sabato 28 marzo 2015

Corriere 28.3.15
I gerarchi del Reich riuniti a Wansee, la minuziosa organizzazione dell’odio
risponde Sergio Romano


Ero convinto che la soppressione degli ebrei nel Terzo Reich fosse stata decretata durante la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942. Avevo letto anche le opinioni degli «intenzionisti» e di alcuni che, come Lucy Davidovitz, sostenevano l’intenzione di Hitler di attuare la strage già molti anni prima, ma non ero rimasto convinto. Però la lettura de Il protocollo del Wannsee e la soluzione finale di Mark Roseman mi ha fatto sorgere dei dubbi: la riunione dei 15 gerarchi altolocati, tra cui Heydrich ed Eichmann, pare fosse priva di significato in quanto le decisioni erano state già prese. Potrebbe dare una spiegazione sulla questione?
Porfirio Russo

Caro Russo,
A giudicare dal processo verbale (in tedesco Protokoll), pubblicato in calce al saggio di Roseman apparso presso Corbaccio nel 2002, quella che si tenne a Wannsee, nel gennaio del 1942, fu una riunione d’informazione e coordinamento. Le persone invitate da Reinhardt Heydrich, capo dei maggiori servizi di sicurezza del Reich, erano quasi tutte burocrati di rango elevato, spesso responsabili di vasti territori nell’Europa occupata. Potevano fare domande e avanzare proposte, ma il piano per la eliminazione dell’ebraismo europeo era già stato approvato e poteva subire tutt’al più qualche modifica suggerita da criteri di opportunità.
Heydrich esordì ricordando che il piano iniziale del governo tedesco era stato l’emigrazione. Bisognava indurre gli ebrei ad andarsene costringendo le associazioni ebraiche, in Germania e altrove, a sobbarcarsi le spese del viaggio. Fu questo, per esempio, il compito di Eichmann a Vienna dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nel marzo del 1938. Fra la presa del potere nel 1933 e il 31 ottobre del 1941 gli ebrei espulsi furono 573.000 di cui 360.000 provenienti dalla Germania vera e propria, 147.000 dall’Austria e 30.000 dal Protettorato di Boemia e Moravia.
Heydrich ricordò altresì che la politica dell’emigrazione era stata sospesa durante la guerra «per motivi di sicurezza». Alludeva probabilmente alla possibilità che l’ emigrato ebreo portasse con sé, lasciando il Terzo Reich, un patrimonio di notizie e esperienze professionali che sarebbe stato utile al nemico. Esisteva tuttavia, grazie all’invasione dell’Unione Sovietica, una nuova opzione: quella di inviare gli ebrei nei territori occupati dell’est. Sarebbero vissuti in nuovi ghetti e campi di concentramento, sarebbero stati utilizzati soprattutto per la costruzione delle strade e il loro numero sarebbe stato «naturalmente» ridotto dalla durezza del lavoro. Questa non era ancora, tuttavia, la «soluzione finale». Nella riunione del Wannsse, Heydrich annunciò più volte questa «terza fase», ma dal processo verbale non risulta che abbia fornito maggiori particolari. È possibile che le modalità dell’annientamento, nel gennaio, non fossero state ancora messe definitivamente a punto. Ma è altrettanto possibile che il processo verbale (ne furono fatte 30 copie) sia stato ripulito per ragioni di prudenza.
Dopo la lettura del saggio di Roseman, caro Russo, le consiglio quella di un altro libro — Charlotte di David Foenkinos — pubblicato recentemente da Mondadori e dedicato alla breve vita di una tormentata e geniale artista berlinese, Charlotte Salomon. È scritto come un romanzo, ma la storia della sua famiglia negli anni Trenta, il diverso destino dei suoi membri, le varie fasi della politica antisemita del regime nazista emergono con chiarezza. Vi sono anche molte pagine in cui la protagonista del romanzo vive, dopo la sua partenza da Berlino, in quella parte della Francia meridionale che le clausole dell’armistizio del 1940 avevano assegnato all’amministrazione militare dell’esercito italiano. Qui l’atteggiamento adottato verso gli ebrei era alquanto diverso da quello delle zone tedesche, e le più favorevoli condizioni di vita avevano attratto un gran numero di nuovi esuli. L’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 mise bruscamente fine a questo felice interludio. L’immediato trasferimento all’est degli ebrei che abitavano la zona italiana trasforma in vita vissuta ciò che nel Protocollo del Wanssee è soltanto spietata e inumana burocrazia.

Ansa.it 26.3.15
Andreas Lubitz, l'opinione degli pischiatri
Claudio Mencacci: "Motivi possono essere semplici e la vita degli altri non conta"
La sindrome da burnout

qui, segnalazione di Francesco Maiorano

L’Huffington Post 27.3.15
La follia, la paura, la malvagità
di Paolo Crepet

qui segnalazione di Giorgio Corda

La Stampa 27.3.15
Lo psichiatra: è difficile riconoscere un depresso
“Bisogna saper cogliere i segni sfumati”
di Maria Corbi


Giovanni Battista Cassano, psichiatra, professore emerito all’Università di Pisa, è uno dei massimi esperti di depressione e di disturbo bipolare. E sul pilota della Germanwings che avrebbe portato se stesso e gli altri 149 passeggeri alla morte invita alla prudenza: «Intanto la diagnosi di depressione fatta da amici è molto rischiosa, non mi sento di asserire che questo signore fosse un depresso, o un bipolare sulla base di questi dati».
Ma la depressione potrebbe spiegare questo gesto assurdo e spietato.
«Partiamo dal fatto che il cervello può ammalarsi in qualsiasi momento e coinvolgere funzioni che portano ad alterazione del giudizio, della critica, del controllo degli impulsi, della coscienza della realtà e alla produzione anche improvvisa di deliri megalomaniaci senza per forza appartenere a un disturbo bipolare o a una depressione».
È possibile non accorgersi di una persona depressa o comunque disturbata? Il pilota, Lubitz, aveva superato tutti i test medici e psicologici.
«La malattia può non essere riconosciuta neppure dal malato. Anzi molto spesso il malato non sa di essere depresso e comunque lo nega».
Ma i medici?
«Molto spesso il disagio è colto dai familiari e anche dai medici senza essere ricondotto a una precisa diagnosi clinica. Per i piloti è già in atto un filtro molto severo, ma di fronte agli aspetti multiformi della malattia è difficile a volte coglierne la gravità».
Lubitz era molto grave, se è stato lui, come sembra, a portare a una morte terribile 149 persone.
«È difficile comunque stabilire se si sia trattato di un raptus melanconico o di un lucido progetto delirante che si è tradotto progressivamente in un comportamento assurdo e distruttivo. Sempre premettendo di non poter essere certo della diagnosi, si può riflettere su quel che sappiamo. E da alcuni elementi, come il fatto che il pilota abbia chiuso la porta, potrebbe sembrare un’azione premeditata. Questo indicherebbe allora, più che una depressione, un pensiero paranoide».
Perché? Impossibile ormai avere questa risposta?
«È un atto inderivabile secondo la psicologia e il senso comune, non comprensibile, senza cogliere la malattia che ha sconvolto alle sue fondamenta le principali funzioni del cervello».
La cosa che fa paura è il confine impercettibile tra normalità e follia.
«In realtà per lo psichiatra non esiste la normalità, esiste un continuum tra stato di salute e stato di malattia».
Quello che lei dice è spaventoso. Non si può prevenire dunque?
«Di fatto la prevenzione si fonda sulla capacità di cogliere i prodromi della malattia, cioè le manifestazioni sub-cliniche, sfumate, attenuate. Occorre una migliore conoscenza della psichiatria».

Corriere 27.3.15
«Le 150 persone a bordo per lui non contavano Era bruciato dallo stress»
Mario Pappagallo intervista il neuroscienziato Claudio Mencacci


«L’altra sera ero a cena con un amico pilota e ho subito avanzato l’ipotesi della sindrome di burnout per spiegare la dinamica dell’incidente aereo», confida Claudio Mencacci, direttore delle Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano.
Che cos’è la sindrome di burnout?
«È il “bruciarsi” tipico di professioni in cui le performance sono importanti, in cui lo stress può diventare deleterio in presenza di personalità predisposte o che mascherano tendenze depressive. Accade così che via via questi soggetti “brucino” le risorse che hanno a disposizione. Risorse cognitive, affettive, relazionali. Diventano indifferenti, apatici. Addirittura cinici se svolgono professioni di aiuto».
Quindi è possibile individuare per tempo questi soggetti?
«Sì. Nel caso in questione poi il profilo di personalità del copilota era già emerso quando a 21 anni ebbe episodi che ne rallentarono l’addestramento. Già burnout ».
Ma da qui a un suicidio-omicidio di massa ce ne corre. Come è possibile?
«Intanto occorre premettere che la professione di pilota richiede capacità psicofisiche molto elevate per i livelli di performance richiesti dalle responsabilità, i continui cambi di ritmo sonno-veglia e di fusi orari. Non solo. Anche nei legami affettivi e di amicizia si possono creare tensioni dovute alle continue assenze. Questo giovane copilota poi aveva avuto risultati estremamente brillanti dopo il primo burnout e quindi è ipotizzabile un effetto “rimbalzo”. Per proteggere queste personalità occorre una rete di affetti e amicizie che fanno da scudo a situazioni di forte stress e abbassamento dell’umore. Ma questi soggetti a un certo punto tendono a chiudersi, a restringere sempre più la loro coscienza fino a pianificare la morte come liberazione. La progettano e aspettano il momento opportuno. Hanno il dito sul grilletto e il colpo in canna. In attesa di uscire dal tunnel eliminando del tutto la loro coscienza. A quel punto lui vedeva solo l’uscita dal tunnel, le 150 persone con lui non esistevano proprio. Non c’erano».
Il momento opportuno? Quale?
«Quando il pilota è uscito dalla cabina. È lì che il dito ha premuto il grilletto».
La compagnia aerea non doveva intercettare prima una tale personalità?
«I controlli sui piloti ci sono e sono rigidi. Forse dovrebbero stare più attenti agli aspetti di salute mentale al momento delle selezioni. Comunque incidenti del genere sono rarissimi. Ma ci sono. Se ne contano quattro negli ultimi 20-25 anni, compreso questo. Rari, quindi, ma il punto è che dovrebbero essere zero».

Corriere 28.3.15
Nella mente di Lubitz
di Luigi Ripamonti


Sulle condizioni psichiche di Andreas Lubitz, il copilota che ha fatto precipitare l’aereo Germanwings, si rincorrono le voci: era in burnout, no era depresso e non si è curato, ha stracciato i certificati medici. «Senza documenti possiamo fare solo ipotesi» premette Emilio Sacchetti, ordinario di Psichiatria all’università di Brescia e presidente della Società Italiana di Psichiatria.
1 Cominciamo dall’ipotesi del burnout.
« Il burnout non è considerato una malattia in senso stretto, bensì una condizione di inadeguatezza nel rispondere in modo soddisfacente allo stress, in particolare, ma non solo, da lavoro. Si declina in tre modi: esaurimento , inefficacia e cinismo . Chi ne soffre si sente svuotato, incapace di provare qualcosa a livello emotivo (esaurimento), inoltre pensa di non essere più in grado di svolgere bene il proprio lavoro (inefficacia) e non gli importa più delle conseguenze delle proprie azioni professionali (cinismo); per esempio, nel caso di un medico si può tradurre nel praticare terapie seguendo le regole, ma senza alcun reale interesse per il loro esito».
2 Come si diagnostica con precisione il burnout?
«Ci sono scale per valutarlo, la più utilizzata è il Maslach Burnout Inventory , un questionario di 22 domande. Con questo strumento, e altri meno utilizzati, si può collocare una persona sopra o sotto determinate soglie che indicano l’eventuale livello di burnout».
3 È possibile che il burnout possa condurre a un suicidio-omicidio?
«Improbabile. Cominciamo dall’omicidio: se si cerca nella letteratura scientifica una relazione fra omicidio e burnout non si trova nulla. Se invece parliamo di suicidio-omicidio la letteratura e l’esperienza ci dicono che i casi di questo genere, come quelli di madri che uccidono i figli e poi si tolgono la vita, di solito si inseriscono in un contesto salvifico-delirante (“vi porto via da questo mondo che va in rovina”). Difficile attribuire questo genere di pensiero a qualcuno che uccide 150 estranei».
4Ma si può nascondere una condizione di burnout? Vivere, come sembra nel caso del pilota, una vita apparentemente normale, senza sintomi o comportamenti che possano essere notati da familiari o colleghi?
«In genere chi soffre di burnout, oltre ai tre segnali fondamentali (esaurimento, inefficacia, cinismo) può sviluppare disturbi del sonno, problemi cognitivi, alti livelli di ansia e impazienza, assenteismo dal lavoro, tratti nevrotici della personalità. Rispetto alla popolazione generale si riscontrano più spesso ipertensione, malattie cardiovascolari, aumentata resistenza all’insulina e quindi al diabete di tipo 2».
5Una volta superato il burnout si può tornare a svolgere le proprie mansioni senza problemi?
«Sì, ma non se le proprie mansioni richiedono una elevata capacità di gestire lo stress. Insomma, non il pilota di linea di una compagnia aerea».
6Allora questa tragedia potrebbe essere stata causata da una forma di depressione, magari legata al burnout?
«Non bisogna confondere le due cose: chi soffre di burnout ha un rischio maggiore di sviluppare depressione, ma non il contrario. Chi è depresso non ha maggiori probabilità di andare in burnout. Se invece facciamo l’ipotesi di una depressione grave, tale da portare al suicidio, è difficile che nessuno se ne sia accorto. La depressione vera è una malattia difficile da celare. E nel caso sia stata diagnosticata in passato è presumibile che sia stata curata. Se invece non fosse stata curata e fosse stata davvero depressione è difficile che nessuno se ne sia accorto».
7Ma non è possibile che una depressione sia stata curata e poi sia riemersa improvvisamente?
«Dopo la scomparsa dei sintomi in genere si prosegue la terapia farmacologica per diversi mesi. Questo non basta a escludere del tutto ricadute, ma in un caso come quello descritto il comportamento non sembra essere tipico di un depresso, che probabilmente non sarebbe nemmeno riuscito ad andare a lavorare, ma piuttosto quello di un individuo in uno stato di lucida follia».
8Quindi né depressione, né burnout. Allora che ipotesi si possono fare?
«Ribadisco ancora che siamo nel campo delle speculazioni. Però sembrerebbe di essere di fronte a un caso di psicosi, forse da abuso di sostanze psicoattive, che è più facile da mascherare. Però, anche in questo caso, ci terrei a essere cauto, perché ogni volta che per un fatto di cronaca tragico viene evocata la psichiatria aumenta in modo tragico lo stigma verso la malattia mentale. Chi soffre di una qualsiasi patologia di pertinenza psichiatrica viene etichettato come un mostro pericoloso. E questo oltre a essere insensato e ingiusto non fa che aumentare i problemi».

Repubblica 28.3.15
Lo psichiatra
“Attacchi d’ira e cambi d’umore ecco come si ferma un suicida”
di Anna Lombardi


«NON è stato un raptus. Lubitz doveva aver già pensato a quell’eventualità ». Lo psichiatra Maurizio Pompili del Sant’Andrea di Roma, autore de La prevenzione del suicidio ( Il Mulino) ne è certo. «Ha trovato le condizioni adatte per combinare un suo umore specifico alla possibilità di agire indisturbato. Ha trasformato in realtà le sue fantasie di morte dunque il terreno era già fertile».
Ma perché trascinare nella morte tanta gente innocente?
«Il suicida è un’egoista. Non vede futuro e nel suo distacco dalla realtà non considera il dramma che va a causare. Pensa solo al suo problema. Non tiene conto di chi rimane. Eppure l’Oms stima che per ogni suicidio ci sono almeno 6 persone colpite gravemente, vere vittime collaterali».
È possibile riconoscere intenzioni suicide in chi ci sta vicino?
«Spesso i soggetti a rischio soffrono di sonno disturbato. Abusano di sostanze, si espongono a rischi. Hanno attacchi d’ira e cambi d’umore repentini. E frasi come “non ce la faccio più” o “mollo tutto” non vanno sottovalutate.»
Mentre Lubitz era all’interno della cabina si poteva tentare un approccio alternativo allo sfondare la porta?
«Se il capitano fosse stato preparato ad affrontare situazioni simili ci sarebbe stata forse una chance in più. Far capire a una persona disperata che si è sensibili alle sue condizioni serve. Ha fatto cambiare idea a molti in procinto di fare gesti estremi».

Repubblica 28.3.15
Andreas, suicida e boia la sindrome di Narciso sul volo della morte
Le vittime servono solo da sfondo all’io di Lubitz, al suo odio per la vita: l’Altro è una debole ombra
La scelta di trascinare con sé i passeggeri è il sintomo di un’alienazione totale, in cui il sentimento di alterità è del tutto assente, perché l’unica cosa che conta è un’affermazione sconfinata dell’Ego
Come se il copilota avesse detto: se io non sono nulla, anche il mondo deve essere nulla
di Massimo Recalcati


ANDREAS Lubitz, il giovane copilota del volo Germanwings che si è schiantato con il suo aereo sulle cime alpine dell’Alta Provenza, ha deciso di sopprimere la propria vita. Non lo ha fatto nel chiuso della propria camera. Ha programmato di farlo sul suo posto di lavoro. Ha voluto farlo nel cielo. Quante volte ci avrà pensato prima? Quante altre volte avrà sfiorato l’abisso della morte? E, soprattutto, per quale ragione darsi la morte, per quale ragione decidere di togliersi la vita? Non possiamo rispondere a queste domande. Non è possibile fare nessuna psicopatologia del copilota del volo di linea della Germanwings 4U9525, Barcellona- Düsseldorf.
Non si può però trascurare l’orrore di questo atto. Perché nella sua scelta di darsi la morte questo giovane non ha tenuto in conto che avrebbe portato con sé altre vite umane. Non ha considerato che il proprio atto suicidario lo eleggeva a boia, a giustiziere di fatto. Altre vite oltre la sua sono morte con lui. Vite che non volevano morire, vite che volevano vivere, che erano, alcune tra loro, appena venute alla luce del mondo.
Non si tratta di demonizzare l’atto suicidario in sé, che resta un atto profondamente umano. Per questo Lacan aveva fatto del gesto suicida di Empedocle che si getta nel cratere infuocato dell’Etna il paradigma della differenza tra vita umana e vita animale. La vita umana, diversamente da quella animale che è assorbita integralmente dall’istinto e dalla sue leggi necessarie, ha sempre il potere di dire di “no!” alla vita, di scegliere di vivere o di morire.
L’atto suicida del copilota An- dreas Lubitz appartiene, rispetto a quello di Empedocle, ad un altro universo. Non segnala affatto l’elevazione simbolica della vita umana al di là di quella animale, ma la sua alienazione nelle spirali mortifere del narcisismo. Non è vero che non ha tenuto in conto che stava dando la morte ad altre vite. Egli si uccide decidendo di uccidere altre vite perché ritiene che tutto il mondo si esaurisca nel proprio Ego. Il sentimento dell’alterità gli è totalmente assente. La sua depressione rivela qui il suo fondamento narcisistico. Se io non sono nulla nel mondo anche il mondo deve essere nulla.
Accade anche in quei delitti dove chi si suicida è stato un attimo prima l’assassino brutale delle sue vittime, non a caso, solitamente, suoi familiari o suoi cari: se mi lasci mostrandomi che non ho più alcun valore io distruggo la tua è la mia vita. Per questa ragione il suicidio del copilota va distinto da quello, altrettanto esecrabile, dei kamikaze terroristi. In questi casi l’Ego non trionfa ma sembra sottomettersi — sino all’estrema ratio del sacrificio individuale — al potere ipnotico della Causa. Il terrorista suicida rinuncia alla propria vita per fare la volontà impersonale della Causa. In primo piano c’è un fanatismo collettivo; lo sterminio degli innocenti avviene per realizzare i disegni superiori della volontà di Maometto, del popolo, della Storia o della Razza.
È l’identificazione cieca alla Causa che toglie ogni dubbio all’azione del terrorista rendendolo paradossalmente, anziché carnefice, martire. Nel caso invece di Lubitz non c’è nessuna Causa in gioco, se non quella irrinunciabile del proprio Ego. Per questa ragione è un suicidio tragicamente in linea con la cifra fondamentale del nostro tempo: la sola Causa che conta in Occidente rischia di essere quella dell’affermazione solitaria del proprio Ego. L’Altro non esiste, è un’ombra debole, solo una parvenza. Sapeva il giovane copilota che la sua immagine sarebbe rimbalzata su tutti i media. Sapeva che il suo ego sarebbe stato protagonista. Coloro che ha trascinato con sé nel baratro della morte erano le comparse necessarie a fargli da sfondo. Il suo odio per la vita non poteva fare superstiti. Non c’è niente di più folle del narcisismo dell’ego.

