sabato 2 luglio 2011

Bersani: Ma è il segretario del partito o è il segretario del premier?
Io non conosco una democrazia al mondo nella quale i segretario di un partito venga eletto con un applauso


La Stampa 2.7.11
Giovani e disoccupati Record dei senza lavoro
L’Istat: sono il 29,6% degli under 24, picco fra le donne al Sud
di Luigi Grassia


L’ Istat pubblica i nuovi numeri sul lavoro, e le rilevazioni riguardano due periodi dall’andamento discontinuo: ci sono i dati finali del primo trimestre del 2011 (alcuni persino positivi) e a seguire quelli provvisori relativi al mese di maggio (di nuovo in peggioramento). Ma nel complesso prevalgono le brutte notizie, e anche fra gennaio e marzo spicca il record della disoccupazione giovanile al 29,6%, contro il 28,8% del corrispondente periodo di un anno fa. Ancora peggio è andata a chi ha fra i 15 e i 24 anni al Sud, perché così la quota dei senza lavoro nel primo trimestre sale al 40,6%, e fra le donne del Mezzogiorno si è registrato addirittura un picco del 46,1%.
Per quanto riguarda la generalità dei lavoratori, a prescindere dall’età e dal sesso, qualche schiarita si segnala nei dati che l’Istat ha diffuso ieri a sul primo trimestre, visto che c’è stata una riduzione del 5,2% sullo stesso periodo del 2010, pari a -118.000 unità, e questo non succedeva dall’inizio del 2008. Però questi numeri sono nati vecchi, perché i dati parziali del secondo trimestre segnalano già un’inversione di tendenza, infatti nel mese di maggio il numero complessivo dei disoccupati è tornato sopra la soglia dei 2 milioni, precisamente a quota 2,011 milioni, registrando un aumento rispetto ad aprile dello 0,8% (+17 mila unità, con aumento della componente maschile e diminuzione di quella femminile).
D’altra parte la lettura dei dati non risulta tutta sfavorevole, perché nel confronto su base annua (cioè con maggio 2010) il numero dei disoccupati in Italia diminuisce del 6,5% (-139 mila unità). Insomma la situazione è mossa, come capita tipicamente in una ripresa che però è segnata da molte incertezze e non si decide a prendere un indirizzo definito. Intanto troppe persone restano nel limbo.
Nel primo trimestre il tasso di disoccupazione è stato dell’8,6% rispetto al 9,1% del primo trimestre 2010 e la flessione è stata più accentuata per le donne (-0,9%) che per gli uomini (-0,2%). Ma il miglioramento è depotenziato dalla crescita parallela della popolazione inattiva, composta da coloro che cercano lavoro ma non attivamente (+79.000 unità) e da quanti non lo cercano e non sono disponibili a lavorare (+61.000).
Se si fotografano le cifre più recenti, quelli di maggio (stima provvisoria dell’Istat su dati destagionalizzati), il tasso di disoccupazione sale all’8,1%, con un aumento di 0,1 punti percentuali rispetto ad aprile, ma in calo su base annua di 0,5 punti (cioè a maggio 2010 era pari a 8,6%). Il tasso di disoccupazione maschile aumenta di 0,2 punti percentuali rispetto ad aprile, ma diminuisce su base annua (-0,2%) a quota 7,4%. Il tasso di disoccupazione femminile è pari al 9%, in calo rispetto ad aprile di 0,1 punti, mentre in termini tendenziali c’è una diminuzione dell’1%.
Guardando alle cose dal punto di vista dell’occupazione (anziché della disoccupazione), il tasso degli occupati a maggio è pari al 56,9%, in crescita rispetto ad aprile dello 0,1% e stabile rispetto a maggio 2010 (67,4% per gli uomini e 46,5% per le donne). In numeri assoluti, a maggio 2011 gli occupati sono 22,914 milioni, in aumento dello 0,1% (+21 mila unità) rispetto ad aprile. Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione cresce dello 0,2% (+34 mila unità) e l’aumento è dovuto tutto alle donne.

l’Unità 2.7.11
Intervista a Chiara Saraceno
L’Italia è ormai incapace di usare il suo capitale umano
La sociologa denuncia «l’irresponsabilità della manovra economica, non c’è nulla per i giovani e le donne che continuano ad adattarsi a tutto»
di Laura Matteucci


L’unico segnale non negativo è la lieve diminuzione della disoccupazione, soprattutto femminile. Per il resto si confermano dati disastrosi: quello sulla disoccupazione giovanile, di dieci punti percentuali più alta rispetto alla media europea, peraltro già elevata, e quello sulle donne disoccupate nel sud. Tra quante cercano lavoro, che già sono poche, praticamente la metà è disoccupata». Da Berlino, la sociologa Chiara Saraceno commenta i nuovi dati Istat su occupazione e (soprattutto) disoccupazione italiana, che ce ne fosse bisogno riportano alla realtà del Paese all’indomani di una manovra che lei stessa definisce «scandalosa nella sua totale irresponsabilità». Nuovi dati, in realtà sempre gli stessi: ormai la situazione è sclerotizzata.
«L’Italia è un Paese che non è in grado di utilizzare il proprio capitale umano, e che esclude una parte significativa della popolazione, impossibilitata a rendersi autonoma, a fare progetti per il futuro. Abbiamo la più alta percentuale in Europa di giovani che non sono impegnati nè a scuola nè al lavoro. Quello che sconvolge è il fatto in sè, e anche che non riesca ad entrare nell’agenda politica del governo. Che non venga considerata una priorità». I ministri Sacconi e Brunetta hanno più volte liquidato la questione sostenendo che i giovani non si vogliono adattare. «Si adattano eccome, moltissimi sono precari, tanti occupati in finti stage e lavori molto meno qualificati di quelli per i quali hanno studiato, e tutti sono sottopagati. Ricordo anche che i salari d’ingresso in Italia sono tra i più bassi d’Europa. Si può casomai dire che c’è ben poca coerenza tra formazione e domanda di lavoro, ma questo è un altro problema». Che cosa c’è nella manovra di contrasto a questa situazione?
«Assolutamente nulla. Questa manovra è a futura memoria, e con un’operazione scandalosa tipicamente all’italiana rimanda ad altri ogni responsabilità. Se gli interventi sono urgenti e decisivi per i nostri conti pubblici, bisogna cominciare ad attuarli subito, seppure con gradualità. Invece qui l’unica cosa chiara è che si scarica tutto sui più deboli, con i tagli alla scuola, il blocco degli stipendi degli insegnanti, che ovviamente va a colpire soprattutto le donne, e con la stangata su Comuni e Regioni, usati come cassa di compensazione. Le misure più incisive sono proprio quelle che affidano ai Comuni il ruolo del cattivo. Il governo scarica la rabbia dei cittadini sui governi locali, ed è particolarmente spudorato perchè da un lato proclama il federalismo, mentre dall’altro, oltre all’Ici, toglie ai Comuni qualsiasi possibilità di autonomia. Questo significa colpire non solo l’organizzazione delle famiglie, ma soprattutto i più giovani e i più svantaggiati». È una manovra per galleggiare aspettando Godot?
«È la manovra di un governo che non sa dove andare. Non c’è una sola idea di come si riprendano i consumi, l’occupazione, la crescita. Non hanno avuto nemmeno il buon gusto di ridursi qualche privilegio, rimandando anche questo ai posteri. Questa è la cifra della classe politica che ci governa. Vorrei almeno vedere l’opposizione dare battaglia per una riduzione, anche solo del 10% degli stipendi dei parlamentari, o contro il vitalizio. Come si fa a non farlo, di fronte a milioni di persone che vivono con mille euro al mese, e anche di meno?».

l’Unità 2.7.11
Riparliamo di legge 40
Fecondazione assistita, rompiamo il silenzio
di Maurizio Mori


La legge 40/2004 e il    fallimento del successivo referendum hanno cancellato dalla rubrica culturale italiana il tema della fecondazione assistita. Prima al riguardo c’era curiosità e interesse per le novità in questo ambito e le nuove opportunità venivano considerate e discusse. Da dopo il referendum non se ne parla più. Si è come dimenticato che la fecondazione assistita allarga i confini della riproduzione e rende possibile nuove pratiche e opportunità, come quella di rendere evitabili molte malattie o di avere gravidanze post-menopausa o anche di dare figli agli omosessuali.
A tale proposito, è facile prevedere che la recente legalizzazione dei matrimoni omosessuali nello Stato di New York avrà effetti sulla vita sociale di tutto il mondo occidentale compreso quello dell’ammissione di nuove forme di riproduzione assistita. È chiaro infatti che gli omosessuali vogliono avere figli grazie alle nuove tecniche riproduttive.
In un mondo che cambia, discute, evolve, anche l’Italia dovrà prima o poi rivedere radicalmente la legge 40/2004 che ha regolato in modo restrittivo la fecondazione assistita, provocando disastri gravissimi. Molte coppie hanno rinunciato ad avere figli, mentre altre per averli sono dovute andare all’estero con disagi notevoli e talvolta anche con guai seri. Ma gli effetti deleteri della legge 40 non riguardano solo il piano pratico, quello che tocca la vita della gente direttamente, ma si estendono anche e forse soprattutto sul piano teorico e filosofico, che determina il quadro delle nostre scelte di fondo.
È urgente riprendere il discorso culturale sulla fecondazione assistita per cercare di sanare i disastri inflitti dalla legge 40 e dalle altre vicende. Oramai sul piano pratico
la legge è già stata in gran parte smantellata dalla corte Costituzionale e bisogna riconoscere alla Magistratura di fare molto per l’ammodernamento del Paese. Qualcos’altro può venire dall’Europa, ma altrettanto importante è il lavoro culturale per rilanciare l’idea che la libertà riproduttiva è un diritto fondamentale della persona e che avere figli è qualcosa che dipende da tale diritto. Questo può poi essere integrato e sostenuto dal diritto alla salute in alcuni casi specifici ma la scelta di ricorrere alla fecondazione assistita non può diventare un mero capitolo dell’assistenza sanitaria. Oggi in Italia per avere un figlio grazie all’assistenza medica un cittadino deve andare prima dal giudice e poi, se mai, dall’operatore sanitario. Bisogna che l’opzione di fecondazione assistita sia riconosciuta come libertà di scelta garantita da un diritto fondamentale del cittadino a prescindere dall’orientamento sessuale.

l’Unità 2.7.11
Festa Pd immigrazione
Regola numero uno: se nasci in Italia sei cittadino italiano
di Livia Turco


L’Italia della convivenza si incontra a Cesena, nella seconda Festa Nazionale del Pd sull’Immigrazione per discutere l’agenda di una società più giusta e più sicura. Sono le donne e gli uomini, soprattutto i giovani, italiani e nuovi italiani che hanno sperimentato la fatica ma anche la bellezza della mescolanza e che vogliono che essa diventi un tratto dell’Italia normale. Dobbiamo imparare a vivere insieme perché mescolati si vive meglio: questo è il messaggio che proponiamo. Imparare a vivere insieme è un ingrediente fondamentale della riscossa civica di cui il nostro Paese ha bisogno e che ha cominciato a soffiare con prepotenza, come dimostrano gli esiti del referendum e delle elezioni amministrative. La vittoria del centro-sinistra in città cruciali del nord come, Milano, Novara, Torino, è anche la vittoria della convivenza e della mescolanza sulla paura. Dice che le forze progressiste devono con determinazione costruire la società della convivenza, combattere la paura con una politica della speranza.
C’è già un’Italia della convivenza e a Cesena si esprimerà attraverso i giovani, le donne, i lavoratori, gli imprenditori, gli amministratori locali, i politici, gli scrittori, i cantanti, gli insegnanti, gli animatori sportivi. Questa Italia profonda ma ancora troppo nascosta ci dice una cosa importante a proposito di crisi del multiculturalismo e di modelli di integrazione. Ci dice che la strada per costruire la convivenza è l’adesione a comuni principi costituzionali, è quella di persone diverse che si uniscono per fare delle cose insieme, per costruire insieme qualcosa di utile a tutti. Ciò richiede un impegno individuale nel proprio luogo di lavoro, di studio, di preghiera. E richiede un progetto e una proposta politica, quella che noi nella prima Conferenza Nazionale del Pd sull’Immigrazione abbiamo chiamato «L’alleanza tra italiani ed immigrati per un’Italia migliore». L’alleanza per una nuova cittadinanza europea, per politiche di co-sviluppo, per la dignità del lavoro, per la scuola di tutti e per tutti, per un welfare per le sicurezze per tutti, per una democrazia inclusiva.
In questo contesto assumono grande rilievo le proposte che discuteremo a Cesena per l’Europa, per il lavoro, per nuove modalità di ingresso, per la scuola interculturale, per come combattere in modo efficace l’immigrazione clandestina, per promuovere politiche di cooperazione allo sviluppo. A Cesena diremo NO con tutto il nostro sdegno alle politiche del governo, in particolare quelle che chiudono in carcere gli innocenti. perché questo è l’esito concreto del trattenimento fino a 18 mesi di persone che non hanno commesso reati ma che sono prive di documenti.
A Cesena ribadiremo che chi nasce e cresce in Italia è italiano. Questa è la nostra bandiera, la nostra battaglia, per questo chiediamo fin d’ora che essa sia la prima riforma che verrà varata nella prima riunione del Consiglio dei ministri del futuro governo di centro-sinistra. Anche per questo sosteniamo le proposte di legge di iniziativa popolare promosse da un largo cartello di associazioni sul diritto di voto amministrativo e per la riforma di cittadinanza.

il Fatto 2.7.11
Ricatto di governo
Il governo salva Telecom e La7 rompe con Santoro
Martedì scorso il governo toglie il controllo della rete telefonica alla compagnia. Giovedì salta l’accordo con il giornalista e, miracolo, il progetto non c’è più
Per l’azienda guidata da Bernabè il controllo dei cavi è più importante dello share, non può rischiare di dar noia all’esecutivo Ma il destino del conduttore resta incerto
Nel giorno del no a Santoro, scompare dalla manovra una norma ammazza-Telecom sulla rete telefonica
di Giorgio Meletti e Carlo Tecce


