sabato 4 maggio 2013

il Fatto 4.5.13
Larghe intese
Da Torino a a Genova a Palermo, la base si ribella
Il 19 maggio tutti in piazza per dire “no”
Pd, la rivolta delle 50 città: sedi occupate contro l’inciucio
“Il Pd siamo noi, ci devono ascoltare: Mai con il Caimano”
“Dobbiamo far capire a quelli che stanno a Roma che noi siamo l’alternativa a Berlusconi”
di Carlo Tecce


E così, allora, il Pd convolò al nozze con il Pdl. Chi aveva qualcosa da ridire, e ancora ingolla e non riesce a espellere la delusione, tiene insieme una cartina d'Italia. Queste bandiere democratiche, messe in ordine in queste pagine, sventolano a mezz'asta. Sono simboli di occupazioni di sedi e ribellioni ai dirigenti, cinquanta capoluoghi e paesoni di provincia; sono il fallimento a colori, ma anche un'opportunità, l'ultima, per il fu Pd. A Torino e Bologna non volevano le metafore: niente inciuci. A Belluno e Trapani non volevano cedere: o con noi o senza di voi. A Roma e Milano non volevano conservare tessere inutili: noi le bruciamo, voi non ci bruciate.
IL 19 MAGGIO, a Prato, #OccupyPd farà quel gesto che i democratici avevano smesso di fare con l’abdicazione di piazza San Giovanni “presa” dal M5S: ci metteranno le facce, gli accenti e pure le convulsioni ideologiche, fra chi vorrebbe un esecutivo breve e giusto e chi non lo vorrebbe vedere nemmeno in un incubo.
Lorenzo Rocchi controlla la posta, spedisce volantini, tiene a bada chi non ci crede più: “A Prato c'è stato un movimento spontaneo: l'errore su Franco Marini ci aveva preoccupato, poi è andata sempre peggio. E ora dobbiamo far capire a quelli d Roma, a quelli che si ostinano a larghe intese e governi di scopo, che noi siamo l'alternativa a Berlusconi. Noi non siamo la destra. Non potranno eliminare le distanze che ci separano”. Quindici risposte affermative per il raduno toscano: da Torino a Monza, da Bologna a Perugia, da Roma a Bari.
É quella cartina che si compone di pezzetti democratici, di bandierine che si piantano di ora in ora, di un conteggio che non porta nessuno perché nessuno li rappresenta.
Fausto Raciti ha esordito nel palazzo nel momento più drammatico: “Io più che deputato, mi sento sempre il responsabile nazionale dei giovani Pd e condivido le loro paure che sono le mie paure, apprezzo l'impegno e la passione perché dimostrano che la sinistra, seppur sia implosa, può avere un futuro”. Raciti, quale futuro? Il governo di Enrico Letta è un vostro governo? “In tanti osservano un esecutivo che non gli appartiene. La sconfitta è di tutti. Ora va fatto o rifatto il Pd”. I militanti, o la base per dirla con più conformismo, navigano a metà fra chi non vuole abbandonare a se stesso il vicesegretario Letta e fra chi non accetta la contaminazione berlusconiana.
Pure le dimissioni vanno di moda, ovunque, come estremo tentativo di mollare per riprendere: in Piemonte, lascia il responsabile Gianfranco Morgando; in Toscana, i vertici da Firenze a Livorno sono azzerati.
E in Emilia Romagna, i Giovani Democratici non si tengono più. Il coordinatore Vinicio Zanetti attraversa da Bologna questo deserto che porterà al congresso e, spera, a una miracolosa terapia di rianimazione: “Che dovevamo fare? Io non sono soddisfatto, nemmeno a me piace il governo con Berlusconi, ma l'errore sta a monte, anzi a Marini a Prodi, a quelli che hanno pugnalato il fondatore. Il resto è una triste conseguenza, quasi inevitabile. L'unica speranza è avere una legge elettorale onesta, approvare qualche buona riforma e ritornare dagli elettori con un progetto chiaro e stavolta sincero”.
PER MISURARE il grado di esasperazione va fatto qualche chilometro, più su, verso Torino dove il servizio d'ordine, il primo maggio, si è ammutinato e si è ritrovato nel gruppo “resistenza democratica”. Paolo Furia, da Biella, prova a incollare i frammenti dei suoi giovani democratici, ma non vuole salvare nessuno, laggiù, nei palazzi romani: “Il cambio dovrà essere totale. Non accetteremo un congresso senza le nostre proposte”. Il mandato di Letta, però, ancora divide i giudizi: “La nostra prima reazione è stata naturale: protestare e occupare. Adesso avvertiamo il bisogno di creare per noi un partito nuovo con un avviso per chi oggi è palazzo Chigi: se Berlusconi pretende troppo, se non avremo spazio, dobbiamo essere noi del Pd a staccare la spina”. Antonella Pepe, da Benevento, dirige i giovani campani. La politica, a qualsiasi età, è comunque politica: ovvero compromesso, passaggi intermedi. Sorprende che anche in Campania, in una regione strappata di sorpresa dal centrodestra che fu di Nicola Cosentino, non ci sia un'opposizione irreversibile al Pdl. Anzi, stupisce che ancora si disquisisca di documenti o mozioni: “C'è una lettera – dice Pepe – che abbiamo diffuso per esporre la nostra posizione: siamo cresciuti combattendo il berlusconismo, abbiamo visioni diverse su qualsiasi tema... ”. Sì, ma il dilemma: “Però questo governo deve affrontare l'emergenza. Che sarebbe finita così, s'era capito con la rielezione di Giorgio Napolitano. Non c'era strada diversa. Ma che sappiano, a Roma, che noi qui soffriamo”. Almeno la sofferenza è trasversale.

Corriere 4.5.13
Rodotà: «Il vero vincitore è il Cavaliere»


MILANO — «Il vincitore della partita è Berlusconi. Aveva indicato sin dall'inizio una strada da seguire, aveva indicato un governo, e abbiamo questo». Stefano Rodotà, ospite a Otto e mezzo su La7, commenta la formazione dell'esecutivo. «Come dimostra la vicenda Imu, Berlusconi è in condizione, come vuole e quando vuole, di staccare la spina al governo, un dato sul quale sarebbe opportuno riflettere». La sua candidatura al Colle? «Conoscevo le regole del gioco e l'ho vissuta bene, ma mi ha provocato sorprese che ora mi imbarazzano un po' perché mi chiedono cose che non so se sono in grado di fare». E sulla riunione all'Eliseo fra vari esponenti di centrosinistra dice: «Una discussione aperta che avevo già iniziato a fare intorno ai beni comuni, quindi nessun appello alla dissidenza o gioco fra i movimenti. Oggi in Italia ci sono tanti gruppi che hanno rilevanza politica».

il Fatto 4.
5.13
“Pacificazione”
B. e la sinistra attrazione fatale
di Roberto Faenza


Silvio Forever 2. Potrebbe essere il titolo di un formidabile film sull’attrazione sadomasochista che il Pd, ex Ds, ex Pds, ex Pci, prova per l’odiato e ora amato Silvio Berlusconi. La foto dell’abbraccio di Bersani con Angelino Alfano è già storia. A vederla mi sono commosso, perché la voglia di quell’abbraccio covava da tempo ed è stato un gesto liberatorio.
Il filosofo greco Eraclito coniò un termine perfetto: enantiodromia. Significava la corsa verso l’opposto. Così scriveva: “ciò che si oppone conviene e dalle cose che differiscono si genera l'armonia più bella, perché tutte le cose nascono secondo gara e contesa”. Sembra scritto per gli ex nemici Pd-Pdl, che a forza di rincorrersi si sono finalmente incontrati. Anche Jung credeva in quell’antica formula, tant’è che elaborò una sua teoria sugli opposti, che non possono fare a meno di intrecciarsi. Di recente ho letto un articolo che nobilita l’etimo, pare napoletano, della parola inciucio.
Il disegno di Napolitano
E ora la stampa fa a gara per definire gentiluomini i politici che sino a ieri venivano denigrati. Sicuramente molto dipende dal volere del presidente della Repubblica, quel Giorgio Napolitano, ex migliori-sta, che secondo alcuni ha decretato la dissoluzione del suo partito, in odio al comunismo di un tempo. Sembrerebbe vero osservando il disastro combinato con Monti, quando se avesse sciolto le Camere oggi governerebbe la sinistra. Sul fronte opposto splende il sole. Lo si capisce analizzando le parole della canzone dedicata a Berlusconi dai suoi fan: “Nobile e giusto, tu piaci per questo, sei il pensiero che ci guiderà. Il sogno riparte da qua, diventa realtà”. L’inno per il capo è ciò che manca al Pd.
Chi potrebbe mai dedicare ai leader di un partito lacerato un’ode tanto passionale?
Berlusconi è il Maradona della politica. Attrae il suo popolo e ora anche il centrosinistra perché è un gigante di sfrontatezza. Il potere da sempre offre un’aura di grandiosità che calamita anche i nemici. Gli eredi del Pci hanno nel loro dna il germe del moralismo. A loro l’etica del gaudente è da sempre vietata. Palmiro Togliatti doveva amare di nascosto Nilde Iotti, pena la scomunica del partito. Massimo D’Alema, per il solo fatto di essersi comprato un paio di scarpe di pregio, è stato messo in croce. Quando negli anni Cinquanta qualcuno voleva iscriversi al Pci correva l’obbligo di riempire una scheda biografica di tutti gli intimi comportamenti. “Possiede un barboncino”, si legge su una scheda negli archivi del Pci di Bologna, per sottolineare l’imborghesimento di un aspirante compagno. Chi non invidia almeno un poco l’ultrasettantenne che può permettersi di avere non una ma cento amanti senza doverle nascondere, comprarsi non un cagnolino ma un intero canile, avere a disposizione cuochi e avvenenti segretarie? Quella sì che è vita, è il pensiero latente che pulsa nel cromosoma sinistro dei nostri democratici. L’uomo, spiegava Freud, è attratto da ciò che non ha. Non credo di esagerare, ma lo streaming di Bersani di fronte ai due esponenti 5 Stelle è qualcosa di raccapricciante. Il leader del maggior partito della sinistra europea va a Canossa da due novellini assisi in cattedra che si prendono gioco di lui. Se uno di noi è sotto stress, al massimo gli viene l’herpes. A un politico invece cala l’autostima. Qualcosa di simile accade nel 1990 quando D’Alema e Veltroni furono umiliati, costretti a fare anticamera nel camper di Craxi parcheggiato a Rimini.
Il Pd in crisi di identità
La crisi di identità del Pd sta tutta nel comportamento abnorme di queste settimane. Eppure non è solo il Pd a volersi amalgamare. Lo stesso Berlusconi, se gli fosse data l’occasione, non esiterebbe di fronte alla possibilità di diventare il capo del Partito Unico Italiano, nato dalla fusione dei due nemici di un tempo. Come Zelig, non vedrebbe l’ora di cambiare pelle. Basta con quegli straccioni provenienti dalle truppe ex An ed ex Dc. Che bello imparentarsi con le frange nobili della sinistra, con i suoi intellettuali e passare alla storia come l’uomo che emigrò dalla destra alla sinistra con la stessa nonchalance con cui si passa da una vergine a un’olgettina. Ricordate le sequenze finali di Attrazione fatale? Il film si conclude in casa di Dan, dove la moglie Beth viene sorpresa in bagno da Alex, la persecutrice invaghita del marito che tenta di ucciderla. Sarà Beth ad avere la meglio e a infliggerle il colpo mortale.
Accadrà lo stesso all’abbraccio dei due partiti che si combattono da vent’anni e ora si fanno fotografare sorridenti insieme al governo? Il guaio è che non siamo al cinema e in tutte le storie di attrazioni fatali l’attratto finisce quasi sempre per cadere nel pozzo avvelenato dell’attraente. È lo stesso rischio che corre il Pd. Finire stritolato tra le braccia di Berlusconi. Forever.

l’Unità 4.
5.13
Stanno smantellando un progetto. E io non ci sto
Oggi si compie il sogno di chi ritiene che sinistra e destra siano parole morte. Non sono io che lascio il Pd: è il Pd che lascia andare alla deriva i suoi propositi
di Riccardo Terzi


Il partito politico è lo strumento che si giustifica in vista di un fine. Come tutte le cose umane, è uno strumento inevitabilmente imperfetto, attraversato e condizionato dalle tante miserie della competizione per il potere. Non serve a nulla la denuncia moralistica di questo stato di cose, perché tutto ciò sta nella nostra natura e nella nostra debolezza. Ma è essenziale che resti visibile il progetto, che non venga spezzato il rapporto tra i mezzi e il fine.
Ora, nell’ultima convulsa vicenda di cui il Pd non è la vittima ma l’artefice, il dato più clamoroso non è quello più appariscente dei contrasti e delle manovre di palazzo, ma è l’archiviazione del fine politico che giustificava l’esistenza stessa del partito. L’unico fine che resta in piedi è la manutenzione del sistema, di questo sistema, e tutto deve essere sacrificato all’obiettivo della governabilità. Non è, come molti dicono, il ritorno della Dc, ma è una nuova forma della politica, nella quale le identità, tutte le identità, sono dissolte. Bersani, con il suo miraggio del cambiamento, era solo un sognatore. Ora è il momento dei politici realisti, che conoscono solo il linguaggio del potere.
Si tende a giustificare questo passaggio con un presunto stato di necessità. L’argomento della necessità è irricevibile, perché anche nelle situazioni più difficili c’è sempre un ventaglio di scelte possibili. Certo, ci sono vincoli, condizionamenti, rapporti di forza di cui occorre tener conto. E la politica è anche l’arte del compromesso, della manovra, del fare un passo di lato in attesa che maturino condizioni più favorevoli. Si può spiegare così quello che è stato deciso dal gruppo dirigente del Pd? Assolutamente no. Non è una manovra tattica, ma la scelta di una alleanza politica, di un patto organico di governo.
Come ha detto il Presidente Napolitano, che è l’autorevole regista di questa discutibilissima operazione, è un governo politico, nella pienezza delle sue funzioni, senza limiti né di tempo, né di orizzonte programmatico, compresa la stessa riforma della Costituzione. La missione dichiarata del Pd è solo la riuscita di questa operazione, di cui vuole essere la guida e la forza trainante. Tutto l’orgoglio di partito lo si mette solo in questa impresa e a chi si mette di traverso non si riconosce nessuna legittimazione. È solo un peso morto di cui liberarsi. Si pensa di affrontare la crisi interna che si è aperta con un atto di imperio, di autorità, nell’illusione che tutto l’esercito recalcitrante si metta a camminare, per fedeltà o per inerzia, nella direzione voluta.
Nel momento in cui un esito elettorale molto problematico, in bilico tra spinta eversiva e spinta democratica, avrebbe richiesto il coraggio di soluzioni innovative, la vecchia politica si chiude nel suo recinto, si autoprotegge e si autoassolve, mentre fuori dal recinto si infiammano tutte le ventate dell’antipolitica. È la conclusione più insensata che si potesse immaginare. È oggi il momento della decisione, il momento in cui ciascuno deve prendere posizione. Non credo che si possa rinviare il chiarimento a un domani immaginario, o che la salvezza della sinistra stia nella scelta di un nuovo leader, più fascinoso e più dinamico.
Giunge ora a compimento un lungo lavorio di smantellamento delle nostre basi sociali e culturali e si compie così il sogno di chi ritiene che destra e sinistra siano ormai parole morte e che ogni contaminazione sia finalmente resa possibile. Questo è il senso reale, oggettivo, del processo che è in corso: la fine di una stagione in cui una qualche alternativa sembrava possibile e praticabile. Ora si dice che i conflitti e le contrapposizioni erano una follia e che dobbiamo entrare in un mondo pacificato. Il governo Letta, al di là delle persone che lo compongono, è lo strumento di questa inversione di senso della politica: dalla rappresentazione di progetti alternativi all’assorbimento di ogni conflitto nella vacua retorica dell’interesse nazionale. La nazione è da sempre l’alibi che tutto giustifica.
Devo dire che a questo esito io non intendo in nessun modo partecipare. Non sono io che lascio il Pd, ma è il Pd che lascia andare alla deriva il suo progetto. Resto nel campo della sinistra, anche se non so, oggi, chi sia in grado di organizzarlo e di rappresentarlo. D’altra parte, la parola «sinistra» è un’espressione del sociale prima che del politico. E dal sociale occorre ripartire, dalle contraddizioni che ancora attendono di essere esplorate, rappresentate, organizzate. La sinistra è questo lavoro di scavo nel sociale. Il resto è solo chiacchiera.

l’Unità 4.5.13
Sono sicuro, vivremo socialdemocratici
Mai come ora il futuro della sinistra si gioca nel Pd e nel prossimo congresso
Per chi vuole cominciare una nuova storia è arrivato il momento dell’impegno
di Pietro Folena


