sabato 28 dicembre 2013

il Fatto 28.12.13
Quando diventa italiano un immigrato
Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, c’è stata una gran discussione sulla cittadinanza immediata ai bambini degli immigrati nati in Italia. E poi silenzio. Quella proposta è rinviata o affondata?
Emma

NO, NON SE NE PARLA ancora. Naturalmente ci sono le urla di Borghezio e di Salvini, che si sentono “razza pura”. Però vi sono anche voci autorevoli e credibili che mostrano o diffidenza o netta avversità. Non capisco e cerco di ricapitolare. Ovviamente prendo come esempio gli Stati Uniti, e il presidente Obama, che è il simbolo di un Paese che si integra fin dall’origine. La compattezza del tessuto nazionale americano viene proprio dal fatto che ogni persona che nasce negli Stati Uniti è subito cittadino degli Stati Uniti. Questo fatto non ha portato a ondate spaventose e incontrollabili di immigrazione. La pressione migratoria è sempre molto forte verso ogni Paese in grado di promettere lavoro e vita migliore. Ma non è più grande verso gli Usa, dove quando nasci sei cittadino, che verso il Regno Unito, dove invece non c’è questo privilegio. Quanto all’Italia la pressione è alta, data anche la nostra posizione geografica, ma la capacità sia organizzativa, sia politica e culturale del Paese, è molto bassa, devastata dai cattivi sentimenti leghisti e bloccata dalla legge Bossi-Fini che impedisce a un Paese di essere normale e moderno. Una cosa viene spesso ignorata oppure occultata: i milioni di affamati continuamente annunciati e portatori di un pericolo per questo ordinato Paese, non sono mai arrivati. Nonostante le coste, la nostra immigrazione è molto più bassa del resto d’Europa, e non ha portato alcuna conseguenza sull’ordine pubblico o la criminalità, nonostante il diffuso senso di repulsione predicato dai peggiori politici in tutto il Paese. In ogni caso finora due cose sono apparse chiare: persone e famiglie si sradicano dalla propria terra solo per disperazione (le guerre, le persecuzioni) e per ragioni economiche, nel senso di vivere un po’ meglio. Per queste due ragioni rischiano la vita (e spesso la perdono) le donne incinte che attraversano il mare. Non lo fanno per un premio anagrafico, ma per il tentativo disperato di non fare di quel bambino che sta per nascere un soldato. D’altra parte l’Italia continua a restare separata dai suoi immigrati, benché qualunque economista (conservatori inclusi) abbia dimostrato che l’immigrazione non resta a carico del Paese in cui arriva, ma lo arricchisce. Che senso ha confrontarsi con il problema di giovani che conoscono solo l’Italia e la lingua italiana, ma rischiano di essere espulsi e inviati in Paesi che non conoscono, proprio mentre sono pronti a essere utili nella sola cultura che li ha formati? Perché privarsi della quota di talento che ciascun gruppo porta con sé, dopo avergli dato ospitalità così a lungo? Perché lasciare in sospeso le vite di tante giovani persone invece di garantirsi il loro legame con l’Italia che produrrà per forza lealtà come cittadini? Perché dimenticare che siamo, anche dal punto di vista previdenziale, un Paese con molti anziani, pochi giovani e scarse nascite? Se la cittadinanza alla nascita è vietata da Borghezio e Matteo Salvini, è chiaro che si tratta di una cosa buona, da fare subito.

Repubblica 28.12.13
Rappresentanza e governabilità

di Stefano Rodotà

Vi sono temi che, tra bilancio e prospettive, consentono di gettare un primo sguardo sull’anno che verrà. Si può cominciare dalla riforma della legge elettorale, per la quale si parla di una proposta condivisa da presentare alla Camera, o addirittura da approvare in commissione, prima che siano pubblicate le motivazioni con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime alcune norme del cosiddetto Porcellum. Ipotesi assai bizzarra, poiché potrebbe accadere che, una volta note le motivazioni, si riscontri qualche divergenza tra queste e il testo all’esame del Parlamento. Con evidente e immediato effetto di delegittimazione della riforma o, comunque, dando argomenti per comprensibili polemiche su una questione così controversa. Nella materia istituzionale è sempre pessima la tentazione di creare fatti compiuti, di pensare che si possa impunemente fare un uso congiunturale delle istituzioni, perché queste hanno un più profondo spessore, che fa poi riemergere la loro logica e rivela la debolezza di una politica frettolosa.
Non ci si può semplicisticamente trincerare dietro il fatto che il comunicato della Corte costituzionale ricorda che il Parlamento è legittimato a legiferare in materia elettorale. Un riconoscimento, peraltro ovvio, che tuttavia si trova in un contesto che ha messo in evidenza i due vizi di illegittimità accertati dalla Corte, riguardanti il premio di maggioranza, punto centrale delle discussioni in corso, e le liste bloccate. Questo vuol dire, per chiunque abbia la competenza linguistica minima per leggere un testo così chiaro, che il Parlamento deve rispettare i criteri che la Corte specificherà per evitare che la legge elettorale determini una distorsione inammissibile tra voti e seggi e faccia scomparire ogni possibilità per i cittadini di scegliere i loro rappresentanti. La legalità costituzionale vale a tutto campo, e la legge elettorale non può fare eccezione.
Le ragioni del fastidio verso la decisione della Corte sono due, ed è bene parlarne con chiarezza. Da anni ha finito con il prevalere una pericolosa forzatura culturale riassunta nella formula secondo la quale le elezioni servono ad investire il governo, respingendo sullo sfondo la loro funzione di dare rappresentanza aicittadini, sì che è sembrata e sembra ancora legittima qualsiasi manipolazione delle leggi elettorali per assicurare il primo obiettivo. Quando leggeremo le motivazioni della Corte, è presumibile che ci troveremo di fronte ad argomentazioni che, ripristinando la legalità costituzionale, indicheranno il corretto equilibrio tra rappresentanza e governabilità, mentre oggi l’attenzione è spasmodicamente volta solo a quest’ultimo fine.
Vi è poi l’insofferenza determinata dal timore che il sistema elettorale determinato dall’intervento della Corte ci riporti ad un inaccettabile proporzionalismo. Di nuovo una confusione tra questioni diverse. La Corte ha fatto il suo dovere, eliminando vizi di incostituzionalità determinati da una inammissibile prepotenza politica. Spetta ora alla politica trovare la corretta via d’uscita da una situazione di cui essa porta tutta la responsabilità. E deve farlo senza adoperare argomenti tipo «torneremo alla Prima Repubblica», che sottintendono un giudizio sulla cosiddetta Seconda come una fase di cui dovrebbero essere salvaguardati non si sa quali meravigliosi benefici, mentre è davanti agli occhi di tutti il disastro politico, culturale e sociale con il quale si sta concludendo. Un osservatore acuto come Carlo Galli ha messo in guardia contro questa rimozione del recentissimo passato, ricordando che «non sta scritto danessuna parte che un sistema bipo-lare, forzato dalla legge elettorale, garantisca stabilità. Anzi, i nostri ultimi venti anni dimostrano il contrario ».
Nessuna seria politica può essere disgiunta dalla consapevolezza storica e culturale, di cui bisogna dar prova discutendo anche di un’altra questione che già divide e suscita polemiche, quella riguardante un riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. Il punto di riferimento, pure questa volta, ci porta verso la Corte costituzionale, che nel 2010 ha sottolineato la necessità di riconoscere i “diritti fondamentali” che spettano a quanti si trovano in questa condizione. Non è ammissibile, allora, che si rifiuti di affrontare questo tema chiedendo una moratoria su tutte le questioni “eticamente sensibili”. Questo è un altro retaggio della sciagurata stagione che abbiamo dietro le spalle, di cui dobbiamo liberarci senza ricorrere all’argomento sostanzialmente ingannevole del gradualismo — facciamo oggi un piccolo passo e poi si vedrà. Una linea che potrebbe essere considerata accettabile se un primo provvedimento facesse esplicitamente parte di una strategia più generale. Oggi, invece, vi è il concreto rischio che, in questo modo, si finisca con il certificare l’esistenza di una condizione italiana che preclude la possibilità di vere politiche dei diritti civili, sì che potremmo permetterci solo iniziative al ribasso, nelle quali si riflettono le impotenze della politica e non le dinamiche reali della nostra società. Che cosa sarebbe avvenuto se questa logica riduzionista e minimalista fosse stata adottata al tempo del divorzio e dell’aborto?
Un ingannevole gradualismo, infatti, sarebbe oggi pagato con il rifiuto di considerare il fatto che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha previsto che le scelte riguardanti la costituzione di una famiglia non sono più dipendenti dalla diversità di sesso, che la Corte europea dei diritti dell’uomo si muove in questa direzione e che la nostra Corte di Cassazione, nel 2012, ha riconosciuto alle coppie omosessuali il diritto alle stesse tutele previste per quelle eterosessuali. Questo è ormai il contesto all’interno del quale considerare il problema, come confermano significativi dati di realtà, come quelli riguardanti le adozioni e l’omogenitorialità, di cui una seria discussione parlamentare deve tener conto.
Temi come questo non possono più essere affrontati in maniera reticente, perché riguardano il modo in cui si stabiliscono i rapporti tra istituzioni e società. E, visto che tanto si parla della necessità di riforme, invece di pensare solo a norme che limitano la rappresentanza, sarebbe il caso di occuparsi delle leggi di iniziativa popolare, per le quali è tempo di prevedere l’obbligo dell’esame da parte delle Camere. Sono già state presentate proposte in questo senso, vi è un cenno alla fine della relazione dei Saggi, e basterebbero modifiche dei regolamenti parlamentari. Si aprirebbe così un importante canale di comunicazione tra cittadini e Parlamento, dando un segnale concreto di attenzione per la volontà popolare, che troppe volte si cerca di azzerare anche quando si è espressa attraverso un referendum, come si è appena cercato di fare in Parlamento con il tentativo, per fortuna respinto, di imporre al Comune di Roma la privatizzazione del servizio idrico in contrasto con i risultati del referendum sull’acqua. Possibile che non ci si renda conto che al rifiuto della politica, sempre più marcato, si debba rispondere proprio progettando forme di coinvolgimento più diretto, che diano ai cittadini la consapevolezza che dalla politica possa venire un valore aggiunto che incontra i loro diritti e i loro bisogni?

il Fatto 28.12.13
Grillo, all’assalto dei giornali “Aumentati i fondi pubblici”
“Da 137 a 175 milioni nel 2014”
Il sottosegretario Legnini: ridotti a 60 milioni
di Emmanuele Lentini


Prima il “giornalista del giorno”, ora “l’elemosina di Stato” all’editoria. Beppe Grillo sul suo blog ha deciso di spulciare i “bilanci dei giornali assistiti” e denunciare i finanziamenti destinati all’editoria. Già nel 2008, secondo V-Day, si scagliava contro i soldi pubblici ai giornali. Da allora la situazione per il leader del M5S è cambiata in peggio: lui calcola che i contributi sono aumentati, “dai 137 milioni di euro del 2013 ai 175 del 2014”.
Come era già accaduto per la rubrica dedicata ai giornalisti giudicati ostili dal Movimento 5 Stelle, anche in questo caso Grillo comincia con L’Unità. Grillo stila la classifica dei giornali che nel 2012 hanno ricevuto i finanziamenti pubblici.
AL PRIMO POSTO c’è Avvenire (4,3 milioni di euro), seguito da Italia Oggi (3,9 milioni). Chiude il podio L’Unità (3,6 milioni). La società che la edita, Nuova iniziativa editoriale, ha un nuovo azionista di riferimento, Matteo Fago, uno dei fondatori del portale di viaggi Venere. Sul blog ieri Grillo contesta i bilanci del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: “La media vendite del 2012 sul 2011 è diminuita del 19 per cento, con una perdita di 7.529 copie. La perdita, a livello di risultato netto dopo le imposte, nonostante i generosi finanziamenti pubblici, è stata di 4.637.124”. L’Unità è un calabrone, “non si sa come faccia a volare, ma non fallisce mai”.
Giovanni Legnini, sottosegretario all’Informazione e all’Editoria, risponde a Grillo: “I fondi sono stati drasticamente ridotti negli ultimi anni. I contributi diretti sono calati. Nel 2008 erano 243 milioni, l’anno prossimo non raggiungeranno i 60 milioni. La Guardia di Finanza svolge controlli rigorosi per evitare imbrogli”.
Nel 2008 Grillo aveva raccolto le firme per un referendum abrogativo dei contributi per l’editoria, poi naufragato a causa del mancato raggiungimento di quota 500 mila. All’epoca i contributi diretti sfioravano i 250 milioni di euro, senza contare i contributi postali e altre agevolazioni. Nel 2010 vengono aboliti i contributi indiretti (agevolazioni telefoniche, spedizioni postali, rimborsi per la carta o spedizione degli abbonamenti). Nel 2012 il governo Monti lega i contributi per le imprese e le cooperative editrici alle copie effettivamente vendute – invece che alle tirature – e al livello occupazionale. Con rimborsi delle spese per il personale e per l’acquisto della carta. Nonostante l’allarme di Grillo, le risorse dello Stato destinate al settore dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria di Palazzo Chigi, sono drasticamente calate: dai 506 milioni di euro del 2007 ai 185 milioni del 2012. La somma comprende i contributi diretti e altri interventi, come le convenzioni (Rai e agenzie italiane per i servizi esteri). Fino al 2010 erano comprese le agevolazioni postali, poi sospese. Ma lo Stato è in arretrato e continua a pagare 50 milioni l’anno.
PER QUANTO riguarda i contributi diretti, si è passati dai 280 milioni del 2006 ai 58 previsti per il 2014. Il 2 ottobre la presidenza del Consiglio dei ministri ha corretto al ribasso i sostegni diretti all’editoria per il 2012, decurtando quasi 12 milioni, e facendo calare la somma complessiva a 83 milioni.
Sono 45 le testate che hanno diritto ai contributi diretti, dai quotidiani a diffusione nazionale come L’Unità o Il Foglio (1,5 milioni) alle testate locali come Il Giornale dell’Umbria (1 milione) e il Quotidiano di Sicilia (899 mila euro). Non mancano le riviste di settore, come Motocross (272 mila euro), Sprint e Sport (332 mila euro), Il Corriere mercantile (1,4 milioni di euro) e quotidiani in lingua straniera, come Dolomiten (1,1 milioni). La legge di stabilità appena approvata prevede un fondo straordinario per l’editoria: 120 milioni nel triennio 2014-2016 legati alle ristrutturazioni aziendali e agli ammortizzatori sociali. Il sottosegretario Legnini precisa: “Quei 120 milioni sono destinati ai lavoratori e servono ad arginare la gravissima crisi del settore. Non vanno agli editori, quelle norme sono pensate per aiutare i dipendenti, in entrata e in uscita”. Di quei 120 milioni, la metà è destinata alle ristrutturazioni aziendali e agli ammortizzatori sociali, alleggerendo quindi gli editori di una parte dei costi per i pensionamenti e le nuove assunzioni.

il Fatto 28.12.13
Unità. Dell’Erario, il socio che arriva da Confindustria


Nuova sorpresa all’Unità. Nella proprietà del quotidiano fondato da Antonio Gramsci c’è infatti anche uno spicchio di Confindustria. Dal 15 novembre scorso, Alfonso Dell’Erario, responsabile della comunicazione del Sole 24 Ore - edito dall’associazione degli industriali - e direttore generale della System24 è azionista con poco meno del 14 per cento della Nuova iniziativa editoriale Spa, che pubblica il giornale, attraverso la società Partecipazioni editoriali integrate. Non si sa cosa abbia spinto il manager a investire in un’impresa che non gode di grande salute, anche se da tempo indiscrezioni di stampa lo danno in uscita dal Sole 24 Ore, dove il mancato raddrizzamento dei conti ha creato non pochi grattacapi alla dirigenza. Interpellato dal Fatto, Dell'Erario tiene a precisare che “la quota è di proprietà della mia ex moglie Maria Claudia Ioannucci e io ne sono solo un temporaneo intestatario”. La Partecipazioni editoriali integrate, ha come amministratore unico Fabrizio Meli, che è allo stesso tempo amministratore delegato dell’Unità, dopo la ricapitalizzazione da 5 milioni di euro che ha portato Matteo Fago a diventare (col 51 per cento) il nuovo socio di riferimento del quotidiano diretto da Luca Landò. L’imprenditore online e creatore di Venere.com  ha scalzato come socio di maggioranza Renato Soru, fondatore e ad di Tiscali, già presidente del centrosinistra in Sardegna, che si era preso in carico l’Unità sperando in un ruolo sempre più importante nel Pd.

Il Fatto on line 28.12.13
Lo “zampino” di Confindustria nell’Unità. Manager investe nonostante i conti in rosso
Alfonso Dell’Erario, responsabile della comunicazione del Sole 24 Ore e direttore generale della System24 è azionista con poco meno del 14% della Nuova iniziativa editoriale Spa, che pubblica il giornale fondato da Gramsci, attraverso la società Partecipazioni editoriali integrate
di Camillo Dimitri
qui, segnalazione di Monica Angelini, Francesco Maiorano, Franco Pantalei

il Fatto 28.12.13
I consumatori: nel 2014 batosta da 1.384 euro


UN’ENNESIMA stangata di prezzi e tariffe si abbatterà sulle famiglie italiane dal 1 gennaio 2014. Secondo Adusbef e Federconsumatori l’aggravio sarà di 1.384 euro a famiglia. Le due associazioni spiegano che le ragioni di questi aumenti “non sono solo legate alle solite volontà speculative, ma anche a nodi irrisolti della nostra struttura economica, in tema di competitività e di oppressione burocratica” e ai “servizi pubblici che scaricano sprechi, inefficienze e clientelismo su prezzi e tariffe”. Ecco nel dettaglio gli aumenti previsti: Alimentazione (+5%): 327 euro. Trasporti (Treni e servizi locali): 81 euro. Servizi bancari + mutui + bolli + tasse: 61 euro. Carburanti (comprese accise regionali): 108 euro. Derivati del Petrolio, detersivi, plastiche: 118 euro. Assicurazione auto (+5%): 53 euro. Tariffe autostradali (+3%): 57 euro. Tariffe gas: -55 euro. Tariffe elettricità: -21 euro. Tariffe acqua (+5-6%): 22 euro. Iuc (Tari-Tasi-Differenziale Imu): 195 euro. Riscaldamento (+4%): 44 euro. Addizionali territoriali: 156 euro. Scuola (mense-libri): 74 euro. Tariffe professionali-artigianali: 116 euro. Tariffe postali: 48 euro. Totale: 1.384 euro.

