sabato 12 novembre 2011

l’Unità 12.11.11
Telefonata del segretario del Pd al leader dell’Idv: non puoi rompere il centrosinistra
D’Alema: «I partiti facciano un passo indietro». Fini: «Votare adesso è un lusso troppo caro»
Bersani: «Il Pdl si prenda le sue responsabilità»
E Di Pietro apre a Monti
Il Pd guarda con preoccupazione alle mosse del Pdl. Bersani chiama Casini, Di Pietro e Veltroni. Che critica i «teatrini» di Berlusconi: «Se sale al Colle e dice Dini o Alfano, sta dicendo elezioni anticipate».
di Simone Collini

A Bersani non stanno piacendo i «giochini» in cui sembra impegnato il Pdl. «Ciascuna forza deve prendersi autonomamente la sua responsabilità», dice il leader del Pd quando dai vertice tra Berlusconi e i suoi iniziano a uscire i nomi di Dini e Alfano come scelte per la premiership alternative a Mario Monti. Il timore è che si tratti di mosse per poi arrivare al sostegno del senatore a vita con solo una parte del Pdl, ovvero per affossarlo. Perché è chiaro che se si sfila una delle due forze principali presenti in Parlamento, il Pd ne trarrà le conseguenze. Dice Bersani: «Non vedo come un governo possa avere una buona credibilità internazionale e interna in una situazione parlamentare da Vietnam. Il Pdl discuta ma si prenda la sua responsabilità». E se qualcuno si sottrae? «Ne risponderà». Anche Walter Veltroni guarda con preoccupazione ai «teatrini» che vanno in scena per tutta la giornata dalle parti di Palazzo Grazioli, e rivolge un «appello al Pdl», che è «chiamato ad assumersi una responsabilità di fronte al pericolo di un tracollo del Paese se non si riesce a dar vita a questo governo»: «Se Berlusconi sale al Colle e dice Dini o Alfano, sta dicendo elezioni anticipate».
IL MESSAGGIO A DI PIETRO
Ma c’è anche un altro messaggio che viene lanciato dal Pd, e il destinatario questa volta è Antonio Di Pietro. Al leader dell’Idv, che si è detto contrario all’ipotesi del governo di emergenza, Bersani rivolge via tv di primo mattino un invito a «ripensarci», aggiungendo una frase all’apparenza senza ostilità: «Viene prima l’Italia, poi le alleanze e le politiche». Sono però i due capigruppo del Pd al Senato e alla Camera ad esplicitare il messaggio. «Se Di Pietro dirà no al governo Monti sappia che ci saranno conseguenze sulle alleanze da stipularsi prima di andare al voto», dice Anna Finocchiaro. E Dario Franceschini lascia anche intendere che la rottura potrebbe essere facilitata dall’approvazione di una nuova legge elettorale: «Siamo di fronte a una scelta di sostenere un governo d’emergenza per salvare il Paese e se l’Idv non condividesse con noi questo passaggio centrale, farebbe venir meno la possibilità di una futura alleanza tra noi. E una nuova legge elettorale, che liberi tutti dal vincolo forzoso ad allearsi, lo renderebbe semplice».
COLLOQUI
Ma risolutiva è stata una telefonata tra Bersani e Di Pietro. Il segretario del Pd, che ha trascorso la giornata di ieri tra colloqui con Casini, Veltroni, Letta, Finocchiaro e Franceschini, ha detto al leader Idv che non si deve rompere ora il centrosinistra, che «questo è il momento della responsabilità per tutti» e che l’«elemento di garanzia è Monti», non c’è bisogno di averne altri (ragionamento che per Bersani «deve valere anche per il Pdl»). Alla fine l’ex pm ha fatto un passo avanti verso il sostegno al nuovo governo, pur ponendo precisi paletti. E cioè che sia un governo tecnico, non composto cioè «da coloro che già ci hanno governato e di cui sinora abbiamo contestato ogni azione» e che ci sia «chiarezza sui tempi entro cui andare alle elezioni con una nuova legge elettorale» (Di Pietro continua a pensare che si debba votare entro aprile).
Una correzione di rotta apprezzata («sono contento che Di Pietro abbia deciso di riflettere», dice Bersani al Tg1 della sera) e resa possibile anche dal modello di governo a cui punta il Pd. Ovvero, dal profilo prevalentemente tecnico, «senza escludere componenti politiche». E infatti i vertici del Pd ritengono opportuno non far entrare nel governo dirigenti del partito e che si debba invece dare spazio a personalità autorevoli, conosciute anche a livello internazionale. «Bisogna davvero che tutti partiti facciano un passo indietro e che nessuno si metta ad avanzare pretese per i posti, perché altrimenti si rischia di non uscirne», dice D’Alema. Vuol dire che il prossimo sarebbe, nel senso del termine, un governo tecnic? Dice il leader dell’Udc Casini: «Non esiste una distinzione tra tecnici e politici, perché quando un Paese va a rotoli c’é bisogno di politici e di tecnici. E poi qualsiasi governo è approvato dal Parlamento, quindi ha natura politica».
Resta l’incognita, viste le mosse di Berlusconi, che l’operazione non arrivi in porto e si vada alle urne (e nel Pd c’è già chi, come il deputato Dario Ginefra, sostiene che in tal caso si debba candidare come premier Monti). Ma dice Giafranco Fini che il voto anticipato è «un lusso che non possiamo permetterci».

Repubblica 12.11.11
Bersani: "Squadra di cambiamento ma il voto non può essere lontano"
E ai berlusconiani: entrino anche politici. Di Pietro apre
L’ex pm con Parisi chiede la riforma elettorale e progetta una manifestazione
di Giovanna Casadio

ROMA - La formula del governo Monti? «Deve essere di cambiamento totale». Di tecnici quindi, come si dice, ma «senza escludere componenti politiche». È l´ultimo appello e l´apertura che il segretario del Pd, Bersani fa al Pdl per arginare il "cupio dissolvi" che - a Borse chiuse - sembra avere ottenebrato il centrodestra. Le opposizioni sono allarmate, mano a mano che escono le notizie dei veti, delle spaccature, dei ripensamenti che Berlusconi mette sul tavolo. Sia chiaro, scandisce Bersani in una lunga intervista al Tg1, che se il Pdl non appoggiasse il governo Monti, anche il Pd sarebbe costretto a negare il suo sostegno. «Un governo di emergenza non può essere nel Vietnam: qui non si tratta di un problema nostro ma di rendere credibile una soluzione. Se qualcuno si sottrae a questa responsabilità ne risponderà». E il segretario democratico getta nella discussione un´altra questione importante, cioè la durata del governo di emergenza: «Ci vuole una transizione, poi la ricostruzione dopo il passaggio elettorale che non è lontanissimo». Arriverà una volta passata la tempesta. «Quanto questa duri, non lo so. Ma dobbiamo vedere cosa facciamo subito. Per le riforme dobbiamo metterci subito sulla strada giusta, se no la situazione è drammatica».
Lo aveva ripetuto poco prima, Enrico Letta non nascondendo la preoccupazione alla fine di una data-palindromo (11.11.´11) che era stata di segno positivo nel centrosinistra. Colloqui con il Quirinale; contatti a tutto campo tra Casini, Fini, Rutelli e i Democratici; e soprattutto la lunga telefonata con Di Pietro. Che sortisce un effetto quasi immediato: il leader di Idv passa dal "no" a Monti a una mezza apertura: «Se è vero come è vero che i mercati non possono aspettare - afferma l´ex pm - Monti potrà fare quegli interventi di urgenza che vogliamo sapere nel merito quali sono e non devono essere macelleria sociale. Però ci deve essere chiarezza sui tempi entro cui andare alle elezioni con una nuova legge elettorale». Bersani lo loda e lo avverte: «Sono contento che Di Pietro rifletta. Siamo nell´emergenza. Disimpegnarsi ora significherebbe qualcosa anche per la prospettiva politica». Insomma, il Nuovo Ulivo non potrebbe nascere, niente future alleanze se prevale l´irresponsabilità. Bindi: «Bravo Di Pietro». L´ex pm sente anche Vendola, il leader di Sel. Non è la minaccia di stracciare l´alleanza che lo preoccupa, confida ai suoi. C´è però un punto che gli sta a cuore: la riforma elettorale. A sorpresa, Di Pietro, Arturo Parisi e Mario Segni (che si sono visti giovedì alla Camera) pensano a una manifestazione anti-Porcellum. La paura dei referendari è che il tema legge elettorale scompaia dall´agenda di Monti. Parisi dichiara: «La legge elettorale è la madre di tutte le riforme. La forza e la credibilità delle istituzioni è data anche dal modo con il quale si formano. Spero che il nuovo governo si faccia promotore in Parlamento della nuova legge in senso maggioritario e bipolare come chiesto da oltre un milione e 200 mila cittadini. Guai a accantonarla come se non c´entrasse nulla con le azioni che il governo dovrà intraprendere per fare ripartire il paese». Un appello alla responsabilità e di fiducia nei confronti degli italiani arriva anche da Emma Bonino, la leader radicale, che interviene al Senato sulla legge di stabilità: «Non è vero che di fronte a riforme serie proposte da una classe politica credibile, gli italiani non collaborerebbero o non capirebbero. La politica è scegliere. Appunto».

il Fatto 12.11.11
Bill Emmot ex direttore dell’Economist
“Attenti ai colpi di coda del Caimano”
di Andrea Valdambrini

Londra Lui lo conosceva bene. Perché Bill Emmott è stato alla guida dell’inviso (a Berlusconi) Economist dal 1993 al 2006, ed ha pubblicato nel 2010 un libro dal titolo: “Forza Italia. Come ripartire dopo Berlusconi”. Il tramonto di un’epoca? Pagina chiusa? Emmott non è affatto convinto.
Chi è per lei Silvio Berlusconi?
Lo descriverei guardando all’atteggiamento che ha tenuto nelle ultime settimane. Si contraddice, vuole sempre piacere comunque, non si capisce mai se è vero quello che ha detto, perché il giorno dopo poi dice il contrario. Ha il profilo dell’uomo politico che pensa ci sia sempre un’altra possibilità. Non vede mai la fine davanti a sé.
Quindi meglio non fidarsi?
Di fatto Berlusconi non avrebbe potuto resistere fino a fine mese come sperava. Immaginavo che il Quirinale glielo avrebbe impedito. Troppo forte la pressione su di lui, anche a causa dell’andamento dei mercati. È anche tipico del Berlusconi che ho sempre potuto osservare l’essersi scagliato contro “gli 8 traditori”. Li considera traditori perché dovevano essere al suo servizio, ma osano ribellarsi. Non dimentichiamoci che lui che è stato il sultano dell’Italia per almeno un decennio, dal 2001 quasi incontrastato.
Un suo ricordo di Berlusconi?
Negli anni ’90, non so dire quando precisamente. Sulla mia scrivania arriva la lettera di colui che allora conoscevo come imprenditore e politico italiano. Missiva firmata da Silvio Berlusconi in persona, per disdire l’abbonamento all’Economist, spiegando che avevamo parlato male di lui. Ma non ho mai creduto che lui sia stato un vero lettore del nostro settimanale. Gli piaceva fingere di essere un liberal.
Qualcuno però sostiene che Berlusconi non è mai stato amato dall’establishment. Quello di cui anche lei, Emmott, farebbe parte.
Non credo si possa argomentare che lui sia un outsider. Il mondo della grande impresa lo ha a lungo sostenuto. Ed è naturale, perché non poteva non avere fiducia in un uomo che si presentava come un imprenditore, un innovatore, il fautore della rivoluzione liberale che in Italia era sempre mancata. Giusto il terreno su cui ha fallito.
Ha mai ricevuto pressioni da Berlusconi o dai suoi?
Ci ha fatto causa due volte, per diffamazione nel 2001 e nel 2003. Nel 2001 ricordo benissimo che ero ad un convegno all’Aspen Institute a Cernobbio, allora diretto da Carlo Scognamiglio. Fui attaccato violentemente da Gianni De Michelis. Tre-monti, appena mi ha visto, ha fatto il segno della croce come se fosse spuntato il demonio.
Tornando alle dimissioni: a fregare ancora una volta gli italiani
Berlusconi ci ha provato?
In un primo momento ha tentato un trucco. Ha pensato: “Non mi dimetto, aspettiamo”. Si sarà consultato con Letta e Confalonieri seguendo questa linea di pensiero: se aspettiamo, il quadro politico si divide tra chi vuole un esecutivo tecnico e chi preme per elezioni. Nel frattempo un po’ di parlamentari si possono sempre recuperare. Comprare.
Stavolta pare non ce l’abbia fatta.
Per ora, ma aspetterei. I mercati hanno avuto la meglio sul Caimano. Vediamo come si vendica.