La metafora di Giovanni Stella, confezionata un mese fa per il Fatto, annunciava la discesa in campo (televisivo) di Telecom: io aspetto paziente sotto il banano-Rai che ne scendano i macachi-conduttori. L’amministratore delegato di Telecom Italia Media rompeva il bipolarismo di Rai e Mediaset: ecco, diceva, La7 è disposta a prendersi il gruppo di giornalisti che il servizio pubblico e il Biscione, per motivi diversi ma di uguale matrice (il Cavaliere), non vogliono e non possono permettersi. Stava nascendo una televisione all’apparenza poco controllabile per il Silvio Berlusconi imprenditore e politico, ma estremamente influenzabile per la sua versione di capo del governo. La trattativa con Michele Santoro era chiusa, mancava un tratto di penna: la firma (alle prime voci, il titolo di La7 crebbe in un giorno del 20%; l’altroieri, al niet, ha perso il 4 e ieri il 3). Martedì scorso, l’ultimo incontro tra l’inventore di Annozero e il dirigente di La7 conosciuto con il soprannome di “canaro” per i suoi modi spicci ed efficaci fino al sadismo. E che succede martedì, proprio quel giorno? Il governo scrive e riscrive e infine diffonde la bozza di manovra economica: tagli, pensioni , tasse e finte rivoluzioni liberali e liberiste. In un articolo del provvedimento, a sorpresa, si materializza il conflitto d’interessi che Santoro ha denunciato ieri nell’intervista al Fatto.
IL GOVERNO, se vuole, può fare male a Telecom, la multinazionale proprietaria di La7. E con una norma, infilata di soppiatto, Palazzo Chigi ha dimostrato come può farle male. La bozza prevedeva un progetto del ministero per lo Sviluppo economico di Paolo Romani: “Un piano di interesse nazionale per il diritto di accesso a Internet”. E come? “Mediante la razionalizzazione, la modernizzazione e l’ammodernamento delle strutture esistenti”. Parole astruse e verbi incrociati per sottrarre a Telecom l’ultimo bene invidiato da tutti i concorrenti: la rete fisica, quella che porta il cavo telefonico in tutte le case e gli uffici, eredità del monopolio pubblico. Il governo pensava di aprire il mercato e le connessioni veloci imponendo “obblighi di servizio universale”.
Tradotto: Telecom investe per migliorare la sua struttura e poi deve metterla a disposizione dei concorrenti. Il governo di lievi e dure sforbiciate, che spinge all’infinito una correzione nel bilancio statale da 47 miliardi di euro, sentiva l’urgenza di ricorrere ai soldi della Cassa depositi e prestiti per “finanziare il piano nazionale su Internet”. Poche righe nascondevano un possibile esproprio del tesoro più sensibile per i vertici di Telecom. L’ipotesi dura due giorni, esattamente 48 ore, fin quando ieri accadono due fatti all’apparenza distanti ma forse strettamente legati: La7 annuncia la fine di qualsiasi negoziato con Santoro, azzoppando così l’ipotesi terzo polo televisivo; e, in contemporanea, il governo cambia la norma, stravolge il suo “piano di interesse nazionale per il diritto di accesso a Internet” e cancella dal testo della manovra quei passaggi – “la razionalizzazione, l’obbligo di diritto universale” – che minavano la stabilità patrimoniale di Telecom e preoccupavano i suoi azionisti (anche stranieri). Anche se il numero uno di Telecom Italia Franco Bernabè giura che tra i due fatti non c’è alcun nesso, e ribalta su Santoro l’accusa di aver cercato pretesti per far saltare la trattativa con La7, i casi sono due: o le idee del ministro Romani e del governo sono talmente labili da evaporare nel breve volgere di 48 ore, oppure la rivoluzione telematica di Berlusconi era un atto di forza, un segnale per intimorire La7.
PER CAPIRE DOV’È intrappolata la ragione è utile ricordare che la Rai di centrodestra, in trincea contro i giornalisti sgraditi dal Cavaliere, adesso comincia a riflettere: forse è meglio trattenere Santoro, forse Vieni via con me era davvero importante, forse Report è un prezioso settimanale d’inchiesta, forse Lucia Annunziata è una figura professionale irrinunciabile per il servizio pubblico. Togliendo i forse, resta l’ordine di servizio di Berlusconi, il più recente: è più facile controllare il servizio pubblico, senza indebolirlo troppo, per giocare di sponda con Mediaset, che combattere un terzo polo televisivo. Nella peggiore delle ipotesi, un colossale ricatto. Nella migliore, l’ultima trasfigurazione del conflitto d’interessi.

il Fatto 2.7.11
Leggi a confronto Il provvedimento scompare in 48 ore


Il finanziamento dell’infrastruttura in grado di supportare la banda larga di internet nel nostro Paese (con una connessione superiore ai 30 mega al secondo, e pari ai 100 mega al secondo per almeno metà di questa), è stata la spada di Damocle che Telecom si è vista sulla testa dalla presentazione della prima bozza del decreto di governo sulla manovra finanziaria fino a giovedì sera. Nella prima versione fatta circolare nei giorni scorsi, infatti, il testo all’articolo 29 prevedeva la creazione di un’unica “infrastruttura nazionale di telecomunicazione” creata anche grazie alla “razionalizzazione, l’ammodernamento e il coordinamento delle strutture esistenti”. Questa la cornice, per cui chi possedeva le infrastrutture in grado di supportare la “rete nazionale” doveva renderle “aperte” a tutti i soggetti. Dagli investimenti sulla rete, anche quelli spesi in funzione di “apertura” verso altri operatori, era scritto nella medesima bozza, non dovevano “derivare oneri per il bilancio dello Stato”. Così l’investitore - è chiarito nella prima stesura dell’articolo 29 - oltre a metterci i propri danari (che avrebbe poi recuperato – è scritto – lavorando sulla tariffa), poteva coinvolgere la Cassa Depositi e Prestiti, con il rischio di dover non solo condividere la propria infrastruttura con gli altri operatori ma di doverne anche dividere la proprietà con la Cassa che diventava “partner” dell’investimento sulla rete “pubblica”. Nella seconda versione della bozza, cambia totalmente il reperimento dei fondi: “Alla realizzazione del progetto strategico di cui al comma 1 – è scritto – possono essere destinate risorse pubbliche anche afferenti agli interventi cofinanziati dai Fondi strutturali europei 2007 /2013. Per assicurare la realizzazione, in tempi rapidi, del progetto strategico di cui al comma 1. Questo sarà prioritariamente finanziato nell’ambito delle procedure di riprogrammazione e accelerazione della spesa delle risorse previste dalla delibera CIPE n. 1 dell’11 gennaio 2011”. Insomma, nella seconda versione i soldi per creare questa rete arrivano in parte da finanziamenti pubblici a fondo perduto. Una vittoria per Telecom Italia.

La Stampa 2.7.11
Hu: “Nessuna riforma democratica Il partito comunista resta l’unico”
Festa per i 90 anni del Pcc: “Il nostro maggior nemico oggi è la corruzione”
di Ilaria Maria Sala


Il futuro del PCC «Occorre trovare l’equilibrio tra i cambiamenti lo sviluppo e la stabilità»
L’opposizione. Nelle ultime settimane rivolte violente e bombe contro gli uffici governativi

La lotta alla corruzione rappresenta la chiave per vincere o perdere la fiducia e il sostegno del nostro popolo Troppi funzionari sono incompetenti Urge che il partito imponga la disciplina ai suoi iscritti Hu Jintao presidente del Partito comunista cinese Discorso per il 90˚anniversario
Oggi una vibrante Cina socialista è emersa all’Est e i 1,3 miliardi di cinesi stanno avanzando pieni di fiducia sotto la grande bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi»: il discorso del Presidente cinese Hu Jintao per la celebrazione del 90˚ anniversario dalla fondazione del Partito Comunista Cinese – inaugurato a Shanghai nel 1921 – inizia così, sottolineando a tutti che, qualunque sia il colore della bandiera sotto la quale si impettiscono i leader del Paese, tutto ciò che vi avviene ha «caratteristiche cinesi». Stabilite dai leader di Partito stessi.
Il lungo discorso del Presidente (un’ora e mezza) ha ripercorso la storia della «riscossa nazionale» partendo dalla Guerra dell’Oppio, scegliendo di enfatizzare ancora una volta quel «giogo semi-coloniale» sotto cui si sarebbe trovata la Cina (che, a rigor di storia, si trovava in realtà sotto una dinastia straniera, quella mancese dei Qing, già dal 1644) quando fu costretta a estendere concessioni commerciali e territoriali ai poteri nuovi arrivati sullo scacchiere asiatico – dalla Gran Bretagna alla Russia, dagli Stati Uniti all’Italia. Non è un dettaglio: la storiografia cinese, che percorre a tutta rapidità gli anni più cupi del maoismo, senza citare i milioni di vittime del Grande Balzo o della Rivoluzione Culturale, pone la Cina davanti al resto del mondo dichiarandosene vittima, e controlla con fermezza che un’unica versione dei fatti circoli liberamente nel Paese.
Dopo aver ripercorso le tappe canoniche del passato, Hu si è soffermato sul presente, elencando tutti i grandi successi nazionali, molti sotto gli occhi di tutti: l’impressionante crescita economica, il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone, le conquiste tecnologiche e diplomatiche della Cina. Poche le novità rispetto alla direzione futura da dare al Partito, «grande, glorioso e corretto», e alla nazione: «Occorre trovare un equilibro tra le riforme, lo sviluppo e la stabilità: questa è la linea di condotta generale per raggiungere il successo nella modernizzazione socialista della Cina», ha detto Hu, ribadendo spesso l’importanza della stabilità e dello sviluppo. Fra i più pericolosi nemici della stabilità, ha detto, c’è la corruzione – ormai endemica in Cina, e una delle maggiori fonti di rabbia fra i cittadini. Ha dunque lanciato slogan contro la corruzione e ripetuto la necessità di sviluppare «un’armoniosa società socialista». Le ultime settimane, infatti, pur caratterizzate da un crescendo di propaganda (film, incontri di massa negli stadi per cantare canzoni rivoluzionarie, pubblicazioni straordinarie, radio e tv impegnate a cantare la gloria del partito, in un tripudio di bandiere rosse) hanno visto rivolte violente in diversi punti del Paese, bombe contro uffici governativi - apparentemente ad opera di persone squilibrate e sfinite da corruzione e abusi di potere - e la chiusura ai viaggi dell’intero Tibet.
Nel corso della festa del Partito Hu Jintao ha anche enfatizzato la necessità di «adattarsi», come a ricordare ai cinesi e al mondo la grande capacità del Pcc di passare dagli anni dell’ideologia più militante a quelli attuali, in cui un Partito Comunista che conta più di 80 milioni di membri gestisce aziende mastodontiche e in pieno attivo e un fondo sovrano trilionario, pur mantenendo un controllo ferreo sull’informazione e smentendo la possibilità di riforme politiche che portino il partito novantenne a dividere il potere in modo pluralista. Anzi, «il successo, in Cina, dipende dal partito», ha detto Hu, e nessuna riforma può dunque essere immaginata in questo senso.
Dopo il discorso, si sono innalzate le note dell’Internazionale – un inno di rivolta frequentemente cantato dagli studenti che manifestavano a Piazza Tiananmen nel 1989, ma che oggi in Cina si sente solo di rado.

La Stampa 2.7.11
Gli indiani sono 1,2 miliardi e crescono di 17 milioni all’anno molto più della Cina
Lo stato del Rajasthan rilancia una politica poco amata
India, un’auto se ti sterilizzi
Concorso a premi per incentivare il controllo delle nascite
di Giordano Stabile


Una Tata «Nano» in cambio della sterilizzazione. Lo scambio proposto dallo Stato indiano del Rajasthan è l’ultima frontiera nella lotta per il controllo delle nascite nel secondo gigante asiatico, destinato a diventare il primo, almeno dal punto di vista demografico, nel giro di vent’anni o anche meno. Qualcosa di molto diverso dalla politica del figlio unico in Cina, per ora la nazione più popolosa della Terra, e anche dalla politica di sterilizzazioni forzate condotta da Indira Ghandi negli anni Settanta e fallita rapidamente. La scelta di Pechino è stata quella di puntare sulle multe, invece che sui premi. Con il secondo figlio si perdono tanti di quei benefici sociali che per le coppie povere, a meno di nasconderlo, è praticamente impossibile mantenerlo. Ma il controllo sociale in India è molto meno capillare e le politiche forzose non hanno mai funzionato. Ecco allora l’innovazione del Rajasthan.
Il governo centrale ha posto target di sterilizzazione maschile per ogni distretto. Difficili da raggiungere, anche per una millenaria cultura che vede nella fertilità il massimo della benedizione. E quindi ha messo in campo gli «incentivi». Chiunque si sottoponga a questo tipo di intervento, entro il 30 settembre, concorrerà a una lotteria con in palio televisioni a 21 pollici, elettrodomestici, motorini e una Tata Nano, l’utilitaria simbolo dell’industria automobilistica nazionale, una sorta di Cinquecento dell’India del boom odierno. «Temevamo di non riuscire a raggiungere l’obiettivo delle 21 mila sterilizzazioni all’anno, così abbiamo avuto quest’idea: speriamo di riuscire a sterilizzare 6000 persone nei prossimi tre mesi», ha spiegato Pratap Singh Dutter, responsabile sanitario del distretto di Jhunjhunu, nel Nord dello Stato indiano.
I dati provvisori dell’ultimo censimento, pubblicati ad aprile, hanno fotografato una popolazione di un miliardo e 210 milioni. Il quadruplo rispetto al 1947, anno dell’indipendenza. Il sorpasso sul vicino cinese si avvicina. Pechino ha contato l’anno scorso 1 miliardo e 330 milioni di abitanti, ma il tasso di natalità nella Repubblica popolare è a livelli europei: 12,2 nati per mille abitanti, contro 7,03 morti, per un tasso di incremento dello 0,49% all’anno. In India il tasso di natalità è di 20,97 nati per mille, quello di mortalità praticamente uguale alla Cina, mentre la crescita è del 1,34%. In pratica 17 milioni di cittadini in più ogni anno, contro i 7 scarsi in Cina. Nel giro di 15 anni l’India sarà il Paese più popoloso al mondo, ma una crescita così rapida implica enormi problemi per nutrire, istruire, trovare un lavoro alle nuove centinaia di milioni di giovani in arrivo. Serve un freno. Chissà che i premi siano altrettanto efficaci delle punizioni. Soprattutto se in palio c’è l’auto del «miracolo indiano».


La Stampa 2.7.11
Intervista a Monsignor Charles J. Scicluna, «promotore di giustizia» della Congregazione per la Dottrina della Fede, di fatto il «pubblico ministero» del tribunale dell’ex Sant’Uffizio
Miracolo «La Chiesa ha un fondamento soprannaturale, se no questi scandali l’avrebbero travolta»
“Gli abusi dei preti sui bambini uccidono la fede”
Mons. Scicluna, l’uomo che assiste il Papa nei casi di pedofilia
di Andrea Tornielli


«Benedetto XVI ha avuto il coraggio di dire: abbiamo sbagliato, si deve cambiare»

