindacati e sull’irrigidimento della Fiom non è il terreno per un dividersi vano, astratto o, come usa dire, «autoreferenziale» . È l’affiorare di due visioni diverse del futuro italiano, due idee sull’economia, il lavoro, la modernità, la concorrenza, la globalizzazione. Sono temi epocali e l’anomalia sarebbe uno stanco adagiarsi su una finta unità che ingannerebbe l’elettorato prima ancora dei militanti e dei dirigenti del Pd. Molto spesso si sente dire che sono le divisioni nel Pd che allontanano l’elettorato da quel partito. Forse è vero il contrario: è l’indistinto, l’incertezza, il galleggiare nel vago a smorzare la fiducia dell’elettorato verso il partito che dovrebbe essere il perno dell’alternativa. Perché il tempo è il fattore decisivo che i dirigenti del Pd sembra non vogliano vedere in tutta la sua drammaticità. Se infatti l’esiguo margine di maggioranza non fosse sufficiente a tenere in vita il governo Berlusconi, e se dopo la sentenza della Corte costituzionale sul «legittimo impedimento» il premier optasse con più decisione per la grande avventura del voto anticipato, per il Partito democratico l’ostinato rimandare le scelte decisive, accompagnato dal baloccarsi inconcludente sulle «primarie» , rappresenterebbe un handicap pesantissimo nella battaglia elettorale. Forse il Pd non ha ancora metabolizzato la lezione del 14 dicembre, quando l’emergere di una sia pur risicatissima maggioranza alla Camera a favore del governo ha messo in luce che, comunque, l’ipotesi di un governo diverso è numericamente impossibile. E che dunque, se mai il governo non riuscisse a reggersi con pochi voti di scarto, lo scenario delle elezioni anticipate diverrebbe l’unica possibilità realistica nel 2011. Perciò il Pd dovrebbe impegnarsi, prima ancora che a battere Berlusconi, a battere quella percezione diffusa di sconfitta annunciata che aleggia anche nell’elettorato che sogna un’alternativa realistica e credibile all’egemonia berlusconiana. Non è solo una constatazione che nasce dalla dura realtà dei numeri, dai sondaggi che comunque danno il Pd molto al di sotto dei risultati del 2008. È anche la sensazione di scoramento, di sfiducia che attanaglia molti settori della società italiana che non riconoscono nel Pd quel ruolo di guida necessario a contrastare la forza dell’avversario Berlusconi. Il Pd appare ancora troppo un partito timoroso della sfida di Vendola, dell’intransigentismo verbale di Di Pietro, delle seduzioni moderate di Casini. Un partito che vorrebbe tenere ancora tutto insieme, dalla sinistra al centro, come se la somma di tante sigle rappresentasse una possibilità di forza e non il calderone in cui è appassito l’Ulivo, malgrado le buone intenzioni che ne avevano animato la nascita. Un’aperta divisione, a questo punto, potrebbe essere un rimedio doloroso, ma necessario. Meglio del far finta di niente e della rassegnazione per una sconfitta che sarebbe devastante non solo per il Pd, ma per tutto il variegato schieramento che si oppone a Silvio Berlusconi. Meglio del non volersi accorgere che i tempi per capire cosa gli elettori possono aspettarsi dal Pd sono oramai maledettamente brevi.

Repubblica 14.1.11
"Pier Luigi poco unitario" poi Veltroni accetta la tregua
Fioroni: Dario ha cercato di cacciarmi
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Una relazione iniziale senza capo né coda. Poi per fortuna Bersani ha corretto il tiro». Walter Veltroni spiega così la decisione di strappare ma non rompere la fragile unità del Partito democratico. La sua componente, alla fine della direzione, non vota il documento del segretario che passa dunque quasi all´unanimità. Una sostanziale astensione. Restano le differenze, anche profonde. Tanto da spingere Paolo Gentiloni a presentare l´appuntamento del Lingotto del 22 come «la nostra supplenza a un Pd che rinuncia a essere grande. E che anche nella direzione ha mantenuto questa cifra: invece di fare una proposta al Paese mostra le divisioni interne».
Veltroni non ha gradito le parole d´esordio di Bersani. L´ha detto ai suoi prima di lasciare la riunione: «Il primo atto non unitario è quello di Pier Luigi: se si annuncia subito la conta, ancora prima del dibattito, non si cerca di tenere compatto il partito». L´attacco di Gianclaudio Bressa, uomo di Franceschini, a Beppe Fioroni e Gentiloni, paradossalmente, ha sciolto i nodi. Bressa ha chiesto ai due esponenti di Movimento democratico di lasciare gli incarichi. Subito sono arrivate le dimissioni polemiche. Seguite però da una sollevazione della maggioranza in difesa dei dissidenti. Da Bindi, da Letta, dai dirigenti territoriali ex Ds. E da Bersani. «È stato evidente il tentativo di Franceschini di cacciarmi dal Pd - racconta Fioroni - . Ma a Bersani l´ho spiegato: se non vogliamo assomigliare alla destra, dobbiamo accettare il dissenso». Veltroni è trasecolato di fronte all´offensiva dei franceschiniani: «Forse Dario dimentica di essere diventato capogruppo proprio in quanto espressione della minoranza».
Strascichi di un duello tra ex alleati alle primarie del 2009. Il capogruppo ha insistito fino alla fine per la conta. «Ma le conte non servono a delineare linee più chiare - sottolinea Veltroni -. Sono importanti le idee, anche le opinioni diverse. In un grande partito ci si confronta in maniera naturale, succedeva nella Dc con Moro e Forlani, nel Pci con Berlinguer e Napolitano. E se erano normali 25 anni fa, ancora di più i confronti lo sono adesso». L´ex segretario continua a pensare che la «conta sia stata un errore». Ma nelle conclusioni di Bersani, tre punti-chiave hanno convinto i veltroniani allo strappo solo parziale. «La garanzia delle minoranze, gli elogi all´intervento di Pietro Ichino. E il sostegno alla vocazione maggioritaria del Pd». Il segretario ha messo al centro il progetto democratico, «chiamiamola vocazione maggioritaria se volete - ha detto - anche se a me non piace la formula perché sembra un isolamento». Così, alla fine, si è allentata la tensione. Tensione che ha avuto momenti alti. All´attacco di Gentiloni Massimo D´Alema aveva risposto parlando di «vocazione al suicidio» da parte dei veltroniani.
I tre punti hanno avuto il loro peso grazie a un ingrediente non svelato. La mancata spaccatura di Veltroni ha soprattutto l´obiettivo di non «sporcare» il senso del nuovo Lingotto. Lì Modem misurerà la capacità di «supplenza» alle lacune democratiche. Guarda oltre, dunque, la minoranza. Alla proposta per l´Italia. Ma non oggi quando il grosso del Pd farà un salto all´indietro quando si ritroverà all´inaugurazione della mostra "Avanti popolo", imponente ricostruzione della storia del Pci organizzata dalla Fondazione Gramsci e da Ugo Sposetti. Ci saranno D´Alema, Fioroni e altri dirigenti attuali. Poi, i vecchi dirigenti comunisti Reichlin, Cossutta, Tortorella, Barca.
Al Lingotto, il 22, anche in maniera plastica, Veltroni risusciterà l´immagine del Pd originario, cioè aperto all´esterno, chiamando ospiti come il magistrato Raffaele Cantone o il manager tv Alessandro Campo Dall´Orto. E invitati internazionali: Gary Hart e Anthony Giddens, per fare due nomi. Non ci saranno messaggi sul dibattito interno del partito. Né congresso straordinario, né scissione. «Parleremo del Paese, non del Pd», promette Veltroni. E in nome dell´unità, a Torino arriveranno numerosi esponenti della maggioranza. Bersani ha confermato la presenza, Enrico Letta ha fatto sapere ieri che parteciperà. Avranno un ruolo il sindaco Sergio Chiamparino e chi si candida a succedergli Piero Fassino. Modem promette 5 proposte secche impegnative sul futuro dell´Italia. Su quelle si riaprirà la discussione nel Pd.

l’Unità 14.1.11
Gli ultimi fuochi di Mirafiori Operai al voto tra paura e ricatti
Folla all’assemblea della Fiom, deserta quella di Fim e Uilm. Dalle 22 di ieri sera si è aperto il voto a Mirafiori per decidere dell’operatività dell’accordo del 23 dicembre. Le urne chiuderanno oggi alle 19.30.
di Rinaldo Gianola