Corriere 28.12.13
Il piano di Renzi sulla legge elettorale
A gennaio il testo per un’intesa ampia
L’idea di un’iniziativa forte. Si lavora sul Mattarellum «rafforzato»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Renzi morde il freno. Non ama i tempi lenti e tanto meno quelli morti. Ma Letta, nell’incontro che hanno avuto dopo l’elezione del sindaco a segretario del Pd, gli aveva chiesto di non muoversi sino alla fine dell’anno per consentire al governo di mandare in porto la legge di Stabilità e gli altri provvedimenti urgenti.
Ma ora che il tempo sta per scadere Renzi si prepara a sferrare la sua iniziativa. È prevista per i primi dieci giorni di gennaio. E riguarderà la riforma del Porcellum. Sarà un’iniziativa importante, promette il segretario ai pochissimi con cui ne parla. Ma la verità è che sono solo in quattro o cinque a sapere di che cosa si tratti. C’è un indizio, però. Ossia il lavorio incessante sulla materia della legge elettorale. E allora, visto che sanno tutti che il segretario ha fretta, non è poi così difficile capire di che si tratti: Renzi a gennaio presenterà la proposta di riforma elettorale del Pd. Sarà una proposta che andrà oltre l’ambito della sola maggioranza. Perché, come ha sempre detto il sindaco di Firenze, «non possiamo ripetere l’errore che venne commesso con il Porcellum. La revisione dei sistemi elettorali non si può fare a colpi di maggioranza».
Perciò in fondo in fondo questi tempi morti e la pausa festiva non sono dispiaciuti a Renzi: gli sono serviti per lavorare al suo obiettivo. Nel quartier generale del segretario le bocche sono cucite. Anzi cucitissime. Il Pd, come si sa, preferirebbe il doppio turno. E giusto l’altro giorno Alfano ha ribadito che il Nuovo centrodestra è dispostissimo a confrontarsi su questo terreno. Ma è un sistema elettorale che non piace nè a Forza Italia nè ai grillini. Gli unici fuori dell’ambito della maggioranza che potrebbero accettare il doppio turno sono i parlamentari di Sel. Anche se uno di loro, uno di quelli che sta seguendo le trattative sulla riforma, spiega: «Secondo me è un errore perché tiene in vita i partitini, però è sempre meglio di schifezze come lo spagnolo o altri pasticci proporzionalisti, quindi ci possiamo accontentare».
Il Pd versione Renzi crede che quando si cambiano le regole del gioco bisogna coinvolgere più forze possibile. E non importa se il centrodestra a suo tempo non lo fece. Non è certo un buon motivo per seguire quell’esempio, per imporre alle opposizioni un cambiamento su una materia così delicata. È per questa ragione che si sta continuando a lavorare sul «Mattarellum rafforzato», studiandone tutte le possibili varianti per riuscire a raggiungere un’intesa la più larga possibile.
Dai renziani non trapela nulla. Certo, però, è che chi conosce il segretario del Pd , dubita che un tipo come lui possa presentare una proposta senza avere in tasca già un accordo ampio. E, comunque, alla peggio, alla commissione Affari costituzionali della Camera è stato già depositato il ddl Nicoletti, firmato dai rappresentanti di tutte le diverse anime del Partito democratico, e anche da deputati di Sel.
Finisca come finisca, quello che Renzi ha capito, e non certo da ora, è che lui ha a disposizione «due, tre mesi di tempo» per «segnare una svolta nel Pd», «per imprimere un cambiamento», altrimenti «rischio di fare la fine di Walter, che con tutto che aveva stravinto le primarie, ha subìto un logoramento quotidiano». Quindi bisogna muoversi adesso. Anche sul Job act. Perciò Renzi non vuole assolutamente che il ministro Quagliariello metta bocca sui sistemi elettorali: «Lui una legge non la farebbe mai». Meglio che il governo si occupi del lavoro, «trasferendo in un decreto il Job act» che lo staff del Pd sta scrivendo.
Già con il Ncd Renzi e i suoi continuano a mantenere le distanze. Come dimostra l’ironia con cui Maria Elena Boschi commenta le aperture di Alfano a un confronto sulla riforma elettorale: «Noto che ha avuto quello che noi avvocati chiameremmo un ravvedimento operoso rispetto al Porcellum...».

Corriere 28.12.13
Effetto sindaco: «fuga» da destra, Monti e 5 Stelle verso il Pd
di Renato Benedetto


MILANO — Elettori infedeli, pronti al tradimento o all’abbandono. Solo il 41% rivoterebbe adesso lo stesso partito scelto a febbraio alle Politiche. Poco di più, il 55%, la stessa coalizione. Il resto, in caso di elezioni, è pronto a cambiare partito o preferire l’astensione. E chi ci guadagnerebbe, da questa situazione, è il centrosinistra, soprattutto il Pd a guida Renzi. Verso cui si indirizzano, più che per altri, le intenzioni di voto degli infedeli che non intendono confermare la scelta di febbraio. La ricerca di Lorenzo De Sio e Aldo Paparo del Cise (rilevazioni dal 16 al 22 dicembre) parla di «una grande turbolenza delle intenzioni di voto», con «una mobilità significativa». Pur nella turbolenza, il vento soffia a vantaggio del Pd: in maniera così marcata da spingere, per la prima volta, i ricercatori a non presentare i risultati delle rilevazioni sulle intenzioni di voto (comunque «ben oltre quei sei punti di “effetto Renzi” individuati da vari istituti nelle ultime settimane»). Si trovano nel centrosinistra gli elettori più fedeli: l’80% rivoterebbe la coalizione. Inoltre, un decimo di quanti si sono astenuti a febbraio dichiara che, se si votasse adesso, sceglierebbe Pd. Stessa scelta che farebbe un elettore su 4 dei montiani, il 15% di chi ha votato Cinquestelle e il 13% del centrodestra. Il Movimento di Grillo e Forza Italia registrano tassi bassi di fedeltà: meno della metà dell’elettorato confermerebbe ora la preferenza di febbraio. Altri due aspetti, per i ricercatori, accomunano le due forze ora all’opposizione: un flusso verso l’astensione superiore a un terzo del proprio elettorato e rilevanti passaggi verso il centrosinistra. Peggiori i dati del centro: un elettore su tre che a febbraio si era affidato alla coalizione di Monti cambierà scelta. C’è da essere prudenti, trattandosi di intenzioni di voto. Eppure «appare sorprendente», spiegano i ricercatori del centro diretto da Roberto D’Alimonte, che a pochi mesi dalle Politiche quote molto importanti di elettori riferiscano che cambierebbero voto: «A nostro parere è difficile non mettere i dati osservati in relazione con l’emersione nel centrosinistra della leadership di Renzi. Si sa da tempo che il sindaco ha una capacità di comunicazione che va oltre il bacino tradizionale del centrosinistra e i dati sembrano confermare questa ipotesi». Giorni fa proprio uno studio del Cise spiegava come Renzi, alle primarie, abbia conquistato gli elettori di sinistra, trovandosi ora di fronte alla vera sfida: allargare la base. Ovvero, confermare questi dati alle prossime elezioni.

il Fatto 28.12.13
Dopo le primarie
Sorpresa, l’elettore di Renzi è di sinistra


Meno interessato alla politica della media, più operaio che pensionato, praticante anche se con moderazione ma, soprattutto, di sinistra. Il profilo dell’elettore renziano tratteggiato dall’Osservatorio politico Cise sulla base dei dati delle ultime primarie conferma alcune caratteristiche dell’'appeal' elettorale del segretario del Pd, ma indica un dato per certi versi inatteso: Renzi ha sfondato a sinistra. Le conclusioni dello studio del Centro italiano studi elettorali parlano chiaro: “Il profilo degli elettori di Renzi presenta delle specificità che lo discostano da quello dell’elettore medio delle primarie” e “si caratterizza per una maggiore trasversalità politica e ideologica e per un minore grado di coinvolgimento politico in termini motivazionali. Tuttavia, rispetto alle precedenti primarie, la trasversalità politica di Renzi è meno marcata, anche a causa di un evidente sfondamento elettorale a sinistra”. Inoltre, si spiega ancora, “le caratteristiche sociodemografiche dell’elettore di Renzi sono simili a quelle dell’elettore medio delle primarie, se si eccettua il fatto che Renzi mostra una presa maggiore sugli operai e sui cattolici praticanti saltuari, mentre ha una minore capacità di attrazione verso i pensionati e i non praticanti”.
SECONDO IL CISE, quindi, “Renzi ha vinto perché è riuscito a imporsi nella tradizionale constituency del Pd, quella che aveva incoronato Bersani candidato premier”. I dati analizzati dal Ci-se, comunque, confermano il profilo elettorale trasversale del rottamatore. “Renzi ottiene consensi superiori alla media generale dei votanti alle primarie tra chi aveva votato il M5S, il centrodestra e, soprattutto, la coalizione di Monti – si spiega –. In quest’ultimo caso gli elettori centristi di Renzi costituiscono il 14% del suo elettorato, ossia 4,4 punti percentuali in più rispetto agli elettori di Monti nel totale dei votanti alle primarie”. Per il resto, “gli elettori di Renzi sono composti per il 61% da intervistati che si collocano a sinistra, per il 16,6% da intervistati che si collocano al centro e per il 18,6% da intervistati che si collocano a destra (i non collocati infine sono il 3,8%). Pur essendo nettamente la maggioranza assoluta, gli elettori di Renzi di sinistra sono sotto-rappresentati di 6,5 punti percentuali rispetto a coloro che si collocano a sinistra nel totale dei votanti alle primarie. Al contrario, rispetto alla media, tra gli elettori di Renzi gli intervistati di centro e di destra sono sovra-rappresentati”.

Repubblica 28.12.13
Landini: “Non si tratta di sospendere l’articolo 18, ma solo di allungare il periodo di prova”
“Dico sì al contratto unico di Matteo ma il cambiamento non si fa con Ncd”
di Roberto Mania


ROMA — Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, dice sì al contratto unico proposto da Matteo Renzi, leader del Pd. «Quella del contratto unico – spiega il sindacalista – può essere la strada per ridurre la precarietà. E allora bisogna avere il coraggio di confrontarsi con una dimensione nuova».
Perché dice sì al contratto unico? La Cgil è finora stata prudente, se non contraria, a questa proposta.
«Dico sì al contratto unico se vuol dire cancellare una serie di forme contrattuali inutili che hanno soltanto precarizzato il mondo del lavoro. Dico basta ai contratti di collaborazione, alle false partite Iva, al lavoro interinale, a quello a progetto. Bisogna guardare in faccia la realtà e smetterla di fingere: sono contratti che non servono né alle imprese né ai lavoratori. Penso che Renzi voglia aprire una fase nuova ».
Quali forme contrattuali salverebbe?
«Il contratto a tempo indeterminato, l’apprendistato, il contratto a termine e il part time. Con il contratto unico a tempo indeterminato verrebbe allungato solo il periodo di prova ».
Nei fatti significherebbe una sospensione temporale dell’articolo 18 per i nuovi assunti. La Fiom rinuncia all’articolo 18 dopo le battaglie che sono state fatte in questi anni?
«Ma no, non è così. Vorrei far notare, intanto, che tutti quei lavoratori precari non hanno né diritti né tutele. Aggiungo che l’articolo 18 è stato modificato e non ha creato più occupazione bensì più licenziamenti per ragioni economiche. Il contratto unico a tempo indeterminato avrebbe tutte le tutele, si tratterebbe solo di allungare ilperiodo di prova».
Di quanto?
«Se ne dovrà discutere. Mi limito a ricordare che nel settore metalmeccanico la prova dura da due a tre mesi per la basse qualifiche e fino a sei mesi per quelle più alte».
Un anno andrebbe bene?
«Sarà oggetto della discussione. Servirà un periodo congruo durante il quale verificare gli interessi delle imprese e dei lavoratori ».
È di questo che ha parlato con Renzi quando lo ha incontrato?
«Per ora ho capito che Renzi vuole ridurre la precarietà e che condivide la necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale».
Di questa sua posizione ha
discusso con il segretario della Cgil, Susanna Camusso?
«C’è un’idea generale della Cgil di estendere le tutele a tutti i lavoratori. Dal mio punto di vista quella prospettata da Renzi può essere una strada».
Quindi è la posizione della Fiom, non della Cgil?
«È in corso il congresso della Cgil. Avremo modo di discuterne ».
Dunque lo scambio tra lei e Renzi è il seguente: lei dice sì al contratto unico e Renzi sostiene la proposta della Fiom per una legge sulla rappresentanza sindacale. È così?
«Secondo me l’epoca degli scambi è finita. Io penso a problemi concreti: alla precarietà, da una parte, che mina la vita delle persone; alla necessità, dall’altra, che i lavoratori possano scegliere il sindacato al quale iscriversi e dire la loro sugli accordi che li riguardano. È un diritto di cittadinanza, non un interesse della Fiom».
Renzi propone anche un sussidio di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro in sostituzione dell’attuale cassa integrazione. Lei è d’accordo?
«No. Penso che la cassa integrazione vada estesa a tutti i settori e che vada finanziata con i contributi di imprese e lavoratori. Poi è necessario introdurre un reddito minimo garantito a carico della fiscalità generale. Non penso, però, che il governo Letta- Alfano sia in grado di farlo».
Proprio Alfano, intervistato daRepubblica, ha proposto di superare i contratti nazionali a vantaggio di quelli aziendali e individuali. Che ne pensa?
«Che mentre Renzi prova a immaginare cosa possa essere l’Italia tra vent’anni, Alfano propone una logica che ci riporterebbe all’Ottocento. Mi domando come possano stare insieme il piano per il lavoro di Renzi e le idee ottocentesche di Alfano. Questo è il governo che può realizzare il cambiamento nel mercato del lavoro che indica il segretario del Pd?».
C’è un’alternativa?
«Non sarebbe meglio approvare una legge elettorale seria e andare a votare per avere poi un governo in grado davvero di cambiare questo Paese?»

il Fatto 28.12.13
L’affaire kazako
La Shalabayeva è tornata in Italia, ma Alfano non ha pagato
di Valeria Pacelli


La giornata in Italia di Alma Shalabayeva è iniziata alle 12.10 di ieri quando l’aereo di linea da Francoforte è atterrato a Fiumicino. Ad aspettarla, c’erano gli altri due figli Madina e Madiyar, arrivati da Ginevra. La moglie del dissidente kazako Mukthar Ablyazov è felice di ritornare nel Paese che, il 30 maggio scorso, ha firmato l’espulsione “illegittima” per lei e la figlia Alua e l’ha rispedita in patria. Alma ha tenuto una conferenza stampa in un hotel di via Veneto, a Roma, senza chiarire ai giornalisti se avesse avuto contatti con il Viminale, tantomeno ha fornito una spiegazione per ciò che le è accaduto quando, dopo aver subito un blitz nella villa a Casalpalocco, è stata messa su un aereo per il Kazakistan. Anzi, Alma ringrazia l’Italia, l’informazione “indipendente”, i “bambini e i genitori della scuola di Casalpalocco” che frequentava la figlia per “quei video messaggi che mi hanno veramente toccata”. E ringrazia Emma Bonino, “una donna coraggiosa che mi ha aiutato in questa situazione”. Ed è proprio al ministro degli Esteri che dedica la sua prima visita dopo la conferenza stampa. “Mi ha fatto piacere condividere con la signora Shalabayeva e i suoi figli la gioia di essere di nuovo qui – ha commentato la Bonino – All’inizio di giugno sembrava impensabile ottenere questo risultato, ma ci siamo riusciti”. Così Alma Shalabayeva fa il suo ritorno in Italia, dopo i mesi trascorsi in Kazakistan, in una casa dove – ha raccontato ieri – lei e la figlia erano “costantemente controllate. C’erano persone che ci facevano foto e video. Ho temuto per la vita di mia figlia”. L’unica spiegazione dell’accaduto fornita dalla Shalabayeva riguarda il marito: “Hanno rapito me e mia figlia a causa di mio marito. Ci hanno lasciate andare sempre a causa di mio marito: i kazaki sperano ora che apparire civili li aiuterà a ottenere la sua estradizione dalla Francia”. Uno scambio che – aggiunge l’avvocato dei figli, Peter Sahlas – Astana sta ancora tentando: “La libertà di Alma è solo temporanea. Non esiteranno a cercare di arrestarla se non ritornerà. Il loro piano è di trasformarla, se necessario, da ostaggio in latitante. Tutto dipende da cosa succederà ad Ablyazov.” La donna ha un premesso di espatrio di soli 90 giorni.
NESSUNA PAROLA sul presunto coinvolgimento dell’Eni, attivo in Kazakistan (ma su questo indaga la Procura di Roma, dopo le notizie date da un anonimo a Report). Il deputato Cinque Stelle, Alessandro Di Battista, arrivando d’improvviso in conferenza stampa, ha assicurato: “Adesso ci occuperemo noi, come opposizione, di capire se l’Eni è coinvolta nella sua espulsione”.
I prossimi non saranno giorni facili per Alma Shalabayeva. A gennaio verrà interrogata dal pm Eugenio Albamonte che l’ha indagata per detenzione di un passaporto falso. Al magistrato Alma dovrà raccontare anche le modalità del rimpatrio in Kazakistan. Per le presunte irregolarità legate all’espulsione, infatti, sono indagati per sequestro di persona l’ambasciatore del Kazakistan in Italia, Andrian Yelemessov, il consigliere per gli affari politici e l’addetto agli affari consolari. Nei prossimi giorni la donna andrà dal marito Ablyazov e poi probabilmente lascerà l’Italia, anche se non ha ancora deciso la destinazione. “La maggiore preoccupazione – spiega la Shalabayeva – era quella di ricevere una provocazione, e soprattutto temevamo per i nostri figli”. Ad essere deportata in Kazakistan, infatti, c’era anche una bambina di 6 anni. Sono susseguiti imbarazzi generali: il “non sapevo” del ministro dell’Interno Angelino Alfano, le dimissioni del suo capo di gabinetto Giuseppe Procaccini, le inchieste giudiziarie e i sospetti per gli interessi economici che potrebbero celarsi dietro questa storia.

