domenica 19 novembre 2006

Liberazione 19.11.06
Eliminare il Prc via referendum?
di Rina Gagliardi


Perché alcuni intellettuali si scervellano per semplificare la democrazia?
Sognano di essere loro a rimodellare dall’alto la realtà

Sulla legge elettorale in vigore - detta ormai comunemente “porcellum” - pendono due quesiti referendari che, ove fossero dichiarati ammissibili e ove trovassero autorevoli appoggi politici, potrebbero terremotare l’intero sistema politico. Se ne parla poco, in attesa delle decisioni della Corte Costituzionale. Si preferisce sussurrarne, ben sapendo che tra qualche mese potrebbero tornare buoni per condizionare (ricattare, se vogliamo chiamare le cose con il loro nome) le forze politiche troppo dotate di autonomia - tipo il Prc. Intanto, però, la cosa c’è, e il “Corriere della Sera” l’ha assunta come propria campagna politica, impegnandovi alcune tra le sue firme di punta. Perciò, non è più il caso di sottovalutarla.

E’ stato un illustre costituzionalista, il professor Giovanni Guzzetta, a formulare i due quesiti “anti-Porcellum”. Il più significativo dei due - lo ricordiamo ai nostri lettori legittimamente distratti - prevede l’abrogazione della possibilità di collegarsi tra liste diverse: così il premio di maggioranza, finora riservato alla coalizione vincente, verrebbe attribuito al singolo partito più votato. L’altro quesito, invece, inibisce le candidature multiple, la possibilità cioè di un candidato di presentarsi in più circoscrizioni - anch’esso avrebbe conseguenze rilevanti, ma non certo paragonabili a quelle prodotte dal primo quesito. Il quale è mosso da una filosofia molto chiara: ridurre drasticamente il numero dei partiti o dei soggetti politici oggi esistenti e introdurre, finalmente, quel “bipartitismo perfetto” che nel nostro paese non c’è mai stato (e non ci può essere). A questo sogno, una parte dell’establishment intellettuale, economico e politico non ha ancora rinunciato: abolito il sistema proporzionale (l’unico che ha garantito la relativa non proliferazione dei partiti e che più di ogni altro si è avvicinato al bipartitismo, sia pure “imperfetto”), ci ha provato per dieci anni con il maggioritario, che si è rivelato un meccanismo fallimentare anche e proprio per l’ipertrofia partitica e subpartitica che ha prodotto. Ora, ci riprova col “porcellum”, una legge così indifendibile che nemmeno chi l’ha redatta ha il coraggio di trovarla buona. Solo che la “fantasia referendaria”, questa volta, è riuscita ad escogitare un ulteriore, gravissimo peggioramento del meccanismo in vigore: dal “porcellum” si passerebbe ad un “superporcellum”, secondo l’efficace definizione di Cesare Salvi. A due partiti che ancora non ci sono, il Partito Democratico da un lato, il Partito unico del centrodestra dall’altro lato, verrebbe regalata una super-rappresentanza, in termini tali da rendere del tutto marginali tutti gli altri partiti. Per i quali le scelte concrete si ridurrebbero, nell’ordine: a) autosciogliersi e fondersi nel partito maggiore; b) autoesiliarsi dalla politica istituzionale, non partecipando più ad elezioni truccate in partenza; c) autoridursi al mero “diritto di tribuna”, con piccole pattuglie nelle aule parlamentari.

E’ un’interpretazione esagerata o forzata? Ma basta leggere l’editoriale di Sartori, dell’altro ieri sul “Corriere della sera”, per trovare piena, pienissima conferma ai nostri sospetti. Nel denunciare quelli che, a suo dire, sarebbero gli «inganni» e le «furberie» già concepite, ai danni della nuova legge elettorale che potrebbe nascere dal referendum, il professore spiega che proprio di questo si tratta: abolire la gran parte dei partiti esistenti, e abolire in specie Rifondazione comunista. E se l’effetto fosse, semplicemente, quello di produrre due maxilistoni, uno di centrosinistra e uno di centrodestra, che contengono semplicemente i candidati dei partiti alleati, pronti a tornare ad esistere ciascuno come tali, ad elezioni fatte? Il professore tuona e fulmina: sarebbe, appunto, un inganno. Si tratta, scrive, di «incentivare un nuovo soggetto unitario che non sia un collage, un’appiccicatura di facciata, ma una effettiva fusione dei vecchi partiti».

E’davvero curioso che a una persona intelligente come certamente dev’essere il professor Sartori sfugga un dato elementare della politica: i partiti nascono, muoiono, esistono, operano, in virtù di processi complessi, talora di bisogni sociali diffusi, e nessuno può pensare di “ucciderli” per via referendaria o per la forza di un meccanismo dichiaratamente autoritario e antidemocratico, come quello proposto dai referendum Guzzetta. Si pensi tutto il male che si vuole dei partiti che ci sono - anche a noi, come al professor Sartori, la maggior parte non piacciono, o proprio ci dispiacciono. Tuttavia, c’è - dovrebbe esserci per tutti - un vincolo superiore rispetto ai nostri gusti o alle nostre propensioni: la pur imperfetta (imperfettissima) democrazia liberale che ci governa. L’Italia è, per storia e vocazione, un paese pluripartitico, come lo sono, Inghilterra a parte, tutti i paesi europei: si possono escogitare tutti i marchingegni che si vuole, per limitare la tendenza alla frammentazione e alla segmentazione della rasppresentanza (ma perché si cita sempre Israele come unico tempio della democrazia del Medio Oriente, e non si dice mai che lì quasi qualunque aggregazione politica, corporativa, etnica o religiosa può ottenere rappresentanza con un pugno di consensi?), ma non si può non sapere che ci sono almeno cinque o sei soggettività politico-culturale che alla rappresentanza hanno pieno diritto, perché hanno radici, culture, idee, consenso. La sinistra alternativa, la sinistra moderata o soicialdemocratica, il centrismo postdemocristiano, il centrismo liberal-iberista, il separatismo leghista, il “pseudogollismo” postfascista non sono pure invenzioni, ma correnti reali della società italiana, legate a pezzi reali di popolo: che perciò, nonostante tutto, nonostante la profonda crisi di credibilità della politica, vota e continua a votare e a sentirsi rappresentata dalle forze che bene o male avverte come più prossime alle proprie speranze. Com’è che a un paio di ottimi giuristi e politologi viene in mente di spazzar via tutta questa complessità come fosse fuffa? Facile, la risposta: sono intellettuali arroganti che, dall’alto della loro torretta d’avorio, sognano di avere un ruolo importante, ancorché distruttivo. Sono “giacobini” di ritorno (mi perdoni Robespierre) che disprezzano le masse e pretendono di rimodellare dall’alto la realtà, a colpi di idee - o invenzioni - bislacche. Meno male che la storia - e qualche volta anche la cronaca - è in grado di macinare queste e altre consimili illusioni.

l'Unità 19.11.06
Le reazioni. Bertinotti: «Frasi indicibili»


«È una frase così orribile da essere indicibile in un luogo in cui ci si possa confrontare. È una frase incompatibile con la convivenza civile». Così il presidente della camera, Fausto Bertinotti, commenta gli slogan pronunciati contro la strage dei soldati italiani a Nassiriya nel corteo a Roma. «Certamente va deplorata - prosegue - ogni manifestazione che esprime con qualsiasi tasso di violenza una simbologia distruttiva. Io penso che questa sia una situazione, nella nostra società contemporanea, in cui non è permesso gettare benzina sul fuoco. Ci sono troppi elementi di violenza - osserva - troppi grumi di violenza, troppe espressioni incontrollate per cui anche gli elementi simbolici vanno ricondotti ad una logica pedagogica di avversione sistematica alla violenza. Se poi a essere colpiti sono dei simboli identitari, allora è ancora peggio».
(...)

Repubblica 19.11.06
La rabbia di Ingrao: quei giovani hanno idee simili alle mie, ma il loro è un errore politico
"Una vergogna per la sinistra, così si aiuta chi vuole la guerra
di Giovanna Casadio


Insegniamo la pace Quei ragazzi sono di sinistra, ma compiono atti vergognosi: bisogna insegnargli la ricerca della pace
vale la costituzione Vale il richiamo alla nostra Costituzione: l´articolo 11 legittima solo una azione militare di difesa

ROMA - «Nessuno può augurarsi che ci siano nuove Nassiriya, respingo quello slogan sciagurato con rabbia». Pietro Ingrao alza il tono della voce sulla parola "rabbia". A novantadue anni il leader della sinistra italiana (ex Pci, ora iscritto a Rifondazione) ha la voce un po´ più fragile ma i concetti restano affilati. Li scandisce in un ragionamento sulla pace e sulla guerra, sui «giovani, quei giovani che hanno manifestato in piazza e che hanno magari tante convinzioni non dico uguali, ma simili alle mie, eppure sbagliano e bisogna spiegargli perché».
Per lei, Ingrao sono dei provocatori politici questi ragazzi che hanno scandito slogan invocando mille Nassiriya e bruciato i manichini-soldato avvolti nelle bandiere americana, israeliana, italiana?
«Non ho elementi per dire che sono provocatori, non userei questa definizione. Sono persone, sia pure di sinistra, che seguono posizioni e compiono atti completamenti sbagliati».
Lei esorta alla non-violenza?
«Considero gli atti che sono stati compiuti e le parole pronunciate da una parte del corteo di Roma, con quegli slogan vergognosi su "10,100, 1000 Nassiriya" come un profondo errore politico che può solo alimentare la continuazione della guerra in quelle terre e questo per me è il disastro fondamentale. Bisognerebbe insegnare».
Cosa, presidente Ingrao occorre insegnargli?
«Insegnare la ricerca e la conquista della pace. Quindi non solo l´insegnamento della non violenza, ma anche dell´azione e dell´iniziativa dei popoli e dei governanti per il ripudio della guerra. Voglio parlare del ripudio della guerra. Queste del resto non sono solo parole, convinzioni soggettive, ma vale il richiamo alla Costituzione della Repubblica. La nostra Costituzione all´articolo 11 legittima solo la guerra di difesa. La guerra che viene combattuta in Iraq in questo momento non è di difesa ma di aggressione».
Questo lo dicono anche coloro che hanno pronunciato gli slogan e bruciato le bandiere.
«Ma proprio così aiutano le forze che hanno promosso la guerra in Iraq e portano ancora avanti la guerra di aggressione. I loro atti si ritorcono contro qualsiasi intenzione o desiderio pacifista».
I cortei pro Palestina rischiano di diventare anti israeliani?
«No, i cortei pro Palestina non possono essere contro Israele. Conosco tanti e tanti che agiscono, lottano e scendono in piazza per tutelare e sostenere i diritti del popolo palestinese che indubbiamente sono stati colpiti e violati. Rispondere alle violazioni, agli attacchi però con le proposte di guerra preventiva che vengono da Bush è la linea profondamente sbagliata. Non solo perché la Costituzione del mio paese parla in un altro modo. È sbagliata anche nel concreto degli eventi che si stanno sviluppando. Torno all´Iraq perché è una situazione esemplare: l´Iraq è nel caos e lo stesso Bush che ha aperto il fuoco oggi è palesemente in una impasse tant´è che è stato espulso Rumsfeld principale sostenitore dell´iniziativa e nelle file del presidente americano sorgono dubbi su come andare avanti nel pantano iracheno».
E di questa impasse Usa, la pace deve approfittare?
«Bisogna ora più che mai lavorare per la pace e quindi è stupido oltre che sbagliato andare in piazza e invocare chissà quante altre Nassiriya. Non di quel sangue abbiamo bisogno ma di una linea completamente diversa della politica internazionale».
Medioriente, quante ragioni hanno i palestinesi e quante gli israeliani?
«Non accetto questa domanda quantitativa, è errata. La strada giusta è quella di due popoli due Stati e, prima di tutto, di spegnere ogni focolaio di guerra. Guardi, io non mi stanco di affermare che noi italiani dobbiamo avere sempre presente il dettato della Costituzione, l´articolo 11 che legittima la guerra di difesa, e non poteva, non può e non potrà accettare guerre preventive. Io so bene quante cose sbagliate e sciagurate siano state compiute dagli ex capi dell´Iraq, tuttavia non si doveva ricorrere alla guerra preventiva. Mi trova ripetitivo? Io vorrei che alla Camera e al Senato di fronte a tante vicende terribili e ad altrettante che se ne minacciano, qualcuno si alzasse in aula e dicesse: ecco, qui c´è la Costituzione. Questi ragazzi in piazza che non sono di destra, che non sono guerrafondai, hanno sbagliato e gravemente sulla guerra e sulla pace, su qualcosa che riguarda la sorte del paese».