Repubblico 27.3.15
“Amok”, una parola per dire l’impensabile
di Stefano Bartezzaghi


PER dirlo in italiano ci vogliono due versi di una canzone famosa: «E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire... «. In lingua malese, invece, basta dire “Amok”. La parola si definisce, chissà quanto correttamente, come «follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessuna intossicazione alcolica». Così almeno la spiegava lo scrittore austriaco Stefan Zweig, in un racconto di isteria coloniale intitolato Amoklaüfer (pubblicato nel 1922). Il termine «Amok» era già stato usato da H. G. Wells in un racconto del 1894. Negli ultimi giorni “Amok”, “Amoklaüfer” e anche il neologismo “Amokpilot” ricorrono sulla stampa tedesca per cercare di contenere l’impensabile follia del copilota del volo Barcellona-Düsseldorf almeno nei termini, per quanto precari, di una denominazione. Nominare il male certamente non lo lenisce. Va anche detto, però, che è la prima cosa da fare per cercare perlomeno di comprenderlo, e proprio nel senso delimitativo della parola «comprendere» (il capire è prima di tutto questione di capienza). È lo stesso principio per cui non c’è prognosi senza diagnosi. Raymond Queneau era convinto che il linguaggio sia nato per esprimere il dolore dell’uomo. Il bene ci lascia senza parole, perché non sentiamo il bisogno di esprimerlo. Il male ci lascia senza parole, perché ci pare necessario esprimerlo ma non sappiamo come farlo. Se per dire il male il malese è indispensabile, allora aggiungiamo al nostro vocabolario questa parola, “amok” (come inglesi e tedeschi hanno fatto per tempo). Sperando di non doverla usare più; sapendo che è una speranza debolissima, se non una mera illusione.

il Sole 28.3.15
La tragedia e i controlli
Perché Lufthansa non è «über alles»
di Vittorio Emanuele Parsi


«Apriamo una breccia nella cinta di mura che attornia la città. Ognuno dà una mano a sottoporre ruote scorrevoli al cavallo, a legare al suo collo lunghe funi. La macchina fatale ha già passato le mura, piena d’armi, mentre intorno i fanciulli e le vergini cantano gli inni rituali felici di toccare per gioco le funi con le mani. E la macchina avanza, scivola minacciosa in mezzo alla città». Sono le parole, note a generazioni di studenti italiani, con cui Enea racconta a Didone la storia del Cavallo e della tragica fine della città di Troia, le cui celebrate mura, capaci di respingere per dieci anni le schiere degli Achei, nulla poterono contro l’astuzia di Ulisse. Così, le misure di sicurezza, adottate dopo l’11 settembre per proteggere la cabina di pilotaggio da un assalto proveniente dall’esterno, si sono rivelate fatalmente invalicabili per chi cercava di sventare una minaccia, questa volta proveniente dall’interno. È la dimostrazione che non esiste la sicurezza assoluta o che «nessun sistema al mondo potrà mai impedire un simile atto isolato» e che «i piloti della compagnia e della sua controllata low cost sono i migliori al mondo», come ha tenuto a precisare il presidente della Lufthansa Carsten Spohr? Sarà. Ma rivela anche che ignorare la leggenda del Cavallo di Troia può essere letale anche a migliaia di anni da quando il testo di Virgilio è stato composto.
Certo la fatalità e la pazzia consentono di scaricare sul copilota ogni responsabilità. Ma occorre precisare che in tal caso non si può parlare di “errore umano” di chi era in quel momento ai comandi, perché uccidersi provocando una strage era esattamente l’intento di Andreas Lubitz.
Come abbia potuto nascondere una situazione psichica del tutto incompatibile con una professione tanto delicata va chiarito; così come va chiarito quanto siano efficaci i sistemi di valutazione così come applicati dalla compagnia tedesca. Una cosa è certa: c’è stata una serie di errori, a cominciare da un sistema che ha evidentemente peccato disastrosamente nella valutazione delle condizioni psichiche di Lubitz che tutto era tranne che uno di quei piloti «migliori al mondo» per citare la definizione che il leader di Lufthansa ha scelto per i suoi dipendenti.
I toni, le parole, gli argomenti per gestire la comunicazione di una tragedia tanto devastante avrebbero richiesto, probabilmente, maggiore umiltà. E diventa assai poca scusante anche quella di un’azienda che fosse preda di una sindrome da ricerca della perfezione non quindi in grado di ammettere errori anche davanti all’evidenza. Errori ci sono stati, eccome; nel reclutamento, nel controllo, nella formazione.
Così come si è dimostrato ormai un errore la procedura che consente di lasciare un uomo solo al comando di un “bestione” in grado di trasportare oltre 150 persone senza alcuna “ridondanza” rispetto alla crisi repentina del fattore umano. L’ossessione del terrorismo ha blindato le cabine per impedire accessi dall’esterno, ma non può significare - all’eccesso opposto - l’impossibilità di intervento in caso di anomalie interne.
Ma come, una serie di comandi e strumenti sono duplicati sugli aerei e sulle navi proprio per far fronte a un eventuale guasto e il malfunzionamento umano è invece trattato con tanta leggerezza? Potrebbe un motore impazzito costringere a spegnersi l’altro? No. Può un pilota impazzito impedire all’altro di intervenire? Sì, e abbiamo appena visto con quali conseguenze.
Praticamente tutte le compagnie aeree (tuttavia con qualche eccezione) adottavano fino a ieri procedure simili a quelle della Lufthansa, e da oggi tutte le hanno cambiate. Se una cosa questa tragedia segnala, però, è la presenza di una falla nel sistema della sicurezza interna alla compagnia, mette in luce l’inadeguatezza della vigilanza verso l’interno (chi siede in cabina di pilotaggio) e non certo quella verso l’esterno (i passeggeri in carlinga).
Ora diventa argomento per le compagnie di assicurazioni e non è nemmeno pensabile che cominci un gioco di scarico di responsabilità che offenderebbe innanzitutto le vittime e i loro parenti oltre che il senso comune di una opinione pubblica ormai globale.
Quando qualche anno fa un aereo egiziano si schiantò presumibilmente per volontà del suo comandante, tutti pensarono “come diavolo li scelgono e li controllano i piloti in Egitto?” e non solo alla fatalità o all’imprevedibilità dell’atto isolato. Se Herr Spohr si ponesse qualche interrogativo in più sulle politiche della compagnia che presiede, fornirebbe un migliore contributo ad evitare il ripetersi di simili tragedie.

il Fatto 27.3.15
L’intervista Michele Serra
“Questa Unità non ha voce: tolgano Gramsci”
di Silvia Truzzi


Molto prima dell’Amaca, c’era Tango, c’erano i corsivi corsari, le scorribande sudate sulla Panda in giro per l’Italia in villeggiatura. C’era una volta l’Unità, vittima di un primo “delitto perfetto” nel 2000 e di un altro qualche mese fa. Due chiusure, due speranze di rinascita. Michele Serra è stato il Cuore di una stagione gloriosa del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Lei è sempre stato legatissimo all’Unità. Che effetto le fa questa situazione?
Molta malinconia. Per me l’Unità, è stata una famiglia, ci sono entrato a vent’anni.
Posso dire senza retorica di avere imparato tutto lì. È un’agonia interminabile. L’Unità nella quale io sono cresciuto era il giornale dei comunisti italiani. Aveva una ragione sociale definita: con tutti i suoi limiti, ma anche con tutto il suo potenziale, aveva un’identità forte. Finito il Pci - e quel mondo di riferimenti sociali e culturali - è rimasto un guscio vuoto. Con dolorose conseguenze, in primis per quelli che ci lavoravano.
Adesso torna in edicola.
Ho trovato in alcuni momenti una specie di accanimento terapeutico. Quando si dice “l’Unità deve vivere” si fa una mozione degli affetti che io per primo faccio mia, ma si deve però anche dire cosa deve essere. Da quando è morto il Pci io non ho ben capito cosa l’Unità, rappresentasse.
Il Pci ha avuto un’eredità politica, che adesso è al governo.
Questo è tutto da discutere. Le cose, così come nascono, muoiono. Non sono un nostalgico, ma il Pci ha avuto una grande funzione nella storia del Paese, dalla Costituente in poi: ne parlo veramente come del mio papà e dell’Unità come della mia mamma. I papà e le mamme però muoiono e si è tutti tristi. Ma non direi che c’è una diretta continuità storica tra il Pci e il Pd: è vero solo in parte. Ha senso che il Pd abbia un giornale? Se fossi stato capace di rispondere, avrei accettato in ben due occasioni di fare il direttore dell’Unità. Sotto la testata c’è scritto “Giornale fondato da Antonio Gramsci”. Sono d’accordo con Emanuele Macaluso che ha detto, nei giorni scorsi: “Va bene tutto, ma se l’editore Veneziani rileva la testata, almeno togliete Gramsci”.
Perché Veneziani pubblica riviste di gossip?
Potrebbe essere anche l’editore di Cavalli e segugi, non è un pregiudizio. È che non c’entra più nulla. Chi rileva l’Unità, dovrebbe evitare l’equivoco, anche vagamente offensivo, di volersi rifare a quelle radici lì. Sono radici importanti e nobili: hanno generato un grande albero, che adesso è stato abbattuto. Mi pare strumentale illudere le persone che si sentono orfane dell’Unità, come quei medium che provano a illuderti di poter parlare con un tuo caro che non c’è più...
Bisogna ritirare la maglia, come quando i grandi campioni vanno in pensione.
Un po’ sì. Mettiamo che la Chiesa cattolica sparisse, Avvenire potrebbe ancora uscire? Io credo di no. Ci sarebbero sicuramente dei giornali di ispirazione cattolica, ma sarebbero differenti. Non è corretto tenere in vita l’Unità, come se fosse un simulacro. O si trovano dei contenuti che io non saprei trovare - ma forse Matteo Renzi e i suoi ragazzi sì - o chiamatelo in un altro modo. L’Unità era il giornale dei contadini, degli operai, degli intellettuali.
Quando l’Unità fu chiusa la prima volta lei scrisse: c’è un grande buco a forma di U. Quel vuoto non c’è più?
Io lo sento come un mio lutto personale, ma i lutti si elaborano. Per qualche anno sono andato all’edicola in cerca dell’Unità, ora non lo farò perché l’Unità, non è più la voce di niente. Il Fatto può piacere o no, ma è vivo perché parla a sensibilità presenti nel Paese. Non riesco a capire quale voce potrebbe esprimere un giornale che oggi si chiama l’Unità e che sotto ha scritto “Fondato da Antonio Gramsci”.
Il ruolo del Pd?
Da un lato c’è un’esigenza di bandiera. Pare brutto in mezzo a tanti traumi identitari aggiungere anche la sparizione dell’Unità. Penso al rapporto con il sindacato o al jobs act. Se c’è qualche giovane genio – perché questa è la dimensione intellettuale di cui ci sarebbe bisogno – che riesce a riempire di contenuti quel guscio vuoto, ben venga. Spero che accada. Ma se non si trova il timbro per quella voce, allora si levi Gramsci. Bisogna essere adulti.
C’è uno iato tra Renzi, nel senso di cos’è diventata la sinistra italiana, e l’Unità?
Non diamo troppa importanza a Renzi: lo iato è tra la società italiana di oggi e quello che ha rappresentato il giornale con la striscia rossa. Era il giornale dei consigli di fabbrica, che viveva della contraddizione padroni-operai.
Marx è morto, Dio è morto...
Marx non è affatto morto: finché vive il conflitto di classe, finché vive il concetto d’alienazione Marx non muore. Mi scoccia dar ragione a Renzi, ma anche io non credo che si possa pensare il futuro con gli stessi parametri del passato. Però allora dovrebbe essere coerente fino in fondo e dire: dell’Unità non so che farmene.
I giornali di partito hanno ancora senso?
Se lo devono chiedere quelli del Pd. E si devono chiedere anche se ha ancora senso un partito. Se per Renzi il partito è solo un comitato elettorale, è un’opinione rispettabile ma va espressa con chiarezza. Il partito serviva ad allargare la partecipazione, a una migliore distribuzione delle decisioni. Non mi sembra l’idea del segretario del Pd.

il Fatto 27.3.15
Monsignore e appalti: rogatoria imminente sul conto in Vaticano
di Antonio Massari e Davide Vecchi


AL SETACCIO DELL’INCHIESTA “SISTEMA” I MOVIMENTI BANCARI DELL’ARCIVESCOVO GIOIA. IL RELIGIOSO NON È INDAGATO MA HA UN RAPPORTO DI LUNGA DATA CON IL MANAGER PEROTTI

I movimenti del deposito bancario acceso allo Ior da monsignore Francesco Gioia potrebbero rivelare un nuovo capitolo dell’inchiesta Sistema che lunedì 16 marzo ha portato in carcere il super burocrate Ercole Incalza, l’imprenditore collezionista di incarichi Stefano Perotti e ai domiciliari due loro collaboratori. Gli estratti conti della banca vaticana sono stati sequestrati durante le perquisizioni nell’abitazione dell’ex arcivescovo di Camerino e sono ora al vaglio degli inquirenti che si muoveranno ora per chiedere l’intera documentazione all’istituto di credito Ior presentando una rogatoria internazionale a Città del Vaticano. Il monsignore non è indagato ma ha un rapporto di antica e profonda amicizia con Massimo Perotti, padre di Stefano, e poi con l’imprenditore stesso, come del resto si evince facilmente dagli atti dell’inchiesta svolta dai magistrati della procura di Firenze Giuseppina Mione, Giulio Monferini e Luca Turco, con i carabinieri del Ros.
GIOIA nel tempo si era legato più Stefano che con Perotti senior. Da quanto emerge dalle carte, infatti, il prelato già delegato pontificio per la Basilica del Santo a Padova, si era attivato per trovare voti per Maurizio Lupi e aveva chiesto l’assunzione del proprio nipote al dominus delle infrastrutture, Incalza, ottenendola. In un proficuo scambio di favori dunque Perotti il 4 gennaio 2014 si rivolge a Gioia per tentare di risolvere un problema che gli sta creando un prete. Don Albino Bizzotto aveva convocato i fedeli presso la stazione Agip allo svincolo di Bassano sud per protestare contro l’autostrada Pedemontana Veneta, opera della quale, inutile dirlo, Perotti era direttore dei lavori. Sarebbe meglio fermare la protesta, ma Gioia non può nulla: Bizzotto non è tipo da lasciarsi intimidire. Contattato dal Fatto il prete spiega di “non essere mai stato effettivamente contattato”, dice don Albino Bizzotto, fondatore dei Beati costruttori di pace. “Ma mi conoscono bene, sanno che sarebbe stato inutile: io mica chiedo il permesso, se penso che una cosa è giusta da fare io la faccio e tentare di fermare quell’inutile opera era ed è una cosa giusta”, aggiunge.
NON SEMPRE l’intervento del prelato va a vuoto. Anzi. Solitamente riesce sempre a esaudire i desiderata di quanti si rivolgono a lui. Perotti in primis. A inizio febbraio l’imprenditore scopre che suo padre Massimo (residente a Lugano) ha intenzione di ripartire il suo ingente patrimonio – contanti e proprietà custodito tra Brasile, Paraguay e Svizzera – tra i suoi tre figli di primo letto e un quarto figlio avuto in seconde nozze, “in un contesto familiare caratterizzato da forti contrasti con la seconda moglie”, annotano gli inquirenti. Il problema è semplice, lo spiega lo stesso Perotti parlando al telefono con il fratello: “Così lei sfila il 40%” delle proprietà, lui “si tiene il 60 e lo distribuisce tra noi tre ed una quota se la tiene per lui per campare... quindi dai conti verrebbero 2 milioni a testa”. Per Stefano Perotti, invece, per “fregare” la donna c’è una soluzione diversa: “Far sparire tutto, cioè un’alternativa potrebbe essere quella di dire ‘intesti la società’ ai figli e l’hai fregata perché non entra nell’asse ereditario”. La differenza è spartirsi 8 o 12 milioni di euro.
IL PADRE non fregherebbe mai la seconda moglie quindi deve essere a sua volta convinto. “Se glielo diciamo noi – dice Perotti al fratello – è un problema... sto pensando di fare due chiacchiere con Francesco se eventualmente glielo può suggerire lui”. E, infatti, il 9 febbraio Perotti va a casa di monsignor Gioia. La mattina successiva impartisce a una sua collaboratrice l’ordine di organizzare un viaggio a Lugano per il prelato. Il 12 febbraio di prima mattina Gioia parte ma è costretto a telefonare a Perotti perché non si ricorda più bene cosa deve dire al padre Massimo: “Rinfrescami il discorso”. L’imprenditore non si fa pregare: “Ma guarda... se intestasse probabilmente ai futuri eredi la società... forse risolverebbe il problema di dover passare attraverso un accordo con lei... mettigliela come un ragionamento tuo perché non vorrei che pensasse”. A Gioia torna la memoria: “Il mio obiettivo è buttar fuori lei”. Alle 16 il monsignor contatta ancora Perotti. “C’è della gente e non posso parlare è andato tutto bene però eh... poi ti do i particolari”. I due si vedranno quella stessa sera. Anche Gioia chiede favori a Perotti. L’assunzione del nipote, ma anche un aiuto per i fratelli Navarra della società Italiana Costruzioni. “Sono qui con uno dei fratelli Navarra... dobbiamo dargli una mano... per introdurli lì presso il responsabile... lo facciamo non per telefono”, si premura il monsignore. Il “responsabile”, secondo gli inquirenti, è Antonio Acerbo, all’epoca manager della società Expo e a sua volta legato a Perotti. Una giostra di rapporti e favori di cui magari potrebbe esservi traccia anche in quel deposito presso lo Ior.