La Stampa 12.11.11
La soluzione indispensabile
di Marta Dassù

La crisi dell’euro-zona assomiglia a una guerra moderna combattuta non con le armi convenzionali ma con i fucili dei mercati finanziari. La posta in gioco non è più soltanto economica, per i Paesi sotto attacco; è diventata direttamente politica, disfando e facendo i destini dei governi di una manciata di Paesi, dall’Irlanda, al Portogallo, alla Grecia. In questa guerra moderna tra Stati e mercati, l’Italia è il caso che farà la differenza. Dipende dalla tenuta dell’Italia se il contagio si fermerà o investirà anche la Francia: con banche vulnerabili ed elezioni alle porte, il governo francese è «next on the line», il prossimo in fila.
E quindi: dipende dalla tenuta dell’Italia, grande economia al centro e non certo alla periferia dell’Ue, se l’euro sopravviverà o si spezzerà. E ormai lo sanno anche i sassi: l’Italia è troppo grande per potere fallire senza guasti per l’insieme dell’economia occidentale; ma è anche troppo grande per un salvataggio solo esterno.
Per questi motivi - perché siamo appunto in una specie di guerra, perché il fronte italiano è decisivo e perché dobbiamo salvare noi stessi per salvarci con gli altri - una soluzione di emergenza è indispensabile. Per l’Italia e non solo. Di emergenza, certo. La stampa inglese non la smette mai di farci lezioni. Ha appena ottenuto la testa di Silvio Berlusconi, che chiedeva da anni, e ci ricorda subito che la tecnocrazia non può emarginare a lungo termine la democrazia; che la credibilità (rispetto ai mercati) non potrà soppiantare la legittimità (rispetto ai cittadini). Ok, lo sapevamo da soli. Una soluzione di emergenza, per funzionare, deve essere solida sul piano politico e rapida su quello temporale. Il suo sbocco dovrà essere quello di portare l’Italia ancora viva, invece che morta, a nuove elezioni.
Prima riflessione, allora: per i grandi debitori dell’area euro, l’Unione monetaria non ha più i caratteri di un puro «vincolo esterno», come si usava dire in passato. E’ diventata un vincolo esistenziale, cosa che impone maggiori responsabilità. Perché? Perché quanto più un Paese ha problemi di debito e di competitività, tanto più perde sovranità. E’ l’ammonimento di questi ultimi mesi. Sia i mercati finanziari che i governi creditori puniscono ormai senza tanti complimenti i comportamenti «devianti» rispetto alla regola scritta e non scritta dell’Europa tedesca: la stabilità finanziaria e il rigore di bilancio.
Qui si innesta, però, la seconda riflessione. I problemi dell’area dell’euro non dipendono certo soltanto dal maggiore debitore, l’Italia. Nascono anche dal principale creditore, la Germania. Ieri Angela Merkel ha dovuto smentire, ancora una volta, che Berlino sia interessata a costruire un’euro più piccolo o un’Unione monetaria a due velocità. E’ probabile che sia così; che cioè, al di là delle propensioni della Bundesbank per un euro forte del Nord, non esista un piano tedesco coerente per liberarsi dei debitori mediterranei. Anche perché una serie di studi ha dimostrato che la Germania, in uno scenario del genere, avrebbe più costi che vantaggi. Resta il problema di fondo: la gestione tedesca della crisi del debito sovrano impone ai paesi in deficit maggiori vincoli (che Angela Merkel vorrebbe sanzionare nei Trattati, con sanzioni automatiche e forse criteri di uscita dall’Unione) senza offrire abbastanza quanto a solidarietà fiscale. La conseguenza è che la «dittatura del creditore», nell’area euro, finisce per essere una ricetta recessiva. Cosa che non permetterà di ridurre il debito neanche con una overdose rigorista. Secondo le tesi ottimistiche, una volta rassicurata sulla credibilità di Grecia, Spagna e Italia, la Germania sarà più disponibile a fare dei passi verso un’Unione fiscale: quella di cui avremmo bisogno. Secondo voci che circolano sia a Berlino sia a Bruxelles, il governo tedesco potrà anche contemplare una politica di prestito più espansiva della Banca centrale europea, che dovrà prima o poi diventare, perché l’euro funzioni, il «creditore di ultima istanza». La Germania chiede però una modifica dei diritti di voto nel Board della Bce: di fatto, rivendica una sorta di potere di veto.
Vedremo nei prossimi mesi quanto spazio ci sarà per uno scambio vero fra responsabilità di bilancio e solidarietà fiscale. Se vogliamo che l’Europa non sia basata solo sul «Berliner consensus» e se vogliamo spezzare una lancia a favore di un’Unione fiscale, è indispensabile che l’Italia sia in grado di esercitare un suo peso; la Francia, lasciata sola, non ne ha abbastanza. Per sopravvivere come grande economia dell’euro, l’Italia deve fare comunque riforme troppo a lungo rimandate; e deve tornare a crescere. Il tempo dei rinvii è scaduto: non perché lo dicono Parigi, Francoforte, Berlino o Bruxelles ma perché lo dimostra la curva degli spread. Curando se stessa, l’Italia ritroverebbe una voce in Europa. E sarebbe importante, per noi e per l’Europa, che la voce italiana pesasse. Un’Italia capace di riforme essenziali in casa, potrà influenzare il governo economico della zona euro e potrà porre sul tavolo di Bruxelles un punto dirimente. I Paesi europei hanno messo in comune quote della propria sovranità nazionale non per creare dei «direttori» informali ma perché credono in istituzioni comuni rispettate e in regole che valgano per tutti (è sempre utile non dimenticare che Francia e Germania hanno violato a loro tempo il Patto di Stabilità).
Che la guerra che stiamo combattendo, insomma, insegni qualcosa. Da quando facciamo parte dell’euro, la sovranità dell’Italia è per definizione limitata: si è trattato, per noi e per gli altri Paesi europei, di una cessione volontaria di sovranità, a favore di una sovranità condivisa (shared sovereignty). E’ questa caratteristica, ha scritto la Corte di giustizia europea in una famosa sentenza, a differenziare l’Unione europea da un normale Trattato internazionale. La crisi finanziaria sta erodendo ulteriormente la sovranità degli Stati europei, anzitutto per ciò che riguarda la politica di bilancio. Il volto dell’Ue si sta modificando, sotto lo shock della crisi: la sfida, per l’Italia, è di non restarne ai margini. Passa di qui la differenza fra la cessione/ condivisione e la perdita pura e semplice di sovranità nazionale.

La Stampa 12.11.11
Un’opportunità per la politica
di Luigi La Spina

S’ode a destra uno squillo e a sinistra risponde uno squillo: allarme, la democrazia è in pericolo. In questi giorni, mentre Mario Monti si appresta a formare un nuovo governo, dai lati estremi degli schieramenti politici e giornalistici italiani si è levato davvero un coro, come quello di manzoniana memoria, che denuncia il deficit di consenso democratico della soluzione alla crisi che si va profilando. Alcuni, dotati di maggiore vis polemica o di maggiore immaginazione, si sono spinti addirittura a lanciare il grido d’allarme per un presunto «golpe contro le istituzioni democratiche del nostro Paese.
Di fronte a queste compunte e sdegnate preoccupazioni si oppongono, in genere, due rilievi. Il primo riguarda il fatto che qualsiasi governo, di qualsiasi natura, deve trovare l’approvazione del Parlamento e, con ciò, ottiene la qualifica di «governo politico». Il secondo ricorda che i dieci anni passati da Monti come commissario europeo attribuiscono al candidato in pectore di Napolitano (e di tutta la comunità internazionale) una caratura politica indubbia e collaudata.
Le due osservazioni, però, non possono mettere a tacere quella preoccupazione, perché essa coglie un punto di assoluta verità ed esprime un timore del tutto fondato. Perché la politica, non solo in Italia, si è dimostrata incapace di governare i meccanismi dell’economia e della finanza internazionale e impotente davanti agli effetti sconvolgenti di quelle dinamiche sulla vita dei cittadini. Per limitarci al nostro Paese, tutti ormai conoscono le ricette per adeguare la nostra struttura economica, sociale, ma anche politica, alle trasformazioni compiute nel mondo, sul piano della competitività e alla luce dello straordinario allargamento dei mercati avvenuto negli ultimi vent’anni. Ma le forze politiche, nello stesso periodo di tempo, hanno dimostrato una patente inadeguatezza culturale e una manifesta debolezza rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il loro compito fondamentale: per dirla come l’ha chiamata Monti, «la riforma dei privilegi e delle rendite nazionali». Quell’Italia corporativa e immobile che ha sconfitto sempre la politica nei suoi timidi e confusi sforzi di cambiamento.
I partiti si sono completamente arresi davanti alla forza degli interessi clientelari che rappresentavano. I leader hanno ristretto, sempre di più, la loro visione alle convenienze e ai risarcimenti del presente, rinunciando a qualsiasi ambizione di un progetto futuro. Condannandosi così all’irrilevanza e, appunto, all’impotenza, rispetto alle esigenze di un veloce adeguamento del «sistema Italia» alle sconvolgenti novità delle mutazioni che, nel frattempo, avvenivano sul palcoscenico del mondo.
Se questa diagnosi è corretta, la terapia deve ricorrere necessariamente a quell’intervento, più o meno esterno al sistema partitico italiano, che sovente nella storia d’Italia ha permesso, sia il superamento di emergenze economico-sociali drammatiche, sia una modifica, più o meno profonda, della struttura politica e, magari, istituzionale dell’Italia. Per superare il vero e proprio circolo vizioso dell’immobilismo nazionale: l’impossibilità dell’autoriforma della politica.
Come si fa davvero a credere che i parlamentari si dimezzino, che i cosiddetti «costi della democrazia» si riducano drasticamente, che si aboliscano privilegi e arroganze di quella che viene comunemente chiamata «la casta» solo con la miracolosa bacchetta magica delle elezioni? Per di più, con una legge elettorale che toglie ai cittadini il diritto di scegliere i loro rappresentanti, consegnando tutto il potere alle segreterie romane? Come si fa a sperare ancora che si possano superare i veti di sindacati e partiti che continuano a privilegiare, nel mercato del lavoro, le garanzie degli iperassistiti, rispetto ai diritti dei giovani e dei precari? O che difendono, come un tabù, quelle pensioni d’anzianità che i mutati andamenti demografici rendono impossibili da sostenere, tanto è vero che costituiscono l’ennesima specialità italiana rispetto ai sistemi previdenziali stranieri.
Ecco perché non si tratta di «abolire la politica», o di «sospendere la democrazia», ma di approfittare di una gravissima crisi italiana per avviare un ciclo di politica diversa, capace, proprio per le sue caratteristiche di maggiore libertà rispetto alle esigenze clientelari o semplicemente elettorali, di sconfiggere le «circoscrizioni» che, finora, hanno impedito quei cambiamenti che tutti ormai hanno capito come necessari e urgenti.
A questo proposito, è evidente il vantaggio che otterrebbe Monti se riuscisse a contare, nel suo governo, su ministri il più possibile sganciati da esigenze o rappresentanze partitiche. Ma, a pensarci bene, tale distacco avvantaggerebbe anche gli stessi partiti. Non tanto perché eviterebbe le sconvenienze «estetiche» di quelle foto del giuramento davanti a Napolitano, con volti di ex acerrimi nemici costretti agli obbligati sorrisi di una doverosa collaborazione nella nuova squadra ministeriale: l’ipocrisia delle convenienze politiche è sempre più forte di qualsiasi decenza e di qualsiasi coscienza. Quanto perché le impopolari misure che, purtroppo, si preparano nel futuro prossimo degli italiani dovrebbero consigliare una certa lontananza dei protagonisti della nostra politica dai quadretti del «totoministri» che ormai si affacciano da giornali e tv.

il Riformista 12.11.11
Il governo tecnico che aiuta la politica
di Emanuele Macaluso
qui

Corriere della Sera 12.11.11
Scherzare col fuoco
di Massimo Franco

Le convulsioni del centrodestra di fronte all'ipotesi del governo di Mario Monti segnalano un pericolo: che una maggioranza divisa sia tentata di scaricare sul Paese i propri contrasti interni. Gli incontri senza soluzione di continuità a Palazzo Grazioli e la spola di Umberto Bossi fra il proprio partito e la residenza di Silvio Berlusconi sottolineano la vera questione: i rapporti fra Pdl e Lega. La resistenza del Carroccio ad accettare la candidatura che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha in animo di proporre, sembra dettata da ragioni tutte «lumbard».
Per una forza disorientata, il passaggio all'opposizione può apparire la scorciatoia più comoda per ricompattarsi. L'irrigidimento notato ieri nel premier nasce probabilmente dalla preoccupazione che si spezzi un'alleanza ferrea; e che una rottura a livello nazionale provochi un «effetto domino» nelle giunte del Nord dove Pdl e Carroccio governano insieme. La fioritura di possibili alternative a quella dell'ex commissario europeo nasce dalla difficoltà di convincere i vertici leghisti a entrare nella «maggioranza di emergenza economica» progettata dal Quirinale: una soluzione obbligata ma finora incapace di ottenere il «sì» preventivo di tutti.
È vero che lo stesso Antonio Di Pietro, inizialmente a favore del voto anticipato, sta assumendo un atteggiamento più responsabile: forse anche perché i militanti dell'Idv lo hanno costretto a ripensarci; e questo toglie un argomento al «no» della Lega. Ma certamente si capta un filo di incertezza in più sull'epilogo della crisi. D'altronde, lo scenario ha subito un'accelerazione così traumatica, dopo le ripetute bocciature di Berlusconi da parte dei mercati, da resuscitare antiche ostilità contro un «governo di tecnocrati»; e resistenze aperte o larvate, a destra come a sinistra, verso una soluzione data per scontata ma vissuta come una costrizione difficile da accettare a scatola chiusa.
Per paradosso, la pressione degli altri governi continentali, attestata dai contatti avuti ieri da Napolitano e dalla visita a Roma del presidente del Consiglio dell'Ue, Herman Van Rompuy, suscita reazioni contraddittorie. Conferma la spinta internazionale a decidere in fretta; e sottolinea l'urgenza di offrire lunedì, all'apertura delle Borse, l'immagine di un Monti già designato premier: il garante della credibilità degli impegni presi e di quelli che dovranno seguire. Ma il protagonismo europeo rischia di essere percepito come una forzatura che umilia il sistema politico. E l'uscita fuori luogo fatta ieri da Sarkozy può alimentare questi dubbi.
In realtà, non esiste alternativa a un'assunzione collettiva di responsabilità. Pensare che dopo le dimissioni di Berlusconi, previste per oggi, l'Italia possa permettersi di sprecare altro tempo significherebbe immolarsi sull'altare della speculazione finanziaria; e in modo irreversibile. Anche l'appello delle parti sociali va in questa direzione. Ma occorrerà un supplemento di persuasione e di chiarezza per convincere un Paese e un Parlamento lacerati troppo a lungo, alla conclusione che non esistono margini per rinviare. Illudersi del contrario significa fare il gioco di chi scommette sul crollo dell'Italia e della moneta unica.

Corriere della Sera 12.11.11
Alberto Asor Rosa
«È il momento di sottostare al capitale»
intervista di Daria Gorodisky

ROMA — Professor Alberto Asor Rosa, lei che ha impersonato la sinistra dura e pura, con che occhi guarda questo tramonto dell'era Berlusconi?
«Con gli occhi del dubbio. Siamo ancora all'ipotesi...».
Lo scorso aprile lei sosteneva che, per spazzare via il berlusconismo, bisognava far intervenire «carabinieri e polizia, congelare le Camere» e altri interventi che molti hanno definito «golpistici». Dopo tante critiche, ha fatto una marcia indietro. Ora pensa di avere la prova che non servono interventi autoritari?
«Quello di aprile era un paradosso. Con quell'affermazione estrema sottolineavo un'urgenza, quanto fosse grave e pericoloso, e talvolta anche vergognoso, avere un presidente del Consiglio come Silvio Berlusconi. Però sono contento perché quel ragionamento, che sostanzialmente faceva appello a un più energico intervento del presidente della Repubblica, è stato in qualche modo raccolto: penso che siano tutti d'accordo nel ritenere che la soluzione stia arrivando grazie a una presa di posizione forte del Quirinale».
Non crede che, visto il gravissimo stato dell'economia italiana, Europa e mercati abbiano avuto un ruolo molto importante? Un paradosso, per un anticapitalista come lei.
«Sì, certo. Ma in quest'ultima fase si potrebbe dire che la situazione è stata affrontata e, almeno spero, temporaneamente risolta da un intervento massiccio di Napolitano. E allora, senza volermi attribuire meriti, mi fa piacere che il mio appello di aprile sia in qualche modo servito a qualcosa».
Come giudica i nomi, per esempio Mario Monti, che si ipotizzano per la guida di un governo di emergenza?
«Secondo gli esperti e i politici che ci governano, la situazione economica e finanziaria italiana è vicina alla catastrofe. Quindi le soluzioni di emergenza si impongono con la forza naturale delle cose. Si tratta di una forza che, spero solo temporaneamente, mette da parte la politica per sottometterla al grande capitale internazionale; ma, tenendo conto dei vincoli europei e della gravità del momento, non c'è molto da scegliere».
Dunque va bene la legge di stabilità che si sta approvando?
«Il provvedimento trasferisce nel Paese un ragionamento economico che trascende dalla responsabilità italiana, e lo fa tanto meccanicamente che non se ne possono discutere i contenuti. È vero che il momento ci impone una soluzione obbligata, ma questo non significa accettare tutto».
Se potesse decidere lei, come modulerebbe la legge?
«Preferisco che la questione venga affrontata da altri, come è logico che sia».