Le immagini finali della campagna elettorale a Mirafiori sono due: l’assemblea dei sindacati firmatari dell’accordo del 23 dicembre convocata alla parrocchia del Redentore dove non si presenta nessuno, solo una dozzina di funzionari sindacali; le assemblee della Fiom svolte dentro la fabbrica al mattino e al pomeriggio con tanta gente, tanti interventi e anche tanta paura. Perchè, mentre i lavoratori di Mirafiori vanno ai seggi a votare sul ricatto di Sergio Marchionne, è chiaro che ci sono già alcuni responsabili in questa vicenda. Qui alla porta 2 è crollata la credibilità della politica e del governo, in questo piazzale di passione e di timore, di speranze e di illusioni, svanisce l’aspirazione di rivedere una sinistra che non ha paura di schierarsi contro il potente di turno, fosse pure Marchionne il modernizzatore.
OPERAI ABBANDONATI
La realtà è che gli operai sono rimasti soli, abbandonati dalla politica e dalle istituzioni, di fronte a un potere troppo forte che li mette di fronte a un bivio: fai quello che dico io altrimenti ti metto sulla strada. Eppure anche nei momenti più difficili, come è questo, mentre stasera Marchionne, Berlusconi, forse anche qualcuno del pd, magari qualche candidato alle primarie, commenteranno in tv il voto di Mirafiori, come si fa negli inutili speciali per le elezioni politiche, ci sono episodi, testimonianze, tracce di un’umanità che vale la pena conservare per il futuro.
«Berlusconi è un vigliacco» urla un operaio durante la prima assemblea del mattino, tra la gente incavolata per le affermazioni del premier sulla fuga della Fiat se vincesse il no. Sono in tanti, donne e uomini. Giorgio Airaudo, leader della Fiom, è abbracciato, toccato, si commuove. «Ho fatto tante assemblee a Mirafiori, ma nessuna mi ha mai colpito come queste» racconta, «i lavoratori hanno paura, temono per il futuro, si sentono costretti a una scelta difficile che, comunque vada, cambierà la loro vita».
La Fiom, può piacere o no, avrà certo fatto degli errori, ma gode di una credibilità evidente tra quelli che stanno dentro i cancelli. Ieri mattina mentre si svolgevano le assemblea una dozzina di lavoratori hanno lasciato i sindacati firmatari l’accordo e hanno preso la tessera della Fiom.
La cronaca di Mirafiori è fatta di manifesti, volantini, proteste e litigi, ma le tensioni e anche qualche tentativo di provocazione non sono riuscite a creare il caso. Il fronte del sì e il comitato del no si sono confrontati anche se ci è parso di cogliere tra gli oppositori a Marchione una motivazione assai più forte di quelli che hanno firmato il documento il 23 dicembre scorso. Forse non se ne sono accorrti, ma Fim, Uilm, Ugl e Fismic hanno firmato anche un comunicato stampa della Fiat, allegato all’accordo, come se fosse il piano industriale del gruppo. Questa non l’avevamo ancora vista.
Ieri i sindacati del sì sono stati praticamente assenti, la campagna elettorale è stata condotta dai capi della Fiat che giravano per i reparti con in mano il dossier pubblicato e distribuito dalla Fiom perchè non avevano nemmeno il testo dell’accordo. Il disagio di alcuni sindacalisti della Fim Cisl è parso evidente in questi giorni, il segretario provinciale Chiarle si è lamentato anche di Berlusconi:«Le parole del premier non aiutano il sì».
Ai piani alti della Fiat si segue con estrema attenzione la consultazione. John Elkann e Sergio Marchionne sono rientrati a Torino da Detroit per seguire da vicino il voto. L’amministratore delegato ha chiesto ai lavoratori di «avere fiducia» nelle scelte della Fiat. Marchionne si è impegnato molto, in prima persona, per il successo del sì e le dimesioni di questo successo potrebbero avere ripercussioni sia su Fabbrica Italia sia sul futuro dello stesso manager alla Fiat. Un risultato negativo o poco soddisfacente, dopo quello di Pomigliano, aprirebbe probabilmente qualche dubbio tra gli azionisti sulla strategia della Fiat.
I seggi chiuderanno alle 19,30, poi inizierà lo spoglio. Ci sono state polemiche e tensioni tra i due fronti sulla trasparenza delle operazioni di voto. È stata attivata la commissione di garanzia della Rsu e questo, almeno, dovrebbe evitare contrasti e discussioni durante lo spoglio dei voti. Questa notte, se tutto andrà liscio, si chiuderà una partita importante per Mirafiori e i 5400 dipendenti delle Carrozzerie. Ma per il sindacato confederale, per la politica e le istituzioni si riaprirà una partita che si pensava già vinta: quella della democrazia e dei diritti in fabbrica.

l’Unità 14.1.11
La segretaria Cgil sul referendum a Mirafiori: comunque vada, la Fiom resterà in fabbrica
Il presidente Poletti: non c’è solo la Fiat, un altro modello di lavoro è possibile
Camusso: «Il premier fa spettacolo» Coop, l’alternativa a Marchionne
«Comunque vada, la Fiom resterà in fabbrica». Così Camusso alla due giorni sull’economia cooperativa. Contro Berlusconi: «Fa spettacolo e abdica al suo mestiere». Legacoop: «Noi modello alternativo a Marchionne».
di Laura Matteucci


Mentre a Torino si vota sull’accordo-capestro benedetto pure da un presidente del Consiglio «che ha superato ogni limite, che da tempo fa solo spettacolo e ha abdicato al suo mestiere», come dice la segretaria Cgil Susanna Camusso, a Milano la due giorni Geco sull’economia cooperativa certifica che un’altra Italia del lavoro è possibile. «Noi non possiamo nè vogliamo delocalizzare dice il presidente di Legacoop Giuliano Poletti Eppure anche in questi anni di crisi non abbiamo chiuso un’impresa, nè perso posti di lavoro, anzi li abbiamo aumentati. Si può stare sul mercato con efficienza senza scaricarne il costo sui lavoratori». A partire dal contratto: «Che vada riformato è vero continua Poletti soprattutto nella forbice tra l’alto costo per le imprese e il basso reddito per i dipendenti, ma il contratto nazionale serve. Se saltano i meccanismi della contrattazione e della condivisione, si raccoglieranno solo guai. Questo Paese sta diventando una trivella, ci stiamo affondando da soli». Distanze siderali separano il modello Marchionne da quello fondato sulla chiamata alla corresponsabilità dei lavoratori di Legacoop, ma anche da decine di «piccole e medie imprese che stanno investendo riprende Camusso che applicano i contratti e che in nessun modo ci hanno chiesto di cambiare le regole della democrazia». Il sistema industriale, Camusso lo ricorda, non si esaurisce con la Fiat, alias con un’azienda che perde quote di mercato mentre i suoi competitori ne acquistano: «Se le auto non si vendono non è colpa dei lavoratori, non si può scaricare su di loro evidenti errori strategici».
STRAORDINARIO TORTO
Non bastasse, su di loro si sta scaricando l’enorme responsabiltà di un accordo che mette in discussione le regole democratiche, «uno straordinario torto nei loro confronti», dice Camusso, che «trasforma le fabbriche in caserme senza per questo renderle più efficienti». Il referendum, dunque, appesantito di significati ideologico-simbolici «come se da lì passassero i destini del Paese»: la segretaria Cgil chiama al rispetto dei lavoratori per «una scelta difficile, che non si può trasformare in una partigianeria di soggetti diversi». Una scelta, oltretutto, che «i lavoratori devo-
no fare in pochi minuti», mentre Marchionne «ha trattato per mesi per l’acquisizione di Opel, senza neanche riuscirci», nell’assenza di un governo «che ormai grida vendetta». E a Cisl e Uil lancia un messaggio: «È evidente che c’è stata una rottura», a questo punto l’unico modo «per ripartire insieme è andare a definire un sistema di rappresentanza, di misura della rappresentatività e di regole democratiche. Nei luoghi di lavoro ognuno deve poter scegliere a quale organizzazione appartenere». Un’opportunità che l’accordo su Mirafiori nega per i sindacati non firmatari come la Fiom-Cgil.
Ma Camusso, anche su questo punto, evita l’angolo in cui l’accordo vuole costringere i metalmeccanici Cgil: «La Fiom è una grande organizzazione con migliaia di iscritti, non viene cancellata così», dice. «Evitiamo prosegue di attribuire a Marchionne il potere di cancellare la storia, le tradizioni e le organizzazioni del nostro Paese». E, pur non volendo parlare del referendum in corso a Mirafiori per fare previsioni e ipotizzare lo scenario del day after, Camusso è convinta: «Qualunque sarà la decisione, in quella fabbrica la Fiom ci tornerà».

l’Unità 14.1.11
Foto, video, documenti: in mostra la storia del Pci
La manifestazione viene inaugurata oggi alla Casa di Architettura di Roma Il materiale dai più importanti archivi italiani, compreso quello de l’Unità
di F. D.