Se l’abuso l’ha commesso un sacerdote, la traccia nella vittima rimane più grande, c’è una fede che viene uccisa». Per entrare nei locali dove lavora Charles J. Scicluna è necessaria una tessera magnetica. Nessuno direbbe che dietro quella porta in legno chiaro che si affaccia sul porticato interno del palazzo del Sant’Uffizio siano custoditi i dossier sui casi più scabrosi e scottanti, quelli degli abusi sui minori perpetrati da sacerdoti e religiosi.
Il «promotore di giustizia» della Congregazione per la dottrina della fede, l’uomo che da quasi un decennio affianca Joseph Ratzinger nella lotta contro la «sporcizia» nella Chiesa, non ha affatto l’aspetto dell’inquisitore: è cordiale, sorridente, diretto, per nulla clericale. «Sono nato a Toronto nel 1959 da genitori maltesi emigrati lì. Ma prima di compiere un anno sono tornato con la mia famiglia a Malta e lì sono cresciuto…». Scicluna s’interrompe, e riferendosi alla sua statura dice: «Be’… cresciuto, non molto!».
Entra in seminario a 19 anni, dopo aver iniziato a studiare giurisprudenza, e da seminarista completa anche gli studi in legge nell’ateneo laico. Una scelta che si rivelerà preziosa per Scicluna, costretto a diventare anche un po’ detective: «Si vede che il Signore aveva i suoi piani…». Ordinato prete nel 1986, viene a Roma e si laurea in diritto canonico alla Gregoriana. I superiori lo notano, ma il suo vescovo lo rivuole a Malta dove torna a insegnare e lavorare in parrocchia.
Nel 1995 monsignor Scicluna viene chiamato a lavorare alla Segnatura apostolica, il supremo tribunale del Papa. «Nel 2001, dopo la pubblicazione del motu proprio con il quale Giovanni Paolo II avocava alla Santa Sede tutti i processi per gli abusi dei chierici sui minori, il cardinale Ratzinger doveva mettere in piedi il nuovo tribunale. E allora non si immaginava purtroppo quanto avrebbe dovuto lavorare», spiega Scicluna. Il monsignore maltese diventa dunque uno stretto collaboratore del futuro Papa e nel 2002 viene nominato «promotore di giustizia» dell’ex Sant’Uffizio. Grazie alle nuove norme, vengono riesumati tutti i fascicoli giacenti. Si riaprono le inchieste e finalmente, due anni dopo, la Congregazione comincia a indagare anche sul fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel. «È nata un’intesa molto bella, il cardinale Ratzinger, che non aveva una formazione canonistica, si è fidato di me».
Alla domanda su che cosa abbia significato per la sua vita avere a che fare con questi scandali tremendi, il volto si fa serio: «Ho compreso che se la Chiesa non è crollata, nonostante questi scandali, è proprio perché ha un fondamento soprannaturale. Altrimenti non si spiega».
«La Chiesa - continua Scicluna considera tra i suoi tesori più preziosi l’innocenza dei bambini, e la leadership di Benedetto XVI è stata ed è fondamentale. Ha avuto il coraggio di dire: qui abbiamo sbagliato, qui dobbiamo cambiare…». Proprio a questo si riferiva Ratzinger nell’ormai famosa meditazione per la Via Crucis, il Venerdì Santo del 2005, quando parlò della «sporcizia» nella Chiesa: «Quelle parole venivano da tre anni passati a studiare i casi di abuso, c’era la consapevolezza della necessità di guardare in faccia i peccati del clero».
Nei giorni scorsi, presentando un seminario internazionale dedicato alla lotta alla pedofilia clericale, che si svolgerà l’anno prossimo alla Gregoriana, Scicluna ha affermato che le violenze sui minori da parte dei chierici sono un «abuso di potere spirituale». «Sì, è vero - aggiunge il prelato - esiste una differenza specifica tra l’abuso perpetrato da un laico e quello di un sacerdote. Il prete si permette di commettere questi atti in quanto prete, su vittime che confidano di incontrare in lui il “buon pastore”». Il volto di Scicluna si fa ancora più scuro. «Se l’abuso l’ha commesso un sacerdote, la traccia nella vittima rimane ancora più grande, c’è una fiducia spirituale che viene distrutta, una fede che viene uccisa».
Domandiamo al «promotore di giustizia» se il nuovo atteggiamento voluto da Benedetto XVI stia diventando realtà nella Chiesa. «Secondo me - dice - il cambio di mentalità è possibile solo per quelli che hanno il coraggio di incontrare le vittime degli abusi, di accoglierle, di ascoltare i loro racconti. Se non lo si fa, si può aver letto di tutto, essere preparatissimi, ma non si riesce a comprendere fino in fondo il dramma che comportano questi tremendi peccati. C’è una reazione, una rabbia nelle vittime dei preti che non si riscontra negli altri casi, perché tocca la profondità dell’anima».
Proprio per questo, rivela Scicluna, ai vescovi che parteciperanno al seminario del febbraio 2012 sarà chiesto di arrivare a Roma dopo aver incontrato le vittime dei preti pedofili nei rispettivi Paesi. «È un’esperienza traumatica, che cambia la vita, com’è accaduto a me. Grazie a Dio, alle norme più severe e alla crescita di una nuova coscienza, questi casi sono in netta diminuzione rispetto al passato. Dobbiamo continuare a essere vicini alle vittime, trattate per troppo tempo come “nemiche” del buon nome della Chiesa, invece che come persone ferite nell’anima, da accogliere e da aiutare innanzitutto facendo in modo che ciò che hanno subito non si ripeta».

L’intervista a Monsignor Charles J. Scicluna è pubblicata su «http://vaticaninsider.lastampa.it» il sito de La Stampa dedicato all’informazione sul Vaticano, l’attività del Papa e della Santa Sede, la presenza internazionale della Chiesa cattolica e i temi religiosi.

l’Unità 2.7.11
Intervista
La fede laica di Hack
«Scienza e fede possono convivere» dice l’astrofisica autrice de «Il mio infinito» riflessioni su Dio, vita e universo
di Cristiana Pulcinelli


Arrendiamoci, ci sono domande a cui l’essere umano non potrà mai rispondere: perché c’è l’universo e non il nulla? Perché la velocità della luce è un limite insuperabile? Perché c’è la forza di gravità che modella il cosmo? Se ne potrebbero trovare altre cento di domande impossibili. Il fatto è che la scienza si occupa del «come» e non del «perché» delle cose. E quindi i motivi per cui l’universo è così come lo conosciamo non potremo scoprirli attraverso il metodo scientifico. Ciò non toglie che un certo orgoglio dovremmo provarlo, come esseri umani, perché invece su come è fatto e funziona l’universo oggi sappiamo molte cose. Una conoscenza che è frutto di una curiosità nata, probabilmente, quando il primo uomo è sceso dagli alberi, ha assunto una andatura eretta e ha alzato gli occhi al cielo.
Una storia lunga, quindi, 5-6 milioni di anni. Per ripercorrerla, quale guida migliore potremmo avere di Margherita Hack? Il suo nuovo libro (Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una scienziata atea, Dalai editore, pp. 207, euro 17,50) è costruito proprio come un cammino attraverso le conoscenze dell’uomo sull’universo. Si comincia dagli antichi miti sull’origine del mondo, si passa poi ai primi scienziati greci che, grazie alle regole della geometria, riuscirono a misurare con una certa precisione il raggio della Terra e la sua distanza dalla Luna e dal Sole. E poi l’universo degli antichi: da Aristotele a Tolomeo. L’era moderna con Copernico, Giordano Bruno e Galileo. Newton e la legge di gravità. Per arrivare alla nascita di una nuova disciplina, l’astrofisica, e alle scoperte fondamentali dell’ultimo secolo, come ad esempio la prova del Big Bang giunta grazie alla scoperta della radiazione di fondo, o la scoperta che nell’universo ci sono molti, moltissimi pianeti simili alla nostra Terra.
È facile nel corso di questa storia imbattersi in concetti come quello di Dio, Ente creatore, Fede. Hack li affronta senza timore, da scienziata atea, come recita il sottotitolo del libro. Almeno da Galileo in poi la questione principale è sempre la stessa: scienza e fede sono inconciliabili? Per rispondere Hack parte da un presupposto: tanto il credente che il non credente non possono dimostrare scientificamente l’esistenza o la non esistenza di Dio e quindi non ci resta che un atteggiamento laico: «Scienza e fede possono benissimo convivere. Lo scienziato credente adotterà il metodo scientifico per le sue ricerche e attribuirà la capacità del cervello umano di decifrare l’universo a questa misteriosa entità chiamata Dio, ispiratore della ragione e anche causa ultima del mondo. Il non credente, dal canto suo, prenderà atto del fatto che la materia nelle sue forme più elementari abbia la capacità di aggregarsi e formare atomi e molecole, stelle e pianeti, ed esseri viventi. (...) Ateo e credente possono anche dialogare, a patto che ambedue siano laici, nel senso che rispettano le credenze o le fedi dell’altro senza voler imporre le proprie».
Nel frattempo gli scienziati, siamo essi credenti o atei, potranno continuare a cercare una risposta ad altre domande, quelle che oggi riteniamo impossibili, ma solo perché ci sono ostacoli fisici che sembrano insormontabili. Ad esempio: cos’è la materia oscura e l’energia oscura? C’è stata davvero l’inflazione? Potremo viaggiare da un sistema solare all’altro, magari ibernandoci? Riusciremo a mandare e ricevere segnali radio e immagini ad altri pianeti e scoprire altre civiltà? Su questi problemi lavorerà il cervello delle generazioni future perché se c’è una cosa chiara è che non si potrà mai limitare la curiosità della mente. Dio, invece di offendersi perché ci vogliamo sostituire a lui (come qualcuno teme), «dovrebbe essere contento che i suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza, si avvicinino sempre più ai segreti della sua Creazione».

Repubblica 2.7.11
Al museo Maillot di Parigi e al Forte di Bard di Aosta due retrospettive del grande maestro catalano che in Francia si innamorò del surrealismo
Joan Miró la leggerezza della pietra
di Cesare De Seta


Dai disegni alla scultura: così anche bronzo e marmo possono diventare leggeri

PARIGI. Nella modernità Barcellona ha un posto di rilievo e può stare accanto a Vienna, Berlino e Parigi. La compagine catalana conta artisti della statura di Joan Miró, Juan Gris, Salvador Dalí e naturalmente Pablo Picasso, malagueño di nascita ma formatosi in Catalogna. Miró (1893- 1983), come Dalí, rimase intimamente legato alla sua terra pur se nel 1919 giunse anche lui a Parigi, dove trascorreva l´inverno per poi tornare nel buen retiro sul mare. Fu preso dal cubismo di Picasso, ma soprattutto fu attratto dalla cerchia dadaista che aveva il suo perno in Tristan Tzara e nel 1924, grazie a André Masson, conobbe Aragon, Eluard e Breton: da questo sodalizio la sua adesione al gruppo surrealista. L´opera di Miró è universalmente nota, grazie anche all´attività dell´omonima fondazione di Barcellona, ospitata nell´edificio del maggiore architetto spagnolo Josep LLuís Sert. Ciò nonostante sono trascorsi circa quarant´anni che non si tiene una monografica dedicata alla sua scultura. Miró sculpteur nasce dalla Fondation Maeght e dal Musée Maillot (fino al 31 luglio) diretto da Patrizia Nitti, con la collaborazione di Isabelle Maeght, Emmanuel Daydé e Véronique Bizeul. Con i Maeght l´artista ebbe un rapporto d´intensa amicizia. Aimé Maeght incontrò Miró nel 1946 quando preparava la Mostra internazionale del Surrealismo. L´incontro fu fecondo e nel 1964, quando nacque la Fondation a Saint-Paul de Vence, Miró e Sert furono coprotagonisti di questo evento: nel giardino l´artista realizzerà il Labirinto nel quale figurano monumentali sculture.
In mostra si passa in rassegna l´intera opera scolpita, a cominciare dai bozzetti per le sculture e le vetrate (1979) realizzate a Saint-Paul. La leggerezza è il segno distintivo, e Miró l´esibisce nei sognanti disegni, nelle grandi tele e, al pari, nelle sculture: le quali hanno per loro natura una sostanza, una gravità che è propria del bronzo, del marmo, del legno, della ceramica e del vetro. Da uno schizzo, lieve come ala di farfalla, nascono oggetti che, divenuti materia, ne conservano la volatile qualità. Tra il 1968 e il ´69 l´artista produce una serie di sculture dipinte con colori accesi – giallo, rosso, verde, blu – gli stessi utilizzati per dipingere le grandi tele. Jeune fille s´évadant, Homme et femme dans la nuit e il più intenso tra questi Personnage: un tubo verde, con una testa crema e un occhio rosso, concluso da un copricapo a forma di rastrello blu. Miró usa oggetti comuni e li decontestualizza, memore della lezione di Duchamp. Il colore conferisce a questi oggetti desemantizzati un´aura che diverrà tipica della pop art. I bozzetti, che preludono alle grandi sculture, possono essere in gesso (Oiseau lunaire, 1966), in ceramica (Arch de Triomphe, 1963, Femme, 1956), in terracotta come la bellissima Femme (1968): un corpo acefalo in cui si riverbera la memoria delle sculture arcaiche del Mediterraneo. Nei piatti e nei vasi in ceramica si sbizzarrisce l´inesauribile vena dell´artista pittore-scultore all´unisono. Nei bronzi tratta la patina personalmente in fonderia e la sequenza dei bronzi è la più ricca che mai abbia visto: teste, corpi, figure antropomorfe, totem, trasfigurazioni oniriche di marca surrealista. Sono figure in equilibrio instabile, rette dalla forza di una fantasia inesauribile: in Personnage et l´oiseau (1967) un piccolo aereo si catapulta su un sasso orizzontale in bilico su una grotta cava. Una disarmonia prestabilita. Molte le steli, diaframmi tra luce e spazio. In Femme et l´oiseau (1973), di grandi dimensioni, un seggiolone per bambini è adornato da scarpe che volteggiano su questa machina, come uccelli. Lo stesso titolo ha un triangolo con in cima una sfera con due orbite, su cui s´incastra un pezzo di sedia.
Mirò è un poeta in senso proprio e lo conferma anche la mostra Joan Miró peintre-poéte, che si è da poco conclusa all´Espace culturel ING, a Bruxelles, a cura di Michel Draguet e altri specialisti: la prima fase è surrealista, la seconda è la più feconda per i libri d´artisti che, da instancabile sperimentatore, Miró dà alle stampe per edizioni pregiate: lui stesso compone testi poetici inseriti nei suoi geroglifici, secondo i modelli della tradizione nippo-cinese. Il pittore-poeta dialoga con una gioia palpabile con i testi poetici Parler seul (1948-50) di Tristan Tzara, À toute épreuve (1958) di Paul Eluard, Haïku (1967). Gli stessi libri magnifici sono esposti, e le litografie sono squadernate alle pareti - offrendoci un lato, non affatto secondario, di questo talento a molte dimensioni - nella ricca antologica, Miró, Poéme al Forte di Bard (fino al 1 novembre) con bei testi a commento di Sylvie Forestier e Augusto Rollandin. La mostra - curata da Isabelle Maeght - raccoglie 88 opere: 17 oli su tela, 58 sculture, 91 opere grafiche tra disegni, incisioni e litografie, 17 ceramiche, 6 libri illustrati, una tela giapponese, un imponente arazzo e il progetto della ceramica murale dell´Unesco di Parigi. Il roccioso ambiente aostano in cui è ospitata la rassegna esalta la fantastica levità dell´artista.

il Fatto 2.7.11
La prova su strada del nuovo social network
“Google+” convince e sfida Facebook
di Federico Mello