Rimoriremo democristiani», ha titolato il Manifesto del 30 aprile scorso, parafrasando il celebre editoriale di Luigi Pintor del 1983 («Non moriremo democristiani»).
Il forte impianto neo-Dc del governo presieduto da Enrico Letta, solo temperato da alcune presenze di sinistra, e sostanzialmente confermato con la nomina di vice-ministri e di sottosegretari, non può essere una sorpresa. Si tratta della logica conclusione, per alcuni versi ineluttabile, di una lunga marcia verso l’evaporazione della sinistra italiana. Non è qui la sede per dire quando sia cominciata e quali siano state le sue tappe, succedutesi praticamente senza interruzione. La fine del bipolarismo iniziato nel 1994, con un governo di emergenza di cui non si conoscono né il programma né la durata, fa riemergere, tanto nell’anima ex-Dc quanto in quella ex-Pci, una vocazione centrista e moderata che c’entra assai poco coi bisogni profondi della società italiana.
Lo stesso Pier Luigi Bersani, che ci ha messo del suo, ha dovuto infine constatare che lo schema politico su cui aveva preparato le elezioni largamente condiviso dalla base del Pd era minoritario in gruppi parlamentari sulla carta largamente fedeli a lui.
Il tema del «che fare», quindi, si pone come non mai con bruciante attualità. Non ci vuole poco a comprendere come i diversi cantieri alla sinistra del Pd, annunciati in questi giorni, siano destinati a replicare, persino in forme caricaturali, i fallimenti degli anni passati. Avendo preso parte ad uno di questi cantieri quello della Sinistra Europea in cui le volontà programmatiche e riformistiche erano palesi, ho ricavato la lezione che il ceto politico autoreferenziale più si ammanta di «purezza» ideologica di sinistra, più è chiuso e impermeabile alla società.
Mai come oggi il futuro della sinistra italiana si gioca invece nel Pd e nel prossimo Congresso. Questo sarebbe il momento perché tutti coloro che vogliono cominciare una nuova storia entrino nel Partito democratico per scuoterlo dal torpore programmatico, dalla vaghezza ideale e dal blocco correntizio e personalistico di questi anni e per dargli un’anima: gioiremmo per un Pd pienamente socialdemocratico, forza del lavoro, partito sociale.
Non è il momento di stracciare la tessera e neppure di farla per stracciarla. Ma di ingaggiarsi in una battaglia perché cambi lo statuto del Pd: e questo non sia più il leggero partito di un leader che non c’è, ma un moderno corpo intermedio, capace di usare la rete, struttura di mutuo soccorso, federazione di case democratiche, in grado di difendere e migliorare la vita delle persone, di promuovere la cultura e di formare nuove idee.
Il tema principale non è il governo. Ma è, in questa fase, un profilo nuovo del Pd che, costringendo il governo a scelte di sinistra e dettando un’agenda, ritessa (ci vorranno anni) una presenza nella società.
Se davvero nei prossimi giorni si andrà all’elezione di un nuovo segretario che prepara il congresso in queste ore si parla di una personalità fresca e capace come Gianni Cuperlo -, occorre immaginare il prossimo congresso dei democratici non come la resa dei conti dei signori delle tessere e degli orfani di un posto al governo, ma come una Costituente delle idee di una nuova sinistra italiana, socialista ed ecologista, pienamente democratica. Vivremo socialdemocratici.

Repubblica 4.5.13
La Destra, la Sinistra e le identità italiane da preservare
di Rino Formica


Caro direttore, nel suo editoriale del 30 aprile lei vorrebbe una Sinistra assai diversa da quella che ha “perso vincendo” e che è stata costretta a piegarsi a un “governo di necessità” come lei definisce il governo Letta, e poi, con un supplemento di supplizio, ha dovuto piegarsi allo stato di eccezione, anzi a una “soluzione eccezionale”, per usare sempre le sue parole.
Ma veniamo al punto: come definire l’attuale fase, in che modo va configurandosi? La sua tesi è che la categoria della “eccezione” non è sufficiente a convogliare e denominare l’insieme dei flussi che agitano il Paese. Anzi, il sostrato oggettivo della “eccezione” rischia di occultare il vero disegno soggettivo che la muove. Lei scrive: “Il punto in discussione è il tentativo di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione
cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista — quello della destra, con le sue convenienze — come fondamento oggettivo della nuova fase”.
Siamo, dunque, seguendo il suo ragionamento, dentro una svolta, dentro un vero cambio di fase, anzi dentro un cambio di statuto democratico del Paese. Ma lei dimentica che il quarantacinquennio primo-repubblicano è stato dominato da un principio di realtà (la democrazia bloccata) il quale ha dato luogo a un altro principio, al principio di verità (la Costituzione “più bella del mondo”), non meno dannoso di quello da lei esecrato. A difesa di quella realtà si organizzarono forze così potenti da sconfiggere il disegno moroteo di allargamento della democrazia, che confidava e tenacemente lavorava per una occidentalizzazione del Pci e un superamento del centrismo. Si unirono forze così aggressive e plurime da sconfiggere un impreciso ma determinato disegno socialista craxiano di “riequilibrio” a Sinistra.
C’è il sospetto che quelle stesse forze siano oggi in azione per bloccare lo sgangherato e
contraddittorio disegno berlusconiano di ricostruzione di una Destra di governo (vera “rupture” nella storia unitaria della Repubblica), disegno da reimpostare per linearità e coerenza nel quadro di un centrodestra di tipo europeo se la Destra sarà capace di autoriforma, ma non colpire perché contrario a quel “principio di realtà” che si vorrebbe contrapposto al nuovo. Quello che invece non è chiaro seguendo il filo logico del suo ragionare è su quale prospettiva storico-politica oggi si colloca la Sinistra. È del tutto evidente che una Sinistra che ha pervicacemente rifiutato la socialdemocratizzazione, la promozione di processi revisionistici al proprio interno, la piena occidentalizzazione del sistema politico è costretta a marcare la propria identità sul piano “morale”, un piano assai sdrucciolevole che, se non controllato, può degenerare in razzismo ideologico se non antropologico. Converrà riflettere sulla sostituzione della “questione politica” con la questione morale, del problema del carattere storico-politico del ruolo della Sinistra in Italia con la superiorità morale di una
parte del Paese. “Nelle differenze culturali sta il bene del Paese”. Con questo concetto lei chiude il suo editoriale. Quando però le differenze culturali fissano gli antagonismi di un Paese e le “differenze sostantive” non riescono a sciogliersi in una dialettica di alternativa politica, che può anche prevedere passaggi normali di collaborazione tra diversi, quelle “differenze” diventano la maschera ideologica per bloccare il più difficile e tormentato tentativo di unificazione politica e civile del Paese. E non può essere un caso che la via nazionale alla normalizzazione democratica sia oggi tentata da una figura storica della tradizione del comunismo italiano, qual è Giorgio Napolitano, e non sarà certamente per caso che da questo punto di svolta una nuova Sinistra dovrà ripartire.
Pongo una questione politica e culturale, non morale: preservare le identità, mantenere le differenze tra destra e sinistra, perché anche l’emergenza ha i suoi limiti.
(e. m.)

l’Unità 4.5.13
Comitati Dossetti
«Rispettare le procedure della Costituzione»


Un nutrito gruppo di giuristi e di personalità che si richiamano ai «Comitati Dossetti» esprimono la netta contrarietà rispetto all’ipotesi di una Convenzione per le riforme. I Comitati «richiamano il governo e il Parlamento al rispetto delle norme dell’art. 138 della Costituzione, senza l’osservanza del quale l’intera Costituzione sarebbe delegittimata. In particolare ritengono che non si debba far appello a Commissioni o Convenzioni paracostituenti per progetti complessivi di riforma, ma che si debba procedere con riforme puntuali discusse e realizzate con le procedure previste istituto per istituto». La nota rilancia «la riserva espressa dal prof. Onida nella relazione finale del gruppo di lavoro istituito dal presidente della Repubblica, secondo la quale il progettato ricorso a organismi redigenti non previsti dall’ordinamento, rischierebbe di “innescare un processo costituente suscettibile di travolgere l’intera Costituzione” di cui, pur nelle opportune puntuali modifiche, vanno mantenuti fermi i principi, la stabilità e l’impianto complessivo».
I Comitati Dossetti infine «richiamano alla riflessione di tutti il fatto che, di fronte al collasso di tutte le regole e delle vecchie certezze dell’ordine economico-sociale, i principi fondamentali della Costituzione sono rimasti gli unici principi di razionalità e quindi di stabilità dell’ordinamento». Tra i firmatari, con i presidenti dei comitati Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, studiosi, magistrati, avvocati.

il Fatto 4.5.13
I Vice-impresentabili
Letta jr. fa entrare nel suo governo due imputati Pd (De Luca e Bubbico), un amico della Cricca (Girlanda, sodale di Verdini) e uno della P3 (il pm Ferri), il garante di B. Catricalà. Polemiche su Micciché e sull’omofoba Biancofiore alle Pari Opportunità


il Fatto 4.5.13
Micciché e i suoi fratelli Lo “squadrone” di Letta
Due sottosegretari indagati, due intercettati, e tanti amici di Berlusconi
di Eduardo Di Blasi


Enrico Letta si fa coraggio: “Ora facciamo tutti parte di una squadra”. E che squadra, dicono disorientati militanti ed elettori del Pd. Quando Pier Luigi Bersani, negli ultimi giorni di agonia della propria ricerca di voti per mettere su un proprio governo, finì per cercare anche i consensi di Grande Sud, Rosy Bindi lo fulminò dalle colonne della Stampa: “Siamo partiti incontrando Saviano e finiamo chiedendo voti a Micciché”. Ecco, siamo al salto successivo: Micciché è nella squadra, è al governo. Si occuperà di Pa e Semplificazione, un gradino sotto il ministro Udc Giampiero D’Alia, anche lui siciliano, di Messina, noto agli utenti della rete come “l’ammazza internet” per via di un emendamento al decreto sicurezza che minacciava di oscurare i blog che non rettificassero notizie giudicate lesive da chi vi fosse citato. Tutti nella squadra. Come Stefano Fassina e il professor Carlo dell’Aringa, entrambi eletti nelle file del Pd. Il primo è viceministro all’Economia. Il secondo è sottosegretario al Lavoro. Se gli chiedi cosa pensino della riforma Fornero hai due risposte divergenti.
È LA STESSA SQUADRA. Anche se Fassina dice che Silvio Berlusconi, l’alleato di governo, non va bene per guidare la “Convenzione delle Riforme” (il cerchio più grande dove Napolitano ha voluto inscrivere la partita istituzionale, lasciando al governo le beghe correnti). Lo rilancia anche Matteo Renzi. La squadra non fa gioco.
Eppure al ministero delle Infrastrutture ci sono pezzi da novanta. Il ministro è Maurizio Lupi, Pdl sponda Cl. La squadra di viceministri e sottosegretari è da guinness. La guida Vincenzo De Luca, sindaco pluriventennale di Salerno, città in cui è adorato da una larga schiera di cittadini, protetti, famigli, clienti. Da anni prova a costruire un gigantesco palazzo a mezzaluna alla fine del lungomare cittadino. Si è creata negli anni una viva opposizione all’opera, e De Luca è indagato con due funzionari comunali per abuso d’ufficio e falso ideologico. Altro sottosegretario è quel Rocco Girlanda, cementiere e deputato, intercettato più volte a colloquio con l’amico Denis Verdini nell’inchiesta sulla Cricca. Non fu indagato, ma nelle telefonate curava gli interessi della propria ditta; quale posto migliore per lui che le Infrastrutture?
Ritorna ancora nella squadra Antonio Catricalà, amico di Letta (Gianni), da sempre considerato garanzia per Berlusconi. E Filippo Bubbico, anche lui indagato (per una consulenza in Regione): è viceministro di Angelino Alfano al Viminale. C’è un nuovo ingresso alla Giustizia. È Cosimo Ferri. Il suo nome compare in diverse inchieste, da Calciopoli alla P3, e non è né l’inquirente né il giudice.
AGLI ESTERI c’è Bruno Archi, rapidamente passato dalla carriera diplomatica, al Parlamento (eletto quest’anno nelle fila del Pdl), ai successivi scranni di governo. In mezzo c’è una incredibile testimonianza (con altri) al processo Ruby, quando affermò che durante un vertice italo-egiziano del 2010 “Berlusconi aveva chiesto a Mubarak se la ragazza facesse parte della sua cerchia familiare”. La ragazza era infatti la presunta “nipote” per cui Berlusconi tirò giù la Questura di Milano. Mubarak, mise agli atti il viceministro “rimase incuriosito, ma non capì bene la domanda”.
C’è poi un problema. La sottosegretario alle Pari Opportunità Michaela Biancofiore è considerata “omofoba” dalle associazioni gay. Il montezemoliano Carlo Calenda è allo Sviluppo Economico. A Jole Santelli, che riteneva una minaccia per la Repubblica la magistratura, hanno poi dato il Lavoro.
Bella squadra. Ora il problema è la fine della frase di Enrico Letta. Diceva: “Occorre pensare al bene del paese”.

il Fatto 4.5.13
Michaela Biancofiore
La groupie di B. alle Pari opportunità
di Flavia Perina


Enrico Letta poteva sbagliare tutto, ma proprio tutto nella squadra di sottogoverno, tranne una cosa: la delega sulle Pari Opportunità. Quella non è una poltrona “qualsiasi”. È un simbolo. Il simbolo della irrisolta questione dei diritti, l’icona della difesa della dignità femminile in un Paese che resta esageratamente maschilista. Affidarlo alla groupie numero uno del Cavaliere è stato un atto di leggerezza suicida, ma anche la riprova che la distanza di questo governo dall’immaginario collettivo del Paese è ormai un abisso. Il nome di Josefa Idem al ministero era stato uno dei pochissimi ad aver “consolato” l’elettorato di sinistra (e non solo). Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo ed ecco arrivare a Palazzo la Cenerentola da Silvio innalzata, quella che appena un mese fa sfilava sotto il tribunale di Milano provocando le telecamere: “Ma voi che ne sapete che Ruby sia o non sia nipote di Mubarak? ”. Viene addirittura il sospetto di una speciale perfidia di Berlusconi.
POTEVA sceglierne cento per quell’incarico. Ha indicato Michaela, quella che, per la sua dichiarata ossessione (ha intitolato la sua autobiografia Nel sogno di Silvio), è in pratica il suo avatar femminile, l’ancella in servizio permanente effettivo che ha dedicato la sua vita alla venerazione del Capo. Nello stupidario di Michaela si trova di tutto. Dal fastidio per il bacio sulla guancia di una collega lesbica (“Per un etero anche un approccio affettivo di un gay crea imbarazzo”) alla mitica analisi sulla crisi: “A Roma c’è gente che si fa cornetto e cappuccino alle 10 del mattino invece che lavorare”. Dalle raffinate analisi di politica estera (“Obama? Un avvocatucolo”) alle lezioni di storia moderna (“Chi inventò le fogne in Italia, e non solo in Alto Adige, fu Mussolini. Prima i bagni erano fuori dalle abitazioni e i bambini morivano di broncopolmonite perché prendevano un freddo glaciale”). Dalla istintiva omofobia (“Purtroppo qualcuno nasce con una natura diversa”) alla strenua difesa del Bunga Bunga (“Era una barzelletta”) persino con temerarie incursioni filosofiche, come quando a L’Infedele giustificò Tarantini e l’uso corruttivo delle prostitute citando una biografia di Engels che “se avesse avuto cinquemila franchi al mese avrebbe goduto delle donne fino allo stremo”.
Le leggendarie dichiarazioni di Michaela hanno comunque un unico comune denominatore. Lei “spara” solo in un caso: quando Silvio ha detto o fatto una stupidaggine e bisogna difenderlo. “Sono una kamikaze imbottita di tritolo berlusconiano”, si compiace. Se la Santanchè è stata la guardia pretoriana del Cavaliere, la Prestigiacomo la sua musa, la Brambilla il suo caporale di giornata, la Biancofiore ne è la controfigura parossistica. Por-tarla al ministero “delle donne” è un po’ come se le Pari opportunità se le fosse prese lui, Berlusconi in persona, facendo un omerico sberleffo di rivincita ai milioni di italiane che tre anni fa, in piazza, diedero il primo e decisivo scossone al suo governo. Non serviva un genio per capirlo, per risparmiarsi almeno questa. Non lo hanno capito. Non se lo sono risparmiato.

il Fatto 4.5.13
Alla corte di Enrico Letta
Gianfranco Micciché
“Ricordare la mafia fa male al turismo” Il ritorno dell'uomo del 61 a 0 in Sicilia
di Giuseppe Lo Bianco