l'Unità 19.11.06
San Paolo e San Paolo, due Caravaggi a confronto
di Renato Barilli


UN EVENTO d’eccezione a Roma: nella chiesa di Santa Maria del Popolo sono esposte le due versioni della Conversione. Quella originale, che appartiene alla famiglia Odescalchi, è in mostra per la prima volta

Roma ospita in questi giorni un evento di grande valore che non dovrebbe sfuggire a nessun abitante dell’Urbe. Si tratta dell’esposizione, in S. Maria del Popolo della versione originale della Conversione di S. Paolo, capolavoro del Caravaggio (1573-1610), direttamente commissionatogli, assieme al pendant costituito dalla Crocefissione di S. Pietro, da Tiberio Cerasi, tesoriere della Camera apostolica, che nel 1600 tondo aveva pensato di costituirsi una cappella a proprio nome in quella chiesa. Il contratto prevedeva che entrambi i dipinti fossero su tavola di cipresso, il compenso ne era fissato in 400 scudi. Ma poi il Cerasi muore nel giro di un anno, e l’impresa passa a una confraternita di eredi, l’Ospedale della Consolazione. Qui la storia si ingarbuglia, non si sa se i successori respinsero le due tavole caravaggesche, o se intervennero altri fattori, per esempio la misura eccessiva dei due dipinti rispetto alle proporzioni limitate della cappella, come la stava costruendo l’architetto Carlo Maderno. Fatto sta che entrambe le tavole emigrano in Spagna, e di quella dedicata a S. Pietro si perdono le tracce, mentre la Conversione rientra in Italia attraverso la famiglia genovese dei Balbi, e da loro passa ai proprietari attuali, gli Odescalchi. Al posto delle due tavole il Merisi confeziona le due tele che si possono ammirare tuttora nella Cappella, e che sono entrate stabilmente nel catalogo del grande artista, a fondarne la fama universale.
Fin qui i fatti, con le loro numerose incertezze, ma ben più importante l’aspetto stilistico della questione. Infatti la tavola che in questi giorni si può contemplare nella Cappella Cerasi, in uno stimolante confronto con l’altra versione che poi l’artista ne ha fornito, è da considerarsi l’opera più rappresentativa del suo primo tempo romano, consumato negli anni ’90. Essa diviene, per così dire, la nave ammiraglia di quella mirabile produzione «in chiaro», favolosamente affidata a tinte ceramicate, splendenti, che già conoscevamo grazie ad altri capolavori quali La buona ventura, Il riposo nella Fuga in Egitto, la Maddalena. Paradossalmente potremmo osservare che questa produzione dà ragione, e torto nello stesso tempo, alle note ipotesi emesse sul conto dell’autore dal miglior studioso della fortuna caravaggesca, lungo il secolo scorso, Roberto Longhi. È incontestabile che in quel modo fermo, luminoso, mirabilmente rassodato e intatto, il Caravaggio svolge un’eredità dalle sue terre del lombardo-veneto, esprime l’aura incantata, lunare che ha potuto assorbire dal Lotto, dal Savoldo, dal Romanino, dal Moretto, e dunque Longhi ha visto giusto, nel porre con fermezza un aggancio tra il Gran Lombardo e un’eredità «padana» giunta a lui attraverso questi forti cultori di una pittura della realtà. Però bisogna affrettarsi ad aggiungere un epiteto, a questa «realtà», definirla «magica», intrisa di iper-realtà, senza paura di parlare addirittura di sur-realismo, almeno nel senso letterale della parola. Ovvero, attraverso il Lotto e il Savoldo giunge al Caravaggio un influsso del maggiore dei «moderni» d’oltralpe, Albrecht Dürer, il Duro per eccellenza, come il Vasari italianizzava il suo nome, cogliendone anche il tratto centrale, che stava nel rifiuto dell’atmosferismo, nato con la rivoluzione leonardesca. Due vie, insomma, alla maniera moderna, l’una tonale, atmosferica, l’altra cristallina, metallica. Ebbene, il primo Caravaggio svolge in pieno «questa» lezione, da cui poi recede negli anni successivi, quando appunto passa a eseguire le due tele finali della cappella Cerasi, e tutte le opere successive. In quel momento abbandona il filone «duro» del realismo magico per venire a un realismo tout-court, con corpi grevi di fatica, che simulano perfettamente le occasioni della quotidianità. Infatti le due versioni finali stupiscono ancora per la loro mancanza di aura: S. Paolo è davvero caduto da cavallo per un incidente di percorso, S. Pietro sembra una vittima di strada che alcuni barellieri distratti sollevano malamente e lasciano cadere a terra.
Invece la versione su tavola spicca per pose culte, favolose, «ingegnose», nei cui confronti è inutile riferirsi a un manierismo che il grande «moderno» non avrebbe ancora del tutto smaltito, non ce n’è bisogno, perché appunto fa parte del codice genetico del «rinascimento» nordico non abbandonare le pose solenni, statuarie, tanto è vero che in quelle contrade non poté nascere qualche episodio spontaneo di manierismo, bastavano i Lotto e Savoldo, a svolgere una grande e solenne maniera: com’è, qui, nella tavola, il corpo dell’armigero posto in diagonale, e il Cristo e l’angelo che entrano in scena a tuffo, in modo del tutto eccezionale. E più ancora conta quella luce di livida alba che si leva all’orizzonte, e che investe di un fiotto di riflessi argentini le vesti, le carni dei protagonisti, lasciandosi captare particolarmente dalla piuma al vento che oscilla sull’elmo dell’armigero, come superbo vezzo ornamentale che poi scomparirà dal repertorio caravaggesco, sostituito dai rozzi abiti e strumenti della fatica d’ogni giorno. E così pure il cielo si chiuderà, verrà meno l’incanto di quel poco di luce solare, sulla scena scenderanno le tenebre, investite soprattutto del compito di compattare la narrazione e di vietarle fughe laterali.

l'Unità 19.11.06
Le cifre dell’accanimento terapeutico
Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Accade spesso che un malato venga curato senza prospettiva alcuna di guarigione? Capita di frequente che venga prolungata medicalmente (artificialmente, con pratiche più o meno invasive, più o meno dolorose) la vita di chi, comunque, è destinato, irreversibilmente, a non farcela? Sono, questi e altri ancora, i difficili interrogativi che rendono il senso dell’istituto del Testamento Biologico (o Direttive anticipate): uno strumento giuridico (di cui si discute in Parlamento in queste settimane), finalizzato a tutelare il paziente nei confronti dell’accanimento terapeutico. «A Buon Diritto. Associazione per le libertà» ha promosso la prima ricerca in Italia sull’opinione della classe medica nei confronti del Testamento Biologico. Un’anticipazione dei dati emersi da questo studio, realizzato da Enzo Campelli e da Enza Lucia Vaccaro, dell’Università «La Sapienza» di Roma, evidenzia come, secondo un campione rappresentativo (266 intervistati in 19 ospedali distribuiti sul territorio nazionale), l’accanimento terapeutico sia una pratica notevolmente diffusa.
Il 57% dei medici intervistati (oncologi, anestesisti, rianimatori e appartenenti ad altre specializzazioni) riconosce che, nella prassi clinica, è «frequente» osservare situazioni di accanimento terapeutico; per il 36% si tratta di una eventualità «poco frequente» e solo per il 2% non si verificano «mai o quasi mai» simili situazioni. L’indagine, da cui traiamo questi dati, verrà presentata giovedì prossimo, 23 novembre, in un convegno al Senato dal titolo «Il dolore e la politica. Testamento biologico, accanimento terapeutico, libertà di cura» e vedrà intervenire, tra gli altri, il ministro della Salute, Livia Turco, e Ignazio Marino, presidente della commissione Sanità del Senato. E già questi dati, che rappresentano una parte esigua rispetto alla mole di informazioni raccolte, meriterebbero ampia discussione e attenta analisi. L’accanimento terapeutico emerge come una pratica ampiamente diffusa e come un nodo irrisolto, rispetto al quale si fa sempre più vistoso il vuoto normativo vigente.
Le questioni “di vita e di morte”, dunque, si fanno sempre più centrali, e salienti, nel dibattito pubblico. E la politica, lentamente e faticosamente, sembra cominciare a farsi carico di quanto di più umano (e vivo) vi sia nell’esperienza di ognuno: il dolore, appunto. Che non rappresenta un “semplice” stato di sofferenza, ma è divenuto, piuttosto, fattore sintomatico e critico di molte vicende patologiche.
Il continuo progresso delle scienze mediche e delle biotecnologie rende spesso impalpabile il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico; e quel confine sfugge, in genere, alla capacità di conoscenza e di controllo del diretto interessato: il paziente. È in virtù di questo progresso e di questa “sottrazione di autonomia” che nascono casi quali quelli segnalati dall'Associazione Luca Coscioni. E sono emblematiche le parole che Piergiorgio Welby usa per descrivere lo stato in cui la malattia l’ha ridotto: «La distrofia muscolare progressiva è una delle patologie più crudeli; pur lasciando intatte le facoltà intellettive, costringe il malato a confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti: da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, poi arriva l’insufficienza respiratoria e la tracheotomia. Il cuore, di solito, non viene colpito e l’esito infausto, come dicono i medici, si ha per i decubiti o una polmonite. Io ho raggiunto l’ultimo stadio: respiro con l’ausilio di un ventilatore polmonare, mi nutro di un alimento artificiale (Pulmocare), parlo con l’ausilio di un computer e di un software».
Per quanto atroce possa essere la condizione qui descritta, se ne possono determinare di ancor più mortificanti e degradanti. È vero, infatti, che oggi sappiamo che il cuore può continuare a battere anche quando è sopravvenuta la morte cerebrale; e che si può sopravvivere per dieci o vent’anni in stato vegetativo permanente: ma questo vuol dire che - grazie a macchine sofisticate - la persistenza della vita non corrisponde sempre all’esistenza di una persona, dotata di sensibilità e di volontà e capace di esperienza e relazione. Di fronte a casi di questo genere, non esiste un orientamento medico, o legislativo, univoco, capace di prevedere una prassi clinica per ogni tipologia patologica: e in grado di indicare una metodologia d’intervento e di “soluzione” rispetto alla complessità delle questioni in gioco. E se ciò appare ovvio e normale, non altrettanto pacifico ci appare il fatto che, parimenti, sia il malato stesso (il titolare di quell’esperienza e di quel corpo dolente) a non disporre di alcuno strumento di tutela del valore delle sue scelte. È oramai paradigmatico, in tal senso, il caso di Eluana Englaro: in stato vegetativo permanente dal 1992, questa giovane donna, che vive senza possibilità alcuna di tornare a uno stato di coscienza, continua ad essere alimentata e idratata artificialmente: continua, cioè, ad essere tenuta in vita. Suo padre ha più volte chiesto che fosse «lasciata morire», che le fossero interrotte alimentazione e idratazione, per porre fine alla sua agonia. La riposta della magistratura è stata negativa.
Forse il suo caso rientra tra i molti riconosciuti da quella maggioranza di medici, che vedono l'accanimento terapeutico ridotto a routine clinica; forse quella moltitudine di casi, quell’enorme “scialo di dolore”, merita una soluzione (sia pure parziale e imperfetta): che consista semplicemente nel dare, a ciascuno di noi, la possibilità di decidere della propria vita e della propria morte, in coscienza e autonomia. Per quanto e fin quando è possibile.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