Non si hanno conferme a riguardo, ma c’è da scommettere che in queste ore Mark Zuckerberg sia molto preoccupato: il suo sogno di dominio mondiale sui social network si trova davanti, di punto in bianco, un competitor agguerrito; adesso anche l’obiettivo di un trionfo in Borsa per Facebook, potrebbe naufragare clamorosamente.
GOOGLE, il gigante del motore di ricerca, dopo varie prove – con risultati deludenti – sulla strada del web “sociale”, fa davvero sul serio. Il suo social network, Google+ (da leggere “Google Plus”), annunciato all’inizio di questa settimana, è online. Gli utenti non possono ancora iscriversi: l’accesso è riservato ai dipendenti Google e a una cerchia ristretta di persone “invitate” a testarlo (tra questi, abbiamo trovato lo stesso Zuckerberg, con vari membri del suo staff pronti a studiare le contromosse; per un po’ è comparso anche un certo Steve Jobs ma presto è sparito).
Tra i fortunati “tester” ci siamo ritrovati anche noi e, dopo alcune sessioni sul nuovo social network, vi diciamo subito che il nuovo progetto di Big G, convince. Sembra che dalle parti di Mountain View abbiamo studiato per anni Facebook, prestando però le orecchie alle lamentele degli utenti su ciò che piace meno del sito blu; aggiungendo alcune caratteristiche vincenti di strumenti come Twitter e incastonando, infine, il tutto nel “mondo” Google.
Google Plus a una prima occhiata si presenta come il sito di Zuckerberg. Ogni utente (un account Gmailèsufficienteperentrare)ha il suo profilo con informazioni, foto, esperienze lavorative, situazione personale (c’è anche una opzione geolocalizzazione). E ogni utente ha una sua bacheca dove può pubblicare status, foto, link, video. La differenza di fondo con Facebook è però che su Google+ non c’è bisogno di chiedere “l’amicizia” a qualcuno: chiunque può visualizzare il nostro profilo e viceversa. Tutto aperto per tutti, quindi? No, al contrario, e questa è la novità. Perché su Google Plus i contatti vanno organizzati in “cerchie”: quelle di partenza sono “Amici”, “Famiglia”, “Conoscenti”, “Persone che seguo”, ma se ne possono aggiungere altre, titolandole come si desidera (per esempio “colleghi”; “compagni calcetto”; ecc.). Quando pubblichiamo un aggiornamento sul nostro profilo, siamo obbligati a scegliere con quali cerchie condividerlo. Uno stato d’animo personale potremo condividerlo con amici (“i tuoi amici veri, quelli con cui condividi dettagli della tua vita privata”, è la didascalia); una segnalazione, con i “colleghi”; un video divertente, con i “conoscenti” (si possono scegliere anche più cerchie). Ma non finisce qui: un blogger, o una persona con un seguito on e off line (per esempio un politico, o un cantante), potrebbe decidere che alcuni contenuti pubblicati sono rivolti a tutti: basta selezionare post “pubblici”, e questi saranno visibili a tutti gli utenti di Google Plus: ecco che una parte degli aggiornamenti si trasforma in qualcosa di molto simile a Twitter. Va detto, inoltre, che noi saremo informati se qualcuno ci segue, ma non sapremo in quale “cerchia” ci ha messo: lui vedrà i nostri aggiornamenti senza sapere da quali è stato escluso (perché magari è nella cerchia “colleghi” e non vedrà i post rivolti agli “amici”).
Google+ è un social network 3.0: “Condividi online come nella tua vita reale”, è lo slogan scelto da Mountain View: nella vita reale in effetti, non si condivide con la famiglia quello che si condivide con i conoscenti (mentre su Face-book, tutti gli “amici” sono sullo stesso piano).
MA LE NOVITÀ sono anche altre. Nel sito è presente la chat di Gmail, con tanto di videochiamate; c’è l’opzione decisamente innovativa “videoritrovo”, che permette di avviare una diretta streaming interattiva con la propria webcam da condividere con le “cerchie”; ci sono gli aggiornamenti degli altri utenti (lo “stream”), sempre organizzati in base alle “cerchie” e gli “spunti”: si seleziona un interesse, per esempio, “Il Fatto”; o “Serie A” e si accede a tutti gli aggiornamenti al riguardo. Ogni post sulla bacheca di Google+, inoltre, è commenta-bile, condivisibile e si può usare il tasto +1 esprimendo un gradimento che, nel caso di un link, verrà visualizzato anche fuori, affianco ai risultati di ricerca quando si cerca su Google. Due ultime features: il tasto feedback sempre a disposizione per mandare opinione ed entrare in contatto con il team Google (su Facebook è sempre stato molto difficile contattare i gestori del sito); e le applicazioni per il mobile: Android è già disponibile, quelle per le altre piattaforme seguiranno presto. Va aggiunta un’ultima impressione generale: con Google Plus, incastonato in Google, si ha l’impressione di avere tutto sotto controllo: le nostre cose, quelle degli amici, ma anche le funzioni classiche: ricerca, gmail, youtube; tutto ciò che ci interessa in Rete è a portata di mano (molto comodo, forse troppo: come se la nostra vita digitale fosse di Google).
Le prime impressioni degli utenti online sul nuovo social network sono positive. E ieri il titolo Google a Wall Street guadagnava quasi il 3 per cento. Mark Zuckerberg aveva annunciato lo sbarco in Borsa del suo Facebook all’inizio del 2012. Alcuni analisti davano il sito blu al valore stellare di 100 miliardi di dollari. Ora, previsioni così rosee dovranno tenere alla prova dei fatti. Non stiamo dando Facebook per spacciato: ieri il fondatore ha annunciato “novità straodinarie”. Ma colossi come MySpace, da leader del mercato si sono eclissati in pochi mesi. La stessa Microsoft, leader assoluta fino a pochi anni fa, è in affanno. La lezione dell’innovazione è sempre quella: chi si ferma è perduto. E nel mercato “social” ora è competizione vera.

Terra 2.7.11
A Piazza Vittorio musical e cinema d’autore
di Alessia Mazzenga

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Terra 2.7.11
Batterio killer, l’Egitto respinge le euro accuse
di Federico Tulli

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http://www.scribd.com/doc/59169520

venerdì 1 luglio 2011

l’Unità 1.7.11
La rotta del Titanic
di Vincenzo Visco


Quando nel 2002 il governo di centrosinistra fu sostituito dal governo Berlusconi, l’eredità ricevuta da quest’ultimo era tutt’altro che trascurabile: nel 2000 infatti il Pil era cresciuto del 3,6% (!), il surplus primario era pari al 5-6% del Pil, la bilancia dei pagamenti era in equilibrio, l’occupazione in salita, le tasse in via di diminuzione. Sarebbe stato sufficiente mantenere la rotta per evitare di trovarci di nuovo in una situazione di crisi come quella dei primi anni ’90 e come quella attuale.
Viceversa il governo di centrodestra con cecità assoluta e una evidente inconsapevolezza della realtà economica italiana, in poco tempo liquidò il surplus primario, aumentò il debito, si imbarcò in una serie di misure una tantum che aumentavano l’incertezza sulla tenuta futura della finanza pubblica italiana (condoni a raffica, cartolarizzazioni, finanza creativa), contribuì a far saltare il patto di stabilità lasciò che la nostra posizione competitiva si deteriorasse e si manifestasse di nuovo un deficit nei conti con l’estero, evitò ogni riforma strutturale nella convinzione, del tutto errata, che il modello di sviluppo potesse ritornare ad essere quello degli anni ’70 e ’80 del secolo passato, pur in presenza della moneta unica e di una concorrenza internazionale molto più accentuata che in passato. I due anni del secondo governo Prodi non furono sufficienti a recuperare una situazione per molti versi compromessa. La grande crisi finanziaria ha fatto il resto.
È in questo contesto che va valutata la manovra attuale, varata in una situazione di elevato disavanzo, debito pubblico tornato ai livelli degli anni ’90, crescita asfittica, disoccupazione elevata, disavanzo della bilancia dei pagamenti di 4 punti di Pil, sistema economico sclerotizzato e incapace di riprendersi. La decisione condivisa da tutti i governi europei di riequilibrare le finanze pubbliche in tempi molto brevi e senza fare affidamento su nessun meccanismo di gestione collettiva e condivisa dell’extra debito e delle prospettive di crescita dell’Europa, ha contribuito a rendere la situazione altamente drammatica. L’Italia non è la Grecia (nè l’Irlanda, il Portogallo e neppure la Spagna) ma è oggi sicuramente un Paese a rischio che deve cercare di allontanarsi dal baratro che non è poi così distante.
Tutto ciò si poteva evitare, ma otto anni di governo pressoché ininterrotto della destra ci hanno portato a questa situazione. Oggi l’Italia appare (ed è) un Pese che vive al di sopra dei suoi mezzi e quindi è costretta a “rientrare” con le buone (le manovre) o con le cattive (la reazione dei mercati). È un calice amaro che Berlusconi e Tremonti ci costringono a bere.
Non conosciamo ancora l’impatto effettivo della manovra, né se le misure la cui entrata in vigore è prevista per il 2013 e 2014 siano adeguate e credibili vedremo la reazione dei mercati. Il dubbio che il profilo di rientro adottato sia dettato dal desiderio di spostare in avanti, alla nuova legislatura, l’impatto delle misure più impopolari, è molto serio ed evidente; e tutti ricordano la vicenda dello scalone previdenziale e del “concordato di massa” (condono) lasciati in eredità ai governi di centrosinistra nel 2006. C’è anche il ragionevole dubbio che il centrodestra abbia scontato di andare a elezioni anticipate l’anno prossimo e quindi abbia disseminato la strada di bombe a scoppio ritardato.
Tuttavia il problema di fondo è un altro: è possibile, una volta per tutte, uscire dalla tenaglia composta da tagli e misure di contenimento da un lato, e stagnazione, deflazione, disoccupazione dall’altro? Questo è un problema che il governo non si è posto e non si pone. Eppure è evidente che dalla nostra crisi non si esce senza profonde riforme all’assetto istituzionale dell’economia e della finanza pubblica italiana, misure che riguardano la struttura di governo, lo pseudo federalismo che abbiamo creato, il perdurare dello stallo creato dagli interessi corporativi, il diritto dell’economia, l’evasione fiscale, la iniqua distribuzione del carico tributario tra ricchi e poveri, la corruzione.
Si ratta di riforme difficili da varare perché toccano interessi diffusi e radicati che nessuno ha avuto finora la forza di affrontare e neppure pienamente individuare. Interventi che possono apparire in prima battuta impopolari ma che sono gli unici che ci possono consentire di uscire dal pantano attuale. La destra non sa e non può affrontare questi problemi perché ha paura di disarticolare il blocco sociale che la sostiene. Tocca quindi alla sinistra. Si sarà in grado di impostare su questi problemi la costruzione di una nuova coalizione? In caso contrario il tenore di vita degli italiani si ridurrà ancora (cosa che nella situazione attuale appare pressoché inevitabile) ma non vi saranno prospettive di recupero e di crescita. E proseguiremo lungo il sentiero di un inevitabile declino.

Repubblica 1.7.11
La manovra iniqua
di Chiara Saraceno


Curioso: in una manovra che sposta al 2013-14, cioè dopo la fine della legislatura, gran parte delle misure più significative sia sul piano finanziario che su quello simbolico e della equità (ad esempio riduzione dei costi della politica, riduzione dei vitalizi per i parlamentari), si pensi invece di introdurre da subito quelle che incidono più negativamente sulla vita quotidiana e in particolare sulla vita delle donne, come madri e come lavoratrici. Secondo le bozze che circolano, viene previsto un nuovo, pesante, intervento sulla scuola, che di fatto ridurrà ulteriormente non solo i posti di lavoro (per lo più femminili) ma anche l´offerta di tempo e qualità scolastica. Verrà ulteriormente ridotto il tempo pieno scolastico nelle scuole elementari, mai diventato la norma nonostante tutte le dichiarazioni a favore della occupazione femminile e nonostante oggi la maggior parte delle mamme con bambini in età scolare sia occupata. Un numero crescente di famiglie dovrà affidarsi alla propria creatività e risorse private per tenere assieme occupazione dei genitori, soprattutto della madre, e bisogni di cura e supervisione dei figli, aumentando le disuguaglianze tra famiglie, donne, ma anche bambini. La riduzione del turnover di fatto provocherà anche una ulteriore compressione del tempo che ogni insegnante (i cui stipendi tutt´altro che elevati nel frattempo vengono bloccati fino al 2014) avrà sia per dedicarsi individualmente agli allievi sia per formarsi e aggiornarsi adeguatamente. Ciò avviene proprio in un periodo in cui la crescente diversificazione della popolazione scolastica richiederebbe maggiore attenzione individualizzata e maggiori competenze non solo nelle discipline di insegnamento.
Ha ragione Napolitano a dire che una manovra fiscale è necessaria per tentare di mettere i conti in ordine ed evitare il rischio Grecia. E nessuno potrà essere del tutto esentato da pagarne parte del prezzo. Ma, al di là del merito sulle singole misure su cui pure ci sarebbe da discutere, c´è qualche cosa di insopportabilmente ingiusto nell´utilizzare il criterio del tempo per colpire subito coloro che sono ritenuti socialmente più deboli e meno legittimati a fare valere i propri interessi – gli insegnanti, le donne lavoratrici, i bambini – rimandando a un futuro al di fuori della propria responsabilità l´intervento sugli interessi dei soggetti forti. È inoltre anche fortemente miope: non investire nella scuola, delegittimare e squalificare gli insegnanti – lo sport preferito di questo governo e della sua ministra dell´istruzione – significa non investire nella generazione più giovane, indebolirne in partenza i diritti e qualità di cittadini. Analogamente, continuare ad agire come se le donne potessero farsi carico di tutto – della cura ma anche del lavoro remunerato – pagandone anche i costi sul piano del tempo e della progressione nel reddito e nel lavoro, significa sacrificare le potenzialità di metà della popolazione. Ciò può andare bene a una classe dirigente maschile molto anziana e legata ai propri privilegi monopolistici. Ma è uno spreco che una società in affanno come la nostra non dovrebbe potersi permettere.

l’Unità 1.7.11
Siate svegli anche d’estate
di Carlo Lucarelli


Di solito, appena arriva l’estate, non succede più niente. O almeno così si pensa.
La televisione smette di produrre e riempie i palinsesti di repliche, i lavori programmati si sospendono perché tanto adesso vanno tutti in ferie, le leggi, le manovre e i rimpasti si rimandano a dopo il meritato riposo degli italiani, o si fanno subito e di nascosto grazie a quello. E se devono cadere i governi lo fanno dopo, oppure diventano, appunto, balneari. Ora, gli italiani hanno recentemente dimostrato di saper coniugare ferie e dovere civile, per esempio andando al mare prima o dopo aver votato. Quelli che ci sono andati, al mare, perché non sono più così in tanti a potersi permettere ferie e scampagnate. E anche chi se ne va in vacanza lo fa sapendo che durerà troppo poco per riuscire a dimenticare i problemi di tutti i giorni.
Restiamo vigili anche questa estate, allora, attenti, decisi e pure un po’ incazzati. Continuiamo a tenerlo su quel vento che sembra soffiare in Italia da qualche tempo, un’aria nuova che non ha paura dell’afa estiva. Non facciamogliela passere liscia neppure da sotto l’ombrellone.
L’estate, con il suo tempo libero o quasi, dovrebbe essere un momento buono per pensare. Perché prendersi una pausa non vuol dire spegnersi, come le macchine, ma ricaricarsi. Che vuol dire anche riflettere, sentire e agire per cambiare le cose.
Se fossi uno di quelli che sperano nella distrazione estiva degli italiani questa volta non ci conterei troppo.

l’Unità 1.7.11
A sorpresa calendarizzato per l’ultima settimana di luglio il disegno di legge
L’Anm con Palamara: «Non posso che ripetere che la giustizia ha bisogno di altre priorità»
Intercettazioni, il Pdl tira dritto «A luglio il testo del governo»
Calendarizzato per l’ultima settimana di luglio il disegno di legge sulle intercettazioni. La discussione potrebbe slittare anche a dopo l’estate. Ma Anm, forze dell’opposizione e Fnsi non abbassano la guardia.
di Simone Collini


Vista l’aria che tira, la maggioranza non spinge per far votare alla Camera in tempi brevi il disegno di legge sulle intercettazioni. All’indomani della débâcle parlamentare (il governo è stato battuto sulla legge comunitaria che conteneva la norma per la responsabilità civile dei giudici) il Pdl ha chiesto nella riunione dei capigruppo di Montecitorio di riprendere l’esame del testo messo a punto dal governo. Sì, ma con calma. Tant’è vero che alla fine di una discussione piuttosto tranquilla si è deciso di calendarizzare il provvedimento per l’ultima settimana di luglio. Ma vista la coincidenza con la manovra economica (che si voterà a Montecitorio tra il 25 e il 30 luglio), non è escluso che l’esame slitti alla ripresa dei lavori, dopo la pausa estiva. È lo stesso capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto a lasciar capire che la maggioranza non ha fretta di affrontare la prova dei numeri in questo momento: «Potremmo esaminare il disegno di legge anche la prima settimana di agosto o a settembre. Dipenderà dalla logica dei lavori parlamentari».
L’ANM NON ABBASSA LA GUARDIA
Ma anche se il centrodestra aspetta tempi migliori per tentare l’affondo con la legge bavaglio, l’Associazione nazionale magistrati non abbassa la guardia. Luca Palamara definisce le intercettazioni «uno strumento indispensabile per l'accertamento dei reati, non solo quelli più gravi, ma anche di quelli meno gravi», mentre «altro è il tema, sul quale si può discutere, che è quello relativo alla pubblicazione degli atti, però non legato a singole vicende processuali». Quel che è certo però, per il presidente dell’Anm, è che «la giustizia ha altre priorità» che non una legge come quella voluta dal governo, a partire da «un processo che si svolga in tempi ragionevoli» creando «mezzi e strutture per poter svolgere i processi e non per cancellarli».
DAL PD NESSUNA APERTURA
Anche sul fronte delle opposizioni parlamentari l’allarme resta alto, nonostante il rinvio della discussione del provvedimento. Anna Finocchiaro, che insieme a Felice Casson ha presentato al Senato un disegno di legge sulle intercettazioni, avvisa che un confronto potrà aprirsi soltanto se partirà dalla proposta del Pd, che ha il «giusto equilibrio tra
tutela della privacy delle persone e diritto di indagine». E comunque non prima dell’estate, perché prima ci sono questioni ben più rilevanti da discutere: «A tutti, tranne a questa maggioranza e a questo governo, è chiaro che l’Italia ha tante emergenze e priorità, ma non certo quella di una legge restrittiva sulle intercettazioni, che limiterebbe la portata delle indagini e metterebbe il bavaglio alla stampa». In Aula, promette la capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, l’opposizione ricorrerà «a tutti gli strumenti parlamentari» che ha a disposizione per evitare l’approvazione del testo.
CRITICA ANCHE LA FNSI
Critiche al governo arrivano anche dalla Federazione nazionale della stampa. La calendarizzazione del disegno di legge sulle intercettazioni, anche se a fine mese e con la possibilità che slitti a dopo l’estate, è comunque per Franco Siddi «un’operazione miope e disperata, da esaurimento nervoso che non corrisponde a nessun bisogno reale del Paese, ma solo alla loro ansia di non vedere le scomode notizie di cui, tra loro, si ritrovano come protagonisti». Dice il segretario della Fnsi: «Si guardano allo specchio, non si piacciono più, incolpano chi riflette la loro immagine e i guai in cui si sono cacciati, e vorrebbero rompere lo specchio».