Si apre oggi alle 11 la mostra “Il Pci nella storia d'Italia”, realizzata nel novantesimo anniversario del congresso di Livorno (si tenne tra il 15 e il 21 gennaio del 1921) e a vent'anni dalla nascita del Partito democratico della sinistra (Rimini, 4 febbraio del 1991). Saranno presenti Alfredo Reichlin, Giuseppe Vacca e Paolo Peluffo, che rappresenta il comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. Settant'anni di storia, dunque, “raccontati” alla Casa dell'architettura di Roma (in piazza Fanti 47, poco distante dalla stazione Termini) con un allestimento che coniuga documenti storici originali con le più moderne tecniche multimediali. Chi ha avuto modo di visitarla in anteprima ha avuto la sensazione di “entrare” in un portale internet. Dove il “navigare” si realizza fisicamente, percorrendo una passerella sulla quale, anno dopo anno, sono annotate le date salienti della storia del Pci e della storia generale. Diciotto grandi schermi mostrano le immagini delle varie epoche e chi vuole approfondire un argomento può uscire dal percorso per entrare in spazi tematici specifici. «Il metodo scelto – spiegano gli organizzatori nel sito dedicato all’iniziativa (www.ilpcinellastoriaditalia.it) si è fondato su due presupposti: dare conto della straordinaria e articolata messe di documenti del Pci, espressione della sua imponente struttura organizzativa e propagandistica, che sono conservati negli archivi, in primo luogo presso la Fondazione Istituto Gramsci; utilizzare, al tempo stesso, anche documenti che fossero sul Pci. Ad esempio, i film realizzati dalla Sezione Stampa e propaganda del partito, ma anche quelli degli avversari del Partito comunista, come i Comitati civici, o cinegiornali della Settimana Incom, e inoltre i programmi della televisione pubblica». Molto del materiale fotografico viene naturalmente dall’archivio de l'Unità (oltre che dagli archivi del Crs, della Fondazione Di Vittorio, dell’Udi, dall’archivio audiovisivo del movimento operaio, dell’Istituto Luce e della Rai.
Promossa dalla Fondazione Cespe e dalla Fondazione Istituto Gramsci, la mostra che ha avuto nel deputato Ugo Sposetti uno dei più convinti sostenitori offrirà l'occasione di vedere, esposti nelle teche che scandiscono la “navigazione”, gli originali dei Quaderni (che potranno anche essere “sfogliati” sugli schermi), volantini, documenti del tempo della clandestinità. «Sono stati privilegiati tutti quei documenti – spiegano ancora gli organizzatori che sia per il loro valore storico, sia per la loro forza evocativa e narrativa permettessero di dare il senso di questa storia nel contesto della storia d’Italia, cercando di non omettere nulla anche sugli aspetti più drammatici e discussi della vicenda del Partito comunista italiano». D’altra parte, come scrisse proprio Antonio Gramsci, la storia di un partito è anche la storia del suo Paese «dal punto di vista monografico». E, coincidendo col Novecento, è anche storia mondiale. Lo dicono i titoli delle sei tappe principali del percorso: 1921-1943 (dalla vigilia alla fine del fascismo); 1943-1948 (dall’armistizio all’elezione del primo parlamento repubblicano); 1948-1956 (dall’attentato a Togliatti all’invasione dell’Ungheria); 1956-1968 (gli anni della costruzione del muro di Berlino, della crisi di Cuba, del governo Tambroni, della morte di Togliatti fino all’invasione della Cecoslovacchia); 1968-1979 (i movimenti studenteschi e operai, Berlinguer, il compromesso storico, l’omicidio Moro); 1979-1991 (il craxismo, la caduta del Muro, la crisi del comunismo).

l’Unità 14.1.11
«Maghreb, Egitto. La rivolta è contro il potere delle caste»
Secondo l’esperto le proteste nei Paesi arabi nordafricani non sono innescate solo da povertà e disoccupazione. La gente non sopporta più l’oppressione di élites inamovibili
di U. D. G.


Alla base della rivolta di Tunisi, come dei fermenti in Algeria e in Egitto, c'è indubbiamente la povertà, la mancanza di lavoro e di futuro per le giovane generazioni. Ma c'è anche la ribellione verso gerontocrazie “familistiche” da decenni al potere: una perpetuazione del potere divenuta insopportabile». A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi del colonialismo italiano nel Nord Africa: Angelo Del Boca. «Rispetto agli avvenimenti che stanno segnando la Tunisia osserva Del Boca il Governo italiano ha avuto un atteggiamento vago, ambiguo. E non credo che questo atteggiamento cambierà, a meno che non vi siano delle novità sconvolgenti, una vera guerra civile». Povertà, mancanza di lavoro, un’assenza forzata di ricambio di leadership: «Sono questi rimarca Del Boca i tratti unificanti di Tunisia, Algeria ed Egitto». Con una variante libica: «Gheddafi spiega lo storico ha avuto l’accortezza di tenere bassi i prezzi dei generi alimentari e delle case. Così è riuscito a evitare che anche la Libia fosse investita dalla “rivolta del pane”». Qual è il segno e della rivolta tunisina? «È senza dubbio la povertà. Anche nel 1984 si era parlato di una “rivolta del pane” ma allora essa aveva riguardato solo una parte del Paese, sviluppandosi a macchia di leopardo. Oggi invece, la rivolta è generalizzata non solo perché investe l'intero territorio nazionale ma è generalizzata sul piano della società tunisina, in quanto coinvolge tutti gli strati della popolazione. Compresi gli intellettuali che nel 1984 erano stati titubanti. E questo spiega un altro fatto politicamente rilevante...».
Quale?
«Per la prima volta Ben Ali, presidente “per sempre”, ha dimostrato di aver paura...». Paura di cosa?
«Prima di tutto di un colpo di Stato. Il fatto che nei giorni scorsi abbia liquidato il ministro dell'Interno e il Capo di stato maggiore – vale a dire i personaggi-chiave di un possibile putsch militare – ciò dimostra che teme qualcosa. Inoltre, Ben Ali sa di essere in una situazione imbarazzante per il fatto che la sua famiglia detiene un potere economico enorme. Concentrando nelle proprie mani il 10% di tutte le ricchezze della Tunisia...».
Di fronte a questo precipitare della situazione, come valuta il silenzio dell'Italia, tanto più assordante se rapportato alle prese di posizione molto più forti di Francia e dell'Ue? «Intanto va detto che il ministro Frattini ha sempre avuto un atteggiamento un po' vago, ambiguo, su quanto sta accadendo in Tunisia...».
Cosa c'è alla base di questa vaghezza? «Innanzitutto la considerazione, più volte ribadita da Frattini, che i Capi di Stato del Maghreb, e dunque anche Ben Ali, sono impegnati a far da baluardo all'integralismo islamico. Quello che non ha detto, ma ha lasciato intendere, è che l'Italia ha in Tunisia oltre 700 aziende che lavorano e fanno affari. E agli affari non si comanda...Tutto questo può spiegare l'atteggiamento vago, di basso profilo, proprio di un ministro e di un Governo che non vogliono prendere posizione».
Ma l’Italia si può permettere di non prendere posizione? «È nella tradizione italiana...L’Italia non ha una sua politica estera, va sempre a rimorchio degli altri...».
Amara ma realistica considerazione. Cosa attendersi per il futuro? «Il Governo italiano non farà nulla, a meno che non vi siano novità sconvolgenti, una vera guerra civile. Quella di domani (oggi, ndr) sarà una giornata cruciale: lo sciopero generale in Tunisia. Non va dimenticato che i sindacati tunisini hanno una tradizione che risale all’epoca dell’indipendenza nazionale».
Dalla Tunisia all’Algeria, dalla Libia all’Egitto. Qual è il filo rosso che legate il Grande Maghreb? «Sul piano politico, una sorta di gerontocrazia “familistica” abbarbicata al potere. Un blocco permanente divenuto insopportabile».
E sul piano sociale?
«Qui il discorso va articolato. Se guardiamo alla Tunisia, all’Egitto e all’Algeria il tratto comune è la povertà e la mancanza di lavoro. Una condizione tanto più inaccettabile se si pensa, ad esempio, all’Algeria, un Paese che detiene ricchezze naturali petrolio, gas ...straordinarie che hanno arricchito l’èlite politica e militare da sempre al potere. . In questi tre Paesi esiste una enorme questione sociale irrisolta. Su questo piano, non vi è dubbio che Gheddafi si è dimostrato più abile dei suo omologhi maghrebini. Nel senso che ha tenuto sempre bassi i prezzi dei generi alimentari e delle case, evitando così rivolte del pane...».