il Fatto 28.12.13
Il capro espiatorio Giuseppe Procaccini
“Anche lei deve chiarire i suoi troppi silenzi”
di Marco Lillo


Giuseppe Procaccini è in campagna con la sua famiglia nel giorno in cui Alma Shalabayeva torna in Italia con la figlia Alua. L’ex capo di gabinetto di Alfano è l’unico che si è dimesso a luglio. Mentre il ministro Alfano è rimasto al suo posto. “Per me un uomo di Stato si prende la responsabilità anche quando non è sua”, dice al Fatto .
Procaccini dopo le dimissioni disse che non dormiva al pensiero di Alma e Alua. Oggi cosa direbbe alla signora?
Sul piano umano sono più sereno ora che è tornata. Mi dispiaceva pensare a una donna trattenuta contro la sua volontà. Però le chiederei anche perché non ha detto nulla in quelle ore sulla sua condizione. E perché non hanno detto nulla i suoi avvocati. Qualcosa non mi convince ancora oggi in questa storia.
Certo è stato anomalo anche il comportamento della Polizia
Anche io oggi mi chiedo, di fronte a un attivismo così esaperato ed esasperante dell’ambasciatore del Kazakistan, di fronte all’eccesso di zelo e alla presenza di un’agenzia investigativa sul posto, come mai non sia scattata una lampadina in chi agiva, anche se all’inizio Ablyazov era stato presentato come un grande criminale.
Ma non sarà che quella lampadina non scattò proprio perché la Polizia era stata avvertita che quell’operazione interessava al ministro dell’interno Alfano?
Non penso. Quando c’è una segnalazione di un pericoloso ricercato, come quella dell’Interpol, con l’ambasciata del Kazakistan che dice che possono esserci uomini armati nella villa, è ovvio che si agisca così.
Quindi non c'è stata un'anomalia?
L’anomalia è sicuramente un ambasciatore che si presenta a notte fonda al ministero. Ma è un’anomalia relativa perchè prima era stato negli uffici della Polizia.
É una doppia anomalia se è preceduto dalla telefonata del ministro dell’interno al capo di gabinetto. Cosa le disse Alfano?
Mi disse “io non so come fare, c’è l'ambasciatore kazako che mi vuole vedere per una vicenda che può interessare, per la sua pericolosità, la pubblica sicurezza”. Il ministro mi disse di riceverlo ma non mi parlò di Ablyazov. Allora io andai nell’ufficio a incontrarlo. Certo è una cosa molto singolare. Ma bisogna vedere il contesto: non c’era il Capo della Polizia. Era notte. L’ambasciatore è venuto nel mio ufficio alle nove e mezza di sera.
Alfano non le ha mai detto come entrò in contatto con l'ambasciatore kazako. Qualcuno lo racomandò? Magari il collaboratore di Berlusconi, Valentino Valentini, o l'Eni come ha sostenuto un testimone anonimo in un’intervista a Report?
Io Valentini non lo conosco nemmeno e non so chi avesse interessi in questa storia. Una cosa è certa: non c’è stata alcuna connivenza degli apparati del ministero dell’interno.
Nessuna telefonata dall’Eni o da altri politici?
Magari. Mi sarei insospettito.
Davvero nessuno le disse nulla del rimpatrio con un volo privato di madre e figlia?
Io non sapevo nulla del rimpatrio della signora. Quando la vicenda è uscita io ho chiesto una relazione. Molti giorni dopo il blitz nella villa di Casal Palocco, solo quando è esploso il caso sulla stampa, ho riletto un messaggio inviatomi dal capo della segreteria del Dipartimento, Alessandro Valeri, sul mio telefonino, il giorno dopo la venuta dell’ambasciatore kazako.
E cosa c’era scritto?
Il prefetto Valeri mi informava che era stato effettuato quell’intervento per quel ricercato dall'Interpol. Aveva dato esito negativo e lui avrebbe avvertito l'ambasciatore Kazako. Punto.
Non una parola sull'espatrio della moglie e della figlia?
Nulla.
Eppure si è dovuto dimettere.
Non volevo si dicesse che nessuno pagava. Allora ho detto: ’Mi prendo la responsabilità e vi do un segnale: nella vita un uomo di Stato è responsabile anche quando non lo è'. Se uno avverte il peso della funzione esercitata deve essere pronto anche a dimettersi.
Alfano e il ministro Cancellieri, invece, restano al loro posto.
Ognuno è fabbro della propria fortuna. Se si fa qualcosa per gli altri si è fatto per sé stessi. Il mio gesto è servito a mettere al riparo la Polizia e a dimostrare che non siamo gli utili idioti della politica.
Ma almeno Alfano l’ha chiamata dopo?
Mi ha fatto più di una telefonata. Un giorno sono tornato al ministero per alcune pratiche, lui l’ha saputo e ha voluto incontrarmi perché era dispiaciuto. Si è reso conto che le istituzioni vanno coltivate e bisogna ridare fiducia.
Ma Alfano lì per lì non mi pare che abbia preso male le sue dimissioni. Non disse una parola in sua difesa.
Io sono più anziano e l’esperienza conta in queste cose.

il Fatto 28.12.13
Ragion di Stato. Il ministro dello scandalo
Alfano si sente ancora intoccabile e non spiega
di Marco Lillo


Quante cose sono cambiate dal luglio scorso. Alma Shalabayeva e la figlia Alua sono tornate dal Kazakistan. Matteo Renzi è diventato segretario del Pd; Silvio Berlusconi non è più l’azionista di maggioranza del governo di Enrico Letta. Un po’ di teste sono rotolate giù dal Viminale per salvare la dignità del Palazzo: il capo di gabinetto del ministro, Giuseppe Procaccini, si è dimesso e il capo della segreteria del Dipartimento, il prefetto Alessandro Valeri, è stato sostituito.
Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano resta al suo posto, più saldo che a luglio. Le ragioni politiche che ne hanno permesso la sopravvivenza oggi sono ancora più forti di allora: l’esile filo che tiene in vita il governo è passato dalle mani di Berlusconi alle sue. Anche le ragioni di opportunità che avrebbero consigliato le dimissioni però si sono rafforzate. Non a caso ieri ha preferito parlare di altro invece che salutare il rientro della signora Ablyazov e di sua figlia. Per capire perché Alfano non dovrebbe stare più in quel posto bisogna ascoltare le parole dette dal prefetto Procaccini al Fatto : “Un uomo di Stato è responsabile anche quando non lo è. Se si avverte il peso della funzione esercitata, bisogna essere pronti a dare le dimissioni come ho fatto io”. Ecco perché Alfano non è un uomo di Stato. Le dimissioni del responsabile politico tutelano la dignità di un’istituzione che fallisce i suoi obiettivi primari e garantiscono che i diritti fondamentali saranno tutelati al massimo livello proprio perché, in caso di violazione, a rimetterci sarà il responsabile a livello politico.Ecco perché, come spiega il prefetto Procaccini nell’intervista al Fatto , i suoi colleghi al ministero sono rimasti sgomenti nel vedere come sia stato abbandonato al suo destino. I prefetti del ministero, dopo il suo addio, hanno scoperto di non avere alcuna copertura politica. Pensavano di essere funzionari dello Stato e invece si ritrovano nel ruolo di burattini. Devono scattare come servi quando bussa l’ambasciatore amico ma poi, quando scoppia lo scandalo, devono comportarsi come i fusibili in un circuito, che saltano per salvare il sistema.

il Fatto 28.12.13
L’ex delfino: “Il futuro è l’alleanza con Berlusconi”


PER DODICI MESI noi vogliamo realizzare delle cose importanti per l’Italia e per gli italiani con questo governo dopodiché, siccome la legge sarà bipolare, o si starà di qui o si starà di lì, noi intendiamo stare nel centrodestra e realizzare la profonda innovazione del centrodestra attraverso le primarie, dunque crediamo che sarà possibile una nuova alleanza con Forza Italia”. Lo afferma il vicepremier e leader di Ncd, Angelino Alfano al Tg1 delle venti. E così dopo poco più di un mese dalla drammatica scissione col suo padre politico, il vicepremier è pronto ad ammetterlo: il suo futuro è con loro, con gli ex colleghi di partito. E il governo è solo una parentesi. Evidentemente sempre più breve.

il Fatto 28.12.13
Roma vicina al collasso: Comune col buco intorno
La prima legge salva-Capitale arrivò cent’anni fa, l’ultima ieri
Perché? Semplice: 10 miliardi di debito storico, un altro miliardo dal 2008 a oggi
di Narco Palombi


Il buco nei conti del Comune di Roma – di per certo la più sottofinanziata tra le capitali occidentali – è vecchio come l’Italia: basti pensare che una prima legge straordinaria per ripianarlo arrivò addirittura ai tempi del sindaco Natan, cent’anni fa, e l’ultima ieri, col decreto Milleproroghe. L’era contemporanea di questo eterno pasticcio inizia invece in una giornata di giugno del 2008 nello studio del presidente della Camera, che all’epoca era Gianfranco Fini. All’interno, oltre al padrone di casa, i ministri Giulio Tremonti e Roberto Calderoli più Gianni Alemanno, da pochi giorni – a sorpresa – sindaco di Roma. Presente in spirito il gran visir del Cavaliere, Gianni Letta, ufficiale di collegamento con Walter Veltroni e il Pd. Fu quel giorno che il quartetto individuò la fantasiosa soluzione per il disastrato bilancio della Capitale con cui facciamo i conti oggi: invece di aprire la procedura di dissesto, se davvero serviva, si decise di creare una sorta di bad company. In sostanza una struttura commissariale governativa – guidata inizialmente dallo stesso Alemanno – che avrebbe dovuto accertare l'entità del debito del comune al 24 aprile 2008 e programmarne l'estinzione con cospicui finanziamenti statali, lasciando la gestione ordinaria libera da vincoli (in realtà oggi al comune tocca partecipare all'estinzione del pregresso con una rata da 200 milioni l'anno).
FINCHÉ C'È IL COMMISSARIO, dice poi il decreto, si agisce in deroga alla legge: solo che il commissario non ha una data di scadenza e infatti è ancora lì, anche se nel frattempo è cambiato il sindaco e pure un paio di commissari (dal 2010 è Massimo Varazzani, un tempo vicino a Giulio Tremonti, che è pure amministratore delegato di Fintecna).
Stabilito questo, si aprono due ordini di problemi. Primo: quant’è il debito storico? Per anni non si è avuta una stima ufficiale. Alemanno lo quantificò inizialmente in 8,6 miliardi di euro: 6,8 di debito storico, spesso risalente al contenzioso urbanistico degli anni Cinquanta o ai mancati trasferimenti per il trasporto locale, il resto “extra” (cioè nascosto da Veltroni, dice il centrodestra). Poco dopo, il sindaco cambiò idea: il buco è di 9,6 miliardi sostenne – nel dicembre 2008 – l’allora assessore al Bilancio Castiglione; nel 2010 il suo sostituto Maurizio Leo (che poi perse il posto pure lui) lo quantificò addirittura in 12,3 miliardi. Quando quest’anno è finalmente arrivata in Parlamento la relazione ufficiale del commissario Varazzani, il quadro era questo: un debito complessivo di 22,4 miliardi di euro a fronte di crediti per 5,7, cioè un buco di 16,7 miliardi compresi gli oneri finanziari. Per i numeri che ci interessano, insomma, il debito vero – cioè netto – del comune di Roma si aggirava sui dieci miliardi di euro, oggi ridotti a otto e mezzo, e il suo ammortamento ai ritmi attuali è garantito solo fino al 2017, dopo bisognerà aumentare le rate (ma ancora non si sa come).
MA ALLORA perché c’è bisogno di “salvare” Roma subito? Semplice: perché il debito non ha smesso di accumularsi nemmeno in quella che doveva essere la good company, cioè nella gestione ordinaria dal 2008 in poi. Secondo l’agenzia di rating Ficht, durante i cinque anni della giunta Alemanno i deficit annuali complessivi ammontano a oltre un miliardo di euro e questo nonostante i romani paghino da tempo un’addizionale Irpef doppia rispetto a prima (dallo 0,5 allo 0,9 per cento), un bel po’ di Imu sulla casa e una tassa di imbarco aeroportuale da un euro che colpisce chiunque passi dalla Capitale. Per Ignazio Marino, invece, il debito attuale è un po’ inferiore: 867 milioni, che comunque mettono a rischio la capacità del Comune di pagare gli stipendi e garantire i servizi. Tradotto: default e commissariamento.
La risposta è, appunto, il Salva Roma, oggi Milleproroghe. Che cosa fa questo magico decreto? Si limita a spostare oltre 400 milioni di debiti dal bilancio del comune a quello della gestione commissariale, a stanziare – se saranno confermate le indiscrezioni – circa 20 milioni per la raccolta differenziata nella Capitale e oltre un centinaio per il trasporto pubblico locale (senza contare i 100 milioni per finire la famigerata Nuvola di Fuksas all’Eur). A spanne, in ogni caso, mancano almeno 300 milioni sullo stock degli ultimi cinque anni e va appianato un deficit annuale che al 2013 si aggirava sui 250 milioni di euro (sempre dati Ficht) al netto delle municipalizzate.
Come si fa? Le risposte sono diverse: un ulteriore aumento dell’addizionale Irpef all’1,2 per cento è stato bocciato dal sindaco nonostante l’assessore al Bilancio, Daniela Morgante, lo giudichi quasi obbligatorio; quasi certamente invece le aliquote della nuova Iuc sulla casa saranno ai massimi in tutte le categorie; c’è poi il capitolo – ambizioso quanto incerto – dismissioni immobiliari e risparmi sugli affitti; infine il grande tema delle azioni Acea, che Marino vuole tenere, e dei pessimi bilanci delle municipalizzate come Atac o Ama (con relativa necessità di sfoltire il personale in eccesso con circa 4 mila prepensionamenti). Idee che hanno tutte un loro senso, tanto che erano state avanzate già negli anni scorsi senza che nessuno le abbia mai messe in pratica. Ne discuteremo nel 2014, al prossimo decreto Salva-Roma.

il Fatto 28.12.13
Dissesti
Atac, tre mesi posson bastare


Il leghista Massimo Bitonci la descrive così: “Buonuscita milionaria a dirigenti incapaci. 12.000 dipendenti. 1,6 miliardi di perdite in 10 anni, peggio di Alitalia”. È l’Atac, l’azienda di trasporto pubblico romano, sul quale il Carroccio lancia l’altolà: badi il governo a non finanziare ulteriormente questo carrozzone. Guido Improta, assessore alla Mobilità del Comune di Roma, nel medesimo giorno, lancia la mini-proroga Atac-Campidoglio: “Abbiamo prorogato il contratto di servizio di Atac che affida all’azienda il trasporto pubblico fino al 31 marzo 2014”. Tre mesi soltanto. “Il tempo che ci prendiamo da oggi al 31 marzo – spiega – ci serve per raggiungere due obiettivi”. Il primo dei quali è: “Ottenere dal governo nazionale, attraverso i decreti attuativi Roma Capitale e con il concorso della Regione Lazio, le risorse indispensabili per un servizio di qualità”. Lega avvisata.