La Stampa 27.3.15
Se la rivoluzione Bergoglio si affida solo alle parole
I grandi cambiamenti che il Pontificato di Francesco sembra promettere sui costumi sessuali si fermano davanti all’intangibilità della dottrina
di Gian Enrico Rusconi


Il Sinodo dei vescovi sulla famiglia dello scorso ottobre ha lasciato dietro di sé incertezza sulla strada che intraprenderà la Chiesa in Italia su alcune questioni controverse: l’eucarestia ai divorziati risposati e il riconoscimento dello status di coppia anche a quelle formate da persone dello stesso sesso. Sembrano temi secondari, rispetto a ben più gravi problemi della società e della Chiesa, ma toccano punti nevralgici di carattere dottrinale.
Si possono avanzare due ipotesi. La prima è che sui punti rimasti irrisolti aumenterà sensibilmente la discrezionalità dei vescovi, con relativa crescita delle differenze e delle tensioni istituzionali, territoriali e personali. Ma non si può escludere (seconda ipotesi) che si stia mettendo in moto un processo di riflessione di difficile identificazione - cioè di natura dottrinale (addirittura teologica) o ermeneutica e semantica.
Ermeneutica è una (re)interpretazione argomentata del dato dottrinale tradizionale che risponde a nuove sensibilità, confrontandole apertamente con i principi della dottrina. In questa ottica diventa decisivo il linguaggio, quasi una nuova semantica che di fatto promuove modi di intendere il dato dottrinale in modo diverso dal passato.
Con il suo stile e modo di esprimersi pubblico, Papa Bergoglio sembra andare in questa direzione, senza porre esplicitamente in discussione la dottrina. In questo approccio è implicita una sorta di de-dogmatizzazione, che stimola una nuova espressività religiosa dalle conseguenze tutt’altro che lineari. Personalmente non mi è chiaro se questa è la soluzione, oppure l’elusione di una impasse dottrinale su alcuni punti importanti.
Papa Francesco è diventato uno dei protagonisti principali del circuito mediatico, tramite il quale entra in contatto diretto con il grande pubblico dei credenti e dei non credenti. Raccoglie un consenso che insospettisce una parte della gerarchia ecclesiastica che teme che si inneschi un processo incontrollabile dai confini labili, mettendo a repentaglio certezze dottrinali. Ma Papa Bergoglio non è uno sprovveduto. Nella sua strategia comunicativa ha cura di ribadire la certezza dei valori tradizionali. Non è casuale che recentemente si sia espresso in modo fermo sul tema dell’aborto, della eutanasia, della validità dell’«obiezione di coscienza» dei medici a questo proposito, inserendo significativamente queste dichiarazioni nel contesto dei concetti a lui cari di «compassione» e di «misericordia». La scorsa settimana ha usato l’espressione «sbaglio della mente umana» per squalificare la cosiddetta «teoria del gender», su cui sembrano concentrarsi esageratamente le ansie ( se non le ossessioni) di molti uomini di Chiesa.
Tornando alle questioni ricordate all’inizio (eucarestia ai divorziari risposati e omossesualità) è evidente che sono di qualità dottrinale assai diversa. La prima è affrontabile all’interno della disciplina ecclesiale vigente sul matrimonio e sul senso del sacramento eucaristico, la seconda invece tocca il principio stesso di che cosa sia «naturale» per l’uomo e per la donna nella loro espressione sessuale e quindi nella loro proiezione nella dimensione religiosa. Ciò che le accomuna è la problematica della sessualità in tutti i suoi aspetti, che sta monopolizzando di fatto la teologia morale della Chiesa. Tocca le radici di quella centralità della «famiglia» attorno a cui la Chiesa sta giocando la sua partita più difficile.
Tra gli innumerevoli approcci a questo problema, scelgo qui quello teologicamente più diretto che collega il «matrimiono naturale» all’idea di creazione, senza mediazioni. A questo proposito nel testo del Sinodo dell’ottobre 2014 c’è un passaggio che merita di essere ripreso criticamente. «L’ordine della creazione - leggiamo - evolve in quello della redenzione attraverso tappe successive; occorre comprendere la novità del sacramento nuziale cristiano in continuità con il matrimonio naturale delle origini». In poche righe è sintetizzata la dottrina tradizionale che lega strettamente il concetto di «natura/naturale» all’ordine della creazione, che «evolve» verso l’evento della redenzione.
In realtà quello che qui si presenta come un ferreo ragionamento storico, logico e teologico si basa su un equivoco nominalistico. Alla luce delle esaurienti conoscenze storiche e antropologiche sappiamo che non è mai esistito un «matrimonio naturale delle origini», ma una varietà di modi di organizzare i rapporti tra uomini e donne, specie in merito alla filiazione.
Ma il punto su cui vorrei attirare l’attenzione è un altro. La narrazione biblica della creazione dell’universo e dell’uomo oggi assume spesso la forma di una meravigliosa storia edificante. Sul mercato editoriale ci sono bellissimi racconti biblici per ragazzi del tutto competitivi con quelli profani. Ma in questa narrazione si è sdrammatizzata l’esperienza vissuta dalla coppia dei progenitori: la proibizione divina di mangiare il frutto dell’albero, la disobbedienza di Adamo ed Eva seguita dalla terribile punizione, e quindi in prospettiva (cristiana) la redenzione tramite l’inaudito sacrificio del Figlio di Dio.
Che cosa è rimasto della densità traumatica di questa storia della disobbedienza?
Nel frattempo l’idea di creazione subisce una singolare metamorfosi. Si sovraccarica di significato psicologico e bio-etico strettamente riferito alla procreazione umana. Ricordo un intervento carico di forte emozione di Papa Ratzinger che parlava di Dio creatore presentandolo plasticamente come un padre amorosamente chino sul grembo della donna sin dal primo atto del concepimento. L’associazione diretta del concepimento hic et nunc all’idea di creazione ridà certamente a quest’ultima un pathos cui risponde la trasfigurazione religiosa della procreazione umana. Ma relega tutto il resto – la biologia e la psicologia del processo riproduttivo, della maternità in particolare – a una dimensione secondaria rispetto alle intenzioni divine.
Siamo davanti al paradosso di una rivalutazione della natura/naturalità umana, trasfigurata da una bioteologia che rimuove gli aspetti oscuri e persino angosciosi che per secoli hanno accompagnato l’idea della natura decaduta con il peccato (natura lapsa). Peggio. Gran parte della dottrina morale cattolica continua ad essere tacitamente, inerzialmente costruita sull’assunto della caduta originaria e delle sue conseguenze catastrofiche per la «natura umana», senza che i teologi abbiano argomenti convincenti per legittimarla a fronte delle nuove domande, delle nuove sensibilità e alla complessa fenomenologia dell’espressione sessuale. Nel testo del Sinodo si parla di unione matrimoniale originaria «danneggiata dal peccato» senza sbilanciarsi su che cosa esattamente significhi. In realtà la pedagogia e la pastorale odierna hanno difficoltà a identificare il senso della punizione divina. In compenso rimane il sistematico sospetto (o peggio) verso ogni espressione sessuale dichiarata «innaturale» (omosessuale innanzitutto) perché si discosta dai modelli cosiddetti «naturali» tradizionali.
È noto, per la verità, che nel mondo della Chiesa ci sono anche altre posizioni, minoritarie che coraggiosamente affrontano le impasse dottrinali ora individuate. Mi chiedo se la ermeneutica e semantica di Papa Bergoglio riuscirà davvero ad aprire una nuova stagione di confronto. In essa dovrebbe trovare anche uno dialogo vero (non mediatico-pubblicistico) con coloro che non intendono la laicità come semplice stile di vita personale, ma come schietto e serio confronto intellettuale.

Corriere 28.3.15
Landini in piazza. Il premier: non è una notizia
Gaffe del leader Fiom su sgravi fiscali e Jobs act.
Alla manifestazione anche una parte della minoranza pd
di Al. T.


ROMA Nonostante le polemiche, ci sarà il leader della Cgil, Susanna Camusso: «Ma con una categoria della Cgil, non personalizzate». Ma ci sarà soprattutto un drappello di parlamentari della minoranza del Partito democratico. Tra i partecipanti alla manifestazione di oggi a Roma, in piazza del Popolo, sono annunciati Rosy Bindi, Pippo Civati, Stefano Fassina, Cesare Damiano. Una presenza numericamente ridotta ma politicamente significativa, visto che proprio nel leader della Fiom Maurizio Landini, e nella sua «coalizione sociale», una parte del Pd vede una possibile alternativa a quelle che vengono considerate le politiche «neocentriste» di Matteo Renzi. Che ieri ha risposto polemicamente al leader della Fiom Maurizio Landini.
La manifestazione sul lavoro arriva, infatti, subito dopo l’annuncio di un boom dei contratti a tempo indeterminato. Landini, nonostante i dati positivi, ribadisce le sue critiche ai provvedimenti sul lavoro e si dice pronto al referendum per abrogare il Jobs act. Secondo il leader della Fiom, la crescita registrata a gennaio sarebbe indipendente dalle misure del governo e gli sgravi fiscali sarebbero entrati in vigore dal primo marzo, con il Jobs act, come ha detto a La7 scontrandosi con Chicco Testa. Il premier prima minimizza la piazza: «No news, non vedo titolo. Di manifestazioni contro il governo ce ne sono state tante». Poi attacca Landini: «Spero che i lavoratori leggano le norme della legge di stabilità, visto che qualcuno ha messo in dubbio il fatto che lavoriamo per la stabilizzazione dei contratti». Per il premier gli sgravi hanno avuto effetto perché sono entrati in vigore dal primo gennaio con la legge di Stabilità: «Le polemiche ideologiche sono bene accette, però si dovrebbero leggere anche i provvedimenti arrivati prima del Jobs act». Insomma, Landini avrebbe fatto una gaffe, non tenendo conto degli sgravi della Stabilità, come dice la renziana Alessia Rotta: «Landini fa un errore da matita blu». In piazza con gli altri ci sarà anche Pippo Civati. Che però ha qualcosa da dire a Landini: «Trovo fuori luogo certe sue parole. Non credo per esempio, che si possa dire di Gianni Cuperlo, con cui ho avuto spesso da discutere, che la sua posizione è determinata dalla preoccupazione della poltrona». E anche sul resto i distinguo non mancano: «Ho letto la piattaforma della Fiom, ci sono molte cose condivisibili, molte altre lontane da un progetto di governo».
Non sarà presente in piazza un altro esponente della minoranza, Alfredo D’Attorre: «Non andrò anche se penso che il Pd debba ascoltare le ragioni sociali e sindacali di quella piazza».
La battaglia nel Pd si svolge anche sul terreno della legge elettorale, dove il premier accelera: la riforma è stata calendarizzata per il 27 aprile alla Camera. Il presidente emerito Giorgio Napolitano, parlando di riforme in generale, invita a non perdere tempo: «Non è vero che ci sia stata precipitazione: adesso il traguardo non può essere allontanato». La minoranza insiste per modificare l’Italicum. Lunedì ci sarà una direzione nazionale. Il capogruppo Roberto Speranza invita al dialogo: «La legge elettorale non è materia di coscienza, serve un’intesa politica». Ma Stefano Fassina insiste: «Renzi utilizza come al solito la Direzione per ratificare una decisione presa. È un’inutile prova di forza. Serve una discussione vera».

il Fatto 28.3.15
Oggi il corteo a Roma
Landini&C. in piazza Il premier li attacca
Il Landini “politico” piace ma Renzi preferisce sfottere
di Salvatore Cannavò


IL 27% DICE DI GRADIRE L’IMPEGNO DIRETTO DEL LEADER FIOM. IL PREMIER PERÒ LO ATTACCA: UN CORTEO DI SABATO? UNA NON NOTIZIA, STUDI LE LEGGI”. CAMUSSO PRESENTE MA DEFILATA

Maurizio Landini in politica convincerebbe quasi un italiano su tre. Almeno, stando a una rilevazione dell’Istituto Ixè secondo il quale il 27% lo giudica positivamente contro il 52%.
Anche per questo, il protagonismo “politico” del segretario della Fiom, che oggi chiuderà la manifestazione della Fiom in Piazza del Popolo, attira opposizioni aperte.
LA PIÙ APERTA è proprio quella di Matteo Renzi che, facendo finta di snobbare il corteo di oggi, lo ha definito una non-notizia: “Domani (oggi, ndr) c’è una manifestazione contro il governo, “no news”, non c’è titolo” ha commentato ieri. “Se guardo agli ultimi sabati mi pare che manifestazioni contro il governo ce ne siano state moltissime”. Renzi è andato anche oltre, sfottendo il leader della Fiom per la “gaffe” fatta a l’Aria che tira, a proposito della data di inizio degli sgravi contributivi sulle nuove assunzioni: dal primo gennaio, come prevede la legge di Stabilità e non da marzo, data di avvio del Jobs Act, come pensava Landini. “Mi ha davvero colpito”, ha detto Renzi, “le polemiche ideologiche sono ben accette, ma si dovrebbe leggere anche i provvedimenti”.
Ancora una volta, però, Renzi punta a screditare chi lo avversa. Lo stesso Landini non fa più mistero di voler sconfiggere il presidente del Consiglio, in un modo o nell’altro. Probabilmente Renzi non lo teme, anzi, ai fini del suo progetto, avere come oppositori Salvini a destra e Landini a sinistra può esaltare le qualità centriste che ha deciso di assegnare al suo Pd.
La manifestazione di oggi è un primo passo verso la costruzione di questa opposizione nuova. “Unions” è il titolo scelto dalla Fiom per definirla e per illustrarla è stato scelto un manifesto disegnato da Vauro in cui accanto a un Landini che mima l’Urlo di Munch, si vedono tanti altri “urlatori”, tra cui si riconosce Gino Strada di Emergency, propedeutici a una protesta di massa. Il proposito è evidente: “Unire ciò che il governo e Confindustria vogliono dividere”.
La spiegazione di questa strategia sta nella sconfitta subita dal sindacato sul Jobs Act e dalla crisi, evidente, del sindacalismo confederale, almeno di quello che ancora vuole difendere alcuni diritti e mantenere una prospettiva conflittuale. Ma anche dalla crisi di rappresentanza a sinistra e dal distacco del Pd dalle proprie radici storiche.
Da questa doppia crisi, secondo Landini, si esce con una “coalizione sociale”, cioè con un piano di azione e un programma politico che metta insieme il sindacato, associazioni, movimenti, singole personalità.
Si farà un partito?, si domandano in molti. “Certo che no”, ha sempre risposto il segretario della Fiom. L’ipotesi partitica è la prospettiva più distante dalle intenzioni del leader metalmeccanico anche perché, nei ragionamenti che fa in pubblico e, più chiaramente, in privato, Landini pensa che le formazioni politiche, non solo quelle della sinistra, siano alla frutta. E che, per riproporre una rappresentanza dei lavoratori, occorra qualcosa di nuovo. La Coalizione, appunto.
Oggi se ne avrà un assaggio con gli interventi di Stefano Rodotà, di Gino Strada (al telefono dalla Sierra Leone) con precari, insegnanti, ambientalisti, con l’esponente di Libera che parlerà di reddito minimo. Il passaggio più esplicito, però, si farà a metà aprile quando si terrà l’appuntamento nazionale con l’obiettivo di redigere la “carta d’identità”. Il progetto ha quindi molto di politico ma riguarda anche il futuro del sindacato e, forse, la peculiarità, e anche l’imprevedibilità, dell’operazione sta in questa ambivalenza.
IL SEGRETARIO generale della Cgil, Susanna Camusso, ha ribadito che sarà in piazza ma ci sarà, precisa, “con una categoria” chiedendo di “non personalizzare”. La presa di distanza dal progetto di Landini è eloquente e, nella comunicazione interna alla Cgil, è ribadito ogni giorno.
Altra distanza, quella delle formazioni politiche di sinistra. Sel e Rifondazione comunista saranno convintamente in piazza ma, pur dichiarando di sostenere la Coalizione sociale, non dismettono il progetto di una nuova formazione politica pensando per la Coalizione il ruolo di sostegno sociale.
Ieri, a prendere le distanze da Landini è stato anche Pippo Civati, che ha definito “fuori luogo” le critiche mosse a Cuperlo nell’intervista a l’Espresso: “Visti da fuori – ha dichiarato infatti Landini – alcuni esponenti (della minoranza Pd, ndr.) sembrano interessati alla ricandidatura”. “Non credo, dice Civati, che si possa dire di Gianni Cuperlo, che la sua posizione è determinata dalla preoccupazione della poltrona”. Percorso difficile, dunque. La strada, che comincia oggi alle 14 in Piazza della Repubblica, non finirà con l’arrivo in Piazza del Popolo.

Repubblica 28.3.15
Landini in piazza sfida governo e Cgil
Oggi a Roma la prima prova di “Coalizione sociale”. Minoranza dem in ordine sparso: ci saranno Fassina e Rosy Bindi, i bersaniani si defilano. Colonna sonora di canti operai, sul palco i colori della prima campagna di Obama
di Tommaso Ciriaco


ROMA Spaccarsi per una piazza che non ti vuole. È il paradosso che imbriglia il Pd di lotta, in corteo con la Fiom e contro i democratici di governo. Toccherà a Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati e forse Gianni Cuperlo manifestare oggi per le vie di Roma, fino al comizio finale di Maurizio Landini. Dichiarerà guerra a Palazzo Chigi, si intesterà la battaglia per abolire il Jobs act con un referendum. Ma i riflettori sono già puntati sul futuro, quando la Coalizione sociale tenterà di scalare la Cgil e, chissà, anche la sinistra.
Due settimane dopo la prima riunione a porte chiuse in un seminterrato di corso Trieste, la struttura di Landini inizia a prendere forma in piazza del Popolo. Arriveranno in migliaia. Trecento pullman, bandiere dei metalmeccanici e i colori dei poster della prima campagna presidenziale di Obama. L’obiettivo è radunare cinquantamila persone, provando a immaginare nuove “Unions”, che è anche lo slogan dell’evento. La colonna sonora, neanche a dirlo, seguirà lo spartito degli storici canti operai del gruppo “Il muro del Canto”. Sul palco interverranno rappresentanti di Libera (con il suo “reddito di dignità”) e delegati Fiom, insegnanti della Cgil, studenti e i movimenti per la casa. Sarà proiettato un saluto di Gino Strada (Emergency) e letto un messaggio di Gustavo Zagrebelsky. E parlerà anche Stefano Rodotà.
Su un punto, però, il leader non transige: braccia aperte ad associazioni e movimenti (Arci, Giustizia e libertà) porte sprangate per le vecchie sigle. Certo, ci sarà Nichi Vendola nonostante il gelo degli ultimi mesi. E pure, come detto, frammenti della minoranza dem. «Visti da fuori - li ha massacrati Landini sull’Espresso - alcuni esponenti sembrano interessati soprattutto alla ricandidatura». Previsioni impietose. L’altra faccia della medaglia, quella renziana: «Hanno visto i dati positivi sull’occupazione? - domanda il vicesegretario dem Lorenzo Guerini - Quanto ai nostri, manifestano con chi si oppone al governo guidato dal loro segretario... Fatico a comprendere, lo ammetto».
Fuori dalla Coalizione sociale, in effetti, è tutto un rebus targato Pd. Con Matteo Renzi che ridimensiona - «è una manifestazione contro il governo, “no news”, non c’è titolo» -, la pattuglia bersaniana che si sfila e un altro pezzo di minoranza dem che spera di costruire un ponte. «Sarò lì per ascoltare - spiega Bindi - E anche un grande partito di centrosinistra dovrebbe ascoltare». Non che tutto fili liscio, anzi: «Sento la contraddizione - ammette Stefano Fassina - e mi preoccupa che tanti lavoratori avvertono il Pd lontano».
La tabella di marcia delle “Unions” di Landini è serrata: ad aprile un appuntamento per stilare il programma, poi le prime sedi territoriali e a maggio la convention nazionale. Una corsa senza respiro, mentre la sinistra politica antirenziana arranca. Fino a dove? Fino all’opa sulla Cgil, che Susanna Camusso proverà a contrastare affacciandosi in piazza del Popolo (l’intervento dal palco, invece, è ancora in bilico). E soprattutto fino a una nuova forza politica, nonostante l’estenuante pretattica: «Io resterò nel sindacato - giura Landini - ma chi partecipa al percorso risponderà al vuoto di rappresentanza ». Un partito, appunto. «Il dilemma lo risolverà Maurizio», taglia corto Civati. «Noi sforziamoci di non dividere la sinistra».

il manifesto 28.3.15
Oggi tutti “Unions” con Landini: è la coalizione anti-RenziIn piazza. Debutta il movimento lanciato dalla Fiom: «Via il Jobs Act, servono nuovi diritti». Libera, Arci, Emergency. E poi Anpi, Articolo 21, gli studenti di Rete della conoscenza e tanti pezzi di Cgil. Società civile e sindacato da oggi ci provano. Insieme
di Antonio Sciotto

qui

Repubblica 28.3.15
Il consenso trasversale anti-Renzi
Il 29% dice sì a Landini record tra gli elettori M5S
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