il manifesto 19.11.06
In diretta dai giorni di Budapest
La rivolta ungherese in «Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello» di Sándor Kopácsi
di Umberto D'Angelo


Una tra le frasi più simboliche della tragedia ungherese è forse contenuta nelle parole «Ho vent'anni, non ho vissuto, non voglio morire!», l'invocazione di uno dei soldati dell'esercito magiaro impiccati dai russi per il semplice fatto di aver eseguito gli ordini e difeso Budapest durante l'invasione del 1956. È invece un'altra frase di quei giorni drammatici e concitati, Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello, a dare il titolo all'autobiografia di Sándor Kopácsi da poco uscita per le edizioni e/o (pp. 419, euro 16), un titolo che tuttavia rischia di essere poco comprensibile, se non viene inserito nel contesto: si tratta infatti della risposta data all'autore, a quel tempo questore della capitale ungherese, da un tenente di polizia pronto a sparare sulla folla che stava smontando la statua di Stalin.
Nato nel 1922 a Miskolc, grande città operaia del nordest, Kopácsi fu partigiano nella resistenza ungherese, poliziotto dopo la guerra e, appunto, questore di Budapest dal 1952. Membro del partito comunista, apprezzato per la sua discreta fedeltà anche sotto la dittatura di Mátyás Rákosi, dopo la morte di Stalin si schierò con l'ala riformista e quindi appoggiò il governo di Imre Nagy, diventando vicecomandante della Guardia Nazionale. Al termine delle giornate del 1956 fu arrestato dai russi, processato con Nagy insieme al suo gruppo e condannato all'ergastolo. Nel 1963 fu liberato grazie a un'amnistia e tornò a fare l'operaio; nel 1975 riuscì a emigrare in Canada e nel 1989 fece ritorno in patria, dove tenne un discorso ai funerali solenni dei martiri della rivoluzione. Riabilitato, è morto nel 2001.
In queste settimane di commemorazioni per il cinquantennale dei fatti di Budapest si è detto e scritto moltissimo, ma forse mancava qualcosa come questo libro di memorie, diverse e coinvolgenti proprio perché vengono dalle stanze del potere. Le vicende di quei giorni vengono infatti raccontate in diretta, dal punto di vista di chi era tra i membri degli apparati, e si trovava preso in mezzo, fra popolazione in rivolta, difesa del governo legittimo e repressione sovietica. Un personaggio secondario, quindi, il cui ruolo ufficiale, riconosciuto dai protagonisti più noti, come János Kádár, Rákosi e Nagy, gli consentì di essere un testimone privilegiato di quelle giornate, nonché degli anni che le precedettero. Il giovane operaio che partecipava alle manifestazioni sotto il regime fascista di Horthy diventa il poliziotto che vive con senso del dovere comunista la dittatura di Rákosi, assistendo al rigido controllo sovietico e alla difesa passiva degli ungheresi («Essere sbirro non vuol dire perseguitare la gente. Vuol dire sapere tutto. Capire tutto»), ma osservando anche, divertito e sorpreso, l'arretratezza tecnica e culturale dei russi, i quali verso sera stilavano il loro rapporto e «si facevano accompagnare in macchina alle loro ville che si trovavano nel quartiere residenziale di Budapest, proprio dove avevano abitato i ministri del vecchio regime». Nominato questore, Kopácsi incontra molti di coloro che saranno protagonisti della storia, dal giovane e aitante generale russo Leonid Breznev, all'ambiguo ambasciatore Yurij Andropov («Tovarisc Andropov, attualmente braccio destro di Breznev, che pensa oggi della sua missione diplomatica molto particolare a Budapest nel 1956?»), al generale Serov, feroce persecutore degli ungheresi ribelli.
Dalle pagine di Kopácsi emerge il confronto fra la luminosa personalità di Nagy e dei comunisti sinceri («Signor presidente, signori giudici popolari! È possibile essere comunisti senza versare sangue, senza soffocare i sogni degli uomini. Ne sono profondamente convinto») e quelle di Kádár e degli altri opportunisti che appoggiarono pubblicamente prima e pubblicamente rinnegarono dopo le idee e le azioni del brevissimo governo Nagy. E poi la cronaca della rivolta, i giorni di sangue, la repressione e lo stillicidio delle fucilazioni, migliaia di giovani eliminati, la galera e il processo. E, ancora, le riflessioni sul suo difficile ruolo di personalità del partito, obbligato a fornire risposte ai vecchi amici e operai, e inoltre l'assurdità di trovare comunisti, operai, studenti, agricoltori, da entrambe le parti delle barricate, il riconoscere «l'incompetenza criminale del potere», la fede nel movimento, nei dirigenti, nell'Urss.
Pubblicato per la prima volta in Francia nel 1979 con il titolo Au nom de la classe ouvrière (ripreso nella prima edizione italiana del 1980, In nome della classe operaia), il libro di Kopácsi acquisì subito una notevole importanza fra gli ungheresi emigrati, ma restò proibito in patria fino al 1989, quando uscì come Életfogytiglan (Condannato a vita). Non molto noto finora al di fuori dell'ambiente degli studiosi, il libro di Kopácsi è ritenuto una fonte attendibile ed è dunque stato usato principalmente come fonte di documentazione. Si guadagnò, tra l'altro, l'attenzione di Aldo Natoli, che nel 1980 scrisse una postfazione in cui rilevava alcune omissioni, non così gravi da compromettere l'attendibilità dell'autore. Del resto, negli anni '70 la stesura di memorie più complete avrebbe potuto nuocere a non pochi di coloro che erano rimasti sotto il regime del «traditore» Kádár.



il Riformista 18.11.06
LOMBARDI 1. RISPOSTA A CICCHITTO
Era un riformatore ancorato alla sinistra Per questo il suo pensiero vive
ancora

DI RENATO BALLARDINI E GIUNIO LUZZATTO


Fabrizio Cicchitto torna a parlare, con un intervento del 9 novembre, di Riccardo Lombardi. Prende l'occasione da una cosiddetta rivelazione del Corriere della Sera: nel 1957 Togliatti scrisse a Pertini sollecitando il Psi a far cessare gli attacchi di lombardi al Pci che solidarizzava con l'Unione Sovietica massacratrice a Budapest. La "rivelazione" (un saggio di Andrea Riccardi) è in realtà in un volume del 2004; è utilizzata oggi nel tentativo di sostenere, come in un precedente intervento, che le responsabilità del Pci nello «smantellamento per via giudiziaria» del Psi giustificherebbero la migrazione, da parte di alcuni ex-socialisti, da sinistra a destra. Cicchitto attacca poi i «moralisti» scoprendo che in politica i finanziamenti contano, e rileva che in due importanti occasioni Lombardi ne subì le conseguenze: quando Nenni e Morandi ripresero, nel 1949, il controllo del Psi dopo una breve parentesi autonomista, e quando nel 1964 la "sinistra" uscì e fondò il Pdiup, provocando così un decisivo indebolimento di chi voleva dare al centrosinistra una sostanza fortemente riformatrice. Tutto vero, ma guardando al percorso politico di Riccardo Lombardi se ne deduce l'esatto contrario rispetto alla presunta «cancellazione della discriminante destra-sinistra»: quanto più egli evidenziava senza reticenze gli errori di parti della sinistra, tanto più egli operava per rilanciarla e rafforzarla, ne riproponeva i valori con assoluto rigore, elaborava per essa strategie concrete. La sua personalità politica, e in particolare questo rigore, non sono comprensibili se si ignora la sua originaria formazione in Giustizia e Libertà e la sua militanza nel Partito d'Azione. Egli era un liberal-socialista epigono di una tradizione minoritaria ma luminosa della cultura della sinistra italiana. Egli era, più che un politico pragmatico, un intellettuale realistico della politica. Tutto il contrario di altri politici, come Silvio Berlusconi - ma non solo lui -, che nella politica ricercano gli effetti pratici immediati a favore di ceti e categorie, se non addirittura di se medesimi. Affrontava i problemi sempre con un approccio culturale. Osservava la realtà nel suo complesso con la curiosità dello scienziato. Subiva la seduzione delle forze innovative con il rapimento di un visionario. Nel '68 le sue posizioni troppo acriticamente favorevoli al movimento studentesco e operaio erano oggetto di scontro dentro il gruppo «lombardiano», ma ai moniti di Santi, Giolitti, Codignola e altri egli ha preferito in quegli anni l'estremismo dei giovani Signorile, De Michelis nonché proprio Cicchitto. Quest'ultimo ancora nel 1975 lamentava che dopo la Liberazione «non si realizzò né il cambio della moneta né una reale imposta straordinaria sul patrimonio, furono soffocati i consigli di gestione, fu vanificata l'epurazione»; e poneva come obiettivo fondamentale «combattere e indebolire il partito americano, che nel nostro paese sono fondamentalmente tutto un settore della Dc e il Psdi». A pochi mesi di distanza, Lombardi fu indotto invece a dare credito all'apparente novità di Craxi, appoggiandolo al Midas (1976) e seguendolo nel Congresso di Torino (1978). Partecipò al tentativo di unione delle opposizioni, promosso da Giolitti e Amato, e fallito per la defezione di De Michelis (1980), ma dopo il trionfo di Craxi al congresso di Palermo (1981) si rassegnò ed ebbe il simbolico riconoscimento della presidenza del partito, dalla quale si dimise peraltro quasi sùbito per cadere in una solitaria e dimenticata emarginazione. Quella non era la sua compagnia. Proprio l'ascesa di Craxi, nella vicenda politica nazionale oltre che all'interno del Psi, dimostra quanto pesino i finanziamenti illegali: la corruzione emerse in tutta la sua devastante dimensione nel 1992, ma oltre dieci anni prima chi voleva vedere la aveva vista: il coinvolgimento con Calvi/Banco Ambrosiano era stato documentato da "moralisti" espulsi per questo. Gli errori tattici di Lombardi vi sono stati (qualcuno gli faceva rilevare la sua presbiopia, una vista ottima sulla distanza e talora appannata sulle vicinanze), ma la strategia era coerente e non era quella di un rivoluzionario velleitario. Egli era un riformatore del sistema, con una capacità di analisi e una fantasia creativa che ancora oggi sarebbero preziose. Lo sarebbero per l'intera sinistra dei nostri giorni.