Un sito di informazione titola: “Abominevole ritorno”. I commenti dei blog siciliani si scatenano tra accuse seriose e sfottò brucianti. Su twitter l’hashtag #Micciché schizza ai primi posti dei trending topic con commenti molto poco lusinghieri e persino il Corriere della Sera accoglie “con sorpresa” il ritorno al governo di Gianfranco Micciché, il sacerdote del 61 a 0 di Forza Italia in Sicilia, il “colpo grosso” che nel 2001 consacrò l’idillio tra Berlusconi e i siciliani, spezzato pochi anni dopo dallo striscione apparso allo stadio della Favorita di Palermo: “Berlusconi dimentica la Sicilia”, in cui l’ambiguità del verbo (indicativo o esortativo) riassumeva la medesima ambiguità del rapporto dell’elettorato con Forza Italia, che Ingroia (e un’accusa giudiziaria ancora sub judice) considera inquinato dal voto mafioso. Di quel partito Gianfranco Micciché fu il fondatore e il profeta, e colpisce oggi l’ambiguità cui fa ricorso Storace per commentare la sua nomina a sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla Pubblica amministrazione e alla Semplificazione: “Sette mesi dopo averci fatto perdere in Sicilia Micciché guadagna la promozione a sottosegretario. Scelto da Alfano o Letta (Enrico)? ”, è il paradosso provocatorio del leader de La Destra, affidato a un tweet. Reduce dai numeri da prefisso telefonico delle ultime politiche con il suo Grande Sud (raggiunse lo 0,4 per cento) e abbandonato in Sicilia dai suoi fedelissimi, Micciché risorge grazie al suo inossidabile rapporto con Silvio Berlusconi, cui ha sempre manifestato, anche nei momenti di distacco, fervente devozione con qualche puntura di spillo, quando disse che lui ad escort non ci sarebbe mai andato, con evidente allusione al Cavaliere. Che non lo ha mai abbandonato, neanche quando il suo viceré scivolò per ben due volte, nel 2007 e nel 2012, nella sua gaffe più nota: “Cambiamo il nome dell’aeroporto Falcone Borsellino, ci ricorda la mafia e diamo un’immagine negativa per i turisti”.
O QUANDO alle passate Regionali la sua lista raggiunse un en plein di impresentabili. Tra loro Giuseppe Drago, ex governatore siciliano condannato a 4 anni per essersi impadronito appropriato dei fondi riservati della Presidenza, da poco uscito dal limbo dell’interdizione dai pubblici uffici, e Franco Mineo, rinviato a giudizio per usura, intestazione fittizia di beni e peculato, con l’accusa di essere stato un prestanome dei boss dell’Acquasanta Galatolo. Nessun problema per lui, per sua ammissione in radio alla Zanzara, consumatore di droghe pesanti in gioventù. Neanche quando inciampò nell’inchiesta nei confronti del suo collaboratore Alessandro Martello, accusato di portargli la cocaina la sera fin dentro il ministero dell’Economia. Micciché ha negato tutto: “È un semplice conoscente, qui è venuto solo in orario d’ufficio”. Ma ha dovuto ammettere che quell’sms di risposta un po’ volgare (“suca”), il 23 maggio 2002, al collaboratore che lo tempestava di richieste di comunicazione, era suo. E Martello, di rimando: “Aspettavo un tuo cenno carino, ed è arrivato”.

«Cosa pensa di questa cosa che sta nascendo a sinistra attorno al nome di Stefano Rodotà?
Non c’è nessuna attrattiva, non credo che qualcuno, Civati o Cofferati che sia, possa pensare di uscire dal Pd per fare un altro partito».
il Fatto 4.5.13
Il giovane turco Matteo Orfini
“Abbiamo tradito gli elettori”
di Giampiero Calapà


Abbiamo fatto il contrario di quanto promesso ai nostri elettori. Non c’è più una classe dirigente, bisogna ripartire dal Congresso ed eleggere subito un segretario: Gianni Cuperlo va bene, ha rotto da un po’ col dalemismo. La nuova sinistra di Rodotà? Non ha nessuna attrattiva, non penso che né Pippo Civati né Sergio Cofferati pensino di lasciare il partito”. Parola del deputato Matteo Orfini, capo di quei “giovani turchi” del Pd che adesso sono entrati al governo con Stefano Fassina, viceministro dell’Economia. “Stefano farà bene”. Ma non sarà imbarazzante per voi stare in una compagine dove ci sono Micciché, l’amazzone Biancofiore...?
Guardi è frutto di un governo di coalizione col Pdl, come sa io ero contrario a quest’esito ma dal momento in cui l’esito è raggiunto parte della compagine di governo è rappresentativa di quel mondo. Sono scelte non piacevoli.
Una foto opportunity con questi personaggi e in mezzo il povero Stefano Fassina... Non ritiene che alle prossime elezioni sarà una tragedia?
Questo lo vedremo alle prossime elezioni, il ruolo del Pd deve essere non difensivo: bisogna imporre un’agenda di governo.
Ma Micciché alla semplificazione: cosa può semplificare Micciché?
È una buona domanda, in effetti mi chiedo anche io cosa possa semplificare. C’è un parlamento che può evitare che queste nomine vengano utilizzate in modo inopportuno.
Poi alla faccia del conflitto d’interesse, Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, sottosegretario al turismo...
Beh questo dice poco, quando Beppe Grillo dice mettiamo uno che ha studiato agronomia all’agricoltura...
Ah quindi sta dicendo che sono andati incontro alle richieste di Grillo?
Sto dicendo che quando si dice i cittadini si occupino di quello che sanno va bene, poi se uno che si occupa di turismo va a fare il sottosegretario al turismo non va bene...
Orfini, ma lo sa che voi Giovani turchi rappresentavate una speranza per la sinistra...
Parla con uno che ha fatto fin dall’inizio una scelta precisa, ho dichiarato che non ero interessato a far parte di questo governo e come vede non ci sono.
E cosa si sente di dire al compagno Fassina? Gli ha fatto i complimenti? Gli auguri?
Gli ho anche consigliato di accettare la proposta...
Ma come? Lei no e lui sì, perché? Il povero Fassina come carne da macello...
No, ma che carne da macello (dice ridendo), penso che Fassina all’economia possa fare delle scelte diverse rispetto quelle che si sono fatte in questi anni.
Insomma, Orfini lei si è tenuto le mani pulite e ha mandato avanti Fassina...
Ma no che c’entra, non è che Fassina si sporca le mani. Uno risponde di ciò che fa e credo che farà bene, io con un Congresso alle porte preferivo rimanere ad occuparmi del Pd.
Un po’ meglio di quanto fatto fin qui, perché altrimenti...
Guardi, è del tutto evidente che siamo in una fase molto difficile per il Pd, non saremmo in questa situazione: abbiamo fatto una cosa opposta a quel che avevamo promesso agli elettori. Ho provato ad evitarlo... C’è una fase difficile, non c’è più una classe dirigente, bisogna fare un Congresso. Io penso che in parlamento intanto il Pd ha una forte rappresentanza che serve a garantire che non si ceda su alcuni temi come la giustizia, il confilitto d’interesse e altro...
Ecco, non cedete oltre, mi raccomando...
Non ho nessuna intenzione di cedere.
Ma il reggente del Pd? Chi lo deve fare?
Non è una figura prevista dallo Statuto, va eletto subito un segretario, che porti al Congresso, dove ne verrà eletto un altro.
Ah, va bene. Faccia un nome.
Gianni Cuperlo andrebbe benissimo, gira il suo nome.
Ma non è un dalemiano? Non restiamo troppo legati a quelle vecchie logiche...
No, ha preso le distanze da quel mondo, da un po’...
Cosa pensa di questa cosa che sta nascendo a sinistra attorno al nome di Stefano Rodotà?
Non c’è nessuna attrattiva, non credo che qualcuno, Civati o Cofferati che sia, possa pensare di uscire dal Pd per fare un altro partito.

Sul Fatto, alcune pagine con altre schede sui reggicoda di Berlusconi che Letta ha fatto entrare nel suo governo, dicendo: “adesso siamo una squadra”!

l’Unità 4.5.13
Governo Letta e futuro del Pd
Era la sola risposta sensata alla crisi
di Giuseppe Vacca


In base al risultato elettorale il governo Letta non era l’unico governo possibile, ma il posizionamento dei Cinque Stelle ne ha fatto l’unica risposta sensata alla crisi di governabilità scaturita dalle elezioni.
L’exploit dei Cinque Stelle segna dunque il punto di arrivo di tre faglie di crisi che hanno caratterizzato l’ultimo decennio: la depressione dell’economia, l’incongruenza della «costituzione materiale», l’assurdo delle leggi elettorali nel loro insieme. Con le elezioni quelle tendenze sono precipitate in una crisi di governabilità sul fondo della quale vi è l’esaurimento del bipolarismo su cui s’era assestato il sistema dei partiti. Questa premessa è indispensabile per valutare la formula di governo con cui si è apprestata una risposta e per fissare la bussola con cui mettere mano alle riforme delle istituzioni e delle leggi elettorali.
Il governo Letta è un governo di «grande coalizione» che tuttavia non comprende il terzo attore del sistema dei partiti che nelle nuove Camere si configura come un sistema tripolare. Ne consegue che le riforme istituzionali e delle leggi elettorali dovrebbero rispondere alla crisi della rappresentanza prima ancora che alla crisi della decisione, poiché nessuno potrà più ignorare che la seconda è originata dalla prima. Per questo penso che la Convenzione per le riforme costituzionali prospettata dal governo debba essere sganciata dalla decisione del Parlamento e sottoporre quelli che saranno i risultati dei suoi lavori a un referendum popolare deliberativo. Altrimenti i lavori della Convenzione saranno troppo condizionati dalle vicende del governo e dalle tensioni che percorreranno la maggioranza di un governo di «grande coalizione» i cui partiti saranno permanentemente in campagna elettorale.
Ma non vorrei dare l’impressione di sminuire l’importanza del fatto che per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana si sia costituito un governo di «grande coalizione». I governi di grande coalizione sono una risorsa dei regimi democratici per affrontare situazioni di emergenza o di ingovernabilità, e finora l’Italia non ne aveva mai usufruito. Non direi che il governo Letta sia nato dalla maturazione del riconoscimento reciproco della legittimazione a governare, ma quanto meno la presuppone e perciò può aprire la strada a una percezione più appropriata del bipolarismo e dell’alternanza come strumenti ordinari, ma pur sempre mezzi e non fini, della vita democratica. Vorrei fare, quindi, qualche considerazione sul Pd. Gli assetti istituzionali e di governo attuali sono il frutto dei rapporti di forza scaturiti dalle elezioni e perciò andrebbe bandito dall’immaginario dei dirigenti e dei militanti di questo partito qualunque senso di sconfitta, a meno che non ci si debba sentire sconfitti ogni volta che gli elettori non abbiano corrisposto ai propri desiderata.
Inoltre, l’esperienza della «grande coalizione» può essere salutare per il Pd sia perché sarà cogente nel misurarne le capacità di competere nella proposta politica, sia perché potrà fare di queste il tema essenziale del suo congresso. É l’occasione per mettere alla prova l’amalgama e le risorse innovative delle culture politiche che lo compongono, senza attardarsi in analisi retrospettive o in dispute anacronistiche sulle proporzioni delle rispettive radici. Non sono temi che riguardino il profilo ideologico o le forme organizzative del Pd, ma il suo modo di atteggiarsi nei confronti del Paese in un passaggio cruciale della sua storia, nel quale ha sulle spalle, in condizioni eccezionali, la maggiore responsabilità di governo.

l’Unità 4.5.13
Verità e pregiudizi sulla «destra comunista»
di Emanuele Macaluso


Martedì scorso, 30 aprile, ho letto su Repubblica un articolo di Michele Serra sulla «scomparsa dei post-comunisti», il cui contenuto in generale non condivido, ma come sempre rispetto.
Tuttavia, nel testo c’è un giudizio con cui si sottolinea il fatto che l’eccezione del ruolo dell’ex comunista Giorgio Napolitano, rieletto presidente della Repubblica, sarebbe «un meritato coronamento della vocazione governativa e lealista della destra comunista, da sempre capace di interpretare, nella lunga storia repubblicana, il punto di vista dello Stato, ben più di quello della società, dei movimenti, degli umori popolari». Siccome io sono stato collocato a ragione nella «destra comunista», vorrei dare a Serra e ad altri qualche chiarimento che ha a che fare non solo con la mia storia, con quella della «destra comunista», ma con la storia del Pci, i cui eredi sarebbero stati proprio in questi giorni liquidati. Ma anche i «becchini» del Pci, oggi sembrano nostalgici del Pci. Personalmente ho vissuto tutta la mia vita cercando di capire e di interpretare il «punto di vista della società», con una visione che ha coinciso con quella del sindacato (ho diretto la Cgil prima a Caltanissetta e poi in Sicilia tra il 1945 e il 1956), partecipando alle aspre e sanguinose lotte sociali di quegli anni. Evidentemente, la mia era una visione di classe, quindi di una parte della società, anche se Di Vittorio e Togliatti mi fecero capire subito che bisognava uscire dallo schema di lotta «classe contro classe», e avere una visione in cui prevalesse l’interesse generale della nazione e le sorti della democrazia. Quando dal sindacato «transitai» alla guida del Pci in Sicilia, e poi alla direzione nazionale e alla segreteria con Togliatti, Longo e Berlinguer, questo asse politico-culturale è stato non solo il mio, ma quello di tanti della mia generazione, della destra e della sinistra comunista.
Poiché Serra e altri rimasticano slogan politicamente sgrammaticati sulla «destra comunista», comincio col ricordare l’opera di un compagno indicato come il capo di questa «corrente»: Giorgio Amendola. Il quale ha una storia su cui si può dire di tutto, ma certo non che non abbia capito quel che si muoveva nella società italiana e non abbia preso una posizione combattiva per sostenere o avversare a viso aperto quei movimenti che avevano una direzione o un’altra: negli anni del fascismo e in quelli dell’antifascismo. Amendola nel dopoguerra animò i movimenti dei contadini, degli operai, dei quartieri popolari di Napoli, riproponendo così la questione meridionale al centro della lotta politica, sociale e culturale del Paese.
In quei movimenti e in quelle lotte, si formarono militanti come Paolo Bufalini (in Abruzzo e in Sicilia), Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napolitano e tanti dirigenti e militanti. In Sicilia con Li Causi, come me e altri ancora, in quelle lotte ebbe un ruolo Pio La Torre. Quando nel 1981 Pio tornò in Sicilia, il Manifesto criticò quella decisione scrivendo «che un uomo della destra comunista avrebbe ancora una volta diretto il Pci». Luciano Lama, bollato come esponente della «destra comunista», guidò grandi movimenti di massa in ogni parte del Paese, ma effettivamente fu contestato duramente all’università di Roma dal movimento del ’77, i cui obiettivi non so se erano condivisi o meno da Michele Serra. Del resto, anche Bruno Trentin, catalogato come esponente della «sinistra comunista», in un’altra occasione subì gravissime contestazioni di altri movimenti. Bufalini, Chiaromonte, Napolitano, Cervetti, io stesso con Togliatti, Longo e Berlinguer abbiamo per molti anni diretto le strutture fondamentali del Pci: l’economia e il lavoro di massa, l’organizzazione, la cultura, la stampa e la propaganda, e l’Unità.
Serra ha lavorato con me al giornale negli anni di Berlinguer, e non ricordo sue obiezioni alla mia direzione perché avrei ignorato i movimenti che attraversano la società. Michele dice il vero quando afferma che la «destra comunista» ha un’alta considerazione di quel chiama «il punto di vista dello Stato», cioè dell'interesse generale. Ma Berlinguer (collocato da Serra a capo della «sinistra comunista»!) promosse con Moro il governo di unità nazionale e combatté con determinazione il terrorismo e i movimenti che lo fiancheggiavano o lo sottovalutavano, sempre in nome dello Stato democratico. Anche la sua battaglia sulla questione morale e il ruolo dei partiti venne fatta in difesa delle ragioni dello Stato. La polemica della «destra comunista» con Enrico, sulla svolta del 1980, non riguardava certo la questione morale, ma la prospettiva politica, il rapporto con i partiti, guardando sempre agli interessi generali e ai mutamenti della società. Ridurre tutta la storia di Berlinguer alla famosa intervista di Eugenio Scalfari è semplicemente ridicolo.
Post scriptum. Sono amico e stimo Stefano Rodotà, ma il fatto che Serra lo contrapponga alla «destra comunista», come uomo dei movimenti di massa perché ha coordinato il referendum sull’acqua è veramente un segno dei tempi.