NON solo Landini. I provvedimenti economici del governo, in particolare in materia di lavoro, dividono gli italiani. E gli oppositori prevalgono, raggiungendo percentuali consistenti un po’ in tutti gli elettorati, da destra a sinistra, Pd compreso. Nella base del M5S invece le politiche di Renzi incontrano un “no” quasi unanime.
Il leader Fiom raccoglie un consenso personale significativo. Il 29% approva il suo operato. Inserito nella graduatoria dei leader politici, occuperebbe il quarto posto. Dietro al presidente del Consiglio e ai giovani leader dell’opposizione di destra, Meloni e Salvini. I giudizi favorevoli sono più elevati a sinistra (e tra coloro che hanno fiducia nei sindacati), ma si estendono anche ad altre aree politiche (e sociali). A guardare con favore Landini è, infatti, più di un terzo dell’elettorato di Sel, del Pd e anche del M5S. Il consenso è, comunque, superiore a un quinto degli intervistati che si collocano a centro-destra o nell’area dell’astensione e dell’incertezza.
Pur essendo strettamente associato agli orientamenti di voto, l’accordo sulle manifestazioni anti-governative raggiunge valori rilevanti anche tra gli elettori del partito del premier (45%). Diventa maggioritario nel caso di tutte le altre formazioni e, soprattutto, sale all’82% nell’elettorato grillino. Nel complesso, coinvolge il 56% degli intervistati.
La trasversalità dello scontento rappresenta, certamente, un punto di forza per la mobilitazione promossa da Landini. Del resto, la crisi continua a mordere, e, nonostante gli spiragli suggeriti dagli indicatori economici, la maggioranza delle persone interpellate dal sondaggio ancora non vede una via d’uscita. Nel frattempo, il risentimento nei confronti della politica e dei partiti si mantiene elevato, rinfocolato dai continui episodi di corruzione.
Paradossalmente, l’esteso consenso per le azioni di protesta potrebbe rappresentare, però, una insidia per Landini. Qualora decidesse di trasformare la coalizione sociale in forza politica. Difficile, per il leader sindacale, traghettare fuori dal Pd i simpatizzanti (e gli esponenti) della minoranza interna. Difficile, anche, coagulare gli elettori della sinistra radicale. Ancor più difficile contendere a Salvini e a Grillo il monopolio della protesta.

il Fatto 28.3.15
Statistica creativa
Lavoro, gli incentivi mascherano la crisi
di Carlo Di Foggia


È bastato aspettare un giorno per rivedere al ribasso gli entusiasmi del governo sull'occupazione. Solo giovedì il ministro del Lavoro Giuliano Poletti comunicava che “nei primi due mesi del 2015 sono stati attivati 79 mila contratti a tempo indeterminato in più rispetto ai primi due mesi del 2014: una crescita del 38,4 per cento”. Il tutto anticipato dal consueto Tweet del premier Matteo Renzi: “È un dato davvero sorprendente: il segnale che l'Italia riparte”, mentre pezzi sparsi della maggioranza elogiavano i meriti del Jobs Act. Ieri, però, l’Istat ha comunicato che a gennaio 2015 il fatturato dell’industria, al netto della stagionalità, è sceso dell’1,6 per cento rispetto a dicembre, e del 3,6 rispetto al mese precedente. Pochi giorni fa è toccato sempre all'Istituto di statistica ridimensionare le aspettative, certificando il tonfo della produzione (-0,7 per cento a gennaio, -2,2 su base annua). Tradotto: l’economia non si muove, anzi arranca.
COME di consueto, per oscurare i dati negativi, il governo si è mosso per pubblicarne altri positivi. Il ministero del Lavoro ha così prontamente anticipato i dati delle comunicazioni obbligatorie (quelli definitivi usciranno il 5 giugno), spiegando che nei primi due mesi dell’anno “si è registrato un aumento di 154.000 contratti rispetto allo stesso periodo del 2014, segnando una crescita del 12,6 per cento”. Con l’economia al palo, come si spiegano allora i dati sull’occupazione? Come noto, i nuovi contratti non sono frutto del Jobs Act, che è entrato in vigore solo a marzo, ma degli incentivi voluti dal governo con la legge di stabilità (possono arrivare a 8.060 euro l’anno per tre anni per chi sceglie i contratti a tempo indeterminato). Che sia la decontribuzione a spingere in su i numeri è stato certificato dieci giorni fa anche dal presidente dell'Inps Tito Boeri, che ha parlato di 76 mila aziende che ne hanno fatto richiesta, per un totale di 275 mila lavoratori. Se i numeri venissero confermati, in poco più di due mesi sarebbero state quasi prosciugate le risorse messe a disposizione dal governo per il 2015 (1,9 miliardi).
COME HA SPIEGATO LA FONDAZIONE dei consulenti del lavoro, però, solo il 20 per cento riguarda nuovi posti di lavoro, il resto sono stabilizzazioni di contratti precari per ottenere i generosi sgravi. Nessuno, infatti, può dire con certezza quanta occupazione si è creata per il semplice motivo che dati definitivi non esistono, ne sono stati comunicati. Poletti si è ben guardato dal farlo, limitandosi a un anticipazione, senza specificare quanti di quei contratti rappresentano nuovi posti di lavoro o semplici stabilizzazioni di precari. Per quelli completi bisognerà attendere due mesi.
Già a dicembre scorso, Poletti era incappato in una clamorosa gaffe anticipando i dati del terzo trimestre 2014 da cui si evinceva “un incremento dei contratti stabili del 7 per cento”, al solo scopo di oscurare il calo dell'occupazione comunicato nelle stesse ore dall'Istat. Pochi giorni dopo, è stato lo stesso ministero, comunicando i dati completi, a smentire il suo titolare: Poletti infatti faceva riferimento solo ai rapporti di lavoro “creati” (circa 400mila) senza specificare quelli nel frattempo “persi” (483.027), che avrebbero così dato un saldo negativo di oltre 81 mila unità. Come ha spiegato al Fatto l'economista Pietro Garibaldi, padre insieme a Boeri del contratto unico a tutele crescenti, senza dati certi è impossibile attribuire meriti al jobs act, tanto più che il decreto Poletti del marzo 2014 ha semplificato il ricorso ai contratti a tempo determinato.
IERI IL PREMIER HA ELOGIATO il lavoro di “stabilizzazione” messo in atto dal governo, ma il combinato disposto col decreto rischia di vanificare gli effetti una volta esauriti gli incentivi. Metà dei 150 mila nuovi contratti sbandierati ieri, infatti, non sono stabili ma precari. Il ministero, però, si è ben guardato dal farne qualsiasi menzione, puntando l’accento solo sui primi. Se poi si guarda ai dati Istat, si scopre che nel 2014 buona parte dell'incremento dei posti di lavoro (88 mila unità) è dovuto alla crescita dei contratti a tempo determinato (90 per cento) e part time (soprattutto quelli “involontari” imposti ai giovani).

Repubblica 27.3.15
Renzi: “Pronto alla fiducia sull’Italicum”
Ai dissidenti niente libertà di coscienza
di Goffredo De Marchis


ROMA «Non mi fido di un nuovo passaggio in Senato. Dobbiamo approvare l’Italicum a maggio, togliamoci il dente. Anche perché la legge secondo me non è perfettibile». Con le parole di Matteo Renzi, comincia in salita la trattativa tra il premier e la minoranza sulla riforma elettorale. La chiusura di Palazzo Chigi è netta, l’idea è quella di risolvere la questione lunedì in direzione. Con un voto, con la conta mettendo in preventivo la spaccatura. Se le parole hanno un senso, ormai il tempo dei penultimatum è finito e lo scontro con Pier Luigi Bersani e gli altri dissidenti inevitabile. «È una questione centrale, sono pronto a giocarmi tutto — spiega il premier ai suoi collaboratori — . Anche a chiedere il voto di fiducia». Tocca a Roberto Speranza tentare la strada della mediazione. Ma i “colloqui di pace” sono partiti col piede sbagliato.
Ieri mattina il capogruppo e il presidente del Consiglio sono stati chiusi due ore a Palazzo Chigi cercando una soluzione. A Speranza Renzi chiede di dimostrare la sua capacità di tenere unito il gigantesco gruppo parlamentare di Montecitorio «su una legge che abbiamo discusso cento volte, abbiamo modificato in maniera sostanziale al Senato seguendo le indicazioni della minoranza e che va approvata». Speranza però è uno dei leader dell’opposizione interna, è stato scelto da Bersani per quel posto, ha sempre sudato per garantire una compattezza che tenesse insieme le anime del Pd senza rallentare l’azione del governo. Adesso è a un bivio. Senza una correzione, sa che i ribelli andranno fino in fondo non votando la legge elettorale e generando uno strappo al limite della scissione proprio alla vigilia delle regionali, elezioni importanti visto che si vota in 7 regioni.
Che la partita Italicum sia decisiva per il governo e per la stessa legislatura si respira nel lungo ragionamento di Renzi oltre che in alcuni dettagli che vanno oltre il confine del Pd. Ieri, raccontano, Gaetano Quagliariello e Maurizio Lupi hanno incontrato la capogruppo dell’Ncd alla Camera Nunzia De Girolamo. Lei chiede un cambio di passo al partito di Alfano, addirittura accarezzando l’ipotesi di un appoggio esterno all’esecutivo. Ma non è il momento, le dicono i due “messaggeri”. Gli attacchi vanno fermati, il sostegno a Renzi non è in discussione, bisogna compattarsi in vista del voto sull’Italicum. Altrimenti, è il senso del messaggio, il tuo posto di capogruppo è a rischio.
A Speranza è stato fatto capire più o meno lo stesso. È in gioco la sua poltrona. Lui ha risposto a Renzi che è un pericolo anche per il segretario «creare uno spappolamento nel partito alla vigilia delle regionali». In fondo basta poco, è il ragionamento dei bersaniani. Il patto del Nazareno è finito, le riforme si voteranno solo con la maggioranza di governo. È sufficiente garantire una quota del 70 per cento di eletti con le preferenze e l’accordo è fatto. Se si arriva alla resa dei conti, invece, qualche “sorpresa” sul risultato delle amministrative potrebbe arrivare. In Liguria, dove la giunta uscente è di centrosinistra, il civatiano Pastorino corre contro la candidata renziana Paita e può azzopparla. In Veneto Alessandra Moretti ha chance maggiori dopo la rottura nella Lega ma non reggerebbe una rottura a sua volta. Non è questa la previsione di Renzi che vede l’approvazione definitiva della legge elettorale come una straordinaria opportunità per la campagna elettorale.
Se la trattativa non decollasse nelle prossime ore, la minoranza ha intenzione di arrivare a un obiettivo minimo lunedì: evitare la conta in direzione e cercare ancora una mediazione. I tempi non sono brevissimi. L’Italicum è stato messo in calendario a Montecitorio il 27 aprile. Ma anche su questo minimo gesto distensivo Renzi nutre molti dubbi. Non vuole tergiversare. L’assemblea di Sinistradem lo ha convinto che non ci siano margini. Bersani sembra irriducibile, D’Alema ha chiesto «massima intransigenza su alcuni paletti». Il segretario ha una maggioranza ampia nell’organismo, tanto vale sfruttarla subito. Il presidente Pd Matteo Orfini, contrario alle preferenze, fa capire il clima con un avvertimento: «La libertà di coscienza ci può essere sulla Costituzie ed è stata riconosciuta. Non c’è invece sulla legge elettorale, che è un tema politico».

Repubblica 27.3.15
La minoranza del Pd all’ultima trincea
Renzi ne accentua le divisioni con l’obiettivo di vincere la battaglia su Italicum e Senato
di Stefano Folli


LA SINISTRA del Pd, l’area di minoranza cosiddetta “bersaniana” che si oppone a Renzi, potrebbe essere vicina alla sua Waterloo, cioè a una sconfitta definitiva. Non si tratta solo di un gioco interno al “palazzo”, come tale di scarso interesse. Al contrario, siamo forse alla vigilia di un passaggio in grado di cambiare la scena politica.
Il venire meno dell’opposizione interna permetterebbe al premier di lanciare in grande stile il suo “partito della Nazione” (detto anche con un po’ di malizia, peraltro giustificata, il “partito di Renzi”). E non a caso il possibile, anzi probabile, sfaldamento del fronte è atteso sulle due riforme di natura istituzionale: la legge elettorale e la trasformazione del Senato. Due misure che al grande pubblico interessano certo meno dei primi dati positivi sulle assunzioni a tempo indeterminato (grazie anche al Jobs Act) o sull’arruolamento dei precari nel pubblico impiego. Eppure sono le riforme fondamentali per decidere i futuri equilibri del sistema.
Renzi lo sa talmente bene che vuole far votare la legge elettorale dalla Camera prima del voto di fine maggio (elezioni in sette regioni) per chiudere la pratica. Anche i suoi avversari lo sanno, ma si sono cullati nella speranza che un compromesso fosse possibile sui punti controversi, a cominciare dal numero esorbitante dei parlamentari “nominati” nelle liste bloccate. L’idea è ancora quella di far passare a Montecitorio uno o due emendamenti, per cui il testo dovrebbe sottoporsi poi a una nuova lettura al Senato. Là dove, è noto, i numeri della maggioranza sono esigui e in teoria tutto potrebbe accadere.
Come si capisce, questa posizione non racchiude una strategia e a quanto pare nemmeno una tattica. Esprime solo una notevole debolezza. La minoranza è arrivata alla resa dei conti con le polveri bagnate e Renzi oggi ha buon gioco a sfidarla. Per cui nella direzione del Pd di lunedì, se il premier- segretario vorrà contare amici e nemici, il gruppo degli oppositori sarà schiacciato e dovrà adeguarsi; a meno di non volersi auto-emarginare del tutto o addirittura uscire dal partito.
Come si è giunti a questo amaro epilogo? L’ultimo errore è stato quel mezzo litigio sulle colpe storiche di D’Alema nell’assemblea di corrente, sabato scorso a Roma. Se questi oppositori non riescono a essere uniti nemmeno fra di loro — deve aver ragionato Renzi — che motivo c’è di temerli? In effetti, quell’assemblea non ha dato l’impressione di un gruppo coeso e determinato. Ha ragione Bersani quando rivendica alla minoranza il merito di aver contribuito in modo forse anche decisivo all’elezione di Mattarella al Quirinale. Ma quel risultato fu ottenuto perché allora l’opposizione interna seppe far pesare i suoi voti, obbligando Renzi a scegliere e in un certo senso a negoziare.
Oggi non sta accadendo nulla di simile. Non si sa quanti sono i deputati del Pd disposti a votare contro la legge elettorale (se non sarà modificata), a costo di pagare le conseguenze del gesto di ribellione. Non si sa quanti sono i senatori pronti a sconfessare il loro partito sulla riforma del Senato: se fossero un gruppetto rilevante, il presidente del Consiglio — cui non fa difetto il realismo — dovrebbe prenderne atto a agire, vale a dire cercare un compromesso.
Per l’una o l’altra ipotesi occorreva che la sinistra del Pd fosse in grado di presentare numeri consistenti, tali da impensierire Renzi. L’assemblea di Roma era il palcoscenico ideale per annunciare quei numeri, sia alla Camera sia al Senato, rendendo credibile la minaccia di guerra. Ma non è accaduto e quell’incontro è stato tutto tranne che una dimostrazione di forza. E infatti Renzi si è rasserenato ed è passato alla controffensiva. Se i bersaniani sono incerti sul da farsi, ci penserà lui, il premier, a dividerli ancor di più e a portare dalla sua parte chi può servirgli. Così si sta risolvendo, salvo colpi di scena, la battaglia della riforma elettorale e poi del Senato. Con la disfatta di un vecchio gruppo dirigente che non sa rinnovarsi ed è ormai soggiogato da Renzi.

il Fatto 28.3.15
Mercati aperti
“Votateci l’Italicum e vi diamo un terzo dei nostri capilista”
I renziani continuano a corteggiare la minoranza di Bersani per avere il via libera alla legge elettorale a inizio maggio
di Wanda Marra


Se ci votate l’Italicum così com’è vi diamo 30 posti in lista per le prossime elezioni. Con quella legge, possiamo votare nel 2016 e voi evitate di essere asfaltati”. Raccontano deputati bersaniani che era questa l’offerta che un alto dirigente democratico andava ripetendo in questi giorni a Montecitorio. La trattativa è a tutto tondo, le promesse e i trabocchetti si moltiplicano esponenzialmente.
RENZI ha chiesto (e ottenuto) da Montecitorio la calendarizzazione dell’Italicum prima delle Regionali (il 27 aprile). Lunedì ha convocato la direzione del Pd: vuole un voto sulla legge elettorale, che la blindi, evitando ulteriori passaggi al Senato, dove i numeri sono risicatissimi. Strategia preventiva, anche perché i sondaggi sul tavolo del premier relativi al voto delle Regioni non sono così entusiasmanti. E allora, meglio prevenire l’eventualità che le minoranze si sentano legittimate a rialzare la testa.
In direzione, il voto è bulgaro, a Montecitorio gli sgambetti, soprattutto visto che ci saranno voti segreti, sono sempre possibili. Tant’è vero che si fanno velate minacce e meno velate pressioni. Per dirla con Matteo Or-fini: “La libertà di coscienza ci può essere sulla materia costituzionale. Non c’è invece sulla legge elettorale, che è un tema politico”. La stessa linea del premier, che pensa pure alla fiducia (dibattito in corso tra i costituzionalisti, se sia possibile o meno). Come dire che chi vota contro si mette automaticamente fuori dal partito. Trattative e pressioni vanno avanti soprattutto su Roberto Speranza e Area Dem. Che finora - nonostante grandi dichiarazioni di guerra - hanno sempre consentito ai provvedimenti del governo di passare. E anche questa volta potrebbero farlo, uscendo dall’Aula. Il tentativo di Renzi è sempre lo stesso: detronizzare il dissenso, indebolendolo e inglobandolo. È aperta la questione ministero delle Infrastrutture. Che va assegnato. Uno dei nomi in corsa è quello dello stesso Speranza (in questo schema senza l’unità di missione che andrebbe a Palazzo Chigi sotto Luca Lotti). Sarebbe un modo per accontentare un pezzo di minoranza (e un pezzo di potere rosso, che fa capo a Pier Luigi Bersani ). Una merce offerta per garantirsi in cambio i voti non solo sull’Italicum, ma su tutto. A partire dalle riforme costituzionali, che da Palazzo Madama ci devono passare. “Noi non accettiamo nessuna offerta di posti sicuri”, dice Nico Stumpo, autorevole esponente di Area Dem. Offerta respinta al mittente dunque. “Anche questa voce di Speranza al ministero è messa ad arte, per farci passare come quelli che vogliono solo i posti”. A definire quello sulla legge elettorale “un dibattito strumentale” era stato Matteo Richetti a Repubblica lunedì. Esplicito: “La minoranza vuol solo garantirsi posti in lista”. Il premier non l’ha smentito nonostante richiesta formale da parte di Gianni Cuperlo & co. Evidentemente la vede allo stesso modo. E il tema ritorna. “In direzione lunedì sull’Italicum voteremo contro”, assicura Stumpo. E poi dice la sua sulla reale volontà del premier di andare avanti sulle riforme costituzionali: “Se non vuole andare a Palazzo Madama con l’Italicum per non rischiare, perché dovrebbe andarci con le riforme? Anche su quelle i voti sono a rischio. Evidentemente non le vuole fare”.
I RENZIANI nel frattempo smentiscono categoricamente qualsiasi offerta. “Figuriamoci se Renzi promette una cosa del genere. Figuriamoci se 30 posti glieli dà”, la battuta. Polpette avvelenate, trabocchetti, promesse pronte ad essere smentite dai fatti? Dopo il voto di lunedì la minoranza non avrà molta scelta: o adeguarsi e votare la legge elettorale, sancendo la propria dissoluzione finale nel renzismo. O dire di no. Rischiando le conseguenze, a partire dalle dimissioni dai posti di rilievo, come quelle che lo stesso Speranza adombrava ieri da capogruppo a Montecitorio in un’intervista a Repubblica. O andarsene.