Corriere della Sera 1.7.11
Pd diviso sulla legge elettorale
Due referendum dallo stesso partito
di Maria Teresa Meli


Ci sono immagini che valgono più delle parole. Pochi fotogrammi possono cogliere il senso delle vicende della politica assai meglio di un profluvio di dichiarazioni. Accade spesso. Accade di continuo. La scena è questa: una ventina di giorni fa, nel cortile della Camera, Stefano Passigli aspetta per venti minuti, sotto la pioggia, di poter parlare con D’Alema. Quarantotto ore dopo quel colloquio Passigli annuncia il suo referendum anti-Porcellum. Che entusiasma i dalemiani, perché reintroduce il sistema proporzionale, lascia indifferenti molti, fa arrabbiare tanti. A cominciare da Parisi e Veltroni. Il primo grida al tradimento del bipolarismo. Il secondo osserva: «Un passo indietro: il mix proporzionale più preferenze è micidiale» . Nel frattempo un altro pd, Pierluigi Castagnetti, sta costituendo un comitato promotore per lanciare un altro referendum. Obiettivo condiviso con Parisi e Veltroni: ritorno al Mattarellum. Ed ecco la seconda scena: tre giorni fa Passigli insegue Bersani nel Transatlantico. E ha con lui un breve colloquio. Che non scioglie i nodi perché il segretario, a cui non dispiace il Mattarellum e non piace invece il sistema proporzionale, non vuole però schierarsi ufficialmente per non spaccare il Pd. Che tanto si spaccherà lo stesso, nei prossimi tre mesi, quando si tratterà di raccogliere le firme per due iniziative referendarie opposte. Ma questa non è una notizia. È consuetudine del Partito democratico dividersi. La notizia è un’altra. Ed è racchiusa nelle due scene il cui protagonista è sempre Passigli. Un tempo neanche troppo lontano sarebbe bastato un colloquio con D’Alema per avere lumi sulle intenzioni del Pd. E non sarebbe stato necessario altro. Ora non è più così. È questa la vera novità: il Partito democratico è diviso come sempre, ma ormai è solo la parola del segretario quella che conta. Paradossalmente, anche quando decide di non decidere, come in questo caso. Chissà che presto non arrivi una seconda novità: quella di un segretario che sceglie senza rendere omaggio al totem dell’unanimismo.

La Stampa 1.7.11
La Fiom sfida Camusso “Prima votiamo, poi firmi”
E Landini chiede al Lingotto di riaprire i tavoli di Fabbrica Italia
di Roberto Giovannini


La Fiom non accetta l’accordo firmato con Confindustria e lancia il guanto di sfida alla confederazione. Ieri, nel corso del Comitato Centrale della Fiom il segretario generale Maurizio Landini ha usato termini molto duri nei confronti dell’intesa. E (indirettamente e senza citarla) ha attaccato anche il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, affermando che l’accordo «è stato firmato per ragioni politiche e non sindacali». Ovvero per fare un favore al Pd.
Nel giorno in cui la Fiat fornendo però acqua al mulino di Camusso - annuncia di fatto l’uscita da Confindustria, Landini e la maggioranza Fiom comunque bocciano nettamente il merito dell’accordo. Un accordo comunque inaccettabile, perché «è un arretramento», con la possibilità di deroghe ai contratti nazionali e l’assenza di referendum obbligati sugli accordi. Insomma, «se l’accordo è un passo avanti sarà anche l’ultimo passo avanti che faremo perchè altri non ce ne faranno fare». Alla Cgil si chiede di non firmare l’accordo fino a dopo la consultazione degli iscritti, con un voto certificato e vincolante. Sulla Fiat Landini chiede «la riapertura ufficiale del tavolo»; sui rapporti del Lingotto con Confindustria il sindacalista ammette che l’intesa interconfederale «non è in grado di risolvere il problema della Fiat», e che dunque il pericolo di una legge esiste. La pensa diversamente la minoranza interna guidata da Fausto Durante, secondo cui l’accordo «è un moderato avanzamento». Alla fine, la minoranza non ha partecipato al voto che ha affidato a Landini il mandato di parlare a nome dell’intera Fiom al Direttivo Cgil che il 5 luglio validerà l’intesa prima della consultazione degli iscritti.
A parte Landini e le sue accuse, c’è nella Fiom chi ha parlato di dimissioni di Camusso e chi ha paragonato le nuove regole al «porcellum». Partecipando a un dibattito a Serravalle Pistoiese, la segretaria generale della Cgil replica che rispetto alla Fiom «siamo di fronte ad una vera, distante valutazione che mi preoccupa. Ho visto toni e giudizi - dice la sindacalista - che non credo siano nelle regole con cui discute una grande organizzazione». Ad esempio, dice, «ho visto tornare in auge la categoria del tradimento, che da sempre viene tirata in ballo nella storia della sinistra. Ma questi toni non mi appartengono per cultura né possono appartenere alla Cgil. Ognuno si assume le sue responsabilità».
Anche perché, osserva Camusso, l’intesa (che «dovrebbe far cessare la stagione degli accordi separati e blocca la deriva dell’attacco ai contratti nazionali») «è l’opposto di quello che la Fiat voleva. Basta leggere la lettera di Marchionne a Confindustria per capirlo». Al Lingotto Camusso chiede di «misurarsi con l’intesa approvata: riapra un tavolo di confronto e trovi una soluzione rispettosa delle regole del paese, del contratto e dei diritti dei lavoratori. La sensazione - conclude - è che non esiste un piano di investimenti, non esiste “Fabbrica Italia”, ma che esista un gioco al cerino, e ogni volta che lo trova in mano la Fiat cerca di darlo ad un altro». A Serravalle c’era anche il leader Pd Pier Luigi Bersani: l’intesa «è una cosa buona, un compromesso alto che bisogna apprezzare».

il Fatto 1.7.11
Scola, nel solco di Ratzinger
di Paolo Flores d’Arcais


   La nomina del cardinale Angelo Scola come arcivescovo di Milano è incredibilmente irrituale ed esige dunque una spiegazione ragionevole.
   La carica di Patriarca di Venezia è una delle più prestigiose nell’ambito della Chiesa. Il passaggio a Milano costituisce anzi dal punto di vista protocollare una retrocessione, perché “Patriarca di Venezia” è titolo superiore a cardinale e arcivescovo. Insomma, non si “trasloca” da quella sede venerabile verso una’altra diocesi, per importante e grande che sia, a meno che non si tratti di Roma, per diventare Sommo Pontefice, cosa che nel XX secolo è avvenuto ben tre volte (Pio X, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo I).
   Non regge allora la spiegazione (ventilata ad esempio dal teologo Vito Mancuso) che Ratzinger volesse chiudere radicalmente e platealmente con l’ultimo ridotto del cattolicesimo democratico, la Milano di Martini e Tettamanzi, delle Acli e di don Colmegna, attraverso un gesto “brutale” di discontinuità. O meglio, l’ipotesi di Mancuso è del tutto plausibile, direi certa, ma per realizzarla il cardinale Scola non era l’unica personalità rilevante di cui Ratzinger disponesse. È vero che nella nomina di Scola vi è un elemento di “sfregio” verso il cattolicesimo ambrosiano che sarebbe mancato ad altri candidati (a Scola fu rifiutato il sacerdozio, al termine del seminario diocesano di Venegono, tanto che per farsi ordinare prete dovette trasferirsi a Teramo: ora torna da arcivescovo), ma è davvero improbabile che la volontà di Ratzinger di sottolineare come a Milano il vento debba cambiare avesse la necessità irrinunciabile di un ingrediente tanto “velenoso”.
   UNA SCELTA di sbandierata normalizzazione poteva perciò essere realizzata anche senza la novità inaudita dello spostamento di un porporato da Venezia a Milano. Se per Benedetto XVI Angelo Scola è risultato perciò “unico” , deve esserci una motivazione in più, una motivazione davvero eccezionale che giustifichi l’irritualità e l’insostituibilità della scelta. Una ragione di SUCCESSIONE. La nomina, altrimenti incomprensibile di Ratzinger, ha il significato di una INVESTITURA: Benedetto XVI indica ai cardinali che come suo successore sulla cattedra di Pietro vuole Angelo Scola. Irritualità che spiega irritualità.
   Del resto anche Karol Wojtyla aveva compiuto un gesto irrituale che indicava la sua propensione per Ratzinger quale successore, dedicando un libro “all’amico fidato”, e facendo risapere nei sacri palazzi l’assai insolito e iper-lusinghiero “titolo” (accompagnandolo poi con l’incarico – tutt’altro che irrituale, questo – di scrivere i testi per l’ultima solenne “via crucis”). Ogni Conclave, naturalmente, decide poi come preferisce, nella convinzione, anzi, che a scegliere sia lo Spirito Santo, “vento” di Dio che, come è noto, “soffia dove vuole”. Ma il senso profondo e perentorio di investitura e testamento, da parte di Benedetto XVI, della nomina di Scola sulla cattedra di Ambrogio, non è certo sfuggito a nessuno dei Porporati che compongono il sacro collegio. Perché, ripetiamolo, altra spiegazione non c’è, a meno di chiamare in causa categorie inammissibili per un Pontefice: capriccio e oltraggio.
   FORSE RATZINGER ha sentito il bisogno di rendere plateale l’investitura di Scola anche per l’handicap che attualmente - dopo secoli di situazione opposta – costituisce per ogni papabile l’essere italiano. Nel (quasi ex-) Patriarca di Venezia, Benedetto XVI vede la più sicura (e ai suoi occhi evidentemente ineguagliabile) garanzia di continuità con il proprio pontificato sotto almeno due profili: il rilievo crescente assicurato a movimenti “carismatici” come Comunione e Liberazione rispetto all’associazionismo tradizionale legato a diocesi e parrocchie, e il privilegio del dialogo con l’Oriente, nel duplice senso di cristianità ortodossa e di islam. Se il primo tema è sottolineato da tutti gli osservatori, il secondo è talvolta trascurato benché perfino più influente. Il filo conduttore del papato di Ratzinger è infatti l’offerta agli altri monoteismi, e a quello di Maometto in modo speciale, di una Santa Alleanza contro la modernità atea e scettica. Questo era il senso dello sfortunato discorso di Ratisbona, che per una maldestra citazione accademica provocò invece risentimento e disordini.
   Dialogo con l’islam, ma nel segno del comune anatema contro il disincanto dell’illuminismo, del pensiero critico, della democrazia conseguente, in alternativa all’accoglienza verso “i diversi” del cattolicesimo democratico di stampo conciliare. La fondazione e la rivista “Oasis”, volute a Venezia da Scola, sono da anni l’efficacissimo strumento di questa linea ideologico-pastorale dall’afflato “globale” ma dagli evidenti risvolti europei, vista la presenza dell’islam come seconda religione (in espansione demografica galoppante) in tutte le grandi metropoli del vecchio continente. Solo in un’ottica un “piccina” si può pensare che con l’investitura di Scola, seguace di don Giussani, Ratzinger paghi il debito di gratitudine verso CL, lobby trainante della sua elezione. In realtà, Ratzinger vede in Scola il successore capace di proseguire con più coerenza e successo degli altri papabili la sfida oscurantista della rivincita di Dio sui lumi che caratterizza il suo pontificato: intransigenza dogmatica, “fronte integralista” con l’islam, presenza decisiva della fede cattolica nella legislazione civile, spregiudicatezza nel confronto pubblico con l’ateismo, accompagnati da un’affabilità pastorale superiore alla sua.