La Stampa 4.5.13
“Sull’Imu niente guerre di religione La Merkel ci frena”
Il viceministro Fassina: illusorio cercare risorse dai tagli agli incentivi
intervista di Alessandro Barbera


Fassina, ha appena giurato da viceministro con una bella ipoteca: la soluzione al rebus dell’Imu. Troverete un compromesso?
«Lo troveremo. Ma vorrei fare una riflessione: l’Imu è solo una delle tante voci che pesano sulle famiglie. Se gli rimettessimo in tasca trecento euro, salvo togliergliene altrettante con l’aumento dell’Iva, della Tares o dei ticket sanitari saremmo daccapo».
Convincente. Il Pdl non pare altrettanto convinto. Brunetta lo dice ogni mattina che si sveglia: o via l’Imu, con annessa restituzione del gettito 2012, o addio governo.
«Evitiamo guerre di religione, l’obiettivo è aumentare il potere d’acquisto delle famiglie. La nostra proposta ne esenterebbe tre quarti».
È possibile cambiare nome alla tassa e farla diventare una «tassa sui servizi» che accorpi anche i rifiuti?
«Difficile. Fra quelle due imposte c’è una differenza: l’Imu ha natura patrimoniale, la Tares no».
Fra gli economisti la tesi è che l’Imu sarebbe l’ultima tassa da tagliare, perché colpisce una rendita, non il lavoro e l’impresa. Che ne pensa?
«Non c’è dubbio che gli sforzi andrebbero concentrati sulle tasse che gravano sul lavoro e sull’impresa. Cercheremo di convincere il Pdl».
Dopo il tour di Letta in Europa emerge una linea più prudente rispetto ai primi giorni, quando il premier invocava la necessità di andare “oltre l’austerità”. Saccomanni dice che “allo stato” dobbiamo rispettare le regole europee. C’è stato un eccesso di ottimismo?
«No, Letta ha fatto bene a porre il problema con forza, l’Italia deve essere protagonista di un cambiamento di rotta che è in corso. L’ha capito persino l’ultraortodosso Rehn».
I tedeschi però non li avete convinti. La Merkel lo ha detto chiaramente: quello dell’Italia è anzitutto è un problema di competitività e di produttività.
«Lo penso anche io! Ma la condizione necessaria per raggiungere l’obiettivo sono il sostegno della domanda e della crescita dell’economia. Bisogna mettere insieme Keynes e Schumpeter: per generare innovazione ci vogliono anche stimoli anticiclici. È la lezione della ripresa americana».
Dove la fa da padrona l’interventismo della Fed, che ha un mandato molto diverso da quello della Bce.
«In questi anni i governi hanno scaricato tutte le responsabilità sulla Bce, che però è in grado di curare solo lo spread finanziario. Per lo “spread sociale” ci vuole la Politica, una vera Unione di bilancio e bancaria. Lo diremo al vertice europeo di giugno».
Fino a settembre la Germania sarà in campagna elettorale. Difficile immaginare che nel frattempo potremo strappare deroghe come quelle ottenute da Francia e Spagna. O no?
«E’ vero, ma in Europa non c’è solo la Merkel. E comunque cercheremo di sfruttare ogni spazio possibile dentro le regole attuali».
Non crede che ci sia ancora grasso da tagliare nella nostra spesa? Spese che non hanno niente a che vedere con la crescita?
«Per avere risparmi la spesa va riqualificata, occorre riorganizzare profondamente tutta la macchina pubblica».
Detta così è un po’ generica. Le faccio un esempio concreto: i cosiddetti contributi alle imprese, trenta miliardi che vengono destinati ogni anno a fondo perduto ad aziende pubbliche.
«Chi ha letto il rapporto Giavazzi sa benissimo che lì dentro non ci sono molti tagli possibili. È illusorio pensare il contrario, non è un caso che Monti non sia andato avanti su quella strada. Si tratta in gran parte di investimenti. Probabilmente migliorabili, ma di investimenti si tratta».
Non è così: circa 15 miliardi vengono distribuiti alle Regioni che li disperdono in mille rivoli.
«Sono pronto a confutare le mie ragioni carte alla mano».
Ci dia allora un titolo: dove si può tagliare?
«Lo spazio per risparmi importanti c’è nelle partecipate di Comuni, Province e Regioni. Possiamo costringere gli enti locali ad aggregare i servizi idrici e per il trasporto di rifiuti, creando grandi conglomerati e risparmiando sui costi della politica, visto che molte di quelle poltrone sono inutili. Ma tutto deve avvenire in una logica di politica industriale, non di tagli indiscriminati».

Corriere 4.5.13
«Il Pd non può essere ex Dc più ex Pci Se continuiamo così lo annientiamo»
Veltroni: questo governo abbia il coraggio di dichiarare guerra alla mafia
intervista di Aldo Cazzullo


«Qui bisogna mettere un po' d'ordine. Sento parlare di Moro e Berlinguer. Di riconciliazione nazionale, governo di legislatura, fine di destra e sinistra. E penso che sia esattamente il contrario della razionalizzazione che di questa fase deve essere fornita».
Lei, Veltroni, come la giudica?
«Una fase di assoluta e inedita emergenza, dovuta all'intreccio tra una devastante crisi istituzionale e una devastante crisi sociale. L'assenza di alternative ha generato il governo in carica, al quale auguro successo; ma si tratta di una condizione di anomalia, non di una condizione virtuosa».
Non è forse l'unica soluzione possibile?
«Sì, ma a causa di un risultato elettorale anomalo, frutto di una legge e di pratiche politiche anomale. Ci si è affrettati a cercare soluzioni di governo senza fare i conti con l'esistenza di tre blocchi di pari forza, tra cui uno cresciuto in pochi mesi con l'obiettivo dichiarato di aprire il sistema come una scatoletta. Ne è risultata una gestione confusa, aggravata dal caos attorno all'elezione del capo dello Stato — specie per effetto dei problemi del Pd — e dall'impossibilità, come sarebbe stato naturale, di tornare alle urne con una legge che non avrebbe dato una maggioranza al Senato. Tutto ciò ha generato questo governo. Altro che Moro e Berlinguer».
Sta dicendo che il governo Letta è transitorio?
«La cosa peggiore è trasformare questa alleanza di emergenza in una formula politica. Il governo deve fare due cose: rimettere in moto l'economia e cambiare le regole del sistema a partire dalla legge elettorale. Non è una formula politica, ma un intervento di emergenza su un corpo malato. Se diventa un'altra cosa, cambia natura. E sarebbe un cambiamento non virtuoso».
Lei ha criticato chi indica un nesso tra le parole di Grillo e gli spari di Preiti davanti a Palazzo Chigi.
«Sì, e non mi riferisco solo a questo caso. Si sta creando un clima di fastidio per il dissenso rispetto a questa stagione. Ma tanto più è larga una maggioranza politica, tanto più deve accettare le voci di dissenso; altrimenti si riproduce una situazione asfissiante, che il Paese ha già vissuto negli Anni 70, e si impoverisce la vita democratica».
Non trova eccessivo il linguaggio di Grillo?
«I 5 Stelle devono sapere che l'uso di un certo linguaggio e la personalizzazione esasperata della polemica generano parole sconsiderate, come quelle di Becchi. Però considero il tentativo — avvenuto immediatamente da più parti — di indicare i 5 Stelle come i mandanti di Preiti figlio di una logica strumentale che a me fa orrore. Ragionando così, aveva ragione anche Berlusconi a sostenere che chi gli ha tirato la statuetta l'ha fatto sulla base del clima del Paese. E dice questo uno che dai 5 Stelle è stato più volte raggiunto da strali personali, ma considera la libertà dell'altro condizione della propria. Tanto più che il caso Preiti presenta molti punti oscuri».
Anche lei si mette a fare dietrologie?
«Non dobbiamo essere dietrologi, ma neppure sprovveduti. Quante vicende avevano all'inizio un segno che la storia ha dimostrato fallace? Non fu Valpreda a mettere la bomba in Piazza Fontana, Bertoli (che uccise 4 persone con una bomba a mano lanciata nel maggio '73 nel cortile della Questura di Milano; ndr) non era un anarchico, Pasolini non fu ucciso solo da Pelosi, l'aereo di Ustica non ebbe un cedimento strutturale. E non è stato Scarantino a uccidere Borsellino: reo confesso; 17 anni di carcere; non era lui. Cos'è successo a Preiti, quand'è finito nel giro dei videopoker? Tra l'altro, cosa aspettiamo a vietarli? L'ho detto alla Cancellieri, quando era al Viminale: basta un decreto. Perché non lo si fa?».
Per il gettito?
«Ma se va quasi tutto alla mafia, mica allo Stato! E poi: perché un «bravo ragazzo» compra una pistola? Perché dice di averlo fatto quattro anni fa? È uno strano attentato, che ha colpito due servitori dello Stato e sconvolto il Paese».
Per quale fine?
«Non sarebbe la prima volta che la storia italiana è condizionata dai poteri criminali. Che hanno interesse a un Paese debole, finanziariamente fragile, di cui impadronirsi pezzo a pezzo. I negozi nel centro di Roma, i lavori dell'Expo, la ricostruzione in Emilia, l'incendio della Città della Scienza a Napoli: mentre noi discutiamo di qualche centinaio di milioni per gli esodati, le mafie si spartiscono 130 miliardi di euro l'anno. Perché la politica non dichiara una guerra senza quartiere? Un giorno di settembre a San Luca si riuniscono i capi della 'ndrangheta: perché non andarli a prendere? Questo comporta una autentica dichiarazione di guerra; se loro reagiscono, lo Stato la guerra la deve vincere. Altrimenti potremo fare tutti i risanamenti o gli incentivi possibili; ma la ricchezza e la legalità saranno sempre risucchiate da questi poteri criminali. Ecco, mi sarebbe piaciuto sentire Enrico Letta dire che questa è la priorità che tutte le altre contiene».
Non ha apprezzato il suo discorso di insediamento?
«Ho stima sincera per Enrico Letta. È una persona di qualità. Per questo, in un discorso condivisibile, avrebbe dovuto mettere al centro questo tema».
Insomma, questo governo proprio non le piace.
«Guardi, l'Italia oscilla di costante tra demonizzazione dell'avversario e soluzioni alla fine necessariamente consociative. Non c'è mai quella sana acquisizione di ogni democrazia matura, per cui con l'avversario si scrivono le regole del gioco e poi ci si confronta duramente sui programmi. Destra e sinistra esistono. Più presto si vedranno nella loro forma migliore — una destra moderata ed europea, una sinistra democratica e riformista —, più presto si alterneranno al governo una per volta, più presto l'Italia uscirà da questa crisi. Mi ricordo le battute di quando cercavo di fare, obbligatoriamente con Berlusconi, la riforma del Porcellum. Molti di quelli che allora polemizzarono, oggi stanno al governo con il Pdl e Miccichè».
Come valuta la squadra di governo?
«È frutto dell'emergenza; come se fossimo in guerra. Certo, l'idea che faccia parte di un esecutivo sostenuto dai voti pd un uomo che considera inopportuno che l'aeroporto di Palermo sia dedicato a Falcone e Borsellino mi amareggia molto».
Chi ha fatto fuori Prodi?
«Non sono in Parlamento. Ma la ritengo una delle pagine più gravi non della storia del Pd, ma della storia di un campo politico. È come la caduta del governo Prodi del '98; in peggio, perché c'è la reiterazione. Certo, la candidatura doveva essere promossa in un altro modo. Prodi è uomo delle istituzioni, la sua non doveva essere una candidatura di partito; andava costruita assieme a Scelta civica, con un discorso rivolto anche ai 5 Stelle. Ma quelli che si sono alzati in piedi per applaudire avevano il dovere di votarlo».
Bersani ha fatto bene a dimettersi?
«Si è formalmente dimesso. Ma il ritardo nella formazione di un nuovo gruppo dirigente ha creato imbarazzo per lui e per una segreteria dimissionaria, per larga parte oggi all'interno del governo. Sento dire che, siccome c'è Letta presidente del Consiglio, bisogna che il nuovo segretario sia espressione della sinistra sociale. Ma in questa argomentazione c'è l'annientamento del Pd. Io non penso che Letta sia un democristiano. Questa storia degli ex dc e degli ex pci deve finire. Quello non è il Pd. Il Pd non può essere l'amalgama tra eredi di grandi storie finite con il '900, senza mai creare quell'identità nuova per la quale abbiamo fatto il Pd. Il problema non è avere due leader che parlano a due pezzi di elettorato; il problema è avere il Pd. Ogni volta che il Partito democratico ha smesso di essere se stesso e ha oscillato verso l'una o l'altra opzione, si è perduto. Compreso l'ultimo, catastrofico risultato elettorale».
Chi deve fare il segretario allora?
«Qualcuno che rappresenti tutto il Pd. Non uno che rappresenta mezza mela, come se Letta dovesse rappresentare l'altra. Un partito è fatto di inclusione, non di esclusione. Non parlo per me, che da 4 anni sono fuori da qualsiasi ruolo o luogo di decisione. Ma può un partito saggio fare a meno di persone come Arturo Parisi, Sergio Chiamparino, Pierluigi Castagnetti, Marco Follini, Giuliano Amato? E dico anche Stefano Rodotà, con il quale il Pd aveva e ha il dovere di mantenere un filo di relazione».
Renzi le direbbe: tutti rottamati. Oggettivamente, non sono proprio volti nuovi.
«Ma l'innovazione è fatta di idee e politiche. Certo, anche di carta d'identità; ma non solo carta di identità. Il Pd tiene ai margini uomini che hanno idee. Stiamo sempre a parlare di persone; ma la bellezza di un partito sono le parole. Invece non si discute più e i partiti tendono a trasformarsi in macchine spietate di potere; poi non restano che briciole avvelenate».
Il futuro è Renzi?
«Renzi è il talento più evidente sulla scena. Se dovessi dargli un consiglio, gli direi di coltivare la profondità. Di apparire non una figura di questo veloce, bulimico, leggero dibattito politico, ma una risposta solida e profonda a uno smarrimento che nella società italiana ha dimensioni eccezionali».
Si parla di separare la figura del segretario da quella del candidato premier. È d'accordo?
«Sono contrario. Il leader che abbia vinto le elezioni può decidere poi che ci sia un segretario diverso; ma solo a elezioni vinte, e in una logica di sintesi. Non per perseguire due linee politiche diverse nello stesso tempo».
Perché Berlusconi non può fare il presidente della Convenzione, visto che avete appena fatto un governo con lui?
«Non vorrei passassimo sei mesi per istituire la Convenzione e altri sei mesi per decidere il presidente. Ci sono le proposte dei saggi e altre giacenti in Parlamento: si parta da quelle, in primis dalla legge elettorale. Se proprio si vuole fare la Convenzione, deve essere guidata da un uomo che abbia caratteristiche di equilibrio e terzietà. Non mi pare il profilo di Berlusconi».
Il presidenzialismo si può fare?
«È uno dei temi centrali del mio libro, che esce tra due settimane. Titolo: E se noi domani. L'Italia e la sinistra che vorrei. Idee per discutere, nulla di più. E nulla di meno».