Repubblica 12.11.11
Nelle mani di Napolitano
di Carlo Galli

Se, dopo le dimissioni che Berlusconi si è impegnato a rassegnare oggi, l´Italia sarà traghettata verso una condizione di minore insicurezza lo dovrà a Giorgio Napolitano. Che si è assunto il compito di guidare con responsabilità e prudenza, ma anche con fermezza, la transizione da un´eccezione a un´altra, fino alla normalità. Cioè di gestire l´eccezione con stile e con finalità opposte a quelle del premier.
Dentro il cui partito, invece, sta crescendo la ribellione contro la normalizzazione per perpetuare fino all´ultimo l´anomalia berlusconiana: con il rischio di far saltare l´unica chance di salvezza dell´Italia dal baratro finanziario.
Lo stato d´eccezione è stato il modo con cui Berlusconi ha governato: la forzatura delle norme e delle forme costituzionali, l´attivazione di uno scontro costante con la magistratura, la sollecitazione di un conflitto ideologico, modellato sul rapporto amico-nemico, tra maggioranza e opposizione. La politica doveva esprimere la propria energia al di fuori delle istituzioni: le elezioni non servivano a eleggere una maggioranza ma a fondare il rapporto carismatico fra il Capo e il suo Popolo; un rapporto che faceva a meno non solo delle istituzioni ma anche della forma-partito. Funzionale a gestire e ad alimentare l´eccezione è stato quindi il populismo, ossia la trasformazione del popolo in un corpo coincidente con quello del Capo, il quale può modularlo, animarlo, eccitarlo, politicizzarlo, indirizzarlo, secondo i propri fini. Che, nel caso di Berlusconi, hanno coinciso con la propria salvezza dalla magistratura, e con la copertura e la promozione di reti di affarismo che hanno potuto appoggiarsi alle strutture pubbliche; ma il lato egemonico di questa operazione è consistito nell´istillare in una larga parte del popolo italiano - peraltro disponibilissimo a ciò - la convinzione che il migliore rapporto possibile con la cosa pubblica sia negarla e sostituirla con la molteplicità degli interessi privati. L´eccezione ha avuto aspetti pubblici e ricadute politiche, ma è stata orientata da finalità personali e nutrita di una sorta di particolarismo di massa. È stata il trionfo dell´autoreferenzialità, la produzione artificiale di un mondo rovesciato.
Tutto ciò ha generato gravi squilibri istituzionali, economici e sociali. La crisi economica e finanziaria internazionale è stata negata o minimizzata, perché non si è capito che l´economia - in assenza di riforme reali - non cresce, ma soprattutto perché la politica dell´eccezione permanente ha accecato molti (non tutti, in verità: pezzi sempre più importanti del Paese se ne sono accorti, nei mesi scorsi). Una politica tutta centrata sul particolare ha perduto di vista ciò che ha significato universale; il mondo rovesciato ha celato il mondo vero.
L´eccezione "domestica", populistica, ha facilitato l´ingresso della crisi esterna all´interno della nostra società, trasformandola in un´eccezione reale, in un pericolo tanto più grave quanto più mistificatoria e inaffidabile appariva la nostra politica. Per nostra fortuna, mentre il maldestro stregone nostrano, manipolatore della realtà, è stato giudicato inaffidabile - tanto da mettere a rischio l´euro e l´Europa - , i leader europei e occidentali hanno potuto individuare in Napolitano l´interlocutore affidabile e responsabile, in grado, con il corretto esercizio della sua autorità, di costituire l´ultima riserva della Repubblica, di mettere con la sua fermezza Berlusconi davanti alle sue responsabilità.
Ora che l´eccezione reale - quella che Berlusconi continua ancora a definire ‘speculazione´, e che è invece una crisi di fiducia e di credibilità nell´Italia da lui governata - ha scacciato l´eccezione fasulla, il Capo dello Stato ha un ruolo centrale nell´individuare una gestione produttiva della crisi. Si tratta per lui di esprimere il massimo di energia politica nel momento della più grave debolezza della politica, che coinvolge sia le due coalizioni, che a destra come a sinistra rischiano di "perdere le ali", mentre anche i due maggiori partiti sono sottoposti a tensioni laceranti; si tratta cioè di farsi garante che un governo "tecnico" - almeno nel senso che probabilmente vedrà una bassa rappresentanza delle forze politiche e sarà variamente sostenuto da queste, con voto favorevole o con astensione - goda di una legittimazione non solo formale da parte del parlamento ma incorpori nella propria nascita e nella propria azione una volontà politica di salvezza nazionale che in questa fase può trovare sintesi ed espressione prima nel Capo dello Stato - rappresentante simbolico, ma non mediatico, del Paese intero, di cui gode la quasi totale fiducia - che non nelle forze politiche esitanti e divise.
È impressionante osservare come a questo tentativo di Napolitano - solo grazie al quale il mondo ci sta dando un´ultima chance - si contrappongano all´ultimo gli sforzi di una parte del Pdl di sottrarsi alla responsabilità dell´ora presente, e di riproporre - opponendo al nome di Monti altre candidature di parte - la politica del populismo, della mobilitazione faziosa del popolo, alla politica della salvezza nazionale. Non di democrazia contro la tecnocrazia o contro il lobbismo si tratta, ma, ancora una volta, dell´eccezione polemica, che divide e che illude - l´essenza del berlusconismo - , contro l´energia che unisce. L´ultima raffica dell´anomalia contro la volontà di rinascita di un Paese.
Napolitano sta invece impegnando il proprio prestigio perché il governo che deve nascere abbia tutta la legittimità politica di cui ha bisogno per affrontare l´eccezione reale con strumenti adeguati: eccezionali, quindi, ma non immaginari; energici, ma rispettosi delle forme, dello spirito e degli equilibri della Costituzione; rapidi ma trasparenti; non populistici ma neppure impopolari, per non lasciare spazio a chi sta già individuando nuovi nemici interni e esterni (la plutocrazia e i suoi alleati, definiti "lobbisti") per giustificare i propri fallimenti e la propria irresponsabilità. Insomma, è toccato a Napolitano - praticamente solo nella tempesta - il compito di affrontare lo squilibrio, ma non per incrementarlo quanto piuttosto per raddrizzarlo; di custodire la Costituzione, rappresentando nella propria persona, che è un´istituzione e non un Ego narcisistico, la volontà politica di una nazione che non si rassegna alla crisi. Appunto, il compito di attraversare l´eccezione, ma non per farne lo strumento di un governo mistificatorio quanto piuttosto per far approdare l´Italia a quella normalità che ancora pare l´irraggiungibile Graal della nostra politica.

Il Riformista 12.11.11
«E ora liberiamoci della comunicazione tiranna»
Morcellini. Intervista a uno dei masismi studiosi italiani dei media: «Ber- lusconi ha sterilizzato la partecipazione e l’accesso a vantaggio della vir- tualizzazione. La recente prova referendaria ci può fare da buon esempio»
di Pippo Russo
qui

il Riformista 12.11.11
Il basso profilo del Vaticano sul post Cavaliere
A un anno dal pronunciamento pro Berlusconi poco prima del voto di fiducia del 14 dicembre, l’imbarazzo cattolico si fa sentire. Intanto Bagnasco accompagna la nascita del nuovo attivismo laico basato sul rilancio della dottrina sociale
di Francesco Peloso
qui

l’Unità 12.11.11
Intervista a Susanna Camusso
«Subito la patrimoniale. Così riparte la crescita»
Il segretario Cgil: «I lavoratori vivono il futuro con ansia. Siamo liberi
da Berlusconi, ma Monti ancora non c’è. La lettera della Bce non è Bibbia»
di Oreste Pivetta

Susanna Camusso, segretario della Cgil, era in Puglia ieri. Ha incontrato i lavoratori della Teleperformance, un call center che minaccia di lasciare a casa quasi ottocento dipendenti (la cassa integrazione scade a dicembre), tra le sedi di Taranto e di Roma... Sembrava il call center il futuro per migliaia di giovani, la crisi ha rivelato la fragilità di un settore senza troppe regole, cresciuto in disordine, dimenticato da un governo che di politica industriale non si è mai troppo occupato, malgrado tutto gli crollasse attorno. Segretario, in un giorno molto particolare, di preoccupazione e d‘attesa, tra la caduta di Berlusconi e la nascita, s’immagina rapida, di un nuovo esecutivo, che cosa può averle detto quell’incontro in “fabbrica”, tra tanti lavoratori, per lo più giovani? «Credo che quell’assemblea abbia in fondo raccontato il Paese, il suo stato d’animo. Solo ricordare che finalmente ci si è liberati da questo governo suscita consenso. Nessuno tra quei lavoratori ignora che in questi anni non s’è fatta politica industriale, non s’è fatta politica del lavoro, s’è cercato in ogni modo di mandare all’aria regole e diritti. Ovvio che si viva questa fine come una liberazione. Ma l’ansia per il futuro è di tutti e tutti chiedono qualche certezza e qualche impegno. Vorrebbero non sentirsi abbandonati a se stessi».
Un obiettivo è stato raggiunto. Lei ha più volte chiesto che il passo successivo alla caduta di Berlusconi fossero le elezioni. Probabilmente non sarà così. Continua a pensare che si dovrebbe andare alle urne? «L’esito naturale alla fine di una maggioranza è quello elettorale. Lo dico pensando alla distruzione della politica a cui abbiamo assistito, al trionfo dell’antipolitica, del qualunquismo, al crescere della sfiducia nella politica e nei politici, ridotti ormai nel sentire comune a casta di privilegiati. Per questo, per invertire la rotta, di fronte al tramonto di uno schieramento, credo che si dovrebbe restituire la parola, la responsabilità, la possibilità di scelta agli elettori. Capisco anche che non si possa infliggere a questo paese altri giorni di Berlusconi, perché ogni giorno in più di Berlusconi ci costa e abbiamo bisogno in una stagione d’emergenza di qualcuno che sia presentabile, di un governo di garanzia che sia credibile e restituisca credibilità al paese, per evitarci altri guai, altri danni». Per evitarci altri danni si continua a ripetere che il riferimento è la lettera dell’Unione europea. Voi avete sempre sostenuto che in quella lettera ci stanno indicazioni, che non possono rappresentare un diktat. Continuate a crederlo?
«Non è la Bibbia la lettera. Qualsiasi governo autorevole si sarebbe presentato all’Europa per discutere. Ma il governo di Berlusconi, che fino all’ultimo ha fatto sapere di non credere nell’Europa, che cosa avrebbe potuto spendere in una discussione, in una trattativa? Un governo, autorevole appunto, già di fronte alle esitazioni della Merkel negli aiuti alla Grecia, avrebbe fatto sentire la propria voce. Invece niente, né prima né dopo».
Non crede che il professor Monti, l’ormai senatore Monti, stimato, apprezzato, europeista convinto, con alle spalle un’importante esperienza europea, sia la persona giusta per contrattare con Bruxelles?
«Intanto ricordiamoci che non esiste un governo Monti. Per rispetto, ora possiamo solo tacere. Quando Monti sarà effettivamente e formalmente incaricato dal Presidente della Repubblica allora potremo esprimerci. Chiunque diventi il capo del governo, dovrà comunque riprendere in mano quella lettera, che non indica la ricetta giusta e neppure l’unica ricetta per risollevare il paese. Che si debbano rimettere i conti in ordine lo vedono tutti. Che siano necessarie forti riforme strutturali è chiaro. La proposta della Ue è però nel solco delle politiche che hanno poi generato questa sofferenza. Bisognerebbe uscirne, per ridare slancio alla crescita».
Tra le misure necessarie lei ha sempre posto in primo piano qualcosa che crei equità fiscale. Non dovrebbe passare di lì, dall’equità fiscale e quindi dalla lotta all’evasione, un’autentica rivoluzione che potrebbe restituire coesione, forza, speranza a questo paese?
«Quante volte abbiamo detto che si sarebbe dovuto ricostruire un patto di cittadinanza, perché un paese che deve rinascere deve darsi e deve saper rispettare un patto di cittadinanza. E su che cosa si regge il patto di cittadinanza, cioè la corretta relazione tra cittadini e Stato, se non sul principio che bisogna dare per avere e bisogna dare in rapporto alle proprie fortune? In questi anni s’è esaltato il contrario, si sono promossi i furbi, gli evasori, si sono alzate le tasse ai soliti e per gli altri si sono varati i condoni. Un cambio si realizza così: tassando con equità i redditi e tassando le ricchezze. Il primo passo è la patrimoniale. Serve riequilibrare, serve una decisa lotta all’evasione, serve ridistribuire. Non è solo questione di giustizia: così si recuperano risorse per la crescita, così si restituisce qualcosa ai redditi fissi più colpiti, alle pensioni, consentendo una ripresa dei consumi e quindi della produzione, così si può aiutare l’impresa che investe».
Per il 3 dicembre da tempo la Cgil aveva programmato una grande mobilitazione. Il 3 dicembre resta un appuntamento per migliaia di lavoratori. Che cosa direte al prossimo probabile governo?
«Lavoro. Questo sarà il titolo della nostra manifestazione. In piazza San Giovanni ripeteremo, anche al nuovo governo, che bisogna cambiare strada, che bisogna rimettere al centro il lavoro, che non ci sarà ripresa se non si mette al centro il lavoro. E rimettere al centro il lavoro significa cancellare quanto il governo passato ha voluto contro il lavoro, occorre restituire diritti ai lavoratori, occorre ridisegnare una legislazione che ha costruito quarantasei forme di ingresso al lavoro, moltiplicando il precariato, consentendo un mercato del lavoro selvaggio. La precarizzazione lascia senza futuro i nostri giovani. Senza dimenticare quanti il lavoro lo hanno già perso o lo stanno perdendo. Non si pensi ai licenziamenti facili...».
Il cambiamento politico rimetterà il segno positivo ai rapporti tra i sindacati?
«Intanto è caduto il governo che si è presentato con un disegno esplicito di smantellare l’unità sindacale. Intanto non ci sarà più quel ministro che si è adoperato con dedizione per raggiungere quel traguardo, attraverso accordi separati, incontri separati, eccetera eccetera. La storia alle spalle è lunga, ma passi avanti sono già all’attivo. Voglio aggiungere che dal nuovo governo ci attendiamo atteggiamenti diversi, a partire dalla considerazione che il sindacato insieme con le altre forze sociali è uno dei soggetti con in quali è indispensabile il confronto, se si vuole pensare a un progetto condiviso e forte per l’avvenire e non solo per l’emergenza».


l’Unità 12.11.11
«Riprendiamoci il campo» alle 14,30 dai bastioni di Porta Venezia
Un’iniziativa di associazioni, società civile per voltare pagina in Italia
Milano, in piazza per ripartire dopo Berlusconi
Oggi pomeriggio a Milano sfilerà «Riprendiamoci il campo», la prima manifestazione del dopo Berlusconi, indetta dalla società civile, con oltre 300 adesioni di personaggi illustri, 40 associazioni e 40 Rsu.
di Luigi Venturelli