La Stampa 1.7.11
San Raffaele, Vaticano pronto al salvataggio
Santa Sede in campo per l’ospedale di Don Verzè
di Marco Alfieri


Il San Raffaele avrebbe accumulato circa un miliardo di debiti su 600 milioni di fatturato

Sarà probabilmente il Vaticano e un’importante charity internazionale, anche attraverso una maxi-donazione all’università del gruppo, Vita-Salute, a salvare dal fallimento il San Raffaele del prete manager Don Luigi Verzè.
E’ l’indicazione che emerge al termine del cda della Fondazione del Monte Tabor che controlla il polo ospedaliero milanese e che poco prima ha approvato il bilancio al 31 dicembre 2010, chiuso con perdite dichiarate per circa 60 milioni a fronte di un patrimonio netto di 48,5, e la situazione patrimoniale al 31 marzo 2011. «Il presidente Don Verzè - si legge in una nota diffusa dall’Irccs milanese ha informato il Consiglio del vivo interesse manifestato dalla Santa Sede a supportare la Fondazione nel processo di risanamento in corso e nella gestione delle attività ospedaliere, sanitarie e di ricerca». A sua volta il board ha espresso «considerevole apprezzamento» raccomandando «di approfondire e perseguire tale percorso».
A questo punto il cda della Fondazione si riunirà «a metà luglio per esaminare lo stato delle trattative e assumere le delibere definitive», anche se la strada sembra spianata per il salvataggio Vaticano, sbucato all’ultimo minuto dopo un lavorio felpato sull’asse RomaMilano. D’altronde la situazione è molto delicata: il San Raffaele ha accumulato quasi un miliardo di debiti di cui 537,5 milioni scaduti (rispetto ad un fatturato di 600) e una caterva di decreti ingiuntivi da parte di molti creditori tanto da costringere la Procura di Milano ad avviare un protocollo civile per monitorare le condizioni finanziarie dell’ospedale di via Olgettina, sulla base della legge fallimentare. Anche la Guardia di Finanza potrebbe far scattare presto delle verifiche.
Sul tavolo di don Verzè sono però arrivate solo due proposte. Oltre a quella del Vaticano, probabile cavaliere bianco, quella del patron del gruppo ospedaliero San Donato, Giuseppe Rotelli, re della sanità lombarda e azionista forte di Rcs, che ha offerto 250 milioni in contanti per salvare il San Raffaele. Rotelli, attraverso la finanziaria di famiglia Velca, propone di costituire una newco per rilevare il gruppo ospedaliero e poi aprirla ad altri potenziali investitori (anche al Vaticano), mostrando la disponibilità a scendere sotto il 51 per cento. La proposta resta in campo e verrà vagliata, ma secondo alcuni osservatori vicini al dossier, non garantirebbe fino in fondo i debitori (oltre alle banche, società di servizi e case farmaceutiche) né andrebbe a genio al board che governa il San Raffaele perché, di fatto, permetterebbe ad un competitor come Rotelli di portarsi a casa con pochi soldi il polo di via Olgettina. In mezzo a questi dubbi s’inserisce il contropiede vaticano, deciso a mantenere l’azienda di Verzè nell’orbita sanitaria cattolica, nonostante tra il prete «eretico» veronese e le gerarchie Oltretevere non corra tradizionalmente buon sangue. Evidentemente non a tal punto da accettare di vedersi sfilare un polo di eccellenza del genere, che negli anni ha gemmato esperienze in giro per l’Italia, dalla Sicilia alla Sardegna e, prossimamente, in Puglia. Vagliate le offerte, da qui a metà luglio si procederà sulla strada del concordato in continuità e gli advisor di Bain & Co e di Borghesi Colombo, che hanno messo a punto il piano industriale e finanziario a sostegno della ristrutturazione puntando all’integrale abbattimento del grande debito verso tutti i creditori (non sarà affatto facile), dovranno capire con chi andare avanti nella trattativa (probabilmente la cordata promossa dal Vaticano).
Dalle prime indiscrezioni, è possibile che a scendere in pista per conto della Santa Sede sia direttamente lo Ior, la banca vaticana, con circa 400 milioni di euro. Mentre la charity internazionale interessata al salvataggio dovrebbe acquisire una quota di minoranza.
EVITARE IL FALLIMENTO Dallo Ior 400 milioni Pronta una charity internazionale
L’ALTRA OFFERTA Giuseppe Rotelli offre 250 milioni in contanti con una newco aperta
LA PROCURA Il tribunale di Milano accende un faro sui conti societari

il Fatto 1.7.11
Niente tagli, siamo inglesi
Per il più grande sciopero dai tempi della Thatcher mezza Inghilterra in piazza contro il nuovo piano di austerità
di Giampiero Gramaglia


   Il giudice Michael Bowes non ha scioperato: in aula, ha pronunciato la condanna all’ergastolo di Danilo Restivo per l’omicidio di Heather Barnett, il 12 novembre 2002, a Bournemouth, nel Dorset. “Lei non uscirà mai di prigione”, ha detto Bowes, etichettando Resti-vo come “recidivo” e decretandone così d’un colpo solo la colpevolezza nell’assassinio di Elisa Claps, nel 1993, a Potenza.
   Se il giudice Bowes era al suo posto, mezza Inghilterra del pubblico impiego è rimasta a casa, o é andata in piazza a protestare contro la riforma delle pensioni: moltissimi dei 750 mila dipendenti pubblici hanno incrociato le braccia, contestando il progetto governativo di innalzare l’età pensionabile e i contributi a carico dei lavoratori. Londra, con disordini a pochi passi da Downing Street, è così tornata sulla mappa dello scontento sociale in Europa, accanto ad Atene e a Varsavia. Ma gli incidenti, ieri, non hanno avuto nulla a che spartire con le guerriglie urbane greche e neppure con la la battaglia infuriata proprio a Londra in dicembre e di nuovo a marzo durante le proteste contro l’austerity.
   LE POLITICHE del rigore dettate dall’Ue e dalla Bce creano malessere, colpiscono i più deboli e non sono spesso capite dai cittadini, anche perché è difficile creare consenso su obiettivi magari vitali, ma lontani dai bisogni quotidiani: la riduzione del debito pubblico e la protezione dell’euro dalla speculazione (il che, agli inglesi che hanno la sterlina, non interessa proprio). I dati sulla partecipazione sono ancora preliminari e sono ovviamente controversi: 100 mila manifestanti, neppure il 15% dei lavoratori interessati, secondoilgoverno,mentreilsindacatopiù rappresentativo calcola l’adesione dell’84% dei 285 mila suoi iscritti, nell’agitazione “più vasta e meglio coordinata di questa generazione”. Certo, la lotta sociale in Gran Bretagna non va più di moda dai tempi duri di Margaret Thatcher e delle severe sconfitte allora subite. Ieri, la scuola è stata tra i settori più colpiti: oltre 11 mila istituti non hanno aperto o hanno cancellato le lezioni. Ma Downing Street legge il dato in positivo: un terzo circa delle scuole erano aperte, un terzo chiuse e un terzo hanno funzionato un po’ si’ e un po’ no. Però, hanno incrociato le braccia anche insegnanti di scuole private appartenenti a un sindacato che non scioperava da 127 anni. E ad Eton, l’esclusivo liceo simbolo della classe dirigente britannica, dove ha studiato pure l’attuale premier David Cameron, una manciata di professori non è andata in classe.
   LA MAGGIORANZA, tuttavia, ha scelto di “dare battaglia contro la riforma delle pensioni con altri mezzi”. Perchè, in effetti, lo sciopero e la protesta hanno suscitato reazioni controverse non per la sostanza delle rivendicazioni, ma per il momento scelto: braccia incrociate e tutti in piazza mentre i negoziati governo-sindacati sono ancora aperti. Il capo dell’opposizione laburista Ed Milliband ha giudicato l’agitazione “sbagliata”, pur aggiungendo che il governo sbaglia, dal canto suo, le misure anti-austerity: in un messaggio su Twitter, Milliband ha scritto che “la gente è stata tradita da entrambe le parti e il governo ha agito in modo sconsiderato”. Dura la replica del leader sindacale Mark Serwotka: Milliband dovrebbe “ripensare a quel che sta facendo”.
   CORTEI SONO sfilati in molte città britanniche. A Leeds un bambino innalzava uno striscione: “Quando sarò grande... non potrò permettermi di fare l’insegnante”. A Londra, 30 mila sono scesi in piazza: frange del corteo si sono scontrate con la polizia a Whitehall, il quartiere dei ministeri; una trentina di persone sono state arrestate. “L’impatto dello sciopero è stato minimo”, ha dichiarato una portavoce di Cameron, ma il vice-premier Nick Clegg non ha portato i figli a scuola. La temuta paralisi di alcuni servizi essenziali, come ad esempio i posti di controllo dei passaporti nei porti e negli aeroporti, non c’è stata. E, come le scuole, tribunali e altre strutture pubbliche hanno funzionato, sia pure a macchia di leopardo. Però, il 90 per cento dei poliziotti che gestiscono i call center erano in sciopero, per ammissione di Scotland Yard: il che ha reso difficile chiamare un’ambulanza, la polizia o i vigili del fuoco.
   La riforma delle pensioni contestata prevede l’innalzamento dell’età pensionabile da 60 a 66 anni e l’aumento dei contributi che ciascun lavoratore del pubblico impiego deve versare. Le trattative dovrebbero proseguire fino all’autunno e la protestapotrebbeavereseguitiesviluppi: la Gran Bretagna del conservatore Cameron non è il ventre molle di un’Europa travagliata dalla crisi, ma la gente vuole capire prima di pagare.

l’Unità 1.7.11
Messa fuori uso un’imbarcazione irlandese ancorata in un porto turco
I promotori italiani: al Governo chiediamo protezione. Pronti per Gaza
Flotilla, seconda nave sabotata. Gli organizzatori: è il Mossad
Sono pronti a salpare. Ma devono fare i conti con intoppi burocratici e gli avvertimenti israeliani. Ancorata a Corfù, la «Stefano Chiarini», nave italiana che fa parte della «Flotilla 2» vive gli ultimi preparativi...
di U.D.G.


«Dal Governo italiano non vogliamo un appoggio politico ma solo protezione». Questo l'appello lanciato ieri in una conferenza stampa dai coordinatori della «Stefano Chiarini», la nave italiana che parteciperà alla Freedom Flotilla 2 diretta a Gaza. «La nostra richiesta è quella di rispettare il diritto internazionale e garantire la sicurezza dell'equipaggio della nave». hanno ribadito i coordinatori. Già nei giorni scorsi, fanno notare gli organizzatori della «Stefano Chiarini», la Freedom Flotilla Italia aveva chiesto garanzie sulla salvaguardia dei partecipanti al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Richiesta a cui «un segretario dell'onorevole Letta ha risposto, per telefono, chiedendoci di non andare a Gaza e definendo non opportuna la nostra missione», spiega Paola Mandato, uno dei coordinatori della nave italiana. E, sempre nei giorni scorsi, la richiesta di un'adeguata protezione è stata inoltrata via fax anche alla presidenza della Repubblica, hanno aggiunto gli organizzatori.
TENSIONE CRESCENTE
Al di là delle risposte e degli impegni assunti o meno dal Governo italiano, la «Stefano Chiarini», è pronta a salpare. Le formalità burocratiche necessarie «sono state completate, l'ok per l'assicurazione è arrivato e ieri (mercoledì, ndr) è stata issata la bandiera dell'imbarcazione», annunciano i responsabili. Per l'ok definitivo alla partenza manca ora l'ispezione delle autorità locali che però è «imminente». Mentre a differenza di altre navi della flottiglia, la «Stefano Chiarini» e stata risparmiata dai sabotaggi anche perchè «è sorvegliata da due lance della capitaneria di porto... La nave precisa ancora Mira Pernice è ormeggiata all'isola di Corfù e potrà portare tra i «50 e i 70 passeggeri»
Una nave irlandese della «Flotilla 2 verso Gaza» è stata sabotata nel porto turco di Gocek, denuncia a Dublino il comitato organizzatore. Per il comitato, è Israele «il principale sospettato» della vicenda. La nave Saoirse (libertà) degli irlandesi è stata «vittima di un sabotaggio nel porto turco, di Gocek, dove si trovava da qualche settimana», hanno detto gli organizzatori in un comunicato, sottolineando che Israele dovrebbe essere considerata «il principale sospettato di questo atto»
VOCI CRITICHE
Da Israele si levano voci critiche contro una nuova prova di forza verso le navi della «Flotilla». Tra queste voci, c’è quella di Gideon Levy, editorialista di punta del quotidiano Haaretz. «Cosa siamo diventati? La violenza è diventata la lingua ufficiale di Israele?», chiede Levy. Secondo il giornalista la campagna mediatica anti-palestinese ha delle sue «parole d'ordine: pericolo, musulmani, turchi, arabi,terroristi, attentatori suicidi, sangue, fuoco e colonne di fumo. un modello ricorrente scrive per demonizzare e poi legittimare la violenza». Sulle navi, rimarca Levy, «vi sono attivisti sociali e combattenti per la pace e la giustizia, i veterani della lotta contro l'apartheid, il colonialismo e l'imperialismo. Vi sono intellettuali, i sopravvissuti dell'Olocausto, , persone anziane, che stanno rischiando la vita per un obiettivo che è considerato un tradimento».

Corriere della Sera 1.7.11
Esportare clandestini: l’idea di Israele
di Francesco Battistini


Cari australiani, vi «comprereste» un po’ dei nostri immigrati? La domanda, a prima vista politicamente oscena, l’altro giorno se la sono sentita porre alcuni deputati di Canberra in visita alla Knesset. Voi avete una densità di 3 abitanti per km quadrato, ha detto loro il presidente del Comitato israeliano per l’immigrazione, noi ci pigiamo a quota 365. Voi avete fame di manodopera mentre da noi, dov’è da mezzo secolo irrisolto il rebus dei profughi palestinesi, via Sinai adesso arrivano pure migliaia di africani in fuga da altre guerre. «Ogni anno il governo australiano accoglie un buon numero di rifugiati— ha buttato lì Danny Danon, deputato della maggioranza Likud —, perché non c’infilate i 22mila eritrei e gli 8mila sudanesi che vivono qui?» . I deputati ospiti, all’inizio, hanno strabuzzato gli occhi. Poi ci hanno pensato. E il capodelegazione Michael Danby, buon amico d’Israele, ha promesso che sottoporrà la questione al suo premier: biglietto di sola andata per la Terra dei canguri, passaporto e lavoro garantiti, rispetto degli standard Onu, nessuna deportazione forzata, l’occasione per i disperati del Terzo mondo di rifarsi una vita dall’altra parte del globo. Molti interessi coincidono, hanno concordato Danon e Danby: accettando gli africani, gli australiani incasserebbero cooperazione tecnico-scientifica con Israele e intanto scanserebbero l’obbligo umanitario d’ospitare i profughi asiatici, dall’Afghanistan o da Timor Est, che in passato si sono rivelati più problematici; il governo Netanyahu eviterebbe (questo il vero scopo della proposta) un aumento dei musulmani nella popolazione d’uno Stato che preferisce ebraico. A sorpresa, o neanche tanto, a caldeggiare l’accordo sono gli stessi profughi: «Qui non abbiamo un’identità— ha implorato lo scrittore Isaac Kidane, loro portavoce —, preferiamo andare in un Paese più grande e più sicuro. Per favore, firmate l’accordo!» . La Via dei Canti australiana meglio d’un foglio di via dai campi (profughi): cinismo o pragmatismo? «Creatività umanitaria» , potremmo chiamarla. Per un dramma che altrove (non) viene risolto se non a slogan.