il Riformista 18.11.06
LOMBARDI 2. IL '48 E LA SCONFITTA DEL FRONTE POPOLARE
Ma un maggior coraggio autonomista avrebbe potuto evitare la
débâcle del Psi

DI FEDERICO FORNARO


In recenti ricostruzioni del percorso umano e politico di Riccardo Lombardi è stato posto l'accento sulla difficile esperienza del gruppo dirigente del Psi dopo il congresso straordinario di Roma (1948), adombrando il sospetto che il sostanziale insuccesso di quel tentativo di parziale distacco dall'alleanza organica con il Pci fosse stato conseguenza di pressioni economiche da parte degli stessi comunisti e dell'Unione Sovietica. Per cercare di dare una risposta occorre partire dal doppio fallimento elettorale del 18 aprile 1948: il Fronte Popolare ottiene un deludente 31% e i deputati socialisti eletti in prima battuta sono solamente 42 sui 183 complessivamente conquistati. Per il Psi, quindi, è una sconfitta bruciante che riapre la conflittualità interna tra le diverse correnti e la maggioranza, guidata da Basso e Nenni, è costretta ad indire un'assise straordinaria a poche settimane dal voto. Dopo il fallimento di un accordo per una segreteria unitaria di Sandro Pertini, dal Congresso esce vincitrice con il 43% la mozione "centrista" di ""Riscossa socialista", presentata da Lombardi e Jacometti, mentre la grande sconfitta è la sinistra che ottiene poco più del 30%. La mozione "Autonomista unificata" di Giuseppe Romita e dei sindacalisti guidati da Italo Viglianesi, raccoglie un lusinghiero 27%. Lombardi, entrato appena un anno prima con la maggioranza del disciolto Partito d'Azione, diventa così uno dei leader del Psi assumendo la direzione dell'Avanti!, mentre Jacometti è eletto segretario nazionale. Nonostante l'imprevista debacle dei sostenitori a oltranza del Fronte Popolare, la nuova maggioranza centrista non scioglie il nodo strategico dei rapporti con il Pci e soprattutto non riesce ad imprimere una netta e chiara svolta autonomista. In una lettera aperta a Riccardo Lombardi, il suo ex compagno azionista Tristano Codignola, alleatosi con il Psli di Saragat, riassume lucidamente l'irrisolto dilemma socialista: «È la scelta sostanziale che è di fronte a te, è la scelta di tutto il socialismo, a cui alla lunga, qualunque sia la tua abilità non potrai sfuggire: è la scelta fra il socialismo democratico e la politica di potenza della Russia». Una scelta di campo che Lombardi e i suoi non si sentirono di compiere. Il risultato di questa mancanza di coraggio nell'isolare la sinistra fusionista e conseguentemente marcare un visibile cambio di rotta nei rapporti con i comunisti, è una cristallizzazione delle correnti interne, che impedisce una seria riflessione sulle ragioni della sconfitta del 18 aprile. In questo quadro certamente vi fu anche un'ingerenza comunista nella vita interna del Psi sotto forma di interruzione di flussi di fondi provenienti dall'Est europeo e senza ombra di dubbio Jacometti dovette fronteggiare una disastrosa situazione economica; ma resta la manifesta incapacità di immaginare una via d'uscita dal vicolo cieco dell'esperienza frontista. Si aggiunga, poi, che il Congresso dei partiti socialisti europei (Vienna, 3-5 giugno 1948) aveva accettato la domanda di ammissione di "Unita Socialista", il cartello elettorale presentato dal Psli e dall'Uds di Calamandrei e Codignola, e sospeso il giudizio sul Psi. A questo isolamento Lombardi e i nuovi vertici non riescono a dare una risposta convincente chiudendosi a riccio. La decisione assunta da Pci e Psi, il 18 agosto 1948, di rinunciare per il futuro a liste comuni di Fronte Popolare, finisce così per essere un risultato insufficiente a ridare slancio e vigore ad un'autonoma azione socialista nel Paese e nella primavera del '49 il Comisco, di fronte al rifiuto di abbandonare l'alleanza filocomunista, deciderà l'espulsione del Psi. Una frattura che si ricomporrà solamente con l'unificazione socialista del 1966. Il Congresso di Firenze (1949) sancirà la sconfitta dei centristi (Lombardi, Jacometti e Santi), fermi al 39%, mentre la sinistra di Basso, Nenni, Pertini e Morandi riconquista la maggioranza assoluta del 51%. Per parte sua la destra romitiana (9,5%) abbandona il partito per lavorare all'unificazione delle disperse forze socialiste autonomiste. In conclusione le attenuanti per i centristi sono molte, ma resta il fatto incontestabile che dopo la bruciante sconfitta del Fronte Popolare i socialisti restano aggrappati alla strategia del patto d'unità d'azione con il Pci, recidendo i legami con il socialismo europeo. Una scelta, forse obbligata dalla divisione in blocchi che rende prigionieri speculari sui due fronti Saragat e Lombardi, destinata ad influire negativamente sulla storia del Psi e sull'evoluzione dell'intero sistema politico italiano. Un maggior coraggio autonomista da parte della Direzione centrista avrebbe potuto evitare al Partito socialista di finire in quella terra di nessuno rispetto alla sinistra internazionale divisa tra comunismo e socialismo democratico, da cui Nenni, faticosamente, riuscirà a farlo uscire solamente nei primi anni 60.

il Riformista 18.11.06
OBIEZIONE. CONTRO IL NATURALISMO
Il revival acritico dell'evoluzionismo lo rende filosoficamente inattuale
DI CORRADO OCONE


La teoria del «disegno intelligente» e più in generale il creazionismo hanno, allo stato attuale dei fatti, poco o punto valore scientifico. Ne prendono atto con soddisfazione i laici o, meglio, tutti coloro che non aderiscono alla dottrina cristiana (siamo per fortuna, mi viene voglia di dire, ancora in tanti! ). Significa ciò che l'evoluzionismo darwiniano è la più valida alternativa al creazionismo? Non lo so, sinceramente, non avendo una competenza specifica in campo scientifico. Tuttavia so per certo che, se anche la maggioranza degli scienziati lo ritenesse oggi "vero", non per questo l'evoluzionismo potrebbe considerarsi una "verità assoluta" o "definitiva". Come ci ha insegnato Popper con la sua teoria della falsificabilità, la scienza non vive come le religioni in una dimensione metafisica ma storica e, prima o poi, ci sarà qualcuno che falsificherà anche la teoria evoluzionistica. Tanto di cappello, noblesse oblige, alla scienza che considera un punto di onore ciò che in altri ambiti umani è un limite. Eppure, nonostante ciò, non si può non constatare che è oggi in corso, in ambito laico, uno strano fenomeno culturale: l'evoluzionismo tende sempre più a slargarsi, a invadere campi non propri, a presentarsi non come una semplice alternativa scientifica al creazionismo ma come una concezione generale del mondo e della vita. Il fatto strano è che, per chi ha un minimo di consapevolezza storica e filosofica, l'acritico revival evoluzionistico a cui assistiamo ha qualcosa di surreale. E' mai possibile che, a un secolo e mezzo dall'uscita de Le origini della specie (1859), noi si possa aderire ancora in filosofia alle teorie e al metodo dello scienziato inglese? E mi chiedo: non è forse riconducibile anche questo diffuso e inaspettato successo filosofico del darwinismo all'assurda bipolarizzazione in atto in questo momento anche, purtroppo, nel mondo della cultura? Non è forse una reazione uguale e contraria all'assordante vociferare dei creazionisti? Detto in maniera più diretta e esplicita: con quali seri argomenti filosofici si può veramente dire che l'evoluzionismo rappresenti una praticabile filosofia per il nostro tempo? O addirittura che esso sia la migliore scuola di riformismo politico, come ha addirittura scritto recentemente su queste pagine Orlando Franceschelli, che del darwinismo è in questo momento in Italia forse il più attivo paladino? Scopro subito le carte. C'è un elemento sostanziale, che oltre ogni distinzione, accomuna, da un punto di vista filosofico, creazionismo e evoluzionismo, rendendoli parimenti filosoficamente obsoleti e impraticabili. Questo elemento, di cui l'evoluzionismo in quanto dottrina scientifica non può assolutamente fare a meno, si chiama naturalismo. In termini tecnici si parla di «presupposto oggettivante». Esso consiste in un dato di partenza quasi inconscio, un postulato o una precondizione ineliminabile per ogni teoria che si pone come scientifica. Il presupposto è questo: che ci sia di là qualcosa che si chiama "natura" e di qua una "mente" che la pensa; di là un oggetto reale e di qua un soggetto volto a "scoprire" (dis-velare) la "verità" di quell'oggetto. Senza questa finzione, senza questo presupposto, non si darebbe scienza: la scienza può anche arrivare a immaginare l'origine dell'universo (il big bang? o simili) ma quella scoperta sarà sempre l'origine valida all'interno di un determinato gioco linguistico che viene individuato proprio da quel postulato ineliminabile, da quel pre-giudizio che tutta la filosofia novecentesca ha messo in discussione. Ogni scoperta scientifica può perciò essere utile, utilissima al nostro vivere nel mondo, ma non potrà mai dirci nulla su ciò che precede ogni postulato e ogni pre-giudizio. All'interno del pre-giudizio oggettivante Darwin si è mosso egregiamente, ma lì come è giusto che fosse è rimasto. E' in questa dimensione che si colloca l'inattualità e improponibilità filosofica di Darwin, indipendentemente dalla sua attualità o inattualità scientifica. Ma lasciando stare filosofia e scienza e venendo invece alla politica, credo sia opportuno rispondere alla provocazione di Franceschelli. E' vero: essere riformisti significa essere sobri, pragmatici, spontaneisti, antiperfezionisti. Significa credere che la società non si modella dall'alto (ingegneria sociale) ma si costruisce dal basso attraverso un continuo processo fatto di tentativi, errori e correzioni successivi. In senso metaforico, traslato, si può pure dire che Dio Creatore è un grande designer o ingegnere; mentre il Dio-natura del processo evoluzionistico è un continuo adattamento. La metafora naturalistica è però una metafora, nulla più. Il riformismo, se a una filosofia, cioè a una concezione generale del mondo e della vita deve far riferimento, è a una concezione antinaturalistica, antimetafisica o spiritualistica (nel senso del Geist tedesco) che deve guardare. Anche la natura in evoluzione è pur sempre natura e non storia: un dato a suo modo immutabile, astratto, non discutibile. Il riformismo deve invece far riferimento a una filosofia in movimento non solo dalla parte dell'"oggetto", ma anche del metodo: a una filosofia, cioè, che sia anarchica e non chiusa anche nelle prospettive con cui avvicinarsi al reale. Qualcosa di simile al prospettivismo di cui parlava Nietzsche per intenderci o all'anarchismo epistemologico di un Fayerabend, non al dinamismo della storia così come lo ipostatizza uno scienziato (fosse pure uno dei grandi e geniali, come è sicuramente il caso di Darwin).