Repubblica 28.12.13
L’intervista
Il sindaco di Roma, Marino: “Non aumento l’Irpef, centro unico di spesa per risparmiare”
“La Capitale respira, ora rigore risanerò le aziende senza privati”
di Paolo Boccacci


Sindaco Marino, Roma ha ricevuto la possibilità di recuperare dalla gestione commissariale circa 400 milioni. E l’Italia è insorta, da De Magistris alla Lega. Parlano di “figli e figliastri”.
«La vicenda va spiegata con estrema chiarezza. Nel 2008 il debito di Roma Capitale di circa 12 miliardi è stato trasferito alla gestione commissariale. E Roma Capitale ha avuto dal governo un gettito in più di 500 milioni di euro all’anno».
Poi cosa è successo?
«Nel 2011 il governo Monti, per evitare una catastrofe simile a quella della Grecia, decise di ridurre il danaro a tutti gli enti locali e a Roma operò tagli per circa 500 milioni. Quello che è accaduto dopo è che Roma ha continuato a spendere come se quei soldi li avesse».
Si riferisce alla giunta Alemanno?
«Esattamente, nel 2012 e nel 2013. E così si è creato un disavanzo, che abbiamo trovato, di 816 milioni di euro. A fronte di questo disavanzo Roma non sta chiedendo soldi aggiuntivi, ma di sistemare il proprio debito con accordi con la gestione commissariale. Quindi non costerà un euro in più agli italiani».
È stata negata però la possibilità di aumentare l’Irpef dello 0.3%. Un macigno sul bilancio di Roma del 2014, già in rosso per circa un miliardo.
«Proprio perché col trasferimento del debito e altre norme, come la possibilità di rinegoziare i contratti di servizio con le municipalizzate, Roma tornerà nei binari della trasparenza e del rigore amministrativo, abbiamo già iniziatoa razionalizzare le spese, enon aumenteremo l’Irpef».
Tanti invocano l’ingresso dei privati in Atac e Ama, lei che ne pensa?
«Sto facendo con i miei assessori ogni sforzo perché queste due aziende vengano risanate, funzionino bene come aziende pubbliche e non siano invece svendute ai privati come vorrebbero altri. Per questo serve una discontinuità, che stiamo realizzando, nel gruppo dirigente delle aziende».
Anche per Acea si chiede una maggiore partecipazione azionaria di privati.
«Sono totalmente in disaccordo perché al momento la parte pubblica conta per il 51%, al di sotto del quale non si deve scendere, anche per non disattendere la volontà popolare espressa al referendum sull’acqua pubblica».
Come pensa di riuscire a pareggiare il bilancio del 2014 senza vendere quote di aziende e senza aumentare l’Irpef?
«Tagliando tutti i costi inutili, introducendo un centro unico di acquisti per tutta l’attività del Comune che ridurrà drasticamente le spese e portando Roma in un’area di vero rigore».
La legge di stabilità ha concesso un prestito di cento milioni all’Ente Eur per completare i lavori della Nuvola di Fuksas. C’è chi ha accusato il governo di un ulteriore regalo anche perché a Roma i cantieri infiniti sono molti.
«Quell’edificio è completo al 76%, non è un problema ma una straordinaria opportunità, con diecimila posti a sedere in diciannove sale diverse, che potrebbe diventare, e diventerà, il motore di un turismo congressuale che porterà straordinarie risorse economiche alla nostra città».

Corriere 28.12.13
«Vivo grazie ai test sulle cavie». Sul web: devi morire
di Elena Tebano


«Meglio se morivi, mi hanno scritto. Io ho risposto: aspettate un attimo, vi faccio vedere come vivo, quanto devo vivere». Caterina Simonsen ha 25 anni, ne aveva nove la prima volta che è finita in rianimazione perché non respirava. «Non posso uscire di casa, devo passare 16 ore al giorno attaccata a un respiratore e farne tre di fisioterapia per i polmoni. Ho fatto più ricoveri io che un vecchio di 110 anni», spiega. Due settimane fa, «scandalizzata» dopo che il fondatore di Stamina Davide Vannoni aveva strizzato l’occhio agli animalisti (sostenendo di non aver bisogno di testare il suo metodo sugli animali), Caterina ha girato un video in difesa della ricerca scientifica e lo ha postato online. Le reazioni sono state violentissime: «Per me puoi morire pure domani, non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per te», «Magari fosse morta a 9 anni», le hanno scritto sul profilo Facebook. Ha replicato con un altro video, in cui spiegava perché le persone come lei hanno bisogno che la medicina possa testare nuove cure e con un messaggio pro-scienza. Anche quelli presi d’assalto dagli animalisti radicali.
Caterina soffre di 4 malattie rare, deficit di Alfa 1 Antitripsina, deficit di proteina C ed S anticoagulanti, immunodeficienza primaria, mononeuropatia assonopatica bilaterale dei nervi frenici. Tra le altre cose le riducono la funzionalità polmonare e la rendono vulnerabile a qualsiasi infezione. Ieri sera era ricoverata in ospedale a Padova, per una polmonite: «Quando ho la polmonite semplice mi sento fortunata, ne faccio almeno sette all’anno. Venti giorni fa tossendo mi si è bucato un polmone: è marcio. Mi hanno dovuto mettere un drenaggio di 15 centimetri. Volendo, di particolari splatter ne ho un po’», ride. Parla con precisione e senso dell’umorismo (nero, nerissimo). Poi però torna subito seria: «Chiedo che Lega antivivisezione, Enpa, l’onorevole Michela Brambilla e il Partito animalista europeo si dissocino da questi estremisti», è il suo appello. «La mia unica colpa è essermi curata: non ho sgozzato animali, ho solo preso farmaci a norma di legge, non bile di orso. Lo faranno anche loro, no?». Intanto ha chiamato il 113 per denunciare i commenti online: «Mi hanno detto che sarebbero venuti per prendere l’esposto, li sto ancora spettando».
Solo una volta si è arresa, aveva 15 anni: «Non respiravo da 4 giorni, ogni respiro mi faceva un male cane. Allora per un attimo ho deciso di non respirare. Mi sono addormentata e sono andata in arresto respiratorio. Quando mi hanno rianimata ho visto la faccia dei miei genitori e ho deciso che non avrei mollato mai più».
A Caterina gli animali piacciono e si è iscritta a veterinaria a Bologna, anche se non può frequentare. «Sono cresciuta in ospedale, in pediatria, ho visto bimbi malati con una gran voglia di vivere: correvano in corridoio con 4 flebo attaccate tre giorni dopo il terzo intervento al cuore — racconta —. Non potrei curare dei bambini. Ma gli animali sono innocenti come i bambini». Ha scelto anche di non mangiare carne: «Ci penso alla vita degli animali. Quanti animali vengono macellati ogni anno? Quanti usati per la sperimentazione? — domanda —. Milioni contro migliaia. Ci sono cose di cui possiamo fare a meno: infatti non mangio carne. Della ricerca non possiamo fare a meno».
Caterina si è esposta, ma non per sé: «Spero che i bambini che nascono oggi sappiano che in futuro potranno curarsi. So che la ricerca non potrà aiutare me: le mie malattie sono troppo rare e se anche adesso sviluppassero un farmaco, ci vogliono almeno dieci anni per poterlo usare. Io dieci anni non ce li ho».

«L’Iran, a differenza di Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, e ha accettato le ispezioni dell’Aiea»
il Fatto 28.12.13
Siamo sicuri di essere superiori all’Iran?
di Massimo Fini


NELLA conferenza stampa di fine anno, un giornalista d’area radicale ha chiesto al presidente del Consiglio se l’Italia non fosse troppo morbida con l’Iran. Letta ha risposto in diplomatichese, ma una cosa interessante l’ha detta: “L’Italia può essere un buon mediatore con l’Iran perché entrambi veniamo da grandi culture millenarie e possiamo quindi intenderci”. L’Iran è infatti l’antica Persia. E le vestigia di questa cultura si possono trovare nella plurimillenaria città di Isfahan o a Qom (non a Teheran che, come Tel Aviv, è di costruzione recente). Ma a parte questo, epperò in sua stretta correlazione, gli iraniani, almeno a partire da un certo livello sociale, sono delle persone colte che non si limitano a sapere a memoria i versetti del Corano. Me ne resi conto quando stavo da quelle parti: la piccola borghesia di Teheran non solo conosceva i nostri maggiori (Dante, Petrarca, Boccaccio) ma in quel periodo (siamo negli anni 80, in pieno khomeinismo) leggeva Moravia e Calvino. Noi della loro cultura letteraria conosciamo, quando va bene, solo Omar Khayyam. È questa supponenza della “cultura superiore” (che Letta, gli va dato atto, ha dimostrato di non avere) che infastidisce, soprattutto nel momento in cui questa cultura dovrebbe fare un po’ i conti con se stessa e con la lunga striscia di sangue e di violenze, militari, politiche, economiche , che ha alle spalle e non solo alle spalle. Io non riesco a capire su quali basi giuridiche e morali capi di Stato (Obama, Hollande, Cameron) che sono seduti su giganteschi arsenali atomici si possano permettere di impedire all’Iran di farsi il nucleare civile perché da qui potrebbe, in teoria, arrivare all’Atomica (passare dal 20% di arricchimento dell’uranio, che è quanto serve per il nucleare a usi civili e medici, al 90% della Bomba è cosa che richiede anni).
L’IRAN, si dice, fa parte dell’“asse del Male”. E perché mai? L’Iran khomeinista non ha mai aggredito nessuno , semmai è stato aggredito, dall’Iraq di Saddam Hussein che gli occidentali hanno sostenuto finché gli faceva comodo, scippando a Teheran una vittoria che si era legittimamente conquistata sul campo di battaglia. L’Iran, si dice ancora, fomenta il terrorismo internazionale. Non se ne ha alcuna prova. Mentre è certo che il Mossad ha assassinato, in Iran, quattro scienziati che si stavano occupando del nucleare (immaginiamoci cosa sarebbe successo a parti invertite). L’Iran è una teocrazia. Embè? Non tutti i Paesi sono obbligati a essere delle democrazie. In ogni caso, la teocrazia se non è una democrazia non è nemmeno il governo di un solo uomo, è un regime molto più articolato che non può essere messo sullo stesso piano delle dittature dei Somoza, dei Pinochet, dello stesso Saddam che l’Occidente, americani in testa, ha vergognosamente sostenuto e a volte imposto (vero mr. Kissinger?).
L’Iran, a differenza di Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, ha accettato le ispezioni dell’Aiea e, nelle trattative in corso, si dimostra disponibile a subirne altre ancora più intrusive e capillari, purché sia salvaguardato il suo elementare e sacrosanto diritto a farsi il nucleare per usi civili.
Cosa vogliamo ancora? Forse se la smettessimo di considerarci il Bene anche il Male sarebbe meno aggressivo e diffidente nei nostri confronti.

Corriere 28.12.13
Il conflitto tra le due anime dell’islam dietro quell’attentato in Libano
di Antonio Ferrari


È una storia di ordinaria ferocia. Ogni attentato libanese sembra infatti seguire la perversa logica di una continua ritorsione. Quindi, di una prevedibile catena di vendette senza fine. Era quasi scontato l’attentato compiuto ieri in una via del centro finanziario della capitale, fra i grandi alberghi della ricostruita Beirut, che è costato la vita a otto persone, tra cui l’ex ministro sunnita Mohammed Shattah, consigliere politico ed economico di Saad Hariri. Cioè del figlio di Rafic, lo storico premier protagonista della ricostruzione della capitale dopo gli anni della guerra civile, che fu ammazzato nel febbraio del 2005, nella strage di San Valentino. Anche Saad, raccolta l’eredità del padre, ha ricoperto la carica di capo del governo libanese. Carica che, per prassi costituzionale, tocca sempre a un musulmano sunnita.
Prevedibile, l’attentato di ieri, non tanto per l’obiettivo, appunto Shattah, quanto per la sua appartenenza al vertice sunnita della Repubblica dei cedri. Infatti, l’attentato non è altro che la sanguinaria risposta alla strage del 19 novembre scorso, che aveva come obiettivo l’ambasciata dell’Iran: 25 morti e centinaia di feriti. In quel caso le vittime appartenevano alla componente sciita, che in Libano è maggioritaria, che guarda a Teheran, che è in lotta contro i sunniti, ma che è essenziale agli equilibri politici del Paese. Quell’attentato fu rivendicato da un gruppo estremista sunnita, espressione regionale di Al Qaeda. L’autobomba di ieri, secondo l’ex premier Saad Hariri, potrebbe portare la firma di elementi collegati all’Hezbollah, cioè la potente milizia sciita. Saad accusa il «partito di Dio» di sottrarsi alla giustizia e alle risultanze del tribunale internazionale, che avrebbe appunto indicato in elementi dell’Hezbollah gli autori della strage del 2005 in cui morì suo padre.
È chiaro quindi che anche l’attentato di ieri rientra nel conflitto, sempre più cruento, tra le due anime dell’Islam. Conflitto esasperato dalla guerra di Siria, dove il potere di Bashar Assad è espressione della minoranza alauita, che è una setta sciita; mentre l’opposizione, soprattutto sunnita, è ormai condizionata da gruppi fanatici di Al Qaeda. Il rischio adesso è che la guerra esondi, come nel passato, tornando a insanguinare il Libano.

La Stampa 28.12.13
Le banche cinesi costrette a fare i conti con la realtà
di Neil Unmack


Nel 2013, le banche cinesi all’estero si sono limitate a fare quello che fanno di solito – servire le aziende cinesi. Tuttavia, non sono mancate alcune novità. Nel Regno Unito, ad esempio, Agricultural Bank of China ha iniziato a liquidare transazioni in yuan, mentre Industrial and Commercial Bank of China ha emesso bond denominati in yuan. Questi mercati di nicchia possono crescere molto velocemente: lo yuan, infatti, è la divisa più utilizzata nel commercio mondiale dopo il dollaro.
Le acquisizioni rappresentano il passo successivo più logico. L’unione da sogno tra Icbc e Standard Chartered, società finanziaria con sede a Londra molto attiva nei mercati emergenti, potrebbe tuttavia rivelarsi troppo complessa. L’acquisto di quote di maggioranza in mercati nei quali le aziende cinesi commerciano e investono è una mossa sensata. Lo scorso novembre, China Construction Bank ha aperto la strada acquistando una quota nella brasiliana BicBanco. Ora, Africa ed Europa orientale potrebbero vedere accordi simili. Perfino l’Iran, ricco di petrolio, in un futuro libero da sanzioni potrebbe entrare a far parte di questo mercato.
La sfida è non commettere gli stessi errori fatti dal Giappone degli anni ’80. Spinte da una valuta in ascesa e da una normativa nazionale troppo restrittiva, le banche giapponesi hanno cominciato a espandersi all’estero. Secondo The Banker, nel 1988, sei tra i 10 istituti di credito più importanti del mondo erano nipponici. Quando in patria i crediti inesigibili sono aumentati, le banche giapponesi hanno inserito la retromarcia, lasciandosi dietro una scia di problemi. La salvezza della Cina potrebbe essere l’inesperienza delle sue banche e la microgestione statale. L’affare Ccb/BicBanco ha richiesto due anni di contrattazioni; Icbc sta ronzando attorno alle attività britanniche di Standard Bank da più di un anno. Questo limita lo spazio per affari sciocchi e impulsivi. I controlli sul capitale impediscono inoltre alle banche cinesi di passare con facilità dallo yuan al dollaro o all’euro, e questo ne limita la capacità di agire all’estero.

Corriere 28.12.13
Crisi, gli Atenei Usa riducono le rette
Ma l’eccellenza si paga ancora cara
di Ennio Caretto


Nello stabilire le rette per l’anno accademico, le piccole e medie università private americane s’erano sinora attenute a quello che i giornali chiamano «il principio del whisky». Le avevano cioè quasi sempre alzate per indurre le famiglie a pensare che, come in genere il whisky più caro è il migliore, così in genere lo è l’università più costosa. Ma dall’anno prossimo, molte delle piccole e medie università private americane, se non tutte, cambieranno strategia: o ridurranno drasticamente le rette o le congeleranno fino al 2018 – 2020. Il New York Times , che ha svolto un’inchiesta al riguardo, ha citato un caso esemplare: la retta del Converse college della Carolina del sud, che ospita appena 700 studenti, scenderà da 29 mila a 16.500 dollari annui, un taglio del 43 per cento.
L’improvvisa inversione di tendenza è l’effetto della crisi finanziaria ed economica che dal 2008 ha impoverito il ceto medio americano. Nel Paese, paradiso dell’istruzione privata, sempre più famiglie si vedono costrette a iscrivere i figli alle scuole e alle università pubbliche, che peraltro non sono del tutto gratuite. L’agenzia di rating Moody’s ha accertato che con il calo dei loro corpi studenteschi oltre il 40 per cento delle piccole e medie università private americane si sono trovate alle prese con seri problemi di bilancio. Negli scorsi anni, esse avevano tentato di frenare l’emorragia delle iscrizioni distribuendo più borse di studio e fornendo più prestiti agli studenti che in passato, ma le loro misure si erano rivelate insufficienti. Di qui i «saldi», per così dire, dei loro corsi.
È un segnale che a poco a poco le famiglie americane privilegeranno l’istruzione pubblica, sia pure malvolentieri? Probabilmente no. Le più prestigiose università private, quelle della «Ivy League» o Lega dell’edera, come Harvard e Yale, non hanno sofferto minimamente della crisi. E a Manhattan c’è chi paga volentieri 30 mila dollari annui non per il college ma per l’asilo nido privato e 40 mila dollari per la scuola dalle elementari al liceo. L’America inoltre è in ripresa a differenza dell’Europa. Le rette scontate potrebbero scomparire entro un quinquennio, una meteora nel firmamento sociale americano.

il Fatto 28.12.13
Auguri Fm: la Radio moderna compie 80 anni
di Alessio Schiesari


L’INVENTORE EDWIN ARMSTRONG, DERUBATO DEL BREVETTO DOPO UNA LUNGA BATTAGLIA LEGALE, È MORTO SUICIDA. LA SUA CREATURA INVECE È ANCORA VIVA