Corriere della Sera 1.7.11
Sul supertreno per Shanghai dove la Cina corre a due velocità Dentro si vola a 300 km all’ora. Fuori i buoi trascinano gli aratri
di Paolo Salom


DAL NOSTRO INVIATO SUL TRENO PECHINO-SHANGHAI — A 300 chilometri l’ora la Cina si fa più piccola. Il Paese-continente, esteso quanto l’Europa, da ieri ha accorciato le distanze o, meglio, i tempi di percorrenza. Pechino Shanghai in 4 ore e 48 minuti: le due città, separate da un’antica rivalità e tanto spazio quanto ne corre tra Milano e Reggio Calabria (1.318 chilometri), ora sono più vicine grazie al Treno dell’Armonia, come è stato battezzato l’equivalente dello Shinkansen giapponese o del Tgv francese: «Hexiehao» , tre caratteri che hanno gonfiato d’orgoglio il governo. «È una conquista per la Repubblica Popolare — dice il premier Wen Jiabao salendo sul treno inaugurale—. La chiave per ammodernare la nostra rete dei trasporti» . Il Treno dell’Armonia parte in perfetto orario dalla stazione di Pechino Sud, che per design e imponenza ha più l’aspetto di un aeroporto. Dentro, una folla brulicante si accalca verso i binari: famiglie con bambini, giovani professionisti, figli di operai e contadini, che nemmeno immaginano quale Cina ha preceduto questa dei treni superveloci. Almeno fino a quando il proiettile che nei filmati pubblicitari è trasformato in un dragone saettante non lascia la capitale alle sue spalle. Questione di un attimo. Il display che aggiorna in tempo reale la minima variazione della velocità fa appena in tempo a segnare «300 km/h» e fuori dal finestrino ecco affacciarsi la Cina che non ti aspetti più ma che è lì da sempre: campagne immense coltivate a sorgo e riso, villaggi di case basse e tetti ricurvi, separate da strade di terra infradiciata dalla pioggia, uomini e donne piegati sui solchi, in mano la zappa e niente più. Qua e là un bue tira un aratro o un carretto. Fuori dai centri urbani la sovrappopolazione, cifra del Paese dai grandi numeri, si trasforma nel suo opposto: «Solo gli anziani e pochi giovani senza arte né parte restano in campagna: del resto, chi vorrebbe vivere lontano dalla civiltà?» , dice uno studente che non stacca un istante il viso dal finestrino. Ogni tanto, la linea sopraelevata dei binari attraversa un’autostrada, altro esempio di inserto futuristico fuori contesto, in apparenza estraneo come un trapianto nella vita contadina, da sempre (o almeno fino alle riforme e all’apertura) fondamento della società cinese. Oggi però contano di più le statistiche, possibilmente da record. La ferrovia superveloce ne è un catalogo: con l’apertura del tratto che unisce le due capitali, quella politica e quella economica, ha proiettato la Cina al primo posto nella classifica dei Paesi che dispongono dell’alta velocità, oltre 4 mila chilometri. Anche l’impegno finanziario è stato gigantesco: il governo ha investito l’equivalente di 23 miliardi di euro e conta di raggiungere Hong Kong entro il 2012 con uno sforzo analogo, peraltro destinato a rimanere in perdita per un tempo ancora imprecisato. Dunque, tra un anno o poco più, da Pechino si potrà andare nell’ex colonia britannica in otto ore (contro le 24 circa di oggi). Come dire, attraversare tutta la Cina da Nord a Sud nello spazio di una giornata lavorativa, potendo utilizzare il telefono, i computer e tutti gli aggeggi elettronici che permettono la connessione perenne (vietata in aereo). Qian Feng, 33 anni, reporter per la radio tedesca Ard, è arrivato mercoledì a Pechino da Shanghai (13 ore di treno «normale» ) e ora sta rientrando in meno della metà del tempo: «Il salto tra ieri e oggi è incredibile— dice—. E, certo, osservare la Cina che si estende qui fuori fa impressione: per il divario di stile di vita e possibilità» . Qian chiarisce: «Il treno superveloce fa un effetto strano, perché amplifica questa sensazione di contrasto. Ma le province povere ci sono sempre state: chi vive a Shanghai lo sa com’è la vita in campagna, soltanto che non la vede scorrere, come un film, al di là del finestrino» . Meno di cinque ore: Hebei, Shandong, Jiangsu, una dopo l’altra le province orientali mostrano il passato recente, quello dimenticato da chi vive e lavora nei grattacieli. «È la parte a sud di Shanghai la più progredita» , precisa Zhou Xiadong, 50 anni, un funzionario del ministero dei Trasporti che ha preso il treno «così, per vedere com’era il viaggio inaugurale» . L’alta velocità, aggiunge, «permetterà di unire ancora di più il Paese, incrementandone lo sviluppo: in fin dei conti, anche in Francia o in Italia ci sono zone più arretrate rispetto ai centri urbani più importanti» . Qiao Taiyang, 63 anni, seduto nella zona «Vip» , a 1.750 yuan la poltrona -200 euro (contro i 100 euro della prima e i 44 della seconda classe) -non ha dubbi: «Questo treno è una meraviglia» . Qiao è un ex generale dell’aviazione e dice di «sentirsi benissimo a viaggiare come un aereo incollato al terreno» . Sta andando a Shanghai per festeggiare i 90 anni del Partito comunista, fondato il 1 ° luglio 1921 da sognatori che immaginavano di costruire una Cina moderna, certo, ma forse non così. Eppure, Zhu Xuenong, 80 anni, operaio in pensione, seduto accanto alla moglie Liu Zhaodi, 70, non ha nostalgia per il passato egualitario: «In questi decenni i cambiamenti sono stati sconvolgenti. Prima però non era vita: troppo dura» . Sorride mentre il treno entra nella stazione di Shanghai. Spaccando il secondo.

Repubblica 1.7.11
Quando l´America sembrava l´impero romano
di Timothy Garton Ash


Ci avviciniamo al 4 luglio, il Giorno dell´Indipendenza in America. Come tutti sappiamo, quindici anni fa un´invasione aliena, condotta con colossali dischi volanti parcheggiati nei cieli, fu respinta dall´ingegnosità, dalla determinazione e dall´eroismo delle forze americane, a capo di una coalizione mondiale dei volenterosi. Il presidente Usa Thomas J. Whitmore dichiarò che il 4 luglio d´ora in avanti sarebbe stato festeggiato come il Giorno dell´Indipendenza non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero. Il suo discorso è stato definito da un critico «il più sconcertante e pomposo soliloquio mai propinato in un kolossal hollywoodiano» (e ce n´è di concorrenza).
Naturalmente stiamo parlando solo di un film, il blockbuster del 1996 Independence Day, ma di un film che è anche un documento della sua epoca, e che ci riporta a una fase in cui il predominio dell´America appariva supremo, onnipotente, irresistibile, sia al cinema che nella vita reale. La nuova Roma, il Prometeo libero dalle catene che poteva vantare l´esercito più potente che il mondo avesse mai visto, era l´iperpotenza al centro di un mondo unipolare. Quanto cambiano le cose in quindici anni. Il più grande esercito che il mondo abbia mai visto da allora ha combattuto due guerre importanti, in Iraq e in Afghanistan, che in nessuno dei due casi si sono concluse con chiare vittorie. L´Iraq è in gran parte dimenticato sui media americani. «È storia» (nel senso che è passato).
L´Afghanistan non è ancora finito. L´attacco suicida contro l´hotel Intercontinental a Kabul, martedì, ha dimostrato quanto questo Paese sia ancora lontano da livelli base di sicurezza, e lontanissimo da una democrazia liberale. Ma nonostante i bofonchiamenti dei suoi comandanti militari, il presidente Obama ha dichiarato che le truppe americane si ritireranno secondo la tabella di marcia prevista. L´America, dice l´inquilino della Casa Bianca, deve concentrarsi sul nation-building in casa propria. La maggioranza degli americani sembra d´accordo. Un blog recentemente paragona Obama a un altro leader che dopo un decennio di operazioni militari si ritirò dal Paese centroasiatico per concentrarsi sulla ricostruzione economica e sociale della sua nazione, e chiama il presidente americano "Barack Gorbaciov".
A volte mi capita di pensare che l´unico difetto del famoso libro dello storico Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, sia di essere stato pubblicato un quarto di secolo troppo presto e di aver scelto la potenza emergente sbagliata. Essendo uscito nel 1987, poco prima del tracollo dell´Unione Sovietica e dell´inizio di un decennio di stagnazione per il Giappone, gli americani hanno avuto gioco facile a liquidarlo sprezzantemente come una tesi allarmista senza fondamento. Ma immaginatevi di vederlo pubblicato per la prima volta quest´anno, e che la potenza emergente citata sia la Cina …
Gli Stati Uniti devono sopportare alcuni degli oneri di quello sforzo strategico eccessivo descritto da Kennedy. È stato calcolato che il costo per gli Stati Uniti delle guerre in Iraq e in Afghanistan, e di altre operazioni post-11 settembre, è quasi quattro volte superiore, in dollari odierni, al costo sostenuto dagli Usa per la Seconda guerra mondiale. Considerando che nel frattempo l´economia americana ha avuto una crescita spettacolare, il peso sul Pil è molto inferiore: 1,2% nel 2008, secondo le stime, contro il 35,8% nel 1945. Ma il decennio di conflitti armati in tutto il mondo (inizialmente perché trascinati dalle azioni di Osama bin Laden, ma poi con una guerra non necessaria in Iraq) ha assorbito una percentuale di tempo, attenzione ed energie molto maggiore. Anche quando Washington cerca di lasciare un conflitto ad altri - come nel caso della Libia - continua a venirci trascinata dentro, nel ruolo, per così dire, di prestatore militare di ultima istanza.
Oltre all´eccessivo sforzo strategico gli americani devono fare i conti con un eccessivo sforzo sociale. Dal punto di vista del welfare, le differenze tra Europa e Stati Uniti sono molto meno rilevanti di quanto la maggior parte della gente, su entrambe le sponde dell´Atlantico, ritenga. La realtà è meno diversa dell´immagine mentale che ci siamo costruiti. Secondo Peter Orszag, un ex direttore dell´Ufficio gestione e bilancio della Casa Bianca, i programmi sanitari pubblici Medicare e Medicaid e la Social Security (la previdenza pubblica), nel 2015 arriveranno a rappresentare quasi la metà della spesa pubblica in America. L´altra metà sarà costituita principalmente dal pagamento degli interessi sul debito pubblico, sempre più elevato, e dalla spesa discrezionale, di cui la metà circa è destinata alla difesa. In alcuni Stati, come la California, la situazione dei conti pubblici è ancora più nera.
Dunque bisogna tagliare la spesa pubblica, nonostante le infrastrutture americane - strade, ferrovie (quali ferrovie?), reti elettriche, ospedali, scuole - mostrino tutti i segni di una trascuratezza che va avanti da tempo. Per affrontare questi problemi strutturali accumulati e radicati, l´America ha bisogno di un´iniziativa politica risolutiva, che travalichi le divisioni tra i partiti. Su questo punto la maggioranza degli americani concorda. Era quello che aveva promesso Obama in quella breve e indimenticabile alba del 2008-2009. Ed è quello che fino a questo momento non è riuscito a mantenere, in parte per limiti suoi, ma principalmente perché ci vorrebbe qualcosa di simile a un superuomo, un Gorbaciov americano pompato a steroidi, per superare la polarizzazione politica di questo Paese e sbloccare un sistema politico incancrenito. Vale sia a Washington, dove il nocciolo del problema sta nella necessità di superare l´ostacolo della maggioranza qualificata in Senato, che in tanti singoli Stati. Una magnifica struttura costituzionale fatta di equilibri e contrappesi, pensata per prevenire il ritorno della tirannia britannica, si è atrofizzata in un sistema che rende quasi più difficile fare una riforma che fare una rivoluzione.
Al di là della tecnica, c´è il problema fondamentale della fiducia nei propri mezzi. Ma ora anche il vecchio ottimismo fattivo degli americani è messo a dura prova. Perfino quelli che si sgolano a proclamare l´eccezionalismo americano suonano le corde del pessimismo culturale. «Mi spezza il cuore», dice enfaticamente Glenn Beck, «vedere questa nazione che va sostanzialmente in malora».
Naturalmente, gli altri stanno ancora peggio. La nuova Roma non è ancora diventata la nuova Grecia. Ma tra l´Unione europea e gli Stati Uniti ormai forse siamo di fronte a un caso di decadenza competitiva. L´America sicuramente è ancora avanti, ma è stato un senatore repubblicano, non democratico, quello che ho sentito dire l´anno scorso che «questo Paese diventerà la Grecia, con l´unica differenza che non abbiamo l´Unione europea a salvarci». Il fatto che gli americani si siano resi conto di trovarsi in un baratro è un segnale di speranza. Meno incoraggiante è il fatto che non riescano a mettersi d´accordo su come uscirne.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 1.7.11
Strauss-Kahn verso il rilascio:
"La cameriera ha mentito"

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http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2100&ID_sezione=58&sezione=

La Stampa 1.7.11
Haber cacciato da Otello “Molestava Lucia Lavia”
L’episodio, finito a schiaffi, durante le prove al Teatro di Verona Lei querela, lui si difende: strumentalizzato dal suo potente clan
di Maria Giulia Minetti


Il titolo che si potrebbe dare a questa storia è lo stesso del suo primo disco, Haberrante , solo che qui la vicenda è vera e di ironico, in quel che è successo, non c'è proprio niente. Quanto vera e quanto «quasi» vera si vedrà, i comunicati si rincorrono, ma intanto uno dei più importanti attori italiani, Alessandro Haber, è stato cacciato dal cast dell' Otello a pochi giorni dalla prima con un'accusa grave, infamante. «La Cooperativa Nuova Scena - Teatro Stabile di Bologna - si legge nel comunicato della produzione ha deciso di risolvere con effetto immediato il rapporto di lavoro con Alessandro Haber in relazione allo spettacolo Otello con regia di Nanni Garella, il cui debutto è previsto al Teatro Romano di Verona per il 13 luglio 2011. La risoluzione del rapporto con Haber è conseguenza dei gravi comportamenti tenuti nel corso delle prove dello spettacolo nei confronti di Lucia Lavia. Per tutelare con forza la sua dignità di giovane donna e di attrice, Lucia Lavia ha dato mandato al proprio legale, Avv. Francesco Brizzi, di presentare querela nei confronti di Alessandro Haber».
Potrebbe bastare, ma c'è di più. «La decisione della Cooperativa - va avanti il comunicato - è stata assunta in quanto i gravi fatti accaduti contrastano palesemente con le più elementari regole di deontologia professionale e con i principi di eticità propri della Cooperativa Nuova Scena». E chissà se quei principi avrebbero retto anche davanti al rischio di dover rinunciare ad andare in scena, ma per fortuna sfacciata è risultato disponibile sul mercato Franco Branciaroli, come dire il meglio del meglio, momentaneamente disoccupato dopo i tre giorni di repliche monzesi di Processo e morte di Stalin . E per stra-fortuna, Branciaroli l' Otello l'ha già recitato, anni fa, e proprio con la regia del padre della «vittima» di Haber, Gabriele Lavia.
Prima di mettere a confronto le versioni delle parti, è meglio riferire quelle dei testimoni, confuse, perché nessuno s'è reso ben conto di quel che stava succedendo, ma più o meno concordi. Le versioni dicono che il giorno 22 giugno, durante le prove, dovendo per esigenze di copione baciare Lucia Lavia/Desdemona, Alessandro Haber/Otello non abbia, com'è l'uso, finto il bacio, ma si sia dedicato, per così dire, a un approccio più realista, al che la giovanissima Lucia (non ha ancora compiuto vent'anni), infuriata e offesa, ha reagito con uno schiaffo. Il sessantacinquenne Haber ha replicato con la prontezza di un ragazzo schiaffeggiandola a sua volta e coprendola di insulti. E' dovuto intervenire Jago, l'attore Maurizio Donadoni, per sedare il tumulto. Dopodiché Lucia Lavia ha lasciato la scena giurando: mai più con Haber.
Parlare coi protagonisti risulta pressocché impossibile. Spento il cellulare di Lucia, acceso invece quello di Haber, che la sua versione avrebbe una gran voglia di raccontarla a voce, ma viene stoppato dal suo avvocato: abbiamo stilato un comunicato. E' guerra di comunicati, dunque. E di contrastanti versioni. Sostiene l'avvocato Francesco Brizzi, legale di Lucia Lavia, che «la parte di Alessandro Haber c'è stato un approccio eccessivo. Eccessivo da parte di un uomo di 65 anni nei confronti di una ragazza di 19». Verrà presentata una querela, ha comunicato il legale. A chi gli ha chiesto se si sia trattato di molestia sessuale, l'avvocato s'è rimesso alla valutazione del magistrato. Ma il veleno sta in coda al comunicato, dove si sostiene che l'episodio deflagrante non è «unico», bensì la goccia che ha fatto traboccare il vaso dopo settimane di analoghi comportamenti «eccessivi» sopportati non solo da Lucia Lavia, ma anche da «altri attori e tecnici». Difficile pensare che Haber abbia voluto baciarli tutti, più facile che l'insinuazione si riferisca a esplosioni verbali, contumelie, insulti. Diversamente molesto, insomma. Lui però s'infischia delle accuse collaterali e, tramite i suoi legali, risponde andando diritto al punto. «Non vi è mai stato alcun comportamento scorretto o tentativi di baciare l'attrice Lucia Lavia con intento differente da quello di dare vita e corpo al mio Otello - puntualizza orgoglioso -.. Come sempre stavo unicamente cercando di fornire un'interpretazione del mio personaggio, del tutto in linea con il mio ruolo di attore e di interprete. La mia era esclusivamente una interpretazione creativa non colta dall'attrice». E accusa il potentissimo clan Lavia-Guerritore: «Sono oggetto di una strumentalizzazione finalizzata a dare pubblicità alla giovane attrice. La compagnia si è piegata alle richieste della potente famiglia». La questione, in fondo, è quella vecchissima della linea di confine tra vita e arte. Alessandro Haber, sembra di capire, la traccia molto più in là di Lucia Lavia. D'altra parte, che bisogno c'è di immedesimarsi così tanto? «Basta recitare», suggeriva Laurence Olivier.