il Fatto 14.1.11
“Il Cairo come Tunisi, è la resa dei conti con il regime”
Lo scrittore Al-Aswani e il caos del Maghreb
di Roberta Zunini


Così come la Tunisia anche l'Egitto potrebbe esplodere da un momento all'altro”, scandisce con voce preoccupata l'intellettuale egiziano Ala Al-Aswani. Un paese di oltre 80 milioni di abitanti, situato in un'area cruciale del pianeta: a cavallo tra Medio Oriente e Maghreb. Ala Al-Aswani, è l’autore di “Palazzo Yacoubian”, best seller mondiale che racconta, attraverso le vicende immaginarie degli abitanti di questo storico edificio del Cairo, la vera storia dell'Egitto contemporaneo: una nazione dove la corruzione della casta militare, capeggiata di fatto dal presidente Mubarak, tiene in scacco la società. Ma il 53enne scrittore-chirurgo, è molto apprezzato anche per il suo costante impegno civile. Da anni critica senza giri di parole le dittature arabe.
Quali sono le caratteristiche comuni tra Tunisia ed Egitto?
Entrambi i Paesi sono retti da dittature militari. Il fatto che si tengano elezioni a suffragio universale per eleggere il presidente e il Parlamento non deve ingannare. La democrazia non esiste né in Tunisia né in Egitto.
Nemmeno in Algeria e Libia?
Certo, nemmeno lì. Ma la Libia e l'Algeria, dove c'è stata l'altra rivolta per il pane, sono nazioni ricche. Hanno petrolio, gas.
Pertanto?
L'Egitto è un paese molto povero: 45 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà. Anche in Tunisia è così, con la differenza che la popolazione è nettamente inferiore. Ma il risultato è lo stesso: frustrazione che si sta trasformano in rabbia. La violenza di queste masse senza speranza non uguaglierà mai la violenza di decenni di regimi oppressivi e spietati.
Il suo paese e la Tunisia hanno l'industria del turismo.
È uno specchietto per le allodole. Il turismo non solo arricchisce le multinazionali straniere che hanno i capitali da investire ma falsifica la percezione che l'opinione pubblica ha delle nostre società, povere e arretrate.
Ma il turismo arricchisce anche coloro che lavorano nei villaggi turistici, nei ristoranti, nei negozi...
Chi beneficia realmente del turismo è una minima parte della popolazione: è l'oligarchia, diretta emanazione dei regimi. Nessun turista potrà mai immaginare come sia la vita nelle aree interne, fuori dalle rotte di massa, che sono la maggior parte. I proventi del turismo, così come quelli del petrolio sono una iattura: impediscono alla popolazione di cercare alternative.
Il presidente Ben Alì in Tunisia ha promesso una diminuzione del carovita.
Promesse vane: si tratterà sempre di briciole che non risolvono il problema.
Qual è il problema principale?
Ribadisco: le dittature che generano corruzione e arretratezza.
Un'equazione inevitabile?
Sì. La dittatura produce inevitabilmente corruzione e arretratezza perché in un regime nulla accade perché è opportuno, per merito, perché è utile alla nazione. Ma solo perché conviene al “sovrano” e al suo entourage. Tutte le migliori energie della società sono convogliate nel tentativo di assecondare le bizze del desposta e di chi lo protegge, facendone pagare le spese alla popolazione inerme.
Perchè sostiene che anche l'Egitto è nella stessa situazione della Tunisia?
Anche qui molti giovani si sono suicidati, perché non intravedono una benchè minima speranza per il futuro. Però non lo fanno pubblicamente per paura di ritorsioni contro le famiglie. Accade soprattutto nelle periferie delle grandi città, dove vive una massa di giovani che hanno abbandonato la campagna per cercare un futuro migliore o dove vivono i laureati che non trovano lavoro. E sanno che non otterranno giustizia ai soprusi: anche la magistratura è corrotta.
Il giorno dopo le prime manifestazioni in Tunisia, il governo egiziano ha aumentato l'importazione di carne dal Kenya per paura di un contagio delle rivolte. Servirà?
Servirà per tamponare ma la situazione è molto grave e presto questa misura sarà insufficiente perché cura il sintomo, non la malattia. Gli egiziani sono sempre più poveri ma sempre più informati, nonostante la stampa sia di regime. Vedono le tv straniere, internet, e si accorgono di vivere sotto un regime che non ne vuole sapere di lasciare il potere. Anche a costo di metterli gli uni contro gli altri.
Come accaduto dopo la strage dei cristiani copti ad Alessandria?
Esatto. È vero che c'è tensione tra musulmani e cristiani ma è un atteggiamento sollecitato dal regime che impera e divide. La pratica “romana” è ancora molto attuale. Il regime si sente a proprio agio quando la società è divisa. Così può giustificare la propria attitudine illiberale.

Corriere della Sera 14.1.11
L’incubo di una nuova guerra civile fa tremare Beirut e il Medio Oriente
di Antonio Ferrari


Che il Libano fosse sull’orlo del baratro era chiaro da mesi. A Beirut la gente già si stava abbandonando ai ben conosciuti incubi della guerra civile, preparandosi alla spallata: cioè l'uscita dall’esecutivo degli undici ministri di Hezbollah e le conseguenti dimissioni del governo. Il momento è arrivato quando il premier Saad Hariri è partito per Washington e ha incontrato il suo alleato più importante, il presidente Usa Barack Obama. A quel punto la coalizione di governo si è sfaldata. Motivo? Semplicissimo. Hariri si era rifiutato di cedere (a priori) a un ricatto. Non riconoscere la decisione del tribunale voluto dall’Onu, che sta per rendere pubbliche le sue accuse nei confronti dei presunti responsabili della strage di San Valentino (14 febbraio 2005), quando furono annientate 22 persone. Un massacro che aveva come obiettivo l’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri, che era il padre dell’attuale primo ministro dimissionario. Il problema è che i giudici sarebbero giunti alla conclusione che i responsabili della strage appartengono ai vertici dell’Hezbollah. Un’accusa che il leader del «partito di Dio» Hassan Nasrallah ritiene «infamante» . Non soltanto la respinge, ma dice che è frutto di un complotto «sionista e americano» . Quindi, a scopo preventivo, via dal governo e via alla campagna propagandistica che rischia di creare le condizioni di un nuovo bagno di sangue. In questa drammatica vicenda è coinvolto mezzo mondo: non soltanto la Repubblica dei cedri, la Siria (che in un primo tempo era stata indicata come la mente organizzativa della strage), l’Iran che sostiene Hezbollah, l’Arabia Saudita (Damasco e Riad si erano alleate per allentare la tensione), Israele che vigila sulla sua frontiera nord, tutti i Paesi della regione che temono un effetto domino; naturalmente gli Stati Uniti, ovviamente la Francia che del Libano si ritiene la madrina, e persino l’Italia. Anzi, l’Italia ha un ruolo tra i più importanti: perché abbiamo un contingente militare nel sud del Libano, sotto la bandiera dell'Onu, ma soprattutto perché il presidente del Tribunale internazionale che indaga sulla strage è un italiano, Antonio Cassese. Giudice di chiara fama e assai stimato, al quale spetta un compito proibitivo: dalla decisione dipende infatti quel che accadrà in Libano. In verità l'annuncio dei nomi degli accusati era previsto prima di Natale. Ma ormai non si può più aspettare. «Chi è colpevole è giusto che paghi» , ha detto un preoccupatissimo Amr Moussa, segretario generale della Lega araba. Per contro, c'è il concreto rischio di un conflitto sanguinoso, perché l'Hezbollah in Libano è potentissimo e non intende recedere dalle sue posizioni intransigenti. Contando sul sostegno dell’altro grande partito sciita Amal (gli sciiti oggi sono la maggioranza relativa della popolazione), dei cristiani guidati dal generale Aoun, e di altri ex signori della guerra, come il leader druso Jumblatt, che cinque anni fa si schierò contro Siria e Hezbollah, ma poi è stato lasciato solo, e oggi è tornato fedele alla regola: «Se non riesci a sconfiggere l'avversario, alleati con lui» . È una corsa frenetica. Dopo Washington, Saad Hariri è arrivato a Parigi per vedere Sarkozy, e proseguirà per la Turchia dove lo attende il premier Erdogan, uno dei pochi leader della regione che ha la credibilità e il prestigio per tentare una mediazione. Il compromesso che alcuni cercano è di non fare subito un nuovo governo libanese. Senza un esecutivo che accetti o respinga l’annuncio del tribunale internazionale, l’impatto sarebbe minore. Ma si tratta di scenari di pura sopravvivenza. Beirut trema.