Il brevetto Us1941066 è stato approvato il 26 dicembre del 1933. Dietro a un codice da burocrati si cela una delle invenzioni più importanti del 20imo secolo: la modulazione di frequenza, ovvero la radio Fm. L’inventore è Edwin Howard Armstrong, nato nel 1890 a New York e morto 64 anni dopo, schiantato sul balcone di un palazzo a Manhattan dopo un volo di dieci piani.
Dalla radio ai telefoni cellulari, la maggior parte degli strumenti oggi utilizzati per comunicare sono debitori delle sue invenzioni. Armstrong si appassiona all’elettromagnetismo fin da piccolo e nel 1913, ancora prima di laurearsi alla Columbia, ha già pronta la prima invenzione: un amplificatore di onde elettromagnetiche che permette di amplificare il segnale radio e migliorarne la qualità. Per pagare il brevetto, vende la moto da corsa. L’investimento è azzeccato: appena laureato, l’università gli offre un posto da assistente. Poco dopo, viene invitato dal ramo Usa della Compagnia telegrafica Marconi a presentare la sua scoperta.
Qui conosce David Sarnoff, l’incarnazione del sogno americano: l’immigrato che comincia come strillone di giornali e diventa uno degli uomini più ricchi del pianeta. Se l’invenzione della radio si deve a Marconi, Sarnoff è il primo a capire che non serve solo a comunicare dal porto alle navi, ma può portare nelle case degli americani la musica. Dopo un’ascesa inarrestabile raggiungerà il vertice della Compagnia telegrafica Marconi, nel frattempo ribattezzata Rca - Radio Corporation of America – e la guiderà per quarant’anni.
DURANTE la prima guerra mondiale, Armstrong inventa l’eterodina, un sistema che migliora la ricezione delle frequenze e riduce il rumore di fondo. Finita la guerra, l’Rca ne acquista il brevetto e Armstrong, durante il boom della radio degli anni ’20, diventa ricco. Sposa la segretaria di Sarnoff, Marion MacInnis, e lavora al suo progetto più ambizioso: la modulazione di frequenza. Rispetto alle tradizionali radio Am, quelle in Fm emettono un suono centinaia di volte più pulito, senza interferenze. Ottiene il brevetto nel ’33 e due anni dopo mostra la nuova invenzione a un convegno di ingegneri. In sala il silenzio è interrotto dal rumore di un foglio prima accartocciato, poi strappato. Segue un bicchiere d’acqua rovesciato a terra. Poi una marcia militare di John Philip Sousa, un assolo di piano e uno di chitarra. Ogni rumore è nitido e sembra originare dentro l’aula del convegno. Quella sera nasce la tecnologia delle radio che hanno diffuso il rock alternativo negli Usa, quelle libere degli anni ’70, il Goodmorning Vietnam di Adrian Cronauer. Eppure Sarnoff lo attacca: si aspettava un’invenzione per migliorare la qualità delle trasmissioni Am, non per sostituirle. Tutti gli sforzi dell’azienda erano concentrati su un nuovo congegno che avrebbe cambiato il mondo: la televisione. Sarnoff sfratta Armstrong dall’Empire State Building, dove gli aveva permesso di installare delle antenne per i suoi esperimenti.
IL RICERCATORE non si dà per vinto: nel ’39, pagando tutto di tasca sua ottiene il permesso di creare la prima radio Fm. Altri network locali lo seguono. Ma al termine della guerra, Sarnoff convince l’autorità per le comunicazioni a cambiare limiti e frequenze dell’Fm. Tutti gli impianti che Armstrong ha costruito non servono più a nulla. La modulazione di frequenza ora comincia a essere utilizzata dall’Rca che però rifiuta di pagare le royalty sul brevetto.
Comincia l’ennesima battaglia legale, stavolta contro un gigante. Sei anni dopo, il tribunale di primo grado dà ragione a Sarnoff: Armstrong è in miseria. Il giorno del ringraziamento del 1953 Marion lo lascia. Passano tre mesi. La mattina seguente il corpo senza vita di Armstrong viene ritrovato avvolto da guanti, sciarpa e impermeabile. Si è gettato dal 13imo piano del suo appartamento sulla 52ima strada. Dopo la morte, la moglie trova un accordo con Sarnoff e diventa milionaria. Nel 1978 l’Fm supera negli ascolti l’Am. Armstrong non lo saprà mai: la sua storia si è fermata molto prima. Quella della sua invenzione, invece, continua da 80 anni.

Repubblica 28.12.13
I segreti di Proust
Quella volta a cena con Joyce, senza avere nulla da dirsi
Esce in Francia un Dizionario dedicato all’autore della “Recherche”
Amori, gusti pittorici e sessuali E l’incontro con lo scrittore irlandese
di Bernardo Valli


PARIGI AL CONTRARIO di Sainte- Beuve, Proust sostiene che l’opera di uno scrittore deve essere giudicata senza preoccuparsi della vita del suo autore. Dall’aldilà Sainte-Beuve, complice degli indiscreti, si vendica alla grande poiché Proust è la vittima esemplare del metodo critico che cerca di squalificare. Col tempo molti saintebeuviani e altrettanti proustiani scoprono che in fondo la verità sta nel mezzo. Ma una muta, sapiente o poliziesca, di ricercatori è sempre lanciata all’inseguimento dei segreti di un artista che pensava di aver creato un paravento con i sette volumi della Recherche.L’interesse per la sua vita può slittare nel feticismo, arrivare a qualcosa di simile a una perversione in cui si raggiunge la voluttà imitandolo, ricercando i suoi oggetti o ricalcando lesue orme.
Il museo dell’Aja, in cui si trova laVista di Delft di Vermeer, davanti alla quale nella Recherche muore lo scrittore Bergotte, è da anni un luogo di pellegrinaggio per un buon numero di proustiani. Un particolare appena visibile del quadro, «il pezzetto di muro giallo» (le petit pan de mur jaune)attira l’attenzione di Bergotte poco prima di crollare stecchito, durante una mostra parigina di Vermeer. Quella macchia sul famoso dipinto (che a me non sembra gialla, ma piuttosto rosa) è per i proustiani doc una reliquia, sulla quale sono stati scritti saggi e guide per i pellegrini.
I gusti pittorici, musicali, gastronomici, floreali, letterari, sessuali, come l’asma, gli amici, gli amanti reali o presunti, la corrispondenza, le pellicce, le inalazioni, insomma tutto quel che riguarda Proust è oggetto di analisi e interpretazioni, nelle università e nei salotti. Fatta questa premessa - che ho appena riferito quasi alla lettera - Jean-Paul e Raphaël Enthoven, padre e figlio, il primo scrittore-editore il secondo professore di filosofia, hanno deciso di dedicare un libro all’autore che frequentano per abitudine e passione. E alle liturgie autorizzate e alle perizie sapienti, che per loro oscurano spesso la limpida figura di Proust, hanno opposto il capriccio e la semplicità.
Ne è risultata un’opera (Dictionnaire amoureux de Marcel Proust, editore Plon-Grasset), «parziale, incompleta, disinvolta, seria, canzonatoria, “innamorata”», come la definiscono gli stessi autori. Ma le settecento pagine degli Enthoven possono essere lette anche come un breviario in cui (grazie a un velato snobismo) è escluso il banale, è premiata la leggerezza e quindi consentita l’ironia. Un’ironia affettuosa in costante equilibrio, come un acrobata. Un passo falso e si cade nel cattivo gusto.
Il Dizionario comincia con la «a», agonia, quella di sabato 18 novembre 1922. L’ordine alfabetico esige paradossalmente che l’incipit sia la morte di Marcel Proust. Il quale nelle ultime pagine dellaRecherche fa dire al Narratore che diventando scrittore sarebbe morto di meno. Sarebbe sopravvissuto con la sua opera. Ma quel giorno, in rue Hamelin, quando è già sera, la morte non fa della letteratura. La letteratura prenderà poi la sua rivincita nei mesi, negli anni, nei decenni, nei secoli che seguiranno. Sono cent’anni che il primo volume, Dalla parte di Swann, è stato pubblicato dall’editore Grasset. Al momento, quel giorno di tardo autunno nella fredda casa parigina del sedicesimo arrondissement, Proust cessa di respirare sotto gli occhi del fratello Robert e di Céleste, la governante. Il fratello l’ha costretto a cambiar posizione nel letto per praticare ormai inutili cure, e gli chiede se quel movimento l’ha affaticato. Proust risponde: «Oh! Oui mon cher Robert…». Saranno le ultime parole, di cui la leggenda affamata di solennità potrà fare scarso uso, se non per sottolineare un’estrema, dolce fragilità.
Prima, nel delirio, Proust ha indicato a Céleste una «grande donna nera» che si muove nella stanza e gli fa paura. Era la madre, sempre vestita a lutto dopo la morte del marito? Oppure la donna «con gli occhi tristi, nei veli neri» che aveva visto nelle Scene della vita di Sant’Orsola del Carpaccio, all’Accademia, a Venezia ? Era probabilmente soltanto la morte, sul cui volto erano riassunti tanti altri volti. Prima di entrare in agonia, Proust ha avuto un pensiero gentile per l’amico Léon Daudet e per il dottor Bize. Ha fatto mandare a entrambi un mazzo di fiori. Con il medico che lo cura è stato sgarbato e vuole scusarsi. Gli Enthoven, padre e figlio, pensano a Socrate che prima di morire manda un gallo a Esculapio. Ma il filosofo saldava un debito, mentre il gesto dello scrittore era dettato da un sentimento elegante.
Sulle lettere dell’alfabeto, cosi come è scandito il Dizionario, scorrono spesso con humour rispettoso la vita di Proust e le sue opere. Le voci sono tante, centinaia: Agostinelli (l’autista e aviatore ammirato da Proust), l’amore, l’asma, il bacio (della sera), Bergson, catleya (l’orchidea di Odette), Céleste, Cocteau, il desiderio, i duelli, Gide, l’omosessualità, le scarpe (nere o rosse), Schopenhauer, Spinoza, la cattiveria, la menzogna (per omissione)… C’è persino una voce dedicataa Curzio Malaparte, autore di un atto unico intitolato Du côté de chez Proust, rappresentato nel ’48 a Parigi, con Pierre Fresnay nel ruolo dello scrittore. Non era materia per l’autore diLa pelle e fu un fiasco. Lo meritava.
Luchino Visconti è invece ricordato come il regista del miglior film sulla Recherche.
Un film virtuale, perché mai realizzato. Con Suso Cecchi D’Amico, il regista ha scritto la sceneggiatura di À la recherche du temps perdu, ha visitato i luoghi, ha scelto gli attori (Marlon Brando, Greta Garbo, Alain Delon, Helmut Berger…), ma poi ha rinunciato all’impresa. Era troppo proustiano per tentarla. Ed ora si pensa che il suo film sia comunque il migliore, appunto perché non realizzato. Lo si può sognare.
Alla lettera «j» del Dizionario è raccontato l’incontro del 18 maggio 1922, al quale da decenni i biografi dedicano spazio per dire che è stato un fallimento. Marcel Proust e James Joyce, i due più grandi romanzieri del secolo, si trovano quel giorno faccia a faccia ma non hanno nulla da dirsi. Si osservano con distacco, con reciproca antipatia. La cronaca è imprecisa. I testimoni si contraddicono. Inventano. L’evento sollecita l’immaginazione. Ma tutti sono concordi nell’affermare che Joyce e Proust non si sono piaciuti. Secondo George D.Painter (Chatto & Windus, 1959; Feltrinelli 1963) il fatto che due scrittori di genio non siano riusciti ad apprezzarsi, né ad apprezzare l’uno l’opera dell’altro, è un fenomeno comune, istintivo, prodotto da un bisogno di autodifesa. Secondo Jean-Yves Tadié (Gallimard, 1996) i due non si sono capiti. In una lettera all’amica Sylvia Beach, Joyce chiama laRecherche: «La ricerca di Ombrelle perdute da numerose ragazze in fiore … ». E invece di Marcel Proust scrive «Marcelle Proyst».
Quel giorno il ricco, mondano scrittore inglese Sydney Schiff, e la moglie Violet, danno un ricevimento all’Hotel Majestic, in avenue Kleber, in occasione della prima diRenard, l’opera-balletto di Igor Stravinsky. Non lontano dall’Arco di Trionfo, nella grande hall dell’albergo, un annexe del Ritz dove l’orchestra non è ammessa dopo mezzanotte, Sydney e Violet hanno riunito i più grandi nomi di tutte le arti presenti a Parigi. Ci sono Picasso, Chaplin, Diaghilev, Léon-Paul Fargue, Cocteau e, ben inteso, Stravinsky. Non mancano finanza e industria. Ci sono alcuni Rothschild, una Singer (macchine per cucire), e nobili, come i Noailles e i Beaumont. È una ritrovata società della Recherche.
Sydney e Violet Schiff considerano soprattutto un vero successo l’avere tra gli invitati Marcel Proust e James Joyce. Non si conoscono. Il loro incontro è l’avvenimento della serata. Dopo il premio Goncourt, Proust è un ospite ambito, averlo al ricevimento per Schiff è una consacrazione mondana ed anche un occasione per diventare il suo ambasciatore letterario a Londra. Oltre che il traduttore in inglese di parte della sua opera.
Proust è malandato, ha bevuto per distrazione un flacone di adrenalina pura e ha lo stomaco che brucia. Sidney Schiff gli fa trovare bottiglie di birra ghiacciata. Sa che è la sua bevanda preferita. Proust non si toglie i mantelli foderati di pelliccia in cui è avvolto. Cocteau dice che sembra «un Cristo armeno». Meno elegante, un altro invitato dice che è venuto al ricevimento «con la bara» perché ripete di essere moribondo. Proust ha ancora sei mesi esatti di vita.
Joyce arriva a mezzanotte. Barcolla, inciampa nei tappeti, prende un vaso di gladioli per un cameriere. L’altro genio del secolo, l’autore diUlisse, l’Omero irlandese, è vestito come un barbone e si lamenta per la cattiva vista. Sydney Schiff punta su un colpo mondano e letterario: vuole mettere faccia a faccia Swann e Leopold Bloom. Ma i due non si piacciono. Secondo un’invitata, la duchessa de Clermont- Tonnerre, la conversazione sarebbe stata asciutta. «Non ho mai letto le sue opere, caro Joyce». «Neppure io, caro Proust ». Le testimonianze non sono attendibili. Di fatto non c’è stato un colloquio. Qualche battuta. Poi però prendono lo stesso taxi, quello di Odilon Albaret, il marito di Céleste, la governante di Proust. Ma Joyce scende quasi subito dall’automobile perché accende una sigaretta e Proust con l’asma non sopporta il fumo. La cronaca resta incerta.

venerdì 27 dicembre 2013

La Stampa 27.12.13
La mia battaglia non è finita Oggi sarò a Ponte Galeria
di Khalid Chaouki

deputato Pd

Quelle donne e quegli uomini del Cie di Lampedusa meritavano un gesto, un’azione, una presa di posizione. Per questo ho trascorsi gli ultimi giorni in loro compagnia dentro il Cie: se avessi ripreso subito l’aereo per Palermo la mia sarebbe stata solo l’ennesima voce, l’ennesima protesta contro un sistema di sicurezza fallimentare.
Ora che sono uscito, il telefono ritorna a squillare. Sono i reclusi del Cie di Ponte Galeria che non so come hanno avuto il mio numero di cellulare. Mi chiedono un incontro urgente, vogliono parlarmi. Alle due di pomeriggio sarò da loro. Spero che si volti pagina. Possiamo e dobbiamo ridare dignità al nostro Paese. Ritornare ad essere orgogliosi della consolidata tradizione di accoglienza che l’Italia ha mostrato nei secoli. Insieme al grandioso esempio di Papa Francesco possiamo finalmente passare dalle parole ai fatti. Io ci credo.
Devo ringraziare quanti, al Ministero dell’Interno, a partire dal vice ministro Bubbico, hanno saputo rispondere con concretezza alle mie richieste, alle nostre richieste, perché è anche grazie a loro se la mia protesta ha portato dei risultati. La mattina del 24 dicembre circa 200 migranti sono stati trasferiti in altri centri, più dignitosi, a Roma e a Palermo. Restano nel centro 17 tra siriani ed eritrei. Ho trascorso la mia ultima notte lì con loro, poi in una sorta di staffetta ora sono affidati alle cure qualificate 24 ore su 24 da parte di medici e psicologi della Croce Rossa.
La mia è stata e continua ad essere una battaglia contro la vergogna e a favore della legalità e dei diritti umani. Perché l’accoglienza torni ad riacquistare la sua dignità e non vi siano mai più questi Cie. Luoghi indegni, zone franche dove il diritto viene sospeso.
*Deputato Pd

Repubblica 27.12.13
Un tweet per rilanciare il dibattito sullo ius soli. Dalla Lega a Forza Italia, pioggia di critiche da destra
Kyenge: nel 2014 nuova cittadinanza chi nasce o cresce qui sarà italiano
di Alessandra Ziniti


«2014 verso una nuova cittadinanza: chi nasce e/o cresce in Italia è italiano!». Un tweet del ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge rilancia a Santo Stefano il dibattito sullo “ius soli”, nel giorno in cui Angelino Alfano annuncia che le ispezioni nei centri di accoglienza italiani attraversati dalle proteste, da Lampedusa a Roma a Bari, sono già partite. «Fatti come quello di Lampedusa sono gravi e non si devono ripetere. Chi ha sbagliato pagherà ». Al dipartimento immigrazione del Viminale è già stata formata una task force con il compito di rivedere tutti gli appalti già assegnati per la gestione dei Cie.
Nei centri di accoglienza, tra Natale e Santo Stefano, le proteste sono rientrate ma ieri è stato il messaggio della Kyenge a rilanciare la polemica sull’immigrazione. E se dal Pd, con il responsabile Welfare Davide Faraone, arriva un plauso, sono ancora una volta Lega e Forza Italia ad alzare le barricate. «Il 2014 sarà l’ultimo anno della chiacchierona Kyenge ministro. Basta preoccuparsi solo di clandestini e carcerati, per la Lega l’emergenza è ridare lavoro e speranza a italiani e padani, per gli stranieri non c’é più posto», scrive su Facebook il segretario della Lega Matteo Salvini. Per Forza Italia parla Sandra Savino: «Il messaggio della Kyenge è profondamente sbagliato, il ministro sembra usare degli slogan per giustificare il proprio ruolo nell’esecutivo».
Nei centri di accoglienza dove nei giorni scorsi i migranti hanno dato vita a clamorose forme diprotesta per attirare l’attenzione sui tempi lunghi della loro permanenza e sulle condizioni di invivibilità delle strutture, è tornata la calma. A Ponte Galeria, gli immigrati con la bocca cucita da giorni in sciopero della fame hanno sospeso la protesta affidando al direttore della Caritas don Emanuele Giannone una lettera rivolta al Papa nella quale chiedono una risposta sui tempi lunghi di detenzione. Al presidente della Repubblica Napolitano si sono invece rivolti i parlamentari di Sel che hanno ispezionato il centro il giorno di Natale. E oggi a Ponte Galeria è attesa lavisita del parlamentare del Pd Khalid Chaouki che ha lasciato il giorno di Natale il centro di Lampedusa dove si era barricato insieme agli oltre 200 ospiti del centro tenuti lì da settimane in condizioni estremamente disagiate. Chaouki ha sospeso la protesta dopo che la struttura di contrada Imbriacola è stata svuotata, eccezion fatta per soli 17 ospiti, tutti superstiti dei naufragi di ottobre, che dovranno ancora rimanere a Lampedusa per qualche settimana a disposizione dell’autorità giudiziaria per rendere testimonianza nei procedimenti contro gli scafisti e contro gli organizzatori della tratta. La loro assistenza è stata affidata ad una equipe della Croce Rossa, alla quale Alfano vorrebbe affidare l’intera gestione del centro.