La Stampa 1.7.11
Hitler, un retore tra lusinga e sarcasmo
La dittatura nasce nelle parole di tutti i giorni
Il linguaggio politico determina i comportamenti sociali Una nuova edizione di LTI di Victor Klemperer

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http://www.scribd.com/doc/59105202

il Fatto Saturno 1.7.11
Moravia. Che noia, la Resistenza
Indifferenti alla guerra
di Raffaele Liucci


DOPO L’8 SETTEMBRE ’43, come ha scritto Emilio Gentile, «crollato miseramente l’ambizioso mito di una Grande Italia, che voleva dare l’assalto alla storia per fare la storia», non restava che una via d’uscita: «fuggire dalla storia, cercando in ogni modo […] di sottrarsi alla furia della guerra». Questa divenne l’unica aspirazione degli italiani – la vita come mera sopravvivenza materiale –, al di là delle minoranze che per un anno e mezzo combatteranno aspramente armi in pugno. Il disimpegno degli intellettuali assunse nuove sfumature. Lo testimoniano, fra l’altro, nel novembre ’43, i due inviperiti articoli in cui Mussolini denunciò gli scrittori e giornalisti ch’erano ormai passati al nemico o, piú probabilmente, s’erano imboscati.
È arrivato dunque il momento di riesumare gli eloquenti ‘reperti’ disseminati dagli uomini di cultura che, a vario titolo, si ritrassero da una scelta ‘militante’, preferendo invece nascondersi, imprigionarsi in una stanza, dissociarsi dalla propria epoca.    ALBERTO MORAVIA ha piú volte parlato del suo romanzo La ciociara (1957) come d’un «omaggio alla Resistenza». All’origine c’è un dato autobiografico: i nove mesi vissuti da sfollato, insieme alla moglie, Elsa Morante, in una capanna di San-t’Agata, presso Fondi di Ciociaria, dal settembre ’43 al maggio ’44. Passeranno piú di dieci anni tra la prima e la seconda, definitiva stesura di quest’opera. Poco dopo aver pubblicato La romana, nel ’47, Moravia aveva infatti pensato di scrivere un romanzo che avesse per tema la seconda guerra mondiale e la sua personale vicenda di sfollato. Però, buttate giú un’ottantina di pagine, si bloccò perché non gli «pareva di avere ancora abbastanza distanza, diciamo cosí, di contemplazione degli eventi che volevo narrare».
   La trama della Ciociara è presto detta. Cesira e Rosetta, madre e figlia, due popolane romane costrette ad abbandonare la città dopo l’armistizio, trovano rifugio in una piccola comunità di contadini della Ciociaria, dove trascorrono nove mesi di stenti, in attesa della liberazione di Roma. L’altro protagonista è Michele, studente universitario, anch’egli sfollato con la famiglia. Michele è un borghese antifascista, consapevole di quanto la sua classe sociale si fosse genuflessa a Mussolini. Il giovanotto cerca di far proseliti ma, con l’eccezione di Cesira e Rosetta, nessun sembra dargli retta. Ciò che preme ai contadini è infatti soltanto la rapida conclusione del conflitto. Non conta quale dei due eserciti stranieri prevarrà: conta soltanto poter ritornare alla propria vita di un tempo. Sconsolanti le pagine finali: Michele è ucciso dai tedeschi in fuga, mentre Cesira e Rosetta, nel corso dell’ingrato rientro a Roma, sono aggredite all’interno d’una chiesa da alcuni soldati francesi marocchini, che violentano ripetutamente, sotto l’altare, la figlia.
Al di là delle velleità di Michele, non c’è davvero alcuna traccia di «Resistenza» in questo libro. Gli stessi fascisti, di fatto, brillano per la loro assenza, laddove a dominare è un mondo rurale, impermeabile alla guerra.
Ritorniamo allo sfondo autobiografico. Durante l’interregno di Badoglio, Moravia aveva pubblicato due articoli sul «Popolo di Roma», diretto da Corrado Alvaro. Si trattava, senza dubbio, d’interventi antifascisti, anche se il regime mussolinano era interpretato quale cancro degenerativo d’un modello populista abbracciato pure da settori dell’antifascismo. Dopo l’8 settembre, lo scrittore rischiava dunque l’arresto. Onde la sua fuga da Roma, senza prender parte alla Resistenza.
   Moravia ricorderà spesso il periodo trascorso a Sant’Agata come «un’esperienza piuttosto bella», «uno dei momenti piú felici della mia vita». Nel-l’intervista autobiografica magnificherà la sua stagione da imboscato, «questa attesa delle truppe alleate, questo vivere sempre all’aperto immersi nella natura, questa solitudine [che] formavano intorno a me un’atmosfera insieme disperata e piena di speranza che non ho piú ritrovato da allora». Per poi concludere: «Adesso dico scherzosamente che la guerra in fondo non è che un lungo picnic. In tutti i casi io ero abbastanza consapevole che era un’avventura e la vivevo appunto con quel tanto di contemplazione che ci accompagna nelle avventure». Non basta. Confesserà pure che nel ’39 non era troppo atterrito dai venti di guerra: «avevo una specie di curiosità autolesionistica di vedere cosa sarebbe successo in Europa». Nei primi anni del conflitto, per di piú, risiedeva almeno sei mesi all’anno a Capri, con la Morante. La «meravigliosa natura di quell’isola» funzionava da «contrappeso di eternità» in grado di equilibrare «gli orrori sociali della guerra e del fascismo».
   Nessun interesse, invece, per il risvolto politico di quegli eventi. All’epoca, infatti, Moravia si crogiolava in «un momento di assoluta incredulità», di «amara delusione»: «non credevo piú né all’antifascismo, né al fascismo, né al comunismo, né al capitalismo». Il fascismo sembrava trionfare ovunque, ma egli, pur odiandolo, odiava anche «quelli che non sapevano resistergli» e, perciò, «anche le masse che affluivano nei fascismi e nello stalinismo». Saranno queste idiosincrasie, probabilmente, a stimolare la sua curiosità contemplativa. Meglio la solitudine che i bagni di folla: «sento che fra l’artista e le masse il rapporto è veramente sgradevole, penoso. È un rapporto basato su un malinteso, sull’adulterazione, sulla demagogia».
   Nel ’46 Moravia scriveva L’uomo come fine, un ambizioso quanto ingenuo saggio politico, che rispecchiava il suo «stato d’animo». Una confutazione, un po’ scolastica, del realismo machiavellico, che aveva degradato l’uomo «da fine a mezzo tra gli altri mezzi» e legittimato le ecatombi del Novecento. La sua requisitoria si concludeva con parole rinunciatarie: «Se l’uomo vuole ritrovare un’idea dell’uomo e strapparsi dalla servitú in cui è caduto, deve esser consapevole dell’esser suo di uomo e per raggiungere questa consapevolezza deve abbandonare una volta per tutte l’azione per la contemplazione». E s’è visto quante volte la percezione contemplativa ed estetizzante della guerra sia ritornata nei suoi ricordi.
   Facciamo un passo avanti. Nel ’51 lo scrittore romano pubblicava Il conformista, il suo discusso romanzo ispirato all’assassinio dei fratelli Rosselli (dei quali era cugino).
   In particolare, il personaggio del professor Quadri, esule antifascista a Parigi, assassinato con il concorso del protagonista Marcello (il «conformista»), non è certo una figura solare: uomo sinistro e imbelle, ipocrita, sposato con una donna lesbica, Quadri è un intellettuale snob, dalla cultura libresca, che ha scelto di passare dal pensiero all’azione abbracciando un dilettantismo cospira-torio goffo e inconcludente. Siamo ben lontani, insomma, dalle limpide figure di Carlo e Nello Rosselli. Ci troviamo, piuttosto, davanti a una storia ove «fascismo e antifascismo si incontrano, si riconoscono, si attraggono, giacciono sullo stesso letto, di nuovo si scontrano, quasi si elidono. Il male si sa dove stia, ma è il bene che non si sa dove stia, tanto la personalità di Quadri è fatua e sfuggente». Se la letteratura s’impegna, aveva dichiarato Moravia a Ferdinando Camon nel ’67, «corre il rischio continuo di essere trasformata in propaganda […] Perciò l’impegno è pericoloso».
   Raffaele Liucci

il Fatto Saturno 1.7.11
Canetti
“Massa e potere” oggi
di Marco Filoni


   C’è qualcosa di vertiginoso. Afferrare un secolo, scuoterlo dalle fondamenta sino a sviscerarne gli anfratti più reconditi e oscuri. Ecco cosa può fare un libro: quasi seicento pagine che, una dopo l’altra, affondano uno sguardo acuto nelle pieghe nascoste della cultura europea. Questo è Massa e potere, il capolavoro di Elias Canetti. Non un libro qualsiasi. Più una battuta di caccia, nella quale la preda è il “potere”. I personaggi entrano in scena: sono il persecutore e la vittima, il testimone e l’aguzzino, il tradito e il traditore – figure che abitano la scena di quel ventre possente, tanto affascinante quanto spaventoso, che è il Novecento. Un secolo che, fra l’altro, ha vissuto la crisi delle categorie politiche della modernità. Canetti ha saputo scorgere quest’orizzonte capendo, più di altri, che il potere è una verità nascosta, una verità che si nasconde anche a se stessa. E proprio per questo va cercata. Ieri come oggi.
   È questo il senso del volume Leggere Canetti. “Massa e potere” cinquant’anni dopo, curato da Luigi Alfieri e Antonio De Simone, che l’editore Morlacchi di Perugia ha appena mandato in libreria. Non uno studio su Canetti, ma con e attraverso Canetti: e difatti nasce a Urbino, dove nella sua università da più di vent’anni la cattedra di Antropologia culturale produce ricerche in questo senso. Gli autori, tutti eccellenti studiosi di filosofia politica, si sono raccolti con questo stesso spirito: oltre ai curatori, Domenico Scalzo, Laura Bazzicalupo, Roberto Escobar e Cristiano Bellei. E hanno fatto molto bene a celebrare il cinquantenario di un libro che, nonostante il Nobel al suo autore, rimane “minore”. Questo perché, spiegano i curatori, Massa e potere non è mai stato di moda: «Un libro con una bibliografia vastissima in cui non c’è neanche uno degli autori “giusti”. Un libro praticamente senza note. Un libro che nessuno studioso che si rispetti dovrebbe permettersi di scrivere. Un libro che ogni giovane incamminato sui gloriosi sentieri dell’accademia dovrebbe considerare una sorta di compendio di quello che “non si fa”». Eppure parliamo di un libro titanico «che guarda la morte stessa negli occhi dalla prima all’ultima pagina contendendole ogni centimetro di terreno, senza arretrare mai». Massa e potere conserva la sua forza impetuosa, come dimostra quanto sta accadendo dall’altro lato del Mediterraneo, dove la massa e il potere si affrontano oggi proprio come racconta Canetti.

il Riformista 1.7.11
Céline non era un “fighetto” ante litteram
Conversazione con il francesista Montesano sull’opera dello
scrittore scomparso cinquant’anni fa. Dall’influenza di Zola al suo superamento,
dall’esperienza della guerra fino alla maturità con “Morte a credito”.
di Andrea Consoli

qui
http://www.scribd.com/doc/59104775

l’Unità 1.7.11
«Le vie della seta». Roma guarda verso l’Oriente
La prima edizione della Biennale internazionale di Cultura ospiterà tante mostre: dalla storia all’archeologia, dall’arte all’attualita
di Flavia Matitti


Sarà esposta in anteprima mondiale il prossimo autunno a Roma, negli spazi appena restaurati delle Terme di Diocleziano, in uno scenografico allestimento ideato da Studio Azzurro, una mappa cinese su seta, lunga oltre 30 metri, risalente all’inizio del XVI secolo, rinvenuta di recente in un tempio buddista in Giappone. La mappa, estesa fino alla Mecca, è di grande interesse perché documenta, attraverso duecento toponimi, le conoscenze geografiche della Cina al tempo della dinastia Ming. Sarà questa, dunque, una delle grandi attrazioni della mostra Le strade degli Dei, con cui il prossimo ottobre inaugurerà a Roma una nuova manifestazione culturale (a cadenza biennale), dal titolo «Vie della Seta», dedicata ai paesi percorsi dalle rotte commerciali che hanno messo in contatto, fin dal III secolo a.C., popoli, nazioni, imperi, religioni e tradizioni diverse dall’Asia Orientale al bacino del Mediterraneo attraverso le vaste regioni dell’Asia Centrale.
Il nuovo progetto, denominato Biennale Internazionale di Cultura «Vie della Seta», che da ottobre 2011 a febbraio 2012 coinvolgerà i paesi attraversati dall’antica «via della seta», è stato presentato ieri, a Roma, nel corso di una affollata conferenza stampa organizzata presso il Ministero degli Affari Esteri, alla quale sono intervenuti, tra gli altri, il Ministro degli Esteri Franco Frattini, il Sindaco di Roma Gianni Alemanno e il Presidente della Camera di Commercio di Roma Giancarlo Cremonesi.
«Ci aspettiamo – ha spiegato il Presidente di Zètema Francesco Marcolini illustrando il progetto – che da questa iniziativa Roma diventi sempre più una grande capitale culturale internazionale». L’operazione nasce infatti con l’intento di rilanciare, attraverso la cultura, la città di Roma, per favorire le attività imprenditoriali, sviluppare il turismo e soprattutto dare continuità ai rapporti commerciali tra Oriente e Occidente, rinsaldando in modo particolare il legame tra Roma e Pechino. Ma la «via della seta», ha osservato il Ministro Frattini, è ora attraversata anche da gravi conflitti e tensioni, perciò l’auspicio è di fare della cultura uno strumento di comprensione reciproca al fine di scongiurare e prevenire lo scontro e contenere i focolai di violenza. L’iniziativa riveste dunque un significato politico, oltre che economico e culturale, proponendosi di essere una piattaforma di pacifico incontro tra i popoli.
Il calendario delle manifestazioni previste nei quattro mesi della Biennale è molto ricco e comprende, oltre a eventi e conferenze su temi di geopolitica e cooperazione culturale, undici esposizioni che spaziano dalla storia all’archeologia, dall’arte contemporanea all’attualità, allestite per lo più negli spazi dei musei civici e realizzate con la collaborazione di Armenia, Cina, Corea, Georgia, India, Indonesia e Turchia. Tra le altre, una rassegna dedicata all’arte cinese contemporanea sarà curata da Achille Bonito Oliva. Ideale conclusione di questa ricca kermesse sarà la grande mostra internazionale La via della Seta”, che Palazzo delle Esposizioni ospiterà, dopo la Biennale, da novembre 2012 a marzo 2013.
Sito ufficiale della manifestazione: www.viedellaseta.roma.it.