Repubblica 14.1.11
È il momento di sognare
di Fares Mabrouk


Siamo soli, nella rabbia e nell´inquietudine, contro un regime che si sbaglia di secolo e di Paese. Nessun partito politico, né organizzazione o associazione, né alcuna figura dell´opposizione o di partito può rivendicare questa rivolta dei tunisini, né dirsene iniziatore. La rivolta viene dal popolo e gli appartiene. Questo popolo che certi ritenevano al guinzaglio dà una lezione alla sua classe politica e al mondo.
È compito dell´élite del nostro Paese rispondere all´appello e immaginare il futuro. Dobbiamo costruire i nostri modelli politici, economici, sociali e culturali. Dobbiamo dimostrare al mondo cos´è una democrazia araba. Sognare una Tunisia, portatrice di speranza per tutti.
Ma per far questo, due condizioni sono indispensabili. Dobbiamo riappropriarci del diritto di parola cui non avremmo mai dovuto rinunciare. L´altra condizione è stipulare come in un contratto il rapporto fra i tunisini e la loro élite politica. Quest´ultima deve essere al nostro servizio, e non viceversa. Per non vanificare i sacrifici, è urgente sognare la Tunisia di domani. Sogniamo!

Repubblica 14.1.11
Nessun paese vicino è immune
La sfida dei giovani umiliati dal Potere ora tremano i vecchi raìs del Maghreb
di Bernardo Valli


Denunciano l´"hogra", il termine che esprime l´umiliazione inflitta dagli abusi dei dirigenti, dal disprezzo e dall´arroganza delle autorità
Nessun paese del Nord Africa è immune. Le rivolte delle nuove generazioni sono potenti detonatori che possono imporre svolte politiche

SUI due versanti, su quello d´Occidente (Maghreb) come su quello d´Oriente (Mashreck), il mondo arabo conosce una stagione agitata. Scorre il sangue e vecchi raìs rischiano il posto. I regimi musulmani tra l´Atlantico e il Mar Rosso, molti dei quali allineati sulla costa meridionale del Mediterraneo, sono assai più stabili, o comunque longevi, di quel che generalmente si è indotti a pensare. E adesso, anche per l´età avanzata dei titolari, essi conoscono i guai della senilità, che non risparmia la politica, in particolare quando i vecchi governano società giovani, anzi giovanissime.
Il caso più caldo, anzi rovente, è quello della Tunisia, a qualche braccio di mare dalle nostre isole più a Sud. Il ritratto del 75 enne presidente, Zine el-Abidine Ben Ali, viene bruciato sulle piazze, tra Biserta e Sfax, da giovani nati nei (quasi) ventiquattro anni in cui egli ha troneggiato incontestato, senza interruzione, su tutte le pubbliche mura e pareti della Repubblica. A cancellare con rabbia la sua faccia sono ragazzi venuti al mondo quando lui era già al potere e che spesso muoiono (ne sono stati uccisi una settantantina negli ultimi giorni) con lui sempre al potere. Ma ancora per molto?
Quello che viene chiamato il "piccolo Maghreb", di cui fanno parte Marocco, Algeria e Tunisia (il " grande" comprende anche la Mauritania e la Libia), è ritenuto da molti economisti come il futuro naturale prolungamento dell´Europa, al di là del Mediterraneo. Esso è infatti destinato a fornire, come già avviene, al Vecchio Continente molti dei giovani e dei lavoratori di cui avrà sempre più bisogno; e col tempo diventerà un grande serbatoio di consumatori. Di fatto lo è già per i nostri prodotti, scambiati con il gas algerino.
Con il "piccolo" Maghreb l´Europa ha in comune da adesso la malattia della disoccupazione giovanile. Le centinaia di migliaia di giovani che escono da istituti tecnici e facoltà universitarie non trovano un lavoro. E la crisi generale ha drasticamente ridotto la possibilità di emigrare in Europa. Il 62 per cento dei disoccupati marocchini, il 72 per cento dei tunisini e il 75 per cento degli algerini (secondo l´economista Lahcen Achy della fondazione Carnegie) hanno tra i quindici e i ventinove anni.
Insieme all´impossibilità di trovare un lavoro, questi giovani denunciano l´hogra, termine che esprime l´umiliazione inflitta dall´abuso del potere dei vecchi dirigenti, dal disprezzo e dall´arroganza delle autorità. Negli ultimi vent´anni la forte crescita economica (quasi sempre superiore al 5 per cento) ha reso più tollerabile il regime poliziesco tunisino. S´era creato qualcosa di simile a un vago patto sociale stando al quale l´autoritarismo e la corruzione venivano compensati dal rapido sviluppo, ammirato, invidiato dai paesi vicini.
La Tunisia dispone di una dinamica e spregiudicata classe imprenditoriale che ha saputo usufruire dei forti investimenti stranieri (francesi e italiani soprattutto) attirati da una mano d´opera abile, competitiva e al tempo stesso a buon mercato. Lo sconquasso finanziario e la stagnazione economica in Occidente hanno ridimensionato le attività e ridotto il numero dei turisti sulle accoglienti spiagge tunisine. Se la borghesia imprenditoriale, superprotetta, è rimasta fedele al regime, le classi intellettuali, spesso educate in Francia o influenzate dalla cultura francese, hanno sentito ancor più il peso di una società dominata da un vecchio presidente, circondato da una famiglia celebre per la sua avidità. I giovani hanno concretizzato con la rivolta quella frustrazione. I vicini paesi occidentali, quali la Francia e l´Italia, esitano ancora oggi a privare del loro sostegno un presidente "laico" che ha impedito ai loro occhi l´avvento di un potere islamico affacciato sul Mediterraneo. Una tolleranza complice e cieca poiché il fanatismo religioso prolifera dove regna l´ingiustizia ed esplode la collera popolare.
Nessuno dei Paesi del "piccolo" Maghreb è immune. Le rivolte giovanili sono potenti detonatori che possono imporre svolte politiche. Per ora questo non è accaduto, pur essendo la stagione propizia. La vecchia monarchia marocchina, favorita dal prestigio (anche religioso) di cui usufruisce, ha adottato negli ultimi dieci anni, da quando all´abile e spietato Hassan II è succeduto il più mite Maometto VI, un sistema che cerca con alterna efficacia, di aiutare i laureati e i diplomati disoccupati. Il sovrano, che regna e governa, con uno spirito liberale ben lontano da quello di una democrazia occidentale, ma anche ben distinto da quello dei vicini autoritarismi arabi, ha autorizzato la nascita di associazioni in cui si ritrovano i laureati senza lavoro. Sono una specie di sindacati che servono anche come sfogo, poiché i suoi membri si raccolgono quasi quotidianamente davanti al Parlamento per protestare. E il governo non è del tutto sordo perché puntualmente ne assume un certo numero nell´amministrazione statale. Nonostante la forti sperequazioni sociali il Marocco non ha conosciuto finora esplosioni giovanili, anche se si parla spesso di una fitta attività dei movimenti islamisti ansiosi di raccogliere e inquadrare lo scontento.
La vicina Algeria conosce invece puntualmente da anni sanguinose rivolte. Abdelaziz Bouteflika, 74 anni, è stato eletto presidente per la prima volta alla fine del secolo scorso e ha iniziato il terzo mandato nel 2009. E´ un rappresentante della classe politica uscita dalla guerra di liberazione, conclusasi con l´indipendenza, nel 1962. Se è al potere lo deve all´esercito, come tutti i suoi predecessori. Ad eccezione di Ben Bella, che per tre anni scarsi ha cercato invano di incarnare una rivoluzione, in qualche modo fedele ai confusi progetti abbozzati durante la coraggiosa lotta armata. Grazie agli idrocarburi, che rappresentano il 97 per cento delle entrate, il regime (composto di militari in divisa o in abiti civili) mantiene il paese. L´hogra, ossia l´umiliazione imposta dallo strapotere delle autorità, è un´espressione di origine algerina. L´arroganza di chi comanda in Algeria non impedisce tuttavia alla gente di parlare (quasi) liberamente, al contrario di quel che accadeva fino a ieri nella vicina Tunisia.
A parte il Marocco, dove la dinastia garantisce un regolare passaggio sul trono, i paesi dell´Africa settentrionale soffrono del male della successione, poiché nessuno vuol lasciare il potere a un estraneo. E quindi non c´è un presidente che non abbia modificato la Costituzione al fine di fare un imprecisato numero di mandati. Muhammar Gheddafi governa in Libia dal 1969, da più di quarant´anni, ed essendo sulla soglia dei settanta pare stia riflettendo a quale dei due figli lasciare un giorno, ancora lontano, la guida del paese. Ma il caso più spinoso è quello egiziano. Nella più prestigiosa nazione araba, dove comincia il Maschrek (l´Oriente o il Levante arabo), Hosni Mubarak ha ottantadue anni ed è capo dello Stato da trentadue, dalla morte di Nasser. E la sua futura grande impresa riguarda come trasmettere il potere al figlio Gamal. La tragedia della piccola Tunisia, dove i giovani si ribellano al vecchio satrapo, può ispirare anche le grandi nazioni.

l’Unità 14.1.11
Al congresso del sindacato dei giornalisti interviene Camusso
Le questioni urgenti: conflitto d’interessi e tagli all’editoria
Innovare senza ledere i diritti Anche la Fnsi lancia l’allarme
L’intervento di Susanna Camusso caratterizza la seconda giornata del congresso della Fnsi che si conclude oggi a Bergamo. Riproposti i temi del conflitto d’interessi e dei tagli di Tremonti all’editoria.
di G. V.