il Riformista 18.11.06
RISPOSTA. IN DIFESA DELLA SUA PORTATA ETICO-POLITICA
Ma Darwin emancipa l'uomo dalla metafisica Per collocarsi tra i laici non è necessario - e non basterebbe - appellarsi alla filosofia dello spirito, nel senso del «Geist»

DI ORLANDO FRANCESCHELLI


Corrado Ocone veramente non lascia coperte le proprie carte. Atteggiamento di cui si è sempre grati ai propri interlocutori. Tanto più quando serve anche a far emergere con chiarezza l'unico, decisivo punto in discussione: la portata filosofica ed etico-politica del naturalismo di ispirazione darwiniana. Che si gioverebbe di una tardiva ed immeritata attualità, dovuta unicamente «all'assordante vociferare dei creazionisti». Anch'essi ignari del fatto che proprio il naturalismo sarebbe il pregiudizio «oggettivante» e metafisico che accomuna evoluzionismo e creazionismo. In realtà, Ocone solleva un problema enorme, giacché non è per un equivoco che le teorie darwiniane polarizzano buona parte dell'attuale dibattito non solo scientifico-filosofico (dalla cosmologia, alla bioetica fino alla filosofia della mente), ma persino teologico. Come anche con queste modeste Darwiniane cerchiamo di rendere conto ai nostri lettori. Il timore è un altro: che Ocone operi una semplificazione francamente eccessiva. Persino della stessa soluzione da lui proposta. Egli infatti suggerisce che, per collocarsi effettivamente tra i laici che non aderiscono ad alcuna «dottrina cristiana», occorre derubricare anche il naturalismo darwiniano, anzi l'idea stessa di natura, ad ipostasi metafisica, ed appellarsi ad un'autentica, questa sì antimetafisica e riformista, filosofia dello spirito, «nel senso del Geist tedesco». Ossia, sembrerebbe di capire, di hegeliana memoria. Effettivamente, Hegel era ancora convinto che proprio lo spirito fosse l'essenza dell'uomo. E rifiutava coerentemente l'evoluzione persino nella versione lamarckiana nota ai suoi tempi. Ma neppure Ocone scherza: di quale "spirito" possiamo parlare oggi, al di fuori delle acquisizioni di un'antropologia di ispirazione evoluzionistica? La risposta della metafisica creazionistica, lungi dall'essere un mero vociferare, è questa: proprio la dimensione spirituale ed etico-culturale dell'uomo è la prova della sua provenienza non naturale ma divina. Del «salto ontologico» che l'uomo, unica creatura fatta ad immagine di Dio, rappresenterebbe rispetto al resto del mondo naturale. Posizione su cui è attestata anche la gerarchia cattolica, nel tentativo di schiacciare non a caso proprio l'antropologia darwiniana su una sorta di riduzionismo e nichilismo incapaci di cogliere la vera natura e dignità dell'uomo. Ocone non è certo a questa prospettiva creazionistica che è interessato. Ma allora: o pensa di poter indicare, oltre a creazione divina ed evoluzione naturale, una sorta di terza via per la provenienza dello "spirito" umano. Oppure riconosce che anch'egli presuppone - acriticamente? - proprio quelle teorie darwiniane di cui non sa spiegarsi l'attualità. Benedetto Croce, per richiamare un esempio altamente significativo, pensava appunto alla prima soluzione. E per vincere il «senso di sconforto, e di depressione e quasi di vergogna» che lo assaliva all'idea che anche l'uomo potesse avere «origini animalesche e meccaniche», contrapponeva a Darwin i bestioni di Vico: antenati che gli risparmiavano di «ricascare nel naturalismo e materialismo», perché avevano pur sempre «in fondo al cuore una favilla divina». Un surrogato storicistico dei privilegi metafisici ed antropocentrici attribuiti all'uomo dal creazionismo. E la cui versione degenerata è costituita dalla devozione esibita ed aggressiva degli odierni atei, per i quali lo stesso crociano «non possiamo non dirci cristiani» ormai è troppo poco. Ebbene, se simili pasticci antiscientifici ed ibridi teologico-filosofici sono effettivamente alle nostre spalle, forse gioverebbe a tutti riconoscere apertamente che proprio la rivoluzione darwiniana ha permesso una concezione "soltanto" naturale, e perciò non metafisico-spiritualistica, della stessa capacità umana di produrre linguaggio, sentimenti, etica, cultura, storia. Di naturalizzare anche la mente. Conferendo così all'emancipazione moderna dalla tradizione platonico-cristiana, al disincanto naturalistico appunto, una plausibilità semplicemente inaggirabile. L'unica, del resto, che consente alla rettitudine intellettuale e morale di un non credente - nessuno escluso - di parlare dell'uomo in modo effettivamente critico e laico: né ideologicamente ostile e né subalterno all'antropologia, alle Verità ed ai Valori, teologicamente ispirati. Nonché di chiedere ai credenti una pari, adulta laicità nella testimonianza della loro fede. Nelle nostre società pluraliste, è precisamente di una simile rettitudine che c'è bisogno. Più che dell'attardarsi sulla sterile o pretestuosa contrapposizione tra naturalizzazione dell'uomo e sue capacità etico-creative. Come se l'evoluzionismo darwiniano fosse la negazione, e non la spiegazione non più sovrannaturale di quelle capacità. E queste implicazioni etico-politiche del naturalismo, tutt'altro che marginali, non sono le uniche Il naturalismo e l'antropologia dell'eco-appartenenza che ne discende, ci rendono anche non meno, bensì più consapevoli delle stesse, impegnative sfide ambientali e bioetiche in cui tutti siamo coinvolti, nonché dei rischi di asservire scienza e natura, dote biologica dell'uomo inclusa, a dinamiche puramente mercantili e di bio-potere. Infatti, proprio il naturalismo critico, ossia post-creazionistico, compatibile con la scienza, ma vigile verso ogni forma di scientismo rozzamente e «scioccamente» (Edelman) riduzionista, non esalta né alcun «orgoglio assoluto della soggettività» (Hegel), né alcuna tracotanza faustiano-predatoria dell'umana volontà di dominio. Al contrario: ci aiuta ad essere più consapevoli almeno della possibilità di un «accordo ragionevole» (Löwith) della nostra mente-volontà con la naturalità delle cose (ecosistemi, biodiversità, animali, natura umana stessa) da cui siamo emersi ed in cui siamo immersi. E forse anche a vivere con accresciuta e solidale sensibilità per le opportunità della contingenza: per l'ineludibile sofferenza e la fragile ma preziosa bellezza di cui la natura pure ci circonda. Una simile antropologia ed etica naturalisticamente ispirate, costituiscono un aborto o il frutto più saggio della nostra stessa capacità-necessità di interagire anche culturalmente con l'ambiente naturale? Certo: nessuno coltiva ingenue aspettative sull'efficacia pubblica delle virtù soltanto terrene di una scepsi filosofica attenta alle ricerche della scienza. Ma è solo grazie ad un simile impegno che si prende finalmente congedo da ogni consolatoria teologia - o filosofia - della storia. Che nasce anche quella non salvifica ma costruttiva, laica sobrietà riformista, richiamata con interesse dallo stesso Ocone. L'unica che abbiamo. Ma della quale è bene non smarrire mai le radici scientifico-filosofiche che più autenticamente ne alimentano la passione.

Repubblica 18.11.06
L'OMBRA LONTANA DI JUNG
Intervista con Mario Trevi
di Luciana Sica


Un analista celebre, a cui viene dedicato un omaggi da molti studiosi e un figlio scrittore che lo interroga
Per affrontare la sofferenza di un paziente occorre una maturità intellettuale
Non c'è un'unica scienza della psiche mentre c'è una sola geologia o sismologia
Non è necessario leggere molto, ma meditare su opere come "Guerra e pace"