Corriere 4.5.13
Un gran vuoto nel Pd dopo Napolitano
di Paolo Franchi


C'è un paradosso nelle vicende politiche di queste ultime settimane che, schematizzando, potremmo sintetizzare così. La tradizione migliore del comunismo italiano, incarnata da Giorgio Napolitano (che comunista non è più da un pezzo, ma non ha mai rinnegato, anzi, il «nucleo vitale» di quella storia), ottiene un largo successo di critica e di pubblico, in passato impensabile. Ma nel Pd i postcomunisti sembrano costretti ad alzare bandiera bianca e a cedere il passo ai postdemocristiani, comunque meno oberati da gravami storici e ideologici, e versati in concezioni e pratiche più moderne e duttili del potere.
Non è il caso di rifugiarsi nella mitologia. Ma Napolitano, che pure tra i comunisti è stato il più «socialdemocratico», e il più incline a parlare di democrazia dell'alternanza piuttosto che di un eterno compromesso storico, non viene dal nulla. Della storia del Pci e in particolare della destra comunista, per quanto a lungo pesantemente inficiata dal legame strettissimo con Mosca, il richiamo al primato dell'interesse nazionale, la ricerca delle alleanze più vaste, l'insistenza sulla necessità che le classi subalterne giungessero finalmente a farsi Stato, con tutto ciò che ne deriva in termini di lotta al ribellismo, al sinistrismo, al radicalismo, sono stati un elemento fondativo, almeno sin da quando, il 27 marzo 1944, Palmiro Togliatti, au retour de Moscou, sbarcò a Napoli dal mercantile britannico Tuscania. Oggi non ci sono più da un pezzo né il Pci né (fortunatamente) quell'Italia, quell'Europa, quel mondo. Nemmeno il più nostalgico dei nostalgici può pensare di trovare lì, o più tardi nei governi di unità nazionale, la premessa del governo Letta. Ma non deve essere un caso se, per cercare di non finire tutti intrappolati sotto le macerie della Seconda Repubblica, è al più illustre esponente in vita di una delle principali tradizioni della Prima, che dopo un lungo annaspare, i protagonisti della crisi, a cominciare da Pier Luigi Bersani, si sono dovuti appellare. Perché restasse al suo posto per promuovere e, nei limiti del possibile, garantire con la sua autorevolezza, il suo prestigio e la sua cultura politica e istituzionale, un governo di larghe intese reso obbligato dall'esito di una campagna elettorale in cui i contendenti si sono rinnovati l'un l'altro i sensi di una imperitura inimicizia. Anche chi, a sinistra, ne contesta le scelte, a Napolitano deve riconoscere una coerenza nel metodo, nel merito e persino nel lessico politico che viene da lontano.
Molto diverso, per non dire opposto, è il caso dei postcomunisti del Pd, eterni giovani già da un pezzo incanutiti che, conquistati i vertici della «ditta» già ai tempi di Achille Occhetto, a lungo hanno pensato soprattutto a mantenerli nonostante i vari mutamenti di ragione sociale della medesima, e adesso sono diventati l'epicentro della crisi. Il loro destino è, o almeno sembra, comune, la loro storia così carica di contese intestine (classica quella che ha opposto D'Alema e Walter Veltroni) meno. Ma in quasi venticinque anni i postcomunisti non hanno saputo, voluto o potuto (nel caso di Veltroni sarebbe più giusto dire: non sono riusciti) né fare i conti con la storia da cui venivano né delineare i tratti di una possibile storia nuova. Ad accomunarli è stata soprattutto la convinzione di rappresentare l'unico ceto politico dotato di una qualche professionalità, in gran parte maturata nella casa di provenienza, quasi predestinato a ereditare, grazie all'impresenta- bilità dell'avversario, il governo: una convinzione che il voto ha dimostrato definitivamente infondata.
Del congresso imminente del Pd si capisce ancora pochissimo. Ma è difficile immaginare che possa toccare alla generazione di mezzo che ha fallito, nelle condizioni quasi proibitive di un governo di grande coalizione come questo, rimettere insieme le idee e le forze necessarie a fare del Pd, o di chi verrà al suo posto, qualcosa di simile a quel moderno partito della sinistra riformista che in Italia non c'è mai stato, fare cioè i conti con il presente immaginando nello stesso tempo il futuro. Nuovi possibili protagonisti — da Matteo Renzi a Fabrizio Barca, che forse sono tra loro meno antagonistici di quanto sembri — sono già in campo. Meno tattica, più strategia: chiariscano il prima possibile a quale partito, a quale sinistra e soprattutto a quale Italia pensano. Mettendo in conto che si stanno avviando verso un mare tempestoso, in cui ad assisterli non ci sarà più nessuna grande tradizione di riferimento. Né quella comunista né quella democristiana.

l’Unità 4.5.13
Minacce via web a Boldrini, la Procura apre un’inchiesta
L’indagine dopo la denuncia della presidente della Camera. Tanti i messaggi di solidarietà
di Caterina Lupi


Minacce di morte e a sfondo sessuale. Minacce rivolte a una donna. Messaggi mossi da un odio xenofobo, che la prendono di mira per le sue battaglie civili, per il suo stare dalla parte di chi non ha diritti, come gli immigrati. Una violenza, infine, che arriva dal web, come se internet fosse un porto franco che sfugge alla legge. Sono tre le coordinate, tutte e tre inquietanti, della denuncia lanciata dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, che in una intervista a Repubblica ha raccontato di essere bersagliata ogni giorno, attraverso la Rete, da minacce di morte e di violenza, postate attraverso le pagine dalle quali utenti con nome e cognome la insultano, o magari sovrappongono il suo volto al corpo di una donna sgozzata.
«Io non ho paura», ripete lei, che però lancia la sfida. È tempo di fare delle battaglie, dice. La prima, contro le «campagne d’odio» contro le donne, che «continuano a morire per mano degli uomini e per molti è sempre e solo una fatalità», ma «se questo accade, è anche perché chi poteva farlo non ha mai sollevato il tema a livello istituzionale». E un altro risvolto sta nel fatto che «quando una donna riveste incarichi pubblici si scatena contro di lei l’aggressione sessista», che assume sempre la forma di minaccia sessuale e «usa un lessico che parla di umiliazioni». In Italia, una vera «emergenza», lancia l’allarme Boldrini, che poi chiede di aprire una discussione «serena e seria» sul web, «dove si sta diffondendo una cultura della minaccia tollerata come burla». E se la questione del controllo del web è delicatissima «non per questo non dobbiamo porcela», sostiene la presidente della Camera, lanciando il suo appello per «cominciare a pensarci e poi prendere delle decisioni misurate, sensate, efficaci. Senza avere paura dei tabù che sono tanti, a destra come a sinistra», perché se «la paura paralizza», «la politica deve essere coraggiosa, deve reagire».
La Procura di Roma, intanto, ha già aperto un fascicolo d’inchiesta. Minacce, diffamazione e violazione della privacy sono le accuse per i fotomontaggi e i messaggi lasciati su alcuni siti, di cui è stata già autorizzata la rimozione. Ora, per risalire agli autori dei post bisogna aspettare la risposta dei vari server. Nel frattempo, arrivano a pioggia messaggi di solidarietà alla presidente della Camera. Tra i tanti, quelli della ministra Idem, della leader della Cgil Susanna Camusso, della Cisl, della Comunità Ebraica di Roma, allarmata oltremodo dal fatto che «sono aumentate le manifestazioni di intolleranza da quando, la presidente della Camera, poche settimane fa, ci ha fatto visita».
«È dovere delle istituzioni arginare con iniziative legislative adeguate una deriva sessista e razzista che potrebbe alimentare propositi di violenza e sfociare in tragedia. Su questo ci sarà il massimo impegno del gruppo del Pd al Senato», assicura il capogruppo Luigi Zanda, mentre il suo omologo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, posta su Twitter: «Non concederemo tregua alla violenza». E anche per Renato Brunetta quelle minacce sono «un fatto inquietante».
Ma c’è anche chi, come la Federazione nazionale della stampa, mette in guardia: «Chi pensasse che questa denuncia possa essere utilizzata per accompagnare nuovi tentativi di bavagli alla stampa, andrebbe fuori tema». E il giurista Stefano Rodotà commenta: «Prima di pensare a leggi speciali, bisognerebbe capire se la vasta legislazione penale che abbiamo non sia sufficiente». Insomma, dicono in tanti, le leggi ci sono già

Repubblica 4.5.13
“Basta tollerare intimidazioni e sessismo ma le norme speciali non ci servono”
Rodotà: le regole per Internet ci sono, bisogna solo farle rispettare
intervista di Fabio Tonacci


ROMA — «C’è un vecchio detto, quello che illegale offline è illegale online. La Rete non ha bisogno di una legge speciale, le regole ci sono già. Bisogna solo farle rispettare. La battaglia culturale, questa sì è l’idea forte lanciata da Laura Boldrini, a cui va la massima solidarietà per le minacce subite ». Il professor Stefano Rodotà, per la sua formazione da giurista, per la sua storia di ex presidente dell’Autorità garante della privacy, inorridisce quando sente nella stessa frase le parole “controllo” e “web”. Ma l’intervista rilasciata dal presidente della Camera a Repubblica ieri l’ha molto colpito.
Professore, qual è stato il suo primo pensiero leggendola?
«Che in Italia esiste, ed è diventata molto forte, una cultura razzista, omofoba, sessista. Negli ultimi anni una certa classe politica italiana irresponsabile ha derubricato a burle, a folclore, delle esternazioni gravissime come quelle di alcuni esponenti della Lega Nord, penso a Mario Borghezio, che erano intollerabili. E quindi non mi stupisce che il Parlamento in passato si sia rifiutato in due occasioni di introdurre l’aggravante sul reato di omofobia. È il segno della febbre sociale che stiamo vivendo».
È però una cultura che affonda le radici in tempi lontani. O no?
«Anche questo è vero. Ricordo quando ero in Parlamento (Rodotà è stato onorevole dal 1979 per quattro legislature consecutive, ndr) c’era questa odiosa usanza di eleggere miss Montecitorio, cioè la collega più bella. E mi ricordo che Giancarla Codrignani, per ribellarsi a questo gioco, un giorno urlò “quant’è brutto Edoardo Sanguineti”, il grandissimo poeta. Naturalmente era una provocazione. Ma rispetto ad allora la situazione è molto peggiorata. I politici oggi hanno il dovere di comportarsi in modo adeguato al ruolo istituzionale che ricoprono».
Laura Boldrini pone però anche un’altra questione, delicatissima, che attiene in senso lato al controllo della rete.
«Stiamo attenti ad usare certe parole, il web è da sempre oggetto di brame censorie. Non dimentichiamo che l’attuale ministro alla Pubblica amministrazione, Gianpiero D’Alia, aveva presentato in Parlamento un emendamento veramente censorio, respinto solo grazie alla rivolta e alle contestazioni degli utenti»
Lei ritiene che davvero esista una situazione di anarchia del web?
«No, Internet non è un far west, non è una prateria dove si è liberi di compiere reati come quelli subiti dalla Boldrini, le minacce, la diffamazione, lo stalking, e restare impuniti. Le leggi, che puniscono i reati “virtuali” allo stesso modo di quelli “fisici”, ci sono già. Al massimo possiamo fare una ricognizione per verificare che siano
coperte tutte le fattispecie. Ma lo strumentario giuridico a nostra disposizione è molto ricco. Semmai il problema è un altro».
Quale?
«La Rete, per le sue caratteristiche di rapidità, di ampia divulgazione, di facilità di accesso, richiede un sistema di garanzie adeguato. Quando la magistratura ritiene di dover rimuovere un contenuto diffamante, deve poter contare su una struttura tecnica in grado di farlo in tempo reale, risalendo con certezza all’autore. Questa non è censura o controllo. È rispetto della legge. Pensi che in Francia una legge sulla pirateria è stata dichiarata incostituzionale perché escludeva l’intervento dell’autorità giudiziaria».
Qualche giorno fa sono state violate le caselle di posta elettronica di alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle e ne è stato diffuso il contenuto. Secondo lei l’episodio è stato sottovalutato?
«Sì, molto. Pensiamo a cosa sarebbe successo, a quale copertura mediatica ci sarebbe stata, se fossero state pubblicate le mail di D’Alema o Schifani. È una cosa pericolosa, si rischia di veder nascere un doppio standard parlamentare, in base al quale ce ne sono alcuni meno meritevoli di altri»
Le istituzioni, e in particolare gli onorevoli, dovrebbero sottostare a misure particolari di protezione della corrispondenza elettronica?
«Beh, se è stato così facile entrare nelle loro caselle, una riflessione va fatta».
Non è arrivato il momento di modificare la Costituzione, vista la grande importanza che ha assunto la Rete nella vita di tutti?
«Certamente. Già tre anni fa ho scritto un testo per integrare l’articolo 21 della Carta, come per altro hanno fatto in altri paesi europei, inserendo il diritto ad accedere alla Rete in condizione di parità e con modalità tecnologicamente adeguate. Diventerebbe una garanzia forte contro tutte le forme di censura».

l’Unità 4.5.13
I colori del razzismo
di Carlo Sini


In un memorabile saggio del 1952 commissionatogli dall’Unesco, il grande antropologo Claude Lévi-Strauss osservava che la reazione «razzista» verso ciò che è diverso è, tra gli umani, la più comune e diffusa. È, scriveva, l’atteggiamento più antico. Esso «tende a riapparire in ognuno di noi quando siamo posti in una situazione inattesa».
Il razzismo, continuava, «consiste nel ripudiare le forme culturali, cioè morali, religiose, sociali ed estetiche, che sono più lontane da quelle con le quali ci identifichiamo». Queste reazioni grossolane di repulsione fanno capolino spesso nel linguaggio, vera cartina al tornasole delle nostre più profonde emozioni e convinzioni. I greci antichi chiamavano barbari tutti coloro che non parlavano la loro lingua e non partecipavano della loro cultura («barbari» significava alle loro orecchie «balbuzienti», incapaci di un linguaggio veramente umano, raffinato e civile).
Moltissimi popoli cosiddetti primitivi si auto-designano con un nome che significa gli «uomini», e talvolta anche i «buoni», gli «eccellenti», i «completi», sottintendendo così che le altre tribù non sono composte da veri uomini, ma da sottospecie, da esseri incompleti, da scimmie terrestri e simili.
Un riflesso linguistico involontariamente, quanto anche tipicamente, razzista, lo si è ascoltato e letto negli ultimi giorni a proposito del ministro Cécile Kyenge, definito in vari servizi degli organi di informazione «il primo ministro di colore della nostra Repubblica». «Di colore»: che male c’è? È un’espressione quanto mai familiare, che abbiamo letto innumerevoli volte nei nostri testi scolastici e in serissimi e virtuosissimi libri di lettere e di scienza. Uno la usa automaticamente, esattamente come, sino a non molto tempo fa, si diceva, senza alcun sospetto o rimorso, «negro». Oggi si è notato il suono denigratorio e spregiativo che vi era iscritto e abbiamo imparato a dire «nero», ma diciamo ancora, innocentemente e ingenuamente, «di colore». Il che significa che tutte le razze della terra hanno un colore (sono appunto neri, rossi o gialli), mentre noi europei no: noi siamo candidi e immacolati, come si conviene a veri uomini o a uomini superiori. Non siamo caratterizzati da alcun colore particolare perché non ci pensiamo e non ci riteniamo, appunto, «particolari». Noi siamo l’unità di misura dell’umano, non siamo un colore tra i colori, siamo come si deve essere e come è bello e buono essere. È rispetto a questo modello che gli altri si specificano come «non bianchi», cioè appunto «colorati».
Ovviamente tutti coloro che hanno usato l’espressione «di colore» protesteranno l’innocenza delle loro intenzioni, dichiareranno di aver seguito un uso comune e antico: cosa indubitabile, ma il problema non sta qui. Il problema è, come notava Lévi-Strauss, che alla base di queste espressioni chiaramente rivelatorie, stanno atteggiamenti psicologici profondi, molto radicati e molto antichi; atteggiamenti che restano tali anche se involontari e inconsapevoli.
Il problema concerne la delicata questione della identità (ciò con cui ci identifichiamo, diceva Lévi-Strauss). Potremmo esemplificarla in breve ricordando che, anche individualmente, nessuno vorrebbe essere o diventare un altro. Magari accetterebbe volentieri la condizione sociale ed economica di un’altra persona, ma restando fermamente se stesso. Il che significa che ognuno, seppure aperto a riconoscere i propri limiti e difetti, tuttavia, quanto all’umano che è in lui, non è disposto a barattarlo. Ognuno, diciamo così, è umano o l’umano. Potremmo dire il medesimo di una cultura: ogni cultura si percepisce come la cultura. Se questa è una reazione da sempre diffusa, altra cosa però è intenderne davvero il senso. Esso si potrebbe comprendere anzitutto ricordando che l’identità, di una persona e di una cultura, è il punto di arrivo di un processo sterminatamente antico e complesso, costruito nei secoli da molteplici intrecci: nella catena delle generazioni siamo tutti dei meticci ed è solo mera ignoranza il fatto di non rendersene conto.
In secondo luogo si può osservare che la qualifica della cultura e dell’umano non si ripartisce come le fette di un torta. Certo, ognuno e ogni razza e cultura è l’umano, incarna compiutamente il carattere dell’umanità, salvo che questo carattere è appunto dinamico e differenziale. Vive cioè delle sue differenze, per le quali nessuno è autorizzato a disporsi al di sopra e al di fuori delle relazioni con tutti gli altri, come se fosse un’immaginaria unità di misura della qualità umana.
Lo stesso deve dirsi delle differenze di genere: tutto l’umano è nell’uomo e tutto l’umano è nella donna. L’umanità non vi è ripartita al cinquanta per cento, ma vive nella mobile differenza della loro relazione culturale e storica; cioè in un rispecchiamento che assegna ai due poli il senso concreto della differenza reciproca. Qui verremmo alla denuncia di Laura Boldrini: un’altra forma di razzismo, questa volta di genere. Questa denuncia, come la precedente, sono occasioni preziose per mostrare, a noi stessi e al mondo, che gli italiani, come pure si dice, non sono razzisti, sono «brava gente». E che così sia.

l’Unità 4.
5.13
Tre omicidi in poche ore
Uomini che uccidono le donne
Il senso malato del mondo
In questi delitti c’è un segreto inconfessabile, qualcosa che non riusciamo a raccontare
di Sara Ventroni