Corriere 28.3.15
Un Pd bifronte che scarica le tensioni sull’esecutivo
di Massimo Franco


Più le riforme avanzano, più sta diventando chiaro che a insidiarle sono soprattutto i contrasti all’interno del Pd. In assenza di un’opposizione vera, nel senso di capace di offrirsi come alternativa, è dentro il partito-perno della coalizione che si consumano quotidianamente resistenze e contraddizioni. È come se il presidente del Consiglio dovesse fare i conti con una doppia anomalia. La propria, perché non è a Palazzo Chigi perché è stato votato; al contrario, ha ricevuto i voti, almeno alle europee, perché guidava il governo.
La seconda anomalia è quella di un Pd ereditato, dominato, ma non ancora plasmato a propria immagine. Le richieste di mediazione e i distinguo della minoranza, i conati di scissione, sono figli di queste anomalie. E gli inviti perentori alla disciplina di partito, a non dissociarsi da decisioni politiche, riflettono l’esigenza del premier di emanciparsi dai condizionamenti. Va detto che finora Renzi ci sta riuscendo, anche con metodi che gli avversari definiscono arroganti.
La domanda è se tutto questo basterà a impedire che il Pd scarichi sulle istituzioni le sue questioni irrisolte.La sensazione che pesino su ogni scelta più di ogni altra considerazione, ormai, è tangibile. Non si tratta di una logica che produce solo risultati negativi: lo conferma l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, miracolo di unità e di abilità. Ma il rinvio di «qualche settimana» per decidere il ministro delle Infrastrutture dopo le dimissioni traumatiche di Maurizio Lupi non è un indizio incoraggiante; né le polemiche, nate in primo luogo nel Pd, sul tentativo di palazzo Chigi di «blindare» la riforma elettorale.
Vicenda emblematica: un Italicum voluto fortemente dal Pd di governo, viene osteggiato apertamente dal Pd «d’opposizione» come potenzialmente autoritario. Se dal livello nazionale ci si trasferisce a quello locale, lo scontro dentro la maggiore forza di sinistra è ancora più sconcertante. Non esiste solo il caso di Roma, dove l’impegno a commissariare tutto non riesce a nascondere la realtà di un partito marcio. E a Milano, la questione della successione a Giuliano Pisapia come sindaco si presenta spinosa perché la segreteria Renzi prefigura nuovi equilibri.
Il quadro è completato dalla campagna elettorale in Campania di Vincenzo De Luca, condannato e dunque destinato a non poter svolgere le funzioni di governatore, se eletto. Sotto voce, nel Pd nazionale si ammette che sarebbe meglio se non vincesse. «Da parte del Pd sento un sostegno pieno, totale», ha detto invece De Luca ieri, assicurando l’arrivo a Napoli del sottosegretario Luca Lotti, braccio destro di Renzi. In realtà, è un altro pasticcio annunciato. «L’importante è che la discussione non si esaurisca nella contrapposizione», avverte il sindaco di Torino, Piero Fassino. Ma è proprio quello che sta accadendo.

Il Sole  28.3.15
Lo scontro nel Pd non guarda all’economia
di Lina Palmerini


Anche sulla riforma della Rai, approvata ieri dal governo, la minoranza del Pd ha un altro progetto su cui darà battaglia al Senato dove i numeri sono assai risicati per Renzi. E così sono almeno tre, oltre Italicum e riforma del bicameralismo, i fronti aperti ma nessuno riguarda l’economia .
Tra minoranza e maggioranza Pd le divergenze non sono banali e non sono poche. Dalla legge elettorale alla Rai fino alla riforma del Senato: temi affatto secondari ma che non colgono il punto. Manca – in questi scontri – il nocciolo della questione politica di oggi che è l’economia, la ripresa dell’occupazione, il destino industriale dell’Italia, il rapporto con l’Europa. Di questo non si vede un braccio di ferro tra le due anime del Pd. Né si vede un confronto aperto su quello che sta accadendo tra Bruxelles e Atene o sulle parole dette giovedì in Parlamento da Mario Draghi che ritiene ancora insufficienti le riforme strutturali italiane. Su questi capitoli il dibattito è più tra il premier e Landini, o Salvini: estremo e dunque più di propaganda.
La vera battaglia di sinistra poteva essere sul Jobs act ma è stata persa. Anzi, non persa ma mediata, contrattata con Renzi tant’è che il disegno di legge delega è passato anche con i voti della minoranza mentre lo strappo c’è stato dopo, con i decreti. Troppo tardi. Quella poteva essere la madre di tutte le battaglie di sinistra, più che l’Italicum e la percentuale tra nominati e preferenze che invece occuperà la direzione di lunedì dove la minoranza bersaniana voterà contro. Lo ha capito Landini che oggi sfilerà in piazza prendendo di mira proprio la riforma dell’articolo 18. Peccato che in Tv, il luogo più frequentato dal leader della Fiom, abbia fatto una gaffe imperdonabile per un sindacalista: ignorava la legge sugli sgravi che ha incentivato le assunzioni e da quanto tempo fosse in vigore. Un lapsus un bel po’ grave per chi di mestiere deve sapere di occupazione e disoccupazione.
In ogni caso, quella bandiera del Jobs act non è più in mano alla minoranza Pd che, però, nemmeno potrà rivendicare i numeri positivi dell’occupazione se – oltre i 79mila posti a tempo indeterminato nei primi due mesi di quest’anno (+35%) – la tendenza sarà confermata anche dopo l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti. E così l’area anti-Renzi ripiega sullo scontro sulla Rai e sulla legge elettorale, temi tipicamente riservati a quelle classi “intellettuali” che sono un pezzo dell’elettorato del Pd, ex Ds, ma che non sono mai stati maggioritari.
Se Renzi è arrivato al 40,8% è merito di un elettorato che è rimasto fedele e di nuovi consensi arrivati soprattutto da operai e imprenditori, come indica un’analisi di Marco Maraffi di Itanes. Questo per dire che la minoranza Pd si sta posizionando su temi che hanno una spiccata vocazione minoritaria e che non colgono il punto di oggi che è l’economia, sia sotto forma di 80 euro che di riforma del lavoro. Lunedì ci sarà la direzione del Pd e la minoranza voterà contro la legge elettorale di Renzi: comincia uno scontro o un negoziato che si concluderà alla Camera a cominciare da maggio. Il “no” di lunedì avrà un peso relativo, ciò che conterà saranno i comportamenti in Aula, se mai vi sarà uno strappo, cosa a cui molti non credono.
Ma resta un dubbio. Che un’area politica possa riconquistare la “ditta” o il Paese facendo di una percentuale di nominati e di preferenze la madre di tutte le battaglie. L’impressione è che oltre questo scontro non ci sia molto di più. Non sul fronte più consistente che riguarda il destino economico italiano arrivato a un momento cruciale. Ed è un tema, tra l’altro, che Renzi copre fino a un certo punto, preso – anche lui – più dalla fretta di chiudere sull’Italicum e contenere un’area del suo partito che trovare una strada per rendere strutturali quegli sgravi fiscali per l’occupazione.

Repubblica 28.3.15
Candidabili e no le morali del Pd
di Francesco Merlo


O LE dimissioni del ministro Lupi diventano codice d’acciaio, oppure finiranno per essere archiviate come la punizione del perdente, l’amputazione della parte politica più esposta. E possiamo permetterci di dirlo noi che abbiamo alzato la voce in nome della politica e non del codice penale. E infatti Lupi, che non era indagato, è stato costretto a dimettersi. C’è invece nel Partito democratico una combriccola di indagati e di condannati che resiste. E c’è una tribù di mascalzoni politici che Renzi finge di subire ma che in realtà premia con la strategia gommosa della dissimulazione onesta.
SE consentiamo di stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni — dice Renzi — diamo per buono il principio per cui qualsiasi giudice può iniziare un’indagine e decidere sul potere esecutivo».
Ma l’idea opposta, e cioè che la politica possa annullare le ragioni della giustizia, non è garantismo. È impunità. Come se il partito avesse il potere medievale di rendere innocente un colpevole e viceversa. Insomma più che al Montesquieu illuminista di Renzi questa schiuma rimanda al dosaggio dei veleni, al potere come saga dei Borgia e ai fabbricatori di dossier: «Riservato per il Duce». Mussolini archiviava le informative sui nemici e soprattutto sugli amici che tanto più gli erano fedeli quanto più erano ricattabili. Erano, per dire, insospettabili i toscani Wladimiro Fiammenghi e Alfredo Peri e il modenese Graziano Pattuzzi coinvolti nel sistema Incalza. E però ci sono i crani di Lombroso nel Pd romano contagiato da Mafia capitale sino ad Ostia Antica. «È pericoloso e dannoso» ha scritto Fabrizio Barca.
Ma come sempre è il sole allo zenit che meglio rovescia i luoghi comuni. Leggete cosa ha scritto ieri su Facebook Claudio Fava che, della lotta alla mafia è il testimone più limpido e fiero: «Perché il Pd non candida a sindaco di Enna Mirello Crisafulli (prosciolto) e candida a presidente della Campania Vincenzo De Luca (condannato)? Perché ritiene impresentabile Crisafulli e si tiene al governo quattro sottosegretari indagati? ».
I quattro sono Francesca Barracciu e Davide Faraone, e poi Filippo Bubbico e Vito De Filippo. Nella mancanza di regole anche la buona notizia del proscioglimento del quinto, Basso De Caro, aggroviglia il nodo. La domanda chiave rimane infatti quella di Fava su Crisafulli, al quale sarebbe stata inflitta «una porcata». E certo Fava può permetterselo perché contro Crisafulli ha speso metà della sua vita politica: «Gli si rinfaccia questa sua esuberanza gogoliana, la panza e l’effervescenza del temperamento … Lo si considera adatto a fare il segretario provinciale del partito ma inadatto a candidarsi a sindaco».
Per la verità nessuno ci obbliga a scegliere tra Crisafulli e De Luca. E l’indecenza politica, anche se assolta penalmente, rimane indecenza. Anzi, dal punto di vista amministrativo, De Luca ha fatto di Salerno una delle più vitali e solari città del Sud. Come Fava mi insegna, il notabile De Luca è la versione salernitana del siciliano Crisafulli, e anche dei notabili Tosi e Bitonci, e Formigoni e Lupi. La differenza? È in nome della sinistra che De Luca e Crisafulli mettono se stessi al di sopra di tutto, anche loro unti del Signore. Scrive ancora Fava introducendo l’argomento trans gender: «Posso dirvi che mi sembra cento volte più impresentabile e pernicioso un campione dell’antimafia dei pennacchi come Crocetta, col suo circo di turibolanti che lo protegge?».
E si capisce qui che solo nel cerchio dannato della Sicilia, dove un’antimafia indaga su un’altra antimafia, si poteva arrivare all’incappucciato di Forza Italia, Silvio Alessi, che ad Agrigento ha vinto a man bassa le primarie del Pd, con visita di rispetto a Berlusconi ad Arcore del presidente regionale dello stesso Pd Marco Zambuto. Ovviamente sono state cancellate queste prime primarie transgeniche, un vero mostro di verità che, come sempre dalla Sicilia, illumina il labirinto-Italia.
E infatti si capiscono meglio anche le primarie annullate a Napoli e quelle impiastricciate ma confermate a Genova nonostante la denunzia di Cofferati e la forza delle prove. Raffaella Paita, moglie del presidente dell’autorità portuale (meglio non farsi mancare nulla in famiglia) è rimasta in sella, ma il suo avversario Luca Pastorino non ha riconosciuto la vittoria e si è candidato anche lui a governare la Liguria. Un pasticcio?
Nulla esprime meglio il “pasticcio Pd” di quel prosciolto Crisafulli condannato dal partito e di quel condannato De Luca prosciolto dal partito perché controlla tantissimi voti con l’aria guappa del boss del Mediterraneo. Ecco: più grave della protervia del condannato c’è la complicità del Pd con il reo: «È il nostro candidato. Tocca a lui sconfiggere il centrodestra», ha detto ieri Luca Lotti. Ma tutti sanno che, appena eletto, De Luca dovrebbe subito dimettersi per poi sperare in un ricorso e in un reintegro. Diceva Giuseppe Tatarella: «‘Mbroglio aiutami tu».
E va bene che Napoli rende possibile anche l’impossibile e solo al sud la sinistra non è più obbligata a somigliare alla sinistra, ma la doppia resistenza alla legge, quella del sindaco De Magistris, che pure fu uomo di legge, e quella del futuro governatore De Luca, che almeno uomo di legge non è stato mai, potrebbe ben presto fare della Campania il laboratorio del lazzaronismo di sinistra, una sorta di Venezuela d’Italia, la fortezza dei descamisados. Insomma, tutto il contrario della rivoluzione renziana, l’opposto della Leopolda. Altro che tablet, twitter e iPhone. Qui è il Pd che torna al gettone telefonico e ai cannoli.

Repubblica 27.3.15
I candidati scomodi del Pd rifiutano il passo indietro E i big lasciano solo De Luca
Salta convegno per lanciare l’ex sindaco di Salerno condannato Crisafulli sfida il Nazareno: possono sempre farmi sottosegretario
di Antonio Fraschilla


ROMA Sono ingombranti, provocano malumori nella base e in alcuni casi «un grande imbarazzo» non solo in via del Nazareno ma anche a Palazzo Chigi. Si chiamano Vincenzo De Luca in Campania, Vladimiro Crisafulli a Enna, Silvio Alessi ad Agrigento. Sono i candidati che Matteo Renzi non vorrebbe in corsa con il Pd e che, via il vicesegretario Lorenzo Guerini, sta cercando di convincere a fare un passo indietro. Ricevendo sempre la stessa risposta. «Mi candido anche se me lo vieta Renzi», ripetono Crisafulli, De Luca e Alessi. Diventando così spine nel fianco alle quali si appigliano gli oppositori esterni e interni.
A partire dal caso Campania. De Luca è piombato a Palazzo Chigi per incontrare il presidente del Consiglio.
Alla fine è riuscito a parlare con il sottosegretario Luca Lotti e Guerini, ed entrambi lo hanno invitato a valutare un ritiro, anche alla luce della condanna per abuso d’ufficio. De Luca, invece, ha chiesto un «maggiore sostegno» temendo che nessuno dei big vada in Campania. E l’annullamento della manifestazione in programma domani a Napoli alla quale avrebbero dovuto partecipare il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente dei dem Matteo Orfini, è stato letto come un campanello d’allarme. Alla Camera tra i renziani si vocifera di soluzioni alternative che Renzi starebbe sondando e il nome che circola è quello del ministro Orlando. Rumors, nulla di più, che la dicono lunga sullo spirito con il quale Renzi e i suoi si apprestano alle elezioni campane.
Altra grana è quella di Enna. Renzi è chiaro: «Crisafulli non avrà il simbolo Pd». L’ex senatore, considerato «impresentabile» alle politiche perché intercettato in un colloquio con un boss e alle prese con un rinvio a giudizio per una strada abusiva, adesso non ha nulla sulle spalle perché il reato è prescritto e nel frattempo è stato eletto segretario locale. Crisafulli ieri si è presentato alla Camera e appena ha visto Guerini lo ha raggiunto: «Perché non mi devo candidare?», ha chiesto a un vicesegretario evidentemente in imbarazzo, che si è defilato dicendo soltanto: «Mirello, dai, fai il bravo».
Crisafulli è netto: «Faccio un passo indietro solo se mi nominano ministro o sottosegretario, tanto tra questi c’è chi è messo peggio di me». Grane su grane anche ad Agrigento, dove infuriano le polemiche sul vincitore delle primarie sostenuto da un pezzo di Fi. L’input che arriva da via del Nazareno è quello di trovare un candidato alternativo. Due nomi sul tavolo ci sono: il presidente del tribunale Luigi D’Angelo e l’Udc Calogero Firetto. «Ad Agrigento interverremo», dice il vicepresidente del Pd, Matteo Ricci. «Abbiamo toccato il fondo», attacca Cesare Damiano. Dalla Sicilia alla Liguria, dove i democratici sono alle prese con lo spettro del voto disgiunto nei confronti dell’ex Pd Luca Pastorino contro la candidata ufficiale Raffaella Paita. Il partito avverte: «Chi vota un altro candidato è fuori». Basterà?

Repubblica 28.3.15
“La minoranza rottami D’Alema e Bersani”
Il presidente del consiglio propone proprio sull’Italicum un patto generazionale ai “giovani” dell’opposizione interna “Ma la riforma va approvata subito”

Cuperlo rilancia: “Niente preferenze, aumentiamo i collegi e non faremo scherzi”
di Francesco Bei


ROMA Uccidere il padre, abbandonare definitivamente quello che a palazzo Chigi chiamano il «crepuscolarismo dalemiano». Questa è la prova che Renzi sta chiedendo alla minoranza interna. «Voglio capire — ha confidato ai suoi — fin dove arriva questa nuova generazione della sinistra. Se intendono ancora seguire Bersani e D’Alema oppure vogliono diventare finalmente interlocutori del segretario del partito». Con la garanzia di un trattamento adeguato al momento della formazione delle liste elettorali: una quota prefissata di capolista blindati per quella trentina di «giovani di sinistra » che avranno rottamato con le loro mani la vecchia generazione.
Messa così la “prova d’amore” che chiede il premier è molto semplice, per quanto dolorosa. Lo strappo deve infatti avvenire proprio sul terreno scelto da Bersani per la sua ultima battaglia contro il capo dell’esecutivo: la legge elettorale. O con me o con lui, sembra dire Renzi in tutti i colloqui che — anche personalmente — sta conducendo con i colonnelli delle minoranze. Perché in ballo stavolta c’è molto di più della questione tecnica delle preferenze. In gioco, secondo il premier, c’è la stessa esistenza dell’esecutivo. Per questo giovedì da palazzo Chigi è stata fatta filtrare la possibilità di porre la fiducia sull’Italicum. Non una decisione già presa, ma un modo per far capire a tutti quale sia la vera posta sul tavolo. Tanto più che sembra tecnicamente dubbia la possibilità che sulla legge elettorale possa essere chiesto un voto di fiducia. Il bersaniano Giuseppe Lauricella ne è convinto: «Il regolamento della Camera — ha spiegato su Huffington post — prescrive che la questione di fiducia non può essere posta nelle materie per le quali può essere richiesto il voto segreto. E la legge elettorale è tra queste». I renziani a mezza voce ammettono il problema, tanto che la stessa Maria Elena Boschi ieri ha definito «prematuro» ipotizzare la fiducia.
Ma la questione, ovviamente, trascende il regolamento. Perché è Renzi a considerare quella sull’Italicum la madre di tutte le battaglie, quella per arrivare a una «democrazia decidente». Significa che, se la legge subisse modifiche tali da riportarla in Senato per un’altra lettura, per il premier equivarrebbe a un voto di sfiducia. E sarebbe pronto a trarne le conclusioni. «Non ci possiamo permettere un altro passaggio a palazzo Madama — ha chiarito in queste ore — perché lì si fermerebbe tutto. Ed è esattamente quello che vuole Bersani». Ovvero la sconfitta politica del segretario “usurpatore”.
Eppure c’è chi spera ancora in un accordo di compromesso. Gianni Cuperlo, ad esempio, che nella riunione dell’Acquario romano prese clamorosamente le distanze dai toni apocalittici di D’Alema, ha pronte un paio di proposte da suggerire al premier. Che escono dal solco delle preferenze chieste da Bersani. «Per ridurre i nominati - anticipa Cuperlo - è meglio aumentare i collegi che allargare le preferenze. Anzi, alla luce della cronaca anche recente, le persone normali non si appassionerebbero a una battaglia sulle preferenze. Perché invece non portare i collegi da 100 a 200? Così facendo avremmo circa 300 mila elettori per ogni collegio e avvicineremmo l’Italicum allo spirito del Mattarellum». La seconda idea del leader di sinistra dem è «la possibilità di apparentamento al ballottaggio, anche per evitare un premio spropositato a un singolo partito che altera il principio di rappresentatività ». Su queste basi, se arrivasse un’apertura dal governo, «da parte nostra ci sarebbe l’impegno d’onore di approvare al Senato la legge senza modifiche: in questo modo si unisce il Pd e, magari, si recuperano anche Sel e la Lega».
Al momento però la risposta che arriva da palazzo Chigi e dal Nazareno è una chiusura totale. La legge resta così com’è, anche perché molte richieste delle minoranze - abbassamento delle soglie, ritocco della quota per ottenere il premio di maggioranza, aumento dei collegi, alternanza di genere - sono già state accolte in Senato. «Ora dobbiamo chiudere, altrimenti si gioca sempre al più uno». La direzione di lunedì insomma non sarà un passaggio indolore. «Immagino che la discussione sarà abbastanza vivace - pronostica Roberto Giachetti - e, per quanto mi riguarda, lo posso garantire».
Per Renzi è importante anche il timing. L’Italicum va approvato prima delle regionali. Perché il timore è che le minoranze non aspettino altro che un risultato deludente per scagliarsi con rinnovato vigore contro il governo. E se la situazione in Puglia, Marche, Toscana e Umbria non desta preoccupazioni, è la Liguria ad aver fatto scattare l’allarme rosso. Perdere una regione rossa sarebbe un fallimento imputabile a Renzi. E se poi un centrodestra in bancarotta riuscisse a mantenere anche Veneto e Campania, per il premier la strada in parlamento si farebbe davvero faticosa. «Dobbiamo avere subito l’Italicum a disposizione ».