Repubblica 27.12.13
I diritti ignorati dei migranti
di Chiara Saraceno


Miracolo natalizio. Ciò che non è stato possibile per mesi, è diventato possibile nel giro di ventiquattr’ore. Tutte le persone trattenute nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, salvo, assurdamente, i diciassette sopravvissuti al naufragio di ottobre, sono state trasferite in altri centri sulla terra ferma.
Non erano bastate le foto dei materassi gettati per terra, i resoconti giornalistici di povera gente, inclusi molti sopravvissuti del naufragio di ottobre, ammassata in condizioni disumane. La commozione dei politici nel giorno dei funerali era servita solo per consentire loro un’ennesima passerella sui telegiornali. Poi l’attenzione dei politici e dei responsabili si è spostata altrove.
Forse non sarebbe bastato neppure il video delle docce antiscabbia a chiudere una struttura che dovrebbe funzionare solo come tappa di transito veloce. Infatti, la prima reazione del ministro degli Interni è stata di scaricare la colpa esclusivamente sui gestori, non anche sul suo proprio ministero, che trattiene lì a tempo indeterminato chi arriva su quelle coste, al di fuori di ogni legge (inclusa la Bossi-Fini) e ragionevolezza, facendo finta di ignorare le condizioni in cui vivono i profughi lì ammassati e in cui opera chi ci lavora. Una cinica indifferenza che avalla l’idea che i profughi siano persone senza diritti, che possono essere trattate come animali, anzi peggio. Salvo indignarsi ipocritamente quando qualcuno denuncia e rende pubblico l’orrore.
Perché l’indignazione, questa volta, avesse un seguito pratico per i profughi c’è voluto il gesto di un politico che ha preso sul serio il proprio mandato, che non ha sofferto di amnesia, soprattutto che non si è limitato a una visita rituale di solidarietà, e neppure a denunciare, ma è andato a condividere l’intollerabile. Onore quindi a Khalid Chaouki, “nuovo cittadino” che ha preso sul serio la responsabilità di difendere le condizioni di civiltà che il nostro paese dovrebbe garantire a tutti. Speriamo solo che non debba correre a cucirsi anche lui le labbra perché gli immigrati che si trovano nei vari Cie sparsi per l’Italia cessino di essere trattenuti persino oltre i termini lunghissimi previsti dalla Bossi-Fini, senza alcun diritto, neppure quello a mantenere le proprie relazioni famigliari, alla mercé non solo di una burocrazia lentissima, ma della discrezionalità dei sorveglianti. O che qualche deputata non debba condividere la sorte delle ragazzine costrette a prostituirsi per pochi soldi nei Cie o nei Cara, per attirare l’attenzione su un fenomeno tanto noto, quanto ignorato (quando non sfruttato dagli stessi sorveglianti).
È davvero intollerabile che in Italia solo i gesti eclatanti riescano a far attivare quelli che sarebbero diritti umani e civili fondamentali, mettere in moto procedure che dovrebbero essere normali, che sono addirittura previste per legge. Una situazione che incentiva una sorta di corsa al gesto estremo, cui fa da pendant l’insofferenza, o il cinismo rassegnato, di chi assiste. Non succede solo con i migranti e i profughi. Ma nel loro caso sembra che l’eccezionalità non basti mai. Lo testimonia l’esperienza dei diciassette sopravvissuti al naufragio di Lampedusa, gli unici ancora trattenuti lì, “a disposizione dei magistrati” (che per altro operano al tribunale di Agrigento), forse per farli maledire di non essere morti anche loro il 3 ottobre.
Ora si parla di abolire la Bossi-Fini. Bene. Non vorrei tuttavia che, insieme all’indignazione a corrente alternata, questa tipica via di fuga della politica italiana — il cantiere sempre aperto delle riforme annunciate — fosse un modo per continuare a ignorare la mancata applicazione delle norme esistenti, specie di quelle a garanzia dei migranti e profughi. E continuare a chiudere gli occhi su quella che ormai è diventata un’industria dell’accoglienza, a favore di chi la fa, molto meno di chi dovrebbe beneficiarne.

l’Unità 27.12.13
Lavoro, duello nel Pd Da sinistra alt a Renzi
Giovani turchi: illusorio intervenire sulla flessibilità
«Un piano straordinario di investimenti pubblici»
di Maria Zegarelli


il Fatto 27.12.13
Correnti dem. Il job act risveglia i giovani turchi


Cosa ci sia nel job act di Matteo Renzi forse non lo sa bene ancora neppure il sindaco di Firenze. Ma è bastato l’annuncio del piano perché i “giovani turchi” del Pd, una corrente che vuole sopravvivere all’unanimismo renziano, scrivano paginate di critica, sul sito LeftWing. Matteo Orfini, Fausto Raciti, Valentina Paris e Chiara Gribaudo contestano l’idea del contratto unico di inserimento con tutele progressive, avanzano domande, contestano numeri mai forniti. E offrono un’alternativa: niente riforme radicali, solo un’estensione di alcune tutele (maternità, equo compenso, malattia) a chi ne è privo. Chissà se Renzi, abituato ai 140 caratteri dei Tweet, avrà la pazienza di leggere i 14946 di cui è composta l’agile prosa dei giovani turchi.

l’Unità 27.12.13
Lavoro, non possiamo permetterci errori
di Giuseppe Fioroni


l’Unità 27.12.13
L’anticapitalismo del Papa Francesco sta con i più poveri e respinge
il dominio assoluto della globalizzazione mercatista
di Claudio Sardo


La Stampa 27.12.13
Entro il 2028
L’Italia potrebbe scivolare da ottava a quindicesima economia mondiale
di R. E.

qui

Corriere 27.12.13
Renzi vuole il controllo degli emendamenti
«Sul decreto gestione assurda»
Stretta sul premier e una task force in Senato
di Maria Teresa Meli


ROMA — Rischiano di irrigidirsi di nuovo i rapporti tra Letta e Renzi. Del resto, il segretario del Pd ha sempre detto: «Io di patti con lui non ne ho ancora firmati perché non ho capito che cosa vuole veramente». E non lo ha compreso neanche questa volta, a quanto pare. «Prima — ha spiegato allibito ai fedelissimi — si impone la fiducia sul salva Roma, contro la volontà del partito e del gruppo parlamentare della Camera che chiedevano di farlo decadere e poi dopo una telefonata di Napolitano lo si ritira... Mi sembra tutto così strano e incomprensibile».
Già, perché la vera storia di questo provvedimento è la storia dell’ennesimo braccio di ferro tra il Pd e il governo. Alla vigilia dell’approvazione del ddl Delrio per l’abolizione delle province si incontrano in una stanza di Montecitorio il messo di Letta, Franceschini, il renziano Rughetti della Commissione Bilancio (grande oppositore del decreto), il capogruppo Speranza e il portavoce della segreteria Lorenzo Gerini. Tutti e tre cercano di convincere il ministro a far decadere il provvedimento o a ritirarlo: «Solo così il governo ne può uscire bene. Poi lo ripulisce, prende le cose importanti e le mette in un nuovo atto legislativo». Niente da fare. Anzi Franceschini, rivolto a Rughetti, gli dice: «Non ti parlo più da Dario ad Angelo, ma da ministro a relatore in Commissione Bilancio: il governo non ha nessuna intenzione di far decadere il decreto». Poi la storia, come è noto, è andata a finire diversamente. E Rughetti con un collega di partito ironizza: «Con tutto il rispetto per il capo dello Stato, lui non ha il potere di rinviare una legge con una telefonata. La Costituzione non lo prevede ed è strano che una persona come Napolitano non se ne renda conto».
Sì, perché la verità è che i renziani vogliono far capire al Quirinale e a palazzo Chigi che con la nuova segreteria la musica è cambiata: il Pd è un soggetto con cui bisogna fare i conti. «I provvedimenti non verranno più decisi tra Colle e governo e poi comunicati ai gruppi», spiega un renziano. E infatti il segretario ha dato disposizioni ai suoi per concordare con Zanda la nascita di un comitato parlamentare di controllo interno al gruppo in Senato, con lo scopo di verificare i contenuti degli emendamenti, capirne i veri intendimenti, evitare che vengano presentati quelli stile «Salva Roma» e sapere chi ne siano i veri autori. Secondo i vertici del Pd, infatti dietro certe proposte di modifiche c’era il governo stesso. Per il futuro, dunque, Renzi si ripromette di rivedere le modalità di rapporto tra partito, gruppi e Parlamento. Spiega ora Guerini: «La perplessità manifestata dal Presidente è la stessa manifestata dal Pd e dal gruppo della Camera. È veramente singolare che prima si chieda la fiducia e poi si ritiri il decreto, potevano pensarci prima. Comunque faremo in modo che episodi di questo tipo non avvengano mai più. Chiederemo ufficialmente che il governo limiti l’uso dei decreti ed eviteremo l’arrivo alle tre di notte di emendamenti apparentemente senza padri». Sprezzante, il commento di un altro renziano, Dario Nardella: «È un’ulteriore figuraccia che il governo non poteva permettersi». Quello che è accaduto rende sempre più determinato il segretario a scrivere con l’esecutivo un contratto dettagliato, con tanto di date entro le quali il governo dovrà mandare in porto i provvedimenti. A cominciare dal Job act: «E non potranno fare melina». La determinazione di Renzi spaventa un po’ tutti. A cominciare dalla Cgil. Susanna Camusso, che vedrà Madia e Taddei, medita di avere dopo la ripresa anche un incontro con il nuovo leader del Pd.

Repubblica 27.12.13
Nel Pd è già scontro sul “job act” di Renzi
La proposta nella prima segreteria di gennaio. Ma la sinistra attacca: è insufficiente
di Giovanna Casadio


ROMA — Rompere i tabù sul lavoro, però non quelli che dice Renzi. La sinistra del Pd parte all’attacco. «Quel piano del segretario non va bene, perché non porterebbe a casa risultati. Ma per il bene del paese e per il bene del Pd dei risultati sull’occupazione vanno ottenuti nei prossimi mesi». È lo sfogo di Matteo Orfini, portavoce dei “giovani turchi”.
La bozza del Job Act renziano è quasi pronta; è all’ordine del giorno della prima riunione, il 3 o il 4 gennaio, della segreteria democratica del nuovo anno. Che,novità assoluta, questa volta dovrebbe riunirsi a Firenze. I “giovani turchi”, che sono la minoranza del partito, hanno scritto un documento contro il Job Act e lo hanno pubblicato sulla loro rivista Left Wing. Si conclude con un invito a «cambiare verso» — che è stato il tormentone della campagna elettorale di Renzi alla primarie — ma è un altro il verso. «Il Job Act annunciato da Matteo Renzi — scrivono — rischia di cadere nello stesso errore di molti interventi che lo hanno preceduto, per ultimo quello firmato da Elsa Fornero». Accusa pesante. Quindi, se «l’ipotesi di contratto di inserimento, va da un lato nella direzione giusta, dall’altro lascia almeno due fronti aperti: la copertura statale dei contributi per i primi tre anni non risolve il pericolo di ricircolo dei lavoratori». E poi c’è la riforma degli ammortizzatori sociali del tutto inadeguata. «Desta stupore che si immagini di sostituire quelli attuali con un sussidio di disoccupazione universale a parità di risorse». L’articolo 18 non è il principale dei problemi, neppure per la sinistra democratica, dal momento che una sospensione nella fase d’inserimento rende simile quel contratto di cui parla Renzi a un apprendistato rafforzato. Però la vera scommessa — sempre per i “turchi” — è contrastare il precariato rendendo universali i diritti alla tutela della malattia e della maternità, tassando di più il lavoro precario e consentendo incentivi fiscali quando si passa a un contratto definitivo.
Questo il merito. Ma è lo scontro politico a riaccendersi nel Pd. Il renziano Lorenzo Guerini ironizza sulla «critica preventiva» della minoranza democratica. «Aspettino la presentazione del Job Act e poi avanzino critiche e suggerimenti». Precisa che il piano sul lavoro del neo segretario ha le sue basi «nelle idee per lequali è stato votato alle primarie con una maggioranza schiacciante ». Insomma, Renzi andrà avanti. Anche se «ci saranno dialogo e confronto». Tanto a cuore sta il lavoro al sindaco che la prossima tappa del tour nel paese sarà il Sulcis Iglesiente, nella Sardegna piagata dalla disoccupazione.
Neppure al ministro del Lavoro, Enrico Giovannini piace la proposta renziana di contratto unico perché «non basta». Esprime dubbi. Rivendica l’incentivo introdotto per le imprese che trasformano il contratto a tempo determinato in indeterminato. Ricorda che la sospensione dell’articolo 18, cioè il reintegro nel posto di lavoro per chi è licenziato senza giusta causa, nei primi tre anni e quindi per i neo assunti, è stato già bocciato in passato. «Non sono le regole a fare da volano — rincara Stefano Fassina, il vice ministro all’Economia — bisogna cambiare la politica economica. L’occupazione dipendedal livello dell’attività produttiva ». Fassina sostiene di «aspettare Renzi» al varco delle soluzioni efficaci. A mettere nero su bianco il Job Act sono Marianna Madia, Filippo Taddei e Debora Serracchiani. «È indispensabile un salto in avanti sul lavoro, è su questo che dobbiamo puntare», è l’appello della “governatrice” del Friuli, Serracchiani. Contro Renzi sul sussidio di disoccupazione è anche la Fornero, l’ex ministro del Lavoro del governo Monti; spiega che costerebbe 30 miliardi estendere il sussidio di disoccupazione da 8 a 24 mesi, se permane la crisi economica.

Corriere 27.12.13
Le continue imboscate degli orfani della legge mancia
di Lorenzo Salvia


ROMA — Sono pochi quelli che hanno il coraggio di uscire allo scoperto per dichiarare controcorrente. E quindi onore al merito di Umberto D’Ottavio, pugliese di nascita e piemontese d’elezione, nel senso di collegio della Camera. «Sembrano tutti contenti — dice D’Ottavio — per il ritiro del decreto salva Roma. Io non lo sono affatto, anzi. Conteneva una serie di interventi utilissimi nelle realtà locali». Lui lo dice, molti lo pensano. Ed è per questo che i finanziamenti a pioggia infilati nel decreto scritto originariamente per sistemare i conti della Capitale forse sono solo in stand by. In attesa di tempi migliori, in cerca di decreti migliori. Usciti dalla finestra del Quirinale, dopo lo stop chiesto da Giorgio Napolitano, ma con grande voglia di rientrare dal portone del Parlamento, sotto forma di emendamento al primo decreto in transito. A partire da quel Milleproroghe che sarà approvato oggi dal Consiglio dei ministri, e che fin dal nome si dichiara ben disposto verso le modifiche che «vorrà apportare il Parlamento sovrano», come si dice in questi casi.
I blitz sui provvedimenti
Torneranno i 20 milioni di euro fuori dal patto di Stabilità per i buchi del trasporto pubblico calabrese, come da emendamento al decreto salva Roma firmato dal calabrese Antonio Caridi (Ncd, il partito di Alfano)? E i 23 milioni per i treni della Valle d’Aosta, come da ultima revisione nella proposta del gruppo delle autonomie? E torneranno anche le quattro righe che tirano fuori il Teatro San Carlo di Napoli dalle nuove regole sul cosiddetto consiglio d’indirizzo che valgono per tutte le fondazioni liriche, come chiesto e ottenuto dal deputato Antonio Milo, gruppo autonomie e libertà, ex dipendente della giunta regionale della Campania? Tutti in silenzio, naturalmente. Perché se l’emendamento blitz è sempre esistito, adesso rimane l’unica carta da giocare per chi vuole piazzare l’aiutino. E anche perché chi firma quelle richieste è spesso solo l’ultimo anello di una catena che parte da molto più in alto.
Piccolo passo indietro per capire meglio. Fino a un paio di anni fa i finanziamenti a pioggia bipartisan erano non solo una prassi ma una regola. Anzi, una legge: la legge mancia. Il meccanismo è antico ma viene in qualche modo «codificato» nel 2003 da Giulio Tremonti.
Il sistema con la Finanziaria
Patti chiari: per evitare l’assalto a quella che all’epoca si chiamava ancora Finanziaria, il governo promette di lasciare qualche milione di euro per gli interventi suggeriti dai parlamentari. E amicizia lunga, che funzionava così: raccolta delle richieste fra deputati e senatori, divisione dei soldi in modo da rispecchiare il peso politico (cioè il 65% alla maggioranza), risoluzione in Parlamento con la lista della spesa e poi decreto del governo sugli «Interventi per la tutela dell’ambiente e dei beni culturali nonché per lo sviluppo economico e sociale del territorio». Oggi, ufficialmente, la legge mancia non c’è più: visti i tempi non viene considerata presentabile. Ma di fatto lotta ancora insieme a noi, spezzettata per poi essere infilata qua e là sotto forma di emendamenti.
Dal volley alla «Xylella»
Già nella legge di Stabilità i «micro finanziamenti» erano stati numerosi, con i 2 milioni per i mondiali di pallavolo, i 3 per l’Orchestra dei virtuosi italiani di Verona, i 5 per combattere la «Xylella fastidiosa» che danneggia gli ulivi del Salento e via emendando. Ma è stato proprio con il decreto salva Roma che la pratica è tornata a galla in tutto il suo splendore. L’ultima infornata di finanziamenti a pioggia è arrivata con l’emendamento della relatrice, Magda Angela Zanoni, senatrice Pd ed ex assessore al Bilancio del Comune di Pinerolo. Mezzo milione per il Comune di Pietrelcina, paese di Padre Pio, uno per le scuole di Marsciano, in Umbria, un altro per il restauro del palazzo municipale di Sciacca, in Sicilia, e via così. Tutte richieste raccolte dai gruppi parlamentari, messe insieme per far quadrare i conti, con il governo che formalmente resta fuori dalla partita. Cancellata la legge mancia, c’è il rischio che in ogni decreto spunti un articolo mancetta.