NON CE LA CAVEREMO CON UN MINUTO DI SILENZIO, IN NOME DELLE DONNE. NON CE LA CAVEREMO CON UNA CORONA DI FIORI, O UN ROSARIO DI NOMI, SGRANATO COME UN BOLLETTINO DI GUERRA.
La trama è ormai prevedibile, come un format. Una liturgia quotidiana. E le pagine di cronaca nera non sono certo un anticipo di gloria.
Qualcuno piange lacrime asciutte per Ilenia Leone diciannove anni strangolata a mani nude, con i vestiti da cuoca ancora addosso, calati sulle gambe. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato in un uliveto silenzioso, a Castagneto Carducci, vicino Livorno.
Qualcuno piange per Alessandra Iacullo, trent’anni, accoltellata alla gola, ritrovata accanto al suo motorino, in un luogo desolato, tra Ostia e Acilia: la Riserva del Pantano.
Periferie. Campagna. Alberi come testimoni muti. Oppure una camera da letto, un salotto, una cucina. La location non conta. È solo una variazione su tema. Lo sanno tutti che l’assassino ha le chiavi di casa. Lascia sempre le impronte, prima del delitto: centinaia di messaggi, telefonate. O qualche livido nero sul braccio. Ma non chiamatelo amore. E non chiamatela passione.
Non ci è concessa alcuna commozione. L’empatia lascia il tempo che trova. E non dobbiamo appassionarci alla saga.
Non ce la caveremo con la foto-tessera di lei che sorride: non immaginava certo che proprio quello fosse il momento per finire nel numero indistinto delle statistiche: ogni due giorni una donna viene uccisa, per mano di un ex marito, un fidanzato geloso, uno spasimante rifiutato, un passante pieno di voglia. E avanti il prossimo.
Non ce la cavermo con un racconto minuzioso del contesto: gli amici che si stringono nel dolore, portando a spalla la bara, e i negozianti dei paraggi che mai se lo sarebbero aspettato. Serrande abbassate. Lutto cittadino.
Non ce la caveremo con un’intervista al fratello dell’assassino o un reportage di costume, infiorato di dettagli sempre più crudeli, perché l’opinione pubblica ha fame di novità. È già assuefatta. E la morte, da sola, non basta più.
Non ce la caveremo con gli esperti. Gli psicologi, i criminologi, gli opinionisti: come se tutto si potesse spiegare con una psiche fragile e labile, una relazione andata in malora, finita con un discreto spargimento di sangue.
Perfino la presidente della Camera, Laura Boldrini donna senza corona e senza scorta – assalita ogni ora da anonime fantasticherie omicide sessiste, si sente in dovere di richiamare l’attenzione come se, al netto dei mitomani messi in conto dal suo ruolo, la questione fosse più che personale.
L’unico gesto possibile – in assenza di risarcimento morale è solo politico. E passa per le parole. Dare un nome alle cose è un buon inizio: non si tratta di uxoricidio o di amore molesto. È femminicidio.
Questa parola nuova di zecca nel vocabolario comune racconta di noi, del nostro Paese, molto di più di quello che vorremmo sapere. È un’espressione che viene da lontano. Ci parla degli uomini che portano i pantaloni, che siedono a capo tavola. Che non conoscono rifiuti.
Femminicidio è un sostantivo che sta sulle nostre spalle contadine, più di quanto la nostra cattiva coscienza possa immaginare.
La morale è ancora la stessa: ti uccido perché non vuoi essere mia, come dovresti essere, per destino e per natura. Mentro ti uccido so che gli altri, un pochino, mi capiranno.
Non possiamo stupirci: fino a qualche anno fa, un marito o un fratello potevano chiedere lo sconto di pena, in nome dell’onore salvato. Le donne erano proprietà privata dei maschi di casa.
Ci giriamo intorno, ma il pensiero inconfessabile è sempre lo stesso. Non esplode all’improvviso. È un senso del mondo. Non si chiama raptus, né amore. Il disegno è lì. Elementare. Come un palinsesto primitivo. Così semplice agli occhi, eppure così difficile da interpretare. L’impeto che precede il gesto violento non viene dal nulla. Non esiste il vuoto della mente.
Nella cronaca nera quotidiana c’è, al fondo, un segreto inconfessabile. Qualcosa che ancora resta da raccontare. Per questo non saremo assolti dal silenzio, ma dalle parole.

l’Unità 4.5.13
Piera, Daniela e i viaggi per andare a morire
Un video shock: «Perché devo soffrire?». Storie concluse per propria volontà in cliniche svizzere. Ora c’è chi raccoglie firme perché sia possibile anche in Italia
di Jolanda Bufalini


La dignità, la libertà e i suoi confini, la politica chiamata a misurarsi con i temi della bioetica e, particolarmente, della fine della vita. Oppure la politica intesa come conformismo per una rapida carriera, come fu quando, nel caso di Eluana, il Parlamento rinunciò ad atteggiamenti misurati come richiede una materia tanto delicata.
Al circolo Karl Marx nel quartiere San Giuseppe di Jesi, Daniela Cesarini aveva organizzato le lezioni di matematica per i bambini figli degli immigrati, le «ripetizioni popolari». Le foto la mostrano sorridente sulla sedia a rotelle dove stava da quando, bambina, era stata colpita dalla poliomelite. Prima di assumere il farmaco che le ha dato la morte ha mandato agli amici i versi di una canzone di Francesco Guccini: «Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me cosa è la libertà». Figura bella di comunista d’altri tempi, simile alle maestre dei primi movimenti socialisti, alle suffragette inglesi, alla Lina Merlin che fece la battaglia contro i bordelli di Stato. Ha scelto di morire come i filosofi stoici, eppure il suo percorso ci dice inequivocabilmente che era malata, di una depressione grave, resa più intollerabile dalla morte del figlio fortissimamente voluto. Come Lucio Magri, come il magistrato Pietro D’Amico. La depressione che non è una malattia di serie b. Ammessa dalla legislazione svizzera, e accuratamente verificata dai colloqui e dalle visite dei medici, per porre fine alla vita ormai insopportabile.
Nel viaggio in Svizzera Piera è stata accompagnata da Marco Cappato. Era malata terminale: «Il mio fegato è impazzito, produce troppo ferro, se continuassi diventerei color ferro». È lei stessa a raccontare la sua storia in un video choc distribuito dalla associazione Luca Coscioni. Comincia oggi la raccolta delle firme per una legge di iniziativa popolare presentata da radicali e exit Italia, Uaar, Amici di Eleonora, e sostenuta anche da Partito socialista e Rifondazione comunista, per l’eutanasia legale. È una campagna nata mesi fa, quando partì il messaggio: «Malati terminali cercasi», ovvero cercasi persone che non vogliono arrivare attraverso sofferenze che considerano per loro insopportabili alla conclusione già prevista e diagnosticata. Nel sito c’è anche la storia di Gilberto, che ama la vita, l’ha sempre amata, «non ho mai detto che brutta giornata perché piove, per me tutto è sempre stato bello, anche le difficoltà le ho vissute come opportunità. Ma ora voglio finire con dignità, mentre amo ancora la vita».
Mario Riccio è il medico anestesista di Giorgio Welby, fu accusato di omicidio consenziente quando, invece, si trattava di interruzione della terapia, una libertà di scelta che è garantita dalla Costituzione italiana e dalla legge. È fra i primi firmatari della proposta di legge e la considera una «provocazione» verso il ceto politico, perché «le indagini demoscopiche dicono che la popolazione è a favore dell'eutanasia legale, per poter scegliere, in determinate condizioni, una morte opportuna invece che imposta nella sofferenza». Il progetto affronta le diverse tematiche del fine vita: l’eutanasia, il suicidio assistito come quello ammesso dalla legislazione Svizzera. La differenza sta nel fatto che, sebbene si tratti in entrambi i casi, di percorsi assistiti e normati, nel caso del suicidio è il soggetto che ha deciso di morire ad agire. Si riprende anche la questione del testamento biologico e quello dell’accanimento terapeutico perché, spiega la relazione che accompagna l’articolato, «il diritto costituzionale a non essere sottoposti a trattamenti sanitari contro la propria volontà è costantemente violato, anche solo per paura, o per ignoranza. La conseguenza è il rafforzamento della piaga dell'eutanasia clandestina e dell' accanimento terapeutico».
Riccio ricorda che in Italia il principio della libertà di cura va a corrente alterna: «C’è una relazione della sanità del Lazio che testimonia che furono moltissimi a morire per la cura Di Bella, eppure, quando scoppiò, il caso Gianfranco Fini ci saltò sopra in nome della libertà di cura». Ma libertà è anche quella di chi non vuole vivere attaccato a un ventilatore come fu per Welby e come è stato per il cardinale Martini, la cui posizione fu irrisa «dal dottor Mario Melazzini, ora è assessore nella giunta regionale della Lombardia».
La proposta radicale suscita la prevedibile reazione di Paola Binetti: «No alla cultura della morte» e di Eugenia Roccella: «Fino ad oggi, aiutare l'aspirante suicida voleva dire aiutarlo a sopravvivere alla propria sofferenza grazie alla solidarietà e al sostegno concreto. Oggi rischia di voler dire aiutarlo a morire, magari in modo burocratico, sottoponendolo a un questionario, verificando che entri nella casistica prevista e porgendogli un bicchiere (che però deve bere da solo, per assumersene la responsabilità personale)». Risponde Marco Cappato: «Rispetto alla videotestimonianza di Piera, credo che l’unico scandalo sia quello di leggi che l’hanno costretta a lasciare l'Italia per morire senza soffrire. A Eugenia Roccella, che si indigna davanti al rischio che la morte sia affidata alla scelta da esprimere attraverso un questionario, chiedo se davvero ritiene meno burocratica la scelta da subire attraverso una condanna a una dozzina di anni di carcere per omicidio del consenziente».

Corriere 4.
5.13
Contro il finanziamento pubblico delle scuole private
Scuola, Bagnasco boccia il referendum di Bologna
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Piazza contro piazza. Appelli e contrappelli. Difficile dire se davvero si sentiva il bisogno dell'ennesima guerra di religione tra le torri medievali del centro di Bologna. Ma tant'è. E ora la questione del referendum consultivo del 26 maggio per l'abolizione dei fondi comunali (un milione di euro l'anno) alle scuole d'infanzia private (quasi tutte cattoliche), da vertenza locale, rischia di assumere una valenza nazionale con ripercussioni sul sempre caldo crinale che divide laici e cattolici. A scaldare l'atmosfera ha contribuito ieri il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, con un intervento perentorio quanto pignolo contro le posizioni di quell'ampio arcipelago della sinistra (Sel, associazionismi vari e intellettuali, trainati dal Comitato Articolo 33 contrario a qualsiasi «onere per lo Stato») che, sull'onda di 13 mila firme e di una mobilitazione titolata (tra gli altri, Stefano Rodotà, Margherita Hack, Angelo Guglielmi, Sabina Guzzanti, Andrea Camilleri, ai quali si aggiungono i Cinque Stelle), rischia di mettere in discussione un modello integrato pubblico-privato che a Bologna funziona da 18 anni (dai tempi della giunta Vitali e di un Ulivo ancora in divenire), spesso preso a modello. Il presidente dei vescovi ha escluso che le paritarie rappresentino un onere per lo Stato «in quanto — ha affermato —, sebbene quest'ultimo contribuisca concretamente al loro sostentamento, è molto di più quanto esse fanno risparmiare alla collettività». E via con le cifre, a conferma di quanto la partita stia a cuore: «Le scuole paritarie rappresentano il 24% in Italia, educano circa il 10% della popolazione scolastica, ma ricevono dallo Stato solo l'1% della quota stanziata per gli istituti. Se il costo medio annuo di uno studente della statale è di 7 mila euro all'anno, l'erario ne stanzia per le paritarie appena 500: con un risparmio per lo Stato di 6 miliardi».
La reazione del Comitato Articolo 33 non si è fatta attendere.
«Indignarsi e metterci la faccia!» è l'appello comparso su facebook.
Una battaglia, sostengono i referendari, a favore di una scuola «per tutti e gratuita» che porti «alla creazione di nuovi posti nelle comunali e nelle statali»: unica strada per evitare che tanti bimbi restino esclusi dalle graduatorie (423 a Bologna nel 2012, poi ridotti con soluzioni d'emergenza a 103). In questa tenaglia, dopo un iniziale sbandamento, il Pd si è schierato contro la soppressione dei contributi. Il sindaco Virginio Merola, tra i primi a prendere posizione paventando il timore che senza privati il sistema salti in aria, ieri ha aggiunto: «Anche chi difende l'attuale convenzione sta parlando di scuola pubblica». Attorno a lui ha preso corpo, visti i tempi, una sorta di «governissimo» extralarge: dal Pdl all'Udc, dalle Coop alla Curia. Pure la Lega è della compagnia: «Un referendum scellerato che smantella senza offrire un'alternativa». Una crociata che parte dalle due Torri. E non si sa dove possa arrivare.

La Stampa 4.5.13
Stupefacenti in classe: uno studente su 4 li usa
Il Cnr: cannabis, cocaina e alcol diffusi soprattutto tra i maschi
Tra gli adolescenti dilaga la moda delle bevande energizzanti
Cocaina, stimolanti e in piccola percentuale eroina sono diffuse tra gli studenti italiani


I ragazzi si drogano di più, o almeno lo facevano lo scorso anno, perché le prime rilevazioni del 2013 indicherebbero una lieve flessione del fenomeno. I dati allarmanti sul 2012 vengono dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, quelli più confortanti sull’anno in corso, dal Dipartimento per le politiche antidroga della presidenza del Consiglio. Ma il dato di fatto è che sniffate, spinelli, ubriacature e «calate» sono all’ordine del giorno tra i teenagers, specialmente maschi.
Su una popolazione studentesca di 2,5 milioni di ragazzi - dice la ricerca del Cnr che ha monitorato 45 mila studenti di 516 istituti - nel solo anno passato almeno 500 mila hanno consumato cannabis, 60 mila cocaina e 30 mila oppiacei vari, più altri 60 mila circa che hanno fatto uso (anche) di stimolanti come amfetamine e ecstasy.
«Il nuovo studio attesta una generale tendenza alla stabilizzazione nel numero di consumatori per tutte le sostanze - dice la responsabile dello studio, Sabrina Molinaro dell’Ifc-Cnr - tuttavia, si osservano alcuni interessanti incrementi. I dati parlano innanzitutto di un aumento del consumo di cannabis. Il dato nell’ultimo anno pone l’Italia cinque punti sopra il 17% di media europea, seppur lontanissima dal 42% della Repubblica Ceca e dal 39% della Francia. I ragazzi sono più coinvolti delle coetanee (27% contro 17%) e l’assunzione è avvenuta venti o più volte nell’ultimo anno per il 31% dei consumatori e il 16% delle consumatrici. L’età media del primo contatto è 15 anni».
Se osserviamo il tipo di droga assunta, è il lieve ripresa l’eroina (+1,3%) e più massicciamente gli stimolanti (3,8%), mentre si diffonde sempre di più la cocaina, diventata quasi una droga abituale tra chi usa stupefacenti. Ma ciò che dilaga è soprattutto il consumo delle droghe cosiddette «smart», percepite cioè come leggere e costituite sostanzialmente da bevande energizzanti: le ha provate il 41% del campione. Così come il 52% ha provato almeno una volta nell’anno considerato l’uso di psicofarmaci senza prescrizione medica. Quanto all’alcol «si registra un primato tutto italiano: nel 2012 il consumo nella vita interessa l’88,6% del campione, quello nell’ultimo anno l’81,1% e il 64,7% degli intervistati ha bevuto nell’ultimo mese. Un dato che ha origini culturali - spiega la ricercatrice - e non evidenzia particolari comportamenti a rischio, ma va sommato a quello preoccupante del “binge drinking’”(almeno cinque bevute in un’unica occasione) praticato dal 35,1% degli studenti».
Dati preoccupanti? Meno di quanto si possa immaginare, secondo il Dipartimento per le politiche antidroga del governo: «Quelli del Cnr sono dati che si riferiscono al 2012 e che presenterebbero qualche contraddizione - afferma Giovanni Serpelloni, capo del Dpa - Le nostre indagini sono più recenti e aggiornate rispetto a quelle eseguite dal Cnr e riguardano il consumo di sostanze nella popolazione generale. Secondo il capo del Dpa «i dati preliminari in nostro possesso e provenienti da varie fonti indipendenti non dimostrerebbero» l’aumento dell’uso di droghe «se non per l’uso di cannabis».