Sarà ufficialmente la prima manifestazione del dopo Berlusconi, indetta due settimane fa contro «un governo screditato nel mondo e che ha fallito in Italia» e, a maggior ragione confermata ieri ad esecutivo ormai dimissionario, in nome di «un nuovo protagonismo civile» che colmi il vuoto politico, economico e culturale creatosi in questi anni.
CITTADINANZA ATTIVA
E non poteva essere che a Milano, luogo dell’ascesa al potere del Cavaliere e poi teatro dell’annunciato declino, avviato la scorsa primavera con la vittoria alle elezioni amministrative di Giuliano Pisapia. «È ora di cambiare. Riprendiamoci il campo e scendiamo in piazza insieme» è l’appello del sindaco, anche lui tra i presenti al corteo che oggi pomeriggio partirà alle 14.30 dai Bastioni di Porta Venezia per sfilare fino a piazza Castello. Ed è solo una tra le centinaia di adesioni di personaggi illustri della politica, della cultura e dell’associazionismo: dall’architetto Cini Boeri al filosofo Giulio Giorello, dal premio Nobel Dario Fo al cantautore Roberto Vecchioni, dall’attrice Lella Costa alla presidente di Emergency Cecilia Strada.
Se la città d’elezione non poteva che essere Milano, infatti, il motore d’avvio della manifestazione non poteva che essere la società civile, fatta di oltre 40 associazioni Acli, Arci, Auser e Cgil in prima linea ed altrettante rappresentanze sindacali unitarie, provenienti dai luoghi di lavoro di tutta la Lombardia. A tutti i partecipanti sarà distribuito un cartellino rosso (ne sono state stampate diecimila copie), per richiamare lo slogan scelto per l’evento «Riprendiamoci il campo», e per illustrarne visivamente il significato politico.
PRIORITÀ IN AGENDA
Innanzitutto, la definitiva espulsione da Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi e della sua cricca, responsabili del «degrado delle istituzioni» a cui abbiamo assistito finora e della «negazione di futuro» che riguarda ampie fasce della società. «Resta apertissimo il tema di una giustizia sociale a lungo calpestata, di ricette per uscire dalla recessione tutte fondate sui sacrifici di chi i sacrifici li ha già fatti a lungo» ricorda Gad Lerner. «E resta da affrontare il problema dell’occupazione delle donne, ferma in Italia al 47%, con una donna su due che non cerca neanche più un lavoro» ribadisce Assunta Sarlo, presidente della rete Usciamo dal Silenzio.
Ma a muovere la mobilitazione milanese è soprattutto la convinzione degli interventi ora necessari per allontanare l’Italia dall’orlo del baratro su cui si trova: ritrovare il rispetto della Costituzione e delle istituzioni dello Stato, attivare una diversa politica industriale che contempli investimenti in ricerca e scuola, politiche che coniughino lavoro e formazione, a cominciare dall’occupazione giovanile e nel mezzogiorno. Ed ancora:sostegni alla cultura, un sistema fiscale fondato sul principio di equità, un welfare rinnovato ed efficiente, il ripristino dei trasferimenti per i servizi essenziali, e la cancellazione dell’articolo 8 sulla contrattazione sociale.

l’Unità 12.11.11
Iniziative in tutta Italia Tensione a Milano alla sede di Unicredit, uova contro le forze dell’ordine
Protesta sotto il Tesoro “Draghi Indignati” contro Monti: «Il governo delle banche e dei mercati»
Gli studenti tornano in piazza «Occupiamo tutto, ovunque»
A Bologna uova contro Equitalia. Blitz a Palermo, Napoli, Firenze. Nel mirino banche e agenzie interinali. A Roma, la protesta dei “draghi ribelli” sotto il Tesoro. Ma la polizia identifica tutti. Anche il “drago”
di Mariagrazia Gerina

«Qualcuno sa che voce ha il futuro presidente del Consiglio?», grida al megafono un ragazzo. In tasca ha un editoriale pubblicato dal Corriere della Sera: «Monti è stato un grande estimatore della riforma Gelmini. E poi era l’advisor di Goldman Sachs. Altro che governo tecnico, sono le banche e i mercati ad avercelo imposto», spiega alla platea, seduta in cerchi concentrici, nel bel mezzo di via XX Settembre, a pochi metri dal ministero del Tesoro.
C’è chi scrive sui cartelli una lettera alla Bce, alternativa a quella di Berlusconi. Chi elenca dove vanno fatti i tagli: «Tassa patrimoniale sulle rendite finanziarie e sui capitali rientrati dall’estero...». Chi suggerisce dove investire: «Case a canoni agevolati, asili nido, scuola e università... energia rinnovabile». La parola chiave è «alternativa». «Ci sono tanti modi per uscire dalla crisi, non solo quelli della Bce. Non possono dare retta solo ai mercati, devono stare a sentire anche noi che siamo il 99%», dice ancora il ragazzo al megafono.
È stata la fatalità della data scelta dagli indignados di tutto il mondo per un’altra convocazione generale dopo quella del 15 ottobre, se i “draghi ribelli”, nati un mese fa al grido di Occupy Bankitalia, sono tornati in piazza alla vigilia dell’insediamento del nuovo governo.
«Occupy everithing, occupy everywhere», era l’inpunt globale. E nel mirino, in tutta Italia, sono finite soprattutto le banche. A dare inizio alla protesta, Milano. Con una irruzione nella filiale della sede centrale di Unicredit in piazza Cordusio. E qualche momento di tensione (lanci di uova e pomodori da una parte, manganellate dall’altra), quando il corteo degli studenti ha cercato di deviare dal percorso. Poi l’irruzione nella sede della Mediolanum al grido di «Espropriamo Berlusconi». E il blitz nella sede milanese del Parlamento Europeo in corso Magenta. Con finti titoli di Stato italiani, greci e irlandesi, bruciati per protesta, in mezzo alla strada. A Bologna, gli indignados hanno bersagliato con un lancio di uova soprattutto gli uffici di Equitalia. A Pisa hanno dato vita a un blocco stradale per impedire un’iniziativa del ministro del Welfare Maurizio Sacconi. A Firenze, hanno lanciato un «acampada» in stile spagnolo, in piazza Santissima Annunziata.
A Roma, l’appuntamento era davanti al ministero del Tesoro, dove i “draghi ribelli” si sono presentati con la “maschera” del futuro presidente del consiglio, accanto a quella di Mario Draghi, loro antagonista di un mese fa. Lo slogan coniato per l’occasione non lascia spazio a dubbi: «Né Tre-Monti, né Monti, non facciamo sconti». Tra i “draghi ribelli” l’idea di un governo tecnico, guidato dall’ex commissario europeo, non riscuote consensi.
NÉ TRE-MONTI NÉ MONTI
«La retorica della responsabilità nazionale è solo un altro modo per rispondere ai diktat delle banche, e non mi piace l’idea di uno che ci viene imposto dall’alto», spiega Andrea, studente di Filosofia, alla Sapienza. Meglio sarebbero le elezioni: «Votare per scegliere chi ci deve governare dopo Berlusconi mi sembrerebbe il minimo dice Andrea -.
Altrimenti, la distanza tra noi e chi ci dovrebbe rappresentare sarà ancora più grande».
Mentre parla un cordone di polizia in assetto antisommossa circonda le poche decine di manifestanti, seduti in assemblea. «Ma chi state difendendo? Da cosa?», grida al megafono Francesco Raparelli. Prima ancora che il sit-in iniziasse, la polizia ha cominciato a schedare tutti quelli che si avvicinavano al luogo dell’appuntamento. Compreso il dragone simbolo del movimento, portato in moto da un ragazzo, che studia Scienze Politiche.
«Se lo spazio entro cui vogliono restringere i movimenti e la società civile è angusto come quello che hanno lasciato oggi a noi la vedo male», pronostica Luca Cafagna, uno dei portavoce della protesta studentesca, che nei prossimi giorni tornerà ad accendersi con iniziative e occupazioni. In vista della giornata mondiale degli studenti, il prossimo 17 novembre. Su Roma, pende ancora il divieto di corteo, deciso da Alemanno. I “draghi ribelli” ieri lo hanno sfidato, con un piccolo corteo a chiudere il sit-in. Il 17 ci riproveranno, con altri numeri. Ma Alemanno già invoca l’intervento delle forze dell’ordine.

Repubblica 12.11.11
Sì alla pillola dei 5 giorni dopo ma per poterla prendere servirà il test di gravidanza
L’Aifa: costerà 35 euro. E scoppia la polemica
di Michele Bocci

ROMA - La pillola dei 5 giorni dopo sta per arrivare in farmacia. Dopo una lunga attesa tra scontri, stop del ministero e paletti del Consiglio superiore di sanità, lunedì il decreto che ne autorizza la vendita sarà in Gazzetta Ufficiale. Ci sono voluti ben due anni e tre mesi all´Agenzia del farmaco (Aifa) per firmare un´approvazione che ricorda da vicino il lungo iter per il via libera alla Ru486. Quello però è un farmaco abortivo mentre ellaOne, il nome commerciale dell´ulipristal acetato, è un anticoncezionale, come la pillola del giorno dopo, e agisce fino a 120 ore dopo il rapporto a rischio. Se nel frattempo la fecondazione è già avvenuta non funziona. Avendo però a che fare con il rifiuto della gravidanza anche il nuovo medicinale (approvato dall´Emea già nel maggio 2009) in Italia è finito al centro di polemiche che ancora non si spengono. Da noi, come chiesto dal Consiglio superiore di sanità (Css) all´Aifa, prima di prendere la pillola si dovrà fare un test di gravidanza. Una decisione che non piace ai medici. In nessuno dei 21 paesi europei dove sono già state vendute 400mila confezioni di ellaOne esiste una regola del genere. «Si tratta di un modo per scoraggiare le donne - commenta Gianni Fattorini di Agite, l´associazione dei ginecologi del territorio – Le persone che vengono nei nostri ambulatori sono in uno stato emotivo particolare, hanno fretta e non hanno voglia di fare esami». La pillola sarà a carico delle pazienti, come la pillola del giorno dopo e molte anticoncezionali, e costerà quasi 35 euro, cioè più che in Francia (24 euro) e in Gran Bretagna (17 sterline). La regola del test, secondo l´azienda produttrice Hra Pharma, non è chiara. Il Css nell´introduzione al suo parere parla di esame del sangue, un accertamento che richiede tempo perché va fatto in laboratorio. «Nel testo però si prevede un accertamento con "dosaggio delle beta HCG" – dice Alberto Aiuto, responsabile di Hra Pharma Italia – In quel modo funzionano anche i test sull´urina che si acquistano in farmacia. Abbiamo chiesto a medici legali e ginecologi e ci hanno detto che per come è scritto il parere potrebbe andare bene anche questo». Probabilmente la questione finirà in tribunale.
Secondo Fattorini il test non va bene. «Per le associazioni scientifiche dei ginecologi è una proposta irrazionale. Per quanto riguarda il sangue, se questa contraccezione è di emergenza non ha senso aspettare gli esami. E poi non ci sono prove che il farmaco faccia male se si prende a fecondazione avvenuta». Critica sull´approvazione Scienza & Vita. «Con il definitivo via libera alla pillola dei 5 giorni dopo assistiamo all´ultimo atto di una progressiva banalizzazione dell´aborto», commenta Lucio Romano, copresidente dell´associazione.

Repubblica 12.11.11
Afghanistan, il martirio delle donne madre e figlia lapidate per immoralità
Nella provincia di Ghazni le scuole femminili sono state chiuse, solo i burqa consentiti
di Giampaolo Cadalanu

Sono seduti ai tavoli per le trattative di pace, con gli emissari dell´Occidente rivendicano un ruolo per contribuire a un Afghanistan "nuovo", con i giornalisti propongono un profilo moderato. Ma il volto feroce dei Taliban resta sempre lo stesso: gli attentati nel centro di Kabul, le lapidazioni, la giustizia sommaria. Quello che è successo giovedì a Ghazni, in una provincia controllata per gran parte dagli studenti coranici, sembra confermare che a dieci danni dalla sconfitta del regime guidato dal mullah Omar per le donne nulla è cambiato.
Una vedova e sua figlia sono state massacrate a colpi di pietre e poi finite con una pallottola in testa, perché ritenute «colpevoli di deviazione morale ed adulterio». Secondo la ricostruzione della polizia locale, gli assalitori hanno fatto irruzione di notte nella casa delle donne e le hanno uccise. Non è ben chiaro se ci sia stata una sorta di processo, alcune fonti dicono che sono state portate fuori con la forza, altre che sono state uccise in casa. Ma l´esame dei corpi ha confermato che prima di essere giustiziate le donne sono state colpite da sassi.
Il governatore di Ghazni, Musa Khan Ahmadzai, sostiene che a condannare le due donne sarebbe stata una sentenza del locale mullah, il quale le ha ritenute colpevoli di adulterio e prostituzione. Anche un vicino ha raccontato all´Agence France Presse che le due erano accusate di attività immorale, senza però precisare "da chi". E chissà se l´interrogatorio di due uomini fermati dopo il delitto potrà chiarire le reali responsabilità.
Ghazni, a metà strada fra Kabul e Kandahar, sembra essere un laboratorio per il ritorno al passato: i mullah chiedono apertamente ai fedeli di denunciare i casi di adulterio, le donne non escono di casa se non coperte dal burqa, le ragazze non vanno a scuola, persino ai matrimoni la sposa è separata dallo sposo perché il rumore dei tacchi femminili "turba" gli invitati uomini. È una regione che le forze Isaf dovrebbero passare ai governativi in tempi abbastanza brevi: ma sarebbe illusorio pensare che la giustizia islamica imposta dai Taliban possa essere sostituita in tempi rapidi da codici basati sulla certezza del diritto e sul rispetto dei diritti umani.
Anche se una rivendicazione esplicita dei Taliban per il delitto non c´è, a Ghazni come in altre zone controllate dagli studenti coranici la cultura integralista si consolida. Il "nodo" dei comportamenti inadeguati alle norme islamiche, da sempre un punto dolente nella cultura afgana, continua a causare l´uccisione o comunque la violenza su donne sospettate di adulterio: nel secondo trimestre di quest´anno sono stati 1026 gli episodi registrati dalla Commissione indipendente per i diritti umani, contro i 2700 di tutto l´anno scorso (e naturalmente i casi denunciati sono solo una parte). A volte sono gli stessi familiari o i vicini di casa a commettere i delitti, a volte sono bande di guerriglieri o i Taliban veri e propri.
In genere le esecuzioni ordinate dai gruppi di integralisti devono avere un valore "esemplare": è il caso di due donne che lavoravano in una base americana, uccise con l´accusa di prostituzione e abbandonate davanti all´ingresso della base due anni fa. Gli studenti coranici negano invece ogni responsabilità per la vedova incinta frustata e uccisa l´anno scorso nella provincia di Badghis. Accusano i media afgani di «voler solo diffamare il movimento». Ma al di là dei casi specifici, è chiaro che la cultura da cui nasce questa violenza è ben lontana dall´essere vinta.


l’Unità 12.11.11
Unesco e Israele ai ferri corti Ma Berlino sblocca i fondi
A rischio anche siti con valore religioso come Betlemme
Satira macabra su Haaretz: la direttrice convoca l’ambasciatore
La Chiesa della Natività a Betlemme, la Moschea di Abramo e la Tomba dei Patriarchi a Hebron. Siti che l’Unesco avrebbe dovuto tutelare. Avrebbe. Perché il taglio dei fondi da parte Usa rimette tutto in discussione.
di U.D.G.