ROMA. «Non si potrebbe soprassedere?». Sempre così con lui, con Mario Trevi, quando gli chiedi un´intervista: tra gli analisti è proverbiale l´understatement di questo grande personaggio dello junghismo contemporaneo. Tanto che ormai s´insinua il sospetto di una qualche civetteria.
Alla fine ti dice di sì, per pura cortesia, perché è un uomo di rara gentilezza. Ma di apparire -in un mondo affollato dai presenzialisti -non ne ha mai avuto voglia, tanto meno ora che ha ottantadue anni. È fatto così, Trevi, per indole e per scelta. "Vivi nascosto" è non a caso il frammento che più ama di Epicuro e che ha seguito senza cedimenti, con rigore inflessibile («Altro che filosofo del piacere, i suoi Scritti morali sono di una tale profondità...»).
Quest´intervista, nel suo studio romano ai Parioli, nasce da un libro: Simbolo, metafora, esistenza (Moretti & Vitali, pagg. 344, euro 18). Èuna raccolta di saggi - in suo "onore", così si legge nel sottotitolo - scritti non solo da junghiani di fama come Aversa, Galimberti o Pieri ma anche da un sociologo - oltre che analista - come Trapanese, da psichiatri come Callieri e Ruberto, da filosofi come Catucci, Trincia e da Emilio Garroni -scomparso nell´agosto di un anno fa -che qui firma un lavoro senz´altro "difficile", ma con un incipit affettuoso e per niente supponente: «Il tema che mi propongo di affrontare in questo breve saggio in onore di Mario Trevi, amico carissimo e studioso di prim´ordine, è un tema, spero, che dovrebbe stargli a cuore, almeno per ciò che vorrei dire, non per ciò che riuscirò effettivamente a dire: il rapporto tra percezione e linguaggio».
L´idea di questo "omaggio" è nata intorno a un suo compleanno importante: gli ottant´anni, nell´aprile del 2004. Dica la verità: quanto le fa piacere un libro in cui tanta gente di qualità si occupa di lei?
«Indubbiamente mi fa piacere perché tutti abbiamo un fondo di narcisismo, inseparabile dalla natura dell´uomo. Naturalmente ho dovuto leggerlo, e io leggo con molta lentezza, e devo anche rispondere a ognuno con una letterina circostanziata, cosa che sto ultimando di fare. Ma insomma, alla fine si tratta di un libro voluto da un gruppo di amici...».
Non sono solo "amici", sono intellettuali di provenienza diversa che ragionano sul suo percorso di studioso, sulle sue teorie sempre molto critiche di un certo junghismo deteriore, sul suo modo "relativista" di pensare alla molteplicità dei modelli mentali. Un lavoro rigoroso che intreccia diversi altri saperi, e che infatti non interessa solo gli analisti.
«Lei dice? Non so, magari sanno che esisto... Io poi sono passato dalla fase in cui dicevano a mio figlio Emanuele: ah, tu sei il figlio di Mario Trevi!, alla fase in cui mi dicono: ah, lei è il padre di Emanuele Trevi!».
Un po´ come per gli Ammanniti: il figlio scrittore ormai più "visibile" del padre, per quanto illustre analista. A lei che effetto fa?
«L´effetto di scomparire, molto molto felicemente».
Senza nessuna ambivalenza?
«Nessunissima, ma le pare? Sono così contento! Con Emanuele ho un rapporto di una tale confidenza, di una tale allegria... Ora mi sta "intervistando" per farne un libro: dice di essere già a buon punto, più o meno alla metà. Cosa vuole che le dica, a me lui diverte moltissimo per quel suo umorismo innato che comunica immediatamente con grande facilità e felicità. Io sto proprio bene con Emanuele: questo posso dirlo con tutta sincerità».
Ne parla come di un rapporto idilliaco, ma anni fa non era un po´ preoccupato per quel ragazzo poco tagliato per le regole dell´accademia, che faceva qualche fatica a trovare la sua strada?
«Come dicevano i latini, "le lettere non danno pane". Ma Emanuele si è sempre arrangiato, e ora in questi libri che scrive - io li ho letti tutti, almeno due volte - rintraccio delle cose molto profonde, ma soprattutto mi ritrovo a ridere perché lui riesce sempre a essere ironico anche quando parla di argomenti seri, talvolta persino tragici».
Il vostro libro-intervista com´è nato, di che tratta? Forse di questioni più personali che psicoanalitiche?
«L´idea è venuta a mio figlio, io per la verità all´inizio ho tentato di sottrarmi».
Come sempre.
«Sì, ma lui ha insistito, e con quella sua aria sempre molto scherzosa è venuto qui e mi ha chiesto dell´infanzia, dell´adolescenza, della giovinezza e poi di tutte le vicende che ho vissuto: la tragedia del fascismo, la guerra di liberazione a cui io ho partecipato anche da partigiano. Abbiamo parlato di queste cose, che lui sapeva solo in parte, poi ha sbobbinato i nastri e ora mi dice che sta venendo tutto molto bene... Io in pratica non ne so nulla».
Forse - chi sa - bisogna intervistarlo un padre come lei per averne una conoscenza più profonda.
«Forse... Per onestà, so che ci sono degli argomenti di cui Emanuele parla solo con la madre: cose intime, che riguardano la sua vita emotiva. Ma con me c´è sempre stato un colloquio su tutto il resto: mi parla molto di libri, mi dà istruzioni per leggerli, mi parla dei suoi incontri. Ultimamente andiamo spesso insieme nel week-end a Trevignano...».
Dove lei ha una casa sul lago... come Jung!
«Ma che casa? È una capanna di 35 metri quadri, che però - sì - affaccia sul lago. Emanuele l´ha scoperta da poco, gli piace molto e io lì cucino per tutti, la domenica: il sabato no, perché lavoro».
Lei continua a fare il lavoro clinico, e anche a studiare, a scrivere - anche il sabato. Non a caso è "uno studioso di prim´ordine", per dirla con Garroni. Una domanda brutale: non trova che invece molti analisti siano piuttosto ignoranti? Può bastare il sapere specialistico - gli studi di medicina o di psicologia, poi la formazione spesso discutibile di una scuola - perché un terapeuta presuma di esplorare l´inconscio di un paziente?
«Penso ci voglia qualcosa di più. È una vecchia querelle, ma una concezione puramente tecnicistica della psicoterapia non è facilmente difendibile... L´analista medico è svantaggiato, lo diceva già Freud. E il mio maestro, Ernst Bernhard: "mai prima dei quarant´anni", raccomandava - per affrontare la sofferenza psichica di un paziente occorre una maturità intellettuale e soprattutto umana, serve arricchirsi d´altro».
Di che?
«Difficile da dire. Ognuno fa il suo percorso. Certo, alcuni filosofi proprio non si dovrebbero ignorare, ma anche certi sociologi che ci dicono moltissimo perché non si può parlare di un uomo isolato dal suo contesto: l´uomo "è" il suo contesto. Senz´altro potrà servire aver meditato bene su un libro di Tolstoj. Non bisogna aver letto moltissimo, ma essersi soffermati su qualche grande libro, sì. Aver letto bene Guerra e pace è importantissimo, "forma", aver letto Anna Karenina è fondamentale per comprendere la donna e tutti i problemi, ancora attualissimi, della soggezione dell´anima femminile alla prevaricazione maschile... La grande letteratura ha l´ambizione di esplorare completamente l´essere umano, mentre la psicoanalisi - correttamente intesa - ci suggerisce che l´uomo è inesplorabile: il che non significa optare per l´ignoranza, per il negativismo, per lo scetticismo. Significa solo rispettare l´infinità dell´uomo».
Lei tende a collocare la psicoanalisi "dentro" la cultura. È uno studioso libero, indipendente da ogni scuola, sempre aperto al confronto... Che effetto fa a un intellettuale come lei il dogmatismo che ancora caratterizza il mondo analitico?
«Che vuole, c´è chi non proprio non ce la fa a vivere senza una certezza granitica, e che quindi tende a assolutizzare la propria esperienza. Quando uno parte dal presupposto che una dottrina - la "sua" dottrina - è quella che spiega l´uomo non può ammettere facilmente che possano essercene altre».
Azzardiamo un nome: André Green, un analista d´indubbio valore adorato - forse anche un po´ temuto - da tanti suoi colleghi, francesi e italiani. Viene indicato come un "nume tutelare", eppure uno della sua statura trova ancora inaccettabile l´idea che esistano "molte psicoanalisi": e invece questo è ormai un fatto, e da tempo. Non si tratta di un caso esemplare di fondamentalismo intellettuale?
«Ma via, perdoniamolo: in fondo l´importante è che André Green lavori bene e scriva cose che possano essere lette con vantaggio dai giovani, dagli apprendisti stregoni... L´errore diffuso è dovuto alla presunzione, che è stata di Freud e in parte anche di Jung, di considerare la psicoanalisi una scienza della natura mentre invece va correttamente collocata tra le scienze della cultura. Noi non possiamo avere geologie diverse, perché ce n´è una sola, non possiamo avere sismologie diverse, perché la scienza dei terremoti è quella e basta, ma dell´uomo no, non può esserci una scienza unica tanto più tenendo conto che in ogni costruzione psicologica la soggettività del teorico è un aspetto affatto centrale».
Stiamo scivolando in un discorso complicato...
«Sì, davvero troppo. Forse sarebbe meglio lasciar perdere del tutto. Lei in fondo può cavarsela anche solo con un trafiletto in cui si dica: è uscito questo libro inaspettato e forse inopportuno...».

Repubblica 18.11.06
Milano /oggi Un convegno con Cacciari, Olmi e Ravasi
Ma La preghiera è una strana medici
Non può essere una specie di training
Un rito corale in piazza san Pietro
di Massimo Cacciari


MILANO. L´invocazione e il silenzio, lo slancio e l´abbandono, la ribellione e la lode: tante facce di quel fenomeno chiamato "preghiera", che può essere intimissimo o mediaticamente esibito, ma che persiste rimodulandosi di secolo in secolo, di civiltà in civiltà, di credo in credo, suggestionando e afferrando anche chi non crede in un Nume trascendente. Ne ha parlato recentemente il Papa, invitando a riscoprire la preghiera familiare prima dei pasti. Se ne discuterà stamane all´auditorium dell´Assolombarda, a due passi dal Duomo, tra quattro personaggi dalle storie diverse. Il Filosofo e la Badessa, il Biblista e il Regista. L´idea è dell´Associazione medici cattolici e i protagonisti saranno Massimo Cacciari, monsignor Gianfranco Ravasi, il regista Ermanno Olmi e suor Ignazia Angelini.
"Preghiera: medicina dell´anima e del corpo" è il tema del convegno, ma a dissipare qualsiasi impostazione sommessamente utilitaristica interviene suor Angelini, badessa del monastero benedettino di Vivoldone, alle porte di Milano. «Non credo alla preghiera - spiega con pacata determinazione - come espediente per vincere la malattia». Non può essere uno strumento, una tecnica, una specie di training autogeno. Ogni preghiera, afferma, esprime una relazione con Dio, una «relazione vitale» e quando (come l´Angelini) si è spesso accanto a malati terminali, appare chiaro che la preghiera è un movimento che «dall´apparente passività del sofferente porta a una libertà, che si gioca nell´affidamento a Dio». Pregare, anche ripetendo brevi invocazioni, esprime allora il bisogno di immergersi nella «punta dura del dolore» per aprire una breccia, che porti al rapporto tra il cuore della persona e Dio.
C´è un modo diverso di pregare oggi rispetto al passato? Massimo Cacciari sostiene che, invecchiando, è sempre più convinto che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole. Si prega in tanti modi come migliaia di anni fa. In maniera corale, esibita in piazza San Pietro per l´Angelus papale o come nei grandi sacrifici pagani oppure silenziosamente nel proprio intimo. Ci sono anche ragionamenti filosofici - e qui cita il grande filosofo della tarda antichità, Plotino - in cui «la meditazione si fa orazione, preghiera, inno, invocazione gratuita al Dio, quale che sia il suo nome». Semmai c´è un passaggio cruciale su cui riflettere e riguarda il non credente. «Nel non credente - dichiara Cacciari - il pregare coincide con il venire meno della parola. Si svolge il discorso (per chi si arrischia sul serio) finché ci si arresta dinanzi alla Cosa. E allora si tace». La Cosa è lì, si ha un bel storicizzarla, analizzarla. Che si può dire? Niente. Ma questo Niente, soggiunge il filosofo, può suggerire il pensiero che la Cosa c´è ed è bene che ci sia e allora «avrà il timbro della bene-dizione». Oppure qualcuno chi dirà che la Cosa c´è ed è un male e quindi risuonerà la parola della «male-dizione». È la ribellione di Leopardi.
Sul fatto che la preghiera possa riecheggiare nell´urlo di rabbia sono d´accordo due credenti come suor Angelini e monsignor Ravasi. «Pregare, ce lo insegnano i Salmi, è anche imprecare», afferma la badessa. E Ravasi definisce preghiera non solo le parole violente che Giobbe rivolge a Dio («Sei un arciere sadico... sei un generale nemico che mi sfonda il cranio»), ma anche la lotta accanita di Giacobbe contro l´Essere misterioso, che poi era Jahvè.
Per il biblista le sfaccettature della preghiera sono tante. La preghiera è come respirare, lo diceva già Kirkegaard. «Non c´è perché. Perché respiro? Se non lo facessi morirei». Preghiera è la ribellione. Preghiera è il pensare. Pregare, infine, è anche uno slancio d´amore. Ravasi cita incantato un verso della mistica araba Rabia dell´VIII secolo, nata a Bassora: «Mio Signore, in cielo brillano le stelle, gli occhi degli innamorati si chiudono e ogni donna innamorata è sola con il suo amato. E io sono sola qui con te, o Signore».
Alla fine non conta nemmeno tanto il confine - così illusorio - tra chi si dice credente e chi si proclama non credente. Ciò che incide davvero è l´apertura a interrogarsi sul senso ultimo delle cose. Racconta Ermanno Olmi, il regista indimenticabile di tanti film, dal Posto all´Albero degli zoccoli, di aver visto parecchi non credenti «compiere gesti d´amore, e dunque di preghiera, più di molti che si dichiarano platealmente e solennemente credenti». La preghiera, spiega, nasce da un senso di smarrimento, quando si avverte che la razionalità e le spiegazioni scientifiche non bastano. «Si arriva a uno spazio - dice Olmi - non contaminabile dal pensiero umano». E ci si arriva in tante forme. Ricordando le preghiere dell´infanzia, i canti religiosi, il suono delle campane, formulando frasi proprie: «essendo confusi e accettando di sentirsi così». «Quando mi dicono "Prega tu, perché non so pregare" - ricorda suor Angelini - io replico: prego con il tuo non saper pregare». Si riesce ancora a pregare in questo tempo così frammentario? Ravasi ne è certo. A patto che non si rimuova il dolore e si abbia il coraggio di porsi domande e non si affoghi nell´unico, tragico a-teismo: la banalità dell´indifferenza.