Corriere 4.5.13
«Palestina» in homepage, Google fa irritare Israele
di Davide Frattini


AMMAN — Google ha aggiunto il suo voto ai 138 che il 29 novembre del 2012 hanno permesso alla Palestina di diventare «Stato osservatore» alle Nazioni Unite. Così la pagina locale del motore di ricerca (www.google.ps) ha sostituito l'intestazione Territori palestinesi con una sola parola, in arabo e inglese: Palestina.
Lo Stato però ancora non risulta sulle mappe online del colosso digitale, che restano ferme alla formulazione Cisgiordania, indicata da una linea tratteggiata senza confini definitivi tracciati. «Cambieremo il nome su tutti i nostri prodotti», commenta Nathan Tyler, portavoce di Google. Che spiega: «Prima della modifica, abbiamo consultato le organizzazioni internazionali: dall'Onu all'Icann, che definisce i domini Internet».
Sabri Saidam, consigliere del presidente palestinese Abu Mazen, esulta per la decisione e la considera tra i primi risultati del voto all'Onu. Il riconoscimento diplomatico nel pianeta virtuale non piace invece agli israeliani. «Google non è un'entità politica — reagisce Yigal Palmor dal ministero degli Esteri — e i dirigenti possono scegliere di chiamare come preferiscono quello che gli pare: non ha valore. Detto questo, dobbiamo chiederci perché abbiano voluto prendere questa posizione e capire se una società privata abbia diritto di entrare in una questione così controversa».
Dopo il voto all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, anche il Vaticano ha cominciato a riferirsi allo Stato di Palestina nella corrispondenza e nei comunicati ufficiali, come quello che annunciava i negoziati di gennaio. Per ora a Ramallah hanno stampato i francobolli con la nuova intestazione, ma Abu Mazen ha bloccato l'emissione dei passaporti per paura di divergenze con alcune nazioni e soprattutto di difficoltà ai passaggi di controllo con Israele, dove i soldati potrebbero non riconoscere il documento.
Il governo di Benjamin Netanyahu si è opposto alla decisione dell'Onu e continua a ripetere che uno Stato può nascere solo dopo un accordo e la definizione dei confini. Le trattative sono però congelate da quasi quattro anni. Ieri Tzipi Livni, il ministro della Giustizia incaricata di seguire il dialogo con i palestinesi, è volata a Washington per incontrare John Kerry. Il segretario di Stato americano spinge perché i colloqui ripartano e ha deciso di sostenere quella che viene chiamata «iniziativa di pace saudita», anche perché adesso la Lega Araba ha annunciato di essere pronta a inserire dei cambiamenti nel piano: scambi di territori che potrebbero permettere a Israele — come chiede — di mantenere il controllo sui grandi blocchi di insediamenti.

l’Unità 4.
5.13
Libertà di informare è ancora a rischio vita
Nel 2012 sono stati 68 i giornalisti uccisi e 38 i rapiti, 879 quelli arrestati Lo denuncia Amnesty International nella Giornata per la libertà di stampa
di Umberto De Giovannangeli


Uccisi. Torturati. Rapiti. Intimiditi. Perché «colpevoli» di voler raccontare, sul campo, ciò che avviene realmente nel «mattatoio siriano». Nel corso degli ultimi due anni in Siria, decine di giornalisti sono stati imprigionati ingiustamente, torturati, sottoposti a sparizioni forzate e uccisi dalle forze governative e dai gruppi armati d’opposizione, nel tentativo di impedir loro di occuparsi della situazione del Paese, comprese le violazioni dei diritti umani. In un rapporto reso pubblico in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa, Amnesty International descrive decine di casi di giornalisti presi di mira dall’inizio della rivolta del 2011 e rende omaggio al ruolo determinante dei citizen journalist, molti dei quali rischiano la vita per informare il mondo su cosa accade in Siria e, come i loro colleghi professionisti, vanno incontro a rappresaglie.
L’INCUBO
I giornalisti non sono gli unici obiettivi civili, ma finora 36 di loro sono stati uccisi in quelli che sono apparsi attacchi mirati. «Con questo rapporto, abbiamo documentato ancora una volta come tutte le parti in conflitto stiano violando le leggi di guerra, sebbene il livello di abusi commesso dalle forze governative resti molto più grande», spiega Ann Harrison, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. «Gli attacchi deliberati contro i civili, compresi i giornalisti, sono crimini di guerra – aggiunge Harrison i cui responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia».
Da decenni, quotidiani, radio e televisioni indipendenti non possono operare liberamente. Sebbene lo stato d’emergenza in vigore dal 1963 sia stato abolito nell’aprile 2011, i giornalisti continuano a essere perseguitati quando vogliono occuparsi di un’ampia serie di temi, comprese le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze governative. Nuove leggi che avrebbero in teoria dovuto garantire maggiore libertà d’informazione, non hanno fatto nulla per migliorare la situazione.
LE STORIE
Nel 2011, per impedire ai giornalisti di seguire le manifestazioni prevalentemente pacifiche, le autorità siriane hanno intensificato le tattiche repressive attraverso un blackout virtuale nei confronti dei media tradizionali. Queste pesanti limitazioni hanno dato luo-
go al fenomeno del citizen journalism e alla diffusione di informazioni sui social network da parte di cittadini che non sono giornalisti professionisti. Nel febbraio 2012 Marie Colvin, reporter del Sunday Times, è stata uccisa insieme al fotografo francese Remi Ochlik.Tra i professionisti presi di mira figura lo scrittore e giornalista palestinese Salameh Kaileh, arrestato il 24 aprile 2012 dai servizi segreti dell’Aeronautica siriana per aver criticato la nuova Costituzione. Portato in un centro di detenzione di Damasco, è stato chiuso seminudo in una stanza con altre 35 persone, bendato e torturato col metodo della falaqa (pestaggi sulle piante dei piedi). È stato torturato anche in ospedale prima di essere rilasciato ed espulso in Giordania. Il presentatore televisivo Mohammed al-Sa’eed è stato rapito dalla sua abitazione di Damasco nel luglio 2012 e ucciso sommariamente dal gruppo armato d’opposizione jihadista Jabhat al-Nusra. «La libertà di espressione è un diritto, non possono uccidermi per questo». Yara Saleh, conduttrice della televisione Ikhbariya, ha lottato per difendere queste sue parole e la libertà di stampa. È stata rapita e torturata da un gruppo di ribelli nel mese di agosto. «Chiediamo da due anni alla comunità internazionale di adottare misure concrete per garantire che i responsabili di tutte le parti in conflitto siano chiamati a rispondere di fronte alla giustizia per i crimini commessi e che le vittime ricevano una riparazione. Il popolo siriano sta ancora aspettando. Di quante altre prove di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità ha bisogno il Consiglio di sicurezza prima di riferire la situazione della Siria alla Corte penale internazionale?» commenta Harrison.
Siria e non solo. Il l 2012 è stato un anno nero per i giornalisti: 68 reporter sono stati uccisi, 38 rapiti, 879 arrestati e quasi 2.000 attaccati o minacciati. È in Nord Africa e Medio Oriente dove i giornalisti hanno maggiormente pagato con la vita il loro coraggio. Lo scorso anno ne sono stati uccisi 23, in Africa sono morti in 17, 15 in Asia, 12 nelle Americhe e uno in Russia. E oltre i giornalisti impegnati nelle aree di guerra, ci sono quelli dell’informazione digitale contro la quale si stanno sviluppando forme occulte di censura e violazione di privacy. In Siria, Iran, Cecenia, ma anche in Cina e in Vietnam, sono spesso dei «blogger» che portano avanti la difesa dei diritti umani, che aprono gli occhi al mondo sulle ingiustizie e gli sfruttamenti. Eroi senza divisa. Da difendere. Da ricordare. Sempre.

l’Unità 4.5.13
Obama: sì all’uso della «pillola del giorno dopo» senza ricetta a 15 anni


Sull’uso della «pillola del giorno dopo» il presidente statunitense Obama ha sentito l’esigenza di chiarire la posizione della Casa Bianca: non è per vietarne la libera vendita, ma per porre un limite in mancanza di una prescrizione medica per chi è sotto i 15 anni. Questo limite lo «tranquillizzerebbe». Lo ha affermato lo stesso presidente commentando l’appello dell'Fda (Food and Drug Andiministration) contro la decisione di un giudice federale di ammettere la vendita senza limiti di età.
Alcuni critici avevano chiesto al presidente di impedire la vendita senza ricetta alle minorenni.
Era stata pure annunciata la decisione del Dipartimento della Giustizia di ricorrere in appello contro la decisione del giudice di New York , che aveva accolto la richiesta presentata dai gruppi per i diritti delle donne e stabilito che la pillola del giorno dopo dovesse essere disponibile negli Stati Uniti per tutte le donne in età riproduttiva, comprese le ragazze con meno di 17 anni, obbligate invece a
presentare la prescrizione del medico. Ieri, nel corso di una conferenza stampa tenuta in Messico Obama ha indicato come limite quello dei 15 anni affermando che questo sarebbe « dettato da solidi argomenti scientifici». È stata un’affermazione che non incontrato il favore delle organizzazioni femministe statunitensi per le quali non vi sarebbero ragioni plausibili per porre questo limite. «Il blocco va subito rimosso» aveva dichiarato Cecile Richards , presidente del Parenthood Federation of America.

il Fatto 4.5.13
L’americano vero è solo quello armato
A Housto via al congresso degli armaioli statunitensi, la lobby più potente del Paese, che non vuole limitazioni
di Federico Mastrogiovanni


Houston (Texas) La ragazzina bionda che imbraccia un fucile Beretta è eccitatissima. Lo punta contro la parete su cui è stampata una grande foto di una selva in cui immaginiamo vi siano leoni selvaggi o terroristi pericolosi. Il papà le ha comprato un Ruger 1022 fuxia, una “fun gun ”, con cui potrà sparare a piccoli animaletti, piccioni, scoiattoli. La ragazzina si chiama Rose, ha 13 anni e finge di sparare contro una foto. Un uomo osserva divertito il figlio adolescente che imbraccia un Uzi. Gli dice “Te l’ho promesso. Ora è tuo”. Centinaia di canne si alzano al cielo, provando fucili, pistole, mitragliatrici. C’è un’aria di festa, di fiera di paese, ma con decine di migliaia di persone, accorse a vedere le ultime novità in fatto di armi.
A Houston c’è un vento insolitamente freddo e nel George R. Brown Convention Center si attendono 80/100mila persone che fino a domenica parteciperanno al 142° congresso della NationalRifleAssociation. Si entra gratis se si è membri dell’Nra, altrimenti bastano 10 dollari e si entra nel grande parco dei divertimenti delle armi. “Sono un ex militare”, dice con fare sicuro un istruttore impugnando la sua pistola Glock di fronte a un piccolo pubblico attentissimo “e posso dirvi che è fondamentale avere la giusta postura, i piedi, le gambe, la schiena”. Molta parte del suo pubblico sono ragazzi. Affascinati.
Ciò che si nota subito è che la stragrande maggioranza dei partecipanti sono uomini e donne bianchi e over 60. Alcuni accompagnano figli e nipoti.
La signora Christine è indecisa. La Ruger LC380 automatica che le ha consigliato la sua amica Brenda non riesce a caricarla. Le sue mani ossute di nonna non le permettono di scorrere il carrello. Christine si sente insicura nella sua casa di Woodlands a nord di Houston. Ha deciso di comprare una pistola, ma non riesce proprio a reggerla in mano. Il venditore le consiglia una “point and shoot”, a tamburo. Più leggera, più facile da impugnare e da usare. L’ha regalata a sua moglie perché anche lei non ha le mani forti. Si trova benissimo. Ecco Christine ora è più contenta, potrà difendersi meglio, come la sua amica Brenda.
“È una zona molto pericolosa la vostra? ” domando.
“No, anzi. È molto tranquilla”, risponde seria Brenda, la più esperta delle due. “Per questo è meglio stare sicuri. “Il problema, dice, è che a volte il fatto di essere armati ti trasforma in un obiettivo. Se la polizia ti vede mettere la mano sulla pistola non sempre sa che sei uno dei buoni, un “good guy”. Bisogna essere prudenti. ”
Intanto nell’enorme sala congressi il governatore del Texas, il repubblicano Rick Perry, orgogliosamente iscritto a vita all’Nra, sostiene come il presidente Obama e i media, dopo le recenti tragedie successe nel paese come quella di Newtown, non facciano altro che demonizzare gli onesti possessori di armi, che pagano le tasse e amano un uso sicuro, sano e responsabile delle armi.
Secondo il governatore le leggi federali sul controllo delle armi non risolvono la violenza, i criminali continueranno a violarle, mentre si attacca violentemente la libertà degli americani onesti. E libertà è la parola che si ascolta di più.

il Fatto 4.
5.13
Il branco delle star tv inglesi violentatori di successo
Dopo il caso Savile si moltiplicano inchieste e confessioni
di Caterina Soffici


Londra Sono tutti personaggi famosi, per lo più televisivi. Sono tutti vecchi. Hanno agito coperti dalla popolarità. Apparire sul piccolo schermo è stato per decenni sinonimo di impunità. Delle banche si dice: troppo grande per fallire. Rimodulato su questi personaggi il detto diventa: troppo famoso per essere incriminato. Poi il tappo è saltato. La Bbc è di nuovo nella bufera: sotto inchiesta adesso c’è il conduttore Stuart Hall, 83 anni, che ha confessato 13 violenze nell’arco di 20 anni. Sono fatti che risalgono agli anni ’70 e ’80, quando era all’apice del successo, star di It’s a Knockout, un programma tipo Giochi senza frontiere, molto popolare in quegli anni. Piaceva ai ragazzini degli anni ’80, lo stesso principe Edoardo era un suo seguace. E proprio l’anno scorso la regina lo aveva insignito dell’Obe, l’Ordine dell’Impero Britannico, una delle massime onorificenze, appena un gradino sotto il titolo di Sir, baronetto, che sempre la casa reale aveva dato a Jimmy Savile (per poi ritirarlo nell’infamia).
Come mai vengono fuori tutti ora? Come mai sono tutti fatti risalenti a quasi 40 anni fa? Come mai così tanti anni di silenzio? La popolarità li ha pro-tetti, le rivelazioni sull’ex dj Jimmy Savile hanno aperto la cloaca. E ora da sotto i lustrini emerge davvero cosa è stato lo star system di quegli anni, anche dentro la apparentemente innocua “zietta”, come gli inglesi chiamano la Bbc.
La liste dei personaggi si allunga ogni settimana. Stuart Hall era già stato arrestato il 5 dicembre, ora emergono i dettagli. Hall è stato interrogato ad aprile da un tribunale del Lancashire e ha ammesso di aver violentato 13 minorenni, per lo più ragazzine ma la più piccola è una bambina di 9 anni. Piacione, eccentrico, famoso per le sue citazioni di Shakespeare e Shelley, collezionista di orologi antichi, era il tipico “insospettabile” che ora i giornali definiscono “predatore opportunista”, perché abusava delle sue vittime sfruttando la sua posizione: uomo, ricco, famoso, praticamente intoccabile
Come un’altra delle star finita sotto inchiesta in questi giorni. William Roache, 81 anni, divo della serie tv “Coronation Street”, il cui primo episodio risale al 1960, è accusato di aver violentato una ragazzina di 15 anni nel 1967. Dovrà comparire in tribunale il prossimo 14 maggio. E poi c’è Michael Le Vell, accusato di violenza su un bambino. La settimana scorsa era finito sotto inchiesta un altro personaggio famoso dello star system, legato all’inchiesta Savile. Si tratta del conduttore televisivo Rolf Harris, che tanto piaceva alle madri di famiglia per il programma “Animal House”, dove si raccontavano le vicende di una clinica di animali.
Sembra un cesto di ciliegie, dove una tira l’altra e non si vede mai il fondo. Le vittima hanno cominciato a parlare e non si sa quante realmente siano le confessioni in mano agli inquirenti. Ieri la tv privata Itv ha mandato in onda l’intervista a una donna, ai tempi minorenne, che ha raccontato come Hall l’aveva aggredita e come questo peso le abbia rovinato la vita.
Quaranta anni di silenzio, ma il marito sapeva. E quando è scoppiato il caso Savile, la donna ha detto: adesso arrivano anche ad Hall. Così ha trovato il coraggio di andare dalla polizia e raccontare tutto, incoraggiata dal marito.
Probabilmente il caso Savile ha dato fiducia alle vittime. Cominciano a parlare e la settimana scorsa è stato incriminato anche un famoso pubblicitario, Max Clifford, 70 anni, accusato di violenze tra il 1965 e i 1985. Non c’entra niente con i presentatori, ma è la prova che il vento è cambiato.
E forse non c’è alcun collegamento neanche con lo scandalo della pedofilia negli orfanotrofi del Galles, sul quale la polizia indaga da tempo, ma la settimana scorsa ci sono state importanti sviluppi: si indaga su 140 persone e il numero degli orfanotrofi è salito a 18. Una delle vittime (gli abusi tra i 7 e 15 anni) ha raccontato che all’età di 12 anni gruppetti di bambini venivano portato con gli scuolabus a Londra per partecipare a festini con adulti. E’ vero? Chi c’era dietro questa organizzazione? Ed è vero, come aveva denunciato l’anno scorso la Bbc, che le indagini erano state bloccate per coprire personaggi importanti e famosi?
Una cosa forse si può dire, però. Un mondo di lustrini, legato al grande boom della televisione degli anni Settanta e Ottanta è entrato in crisi. Questi bavosi ottantenni rotolano sulle ceneri della loro stessa popolarità, e ora che la tv non è più quel totem intoccabile.