«Non gli basta espropriarci delle nostre terre. Ora mirano anche ad espropriarci della nostra memoria storica. Una memoria che si rispecchia in quei monumenti e luoghi di culto che gli “esprpriatori di memoria” vorrebbero ridurre a ruderi. E il taglio dei finanziamenti dal’Unesco è parte di questo progetto». A denunciarlo a l’Unità è una delle personalità più autorevoli della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, paladina dei diritti umani nei Territori, la prima donna portavoce della Lega Araba. Siti palestinesi di enorme importanza culturale e religiosa per tutte e tre le fedi monoteiste, come la Chiesa della Natività a Betlemme, e la Moschea di Abramo e la Tomba dei Patriarchi a Hebron (al-Khalil per i palestinesi), e luoghi di alto valore naturalistico come il Mar Morto, che attualmente versano in condizioni di profondo degrado, potranno essere meglio protetti grazie all’ingresso della Palestina nell’Unesco. Protetti ma non sottratti all’incuria del tempo. Perché i finanziamenti tagliati all’agenzia dell’Onu.
MONUMENTI E MEMORIA
Attacco alla memoria collettiva significa, in questo caso, che Betlemme sarebbe stato uno dei siti tutelati, dopo l’ingresso della Palestina nell’Unesco. Ora la decisione degli Usa di tagliare i fondi, mette a serio rischio questa tutela. Il popolo palestinese, come ogni altro popolo del mondo, ha il diritto di preservare la propria storia e il proprio patrimonio culturale, senza discriminazioni odiose o esclusioni dettate da ragioni politiche. Ed è proprio questa la funzione dell’Unesco: proteggere e salvaguardare la dignità di tutte le culture. Per gli anni 2012-2013 l’Unesco dovrà far fronte ad un deficit di 143 milioni di dollari.Il rischio è quello di un effetto a catena: dopo Usa e Israele, altri Paesi potrebbero venir meno al loro impegno verso l’Unesco. Un segnale di speranza è venuto da Berlino: al contrario di quanto si era ventilato, il governo tedesco continuerà a pagare il proprio contributo all’Unesco anche dopo il riconoscimento della Palestina come membro dell’organizzazione delle Nazioni Unite. La maggioranza di centrodestra che sostiene la cancelliera Angela Merkel ha deciso di ritirare la disposizione che avrebbe bloccato il finanziamento previsto per il prossimo anno. Lo ha comunicato ieri alla Dpa Herbert Frankenhauser, politico responsabile del bilancio presso il ministero degli Esteri.
SARCASMO
Dai fondi negati alle vignette pesanti. La pubblicazione di una vignetta umoristica sul quotidiano Haaretz ha destato nei vertici dell’Unesco un allarme tale che un suo dirigente ha convocato con urgenza l’ambasciatore di Israele per consegnargli una protesta formale a nome della direttrice generale, Irina Bokova. La vignetta è stata pubblicata il 4 novembre, dopo che Israele aveva approvato una serie di misure di protesta per la inclusione della Palestina nell’Unesco. Con un occhio anche alle tensioni militari fra Israele ed Iran, il caricaturista Eran Wolkowski aveva disegnato il premier Benyamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak, in posa militarista, mentre davano le ultime istruzioni ad alcuni piloti dell’aviazione, presumibilmente in partenza per colpire gli stabilimenti nucleari in Iran. «E sulla via del ritorno diceva Netanyahu bombardate anche gli uffici dell’Unesco a Ramallah». Ai vertici dell’Unesco scrive ieri Haaretz il disegno non ha provocato la minima ilarità. «Quella vignetta è stato detto all’ambasciatore di Israele, Nimrod Barkan mette in pericolo le vite del nostro personale, che sono diplomatici disarmati. È vostro preciso dovere proteggere la loro incolumità ».

il Fatto 12.11.11
Il piccolo grande Gramsci
Anche da studente di IV elementare, era già lui
di Sandra Amurri

La grafia è quella di un bambino di dieci anni. Il contenuto è quello di un bambino che a dieci anni già parlava agli uomini di domani. Il suo nome è Antonio Gramsci. Questo è il suo tema di italiano all’esame di quarta elementare: “Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli risponderesti?". Scuola elementare di Ghilarza, 15 luglio 1903. Non si può che restare colpiti da un maestro che chiede a dei bambini di affrontare un argomento così centrale per una società giusta e uguale: il diritto allo studio che nel 1948 diverrà un diritto sancito dalla Carta costituzionale, oggi così discussa. Ma non solo: lo studio come forma più alta della libertà di un individuo a prescindere dalle sue condizioni economiche. Non è il denaro, che la modernità ha posto al centro della vita di relazione e neppure lo sfarzo che ne deriva, per il piccolo Gramsci, a garantire un futuro onorato e dignitoso.
IL SOLO strumento per combattere l’ingiustizia sociale è la cultura. La conoscenza, perché chi non conosce non sceglie e chi non sceglie non è una persona capace di esercitare a pieno il suo compito di cittadino attivo. Più o meno le stesse cose rivendicate dagli studenti scesi in piazza contro la Riforma Gelmini, per una scuola pubblica di tutti e per tutti.
Ma veniamo al tema. Antonio Gramsci si rivolge all’ipotetico amico che chiama Giovanni per fargli sapere: “Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale”. E lo stupore cresce di fronte alla consapevolezza che il suo compagno di banco Giovanni abbia deciso di non andare più a scuola, lui che è un privilegiato: “Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non riprenderai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna”. E quanta amorevole insistenza nelle sue parole: “Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili. Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan-tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito. ”.
INFINE, il saluto, Antonio si rivolge a Giovanni scusandosi per la franchezza del suo dire, dettata dal cuore e dall’affetto: “Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti.
Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo amico Antonio”.

Le fotocopie di questo “tema d’autore” appartiene a Giovanni Cocco, giovane ricercatore dell’Università di Sassari, segretario provinciale del Pdci, che a sua volta l’ha ricevuta da suo padre Agosti-no, per oltre 20 anni segretario della scuola elementare intitolata ad Antonio Gramsci nel 1985, occasione in cui a tutti i bambini, venne regalato L’albero del riccio. Ma l’originale dove si trova, visto che all’Archivio di Stato di Oristano, dove Agostino Cocco lo aveva inviato assieme a tutti gli altri, non è mai arrivato? Un giallo che siamo riusciti a risolvere a patto che il nome di chi lo conserva – con la stessa gelosia con cui si ha cura di un tesoro – resti misterioso. L’originale del tema di quarta elementare di Gramsci ce l’ha il figlio della domestica del maestro di Antonio Gramsci, che ha ereditato la sua casa.
NELLA BIBLIOTECA, nascosto tra le pagine di un libro, c’era il tema di quel bambino che a dieci anni dava lezione di latino ai compagni del ginnasio. Una sola volta lo ha prestato alla Casa Museo Gramsci di Ghilarza perché fosse esposto durante un convegno, ma restando di guardia finché non gli è stato restituito. “È un vecchio compagno, cresciuto come me a pane e Gramsci”, dice Giovanni Cocco “che grazie ad Antonio ha appreso le cose veramente importanti per ognuno di noi, come il senso critico, e ha imparato – per fare un esempio di attualità stretta – che bisogna guardare alla speculazione finanziaria dando priorità alla speculazione mentale”. Eppure in Italia Antonio Gramsci non è così studiato, mentre è il terzo autore più letto a livello planetario dopo Karl Marx e Jean-Jacques Rousseau. Fino a diventare l’autore più studiato nei club neoliberisti americani. Una malattia tutta italiana quella della perdita della memoria, che condanna chi non è padrone della sua storia a non esserlo neppure del suo futuro.



il Fatto 12.11.11
Siamo un popolo di ignoranti
di Nicola Tranfaglia

I dati ufficiali che emergono dall’ultimo rapporto (denominato report Apef, del 23 settembre 2011) dell’Organizzazione Europea per la Cooperazione e lo Sviluppo (OCSE) che raggruppa 34 paesi e di cui fa parte l’Italia, sono particolarmente significativi su quello che qualcuno di recente ha definito, in parte a ragione, l’arretratezza culturale del nostro paese e, in importanti giornali europei e occidentali, definiscono più apertamente l’ignoranza di massa che domina il nostro paese. Nessuno ne ha riferito agli italiani con i mezzi di comunicazione di massa Ma quei dati sono, come ogni anno, preziosi per comprendere anzitutto i danni che le politiche di governo (con una particolare accentuazione negli ultimi tre anni di dominio populistico) hanno provocato nella società italiana alle nuove generazioni.
Il primo elemento importante che il rapporto sottolinea riguarda la connessione tra il titolo di studio di cui sono in possesso i lavoratori e il guadagno che sono in grado di ottenere. I lavoratori dell’area OCSE con un titolo di istruzione, affermano i ricercatori, guadagnano di più rispetto a quelli che non hanno completato un ciclo di istruzione. E se poi hanno anche un’esperienza lavorativa nel proprio curriculum, i datori di lavoro sono disposti a pagare di più.
IN ITALIA, nota il rapporto, la media degli individui occupati con istruzione superiore è ancora bassa (79 per cento rispetto alla media). A questo primo elemento ne succede un altro di particolare importanza ed è il livello di spesa che ogni paese europeo dedica all’istruzione. L’analisi mette in luce che in Italia la percentuale del Pil destinata all’istruzione è ancora bassa e più bassa di quella che la media dei paesi dell’OCSE dedicano al settore.
In particolare, dobbiamo precisare che l’Italia tra il 2002 e il 2008 (nella maggioranza di quegli anni ha governato Berlusconi) ha speso il 4,8 per cento del Pil per l’istruzione, in pratica l’1,3 di percentuale in meno rispetto al totale OCSE del 6,1 per cento, risultando perciò al ventinovesimo posto su 34 paesi. Un terzo dato preoccupante riguarda i diplomi di istruzione secondaria di cui sono forniti i giovani italiani.
In Italia, infatti, circa il 70,3 per cento dei giovani tra i venticinque e i trentaquattro anni ottiene un rapporto di istruzione secondaria superiore, ma la percentuale è di gran lunga inferiore alla media OCSE che è dell’81,5 per cento per la stessa fascia di età, collocandosi al ventinovesimo posto in Europa, nella stessa posizione già indicata per le dimensioni della spesa nazionale. Un quarto elemento da sottolineare riguarda gli stipendi degli insegnanti italiani (sforniti peraltro di una scuola di abilitazione professionale che i governi di centrosinistra avevano tentato a loro modo, pur con molte difficoltà, di costruire) che nel primo decennio del Ventunesimo secolo sono diminuiti rispetto agli stipendi degli insegnanti nei paesi dell’OCSE che registrano un aumento in media del 7 per cento in termini reali e non monetari.
GLI INSEGNANTI italiani – è un dato oggettivo – guadagnano meno di altri professionisti con lo stesso grado di istruzione e raggiungono il livello più alto della loro fascia retributiva solo dopo 35 anni di servizio mentre in media, nei paesi dell’OCSE, raggiungono il livello più alto della loro fascia retributiva dopo ventiquattro anni di servizio. Si tratta, a mio avviso, di una differenza di non scarso rilievo nella vita professionale degli insegnanti.
L’ultimo elemento, a cui accenno soltanto, riguarda i meccanismi di valutazione interna della scuola: qui l’arretratezza è maggiore (e ha di sicuro ragioni storiche) ma le classi dirigenti dell’ultimo decennio non hanno fatto le scelte decisive per superare il grande gap che si era creato rispetto agli altri paesi occidentali.
Se, dai dati ufficiali dell’OCSE che hanno una oggettività che nessuno finora ha messo in dubbio, passiamo ai risultati dei rapporti e delle ricerche nazionali, il panorama purtroppo peggiora. È noto che la mancata soluzione dei conflitti d’interesse (a cominciare da quello del capo del governo in carica) e la forza crescente dell’analfabetismo di ritorno hanno determinato una impressionante egemonia dei telegiornali in gran parte dominati dal governo (5 su 6, se si vuol essere aderenti alla realtà della politica italiana) che comunica le novità a poco meno dell’ottanta per cento degli italiani mentre poco più del venti per cento dei nostri connazionali si informa attraverso i quotidiani che, a loro volta, sono in maggioranza vicini alla linea espressa dal governo nazionale. C’è da chiedersi, a questo punto, se ancora esista in Italia il quarto potere, aspetto fondamentale di ogni moderna democrazia.