Repubblica 18.11.06
LE PAROLE INCANDESCENTI
A Rabat le giornate mondiali della filosofia
Su alcuni concetti fondamentali, come laicità, democrazia, o libertà non c'è affatto concordia multiculturale
La star è Abed Al-Jabri, autore di una vasta critica della "ragione araba" e fautore del dialogo
di Giancarlo Bosetti

RABAT. È Al-Jabri la star di queste giornate mondiali della filosofia che mettono in scena la "missione impossibile" dell´Unesco, quella di realizzare un dialogo interculturale e interfilosofico su scala globale, dall´estremo oriente agli Stati Uniti, passando per il mondo islamico. Mohammed Abed Al-Jabri è l´autore di una vasta critica della Ragione araba (edito da Feltrinelli). Il grande vecchio della cultura del Magreb riceve l´omaggio di un auditorium affollatissimo di insegnanti, studenti, filosofi di tutto il mondo, autorità di governo, e lo riceve insieme alla memoria di Hannah Arendt, che viene "geopoliticamente" associata nel centenario della nascita all´omaggio: un´icona della cultura ebraica accanto a una della cultura araba.
Le poche e brevi parole di ringraziamento sono dedicate al suo paese, il Marocco, ad Averroè, pioniere medievale del dialogo tra le culture. E sono contro l´estremismo. È un buon baricentro Al-Jabri, dal quale inquadrare la battaglia sulle parole della filosofia che riempie quella conversazione competitiva che è la filosofia nel mondo contemporaneo. Una competizione che si fa più o meno cattiva seguendo maggiormente gli umori della politica internazionale che gli alti e bassi della produzione teorica. È lui che insegna a combattere l´estremismo e anche a riconoscere l´insidia che confonde una religione con l´uso politico che se ne fa. Una certa dose di estremismo è inevitabile - è la sua tesi - in qualunque società, è un dato quasi fisiologico con cui si impara a convivere, ma ce n´è un´altra forma, più pericolosa, che riesce a coinvolgere, in certi periodi, l´insieme della popolazione, sfruttando la sua capacità di rappresentare esigenze sociali ed economiche legittime. I gruppi estremistici parlano a nome di queste popolazioni e cercano spazio in sistemi autoritari, con forti ingiustizie e disuguaglianze sociali, che non consentono l´affermazione di opposizioni politiche. Chiusa la strada del conflitto politico democratico, l´estremismo utilizza il capitale simbolico della religione che è accessibile a tutti e difficile per il potere da soffocare. Al-Jabri ha descritto la dinamica che ha messo i vestiti dell´Islam ai movimenti radicali del mondo arabo. Un processo che apre la strada a infinite contestazioni filosofiche intorno ad alcuni concetti fondamentali per qualunque confronto filosofico, cominciare da "secolarismo" e "laicità", "democrazia" e "libertà", "universalismo" e "comunitarismo".
La laicità acquista colori cangianti in una parte del mondo se solo si pensa che in molti paesi arabi e musulmani può capitare di finire fuori dello spettro tollerabile per molti regimi - e dunque anche in carcere - sia per "eccessi" di laicità che per "eccessi" di religiosità, per le stesse ragioni per cui in certi periodi e situazioni il velo è prescritto dal regime come obbligatorio (Teheran oggi) ed in altri periodi e situazioni il velo non lo è affatto o è sgradito al potere o - come è accaduto in passato in Iran - è stato addirittura bandito. Si capisce che "secolarizzazione" diventa un concetto assai meno univoco di quanto non si aspetti un europeo che entri nel dialogo, forte di idee formate sul classico schema di Max Weber - crescita economica, benessere, emancipazione culturale, disincanto e declino della religione -: già nel confronto con la cultura e la storia americane questo schema non si armonizza con il boom del neo-evangelismo. In tutto il mondo musulmano quello schema deve per di più fare i conti con i movimenti politico-religiosi integralisti e neotradizionalisti, da Hamas ai Fratelli musulmani e alle molte altre simili formazioni.
Buona parte del problema deriva dal fatto che le ingiustizie e la povertà di cui queste società soffrono vengono viste come la conseguenza di regimi politici autoritari che si definiscono "secolari" e sono a volte alleati con l´Occidente e con gli Stati Uniti. Da qui il salire e lo scendere del termometro intorno alla parola "secolare". Fino a poco tempo fa parola amata dall´élite politica egiziana, ma ora un po´ meno, perché nel periodo più recente - la situazione evolve in tempi rapidi - lo stesso aggettivo è diventato poco utilizzabile perché troppo impopolare.
Ultimamente gli intellettuali vicini alle posizioni del governo di Mubarak si definiscono non più "secolari" ma "civili".
Si capisce che un congresso mondiale di filosofia fatica a trovare definizioni univoche, perché sono semplicemente impossibili, anche se i neoilluministi possono segnare qualche punto a vantaggio dell´universalismo kantiano, per il fatto stesso di provarci attraverso organismi politici internazionali; o per il fatto che in Algeria esca un numero monografico della rivista Eis (Essere) in arabo, dedicata a Kant. Ma anche "universalismo" è parola contestata. Anche se gli stessi organismi dell´internazionalismo istituzionale dell´Onu ne portano le insegne (sono tutti figli della Società delle nazioni e del messaggio kantiano di Per la pace perpetua). Nel mondo diviso da abissali differenze Nord-Sud e Est-Ovest è necessario che il concetto viaggi accompagnato da agettivazioni: "universalismo non coloniale". Perché dietro ogni "universalità" generica, lo sguardo allenato dei professori di filosofia dell´ex Terzo Mondo vede una insidiosa possibile fregatura. Piacciono, nelle tavole rotonde, gli interventi che mettono in guardia contro gli effetti perversi della liberalizzazione e della economia di mercato. I nomi occidentali che ricorrono, insieme ai classici, sono quelli di Edgar Morin, Jacques Attali, Ignacio Ramonet, Robert Reich, George Soros, e soprattutto Amartya Sen, di cui si cita molto L´economia è un scienza morale. Ha uditorio globale chi rende il suo sguardo globale e alza gli occhi sulla "misère du monde". L´avversario più citato di tutto l´universo arabo e post-coloniale: Samuel Huntington.
Giuliano Amato, a Rabat una eccezione - politico tra i filosofi - sollecita l´uditorio sulla "multireligiosità", dimensione largamente nuova, alla quale il mondo contemporaneo costringe società e stati per lo più abituati a una dimensione mono-etnica e monoreligiosa. Il secolarismo che contava sulla uscita di scena della religione, o su una netta e definitiva separazione che confinasse la religione nella sfera privata, non ce la fa da solo di fronte alle sfide della scienza e delle armi di distruzione di massa. Ma per una convivenza nella pluralità servono comuni principi. Si apre la scena delle società "post-secolari".
Nonostante il concetto sia stato inaugurato, due anni fa, da figure di peso sulla scena filosofica mondiale - come Jürgen Habermas e il cardinale Ratzinger, che sono comunque un prodotto culturale dell´Occidente - è troppo presto per immaginare che l´idea faccia fortuna e scavalchi le linee di tensione.
Parola controversa, molto, anche "democrazia". C´è chi la vuole coniugare a oltranza adattandola alle culture e chi insiste invece che i requisiti minimi siano universali. C´è chi invita a distinguere: quale democrazia? C´è la liberal-democrazia, la socialdemocrazia, la democrazia comunitaria. C´è un filosofo magrebino che mette in guardia contro una democrazia prêt-à-porter. Un turco che lo conosce bene commenta: «Lo capisco, qualche mese fa volevano arrestarlo». Sui requisiti minimi - in carcere per le idee fastidiose mai - si converge "universalmente".
Si cita John Dewey: la democrazia non è solo un sistema di regole ma una way of life. Presuppone tante condizioni perché si possa impiantare un sistema rappresentativo.
Sugli "ismi" c´è pure un´enorme contestazione. Se ne fa interprete Bensalem Emmich, scrittore e filosofo marocchino, nella relazione generale di apertura: non ci stiamo all´idea che Islamismo voglia dire estremismo islamico mentre Cristianesimo sia semplicemente l´astratto di cristiano. E così pure ebraismo. Non è un gioco alla pari. Poi non sono le religioni che uccidono, non sono le culture, sono dei gruppi umani. Mette meglio a fuoco il tema Sadik Al-Azm, siriano: nessuno può attribuire le stragi della notte di San Bartolomeo al Cristianesimo, ma alla cristianità sì.
Gruppi umani e religioni. Distinguiamo, seguono infinite messe a punto che dovranno essere regolate in tante lingue.

La Stampa TuttoLibri 18.11.06
Jung, il conflitto viaggia per posta
Dal 1906 al 1961, la prima edizione completa dell’epistolario: un uomo irritabile, sarcastico, all’occasione tagliente, mai diplomatico Peccato che la traduzione in genere sia piatta,sfocata
di Augusto Romano