La Stampa 4.
5.13
Su Londra l’ondata nazionalista
di Claudio Gallo


Perché il partito anti-Ue ha vinto le elezioni? “Faremo il botto”, assicuravano i dirigenti dell’Ukip, il partito anti-europeo e xenofobo, la scorsa settimana. Il botto è arrivato: nelle amministrative inglesi (35 consigli e due sindaci) l’Ukip ha preso l’equivalente del 25% dei voti, registrando la maggior prestazione dal dopoguerra di un partito non appartenente al gruppo «mainstream»: laburisti, conservatori, e liberaldemocratici. La vittoria degli antieuropeisti (+ 119 consiglieri) è avvenuta soprattutto alle spalle dei conservatori di Cameron che hanno perso 291 consiglieri. I laburisti ne hanno guadagnati 249. I libdem del vicepremier Clegg sono scesi di 106. Il successo della destra idiosincratica da un lato si inserisce nel quadro dell’avanzata dei movimenti populisti in Europa, che guadagnano voti di protesta contro le élite politiche tradizionali. Dall’altro lato è un prodotto del dibattito tutto britannico sul senso dell’appartenenza europea, una discussione che sta avendo effetti dirompenti all’interno del partito conservatore. L’ostilità impulsiva all’Europa è rinfocolata da una parte della stampa ma anche, con alti e bassi, da Cameron che usa l’argomento come una valvola di sfogo per la destra del suo partito. In generale nessun esperto britannico crede che i problemi economici si risolvano uscendo dall’Europa, anzi. Ma il fastidio per Bruxelles viene usato come capro espiatorio per coprire le difficoltà dell’economia e il disagio per i feroci tagli del cancelliere Osborne. Prima ancora della sconfitta elettorale il premier, strizzando l’occhio a destra, aveva detto di voler anticipare il referendum sull’Europa. Per legittimarsi, le élite rischiano di portare il paese in una direzione a cui intimamente non credono. Qui si inserisce l’Ukip che raccoglie non soltanto voti xenofobi ma anche voti genuinamente popolari di persone che leggono sbalordite sul «Sunday Times» che nel Paese i ricchi sono sempre più ricchi, mentre la loro vita sprofonda verso la miseria. Il partito di Farage promette di tornare a una sorta di passato mitizzato in cui c’era lavoro per gli inglesi e Londra contava di più nel mondo. Il «Times» ha fatto notare che nelle promesse elettorali dell’Ukip c’è un buco da 120 miliardi.

Corriere 4.5.13
Quella «data di scadenza» scritta nel nostro cervello
Identificato il fattore che regola l'invecchiamento
di Massimo Piattelli Palmarini


I diversi tessuti del nostro corpo invecchiano a ritmi diversi, ma i neuroscienziati si sono chiesti da tempo se non vi sia un controllore centrale dell'invecchiamento, cioè un centro cerebrale e magari una specifica molecola prodotta da questo che invia un messaggio, con progressiva intensità, ai diversi tessuti. Un'equipe di neurofarmacologi e fisiologi dell'invecchiamento dell'Istituto Albert Einstein di New York, diretta da Dongsheng Cai, conferma, sull'ultimo numero della rivista Nature, che è proprio così, almeno nel topo.
Un giudice indipendente e autorevole, il neurobiologo molecolare David Sinclair della Harvard Medical School, ha dichiarato ieri che questo risultato costituisce «uno sfondamento notevole nella ricerca sull'invecchiamento». In sostanza, il dottor Cai e i suoi otto collaboratori hanno puntigliosamente seguito nel tempo le tracce di una molecola, chiamata NF-kB, secreta dall'ipotalamo, che controlla l'attività del Dna ed è coinvolta nei processi infiammatori e nelle reazioni allo stress. Lungo la vita del topo e del suo cervello, questi studiosi hanno rivelato una crescente presenza di questa molecola. Cai e collaboratori concludono che l'invecchiamento detto sistematico, cioè esteso a molti tessuti diversi, viene veramente pilotato da un tessuto cerebrale particolare, cioè, appunto, l'ipotalamo.
Osservando lungo molti mesi lo stato generale di salute e le capacità cognitive di topi normali e di topi ai quali era stata iniettata una molecola che inibisce l'azione del fattore NF-kB si è osservata una notevole differenza. Inibendo l'azione di questo fattore si ritarda l'invecchiamento. Un ulteriore giudice autorevole e spassionato, il neuropatologo Richard Miller dell'Università del Michigan ad Ann Arbor, conferma che questi dati rendono molto plausibile la conclusione che l'intero processo di invecchiamento viene decelerato, quando si inibisce l'azione di questo fattore. I fattori molecolari, di norma, agiscono a catena, quindi, anche inibendo un enzima chiamato IKK-beta, che agisce, per così dire, a monte di NF-kB e lo attiva, si rallenta l'invecchiamento. Sopprimendo l'attività di questo enzima, la vita media dei topi trattati si allunga del 23 per cento e la massima durata della vita aumenta del 20 per cento. Un risultato che, certo, ci fa gola, se si pensa che tali trattamenti potranno essere estesi agli esseri umani. Ma questo resta per ora del tutto ipotetico. Nella catena di attivazioni e inibizioni molecolari entra un ben noto ormone, chiamato GnRH (ormone di rilascio della gonadotropina), un fattore che promuove la crescita delle reti neuronali e delle gonadi. Lo NF-kB, molecola d'un tratto divenuta infame, compete con questo ormone, producendo quindi almeno i due fenomeni più smaccati dell'invecchiamento, degrado dell'intelletto e della sessualità.
Ma, mi si consenta di insistere, tutto questo per ora riguarda solo il topo. Sarebbe insensato non tentare un allargamento di queste ricerche e il possibile sviluppo di farmaci capaci di rallentare l'invecchiamento, forse prolungare la vita e alleviare i disturbi dell'età come infiammazioni, artrite, diabete e Alzheimer. Grande quanto un fagiolo, situato alla base del cervello, l'ipotalamo era già noto come controllore del sistema simpatico, della temperatura corporea, della fame, della sete, del sonno, della fatica e perfino dell'attaccamento alla prole. Integrando tra loro le attività neuronali e le risposte immunitarie, adesso si scopre che regola anche l'invecchiamento. Due bersagli farmacologici possono rallentare questa azione. Hanno sigle esotiche: IKK-beta e NF-kB. Bloccandoli, si rallenta la vecchiaia. I dati adesso pubblicati dicono chiaramente che possibili futuri farmaci potranno solo agire dopo la maturità. I giovani sono invitati ad astenersi.

Corriere 4.
5.13
«Pedofilo a causa di un tumore», il giudice dice no
Primo stop all'uso delle neuroscienze in aula. Il gip: non è un sapere condiviso
di Luigi Ferrarella


MILANO — In un'aula giudiziaria avevano debuttato nel 2009 a Trieste, propiziando a un assassino in Appello alcune attenuanti in forza dell'idea che una variante genetica lo potesse predisporre a comportamenti violenti: poi le neuroscienze, cioè le tecniche che puntano a svelare correlazioni tra il sostrato biologico e l'attività mentale di una persona, in Tribunale a Como nel 2011 erano valse a un'assassina una parziale infermità di mente con riduzione di pena da 30 a 20 anni, e infine in Tribunale a Cremona ancora nel 2011 si erano allargate sino a far valutare come prova per condannare un commercialista anche l'«esame del ricordo autobiografico» svolto sul cervello della segretaria che aveva denunciato molestie sessuali. Ma ora in un caso di abusi in un asilo la sentenza della giudice del Tribunale di Venezia, Roberta Marchiori, sembra dare uno stop all'ingresso in tribunale delle neuroscienze.
Per il pediatra di un asilo nido di Vicenza, reo confesso di abusi su 6 bambine costatigli ora 5 anni con rito abbreviato, il tema del processo era l'ingresso o meno, come prova, della novità scientifica in base alla quale la difesa prospettava la non imputabilità per incapacità di intendere e volere al momento dei fatti. I consulenti ingaggiati dal difensore Lino Roetta, e cioè i professori Giuseppe Sartori e Pietro Pietrini, sostenevano infatti che il pediatra avesse maturato una sorta di «pedofilia acquisita», e cioè che, accanto ad alcuni deficit cognitivi, il formarsi di una massa tumorale che premeva sul cervello (scoperta dai consulenti con una risonanza magnetica) avesse inciso sulla capacità di intendere e volere, impedendogli il controllo degli impulsi sessuali. Oltre che su risonanza magnetica, colloqui clinici e test neuropsichiatrici, questa tesi si fondava sull'«Implicit Association Test» (Iat), l'«esame del ricordo autobiografico» sviluppato dall'equipe di Tony Greenwal nel 1998 per studiare la forza dei legami associativi tra concetti rappresentati nella memoria, e far emergere l'informazione implicita-inconscia che potrebbe anche non essere accessibile alla coscienza del soggetto.
A differenza che nei processi di Trieste, Como e Cremona, però, a Venezia la novità scientifica accreditata dai consulenti della difesa si è scontrata con una agguerrita controperizia dei consulenti del giudice, Ivan Galliani e Fabrizio Rasi, secondo i quali l'asserita correlazione tra alcune patologie organiche e l'orientamento pedofilo «trova fino ad oggi riscontro in un numero assai limitato di casi» indicato dalla difesa: due, uno studio del 2009 su un omosessuale che sarebbe diventato eterosessuale dopo un ictus all'emisfero destro, e uno studio del 2003 su un 40enne che dopo l'insorgere di un tumore aveva preso a molestare la figlia e che aveva smesso dopo la rimozione del tumore. Questa, ritiene pertanto la giudice Marchiori, resta «un'ipotesi (alquanto suggestiva) che può essere proposta in via sperimentale, ma che allo stato non trova conferma nel patrimonio condiviso dalla comunità scientifica di riferimento», parametro di una sentenza di Cassazione del 2010 sull'approccio dei giudici al sapere scientifico.
Quanto all'esame del ricordo autobiografico, utilizzato ad esempio sulla vittima (con il suo consenso) dal giudice Guido Salvini a Cremona nella sentenza-battistrada del 19 luglio 2011, per la giudice Marchiori «i risultati non possono ritenersi pienamente affidabili» in quanto è «una metodologia di carattere sperimentale i cui risultati non possono essere ritenuti indiscussi», soprattutto perché «non si può escludere che il ricordo, specie se riferito a situazioni complesse e protrattesi nel tempo, possa essere frutto di suggestioni o autoconvincimenti». Inoltre pesano i «dubbi sull'utilizzabilità» di questo esame che «secondo alcuni non è altro che una macchina della verità», ovvero uno strumento non ammesso dall'ordinamento italiano che «vieta l'utilizzo di metodi o tecniche idonei ad alterare il ricordo e a influire sulla libertà di autodeterminazione».

Corriere 4.5.13
Esame neurologico di arte e inconscio
di Gillo Dorfles


Forse Vienna avrebbe preferito rimanere la capitale d'un grande impero piuttosto che diventare la capitale dell'Inconscio. Eppure la grande stagione artistica, alla fine del secolo scorso e fino allo scoppio della guerra, che vide esplodere il genio creativo di artisti come Schiele, Klimt, Kokoschka, intimamente legati alle correnti psicoanalitiche dell'epoca, doveva prolungarsi oltre la fine del grande Impero asburgico.
Di questa alleanza tra la pittura d'avanguardia, la psicoanalisi e il dominio culturale di quello che fu definito inconscio, tratta con estrema precisione scientifica e insieme vivacità critica, il grande studioso Erik Kandel, Premio Nobel per le neuroscienze, insieme profondo conoscitore dell'arte contemporanea. Che ha saputo far coincidere e convivere gli aspetti artistici di quel periodo con una indagine dell'apparato neurologico tra i più approfonditi (Eric R. Kandel, L'età dell'inconscio, Raffaello Cortina Editore).
Naturalmente l'indagine di Kandel si presta a molti equivoci. Se le diverse localizzazioni cerebrali preposte alla nostra sensibilità artistica sono state da tempo esplorate non bisogna dimenticare che il concetto stesso di inconscio, posto alla base del suo lavoro, è spesso discordante con l'effettiva situazione anatomofisiologica del nostro cervello, per cui l'ampia analisi compiuta dall'autore sulle più minute strutture neurologiche non basta a suffragare il valore — sia positivo che negativo — d'un concetto come quello di inconscio, nato dagli studi psicologici dell'epoca che vide Vienna tutrice di personalità quali Freud, Adler, Jung, Weininger, Kris, eccetera, e culla di una delle più geniali tendenze pittoriche, quella, appunto, dei Klimt, Schiele, Kokoschka, nonché il rapporto tra stati di coscienza e attività creativa dell'artista, ampiamente discusso. E, tuttavia, la matrice inconscia non cessa di preoccupare lo studioso soprattutto per quanto si riferisce al versante cognitivo e «affettivo» dell'artista. Per questa ragione possiamo anche accettare che Kandel faccia riferimento o a delle strutture come l'amigdala o al lobo temporale per alcune più specifiche attivazioni cromatiche. E gli esempi possono moltiplicarsi per identificare la caratteristica delle diverse aree cerebrali.
D'altro canto, senza appesantire il discorso con troppe esemplificazioni, ritengo che si possa dire, in base a quanto afferma l'autore, che troppo spesso si tende a far entrare in gioco il fantasma dell'inconscio come giustificazione positiva o negativa di molte incomprensioni dell'arte.
Se le geniali osservazioni di Freud, di Jung, e di tanti altri studiosi hanno chiarito i meccanismi della nostra coscienza e quindi anche della nostra «conoscenza» riguardo all'attività artistica, sia creativa che fruitiva, non bisogna dimenticare che una supervalutazione dell'inconscio molto spesso non fa che confondere maggiormente quello che la nostra coscienza è perfettamente in grado di decifrare.

Corriere 4.5.13
Hitler e il mondo arabo: propaganda nazista in Palestina
risponde Sergio Romano


Tra i molteplici fiancheggiatori del regime nazista e antisemita spicca la figura di Hadj Amin El Husseini, nominato nel 1921 Gran Muftì di Gerusalemme e, secondo alcuni il più influente leader islamico, del Medio Oriente. Possiamo considerare El Husseini, oltre che padre del moderno fondamentalismo islamico, un corresponsabile dell'Olocausto?
Andrea Sillioni

Caro Sillioni,
El Husseini fu la più importante personalità islamica della Palestina durante il mandato britannico, ma il Mufti, nelle società musulmane, è un giureconsulto, vale a dire un personaggio a mezza strada fra politica e religione. Non credo che possa essere considerato un padre del fondamentalismo islamico perché fu soprattutto un nazionalista palestinese, impegnato a contrastare con ogni mezzo la dichiarazione di Balfour (con cui la Gran Bretagna aveva promesso un «focolare» all'ebraismo europeo) e gli insediamenti sionisti nella Terra promessa.
Per meglio comprendere il suo ruolo nella Seconda guerra mondiale, vale la pena di ricordare che la Germania aveva da tempo un nutrito gruppo di arabisti e specialisti del Mondo Arabo (storici, archeologi, linguisti) a cui era stato affidato il compito di studiare un piano per la creazione nella Palestina mandataria di una quinta colonna filo-tedesca e anti-britannica. Ma come poteva essere persuasivo un regime che ostentava la superiorità razziale della propria gente e trattava quasi tutte le popolazioni extra-europee come una umanità inferiore?
Il ruolo di Amin El Husseini divenne, a questo punto, decisivo. Per il Gran Mufti di Gerusalemme chiunque fosse nemico degli inglesi era il più prezioso degli alleati. Ai tedeschi disse che il fascismo, il nazismo, le ideologie antidemocratiche e naturalmente l'antisemitismo corrispondevano alle tradizioni e alle esigenze politico-sociali del mondo arabo; agli arabi che i loro interessi e il loro futuro dipendevano dalla vittoria della Germania. Quando i tedeschi lanciarono una campagna di propaganda per dimostrare che fra nazismo e islamismo esistevano straordinarie affinità elettive, El Husseini si servì della sua autorità teologica per favorire la formazione di una divisione di SS bosniache e creò un «Istituto per l'Iman», destinato ad addestrare cappellani militari. Secondo uno storico americano, Jeffrey Herf, autore di un libro sulla Propaganda nazista per il mondo arabo (Edizione dell'Altana 2009), il comandante tedesco della divisione riferì a Berlino che militari e civili, in Bosnia, avevano cominciato «a vedere nel nostro Führer la missione di un secondo profeta». Fu persino necessario decidere se fosse opportuno individuare in Hitler il Mahdi, giunto in terra «per aiutare i fedeli a fare trionfare la giustizia». Ma venne ritenuto più opportuno promuoverlo al rango di Gesù (in arabo Isa) di cui il Corano predice il ritorno come di un cavaliere «che apparirà alla fine del mondo per sconfiggere i giganti e il re dei giudei».