l’Unità 12.11.11
Berlinguer, politica e sentimento
La mostra Al Quarticciolo, storico quartiere popolare di Roma, la vita del segretario del Pci si srotola attraverso foto che raccontano il suo percorso pubblico e privato, alla base dei quali c’è stato soprattutto l’amore
di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Moltissimi scatti, disposti secondo un preciso ordine cronologico. Primissimi piani, evocativi e commoventi, in grado di sondare come efficienti periscopi la grana finissima dell’amore che Enrico Berlinguer profuse nella sua attività politica, dagli esordi fino al malore che l’ha stroncato nel 1984. Quasi che la passione, e il pathos sincero, fungessero da cifra stilistica nel modus operandi dell’uomo che più di ogni altro nella storia del Partito Comunista ha saputo convogliare a sé l’affetto della gente comune. È per questo che la mostra fotografica a lui dedicata sembra trovarsi nella sua più naturale collocazione: si può visitare fino al 27 novembre nella Scuola media Giuseppe Verga, al Quarticciolo, storico quartiere popolare della periferia a sud-est di Roma, che negli anni più difficili della seconda guerra mondiale fu il cuore pulsante della lotta romana al nazifascismo. Il percorso biografico e politico di Berlinguer è ricostruito nei minimi dettagli, attraverso la divisione in precise aree tematiche. L’infanzia in Sardegna, con la carrellata di scatti familiari, in barca o in momenti di vita spensierata, gli studi umanistici al prestigioso liceo Azuni, fino alla scelta politica di iscriversi al Pci. Gli anni in cui fu dirigente della Fgci, con il fotoracconto delle riunioni di redazione al settimanale Pattuglia, dei molti discorsi pronunciati alle Feste dell’Unità, del primo viaggio a Mosca e della stretta collaborazione milanese con Giancarlo Pajetta e Luigi Longo. E ancora, il periodo clou della sua carriera politica nazionale, a partire dal 1968, anno in cui fu eletto deputato. Specie in quest’area sono molti i ritratti degni di nota. Colpisce al cuore uno che ritrae Berlinguer a un convegno, mentre pronuncia il suo discorso sotto uno striscione che invoca «La ricerca di un’alternativa per uscire dalla crisi che attanaglia l’Italia», allora come oggi.
Così come non si può che provare nostalgia di fronte a fermi-immagine che riportano alla memoria anni in cui la battaglia politica ancora basata sul confronto di piazza: anni dei comizi sotto la pioggia, anni in cui Berlinguer fu rieletto alla Camera con più di 230mila voti di preferenza, anni aspri in cui Berlinguer iniziò a delineare l’esigenza del «compromesso storico». Anni d’incontri vis à vis con gli operai della Fiat e dei cantieri navali. Molto ricca è anche l’area monotematica dedicata ai grandi incontri della carriera politica. Gli scatti lo ritraggono assieme a Ingrao, Napolitano, Jotti e Macaluso, in momenti di rilassata intimità o nell’ufficialità delle consultazioni in Parlamento.
CON EINAUDI E BOBBIO
Una stretta di mano non troppo convinta con Craxi fa riflettere sulla politica odierna, qualche chiacchiera con Cossiga e gli incontri con gli intellettuali Giulio Einaudi, Norberto Bobbio e Alberto Moravia completano il quadro. Un Berlinguer meno sofferto emerge invece nell’aera dedicata alla vita privata, ricca rassegna in cui lo si vede giocare a calcio, prepararsi a un dibattito o sorridere mentre l’obiettivo sembra sottrargli i pochi attimi di attenzione verso i figli Bianca, Maria, Laura e Marco. E se gli scatti dedicati ai momenti più internazionali della sua carriera politica aiutano a ricordare più di un trentennio di storia mondiale attraverso i volti gonfi e dolenti di Tito, Castro, Mitterand, Arafat e Breznev, la lunga serie di foto dedicata alla sua morte riportano alla mente il sincero dolore con cui gli italiani, a prescindere dal sentimento politico, salutarono la sua scomparsa.
Che il trasporto di allora sia ancora vivo, lo dimostra lo spirito con cui l’associazione La Farandola e Franco Massimi hanno organizzato questo evento, che nell’arco di tre settimane, tra appuntamenti e incontri, vedrà la partecipazione di Ettore Scola, Luca Telese, Emanuele Macaluso e molti altri, dopo la visita a sorpresa di un commosso Roberto Benigni precipitatosi a Quarticciolo per portare il suo sincero tributo.

La Stampa TuttoLibri 12.11.11
Così naufragò il grande bastimento di Heidegger
Volpi «La selvaggia chiarezza»: gli scritti che delucidano il percorso del filosofo tedesco
"La radicalità filosofica diventa vaniloquio, rifiuto della razionalità, visione catastrofica mal argomentata"
di Franca D’Agostini
il pdf della pagina è disponibile qui

Franco Volpi LA SELVAGGIA CHIAREZZA. SCRITTI SU HEIDEGGER Adelphi, pp. 336, 16
Franco Volpi Il filosofo è scomparso nel 2009

La selvaggia chiarezza, raccolta degli scritti su Heidegger di Franco Volpi, curata da Antonio Gnoli, è un libro importante per più ragioni, ma anzitutto perché mette in luce una questione cruciale, a cui dovrebbero essere interessati non soltanto gli heideggeriani, ma anche i filosofi analitici, e chiunque lavori in filosofia con la coscienza critica di quel che sta facendo, può fare e vuole fare. La questione è ben espressa nel titolo doppio dell'ultima importante opera di Heidegger, a cui è dedicato l'ultimo scritto della raccolta: Dall'evento. Contributi alla filosofia. Perché mai Heidegger adottò il doppio titolo? Perché non limitarsi al suggestivo Vom Ereignis o al minimalista Beiträge zur Philosophie? La diagnosi di Volpi, espressa con la pacatezza elegante e profonda che gli era caratteristica, è che Heidegger intendeva «tenere distinta la superficie, la facciata pubblica, da ciò che vi si nasconde». In altri termini: la filosofia è la domanda, la facciata pubblica, l'evidenza che ci interroga, e «dall'evento» è la risposta.
La questione cruciale è dunque chiara, e accompagna tutta l'opera di Heidegger, direi di più: accompagna quasi tutta la filosofia del Novecento. Si tratta del senso e del destino della filosofia, disciplina accademica, sapere istituito insieme agli altri, ma il cui stesso nome è improprio, implicando con il fileo una passione imbarazzante, e con la sofia una pratica di pensiero ed esercizio di vita tipicamente pre-scientifico e pre-accademico. Per di più, essendo la filosofia tecnicamente legata all' esplorazione di concetti vasti e linguisticamente complessi, come essere, verità, giustizia, bellezza, ecc., diventa difficile pensarla in un'epoca in cui concetti di questo genere nella cultura comune, nella scienza, e nella vita pubblica, sembrano essere ormai «gli ultimi fumi della svaporante realtà», come scriveva Nietzsche.
In questa prospettiva si apre un modo di leggere Heidegger, ma più in generale la filosofia contemporanea, che ha orientato il lavoro di Volpi, un filosofo sottile e uno storico della filosofia, oltre che traduttore e interprete di Heidegger, purtroppo prematuramente scomparso. Chi è infatti Heidegger, per noi? L'ambiguo pensatore quasi-nazista; l'oscuro rimescolatore di carte concettuali, creatore di etimologie lambiccate e sbrigative analogie, interprete confuso e confondente dei grandi filosofi, maestro di tutti gli impasticciatori di professione che in suo nome e lanciando a casaccio le sue parole d'ordine hanno gettato nel fango e nella disperazione la grande tradizione della filosofia tedesca. Ma Heidegger, come Volpi ci insegna, è stato anche un pensatore «onesto», profondamente onesto nei confronti della filosofia. Anzi proprio tutte le sue bizzarrie espressive e i suoi argomenti imperfetti sono la testimonianza di un problema avvertito autenticamente. Non per nulla un periodo di crisi sopraggiunge per Heidegger negli anni 1936-46, quando medita il suicidio. Al centro della crisi, ricorda Gnoli nell'introduzione, non è tanto l'esperienza del nazismo ma il confronto con Nietzsche, che culmina con il Nietzsche , l'opera del 1961.
Trascurare il nazismo per preoccuparsi della filosofia fu la speciale insensatezza del lavoro heideggeriano. La prima grande opera di Heidegger, Essere e tempo (1927), si era interrotta «per il venir meno del linguaggio». L'operazione di «dire l'essere dal punto di vista dell'essere» risultava fallimentare, visto che comunque nel dire usiamo il linguaggio della tradizione filosofica, ed è quel linguaggio che secondo l'autore consegna l'essere all'oblio. Di qui in avanti, Heidegger tenta nuove vie: «oltrepassare la metafisica»; abbandonare «il soggetto»; abbandonare «la filosofia» stessa; cercare una nuova lingua per il pensiero, una lingua «poetante», o «meditante». O anche: cogliere l'essere come evento della «provenienza», di cui il von è espressione. Ma a mano a mano la radicalità filosofica di Heidegger diventa vaniloquio, rifiuto della razionalità, visione catastrofica mal argomentata. E in ultimo, spiega Volpi, il «grande bastimento» del pensiero heideggeriano s'inclina, irreparabilmente, e va incontro a un clamoroso naufragio.

Repubblica 12.11.11
Spiegare Heidegger (finalmente)
Quei saggi che svelano il filosofo esoterico
Una raccolta di testi di Franco Volpi sul pensatore tedesco permettono di chiarire le sue idee e i suoi concetti
Troppo spesso si è giocato a ricalcare i termini tedeschi: un vezzo che ha impedito a tanti di leggerlo davvero
Le tormentate vicende esistenziali aiutano a capire un personaggio difficile e sfuggente
di Antonio Gnoli

Tradurre Heidegger, per Volpi, ha significato inoltrarsi nel vasto territorio della filosofia che il "mago di Messkirch" aveva percorso e mutato. Senza tuttavia dimenticare che, malgrado le novità radicali che gli si presentavano, l´obiettivo era mettere il lettore in grado di leggere quei testi e orientarsi.
Per questo Volpi non ha mai ceduto al vezzo del gergo esoterico, tipico di quegli heideggeriani il cui operato, «per aver troppo giocato a ricalcare i termini tedeschi, risulta alla fine comprensibile solo a chi già conosce il tedesco». Lezione di umiltà basata su poche ma efficaci regole: fedeltà, leggibilità, comprensibilità del testo tradotto. Favorita, quest´ultima, per alcune opere particolarmente complesse, dallo strumento dei glossari. Attraverso di essi Volpi spiegava – con grande chiarezza – l´uso e il significato, spesso complicato e oscuro, del vocabolario heideggeriano. Proprio perché consapevole che non si dava la traduzione perfetta, egli cercò di arricchire l´apparato filologico e farne un mezzo indispensabile per chiunque si accostasse al testo tradotto.
Dopo Essere e tempo – opera del 1927 per molti versi innovativa, ma nella quale è ancora visibile lo sforzo dell´analitica esistenziale di trovare un fondamento all´agire pratico –, matura l´idea che il pensiero debba separarsi dai tradizionali linguaggi filosofici. Troppo condizionata dalle teorie della conoscenza, la filosofia è incapace di fornire una convincente giustificazione al proprio ruolo. Occorreva, perciò, cercare altrove le risposte a quella crisi che si era manifestata fin quasi dai suoi albori. Fin da quando – come fa notare Volpi – si assiste in Platone a un mutamento del concetto di verità: da evento o, meglio, apertura o non latenza dell´Essere a mero valore conoscitivo. È contro una tale regressione, di cui la metafisica si sarebbe resa colpevole, che Heidegger tentò – soprattutto a partire dai Contributi – di dare una risposta all´altezza della drammaticità concettuale che stava vivendo. Ne uscirono, come Volpi sperimentò, pagine tormentatissime e oscure.
Per Volpi poco si capirebbe di quell´opera se non si tenesse conto anche dello scacco speculativo che il filosofo si era trovato a vivere. La baldanza con cui, solo un paio di anni prima, aveva ordito il discorso del rettorato (tenuto il 27 maggio 1933) lasciò lo spazio ai dubbi, alle incertezze, alle miserie del proprio tempo. A un tratto avvertì che la filosofia, la cui missione – secondo appunto le linee disegnate dall´Autoaffermazione dell´università tedesca – sarebbe dovuta essere quella di illuminare il cammino della nazione, scoprire le virtù originarie di un popolo, sollevare il potere dalle mediocri incombenze, non possedeva né la forza né la lingua per assolvere a tali compiti.
Con Essere e tempo Heidegger si era inoltrato a fari spenti nella notte novecentesca. Aveva combattuto una strenua battaglia contro le grandi macchine del pensiero confidando nella selvaggia chiarezza del suo talento filosofico. Si sentiva un uomo in guerra con il vecchio mondo. Si considerava il nuovo. E quando il nuovo non produsse ciò che si attendeva, quell´uomo complicato, impenetrabile, tagliente all´improvviso smarrì ogni certezza.
A questo punto della vita di Heidegger si affacciò in Volpi il bisogno di una istruttoria psichica che chiarisse il senso di un decennio drammatico (dal 1936 al 1946) nel quale il filosofo –secondo la testimonianza privata riferita da Otto Pöggeler allo stesso Volpi – pensò perfino al suicidio. Cosa accadde di tanto grave da spingere Heidegger a meditare un gesto così estremo? Volpi insiste molto sui riflessi negativi – almeno sul piano nervoso – che ebbero i seminari e i corsi universitari su Nietzsche. Ci fa rivivere il clima di profonda crisi personale e filosofica nel quale Heidegger è immerso, finendo così «per esperire su di sé tutta la devastante potenza della scepsi nietzscheana. E nel suo corpo a corpo con i testi e con le pericolose fantasmagorie che essi evocano finisce per precipitare, egli stesso, in quello che da un certo momento in poi chiamerà "l´abisso di Nietzsche"».
Ad aggravare lo stato di prostrazione nel quale il filosofo era caduto contribuiranno le accuse psicologicamente devastanti di collaborazionismo, alle quali seguiranno, come effetti immediati, la requisizione della casa, il tentativo di sequestrargli la biblioteca, l´obbligo di lavorare nelle squadre incaricate di ripulire le città tedesche dalle macerie e, naturalmente, l´allontanamento dall´università.
Insistiamo su questo punto perché siamo convinti che Volpi non fu indifferente alla vita privata di Heidegger. Non riteneva che questa incidesse sulla riflessione teorica del filosofo, ma pensava tuttavia che il grafico esistenziale potesse completare una figura tanto difficile e sfuggente. C´era dunque un bisogno di capire, anche seguendo la via privata cosparsa di umori aspri, di scelte drammatiche, di soluzioni opportunistiche e di amori clandestini. A cominciare dal rapporto più intenso e sofferto di Heidegger: quello con Hannah Arendt, la passione irrisolta di una vita, per finire con quel moltiplicarsi di avventure galanti che fecero del filosofo – secondo la testimonianza delle lettere scambiate con la moglie Elfride Petri – il grottesco esempio di un marito infedele.
Tra autenticità e squallore, mondo dell´Essere e mondo ambiente, grandiosità e bassezza, l´oscillazione fu massima. Affrontarne il movimento pendolare per Volpi fu anche un modo per non distogliere lo sguardo dall´enigma politico di un pensatore frettolosamente liquidato per aberrazione ideologica. Ma in realtà – dopo la parentesi nazista – impegnato a dissolvere lo stesso nazismo negli acidi della modernità, e a vederne la forma totalitaria come un effetto della tecnica ormai planetaria.
Chi apre, insomma, questi testi con cui Volpi ha integrato il proprio lavoro di traduttore noterà la costruzione di un edificio laconico, ma indispensabile alla comprensione del filosofo. Dal quale, come mostra l´ultima delle sue introduzioni, qui presentata nella forma integrale rispetto alla versione pubblicata, stava lentamente prendendo le distanze. Non per insofferenza culturale o per noia, come accade, talvolta, in rapporti usurati dal tempo, ma per un ripensamento più radicale. Quasi che la misura retorica dell´ultimo Heidegger fosse colma e rischiasse di diventare uno sterile esercizio di pensiero. Volpi era ben conscio della tragicità filosofica nella quale Heidegger versava al punto da leggere molte sue pagine come una sorta di «diario di bordo di un naufragio». O più semplicemente come un fallimento assolutamente frainteso dagli heideggeriani, categoria alla quale Volpi non si iscrisse mai, detestando, come annotò, «quel l´ammirazione supina e spesso priva di spirito critico che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica».