Repubblica 27.12.13
La cattiva notizia
di Sebastiano Messina


Temo di avere una cattiva notizia per i parlamentari. Non basterà tagliare i seggi di Palazzo Madama, per riconquistare il rispetto di chi è rimasto senza lavoro. Non basterà eliminare le Province, per riguadagnarsi la fiducia di chi non ha potuto fare i regali di Natale. Non basterà neanche cancellare il finanziamento ai partiti, per riavere la stima dei tartassati. C’è una cosa, che quelli che stanno là fuori ritengono insopportabile più di ogni altra: i vostri stipendi. La demagogia non c’entra: in un Paese pieno di debiti, di disoccupati e precari senza speranza, oggi un politico non può incassare 13 mila euro al mese senza perdere il diritto a essere chiamato “onorevole”. Lo so, è una brutta notizia che il superstipendio sia diventato un problema. Ma ce n’è anche una buona: siete ancora in tempo, per dimezzarvelo.

il Fatto 27.12.13
Michela Marzano. Dieci mesi in Parlamento
“Per me sofferenza e frustrazione”
di Wanda Marra


Se lo rifarei? Nonostante tutto, penso di sì. Anche perché credo che - come sempre nella mia vita - trasformerò la sofferenza e la frustrazione in qualcos’altro”. Michela Marzano, filosofa, intellettuale, scrittrice, docente all’università di Parigi, ora deputata del Pd riflette così sulla sua scelta di candidarsi in Parlamento l’anno scorso. Capolista in Toscana nel listino di Bersani, era stata presentata come uno dei fiori all’occhiello dei Democratici, il suo era uno dei nomi che giravano di più per un ministero. Poi, travolta dalla sconfitta del centrosinistra e dalla caduta dell’ex segretario, si è ritrovata deputata semplice, in una situazione generale diversa da quella che s’era immaginata.
Come mai è arrivata in Parlamento?
Mi chiamarono nello stesso giorno prima Enrico Letta, poi Bersani, chiedendomi se ero disponibile a una candidatura. Io risposi di sì, pensando che fosse il modo per portare nell’agenda del palazzo del potere le questioni delle quali fino a quel momento m’ero occupata come intellettuale.
Co m ’è stato l’impatto?
Per me la sera delle elezioni fu drammatica, ma non inaspettata. Avevo creduto a una vittoria del centrosinistra, ma poi arrivata in Italia per la fine della campagna elettorale capii che era in corso un’emorragia di consensi. Il Pd non era in grado di intercettare la rabbia, la disperazione, la domanda di cambiamento che arrivavano.
E il periodo successivo, l’elezione del presidente della Repubblica, i 101 traditori, come li ha vissuti?
Ho scoperto progressivamente che anche il Pd era intriso dei vecchi meccanismi della politica. È stato uno choc. Come rendermi conto che la scelta di candidare persone nuove, provenienti dalla società civile, a partire da me, dipendeva più dalla voglia di portare delle figurine, che da una reale volontà di cambiamento.
E la nascita del governo Letta?
Dopo i 101 non c’era altra possibilità se non fare quello che non si sarebbe mai dovuto fare, il governo con Berlusconi.
Pensa che questo esecutivo abbia ancora ragione di esistere?
Io mi fidavo e mi fido di Letta, penso anche ora che stia facendo il possibile, ma, come dice Renzi, ci vuole un cambio di marcia.
Lo pensa anche dopo la figura fatta con il ritiro del salva Roma su richiesta di Napolitano?
Ho sperato che sarebbe stato ritirato domenica scorsa e invece ci hanno chiesto la fiducia. Averlo revocato è stata la scelta giusta. Certo il governo avrebbe dovuto farlo prima, di sua sponte.
Qual è oggi il suo bilancio?
Sono “fratturata”, tra il senso di responsabilità che mi dice che devo rimanere qui per cambiare le cose e la voglia di mollare tutto e tornare alla vita di prima.
Quali sono le cose di cui è soddisfatta e quelle che proprio non hanno funzionato?
Avevo riposto molte speranze nel provvedimento sull’omofobia e sono rimasta delusa da quello che abbiamo approvato. Sono contenta delle misure sul femminicidio. Sull’immigrazione e sui Cie non si è fatto nulla: penso che la Kyenge abbia molte responsabilità negative per questo.
Lei è passata a Renzi. Perchè?
È l’unica chance rimasta di cambiamento. Noi dobbiamo portare in Italia giustizia sociale, pari opportunità, etica, diritti.
Lui è proprio la persona giusta per farlo?
È l’unica possibilità, ripeto. Gli ho chiesto un appuntamento per parlare di questi temi. E poi serve un ripensamento nel governo.
Parla di rimpasto?
Sì, è necessario. Un esempio: la delega alle Pari opportunità ce l’ha Cecilia Guerra, che si occupa di Welfare. Ci vuole un’impostazione diversa.

Corriere 27.12.13
La Regione Lazio taglia
Ma la penale costa 10 volte il canone annuo
di Sergio Rizzo


ROMA — Il regalino risale al 2002, quando la Regione Lazio era in mano a una solida maggioranza di centrodestra. Governatore, Francesco Storace. Presidente del consiglio regionale, l’attuale senatore di Forza Italia Claudio Fazzone. Per motivi imperscrutabili si decise che lo stesso consiglio, che com’è noto ha sede a Roma, aveva l’impellente necessità di dotarsi di un ufficio di rappresentanza. Dove? Ma nel centro di Roma, a due passi dagli uffici dei deputati, ovviamente. Si poteva forse essere così crudeli da rifiutare ai consiglieri un punto d’appoggio nella Capitale al riparo delle intemperie d’inverno, e della canicola d’estate, senza costringere loro e i loro ospiti illustri ad affrontare un viaggio in taxi verso la periferia ovest della città, dov’è la sede della Pisana? Anche l’affittuario era il medesimo che aveva ceduto in locazione alla Camera con il meccanismo del global service i palazzi che ospitano gli studio degli onorevoli: la società Milano 90 dell’immobiliarista Sergio Scarpellini, titolare di uno dei più prestigiosi allevamenti di cavalli d’Italia. Contratto superblindato: nove anni più nove.
All’epoca le macchine della politica giravano a pieno ritmo, bruciando immense quantità di denaro. Le Regioni, poi, avevano letteralmente inondato la Capitale di uffici di rappresentanza e il mondo intero di piccole ambasciate. Al cospetto del mare di soldi nel quale nuotavano i partiti e della leggerezza con cui anche le istituzioni li amministravano, quei 320 mila euro l’anno che il consiglio regionale del Lazio pagava per un appartamento di 600 metri quadrati a Roma, sembravano quisquilie.
E nonostante fosse chiaramente un’assurdità senza senso da tutti i punti di vista, quella spesa era riuscita a sopravvivere a un giro di centrodestra e al successivo giro di centrosinistra. Finché, con le polemiche montanti sui costi della politica e le oggettive difficoltà di bilancio, la faccenda non era diventata indifendibile e insostenibile. Trascorsi i primi nove anni il presidente del consiglio regionale Mario Abbruzzese (Popolo della libertà, ora in Forza Italia) arrivò quindi alla dolorosa conclusione di dare seguito alla pratica già aperta dal suo predecessore Bruno Astorre (Partito democratico): quella di rescindere il contratto. A febbraio del 2011 lui stesso lo ribadì in una lettera al Corriere replicando a un articolo che aveva ricordato quella storia. «Per la sede di via Poli il contratto è stato rescisso. Inutile citarlo, dunque, se non per registrare un risparmio di 300 mila euro annui», scriveva Abbruzzese.
Peccato che la società Milano 90 avesse impugnato la decisione, argomentando che la rescissione era avvenuta senza rispettare i termini del contratto. E rivendicando un indennizzo pari ai nove anni di canone restanti. Il calcolo dà un risultato stupefacente: 2 milioni e 880 mila euro. Per parare il colpo, la Regione aveva dato incarico a un paio di avvocati fra cui un legale di Cassino, Massimo Di Sotto, concittadino di Abbruzzese. Ma il giudice non ha potuto fare altro che accogliere le tesi contenute nel ricorso. Consapevoli del rischio di dover pagare una tombola, del resto, al consiglio regionale si erano già preparati ad affrontare una costosa conciliazione: proposta però bocciata dalla giunta.
La vicenda è stata poi sommersa, e soffocata, dal precipitare degli eventi. Lo scandalo dei milioni versati nelle casse dei gruppi politici consiliari, lo scioglimento del consiglio e della giunta di Renata Polverini, le elezioni e il ritorno al governo del centrosinistra. Di quella storia, sulla quale ora pende il giudizio d’appello, si sono letteralmente perse le tracce. Ne resta soltanto una, ai limiti dell’inverosimile. Nel sito internet della Regione Lazio c’è una pagina di «contatti», con gli indirizzi e i numeri di telefono di tutti gli uffici. Ci credereste? Tre anni dopo la rescissione del contratto, nella casella del consiglio regionale figura ancora l’indirizzo della «sede di rappresentanza» di via Poli, 29. Ma se si compone il numero di telefono una voce metallica avverte che «il numero selezionato è inesistente». Almeno la bolletta telefonica hanno smesso di pagarla...

Corriere 27.12.13
Quei tagli al trasporto pubblico che fanno litigare cittadini e lavoratori
di Paolo Conti


L’ultimo episodio risale alla mattina del 24 dicembre, vigilia di Natale. Un’autista dell’Atac, l’azienda romana del trasporto pubblico (controllata al 100% dal Campidoglio) aggredita mentre era alla guida della linea 05 a Ostia. Una passeggera si è scagliata contro di lei per il ritardo con cui viaggiava. L’autista è finita all’ospedale «Grassi» di Ostia, l’altra è scappata.
Nel 2013 sono state tante, le aggressioni agli autisti Atac. In alcuni casi, teppisti. Ma sono drammaticamente cresciute le storie legate alle tabelle orarie quasi mai rispettate, alle attese sempre più lunghe e snervanti a tante fermate, alle vite di migliaia di passeggeri stravolte da un disservizio che procura ritardi sul lavoro e con gli impegni familiari. Su Twitter volano racconti di autisti fermi a chiacchierare tra loro, il web gronda filmati che testimoniano autentiche odissee in autobus strapieni.
Ma è raro che siano gli autisti a decidere. La verità è che l’Atac sta modificando in corso d’opera l’organizzazione delle linee e degli orari per ridurre i costi. Parliamo di un’azienda allo sbando, come ha ammesso l’assessore alla Mobilità Guido Improta: 744 milioni di debiti, 11.804 dipendenti di cui solo 5.900 autisti e appena 70 controllori e ben 1.400 amministrativi, introiti miseri rispetto ai bus di Londra e Parigi che incassano quattro volte di più, lo scandalo di parentopoli che ha appesantito gli organici. Per allontanare i manager «alemanniani» ritenuti inadeguati, l’Atac dovrà sborsare 5 milioni di euro di buonuscite.
In questo quadro, il nuovo amministratore delegato Danilo Broggi ha annunciato una «razionalizzazione» dei percorsi con tagli a linee e fermate «inutili». Il sindaco Ignazio Marino farebbe bene a non sottovalutare certi segnali di protesta sociale che colpiscono dipendenti di un’azienda allo stremo. E dovrebbe riflettere su quanto sia assurda la contraddizione di invitare i romani a usare i mezzi pubblici abbandonando quelli privati e poi tagliare su qualità, quantità e orari di tram, bus e metro. Qualche protesta isolata può trasformarsi in una rivolta più organizzata. Basta un’attesa (di mezz’ora) a certe fermate per capirlo.

il Fatto 27.12.13
Questione Capitale
La linea C è già costata un miliardo in più
Metro e rifiuti, Roma non la salva nessuno
di Daniele Martini


Il rischio è che il progetto possa perdere pezzi, cioè stazioni. Intanto in città fallisce anche la raccolta differenziata: nelle strade cumuli di rifiuti che diventano il cenone dei maiali. Il sindaco Marino sempre più nei guai
ROMA DA PANTANO AL PANTANO METRO C, BIDONE MILIARDARIO
RISPETTO ALLA GARA, L’OPERA È GIÀ COSTATA OLTRE UN MILIARDO DI EURO IN PIÙ

Anche a Roma c’è un pozzo di San Patrizio e si chiama metropolitana C. È un buco senza fondo simile a quello della leggenda, ma non custodisce ricchezze favolose. Nasconde costi a profusione, piuttosto. Come marchiata dalla maledizione italiana delle grandi opere che non finiscono mai e succhiano denaro pubblico al pari di idrovore, la metro capitolina in costruzione sta diventando una specie di Salerno-Reggio Calabria in versione urbana. Come la lunga autostrada del Sud, anche la metropolitana romana non è un’opera inutile, anzi. Ma sta trasformandosi in un incubo per il Comune di Roma e tutti i contribuenti italiani essendo interamente finanziata con denaro pubblico.
RISPETTO AI TEMPI di costruzione e al costo dell’opera stabiliti nel contratto dell’autunno 2006, siamo già fuori con l’accuso: doveva essere consegnata in 1.760 giorni e siamo a più di 2.600 e ancora non si vede la fine. Doveva costare 2 miliardi e 683 milioni di euro e invece ammontano a 3 miliardi e 740 milioni le somme elencate nell’ultimo aggiornamento contabile scaturito dal famoso e contestato accordo di settembre tra Campidoglio e costruttori (il cosiddetto “atto Improta”, da Guido Improta, assessore ai Trasporti). Il di più è già 1 miliardo e 56 milioni di euro, con un incremento percentuale del 39 per cento. Non è uno scherzo, considerando che proprio in queste settimane il Comune di Roma, al pari di molti altri comuni d'Italia, è arrivato sull’orlo della bancarotta finanziaria, appesantito da un debito spaventoso di 867 milioni di euro, così grave che il governo avrebbe voluto alleggerirlo con un intervento ad hoc, il famoso decreto “Salva Roma”. E considerando pure che la metro C non è affatto finita, anzi, ora in ballo c’è la costruzione della linea da San Giovanni a Piazza Venezia: la famosa tratta T3, il pezzo dell’opera più contestato e più a rischio per quanto riguarda l’esplosione dei costi. Solo per la stazione di Piazza Venezia il Decreto del fare del governo Letta ha stanziato altri 370 milioni di euro, cosicché il costo complessivo della metropolitana C sale a 4 miliardi e 110 milioni. Le gallerie saranno scavate intorno al Colosseo e sotto il Foro romano e la possibilità che a ogni metro le talpe si imbattano in un ritrovamento storico e in un reperto archeologico non è remota, è quasi una certezza. Ogni fermata imposta da un’evenienza del genere comporterà anche una fermata dei cantieri e quindi una moltiplicazione di costi.
Di fronte a questa infausta prospettiva, si allarga il fronte di coloro che vorrebbero che per la metro C non si proceda a qualsiasi costo. Alcune settimane fa, delegazioni di cittadini e associazioni favorevoli a un radicale ripensamento dell’opera sono stati formalmente ricevuti in Campidoglio, e la faccenda ha avuto una sua importanza, non solo simbolica. Comitati e organizzazioni vorrebbero che intanto si finissero i lavori del lungo pezzo dall’estrema periferia est di Pantano a San Giovanni e si mettesse in esercizio la linea rispettando il termine promesso di metà del 2015. E poi si tornasse a riflettere sull’opportunità di proseguire verso Piazza Venezia e in direzione del quartiere Mazzini. Ragionando se non sarebbe più conveniente, piuttosto, evitare il Vietnam del Foro romano deviando su un percorso alternativo verso il Circo Massimo.
LA GARA EUROPEA per i lavori della nuova metropolitana romana si svolse all’inizio del 2006 partendo da una base d’asta di 3 miliardi di euro e un tempo di realizzazione di 2.380 giorni. Il consorzio di imprese formato da Vianini (Caltagirone), Astaldi, Ansaldo e Cooperativa braccianti di Carpi sbaragliò gli altri 6 concorrenti con un’offerta strepitosa: 364 milioni di euro di ribasso e tempi ridotti di 2 anni. Le cose, però, presero subito un’altra piega. Al momento della stesura del contratto avvenuta poche settimane dopo, lo schema dei lavori fu totalmente rivoluzionato rispetto a quello descritto nella gara: invece di realizzare il tratto da Alessandrino a piazza Venezia (tratte T5, T4 e T3), decisero di costruire la metropolitana dal deposito di Pantano a San Giovanni (tratte T7, T6, T5 e T4). Fu una modifica gigantesca e clamorosa, avvenuta come se niente fosse. Da allora è stato tutto un rincorrersi di aumenti di spesa e di tempi. L’incremento dei costi oggi è di circa 418 mila euro al giorno, il 63 per cento in più della produttività giornaliera preventivata dal consorzio dei costruttori. È aumentato tutto. Le attività di “alta sorveglianza”, cioè il compenso alla società comunale Roma Metropolitana che ha il compito di seguire i lavori, è salito, per esempio, da 25 a 52 milioni di euro, i collaudi da 6 milioni a 15, l’“atto Improta” del settembre scorso per scongiurare il blocco dei lavori dopo la serrata dei costruttori si è portato via 352 milioni, il commissario straordinario costerà altri 870 mila euro. Dal 2006 a oggi c’è stata una sequela di perizie di variante, cioè di modifiche, addirittura 45, che hanno succhiato altri 360 milioni di euro.

il Fatto 27.12.13
Baruffe capitoline
Roma, la politica litiga e il Teatro affonda
di Cam. Tag.