il manifesto 28.3.15
«Non è un voto di coscienza». Minoranza Pd nel vicolo ciecoDemocrack. Scintille sui regolamenti, la sinistra bersaniana verso l'astensione. Boschi: «Prematuro parlare di fiducia». Renzi è sicuro di stravincere e ora vuole che il dissenso si pesi. «Saremo più di quello che crede»
di Daniela Preziosi

qui

il Fatto 28.3.15
Firenze
Palazzo Vecchio non controlla, Eataly ora rischia la licenza
di Davide Vecchi

Rischia la sospensione della licenza il negozio Eataly di Firenze. Francesco Farinetti, figlio del patron Oscar, ha presentato al Comune un’autocertificazione non rispondente al vero, dichiarando che il locale è “sorvegliabile, ” quindi con un unico ingresso. In realtà le vie di uscita sono numerose. Il problema però coinvolge anche Palazzo Vecchio che per legge era tenuto a controllare la veridicità dell'autocertificazione, ma non l’ha mai fatto, dal 2012 a oggi. A chi spettavano le verifiche? Al direttore generale del Comune e al capo della Polizia municipale. Due ruoli che fino al febbraio scorso erano ricoperti dalla stessa persona: Antonella Manzione, fedelissima del premier e oggi a capo del Dipartimento Affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi nonché possibile consigliere di Stato.
LA SCOPERTA L'HA FATTA un consigliere comunale del Movimento 5 Stelle poi passato al gruppo Misto, Miriam Amato. Che ha presentato insieme a Francesco Torselli un’interrogazione senza però ricevere risposta né dall’assessore all’urbanistica né da quello al commercio, rispettivamente Elisabetta Meucci e Giovanni Bettarini. Non solo, ma Palazzo Vecchio sulla vicenda ha persino negato l’accesso agli atti relativi al negozio Eataly che ha trasformato la storica biblioteca Martelli in un ristorante con un dehor sul terrazzo che confina con il palazzo della Questura. Tutta la vicenda è proprio legata a motivi di sicurezza.
L’autocertificazione contenuta nella Scia (segnalazione certificata di inizio attività) è stata compilata da Francesco Farinetti. Il figlio del patron ha dichiarato che il locale risponde ai “requisiti di sorvegliabilità” previsti dal decreto ministeriale 564 del 1992 e cioè “l’assenza di collegamenti tra i locali e vie di uscita alternative oltre all'ingresso che permettano ai cittadini di fuggire in caso di un controllo delle forze dell'ordine”. A quanto invece verificato, anche attraverso numerose foto scattate nel ristorante, Eataly oltre all’ingresso ha al primo piano una porta indicata come uscita di sicurezza ed è fra l’altro nascosta dietro a una tenda, porta che si collega al condominio adiacente. La corte sul tetto, invece, è incastrata tra più palazzi e permette di accedere a varie finestre e altri appartamenti e uffici. Non solo. Sempre secondo quel decreto, nel caso di locali su più piani la sorvegliabilità esterna deve essere resa dall’autorità di Pubblica sicurezza, quindi la Questura. Per carità: difficile immaginarsi che qualcuno abbia necessità di fuggire da Eataly, ma le leggi sono leggi. E se il Comune accerterà che ci sono state irregolarità deve trasmettere gli atti in procura in base alla legge 241 che prevede anche una pena detentiva da uno a tre anni se la Scia dichiara “falsamente l’esistenza dei requisiti” necessari all'inizio attività commerciale.
A PALAZZO VECCHIO la priorità però è dimostrare che non dovevano fare i controlli. “Stiamo aspettando una loro risposta, tenteranno di riconoscersi estranei ma le verifiche spettavano a loro”, spiega Amato. Il Comune non ha voluto rendere pubblici neanche altri documenti come il parere della sovrintendenza, i permessi per i lavori interni e sul tetto, le analisi dell'impatto ambientale. “I due assessori fino a ora si sono alternati la competenza, l’interrogazione è scaduta il primo marzo e ancora non hanno dato una risposta”, prosegue Amato. Il negozio Eataly è stato inaugurato nel dicembre 2013 con l’allora sindaco Matteo Renzi. Una gran festa. Ci sta che qualcuno si sia dimenticato di fare i controlli. Cose che capitano.

Corriere 28.3.15
«Nel Pd di Roma c’è una parte buona Ed è prevalente»
Ernesto Galli della Loggia risponde a una lettera di Stefano Fassina


C aro direttore, l’editoriale del professor Galli della Loggia dedicato a Roma e al Pd contiene valutazioni legittime, ma largamente infondate e finanche offensive sulla salute della Capitale, sui romani, sulla qualità morale e professionale della sua intera classe dirigente amministrativa e politica, in particolare del Pd. Confesso che durante la lettura ho avuto la sensazione di un disprezzo antropologico o almeno classista verso i cittadini romani o larga parte di essi, segnatamente gli elettori del Pd: «Una base popolare dai tratti spesso plebei… contigua a ladruncoli, piccoli spacciatori, topi d’auto». Sono innegabili i profondi problemi del Pd. È innegabile l’estensione della criminalità organizzata a Roma. Sono innegabili le difficoltà a risanare le disastrate amministrazioni ereditate da Zingaretti, Marino e tanti giovani presidenti di Municipio. Tuttavia, il cuore della ricchezza cittadina non è la filiera malavitosa calabro-napoletana-romana. È il tessuto di attività commerciali e turistiche pulite, imprese hi-tech della Tiburtina, poli universitari, grandi aziende di comunicazione e di servizi finanziari e settori di pubblica amministrazione di qualità. La classe dirigente del Pd a Roma è irriducibile a «vacui politicanti di serie B, faccendieri, proprietari di voti incapaci di parlare italiano… loschi figuri candidati a un posticino a Regina Coeli». La relazione di Fabrizio Barca riconosce la prevalenza di un Pd «davvero buono, che esprime progettualità, capacità di raggruppamento e rappresentanza, che ha percezione della propria responsabilità territoriale». Ma su un punto il professor Galli della Loggia ha ragione: la democrazia senza partiti attrezzati culturalmente e organizzativamente degenera. Lui suggerisce a Renzi di prendere il lanciafiamme. Noi, consapevoli che l’uomo solo al comando non funziona, suggeriamo anche di utilizzare le preziose e diffuse energie morali, intellettuali e politiche presenti nel Pd romano per costruire una adeguata classe dirigente.
Stefano Fassina
deputato del Pd

È da tempo che sono abituato all’estrema suscettibilità — in parte genuina, in parte diciamo così per ragioni di ufficio — dei politici italiani. Ciò che invece continua ancora a stupirmi è la loro abituale propensione a non voler mai vedere il punto vero delle critiche. Che nel caso in questione, tra l’altro, come risulta chiarissimo a chi ha letto senza pregiudizi, riguardavano l’antropologia dell’intero Consiglio comunale di Roma, il collasso di un intero ceto politico, l’intera struttura amministrativa del Comune, e non già la sola classe dirigente del Pd. La cui Federazione romana, riconosce peraltro l’onorevole Fassina, ha effettivamente «profondi problemi». Infatti. Così profondi da essere stata addirittura commissariata: una misura che negli enti locali è in genere è motivata da fatti diffusi(sottolineo diffusi) di malcostume, di corruzione, di collusioni malavitose. Non pensa l’onorevole Fassina che invece di assicurare i lettori del Corriere che nel Pd romano ci sono comunque tante brave persone, ciò di cui non ho mai dubitato, egli avrebbe forse fatto meglio a dare un nome e cognome e quei fenomeni degenerativi di cui sopra, e a dirci perché mai secondo lui sono accaduti? Sarebbe stato meno patriottico, certo, ma di sicuro più coraggioso.

Corriere 28.3.15
Iil buono scuola è la soluzione per un’istruzione moderna
di Dario Antiseri


«È tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse». E ancora: «Basta guardarsi in giro e si scopre che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali, in una sana gara a chi insegna meglio». Così Luigi Berlinguer in una coraggiosa e lungimirante dichiarazione di qualche giorno fa.
Questa «sana gara a chi insegna meglio», di cui parla Berlinguer, trova tuttavia un ostacolo insormontabile nel dogma che è buono soltanto ciò che è pubblico e che è pubblico soltanto ciò che è statale — per cui, in ambito formativo, sarebbe «buona scuola» unicamente la scuola statale.
La realtà è che nessuna scuola sarà mai uguale all’altra: insegnanti meglio preparati, un laboratorio ben attrezzato o una biblioteca ben fornita, personale amministrativo competente e disponibile... sono tratti che, di volta in volta, fanno la differenza tra scuola e scuola. Ora, però, se nessuna scuola è e sarà mai uguale a un’altra, sorprende che ci si ostini a negare che tutte le scuole, statali e non statali, potrebbero migliorarsi sotto lo stimolo della competizione. A base della ricerca scientifica, della società democratica e della libera economia, la competizione è la «macchina sociale», per dirla con Friedrich A. von Hayek, che porta alla scoperta del nuovo da cui scegliere il meglio. In tal senso, la competizione costituisce la più alta forma di collaborazione. E se questo cercare insieme, in maniera agonistica, la soluzione migliore è il terrore di ogni conservatore, il suo rifiuto equivale ad un rapido ritorno all’interno della caverna.
La scuola privata — osservava Gaetano Salvemini già nel 1907 — «può essere un utile campo di esperimenti pedagogici, rappresentare sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica, e obbligarla a perfezionarsi, senza tregua, se non vuol essere vinta e sopraffatta». Ed ecco, una decina di anni più tardi, Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato». Un’idea, questa di libertà di scuola, che, prima di Salvemini e di Gramsci e in contesti differenti, era stata difesa, tra altri, da Alexis de Tocqueville, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e ancora tra altri, da Bertrand Russell, Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo e don Lorenzo Milani.
Ma è chiaro che, senza parità economica, la parità giuridica tra scuole statali e scuole non statali è soltanto un ulteriore inganno carico di nefaste conseguenze. E qui va detto che, tra le diverse proposte per l’introduzione di una effettiva competizione all’interno del sistema formativo, la migliore è sicuramente quella del «buono scuola» — idea avanzata da Milton Friedman e ripresa successivamente da Hayek, e sulla quale da noi insiste e non da oggi Antonio Martino.
Con il «buono scuola» i fondi statali sotto forma di «buoni» non negoziabili ( voucher ) andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro «buono». In tal modo, pressata dall’interesse di non vedere gli iscritti scappare da essa, ogni scuola sarebbe spinta a migliorarsi, e sotto tutti gli aspetti.
Quella del «buono scuola» è, insomma, una proposta in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza della scuola. E sembrava, dai vari annunci dei mesi passati, che il governo Renzi, con il principio di detrazione fiscale per le rette delle scuole paritarie, si avvicinasse alla proposta del «buono scuola». Sennonché, «dal gran banchetto di parole» è uscita fuori una solenne presa in giro: l’importo della detrazione proposto dal governo non è altro che un’elemosina.
E qua giunti, qualche domanda al presidente Renzi. Uno Stato che costringe suoi cittadini a pagare per comprare pezzi di libertà è davvero uno Stato di diritto? Aveva torto Luigi Einaudi a sostenere che il danno creato dal monopolio statale dell’istruzione «non è dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio?». E poi Salvemini: «Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole anche se in esse i miei figli venissero educati male». Cosa c’è che non va in questa considerazione di Salvemini? Come può il presidente di un governo che si dice di sinistra non vedere — come, invece, anni addietro fece presente un noto rappresentante del Partito comunista — che il «buono scuola è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti? Avere un buon naso per fiutare i problemi e poi sbagliare via via le soluzioni significa sì andare avanti, ma andare avanti sulla cattiva strada.

Repubblica 27.3.15
Unioni civili, primo sì: ma anche il Pd frena
Dall’adozione del figlio del partner alla reversibilità della pensione: uguali diritti e doveri per tutte le coppie, incluse quelle dello stesso sesso
In commissione Giustizia i democratici votano con i 5 stelle, Ncd contro. La fronda di 35 senatori dem: no all’equiparazione con il matrimonio
di Maria Novella De Luca


ROMA Sarà una battaglia campale e per adesso dagli esiti più che incerti. Ma essere riusciti ad approvare, ieri, al Senato, il primo testo base sulle unioni civili omosessuali, è già, di fatto, un cambiamento culturale. La commissione Giustizia di Palazzo Madama ha dato il via libera, grazie a una alleanza tra il Pd e i Cinque Stelle, alla legge che tutela coppie e famiglie gay. Pur con spaccature sia nella maggioranza che nell’opposizione, e all’interno del Pd stesso, dove 35 senatori hanno già annunciato che chiederanno pesanti cambiamenti della legge. Il cui impianto, al di là di quanto verrà modificato, stabilisce un punto cardine sul fronte dell’antropologia della famiglia. Riconoscendo che esistono non soltanto unioni tra persone dello stesso sesso, ma anche nuclei formati da due madri o due padri.
Il testo, di cui è relatrice la democratica Monica Cirinnà, è la sintesi di circa nove disegni di legge. Prevede, innanzitutto, per le persone omosessuali che decidono di stipulare una unione civile, gli stessi diritti e doveri di un matrimonio. In termini patrimoniali, successori, di reversibilità, di assistenza e di sostentamento. Al momento dell’unione poi i partner scelgono il cosiddetto “nome della famiglia”, individuandolo tra i loro cognomi. Ma la legge prevede anche - ed è uno dei punti più avanzati ma anche più contestati - che all’interno di una coppia con figli, il genitore “non biologico” possa adottare il figlio o la figlia del partner. Si chiama “stepchild adoption”, è in vigore in più paesi europei, ed è una vera forma di tutela dei bambini delle famiglie Arcobaleno. Oggi infatti il genitore non biologico in una coppia omosessuale, non ha alcun legame “legale” con il figlio, né esiste per lo Stato italiano. Con la conseguenza paradossale che se il padre o la madre naturale venissero a mancare, quel bambino potrebbe essere affidato ad altri parenti o dato in adozione. Bisogna spiegare con chiarezza che le unioni civili non permettono in alcun modo a una coppia gay di adottare un bambino “terzo”, senza legame di sangue con uno dei due partner. Nella seconda parte del testo si prevede una nuova «disciplina delle convivenze di fatto». Le coppie gay che non volessero essere registrate come unione civile, o le coppie etero refrattarie al matrimonio, potrebbero avere alcune tutele base, per quanto riguarda l’assistenza in ospedale, il diritto di successione nell’affitto di una casa, e altri accordi patrimoniali.
Questo il testo, ma è ben difficile che le cose restino così, anzi il cammino verso il voto dell’aula appare tutto in salita. Non se lo nasconde la relatrice Monica Cirinnà, che pure dice di essere soddisfatta dal primo voto in commissione. Voto ottenuto però grazie all’alleanza con M5S, bocciato da parte di Fi e dal Nuovo Centrodestra. E se Maurizio Gasparri arriva ad affermare «avremo l’obbligo di partecipare al Gay pride», una netta spaccatura si profila anche all’interno del Pd. Da una parte Sergio Lo Giudice che parla di «passo storico», e Luigi Zanda di un «buon punto di partenza», dall’altra un gruppo di 35 senatori Pd che ha già da tempo preso le distanze.
Senatori che avevano già firmato una proposta della storica Emma Fattorini, oggi parlamentare. Stefano Lepri spiega le perplessità del gruppo dei 35, sottolineando comunque che i membri del Pd della commissione Giustizia hanno votato «sì» al testo Cirinnà. «Quello che non ci convince — dice Lepri — è l’equiparazione così netta tra le unioni civili omosessuali al matrimonio, distaccandosi proprio da quel modello tedesco a cui diciamo di ispirarci. Ma il punto più controverso è la stepchild adoption. Siamo sicuri di fare veramente il bene del minore, scrivendo sul suo stato di famiglia “figlio di due madri o di due padri”? Non sarebbe meglio, ed è quello che proporremo, pensare ad un affido per il genitore non biologico? Per trovare un punto di equilibrio dovremo lavorare ancora». La relatrice Cirinnà è ottimista: «In Senato abbiamo 120 voti dem, potremmo farcela. Sperando di allargarci a chi in Forza Italia o Ncd deciderà di fare un voto di coscienza ».

Il Sole 28.3.15
Lorenzin:
«Tagli non lineari nelle Regioni» Decreto in vista
intervista di Roberto Turno


Scure da 1,4 miliardi sull’acquisto di beni e servizi di asl e ospedali, 200 milioni dall’anticipo a fine giugno della revisione del Prontuario dei farmaci, dosi massicce di appropriatezza anti-sprechi. È la ricetta della manovra da quasi 2,5 miliardi del taglio alla sanità su cui martedì ci sarà l’intesa finale tra Governo e regioni. Serve una strada rapida perché va modificata la legge di stabilità e il Governo, sollecitato dalle regioni, sta valutando la strada del decreto legge. «Non ci saranno tagli lineari, basta manovre spezzatino e regole uguali per tutte le regioni», giura il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. In cantiere anche la riforma di Aifa, Iss e Agenas.
Lo chiedono i governatori, palazzo Chigi ci sta pensando: un decreto legge per i tagli da quasi 2,5 mld alla sanità per applicare la manovra 2015. Martedì il round finale con le regioni, poi la scelta dello strume n to legislativo anche se la strada del decreto è l’unica a garantire tempi rapidi: per cambiare una legge, serve una legge. Con tagli uniformi in tutte le regioni da 1,4 mld sull’acquisto di beni e servizi di asl e ospedali, 200 mln dall’anticipo a fine giugno del nuovo Prontuario dei farmaci, 50 mln dagli ospedali, poi dosi massicce di appropriatezza anti sprechi. E la riforma di Aifa (farmaci), Iss (istituto superiore di sanità) e Agenas. «Non ci saranno tagli lineari, basta manovre spezzatino», giura il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin che da tempo chiede uno slot parlamentare per le riforme della sanità. E aggiunge: il «Patto-salute» va avanti, presto arriva l’accordo sulla sanità digitale.
Ministro Lorenzin, dov’è finito il Patto per la salute? Un anno perso?
Ma quale anno perso. Lo abbiamo approvato in Conferenza a luglio, la road map di attuazione va avanti provvedimento per provvedimento, anche con la legge di stabilità. Ho firmato il regolamento per gli ospedali, i nuovi Lea e il nomenclatore tariffario sono all’approvazione delle regioni da 2 mesi sono pronti, l’accesso alle professioni aspetta solo la mediazione finale. Presto presenterò il piano per la sanità digitale, un passaggio cruciale. Ricordiamo che sono in campo 3 ministeri e le regioni. Con le elezioni regionali sarà importante non perdere lo slot delle riforme. Ma abbiamo un timing serrato di incontri settimanali con le regioni per chiudere un’operazione di cui vedremo gli effetti operativi alcuni subito, altri tra qualche anno.
C’è l’ok dell’Economia sui Lea?
Sì. È stata un’operazione poderosa e veloce. Abbiamo cancellato prestazioni desuete, inutili. Nessuno ci perderà, non lo temo. Spendendo 420 mln in più l’anno, nel 2015 meno perché per meno mesi.
Quando partiranno?
Le regioni, con cui li abbiamo costruiti, si sono impegnate a darci le loro osservazioni per fine giugno. Poi subito il Dpcm e l’applicazione.
I medici devono collaborare...
Assolutamente sì. L’appropriatezza è la parola chiave di tutto. È la chiave per la tenuta del Ssn, per gli obiettivi di salute e finanziari. Diventerà il fattore produttivo su cui lavorare, dopo i costi standard o le centrali uniche d’acquisto che le regioni devono realizzare.
Appropriatezza: sembra più uno slogan che una certezza.
È il passaggio cruciale. Che incrocia qualità, quantità, esiti, performance, percorsi terapeutici adeguati. Aggredendo i costi della medicina difensiva, una decina di miliardi l’anno, si trovano risorse da reinvestire nel Ssn.
Ci sarebbe anche l’appropriatezza etica da aggredire: la corruzione. Che fa dal ministero?
Si comincia sempre in casa propria. Al ministero stiamo facendo la rotazione fin qui all’80% dei direttori generali, che presto estenderò alle seconde linee della dirigenza. La rotazione disincentiva i centri di potere e di rapporti. Stimola, fa bene al personale. Poi è fondamentale la trasparenza dei dati, che consente politiche mirate e sicure. Anche così la corruzione avrà meno spazi. Altro passaggio-chiave è la selezione dei manager, che abbiamo inserito nel Ddl Madia: le riforme camminano sulle gambe dei Dg, che vanno adeguatamente selezionati, qualiticati, misurati, pagati e valutati per questo ruolo.
C’è l’applicazione della manovra in ballo in queste ore: tagli che per il Ssn valgono quest’anno quasi 2,5 mld. Ce la farete?
È il mancato incremento. Ci sono le premesse perché martedì si chiuda l’accordo con le regioni.
Anche se il taglio al Fondo proposto dai governatori non le è piaciuto?
Mi è dispiaciuto che non ci sia stato uno sforzo maggiore di fantasia dopo l’aumento che avevo ottenuto a ottobre. Non è stato possibile, ne prendo atto. Ma ora il mancato aumento va tradotto in un elemento di rilancio. Ho respinto l’ipotesi dei tagli lineari e ho proposto di anticipare il Patto con la collaborazione forte delle Regioni.
Si va verso un decreto legge?
Stiamo studiando un provvedimento che formalizzi il mancato incremento e codificando con l’intesa le misure che possono confluire in questo provvedimento. Per ridurre il Fondo ci vuole una legge. Lo strumento lo decide palazzo Chigi.
Quali misure sono allo studio e per quali importi?
Si pensa a un intervento sull’acquisto di beni e servizi, che per le regioni vale 1,39 mld. Altri 52 mln l’anno dal regolamento sugli ospedali. Poi ci saranno gli effetti dell’appropriatezza. E altri 200 mln dall’anticipo a fine giugno della revisione del prontuario dei farmaci. Sono più di 2 mld, per una manovra che avrà carattere uniforme, e non spezzatino, in tutte le regioni. Una manovra per consentire alle regioni di sopportare il mancato aumento. Poi per il 2016 si vedrà con la prossima manovra, è ovvio che do per scontato di riportarla ai livelli di prima. L’incremento è cruciale per garantire l’accesso ai nuovi farmaci, il personale e la ricerca.
E le riforme di Aifa, Iss e Agenas?
Certamente. L’Agenas va potenziata per i controlli, l’Iss va “registrato” per farlo diventare il pivot della ricerca biomedica capace anche di riportare in Italia i nostri ricercatori e di far largo ai suoi precari. Poi l’Aifa, l’Agenzia del farmaco, che dovrà aumentare la produttività, rendere più veloci i dossier, accrescere le ispezioni.
Con 200 assunzioni?
Per concorso e a costo zero per lo Stato grazie all’attività ispettiva, che consentirà più incassi e renderà più rapida e incisiva l’azione per i certificati di qualità dei farmaci. Una misura decisiva anche per l’export e per la competitività.