La Stampa TuttoLibri 12.11.11
La follia di Elias annuncia l’uomo rinnovato di Basaglia
«Oltre il muro dell’io»: per una pratica terapeutica che ristabilisca i canali tra paziente e mondo
Sociologia e psichiatria In un saggio Anni 60 si afferma la specificità sociale della malattia
di Federico Vercellone
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Norbert Elias OLTRE IL MURO DELL'IO. SOCIOLOGIA E PSICHIATRIA Medusa, pp.70, 9,50

Mai come oggi si è sentito il bisogno di interdisciplinarità. E’ sempre più evidente che il divario tra le scienze umane e quelle naturali non può perdurare nella forma di una rigida barriera che separa i due ambiti condannandoci a un umanesimo sterile, costretto ad ammettere che ogni riflessione sul senso del mondo è sostanzialmente inefficace e che, per contro, ogni vera pratica scientifica non deve rispondere altro che a criteri di utilità ed efficienza. La scienza-tecnica diviene così null’altro che il risvolto necessario di un umanesimo fumoso. Se l’idea di superare questa contrapposizione si sta oggi facendo strada con notevole fatica, ma con sempre più forza, pensarla così negli anni sessanta era del tutto contro corrente.
Ma non impossibile. E’ quanto testimonia un prezioso saggio di Norbert Elia risalente al 1965 e pubblicato per la prima volta nel 1969, Oltre il muro dell’io , comparso ora da Medusa con un’introduzione di Martino Doni. In un clima che sta per divenire quanto mai effervescente e conflittuale, Elias introduce il tema della necessità della considerazione interdisciplinare della follia. Siamo in anni che precedono di poco l’avventura di Basaglia il quale svilupperà l’idea di una specificità sociale della malattia psichiatrica. E’ un punto di vista che produrrà, com’è ben noto, una profonda innovazione nella pratica terapeutica, conducendo alla famosa «legge Basaglia» e al superamento dell’istituzione manicomiale.
Elias sembra, per certi aspetti, genialmente anticipare il punto di vista di Basaglia. Egli considera la questione dal punto di vista della relazione tra sociologia e psichiatria. Elias mostra che la tipologia del malato di mente, quello che egli definisce l’homo psychiatricus, sorge nella mentalità moderna sulla base di una divaricazione tra ciò avviene «dentro» e «fuori» l’individuo. Abbiamo così a che fare con un soggetto che viene considerato a prescindere dalle caratteristiche che gli provengono dall’ambiente, dalle sue attitudini professionali, dalla cerchia dei suoi affetti. L’individuo è, in quest’ottica, un «sistema chiuso», privo di relazioni con l’esterno.
Questa visione dell’Io ha radici culturali profonde. L’interiorità infatti viene modernamente immaginata e configurata come un Sé che si caratterizza nella sua differenza dal mondo e non nella sua relazione con questo. Tutto questo ha radici lontane, ci rinvia al tramonto della visione tolemaica e geocentrica del mondo che era invece orientata a un armonico scambio tra interno ed esterno, tra microcosmo e macrocosmo. Paradossalmente la psichiatria, che nasce affidandosi a questa idea di un io chiuso, schermato, viene così a contraddire l’essenza della pratica terapeutica la quale è invece volta a reintrodurre i canali di comunicazione sociale ed emotiva del malato con il mondo. Compito della psicoterapia è infatti, come ci ricorda Elias, quello di «riorganizzare, ricanalizzare e riattivare, se inibite, le valenze libidiche, affettive e intellettuali dirette da una persona alle altre». L’idea di un individuo isolato, separato, fondamentalmente solo nel mondo, proprio della società occidentale moderna, è assente, ci ricorda Elias, in molte altre società nelle quali il senso del pudore rispetto ai sentimenti e alle funzioni corporee non è richiesto come avviene invece nella nostra. Ma l’individualità moderna, così concepita, risulta in fondo, in quanto tale, un evento patologico. L’individuo vive, ci rammenta Elias, in un costante processo di socializzazione, per cui le motivazioni affettive e gli investimenti libidici costituiscono il motivo fondamentale dell’essere dell’uomo quale animale sociale. L’essere umano vive sin dall’inizio in una condizione di interrelazione che nasce su basi affettive e preintenzionali per solidificarsi poi nel legame sociale.
La considerazione scientifica non può prescindere da tutto questo, deve al contrario rendersi consapevole di questo link infinito che costituisce il principio dell’essere dell’uomo nel mondo.


La Stampa TuttoLibri 12.11.11
Santa Teresa d’Avila: non è tenera la notte
di Guido Ceronetti

Nel cuore del sacro L’«Opera omnia» permette di riscoprire il valore letterario della monaca spagnola che imponeva alle consorelle di levarsi quasi ogni ora per pregare E una studiosa rilegge «la vita sessuale» dei mistici: un lato rimosso del cristianesimo

Nata nel 1515 e morta 67 anni dopo, Santa Teresa d’Avila è patronessa di variegate professioni umane, dagli scrittori ai cordai, ma anche di persone sofferenti in cerca di grazia e persone ridicolizzate per la loro pietà. Perché lei, tra le sante più affascinanti nel rapporto con il misticismo, e la trascendenza e il miracolo, ribadiva spesso il martirologio della semplice pietà, umiltà, accettazione del dolore.
Dottore della Chiesa, abbracciò la vita del Carmelo, dopo un’infanzia di grandi letture, e una tragica malattia, culminata in guarigione quasi inspiegabile, fu visitata da quei fenomeni mistici cui lei per prima cercò di negarsi, prima di arrendersi all’evidenza dell’amore divino. Dotata i quell’ironia tipica dei santi, attraversò la Spagna per fondare monasteri, e fu prolifica, raffinata e scaltra scrittrice, influenzata dalle meditazioni mistiche di san Pietro d'Alcantara e dagli Esercizi di Ignazio di Loyola.
Tra le sue opere più conosciute, l’autobiografia scritta nel 1567, il Cammino della Perfezione , il viaggio all’interno dell’anima fatto con Il castello interiore . Queste, insieme agli scritti minori e meno conosciuti vengono ora raccolte in volume da Bompiani (con testo spagnolo a fronte, pp. 300, € 20). L’introduzione è di Massimo Bettetini, psicoterapeuta, psicologo della fiaba, poeta.
Tracce di Santa Teresa vi sono anche nel saggio di tutt’altra natura, che esce dal Melangolo, La vita erotica dei santi di Virginia Burrus, professoressa di storia della chiesa antica in un’università americana. Nonostante il titolo, quasi un provocatorio ossimoro, il testo è una serissima esplorazione dell’ascetismo visto non come cancellazione della sessualità bensì una forma diversa e intensa di vita erotica.
Passando al setaccio le biografie dei santi, l'autrice offre una rivoluzionaria interpretazione del contributo offerto dalla vita dei santi alla storia della sessualità.

Frequentavo, abitando a Roma, il Carmelo di piazza Sant’Ignazio per consultare nella biblioteca, gli Etudes Carmelitaines ; ricordo, all’entrata, le gigantografie dei loro numina - Teresa d’Avila e Juan de la Cruz. Ho amato ben più gli scritti di Teresa, nella sua lingua inaudita di scrittrice maniaca della parola scritta, all’albeggiare della stampa - di quelli del poeta, che attaccava ai suoi mirabili versi dei commenti interminabili oggi crudelmente illeggibili. Il castigliano teresiano è una delle meraviglie stabili di questo massacrato martire mondo umano. L’ho amata e, come succede nei veri amori, l’ho impalpabilmente dimenticata.
Leggerla in italiano dubito possa avere lo stesso effetto. Lo scrivere, in lei, è lo stesso che amare; e l’oggetto della sua passione smisurata è la natura umana di Gesù Cristo. In questo incessante spasimo passionale di donna amante il suo corpo di Descalza implacabile innanzitutto con se stessa è impegnato fino al limite del ritegno femminile cristiano. Durissima nelle sue regole penitenziali Teresa sorvolava sul lapsus carnis delle sue monache, cioè sulle loro povere masturbazioni, importandole essenzialmente di orientarne i desideri sulla umanità di Cristo, che si raffigurava come un monarca assoluto, addirittura al di sopra del Re di Spagna. Ne parla infatti abitualmente come di Su Magestad .
«Le notti sono brevi, nei Carmeli», dice la Madre nei Dialogues des Carmelites di Bernanos. Così Teresa contrastava i demoni notturni, le apparizioni di Cristo che i domenicani dell’Inquisizione pretendevano insinuarle di un Satana trasformista: non dormendo, svegliandosi ogni momento come un uomo malato di vescica, imponendo alle figlie del Carmelo scalzo di levarsi quasi ogni ora per pregare, meditare, purgare di ogni intrusione del sottosuolo l’insidiosa, perfida, fragilissima pace notturna.
Carmelo è sinonimo di notte , e di notte che veglia, come nel ventunesimo del Protoisaìa la sentinella posta a dare responsi agli ansiosi su che cosa avviene di notte. Dove nulla accade può accadere di tutto, e noi, che non sappiamo come occupare le ore d’insonnia, teniamo i sonniferi a portata di brancicamento sul tavolino, che si sia atei o teosofi o cristiani, paurosi dell’ignoto e della mors aeterna . In una mia poesia di pochi versi, che nel tempo è diventata indecifrabile anche per il suo autore, il titolo Meditazione carmelitana , vuole semplicemente intendere meditazione notturna , e teresiana perché notturna, teresiana perché ogni notte risveglia Carmeli meditanti, la penna e il calamaio mai asciutti dell’inesorabile monaca che alla Encarnación di Avila e dovunque si trovasse riempiva della sua scrittura visionaria carte su carte.
Scritta per obbligo dei confessori, la sua autobiografia, Vida, è un ordito fitto di estasi e premonizioni. Come di Vittorio Alfieri non si legge, volendone leggere qualcosa, che la Vita scritta da lui stesso, così della meravigliosa scrittura teresiana non sembra sfuggito all’oblio altro che la Vida , impervia anche questa perché troppo naturale, e ignorata probabilmente oggi da chi non sia ispanista. Tuttavia, fuori del suo castigliano sorgivo e unico, anche dell’autobiografia non si recupera che la superficie.
Santa e Dottora per la Chiesa cattolica, è per me memoria di mistero umano fiorito fuori stagione. Mistero femminile di chi, toccando i soffitti durante i suoi repentini arrobamientos di lievitazione, ha guardato oltre il muro - oltre tutte le fiammeggianti mura di questo mondo.
"Maniaca della parola scritta all’albeggiare della stampa Una vita di estasi e premonizioni Il suo castigliano è una delle meraviglie stabili di questo massacrato martire mondo umano"

La Stampa TuttoLibri 12.11.11
Sarà l’elefante indiano a mettere le ali alla crescita
di Mario Deaglio

Castronovo Un viaggio tra i nuovi attori degli scenari economici e politici mondiali
Valerio Castronovo IL CAPITALISMO IBRIDO Laterza, pp. 144, 12

«Il capitalismo ibrido»: guardando all’India e al Brasile e al drago cinese che si scopre parente di Adam Smith

Per circa vent'anni, la globalizzazione ha acceso le nostre speranze, ora turba i nostri sonni, modifica gli orizzonti, rimescola la vita di tutti i giorni. Il binomio globalizzazione-crisi finanziaria svuota le nostre certezze e in questo vuoto gli scienziati sociali si buttano volentieri e sovente ne restano inghiottiti. Gli economisti, soprattutto, vedono i loro modelli perdere valore esplicativo giorno dopo giorno. Di tutti coloro che si occupano di problemi umani, gli storici sono i più attrezzati per esplorare il groviglio in cui ci siamo cacciati, metterne a nudo le possibili cause, valutarne le eventuali conseguenze. Tra gli storici italiani, Valerio Castronovo, è particolarmente attrezzato per confrontarsi con la globalizzazione. Negli anni novanta ha coordinato un'ampia Storia dell'economia mondiale, Laterza, che, in sei volumi, dall'antichità ci porta alle soglie del nuovo millennio. In questa e in altre opere si è spesso confrontato con le trasformazioni del capitalismo, e in tale confronto si giova di un insolito angolo visuale - dall'interno e dal basso, per dir così in quanto uno dei suoi filoni di ricerca riguarda la storia delle imprese e delle organizzazioni imprenditoriali.
Nel suo recentissimo saggio Il capitalismo ibrido, il lettore non specialista troverà, in una ventina di capitoli agili, brevi, aggiornati e di facile lettura, un filo d'Arianna per attraversare e avviare un'interpretazione degli spazi sempre più labirintici del nostro tempo. Potrà quindi agevolmente prendere le misure del nostro provincialismo, alimentato dall' ossessivo interesse per le vicende di casa nostra, come se l'Italia e l'Europa fossero ancora il centro del mondo e gli Stati Uniti una sorta parente un po' rozzo ma molto ricco.
Uscito dall'orticello nostrano il lettore si scoprirà catapultato in un mondo popolato di strani «animali» quali l'elefante indiano che mette le ali della crescita o il drago cinese - al quale Castronovo dedica ben quattro capitoli - che scopre una lontana parentela con Adam Smith, cerca di costruire una società armoniosa e felice ma intanto ha gravi pecche nel rispetto dei diritti umani. Trova un Brasile allegro ed euforico che non smette di crescere e un Giappone stanco dopo una lunga corsa; una Corea che ha imparato fin troppo bene le lezioni dei suoi maestri giapponesi e un'Africa alla ricerca di maestri dai quali imparare mentre rotte oceaniche prima desuete, come quelle tra India e America Meridionale, stanno diventando vie essenziali per lo scambio di merci e di idee.
Tutti questi nuovi protagonisti dell'economia e della politica mondiale hanno forse una cosa sola in comune: una percezione dell'Europa meno netta e meno lusinghiera di quanto gli europei vorrebbero. L'Europa, infatti, continua a illudersi di possedere principi, saggezza e tecnologia in abbondanza da dispensare agli altri mentre anche l'America del Nord appare soggetto a un rapido processo di indebolimento derivante da una sacralizzazione del mercato e nell'incapacità dei poteri pubblici di controllarlo.
E' questo lo scenario di una disgregazione mondiale? Forse no. Castronovo parla di «capitalismo ibrido» che, come tutti gli ibridi presenta capacità di sviluppo e sopravvivenza superiori a quello delle specie «pure» e che sarebbe in grado di superare le proprie contraddizioni interne o almeno convivere con esse. Il mondo diventerebbe privo di un punto centrale, caratterizzato da vari «poli» tenuti in equilibrio da una comunanza mondiale di interessi. Speriamo che Castronovo abbia ragione, che tecnologia americana, principi europei, ottimismo brasiliano, laboriosità cinese si fondano in un tutto armonico. Sarebbe invece una iattura se il capitalismo ibrido mescolasse arroganza americana, egoismi europei, disordine brasiliano e freddo senso cinese di superiorità. Anziché un ibrido buono, il capitalismo diverrebbe simile non diventi simile agli animali mostruosi della mitologia classica, come la Chimera che vomitava fuoco; e che dovette essere uccisa da Bellerofonte. Speriamo proprio che il mondo non abbia bisogno di alcun Bellerofonte.