«Innovare va bene,ma non sulle spalle dei lavoratori». Applausi convinti ieri per Susanna Camusso, segretario generale della Cgil al congresso nazionale della Fnsi, il sindacato nazionale unitario dei giornalisti italiani che si conclude oggi a Bergamo. E soprattutto non formali. Perché il tema della libertà e dei diritti, della lotta alla precarietà e dello sviluppo posti proprio mentre a Mirafiori si sono aperte le urne per il referendum dei lavoratori sulla Fiat, sono stati molto presenti al XXVI congresso dei giornalisti italiani. E la nuova leader della Cgil, nei suoi otto minuti di intervento, ha tracciato con precisione il nodo del problema: la libertà , i diritti e le relazioni industriali, guardando al futuro. «È vero: il cambiamento, l’innovazione sono necessari. Innovare, sì. Ma come? In nome del cambiamento non si possono cancellare diritti che taluni ritengono da ostacolo per i loro interessi e non possono essere incompatibili con le tutele sindacali. E la rappresentatività democratica dei lavoratori oggi, con quest’accordo viene considerato un ostacolo. Il cambiamento, qualsiasi cambiamento deve essere compatibile con la democrazia. La cronaca troppo spesso prevale sul “pensiero lungo”, e oggi il pensiero lungo è scomparso. Questo è pericoloso».
Un ragionamento ripreso da molti degli interventi al congresso della Fnsi. La lotta alla precarietà è la sfida da affrontare, anche per garantire il futuro degli enti previdenziali di categoria, misurandosi con le nuove forme di comunicazione rappresentate dalla multimedialità. Se ne è parlato il primo giorno del Congresso alla tavola rotonda con gli editori Carlo De Benedetti (gruppo Espresso), Fedele Confalonieri (Mediaset) e con Piergaetano Marchetti (Rcs). Franco Siddi, segretario generale uscente Fnsi, anche nella sua relazione, ha posto il tema di un patto per lo sviluppo e per la libertà d’informazione che abbia al centro uno statuto dell’impresa editoriale, con un sistema di regole e risorse certe anche per le imprese delle testate nonprofit, di idee, cooperative e di partito oggi a rischio dopo il decreto Milleproroghe che ne ha dimezzato i fondi. Difendere il pluralismo dell’informazione, oltre che tanti posti di lavoro, è un impegno preciso del sindacato che contro la legge Bavaglio è riuscito a portare in piazza centinaia di migliaia di cittadini. Una centralità riconosciuta nel suo saluto anche dal presidente del Senato, Renato Schifani. Ma vi sono anche le difficoltà legate alla crisi del settore. Siddi ha chiesto un impegno concreto contro la precarietà assicurando disponibilità ad affrontare la sfida delle nuove piattaforme multimediali. Accetta il confronto il vicepresidente della Fieg, Donati che ha espresso la disponibilità degli editori a impegnare risorse per la formazione dei giornalisti, riconoscendo che non funziona una politica di soli tagli. Preoccupano anche la gli attacchi alla libertà di stampa e quei “conflitti di interesse” resi possibili dagli intrecci tra carta stampata e tv previsti dalla legge Gasparri. Sul ripristino del fondo per l’Editoria dimezzato dal Milleproroghe sono intervenuti il senatore Vita (Pd) e Beppe Giulietti portavoce di Articolo 21. Entrambi hanno pure fortemente criticato la gestione del servizio pubblico televisivo del direttore generale Masi. Un giudizio più che condiviso dal presidente uscente della Fnsi, Roberto Natale che ha posto anche il tema della qualità dell’informazione e dell’attenzione alle realtà sociali “scomode”, spesso nascoste, come le morti sul lavoro. Il tema della buona informazione è stato ripreso da molti dei delegati. Forte è stata anche la denuncia per le aziende che hanno scaricato sulle redazioni i prezzi delle crisi, senza strategie per affrontarle con efficacia. Dal congresso di Bergamo è stato lanciato un appello per la libertà d’informazione in Tunisia e in Ungheria. Oggi vi sarà la replica del segretario Siddi e le votazioni per il Consiglio Nazionale.

Corriere della Sera 14.1.11
Bertinotti: «Io alle Bahamas? No, Antille da 1.250 euro a testa»
di Giovanna Cavalli


ROMA — Una settimana da 1.250 euro a testa, altoparlanti, gite e cotillons, tutto compreso. «E non su un panfilo, non su una barca a vela» , ma «ammucchiati sulla tolda con altre 2.600 persone come in una qualunque crociera popolare» , ricapitola Fausto Bertinotti, infastidito «da questa curvatura volgare che ha preso il commento politico» . Le foto rubate dell’ex leader di Rifondazione e di sua moglie Lella, in maglietta e zainetto sul trenino caraibico, anticipate a Kalispera! su Canale 5 da Alfonso Signorini («Ma alla bocciofila non ci va più nessuno?» ), altri scatti sul prossimo Chi, sono sembrate il seguito naturale del Massimo D’Alema sulle nevi di St. Moritz. Intanto la precisazione logistica: «Non ero alle Bahamas ma nelle Antille. E i Caraibi contengono isole come quelle di Bob Marley e di Fidel Castro. Ci sono passati pirati come Morgan e Drake: ci può stare anche un comunista» . I coniugi Bertinotti si trovavano a Tortola, nelle Vergini Britanniche, scesi dalla Costa Mediterranea e ripresi a tradimento da un compagno di escursione. «Eravamo una coppia come tante, tra gente simpatica e comune, non capisco questa animosità, non mi pare fosse una condizione elitaria o aristocratica. Vorrei parlare di Mirafiori e invece mi chiamate per queste cose qui, la sento come una violenza ma sopporto, con il senso del dovere e la disciplina da militante del Pci» . Più diretta la signora Lella: «Che cattiveria, dire le Bahamas, che sono molto più lussuose. Sa quanto abbiamo speso? Ho buttato ieri la ricevuta: 2.526 euro in due, niente di esclusivo, c’erano 2.600 passeggeri e 900 persone dell’equipaggio, la cabina l’ho prenotata in anticipo e mi hanno fatto lo sconto, più nazionalpopolare di così. Oltre al danno, che beffa. Io che per tutta la vita ho fatto le vacanze a Bagno di Romagna, a 80 euro a testa pensione completa, per una volta che mi concedo una crociera, la prima... Quanta malafede, che sfacciati» . Doveva essere anche lui della compagnia, il senatore Mario D’Urso, grande amico dei Bertinotti. «Avevo dato pure l’anticipo, poi ci ho rinunciato. Costava molto poco, sui 1.250 euro mi pare, il volo lo si pagava con i punti mille miglia dell’Alitalia. Questo chiasso è ridicolo. Io ad ogni modo ho cambiato idea e, come sa, ho trascorso il Capodanno a St. Moritz, diciamo che ho scelto l’opzione D’Alema...» .