Repubblica 28.3.15
Il diritto e il compromesso
di Stefano Rodotà


UN BUON segnale è venuto dalla commissione Giustizia del Senato con l’approvazione di un testo sulle unioni civili, in particolare tra persone dello stesso sesso, che ha già provocato polemiche e chiusure. Un segnale che sarebbe ancora più forte se Parlamento e governo mostrassero segni di attenzione anche per una disciplina adeguata della procreazione assistita e della fine della vita. Davanti a noi sta l’intero ciclo dell’esistenza — nascere, vivere, morire. Questioni essenziali, trascurate in questi anni o, peggio, abbandonate alle pretese dei fondamentalisti, ai veti dei cultori dei valori “non negoziabili”. Così non si è consumato soltanto un ritardo culturale, un allontanarsi da ciò che in altri Paesi veniva sempre più tranquillamente acquisito. Sono state trascurate esigenze profonde delle persone, sono stati negati diritti anche quando Corte costituzionale, giudici ordinari e giurisdizioni internazionali segnalavano la violazione sempre più inammissibili di quei diritti e smantellavano le parti più violentemente ideologiche della nostra legislazione.
Sta per aprirsi una nuova stagione? Non anticipiamo giudizi, non cediamo anche in una materia così sensibile alla politica degli annunci. Qui, più che altrove, non il diavolo, ma il fondamentalismo unito alla convenienza politica si annida nei dettagli.
Vi è stato un tempo, che coincide con una fase assai significativa della deprecata Prima Repubblica, in cui vere riforme vennero realizzate. Sono gli anni che vanno dal 1970 al 1978, che si aprono con l’introduzione del divorzio e trovano un compimento nel riconoscimento dell’aborto, e al centro dei quali si colloca la riforma del diritto di famiglia del 1975. La vita delle persone veniva liberata da vincoli irragionevoli, da dipendenze dall’esterno, e così restituita alle scelte di ciascuno. Dov’erano state discriminazioni compariva l’eguaglianza costituzionale, al posto dei poteri gerarchici si insediava la logica degli affetti. Per giungere a questo risultato era stata necessaria una vera rivoluzione culturale, una rilettura con occhi aperti delle norme costituzionali, in primo luogo di quelle sulla famiglia. Non mancarono certo i contrasti, le resistenze della Chiesa, le titubanze del Pci sul divorzio. Ma v’era una consapevolezza politica della necessità di trovare, insieme, attuazione della Costituzione e sintonia con la società, sì che neppure la Dc, dove le obiezioni erano le più marcate, pensò di avvalersi di poteri di interdizione, che pure avrebbe potuto esercitare.
La memoria di quelle vicende può aiutare e si potrebbe sperare che una lunga, indecorosa parentesi stia per chiudersi. Ma già sono comparsi segni non trascurabili di resistenze, in votazioni e dichiarazioni al Parlamento italiano e in quello europeo. È ragionevole temere che la volontà riformatrice si impigli in compromessi necessari solo per far sopravvivere una maggioranza di governo, e che fatalmente depotenziano la capacità delle proclamate riforme di dare risposte effettive ai bisogni sociali e di rispettare gli stessi principi costituzionali. Bisogna chiedersi, allora, se oggi in Italia vi sia una cultura capace di sorreggere una vera politica di riforme.
Il lungo inverno delle controriforme e delle non riforme non è stato accompagnato dal silenzio sociale e dalla stagnazione culturale. Mentre si riducevano o si negavano diritti, le persone hanno reagito. Il caso della procreazione assistita è esemplare. Le coppie escluse dall’accesso a quelle tecniche non si sono soltanto sottratte ad una assurda legislazione proibizionista praticando il “turismo procreativo” verso Paesi più civili. Hanno ingaggiato una vera lotta per i diritti davanti alle corti nazionali e internazionali, sorrette da una cultura giuridica che ha smantellato pezzo per pezzo divieti contrari ai diritti e alla stessa salute delle donne. Ora l’orrida legge 40 non esiste più, al suo posto non serve una nuova legge che potrebbe essere usata per una controriforma (come aveva tentato di fare la ministra della Salute), bastano poche norme attuative nella prospettiva di un aggiornamento del codice civile.
Questa vicenda mostra come il cambiamento passi attraverso buone pratiche sociali sorrette da una cultura adeguata. Un insegnamento di cui si dovrebbe tenere il massimo conto in via generale, e in specie quando si annuncia l’avvio di riforme impegnative, alle quali si dovrebbe guardare partendo proprio dall’urgenza sociale e dalle elaborazioni culturali già esistenti. Parlamento e governo non possono muoversi in un’ottica tutta autoreferenziale, dalla quale talvolta trapela un malcelato fastidio per la cultura. Non si può affrontare la questione delle unioni civili e del matrimonio tra le persone dello stesso sesso muovendo da una interpretazione delle norme costituzionali che ci riporterebbe agli anni precedenti la riforma del diritto di famiglia, trascurerebbe l’importanza già lì attribuita alla logica degli affetti e ignorerebbe la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e le leggi degli altri Stati. Non si può tornare alle logiche proibizioniste per le questioni della fine della vita, espropriando le persone del diritto di morire con dignità (un buon punto di partenza è già in disegni di legge presentati al Senato). Non si può discutere come se non esistessero la Francia, che ha appena approvato una legge sul diritto di morire, e la Chiesa Presbiteriana americana, che ha appena deciso di mutare la definizione di matrimonio per ammetterlo tra persone dello stesso sesso, mostrando così come queste non siano posizioni proprie di un “laicismo” esasperato.
Negli ultimi decenni l’orizzonte si è allargato. Nel 2008 la Corte costituzionale, ribadita l’impossibilità di prescindere dal consenso informato della persona, ha sottolineato che in esso si manifesta la «sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute». Questa sentenza definisce in modo netto lo spazio del potere individuale nel governo della vita, e contribuisce a segnare i limiti d’ogni altro potere. Non si può dire che, riconoscendo l’autodeterminazione come diritto fondamentale, siamo di fronte ad un “individualismo autocentrato”. È, invece, un coerente sviluppo di quanto è scritto nell’articolo 32 della Costituzione, che vieta al Parlamento di intervenire violando «i limiti imposti dal rispetto della persona umana»: principio che nulla ha a che fare con la pretesa di un “umano onnipotente”.
Buona riforma dei diritti civili, allora, come auspicio e come sostanza delle future norme. Ma, sempre per non cedere alla memoria corta, ricordiamo che i regimi autoritari e totalitari, per acquisire consenso, hanno spesso realizzato uno scambio tra crescita dei diritti sociali e cancellazione di quelli politici e civili. Uno scambio che in Italia qualcuno vorrebbe forse attuare a parti invertite, in un tempo che conosce il sacrificio di fondamentali diritti sociali.

il Fatto 28.3.15
Grecia, la crisi è fare la fila per un antibiotico
di Roberta Zunini


AD ATENE CODE ALL’INGRESSO DELLE FARMACIE MA GLI SCAFFALI SONO VUOTI. I GROSSISTI DIROTTANO LE SCORTE SUL MERCATO EUROPEO

Atene C’è la fila davanti alla piccola farmacia all'incrocio tra Benaki e piazza Exarchia, nel centro di Atene. Nemmeno la bomba d'acqua, annunciata da tuoni e lampi, scoraggia anziani e giovani incappucciati. Tutti restano al loro posto per non perdere l'ultima possibilità di trovare antibiotici, farmaci anticoagulanti, oltre ai cosiddetti “salva vita”. La maggior parte si è premunita di ombrelli, ma il vento di traverso li rende inutili. “Sono già andata in quattro farmacie ma l'eparina non c'è, speriamo di trovarla qua, fra due giorni non ne avrò più e non so dove andare a sbattere la testa”, dice Efi, un'anziana signora che si sta curando per una tromboflebite. “Se non la trovo, sarò costretta a rivolgermi al mercato nero perché se smetto di iniettarmela potrebbe partire un trombo. Sono sola, nessuno potrebbe curarmi se dovessi avere un ictus”.
DIETRO A UN BANCONE ricoperto di prescrizioni c'è Milena Athanassopoulou, l'appassionata cinquantenne titolare della farmacia. “Ciao sei tornata, eh? Ogni volta che la situazione sembra precipitare di nuovo, arrivate voi giornalisti”, mi dice nel suo perfetto italiano con inflessione bolognese. Milena, come moltissimi farmacisti greci, ha studiato in Italia. Anche Andreas, Giorgos, Elia, proprietari di altre farmacie del grande quartiere abitato da pensionati esausti per i tagli e giovani disoccupati, non hanno i farmaci per i loro clienti. “È frustrante anche per noi che facciano questo lavoro per passione, ma non è colpa nostra se le case farmaceutiche e i grossisti non ci danno tutti i farmaci che chiediamo, pagando in anticipo di tasca nostra” dice Andreas Markakis, un quarantenne che si è laureato a Camerino. I problemi sono almeno due: le sedi locali delle grandi case farmaceutiche dicono ai farmacisti di non poter consegnare loro tutti i prodotti che richiedono e quindi di rivolgersi ai grossisti. Secondo ostacolo: i grossisti, anziché rifornire i farmacisti greci, ne trattengono una parte considerevole per venderla maggiorata al mercato europeo visto che qui i prezzi sono più bassi.
“Secondo le autorità sanitarie, quando non si trovano medicine nelle farmacie private, i pazienti possono rivolgersi a quelle comunali all'interno degli ospedali. Il fatto è che i farmaci mancano spesso anche lì - spiega Milena - perché il ministero non ha più soldi per acquistare le medicine. Per quanto mi riguarda faccio di tutto per aiutare i tanti anziani in difficoltà e i giovani senza soldi, ma anch'io non ce la faccio più. Mi ostino a tenere aperto, anche in memoria di mio padre che mi ha lasciato la farmacia, ma francamente non conviene più”.
E TUTTI QUESTI clienti? “Spesso sono costretta a dire che non so come aiutarli a causa del grossista che non mi rifornisce ma adesso, lo ammetto, anche per causa mia”. Nella Grecia del terzo millennio, ancora sull'orlo del default e dell'uscita dall'euro, ai farmacisti non conviene più rifornirsi dei farmaci più costosi, che sono quasi sempre “salva vita” o indispensabili per fermare malattie gravemente debilitanti. “Le iniezioni per la sclerosi multipla, per esempio, costano mille euro l'una. Io le devo pagare in anticipo, poi lo Stato dovrebbe rimborsarmi. Il problema è che invece di farlo in quattro mesi, ne impiega otto-nove; quando poi mi rimborsa, io su questi mille euro ne guadagno 30, su cui devo poi pagare le tasse. ‘Chi me lo fa fare’, dicono tanti miei colleghi. E li capisco. Non possiamo rimetterci sempre noi”. I più ricchi possono permettersi di comprare i farmaci all'estero, dopo aver portato oltre confine i loro patrimoni. Anche i greci meno abbienti però lo stanno facendo, ma i soldi ritirati dai conti correnti li tengono in casa. Negli ultimi giorni di febbraio hanno prelevato oltre 2 miliardi di euro. E nell'attesa della decisione dell'Eurogruppo, a cui il ministro delle Finanze - il controverso economista marxista Varoufakis - ieri avrebbe sottoposto la tanto attesa lista di riforme, si vedono code anche davanti agli sportelli degli istituti bancari. Sarà un fine settima difficile per i greci. Lunedì dovrebbe esserci il responso dell'oracolo di Bruxelles. Notoriamente più spietato di quello di Delfi.

il manifesto 28.3.15
«Fermate la colonizzazione di Gerusalemme Est»

E' uno degli slogan che ieri 150 attivisti israeliani hanno scandito all'ingresso della Città Vecchia dove si fanno più intense le azioni del movimento dei coloni. Uno di loro racconta le crescenti difficoltà per coloro che in Israele si battono contro l'occupazione e per i diritti dei palestinesi
di Michele Giorgio

qui

il Fatto 28.3.15
Eterno comunista
Ingrao voleva la Luna I suoi cent’anni di errori e solitudine
È un pezzo della storia del Pci
L’uomo del dissenso e del dubbio che buttò fuori i suoi amici del manifesto
di Fabrizio d’Esposito


Una delle cose che mi è sempre piaciuta nella vita - e che avrei fatto senza annoiarmi - è sedermi in un caffè e guardare il fiume di persone che scorre nella strada, chiedendomi chi sono, cercando di immaginare ciò che loro capita o che hanno in animo.
“Volevo la luna”, Pietro Ingrao
Pietro Ingrao è nato cent’anni fa, il 30 marzo 1915. A Lenola, paesino sulla cima di un colle in bassa Ciociaria, oggi provincia di Latina. Suo nonno Francesco Ingrao, mazziniano e massone, si rifugiò lì da Grotte, in Sicilia. Nel 1866, durante la terza guerra di Indipendenza, Lenola era sul confine appenninico tra il regno borbonico e lo Stato pontificio, l’ideale per i fuggiaschi. Pietro però prese il nome del nonno materno, segretario comunale. Il papà del piccolo Pietro, Renato, una sera impiegò più del solito a convincere il figlio a fare la pipì nel vasetto. Pur di risolvere la questione, gli promise qualsiasi regalo avesse chiesto. Pietro riempì il vasetto e il padre gli chiese cosa volesse. Il balcone era aperto e c’era la luna. Il bimbo disse: “Voglio la luna”. Il papà rispose che era impossibile e il figlioletto iniziò a strillare.
Poesia, la prima passione
Dopo i novant’anni, nel 2006, Pietro Ingrao ha scritto la sua autobiografia, bellissima anche per stile letterario, intitolata proprio Volevo la luna, ricordando quella richiesta impossibile di decenni e decenni prima. Un titolo che è anche la metafora della sua parabola di comunista strano e sconfitto, incline più al dubbio e al dissenso che al leninismo. L’ingraismo è stato sinonimo della sinistra critica del Pci, anticentralista, e la sua sconfitta più grave cadde nel 1969, quando gli ingraiani del manifesto furono radiati dal Pci. Lo stesso Ingrao votò a favore dell’espulsione. In seguito ritenne assurdo, vile e traditore quel voto. Lunedì l’eretico Pietro Ingrao compie un secolo e negli ultimi trent’anni ha pubblicato alcuni libri di poesie, la sua prima passione giovanile.
L’antifascismo dei Littoriali
Da Lenola, la famiglia di Renato Ingrao si trasferì dapprima a Santa Maria Capua Vetere, nel Casertano, poi risalì a Formia. Pietro scoprì Roma con l’università e lì arrivarono i Littoriali fascisti, gare di cultura tra studenti volute da Giuseppe Bottai. Il giovane Ingrao, avido lettore di Pascoli, Ungaretti e Montale nonché di Kafka e Joyce, spedì una poesia su Littoria, fondata sulle paludi pontine bonificate, e vinse i Prelittoriali di Roma. Vennero altri successi e lui assaporò “il piacere dell’applauso”, che tanto ha segnato il suo cammino politico nel secolo scorso. Quando il fascismo finì e Ingrao era all’Unità, un giornale di destra gli rinfacciò i Littoriali ma Palmiro Togliatti rincuorò il giovane cronista, consigliandogli di non dare retta agli “scocciatori reazionari”.
Pranzo nuziale, in due
Paradossalmente, i Littoriali erano l’unica occasione di incontro per quegli studenti di tutta Italia che volevano conoscersi e in molti casi parlare sottovoce di antifascismo e lotta al regime. Negli anni della Seconda guerra mondiale, Ingrao divenne un comunista del suo gruppo romano, che comprendeva Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Antonio Amendola (fratello di Giorgio), Giaime Pintor, Mario Alicata, Paolo Bufalini, Antonello Trobadori, Bruno Zevi. C’era anche Laura Lombardo Radice, sorella di Lucio, di cui Ingrao s’innamorò. Si sposarono in Campidoglio nel 1944, dopo la liberazione di Roma. Festeggiarono da soli in un ristorante romano.
In soffitta, Lenin e Gramsci
Ingrao fu un comunista clandestino tra Milano e la Sila. Visse lunghi mesi di solitudine con l’ansia dell’“agire collettivo”. Si nascose anche in una casa di Spezzano Grande, in Calabria, e in soffitta trovò libri e giornali. Fu così che scoprì Gramsci e Lenin. Il 25 luglio del ‘43 era di nuovo a Milano. L’annuncio della caduta di Benito Mussolini lo colse di notte, in un appartamento di corso di Porta Nuova, che divideva con altre quattro persone. Il pomeriggio successivo, al termine di una manifestazione, salì anche lui su un camioncino preso da Elio Vittorini, lo scrittore. Fu il suo primo comizio comunista. “Qui mi aiutò la calma che mi prendeva dinanzi alla prova e ritrovavo quella freddezza che scavalcava ogni ansia”.
Il primo comizio
A casa di Vittorini, Gino alias Celeste Negarville, della nuova direzione del Pci, gli fece i complimenti: “So che hai fatto un grande comizio a Porta Nuova”. Ci fu un’irruzione dei carabinieri, che portarono via Vittorini e Giansiro Ferrata, per la storia del camioncino. Negarville e Ingrao rimasero a preparare il primo numero dell’Unità ritornata alla luce del sole. Dopo l’8 settembre, con la Resistenza, Ingrao, che ebbe il nome di battaglia di “Guido”, manifestò la voglia di salire in montagna a combattere, ma gli fu risposto che lui e Gillo Pontecorvo erano necessari all’Unità.
A piedi dal Migliore
Nel 1956, Ingrao aveva 41 anni ed era direttore dell’Unità dal 1947. Il 4 novembre l’invasione sovietica di Budapest stroncò il nuovo corso socialista di Imre Nagy. “Mentre si dispiegava quell’urto sanguinoso, io vissi l’errore più grave della mia vita politica. Scrissi un editoriale per l’Unità che condannava la rivolta ungherese e aveva un titolo roboante: Da una parte della barricata a difesa del socialismo”. Quella mattina, Ingrao disse alla moglie Laura che non sarebbe tornato a casa per pranzare e iniziò a girovagare a piedi per Roma. Era domenica e il giornale non usciva il lunedì. Verso sera, arrivò a Montesacro, dove abitava Palmiro Togliatti. Ingrao gli confidò l’angoscia. Il Migliore gli rispose: “Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più”. Il suo distacco dalle liturgie ancora staliniste cominciò quella sera, nonostante tutto.
“Non sono rimasto convinto”
L’ingraismo che s’interrogava criticamente sull’unanimismo e sul soggetto rivoluzionario come “costruzione del molteplice” divenne frazione nello storico XI congresso del Pci all’Eur di Roma. Il centro togliattiano aveva alla sua destra Giorgio Amendola (padre politico di Giorgio Napolitano) e a sinistra Pietro Ingrao. Togliatti era morto due anni prima e Luigi Longo era segretario. Ingrao preparò il suo discorso del diritto al dissenso a casa sua, insieme con Lucio Magri. Il successo di un intervento si misura sempre dal silenzio della platea (o della folla) durante le pause. Ingrao era uno specialista di questi vuoti, per toccare quasi fisicamente l’attenzione degli ascoltatori. All’Eur parlò alla fine di una lunga mattinata. Una sua frase diventò più famosa di tutte: “Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto convinto”. Terminò e alla presidenza tutti rimasero immobili, mettendo bene in mostra le mani ferme sulle ginocchia. Al contrario, in platea, l’applauso fu fragoroso. “Non mi turbai: vivevo l’emozione di quel consenso del popolo comunista. Furono per me minuti indimenticabili”. Nel decennio successivo, nel 1976, i destini di Amendola e Ingrao si risolsero su un altro piano. All’inizio di luglio, Enrico Berlinguer, segretario del Pci dal 1972, chiese a Ingrao per telefono di fare il presidente della Camera: “Avevamo pensato ad Amendola, ma lui ha rifiutato: non gli va”. Ingrao rispose di sì. Quarant’anni dopo è ancora lì a casa, ad aspettare la luna, quando cala la sera.