Adnkronos Salute 10.11.11
Medici sempre piu' distratti con pazienti, boom denunce al Tribunale del malato

Roma, 10 nov. (Adnkronos Salute) - Medici e operatori sanitari sempre più distratti e disattenti nei confronti dei pazienti. Dal 2009 al 2010 sono infatti raddoppiate le segnalazioni a Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato (Tdm) sulle disattenzioni del personale sanitario: dal 5,8% si è passati al 12,9%. Un vero e proprio boom, compensato in parte dal leggero calo del numero delle segnalazioni sui presunti errori diagnostici e terapeutici. E' quanto emerge dal 14esimo Rapporto Pit Salute presentato oggi a Roma al ministero della Salute. Il Rapporto prende in esame il contenuto di 23.524 segnalazioni - relative a tutto il 2010 - che provengono dal Pit Salute sede centrale (2.205) e dai Pit Salute locali (21.319).Il tema degli errori medici e della sicurezza delle strutture sanitarie continua ad essere il problema più rilevante per i cittadini che contattano il Tdm. Il trend della presunta malpractice è in lieve crescita: dal 18% di denunce del 2009 si è passato al 18,5% nel 2010. Si si entra nel dettaglio del fenomeno si nota però un aspetto singolare: se da una parte i cittadini segnalano meno i presunti errori diagnostici e terapeutici, che dal 63% del 2009 sono scesi al 58,9% nel 2010, di contro, le segnalazioni sulle disattenzioni del personale sanitario sono più che raddoppiate. "Con il termine di 'disattenzione' - spiega il Tdm - intendiamo tutti quei comportamenti effettuati con trascuratezza e con mancanza di attenzione che, pur non avendo causato un danno, rientrano comunque tra le procedure incongrue e che potenzialmente avrebbero potuto creare complicazioni". Diversi i comportamenti che i pazienti percepiscono come cattiva assistenza e mancanza professionale. Ad esempio: la cattiva abitudine a lasciare i farmaci sul comodino senza accertarsi che siano assunti dai pazienti; la mancata applicazione delle sbarre di protezione ai letti di malati semi-coscienti, anziani, non autosufficienti; lasciare il degente in un luogo esposto alla corrente d'aria o sotto il getto dell'aria condizionata; la carenza di controlli sulle forniture delle bombole di ossigeno, di altri presidi o apparecchiature; la mancata segnalazione di gradini, pavimenti bagnati, porte di vetro; l'abbandono di materiale in prossimità delle vie di fuga. In generale, gli errori terapeutici sono stati segnalati in una percentuale maggiore di quelli diagnostici (rispettivamente 55,3% e 44,7%). Dall'analisi dei dati si può riscontrare un incremento di segnalazioni su alcune aree specialistiche, e in particolare la pneumologia (+6%), la dermatologia (+3,1%), l'oncologia (+1,7%), l'oculistica (+1,5%), la pediatra (+1,2%), l'odontoiatria (+0,6%), e la neurologia (+0,1%). Il maggior numero di segnalazioni sui presunti errori diagnostici si registrano nell'area oncologica, con un 29,3%. A seguire l'ortopedia che, sebbene abbia riportato una diminuzione di 2,4 punti percentuali, si attesta al 14,8% delle segnalazioni totali. L'area specialistica che registra un aumento più elevato delle segnalazioni nel 2010 rispetto al 2009, è la cardiologia: +6,6% (dall'1,3 del 2009 al 7,9 del 2010).

L’Osservatore Romano 12.11.11
Tra Chiesa e media cinque errori da evitare e cinque regole per incontrarsi
Bisogna sapere essere antichi e moderni
Tutte le "spine" più rilevanti della comunicazione tra la stampa mondiale e Benedetto XVI
di Giulia Galeotti

qui

"La questione della comunicazione, e dei suoi imbarazzi ed equivoci, non è questione di oggi, ma risale all'epistolario paolino. Riferendosi a precomprensioni, incomprensioni e misunderstandings, Paolo utilizza addirittura il verbo "adulterare" (kapelèuein), verbo che attesta inequivocabilmente il dato di fatto: il tema capitale - su cui la giornata odierna di studio ha puntato l'attenzione con grande libertà - era presente già a quel tempo". Così il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontifico Consiglio della Cultura, con l'intelligenza, la cultura, l'equilibrio e la profondità che gli sono propri, ha concluso l'incontro "Incomprensioni. Chiesa cattolica e media", organizzato dal nostro giornale e tenutosi giovedì 10 ottobre nell'Aula vecchia del Sinodo in Vaticano.
Il porporato ha quindi fatto un'aggiunta preziosa e sostanziale: "Paolo, però, non si limitava a difendersi. Paolo reagiva, trovava e inoculava vaccini". Poche parole per cogliere appieno il senso, gli intenti e l'eredità di un convegno che, per diversi aspetti, lascerà decisamente il segno.
Con gli interventi dei vaticanisti di alcune tra le principali testate occidentali, una dopo l'altra le "spine" - così le ha definite il nostro direttore - più rilevanti della comunicazione tra la stampa mondiale e Benedetto XVI, sono state tutte sgranate. Con attenzione quasi filologica, raffinata acutezza e nella più completa assenza di timori reverenziali, molto (se non tutto) è stato passato al setaccio.
Sono stati analizzati i grossolani errori compiuti negli anni dai media, dovuti a superficialità, sciatteria, incompetenza e all'ossessione di trovare "pagliuzze d'oro". Ad esempio, Antonio Pelayo - che, tra gli altri suoi ruoli, è vaticanista della spagnola "Antena 3 Tv" - ha indagato ciò che accadde con il discorso di Ratisbona, dopo che alle 6 di mattina del 12 settembre 2006 fu consegnato ai giornalisti il testo Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, ovvero le oltre tremiladuecento parole che diedero via a uno dei più duri attacchi mediatici al pontificato di Joseph Ratzinger. Alcuni giornalisti trovarono subito "nelle parole del Paleologo la pepita con cui arricchire la loro cronaca".
Ebbene, "dopo aver compiuto i dovuti accertamenti in questi anni", Pelayo ha potuto concludere che "sono stati i titoli della stampa italiana a diffondere l'allarme nei Paesi musulmani attraverso le loro ambasciate a Roma e i pochi corrispondenti di quell'area che lavorano nella capitale italiana. Né le une né gli altri avevano letto il testo integrale del discorso ma non persero tempo, dopo aver sfogliato i giornali italiani del 13 settembre 2006, a informare i loro Governi e il loro pubblico sull'"attacco del Papa all'islam"".
Ma il discorso vale anche per altri casi. Vale per la "tempesta perfetta" dello scandalo degli abusi sessuali negli Stati Uniti, analizzata da John L. Allen Jr., vaticanista del "National Catholic Reporter" (fisicamente assente, è stato letto il suo contributo). E vale per il "putiferio" legato alle parole sul condom che il Papa pronunciò il 17 marzo 2009 mentre era in volo verso l'Africa. Come emerso dalla relazione del vaticanista di "The Guardian", John Hooper, in questo caso, addirittura, gli errori dei giornalisti indussero in errore anche diversi politici e i vertici di importanti organismi internazionali (perfino "The Lancet" andò "troppo oltre").
Esiste, dunque, il problema della preparazione dei vaticanisti e, più in generale, dei giornalisti che si occupano di questioni religiose. Esiste il problema del ruolo delle agenzie di stampa, della pigrizia di chi sta al desk, della approssimazione, della volatilità del piano mediatico, della minimizzazione dei successi e della massimizzazione delle mancanze. John Allen ha parlato di "mitologia, disinformazione e pregiudizio". E ha denunciato "l'assenza di contesto": le organizzazioni mediatiche "centrano il testo di una determinata storia, ma sbagliano il contesto" (per esempio nel 2002 la copertura mediatica della crisi statunitense sulla pedofilia lasciò in molti l'impressione che alla Chiesa non importasse nulla dei bambini).
Certo, errori sono stati compiuti anche dalla e nella stessa Chiesa, e questa ammissione è uno degli aspetti più interessanti della giornata (solo chi è forte nella verità, può ammettere i suoi errori).
Su tutti, "il disastro mediatico e di comunicazione" del caso Williamson, analizzato da Paul Badde di "Die Welt", in una relazione a tratti "metastorica", ha detto Giovanni Maria Vian. Si è trattato di un caso unico anche perché - con la lettera del 10 marzo 2009 ("uno dei documenti più commoventi dell'attuale pontificato" secondo Badde) - il Papa "si assunse personalmente la responsabilità del disastro, difese i suoi collaboratori e pose fine a ogni speculazione".
A volte, del resto, le risposte della Chiesa sono risultate controproducenti. E John Allen, sempre riguardo allo scandalo americano, è stato lucido nell'analizzare la "copertura mediatica che, pur preziosa nel costringere la Chiesa ad ammettere la crisi e ad agire, talvolta è stata non equilibrata, inaccurata e distruttiva. Mentre alcuni hanno compiuto sforzi eroici per dare una risposta onesta e completa, troppo spesso la reazione è stata difensiva e tardiva, cementando il pregiudizio popolare nei confronti della Chiesa invece di correggerlo". Anche perché - paradosso dei paradossi - Benedetto XVI, "il grande riformatore per quanto riguarda la crisi degli abusi sessuali" che ha fatto "del recupero spirituale e strutturale un segno distintivo del proprio pontificato", è divenuto per l'opinione pubblica male informata "il simbolo principale dell'incapacità della Chiesa, arrivando, nei casi estremi, a chiedere che si dimetta o che subisca un processo penale dinanzi a tribunali internazionali". Del resto, la sfida è a tutto campo: "In gioco non v'è solo l'immagine della Chiesa, ma anche quella della stampa".
Nella sua analisi, invece, Jean-Marie Guénois di "Le Figaro", partendo dal lato tedesco di Benedetto XVI - connotazione tutt'altro che geografica, ma preciso punto di attacco di cui si sono avvalsi i media - ha ricostruito come il Pontefice tedesco, amediatico e già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ("una sorta di reazione chimica esplosiva") succeduto "al Papa super mediatico", sia riuscito lentamente nel corso degli anni a ribaltare le cose. Grazie alla sua timidezza e la sua umiltà, grazie alla sua lucidità intellettuale, alla costanza nell'obiettivo, alla capacità di distinguere l'essenziale dal particolare e al suo cancellarsi individualmente per servire il bene comune.
Il "fragile timoniere" ha affrontato l'incubo mediatico della crisi della pedofilia ottenendo rispetto proprio per il modo in cui ha affrontato quella crisi. "Non agitandosi attraverso grandi dichiarazioni, ma con una gestione molto pacata, lenta e alla fine efficace". Benedetto XVI, "il Papa tedesco, ne è uscito più grande poiché occorreva una grande forza interiore per attraversare questa gigantesca tempesta" ha concluso Jean-Marie Guénois.
Sulla scia di quanto già emerso nella mattina di giovedì dalle relazioni propriamente storiche, si è visto comunque come alla base di tutto vi sia la centralissima e sempre attuale questione del rapporto tra la Chiesa e le logiche del tempo attuale. Netta e sostanziale è, infatti, la divaricazione tra lo sguardo profetico dell'una e lo spirito contingente dell'altro.
È emersa anche l'inadeguatezza vaticana sul fronte informatico. Paul Badde ha ricordato le parole di Benedetto XVI: "Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie". È risultato, però, anche il salto "quantico" compiuto dalla struttura millenaria, "catapultata nell'era di internet" (sono sempre parole del vaticanista della "Die Welt").
Misure per superare le incomprensioni reciproche sono dunque enucleabili. Se v'è tanto da fare sul versante mediatico, indicazioni concrete spettano anche alla Chiesa. La nuova evangelizzazione voluta da Benedetto XVI può risolvere anche questo ostacolo. "Se esistono dei passi che la Chiesa può compiere senza tradire la propria identità o adottare tecniche ciniche di manipolazione per promuovere una migliore comprensione - ha detto John Allen - allora farlo non è soltanto una bella idea. È un imperativo morale".
Anche qui il cardinale Ravasi è stato lucido e prezioso. La sua indicazione, infatti, è stata quella di cercare di trasformare i cinque vizi dei media, i cinque errori regolarmente compiuti dai giornalisti (legge della banalizzazione, dell'immediato, del piccante, dell'approssimazione e del pregiudizio) in virtù per la comunicazione della Chiesa. Imparare l'essenzialità; imparare a essere nel quotidiano ("la predicazione di Cristo parte dai piedi"); imparare l'incisività; imparare a superare l'autoreferenzialità; evitare di lasciare spazi in bianco. Perché la comunicazione non può essere meramente auto-difensiva "per principio", ma deve necessariamente avere "una certa consistenza". Mantenendo forte la sua identità (c'è dialettica solo se si mantiene "lo scandalo del messaggio" ha ribadito Ravasi), la Chiesa deve però tener conto del fatto che "l'atmosfera, l'aria" in cui si muove l'uomo è cambiata (e per questo è cambiato l'uomo, e ne è stato rimodellato il volto).
Nel 1950 - lo ha ricordato il nostro direttore in apertura dei lavori - Montini, durante il primo incontro con Jean Guitton, confidò una preoccupazione capitale: "Bisogna sapere essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?".

l’Unità 12.11.11
Editoria
I giornalisti di Terra! contro la serrata Interviene Bonelli

La vicenda che tormenta da mesi la vita stessa di “Terra” (il quotidiano ecologista organo dei Verdi, ma dato in gestione alla società terza Undicidue rilevata da Luca Bonaccorsi che si è nominato direttore) è giunta al massimo livello di scontro. I redattori e i collaboratori non vengono pagati da aprile (né sono stati pagati i relativi contributi previdenziali) e, per giunta, il direttore-gestore ha deciso d’autorità la trasformazione del quotidiano in...settimanale, annunciando una sola uscita, al sabato. In segno di protesta, mercoledì i giornalisti allora hanno picchettato la sede del giornale cercando di riaprire la trattativa mandata già due volte a monte dalla Undicidue. Con loro, oltre l’Assostamparomana, anche l’editore naturale, cioè i Verdi, e comunque il titolare del finanziamento pubblico destinato a “Terra”. Per tutta risposta il gestore, già denunciato per comportamento antisindacale, ha sbarrato la porta d’accesso alla redazione. I Verdi hanno incaricato i loro legali di adottare tutte le iniziative possibili per la rescissione del contratto di gestione. E l’agitazione dei giornalisti continua.

Repubblica 12.11.1
E Pannella si candida: "Voglio andare alla Giustizia"

ROMA - Radicali in campo per il governo Monti. Marco Pannella si candida a fare il ministro della Giustizia, e - a fine giornata - è molto seccato per non essere stato preso sul serio da televisioni e siti. Così, annuncia il suo programma: rispondere «alla prepotente urgenza di interrompere la flagranza criminale dello Stato rispetto ai diritti, al diritto, alla giustizia». Il riferimento è ancora una volta all´emergenza carceri che - ricordano i Radicali - è stata definita tale proprio dal capo dello Stato in un convegno del luglio scorso, quando Napolitano ha invitato la politica a uno scatto, una svolta. Al Senato ha invece preso la parola Emma Bonino: «Andare a nuove elezioni in una simile situazione e con l´attuale sistema elettorale sarebbe un atto irresponsabile - ha detto la vicepresidente di Palazzo Madama - significherebbe affidare la crisi a un governo di ordinaria amministrazione; scaricare la responsabilità su un elettorato frastornato, disinformato e demoralizzato; lasciare il Paese alla mercé dei mercati, nei quali avrebbero la meglio proprio quelle azioni speculative che mirano al default dell´Italia».