Repubblica 14.1.11
Gli "erbivori" giapponesi "Il sesso? Fatica inutile"
In due anni gli adolescenti "disinteressati" sono passati dal 17,5 al 35,1%
Il Paese ha la più bassa media di rapporti tra le coppie: una media di soli 45 all´anno
di Renata Pisu


Il sospetto covava già da tempo, ma ora, grazie a uno studio del Ministero della Sanità, non ci sono più dubbi: ai giapponesi il sesso interessa assai poco e se fino a qualche anno fa erano le coppie sposate che recalcitravano all´adempimento del dovere coniugale, adesso si è scoperto che i teen-agers, in preda a ovvie tempeste ormonali, anche loro non vogliono proprio saperne.
Un terzo degli adolescenti dai sedici ai diciannove anni, intervistati in settembre da funzionari del Ministero, hanno dichiarato che la cosa non li interessa, molti di essere addirittura contrari a questa pratica «faticosa e inutile». E subito è scattato l´allarme perché, rispetto a un analogo sondaggio di due anni fa, la percentuale di coloro che in Giappone vengono chiamati "erbivori", è raddoppiata salendo dal 17,5 per cento al 35,1 rivelando che maschi e femmine sono diventati tutti erbivori, cioè non gradiscono il piatto forte, e sono più i ragazzi delle ragazze sia pure con un leggero scarto.
La stessa apatia in crescita si è registrata tra giovani donne e uomini, dai 20 ai 24 anni, che oggi ammontano al 21 per cento, contro l´11,8 per cento di due anni fa, mentre per le coppie sposate dai 25 ai 49 anni non si osa nemmeno più rilevare i dati di astensionismo, visto che è ormai certo che sia ineluttabilmente in crescita, avendo il Giappone registrato già cinque anni fa la più bassa frequenza di rapporti coniugali all´anno, una media di 45, posizionandosi in fondo alla lista di un sondaggio internazionale che ha esaminato le frequenze in altri 41 paesi.
Eppure, se c´è un paese dove il sesso sembra avere via libera questo è proprio il Giappone. Manga sexy e porno per tutte le età, ragazzine delle scuole medie che si accompagnano a maturi signori per enjokosai che non è prostituzione ma una pomiciatina a pagamento, stesse minorenni che mettono in vendita i loro slip "usati" per i feticisti dell´intimo, soap-lands che al loro apparire vennero chiamati "bagni turchi" scatenando le proteste dell´ambasciata di Turchia a Tokyio in quanto si trattava di luoghi dal sesso facile, sia pure tra vapori, aromi e schiume e poi Love hotel qualcosa di assai più raffinato e spesso tecnologico dei nostri alberghi a ore, dove le coppiette possono rifugiarsi senza che gli vengano richiesti i documenti. Che altro? I no-pants club, locali con i pavimenti a specchio dove le cameriere si aggirano senza mutandine e i clienti bevono e mangiano sbirciando sempre in basso… In più una mentalità diffusa da secoli che non ha mai avuto niente contro il sesso, contro il nudo, contro il corpo e nessun divieto di ordine religioso o moralistico. Si fa e basta, quando se ne ha voglia e basta. Ovvero, lo si faceva perché adesso si direbbe proprio che è tutto fumo e niente arrosto, e forse per questo li chiamano "erbivori".
Danno il fumo negli occhi le ragazze che si aggirano per i quartieri alla moda di Tokyo, elegantissime, sottili, con i lisci capelli neri e lucenti, il trucco perfetto, così come lo danno i manager tutti firmati dagli accessori di lusso: siano sposati o singles, sono tutti, uomini e donne, estremamente sexy e tirati a lucido, perfetti, attraenti: «Il guaio è, ha detto l´altra sera un opinionista della NHK, la Rai giapponese, «che non vogliono attrarre nessuno, si accontentano di piacere a se stessi». «E così non si fanno bambini», ha commentato triste una giornalista che partecipava al dibattito televisivo, uno dei tanti sulla generazione sexless che, stando agli esperti, rischia con il suo astensionismo di portare all´estinzione della popolazione giapponese, visto che già ora si registra il tasso di natalità più basso del mondo, 1,2 figli per coppia. E quando saranno chiamati al dovere coniugale gli adolescenti che sin da oggi si dichiarano non interessati alla cosa, o addirittura contrari? Che succederà? Sayonara, Giappone!
Un diciottenne ha dichiarato al Tokyo Journal che quel "su e giù" non è un gioco, è una cosa troppo seria. E che a lui piace giocare, divertirsi. Insomma, tutto un preliminare. Ma la "real thing"? La facevano i contadini, la facevano i samurai, i kamikaze non hanno fatto a tempo… ma cosa aspettarsi dai nuovi signorini giapponesi? Una tale fatica, un tale impegno? I narcisi erbivori si negano, aspettano forse che il Giappone sia seppellito da un´insalata.

Repubblica 14.1.11
Dostoevskij, le seduzioni del grande inquisitore
di Gustavo Zagrebelsky


Il protagonista è mosso dalla necessità di prevenire, anziché di reprimere
L´opera non ha nulla a che vedere con l´intolleranza cristiana verso i nemici della fede
Rilettura in chiave profetica della Leggenda contenuta nei "Fratelli Karamazov"
Il messaggio politico del celebre capitolo sembra annunciare il tempo presente
La figura narrata incarna la "ragion del volgo" e vede ovunque amici da blandire

Sulla figura dell´Inquisitore di Dostoevskij è incentrata la conferenza che oggi il giurista tiene all´Accademia nazionale dei Lincei, a Roma. Qui pubblichiamo il suo intervento.
A giudicare non solo dalla quantità, ma anche dalla qualità delle citazioni, delle sue interpretazioni letterarie, teatrali e cinematografiche, la forza attrattiva della Leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, a distanza ormai di quasi un secolo e mezzo, non è diminuita. Anzi, è crescente. E la ragione determinante è la forza con la quale essa solleva dal fondo questioni che sempre si rinnovano col volgere delle epoche e non si possono eludere. La libertà di fronte al bene e al male; libertà come benedizione o maledizione; il nichilismo e la violenza; la felicità, l´infelicità degli esseri umani, cioè la natura del loro essere; il significato della vita e del suo esito nella morte; il dolore e la redenzione dal dolore e dal peccato; la religione e l´ateismo; il Cristianesimo, nella versione cattolico-romana, e il socialismo come strumenti di controllo delle coscienze e di livellamento delle società. Nel luogo e nel tempo in cui fu scritta, la Russia di metà ottocento, radicaleggiante, sedotta dalle mode filo-occidentali e insofferente del dispotismo zarista e dell´ortodossia cristiana, la Leggenda sembrò una farneticazione letteraria. Nei decenni successivi, fu letta e condannata come espressione di un pensiero anacronistico, antidemocratico e antimoderno: come vagheggiamento di una restaurazione. Poi, ancora, alla luce degli sviluppi politici e sociali novecenteschi, fu giudicata una previsione e una condanna ante litteram di totalitarismi incipienti, cioè come un ammonimento profetico. Oggi, ora che ciò che allora si annunciava è davanti ai nostri occhi, pienamente dispiegato, la voce del Grande Inquisitore può essere ascoltata diversamente, al di sopra delle interpretazioni politiche, come una previsione, una profezia di sventura, se non come un annuncio apocalittico che riguarda tutti nel tempo presente.
Qui, per iniziare, assumiamo la Leggenda come un discorso generale sul governo. Da dove nasce l´obbedienza nel cuore degli esseri umani? È l´enigma degli enigmi politici. Il Grande Inquisitore una risposta l´ha e spaventosa, disumana o forse troppo umana: l´obbedienza nasce dall´odio della libertà. Ma quest´affermazione è generica. L´odio per la libertà è una caratteristica dei regimi politici fondati sulla ragion di Stato e sulla verità di Stato. Nella Leggenda troviamo qualcosa di molto più impressionante, cioè dell´odio per la libertà non dei governanti (cosa abbastanza naturale), ma dei governati (cosa assai meno ovvia). Ciò di cui qui si parla è la «servitù volontaria», non la servitù imposta con la coercizione delle volontà.
Per questo, ogni riflessione sul carattere politico del messaggio della Leggenda deve prendere le distanze da alcuni luoghi comuni.