il manifesto 27.3.15
Gli irrisolti di Ingrao, irrisolti ancora oggi
I 100 anni di Pietro. Alla camera Tronti, Maria Luisa Boccia, Alberto Olivetti e Celeste Ingrao presentano il programma dei festeggiamenti

Non solo politica, anche la poesia e il cinema, il primo amore, abbandonato per l'irrompere della guerra di Spagna
di Daniela Preziosi

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Repubblica 27.3.15
Jürgen Habermas: andare oltre il fondamentalismo illuminista “aprendo” alle comunità religiose
La mia critica della ragione laicista
di Jürgen Habermas


PER potersi definire post-secolare una società deve prima essere stata secolare. Dunque l’espressione può soltanto riferirsi alle società europee, oppure a nazioni come Canada, Australia, Nuova Zelanda, i cui cittadini hanno visto continuamente (talora, dopo la seconda guerra mondiale, anche drasticamente) allentarsi i loro vincoli religiosi. In questi paesi la coscienza di vivere in una società secolarizzata si è diffusa in maniera più o meno generale. Possiamo perciò definire la coscienza pubblica europea come “post-secolare” nel senso che, almeno per il momento, essa accetta il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato.
Finora ho adottato la prospettiva esterna dell’osservatore sociologico. Ma se noi adottiamo la prospettiva del partecipante, allora la domanda diventa un’altra, di tipo normativo. Come ci dobbiamo intendere in quanto membri di una società post-secolare?
Però, prima di affrontare il nucleo filosofico, lasciatemi disegnare più chiaramente il punto di partenza da tutti accettato: il principio della separazione della chiesa dallo stato. Lo stato costituzionale moderno può garantire la libertà religiosa solo a patto che i suoi cittadini cessino di chiudersi a riccio dentro gli orizzonti integralisti delle rispettive comunità religiose. Le subculture devono lasciare liberi i loro seguaci di darsi reciproco riconoscimento nella società civile quali cittadini dello stato. Questa nuova costellazione — tra “stato democratico”, “società civile” e “autonomia delle subculture” — diventa ora la chiave per capire le due “ragioni” che oggi, invece di mettersi d’accordo, si stanno facendo irrazionalmente la guerra. Infatti l’universalismo dell’illuminismo politico non dovrebbe affatto essere in contraddizione con le sensibilità particolari di un beninteso multiculturalismo.
Ma ciò che in questo contesto vorrei soprattutto sottolineare è una idea di società inclusoria in cui possano armonizzare tra loro l’eguaglianza politica e la differenza culturale. Sennonché i partiti oggi in lotta non vedono affatto questa complementarità. Il partito dei multiculturalisti, nel proteggere le identità collettive, accusa la controparte di “fondamentalismo illuministico”, laddove i secolaristi insistono nell’integrare le minoranze alla cultura politica già esistente, accusando la controparte di “culturalismo anti-illuministico”. I cosiddetti multiculturalisti vorrebbero sviluppare e differenziare il sistema giuridico per adeguarlo alle richieste di “pari trattamento” avanzate dalle minoranze religiose. Essi denunciano il rischio dell’assimilazione forzata e dello sradicamento. Sul versante opposto i secolaristi lottano per una inclusione colorblind di tutti i cittadini, a prescindere dalla loro origine culturale e dalla loro appartenenza religiosa. Da questa prospettiva laicistica, la religione dovrebbe restare una faccenda esclusivamente privata. La versione radicale del multiculturalismo poggia spesso sulla convinzione — del tutto sbagliata — che visioni del mondo, «discorsi» e sistemi teorici, siano tra loro incommensurabili. In questa concezione “contestualistica” le varie culture si presentano come universi semanticamente chiusi, corredate da criteri di razionalità/verità tra loro imparagonabili. Ogni cultura sarebbe una totalità semanticamente sigillata, cui è preclusa ogni intesa discorsiva con le altre. In base a queste premesse, ogni pretesa universalistica di verità — per es. quella avanzata dalla democrazia e dai diritti umani — è soltanto una maschera ideologica che serve a nascondere l’imperialismo della cultura dominante.
Va però detto che anche nello zelo eccessivo dei guardiani dell’ortodossia illuministica si celano premesse filosofiche alquanto discutibili. Nella loro prospettiva antireligiosa, la religione dovrebbe completamente ritrarsi dalla sfera pubblica e restringersi alla sola sfera privata, in quanto sarebbe una figura storicamente superata dello spirito. Questa del laicismo radicale è una tesi filosofica, completamente indipendente dal fatto empirico che le religioni possano offrire contributi importanti alla formazione politica dell’opinione e della volontà. Dal punto di vista dei secolaristi, i contenuti del pensiero religioso risultano in ogni caso scientificamente screditati e irricevibili. Qui vorrei fare una distinzione tra laico e laicista, tra secolare e secolarista. La persona laica, o non credente, si comporta con agnostica indifferenza nei confronti delle pretese religiose di validità. I laicisti, invece, verso quelle dottrine religiose che (seppure scientificamente infondate) hanno grande rilevanza nell’opinione pubblica assumono un atteggiamento polemico. Oggi il secolarismo si appoggia spesso a un naturalismo “hard”, giustificato in termini scientistici. Mi chiedo cioè se — ai fini dell’autocomprensione normativa di una società post- secolare — una mentalità laicista ipoteticamente generalizzata non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile che una deriva fondamentalista dei credenti.
In realtà, un processo di apprendimento andrebbe prescritto non solo al tradizionalismo religioso ma anche alla controparte secolarizzata. Certo l’autorità statale, cui sono riservati gli strumenti della violenza legittima, non dovrà mai lasciarsi trascinare nelle lotte religiose, per non correre il rischio di farsi organo esecutivo di una maggioranza religiosa che imbavaglia l’opposizione. Tutte le norme dello stato costituzionale devono essere formulate e giustificate in un linguaggio accessibile a tutti. Però la neutralità ideologica dello stato non proibisce di ammettere contenuti religiosi nella sfera pubblica politica.
Due ordini di motivi appoggiano questa apertura liberale. In primo luogo, anche quelli che non sappiano, o non vogliano, scindere i loro vocabolari e le loro convinzioni in una componente profana e in una religiosa, devono poter partecipare nel loro linguaggio religioso alla formazione della volontà politica. In secondo luogo, bisogna che lo stato non riduca preventivamente la complessità polifonica delle diverse voci pubbliche. Se nei confronti dei loro concittadini religiosi i laici dovessero pensare di non poterli prendere sul serio — come autentici contemporanei della modernità — per via del loro atteggiamento religioso, allora si scivolerebbe indietro al piano del mero modus vivendi e si perderebbe quella “base del riconoscimento” che è costitutiva della cittadinanza. Dunque i laici non devono escludere a priori di poter scoprire contenuti semantici dentro ai contributi religiosi; a volte possono addirittura trovarvi idee già da loro stessi intuite e, fino a quel momento, non del tutto esplicitate. Tali contenuti possono essere utilmente tradotti sul piano dell’argomentazione pubblica. Nell’ipotesi più felice, entrambe le parti dovranno impegnarsi, ciascuna dal proprio punto di vista, a interpretare il rapporto fede/ sapere in maniera tale da promuovere una convivenza riflessivamente illuminata.
Questo testo è tratto da
Verbalizzare il sacro di Jürgen Habermas (Laterza, trad. di L. Ceppa pagg. 318 euro 28)

Repubblica 27.3.15
Alle origini dell’arte nera che incantò l’Occidente
Si inaugura oggi con una grande esposizione dedicata ai riti dei popoli subsahariani il Mudec il Museo delle Culture di Milano
Africa
Alle origini dell’arte nera che incantò l’Occidente
di Marino Niola


SENZA l’Africa, l’arte moderna non sarebbe stata la stessa. E con ogni probabilità non avremmo capolavori come le “Demoiselles d’Avignon” di Pablo Picasso, la “Testa d’uccello” di Max Ernst. E nemmeno “L’uomo che cammina di Giacometti”. In realtà il Continente Nero, dalla seconda metà dell’Ottocento è il grande serbatoio dell’immaginario europeo in cerca di nuove chiavi per decifrare il mistero dell’uomo. Quelle chiavi che la cultura occidentali sente di aver smarrito. Ed è allora che l’arte africana diventa un anticorpo creativo, il potente vaccino esotico da iniettare nelle vene esauste del vecchio mondo.
All’influenza africana nell’estetica della modernità il Mudec di Milano dedica la bellissima mostra “Africa. La terra degli spiriti”, curata da Ezio Bassani, Lorenz Homberger, Gigi Pezzoli e Claudia Zevi, aperta da oggi al 30 agosto.
Artefici di questa storica trasfusione artistica sono, non per nulla, gli esponenti delle avanguardie. Cubisti, dadaisti e, soprattutto, surrealisti. La cui missione è smontare l’uomo in mille pezzi per capire com’è fatto veramente, quali sono gli spiriti e le potenze sconosciute che si agitano sotto la superficie rassicurante della ragione e dell’apparenza. Facendo affiorare un’estraneità spaesante dietro la familiarità del sembiante. Così il volto stesso diventa un inganno, una maschera illusoria. Proprio come l’idea di persona. Che la psicanalisi mette a nudo calandosi nelle profondità del sé. Mentre l’antropologia va a cercare fuori di sé, in mondi lontani. Come scriveva André Breton, nel suo Manifesto del surrealismo , il nuovo compito dell’artista è quello di discernere sempre più chiaramente ciò che si trama all’insaputa dell’uomo nel profondo del suo spirito.
Insomma le avanguardie rimettono in questione i fondamenti eurocentrici della società e dell’umanità stessa. E scelgono l’Africa come paradigma. Non a caso lo studio di Breton, ora ricostruito al Centre Pompidou di Parigi, è un’autentica wunderkammer esotica in cui i pezzi africani fanno la parte del leone. Maschere, copricapi, feticci, scudi, pali totemici, teste di antenati. La presenza dominante di opere primitive materializza letteralmente l’immaginario dell’artista, rende esplicite le fonti della sua ispirazione. E al tempo stesso mostra il suo rifiuto della cultura e dell’estetica tradizionali. Anche perché per queste avanguardie, le opere dell’art nègre non sono mere cose, materiali a disposizione di una contemplazione inerte e compiaciuta. Ma repertori di forme e di strumenti vivi, dialoganti con l’osservatore. E indispensabili per costruire un nuovo profilo dell’uomo, anche attraverso lo studio delle funzioni e del significato che quei manufatti hanno nelle culture d’origine. Istanza ben presente ai curatori della mostra milanese che hanno avuto la sensibilità di ricondurre ogni oggetto entro il suo contesto sociale, culturale, spirituale. Ogni opera diventa così la traccia significante di una storia e di una civiltà. Ma anche un modo per specchiarci in quella umanità, nella speranza di cogliere una diversa immagine di noi stessi. Di scorgere nel mistero degli altri qualcosa del nostro mistero che ci sfugge. Come diceva Picasso, quando raccontava ad André Malraux di aver visitato il Musée de l’Homme, allora al Palais du Trocadéro, e di essere stato letteralmente catturato dalle maschere africane, come immobilizzato da una forza ignota. «Le maschere non erano come le altre sculture: erano qualcosa di magico, si ergevano contro tutto, contro gli spiriti ignoti e minacciosi. E io continuavo ad ammirare quei feticci... E capii. Anch’io mi ergo contro tutto. Anch’io credo che tutto è sconosciuto, tutto è nemico». Forse è per questo che due delle sue demoiselles hanno come volto delle maschere africane. Che negli anni in cui il pittore malagueño concepisce l’opera stanno per diventare un caso artistico. Grazie anche alla spedizione di ricerca Dakar-Gibuti, cui partecipano personaggi come lo scrittore e antropologo Michel Leiris, l’etnologo africanista Marcel Griaule, il musicologo André Schäffner — che regala a Georges Braque una splendida arpa antropomorfa dei Mangbetu del Congo — Georges Henry Rivière, il museologo che ha il coraggio di mettere in vetrina al Musée de l’Homme un’opera d’arte in carne ed ossa, come la Venere nera Josephine Baker. Non perché la ritenga una donna-oggetto, ma perché considera la sua danza un autentico capolavoro.
La memoria di quella missione gloriosa è consegnata ad un celebre numero di Minotaure, rivista simbolo del surrealismo, in cui i due editori, Albert Skira e Tériade, al secolo Stratis Eleftheriadis, originario di un luogo ultrapoetico come Lesbo, scrivono che l’etnografia è indispensabile al rinnovamento dell’arte occidentale, proprio in quanto svela altri mondi sociali ed estetici. E così fa riaffiorare anche il fondo dimenticato dei nostri. È quel che fa Pablo Picasso nelle sue teste di toro, mescolando il selvaggio con l’antico, perché il primo serva da filo d’Arianna per ritrovare il senso del secondo. Ed è quel che fa Pasolini, in “Edipo Re” e nella “Orestiade africana”, dove la Madre Nera diventa la grande matrice visiva del nostro immaginario sommerso. Un continente perduto dei nostri sensi. Riaffiorante all’improvviso in certe statue di ebano Dogon, che ci fissano nella penombra, con i loro occhi esorbitati come quelli dei bronzi ellenistici. Così l’Africa presta i suoi feticci ad un Occidente in cerca dei suoi spiriti.

Repubblica 27.3.15
Nell’hangar universale dell’etnologia
Settemila opere tra monili, armi maschere: è il “deposito” a cielo aperto dell’ex acciaieria Ansaldo
di Chiara Gatti


SONO settemila opere e potreste (volendo) vederle anche tutte. Allineate in vetrine, teche e cassettiere stipate di oggetti tribali, monili, armi, tessuti, maschere e reliquiari. Sembra un archivio della cultura universale, un fondaco delle arti primigenie. È così che si presentano i depositi a cuore aperto del neonato Mudec, acronimo di Museo delle Culture, che inaugura oggi la sua vita, dopo quindici anni dal concorso che, nel 2000, affidò alle mani dell’architetto inglese David Chipperfield il cantiere dell’ex acciaieria Ansaldo, da trasformare in un hangar dell’etnologia. Nei suoi 17mila metri quadrati di spazio, il Comune di Milano decise, allora, di riversare un patrimonio vasto e prezioso: le raccolte delle civiltà extraeuropee, sparse nei sotterranei del Castello Sforzesco, per le quali si sognava una collocazione definitiva. Che arriva ora, giusto in tempo con la svolta antropologica imboccata dal sistema delle visual arts, complici i saggi del critico americano Hal Foster sulle connessioni fra arte e storia dell’uomo, il taglio (non a caso, antropologico) dell’ultima Biennale di Venezia e di quella che verrà, segnata già nel titolo — Tutti i futuri del mondo — da un approccio globale.
Guardando a Parigi e alla riorganizzazione del Musée du quai Branly, nel nuovo spazio di Jean Nouvel sul lungosenna, modello straordinario di un viaggio nel ventre caldo della terra, il Mudec segue la scia e rilancia con un format affascinante, scelto della direttrice Marina Pugliese, decisa a mixare etnografia e contemporaneità. «Le affinità fra arte contemporanea e arte primitiva sono moltissime. L’idea è quella di metterle in contatto». L’uso dei materiale organici, le tracce sonore, i riti e i miti sono elementi che ritornano come un mantra dal primitivismo degli anni Sessanta alle performance più recenti. Il culto per i filati, l’artigianalità, i motivi tessili hanno ispirato il design d’ultima generazione.
Lo spirito del magico, i temi eterni dell’identità, del cammino, della morte, sono condivisi da artisti di ogni epoca e latitudine. «Un laboratorio di restauro per specialisti ospiterà workshop con ospiti internazionali e avremo corsi di etnologia e approfondimenti sulle tecniche, dalle lacche orientali con esperti giapponesi alle conservazioni delle piume con una studiosa in arrivo dal Getty di Los Angeles. Sarà come avere il mondo dentro al museo». Per fare questo, accanto alle esposizioni temporanee, come Africa e Mondi a Milano — affidate alla produzione del gruppo 24ore Cultura, partner privato vincitore del bando per la gestione degli eventi — il Mudec adotterà un principio autarchico: quello che c’è in collezione basta e avanza per fare ricerca, inventare percorsi, costruire dialoghi. E il bacino a cui attingere sono proprio i depositi, corridoi algidi di scaffali rigorosi, fin da adesso visitabili (su prenotazione) come un museo dentro il museo.
Le opere d’art nègre, precolombiana, orientale, le insegne indigene, i tessuti andini, i reperti della Nuova Guinea lanciano messaggi su sentimenti assoluti, comuni ai popoli di tutte le geografie, confermando il motto che tutta l’arte è contemporanea. Perciò, chiusi i due big show in corso e terminata la maratona di Expo, molti pezzi usciti dai caveau nutriranno, in autunno, un percorso dedicato alla nascita del collezionismo esotico con la ricostruzione della celebre wunderkammer, la camera delle meraviglie di Manfredo Settala, canonico del Seicento, globetrotter dagli interessi scientifici, creatore di un museo personale specchio dell’ansia dell’uomo moderno di esplorare il mondo (s) conosciuto e portarsene a casa un pezzetto. Tutto questo sotto un logo (grafico) studiato dello studio FM: una M con le corna cambia i connotati evocando maschere misteriose, artefatti dal fascino potente, tribale e mistico.