UNA vita senza contraddizioni interiori è solo la metà della vita, o una vita nell'aldilà che però è destinata solo agli angeli. Dio, però, ama gli uomini più degli angeli». E per chi non avesse capito: «Non si può sfuggire al conflitto senza al tempo stesso sfuggire anche alla vita». Da cui discende che «solo i folli aspirano alla saggezza». Dare notizia di un epistolario come quello di Jung, che supera le mille pagine, espone a un piccolo delirio di onnipotenza. E' come percorrere un territorio che si estende a perdita d'occhio, nel quale allignano le piante più svariate: un'intera serra, ma disordinata, curata da un eccentrico giardiniere che ha accostato colori e odori secondo criteri ignoti a lui stesso. Facile dire che questa è una metafora della vita, della sua imprevedibilità. Ma una raccolta di lettere non è la vita, è un compendio in parte casuale della vita; non necessariamente un concentrato, piuttosto una selezione insieme pregnante ed elusiva. Sta a noi scegliere fior da fiore, ricostruire secondo il nostro gusto quella vita, legittimare un arbitrio che per un istante ci fa sentire creatori: da cui appunto il delirio di onnipotenza. Io ho scelto di seguire il filo del conflitto, di cogliere in questo epistolario, che si estende dal 1906 al 1961, i segni di uno spirito che raramente si accontenta di osservare le cose del mondo con lo sguardo dello spettatore disinteressato, e invece sempre vi entra dentro, si interroga e interroga, senza mai eludere il contrasto con gli altri e con se stesso. Se poi si conoscono la curiosità insaziabile e l'incredibile laboriosità di Jung non desterà stupore la varietà degli interessi che queste lettere documentano, spaziando, tanto per esemplificare, dalla epistemologia alle vicende politiche del '900, dall'impiego degli allucinogeni al significato dell'esperienza religiosa, dalla storia della cultura ai problemi posti dall'inseminazione artificiale, dai rapporti tra la fisica contemporanea e la psicologia alla interpretazione dei fenomeni paranormali, dai giudizi spesso molto spregiudicati su personaggi quali Einstein, Heidegger, Joyce, Picasso ai rapporti tra Oriente e Occidente. A cui vanno ovviamente aggiunti sintesi, chiarimenti, amplificazioni relative ai temi di interesse più professionale: i rapporti con Freud, la cura dei pazienti, i concetti fondamentali della psicologia analitica e, su un piano più personale, abbozzi di diagnosi, interpretazioni di sogni, consigli e suggerimenti. Come si vede, questo è un epistolario impegnato e nient'affatto «mondano»: l'Autore prende invariabilmente sul serio gli argomenti che di volta in volta emergono e li problematizza, evitando così di banalizzarli, sostenuto dal sentimento di stare svolgendo un compito necessario, che è caratteristico di tutti gli uomini molto creativi. Un epistolario dunque centrato più sui contenuti che sulle persone, avaro di confessioni intime, diffidente nei confronti delle seduzioni estetiche, costantemente sostenuto da un afflato etico che però mai si traduce in atteggiamenti dommatici o in movenze paludate. Torniamo ora al tema del conflitto. Ne segnalerò uno, che mi sembra centrale. Jung si muove impavidamente tra due istanze contrapposte. La prima lo vuole scienziato empirico, attento ai fatti e alle verifiche, antimetafisico e, a modo suo, illuminista. La seconda rappresenta invece una spinta visionaria, il desiderio di trascendere il visibile per sporgersi sull'ignoto, un ignoto indimostrato (forse indimostrabile) ma in grado di afferrare l'anima, di suscitare emozioni e trasformazioni interiori. Le dispute, qui ampiamente documentate, con i molti teologi che gli scrivevano sono un esempio di questo contrasto. Jung, da buon kantiano, sosteneva che la parola Dio designa un'immagine e un'emozione ma niente di cui si possa dichiarare la realtà «oggettiva», esterna alla psiche. Naturalmente i teologi, arrabbiatissimi, lo accusavano di ateismo e di psicologismo: da inguaribili letteralisti non sapevano che farsene di un Dio insediato nell'immaginazione dell'uomo e non nell'alto dei cieli. Al che Jung replicava appassionatamente che per lui l'immagine di Dio era importantissima, in quanto simbolo della totalità, di quell'unione di conscio e inconscio che egli chiama Sé e nel quale è racchiuso il supremo significato dell'esistenza. La cosa era poi complicata dal fatto che Jung sosteneva tranquillamente che anche il male, il diavolo, sono compresi nell'esperienza della divinità, e che dunque la teoria agostiniana del male come privatio boni era una edulcorazione della verità, un espediente eufemistico: insomma, un'emerita sciocchezza. Un dialogo tra sordi, ovviamente, non privo a volte di spunti divertenti. Va anche detto che in queste diatribe Jung dà il meglio di sé come polemista e si produce a volte in degli «a fondo» da cui emerge la sua natura di uomo irritabile, combattivo, sarcastico, all'occasione tagliente, mai diplomatico o conciliante. Jung è uno che va sempre al sodo e mostra una vera idiosincrasia per i giochi di parole, cioè per l'uso delle parole al posto dell'esperienza. E' qui che risiede la sua moralità, che è anche indifferenza ai luoghi comuni e alle mode culturali, e rispetto per ciò che ha solide fondamenta nella tradizione. Chi oggi è ancora capace di parlare della cultura occidentale come di una realtà unitaria, di cui comunque essere orgogliosi, pur riconoscendone limiti e pecche? Sono discorsi di un'altra generazione, quella appunto di Jung (e di Thomas Mann), di cui si va perdendo la memoria. E anche degli epistolari la memoria si perderà. I nostri nipoti leggeranno raccolte di «messaggini» scaricabili da Internet. Veniamo adesso alle dolenti note. La traduzione è generalmente piatta, sciatta, sfocata. Sin qui, pazienza; non tutto si può avere a questo mondo. La cosa diventa inquietante quando ci si accorge che spesso, troppo spesso, essa appare incomprensibile, oppure fuorviante, o redatta in un italiano approssimativo e deragliante. Talora con effetti esilaranti. Sorge spontanea la domanda: perché mai un editore rende in gran parte vano l'impegno profuso nel pubblicare un'opera di questa importanza, tralasciando di curare in forma sia pur minima il cosiddetto editing? Le lettere di Jung sono interessantissime. Ma chi può le legga nell'edizione tedesca, inglese o francese.

La Stampa TuttoLibri 18.11.06
Caro Joyce, mi sono smarrito nel labirinto del suo «Ulisse»
To James Joyce
Zürich, 27.IX.1932


DEAR Sir, il suo Ulysses ha presentato al mondo un problema psicologico talmente sconvolgente che più volte sono stato interpellato in proposito come presunta autorità in materia psicologica. Ulysses si è dimostrato una noce estremamente dura e ha costretto la mia mente non solo agli sforzi più inusuali, ma anche a peregrinazioni alquanto stravaganti (parlando dal punto di vista di uno scienziato!). Nel complesso il suo libro mi ha dato guai a non finire e ci ho pensato sopra per circa tre anni prima di riuscire a immergermici. Devo dirle però che sono estremamente grato a lei e al suo gigantesco opus poiché da esso ho imparato molto. Probabilmente non sarò mai del tutto sicuro di averlo goduto, poiché ha implicato troppa fatica di nervi e di materia grigia. Neppure so se le farà piacere ciò che ho scritto sull'Ulysses, poiché non ho potuto far altro che dire al mondo quanto mi ha annoiato, quanto ho brontolato, quanto ho imprecato e quanto l'ho ammirato. Le quaranta pagine senza sosta del finale sono una serie di autentiche meraviglie psicologiche. Suppongo che la nonna del diavolo sappia così tanto della vera psicologia di una donna, io no. Be', provo soltanto a raccomandarle il mio piccolo saggio, come un tentativo divertente di un perfetto estraneo che si è smarrito nel labirinto del suo Ulysses e al quale è capitato di uscirne per pura fortuna. In ogni caso dal mio articolo può apprendere che cosa il suo Ulysses abbia fatto a uno psicologo che si suppone sia equilibrato.

NON C’È UN’UNICA VIA
Svizzera, 15.XII.1933

CARA Signora R., non è possibile una risposta alle sue domande, poiché vorrebbe dire sapere come si deve vivere. Si vive come si può vivere. Non c'è un'unica via determinata per il singolo che gli sia prescritta o sia adatta a lui. Se lei vuole questo, il meglio è per lei entrare nella Chiesa cattolica, ove le sarà detto hop e arri. Per di più è una via che si accorda allo schema della via media dell'umanità in generale. Se invece vuole percorrere la via individuale, questa è la via che lei stessa traccia, che non è prescritta in nessun luogo, che non si conosce in anticipo e che nasce solo da se stessi, quando si fa un passo dietro l'altro.

LA COLPA DEI TEDESCHI
Al dott. Hermann Ullmann
Ginevra, 25.V.1945

PURTROPPO, il concetto cruciale di colpa collettiva è rimasto inascoltato e sembra per lo più aver suscitato scandalo. La colpa collettiva della Germania consiste nel fatto che sono stati senza dubbio i tedeschi a provocare la guerra e gli orrori dei campi di concentramento. In quanto erano tedeschi e ciò è accaduto all'interno dei confini della Germania, tutti i tedeschi sono macchiati da quegli eventi. [...]Questa colpa collettiva non è una costruzione morale o giuridica, bensì una realtà psicologica che, come tale, è irrazionale; in altre parole, se quelle cose fossero avvenute in Svizzera e io varcassi il confine francese con un passaporto svizzero, e il funzionario francese facesse la gentile osservazione: «Oh, un cochon de Suisse», la considererei una cosa naturale e logica. Ora sarebbe auspicabile che i tedeschi potessero prendere a cuore questa realtà e non incorressero nell'errore tattico di insistere sempre sul fatto che nessuno sapeva nulla di quei campi di concentramento, che nessuno avrebbe potuto fare nulla in contrario ecc. E' e resta una realtà che queste cose sono accadute in Germania e che sono stati dei tedeschi a farle. Ovviamente sappiamo tutti che in Germania c'era anche gente che soffriva per queste cose e che ha lottato contro di esse. Sarebbe però importante che i tedeschi in generale riconoscessero la propria colpa e non la scaricassero sugli altri.

DICO NO AL SUICIDIO
A un destinatario anonimo
Germania,10.VII.1946

L’IDEA del suicidio, per quanto umanamente comprensibile, non mi pare consigliabile. Viviamo per raggiungere il massimo livello di sviluppo e di consapevolezza. Finché la vita è in qualche modo possibile, anche se in misura minima, bisognerebbe perseverare per sfruttarla appieno allo scopo di diventare consapevoli. Interrompere la vita prima del tempo significa far cessare un esperimento che non abbiamo allestito noi. Ci siamo trovati in mezzo ad esso e dobbiamo continuare fino in fondo.

IL TERAPEUTA DEVE CURARSI
al dott. Richard O. Preiswerk Egitto, 21.IV.1947

NON è possibile imparare a memoria una qualche ricetta e poi utilizzarla in modo più o meno appropriato, ma si può curare qualcuno solo partendo da un punto centrale; ciò significa concepire il malato come un tutto dal punto di vista psicologico e avvicinarsi a lui umanamente, mettendo per quanto possibile da parte qualsiasi teoria e fondamentalmente ascoltando con attenzione ciò che ha da dire. [...]Naturalmente è indispensabile che lo psicoterapeuta possieda un certo grado di conoscenza di sé, perché chi non capisce se stesso non può neppure capire gli altri e di conseguenza non può essere efficace dal punto di vista psicoterapeutico se prima non si è curato con la stessa medicina. Altrimenti vuol dire che non sa quello che fa.

IL PROPRIO DESTINO
To Father Victor White
Bollingen, 10.IV.1954

QUANDO si cerca la consapevolezza non esiste mai una certezza assoluta. Il dubbio e l'incertezza sono componenti indispensabili di una vita completa. Solo chi è davvero disposto a perdere la propria vita la guadagnerà. Una vita «completa» non consiste in una completezza teorica, ma nell'accettare senza riserve la trama del proprio destino, nella quale ci vediamo intessuti, e nel cercare di estrapolare un senso creando un cosmo dal caotico disordine nel quale siamo nati.

LA PAURA DEL SILENZIO
Al prof. Karl Oftinger
Zurigo, settembre 1957

NEL silenzio, l'ansia spingerebbe la gente a riflettere, e non si può prevedere che cosa arriverebbe alla coscienza. La maggior parte delle persone ha paura del silenzio, per cui quando viene meno il rumore continuo, per esempio di una conversazione, bisogna sempre fare, dire, fischiare, cantare, tossire o mormorare qualcosa. Il bisogno di rumore è quasi insaziabile, anche se a tratti il chiasso ci sembra intollerabile. E' però sempre meglio che niente. In quello che viene significativamente chiamato «silenzio di tomba» ci sentiamo a disagio. Perché? Forse ci sono i fantasmi? Non credo. Ciò che davvero temiamo è quello che potrebbe provenire dalla nostra interiorità, e cioè tutto quello da cui cerchiamo di tenerci lontani con il rumore.