"Ragion di Stato" e "ragion del volgo"
Il tempo in cui è situata l´azione narrata dalla Leggenda, il secolo XVI, è quello in cui prende forma lo "Stato moderno" e si svela l´esistenza di una doppia legge e di una doppia morale, una ordinaria per i comuni mortali e una straordinaria che riguarda i governanti, che curano i superiori interessi dello Stato: sopravvivenza, difesa, grandezza. Questi interessi stanno nel cuore del potere e devono sottrarsi alla vista del volgo, incapace di visioni autenticamente politiche. La loro cura è riservata agli uomini di Stato, il cui compito non è di onorare la ragione comune, ma di seguire la "ragion di Stato". Coloro che conoscono gli arcana del potere, cioè gli "iniziati" alle arti del governo, sono quindi autorizzati, se occorre, ad affrancarsi dalla moralità comune dell´uomo medio e a proclamare quello che, in termini moderni, si dice lo "stato d´eccezione".
La "ragion di Stato", dunque, è risorsa di chi sta al potere, al servizio di quell´entità metafisica che è lo Stato stesso, senza il quale gli esseri umani non possono vivere. Il popolo è legato alle leggi della sua morale, adatte a guidare i rapporti sociali. Ma c´è una sfera più alta, quella in cui opera il potere dello Stato. Qui vale una morale segreta, agli occhi della gente comune incomprensibile, anzi scandalosa. Il fine della morale comune è la società virtuosa. Il fine della morale politica è anch´esso la virtù, ma è la virtù dello Stato che esige, costi quel che costi, la rovina dei nemici.
Il Grande Inquisitore è anch´egli immerso nella distinzione tra coloro (i pochi eletti) che conoscono la realtà del potere e coloro (i molti) che l´ignorano. Ma, per legittimare il potere dei primi e la soggezione dei secondi, non si rivolge alla "ragion di Stato". Non c´è di mezzo, tra chi dispone del potere e chi al potere è sottoposto, "lo Stato", questa entità sovrumana che ha le sue leggi oggettive e le sue astratte e fredde istituzioni. Per l´Inquisitore tutto è molto umano. Egli ha dalla sua quella che si potrebbe dire la "ragion del volgo". Non deve salvaguardare lo Stato piegando i sudditi. Non è nemmeno il teorico dei poteri eccezionali. Si appella non alla natura dello Stato ma a quella degli uomini. Il suo è un governo benigno, non contro, ma per loro.
La "ragion di Stato" si risolve, in ultima istanza, nel governo della violenza orientata solo allo scopo. La "ragion del volgo" si risolve invece non nella violenza, ma nella seduzione o, per usare l´espressione famosa di Tocqueville, in un «potere tutelare, assoluto, dettagliato, regolare, previdente e mite» che elimina la violenza dal proprio orizzonte. Il Grande Inquisitore è un rassicuratore, che vuole essere amico di tutti. Per questo, la sua morale è una sola, quella del volgo. Tanto gli Inquisitori quanto i loro sudditi vi si devono piegare. La differenza è solo questa: i primi sono sofferenti e i secondi felici. Sofferenti perché consapevoli, felici perché ignari.
Gli Inquisitori sono, a loro modo, dei despoti, ma despoti-servitori, che stanno dalla parte di un´umanità innocente, che nulla conosce se non il proprio meschino benessere. Il Principe rinascimentale, che incarna la "ragion di Stato", vede dappertutto potenziali da "spegnere"; l´Inquisitore di Dostoevskij, incarna la "ragion del volgo" e vede dappertutto potenziali amici, da blandire e sedurre. Terrorizzare o lusingare, nell´esercizio del governo. Questa è una differenza fondamentale, da tenere presente leggendo la Leggenda.

"Ragion di fede" e "ragion del volgo"
La Leggenda non parla di un inquisitore nel senso che la parola ha assunto nella storia dell´intolleranza cristiana verso i nemici della fede. Anche a questo riguardo si deve prendere la distanza. Naturalmente, non sarebbe stata scelta questa figura se non vi fossero somiglianze. Ma le analogie non devono nascondere le differenze.
La differenza essenziale è nel fine. Il fine, per tutte le inquisizioni al servizio del dogma, è la sconfitta dell´eresia. È un fine innanzitutto di natura spirituale. La Chiesa, come società sovrana, incaricata di mantenere intatta la parola rivelata da Dio, è responsabile di un compito primario: mantenere l´ortodossia. A ogni costo. Per l´Inquisizione si trattava di "spegnere" l´idea che semina dubbi, attentando all´unità della fede. I corpi che portano l´idea sono secondari: li si potrà sopprimere o risparmiare, a seconda che l´idea perversa sia riaffermata o ritrattata. Anzi, la maggior vittoria non è l´eliminazione fisica dell´eretico, ma l´abiura che riafferma la verità.
L´Inquisitore della Leggenda non ha a che fare con verità ed eresie. Egli ha a che fare con la pasta di cui è fatta l´umanità, della quale è al servizio. Il suo compito non è correggere, ma assecondare. La sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana, ma se la rispetta così com´è e la si lascia sfogare. È un potere, certamente; ma è un potere amico, dalla parte dell´uomo comune.
Per nulla paradossalmente, gli Inquisitori potevano considerarsi agenti della carità cristiana. Il loro compito era la salvezza delle anime dei devianti, qualunque cosa ciò comportasse: violenze, torture, condanne.
L´Inquisitore della nostra Leggenda, invece, rifugge da ciò. Egli conosce la natura umana e ne ha pietà. Con i suoi mezzi l´accompagna. Non vuole risvegliarla alla verità, ma addormentarla sì, prima che s´affacci alla conoscenza del bene e del male, cioè alla libertà. Ancora una volta la "ragione" che lo muove è la "ragion del volgo". L´Inquisitore di Dostoevskij viene prima degli Inquisitori della Santa Inquisizione: questi devono reprimere, quello si preoccupa di prevenire affinché reprimere non sia poi necessario.

Le conclusioni
Possiamo dire così: la ragione dell´Inquisitore non è la ragion di Stato e neppure la ragione della fede. È la ragion del volgo. Si capisce allora perché i suoi argomenti ci appaiono familiari e perché a quel capitolo de I fratelli Karamazov ricorriamo spesso per riflettere sulla vita sociale e politica del tempo presente.

Repubblica 13.1.11
La paura
Il governatore della Puglia criticato dai sindacalisti della Fismic
Vendola davanti ai cancelli tensioni e proteste "Ordinate dal Lingotto"


La Fiat ha paura che i lavoratori leggano il contratto Ho percepito i timori dell´azienda

TORINO - C´è anche chi gli grida: «Nichi aiutaci tu». Poi sono applausi, domande a raffica e la contestazione dei militanti del Fismic, il sindacato aziendale della Fiat, che brandiscono una pagina del Giornale con attacchi personali al governatore della Puglia. E´ un vecchio articolo con un titolo che sembra fatto apposta per l´occasione: «In Puglia Vendola si comporta come Marchionne». Volano spintoni tra delegati della Fiom e le tute blu con il quotidiano della famiglia Berlusconi. Calci, sputi, qualche pugno. Grida: «Svegliati, il comunismo non c´è più». Il tafferuglio dura una decina di minuti. I militanti della Fiom reagiscono: «Fismic, servi dei padroni». Vendola non si scompone: «La Fiat ha paura. Per questo ha sentito il bisogno di ordinare al proprio sindacato giallo di montare questa contestazione a uso e consumo dei mass media».
Torna la calma e si crea un cordone di militanti vendoliani per consentire al leader di incontrare gli operai del primo turno che stanno abbandonando la fabbrica. «Spiegalo tu a Fassino perché bisogna votare no». Polemica interna al centrosinistra torinese. Polemica dura dopo la scelta dell´ex segretario dei Ds di schierarsi a favore del «sì». Ci sono domande angosciate: «Perché dopo 37 anni di fabbrica io devo lavorare per dieci ore di seguito?». Non manca chi attacca il leader di Sel. A parte i contestatori del Fismic, ci sono le tute blu che detestano il vero e proprio set televisivo montato in questi giorni di fronte all´ingresso delle Carrozzerie: «Voi politici venite qui quando c´è la televisione. Poi sparite e non vi troviamo più. Vi interessano le telecamere non la nostra vita dietro quel cancello».
Vendola ascolta e si tiene lontano dal microfono. I suoi lo sollecitano: «Nichi, vai al furgone, c´è l´altoparlante». Lui è tetragono: «E´ una questione di rispetto. Ho detto che sarei venuto ad ascoltare e non parlerò. Non dirò nemmeno che bisogna votare no. Chi sono io per dare suggerimenti a persone che trascorrono otto ore in fabbrica? Io sono venuto ad ascoltare. So che questo non è un referendum libero. E´ una porcata perché mette in alternativa il lavoro e i diritti. E quale titolo ho io per giudicare chi voterà sì?».
Vendola parlerà due ore più tardi, all´hotel Idea, al termine di un lungo incontro con il numero uno della Fiom, Maurizio Landini, e con il responsabile dell´auto, Giorgio Airaudo. Commenta l´endorsement di Berlusconi a favore di Marchionne e della sua minaccia di lasciare l´Italia in caso di vittoria del no: «Un Presidente del Consiglio che considera naturale perdere il principale insediamento industriale del paese andrebbe condannato per alto tradimento». Poi affronta anche la spinosa questione della scelta del successore di Chiamparino a sindaco della città. Quale sarà il candidato di Sel?: «Mi sono imposto di non parlarne oggi perché oggi è la giornata degli operai della Fiat. Ma certo voglio dire che non si potrà discutere del futuro sindaco di Torino senza tenere conto di come ci si è schierati in questi giorni sul referendum di Mirafiori». Poi aggiunge: «Purtroppo c´è una parte del centrosinistra che ha espresso posizioni di subalternità. Noi cercheremo di proporre un modello alternativo». Come dire che non sarà facile nelle prossime settimane convincere Sel ad appoggiare a Torino candidati sindaco che si sono espressi a favore dell´accordo voluto da Marchionne.
(p.g.)