Appello a Sua Santità: “Papa Francesco, salvi l’Argentina! ”. Non la sua terra, si capisce, ma il Teatro di Roma, uno dei più importanti Stabili pubblici, nonché cuore dei palcoscenici capitolini (comprende pure l’India, ora in ristrutturazione, e fino a qualche tempo fa i Teatri di cintura), impantanato in baruffe politiche, che da un mese impediscono la nomina del nuovo Consiglio di amministrazione. Gli ultimi a farsi sentire, a ridosso del Natale, sono stati i lavoratori del teatro, coalizzati e preoccupati “non per le posizioni lavorative, ma per la colpevole mancanza di responsabilità. Per la quarta volta era prevista l’Assemblea dei Soci – Comune, Regione e Provincia – e, ancora una volta, non è stato trovato un accordo sui nomi per le cariche ai vertici. Allo stato attuale, con un CdA in proroga, i contratti per le compagnie, i tecnici, gli artisti e i servizi non possono essere garantiti”.
L’assessore alla cultura del Comune, Flavia Barca, sostiene che la nomina “arriverà prima di Capodanno”, smentisce ogni qualsivoglia bagatella politica, peraltro tutta in seno alla sinistra, e ribadisce che il presidente è nominato “su incarico fiduciario del sindaco”: l’ultima parola spetta a Ignazio Marino, che secondo le “voci di corridoio” sarebbe orientato a scegliere una donna. In queste settimane si è ipotizzato, e poi bruciato, più d’un candidato papabile: dal manager Innocenzo Cipolletta al veltroniano Gianni Borgna, boicottato da Sel perché “odora di Modello Roma di tanti anni fa”, fino ad Alessandro Gassmann, che ha declinato l’invito.
MENO FLUTTUANTI, invece, le voci sul nuovo direttore: il favorito è Ninni Cutaia, dirigente del Mibact, che prenderà il posto di Gabriele Lavia. Nel frattempo, il presidente uscente, Franco Scaglia, ha rassegnato dimissioni viperine (“Marino dovrebbe fare il chirurgo, non il sindaco; il ciclista, non il sindaco: quello non lo sa fare”) ed espresso perplessità sui finanziamenti pubblici: “I conti sono in ordine, ma la Regione non paga dal 2009 e per questo c’è un’esposizione bancaria con 150 mila euro di interessi passivi all’anno”. Proprio per la gravosa situazione economica il Teatro di Roma, a novembre, paventava l’interruzione dell’attività, se non la chiusura tout court, avendo accumulato 5 milioni di euro di debiti con le banche. Di contro, lo stabile vanta crediti nei confronti degli enti locali: la Regione gli dovrebbe quasi 6 milioni di euro e il Comune 783 mila. La Provincia, seppur commissariata, è l’unica a essere in regola con i versamenti (250 mila annui), idem il Mibact, che rifonde 1,5 milioni. L’allarme sembra, comunque, in parte rientrato: il Comune fa sapere di non avere più debiti e la Regione dichiara un arretrato di “soli” 2,175 milioni di euro. Inoltre, dicono dalla Cultura, “l’impegno rivendicato dal Teatro per il 2013 nasce da un pasticciaccio della giunta Polverini, all’epoca già dimissionaria”. Quegli 1,7 milioni “furono messi a verbale ma non trascritti nel bilancio”. Ciò detto, l’attuale giunta si impegna a trovare i soldi promessi. Scaricabarili a parte, anche lo Stabile ha debiti nei confronti dello stato (250 mila euro tra Ires, Irap, erario e casse di previdenza), oltre, tra gli altri, ai 200 mila euro che deve al personale e senza contare che nel 2012 ha registrato un -25% di ricavi sugli spettacoli.
INTANTO INCOMBE il decreto “Valore Cultura” di Massimo Bray, convertito in legge a ottobre, che sarà in parte attuativo da gennaio, ma entrerà a regime nel 2015: in vista di una sostanziale razionalizzazione del settore della prosa, teatri e compagnie stanno già lavorando per rientrare nelle nuove griglie. Al posto degli attuali 67 Stabili (tra pubblici, privati, d’innovazione e per ragazzi), sopravvivranno solo una manciata di Teatri Nazionali (4-5) e di Interesse Pubblico (30-35). I nuovi criteri di erogazione del Fus (che rimarrà sui 66 milioni di euro) dovrebbero essere più rigidi – è bene usare il condizionale vista la capacità nel Paese di glissare sulle regole – con l’istituzione pure di una Commissione di critici. La programmazione dei cartelloni tornerà a essere triennale; ci sarà l’obbligo di mettere in scena almeno due autori italiani contemporanei e diminuiranno le coproduzioni. La riforma più attesa e discussa è quella dei direttori (limite di mandato e incompatibilità tra direzione e regia): gli entusiasti già l’acclamano come una “Rivoluzione per decreto”. Basta che non finisca come nel paese di Flaiano, dove “a causa del cattivo tempo la Rivoluzione è stata rinviata a data da destinarsi”.

il Fatto 27.12.13
Salute e affari
La lobby delle medicine non paga la crisi nel Paese delle truffe
L’industria punta sulla tecnologia e taglia i venditori
La minaccia alla politica che vuole rinegoziare i prezzi
Occupazione a rischio se cambiano le regole
di Chiara Paolin


La scenetta classica della ragazza in minigonna che attende in sala d’aspetto ormai non vale più. Idem per il collega che siede davanti al medico invitandolo al convegno di fine maggio: Costiera Amalfitana o Cinque Terre, programma di lavoro ridotto al minimo per gustarsi la gita in barca o il pesciolino nel piatto. Niente da fare, tutto finito e tutto molto vietato dal nuovo regolamento Farmindustria.
Via chi non serve più
La farmaceutica oggi ha mollato la categoria dell’informatore medico. Lo conferma l’inchiesta su 23 top manager (da Pfizer ad AstraZeneca) indagati dalla Procura di Milano per aver infilato in una bad company circa 1.200 venditori, gente finita presto per strada causa bancarotta: non servivano più, sono stati eliminati. “Ormai l’affare della sanità è roba per pesci enormi – spiega un informatore -. Coi tagli ai finanziamenti pubblici, e la fame della politica sempre più aggressiva, l’unica convenienza delle grandi case è fare lobby nelle alte sfere, spingere i prodotti nei protocolli di cura, avere l’ok degli organismi di controllo per i brevetti nuovi. Perder tempo col porta a porta non serve più, e quindi non serviamo più nemmeno noi”.
Chi resta s’adegua e fa salti mortali pur di portare a casa uno stipendio. Eppure il comparto non mostra sofferenze serie, considerato il contesto generale. “Il mercato farmaceutico chiuderà il 2013 con un trend positivo (+ 2,4% sul cumulato gennaio-settembre) trainato dall’andamento del comparto specialistico e ospedaliero, mentre il canale farmacia è stabile” ha detto a Quotidianosa  nita.it   Sergio Liberatore, general manager di Ims Health Italia, società che organizza il marketing farmaceutico. E nel breve-medio termine? “Il mercato farmaceutico sarà rallentato dagli effetti della crisi economica e dal conseguente contenimento dei costi da parte delle pubbliche amministrazioni. Vanno considerati gli effetti dei possibili ripiani degli sforamenti dei budget per la spesa farmaceutica richiesti alle aziende”.
La piramide
La traduzione è semplice: il mercato, nonostante tutto, regge. E l’obiettivo primario resta la sanità pubblica, i 110 miliardi di euro che serviranno nel 2014 per tenere in piedi il sistema tra medici, farmaci e ospedali. Il problema è che il fondo non basta mai. Lo sforamento dei tetti per le varie voci di spesa è stata una costante negli ultimi decenni: sprechi gestionali e truffe maestose hanno sottratto forze cospicue, ma anche le politiche difensive della lobby farmaceutica hanno impedito di abbassare i costi.
Il monte totale dello stanziamento sanitario fissato dallo Stato viene suddiviso in una piramide di voci via via più dettagliate, dai grandi bacini nazionali (medicinali, ospedali, assistenza domiciliare), passando alle attribuzioni regionali per arrivare alle quote dei singoli prodotti di ciascuna casa autorizzata a vendere in Italia, a prezzo concordato. Cioè per la pillola X si stabilisce il prezzo di vendita e il rimborso che andrà a carico del servizio sanitario nazionale, ma anche il numero massimo di pezzi che ogni medico potrà prescrivere: quando la pillola X viene venduta oltre la quantità stabilita, il medico è sanzionato e il produttore va soggetto al payback, una sorta di mancato rimborso.
La tecnica serve a contenere la spinta commerciale, e nel 2012 ha ottenuto un buon risultato: come spiega l’Aifa (Agenzia italiana per il farmaco), sulla spesa farmaceutica complessiva - 25 miliardi e mezzo di euro - il tetto per le medicine ordinate in studio ha sostanzialmente retto, pur restando differenze territoriali importanti (i siciliani hanno assorbito 1.110 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti, a Bolzano 743 su 1000). Sforata brutalmente invece la spesa farmaceutica ospedaliera (fuori del 101%): vale 5 miliardi di euro contro i 20 del territoriale, ma promette bene per il futuro.
Target ospedaliero
Spiega il direttore generale dell’Aifa, Luca Pani: “Finora la spesa farmaceutica territoriale ha compensato l’aumento di quella ospedaliera. Ma nel momento in cui si porta il tetto della territoriale al limite minimo di tenuta, non abbiamo più spazio per compensare quella ospedaliera. Visto che quest’ultima sale, perché i farmaci innovativi per fortuna stanno arrivando sul mercato, ma costano tanto e vanno somministrati in ospedale, questo richiederà presumibilmente che si modifichino i tetti di spesa. Basterà aumentare il tetto dell’ospedaliera e il sistema reggerà benissimo”.
Dunque, ricetta più che tradizionale: il mercato italiano, che vive da sempre in simbiosi con la politica, deve trovare un nuovo patto economico dentro il Parlamento. Soprattutto perché da qui al 2018 scadranno decine di brevetti fondamentali per la farmacologia moderna, e tutta la partita dei generici dovrà essere compensata da nuovi prodotti. Chi li produrrà? E chi li venderà in Italia, sesto mercato mondiale per il farmaco?
Usa superstar
Un’idea viene dalla classifica dei top seller nel nostro paese. In testa c’è l’americana Pfizer, la più grande azienda farmaceutica del pianeta, che in Italia fattura oltre un miliardo di euro. La squadra Usa (Pfizer e altri) totalizza 5 miliardi di fatturato, 13 mila dipendenti ed esprime il presidente di Federfarma, Massimo Scaccabarozzi, amministratore delegato di Janssen Cilag (Johnson & Johnson). Una vera corazzata che difende il corpo produttivo nazionale, 26 miliardi di fatturato e 63 mila addetti, cifre che raddoppiano con l’indotto diventando il fiore tecnologico dell’industria italiana, un gioiello di qualità votato all’export (67%) e con la minaccia sempre in canna: se non si fa come conviene a noi, facciamo presto ad andarcene. Ministri, assessori, direttori sanitari e medici fin qui compiacenti hanno poco da ribattere se un mese fa è stato arrestato l’ennesimo consigliere regionale con l’accusa di aver favorito un clan camorristico per gli appalti all’Asl di Caserta; e se i titolari della più importante casa italiana, la Menarini, sono stati rinviati a giudizio lo scorso giugno per evasione fiscale, riciclaggio e corruzione. Una truffa al Servizio sanitario nazionale.

il Fatto 27.12.13
Farmindustria: cala il Pil, aumenta la produzione


SECONDO l’ultimo rapporto di Farminidustria, durante la crisi (2007-2012) il Pil è sceso del 7% mentre la produzione farmaceutica è cresciuta del 2%. Gli investimenti totali sono crollati del 15%, mentre quelli del comparto sono aumentati del 4%. Nello stesso periodo le imprese del farmaco hanno aumentato la loro produttività del 3% annuo, l’incremento più alto tra tutti i settori dell’economia. L’industria farmaceutica in Italia è inoltre il primo settore manifatturiero per intensità di distribuzione e vendita; e, tra quelli hi-tech, il principale per presenza industriale.

il Fatto 27,12.13
Nerina Dirindin Legge di Stabilità
“Al Senato ha vinto la proposta del farmacista”
di C. P.


La senatrice del Pd Nerina Dirindin dice che, quando si tratta di farmaci, la politica sta sull’attenti.
Anche quando si fa la legge di Stabilità?
Sempre.
Lei ha presentato un emendamento rivoluzionario.
Avevo chiesto di far fare agli ospedali le gare d’acquisto per classi omogenee di farmaci, cioè per prodotti con la stessa indicazione terapeutica o lo stesso principio attivo.
In concorrenza pura per le aziende produttrici.
Infatti nessuno ci ha preso sul serio, ma me l’aspettavo. In realtà puntavamo tutto sull’altra proposta.
Quale?
Far comprare alle Asl i farmaci a carico del servizio sanitario, affidando alle farmacie solo la distribuzione del prodotto: se è una Asl a comprare i farmaci, ha per legge uno sconto di almeno il 50% dal produttore. Così, quando il medico ti ordina l’antibiotico e tu lo ritiri in farmacia, lo Stato lo ha pagato la metà. É un meccanismo già operativo per il Pht, il prontuario per patologie che necessitano un monitoraggio continuo: medicinali distribuiti dai farmacisti per conto degli ospedali.
Per quali altri farmaci proponeva questo giro alternativo?
Si poteva scegliere, trattare con l’industria farmaceutica. Non pretendevo di spostare tutti gli acquisti, ma di avviare il percorso per ottenere un risparmio immediato. Servivano 300 milioni per il fondo della non autosufficienza.
Oggi tappavamo un’urgenza, domani si poteva contare su un meccanismo di risparmio.
L’obiettivo è la riqualificazione della spesa: tagliare sulla sanità non si può più, spendere meglio si deve. Eccome.
È passata la sua proposta?
La commissione Bilancio l’ha bocciata. Invece è passato l’emendamento del collega Andrea Mandelli, che ha fatto uscire dal Pht alcuni farmaci.
Mandelli è il presidente della Federazione degli Ordini dei farmacisti Italiani, uno dei 4 farmacisti eletti in Parlamento?
Esatto.
La senatrice del Pd Nerina Dirindin dice che, quando si tratta di farmaci, la politica sta sull’attenti.
Anche quando si fa la legge di Stabilità?
Sempre.
Lei ha presentato un emendamento rivoluzionario.
Avevo chiesto di far fare agli ospedali le gare d’acquisto per classi omogenee di farmaci, cioè per prodotti con la stessa indicazione terapeutica o lo stesso principio attivo.
In concorrenza pura per le aziende produttrici.
Infatti nessuno ci ha preso sul serio, ma me l’aspettavo. In realtà puntavamo tutto sull’altra proposta.
Quale?
Far comprare alle Asl i farmaci a carico del servizio sanitario, affidando alle farmacie solo la distribuzione del prodotto: se è una Asl a comprare i farmaci, ha per legge uno sconto di almeno il 50% dal produttore. Così, quando il medico ti ordina l’antibiotico e tu lo ritiri in farmacia, lo Stato lo ha pagato la metà. É un meccanismo già operativo per il Pht, il prontuario per patologie che necessitano un monitoraggio continuo: medicinali distribuiti dai farmacisti per conto degli ospedali.
Per quali altri farmaci proponeva questo giro alternativo?
Si poteva scegliere, trattare con l’industria farmaceutica. Non pretendevo di spostare tutti gli acquisti, ma di avviare il percorso per ottenere un risparmio immediato. Servivano 300 milioni per il fondo della non autosufficienza.
Oggi tappavamo un’urgenza, domani si poteva contare su un meccanismo di risparmio.
L’obiettivo è la riqualificazione della spesa: tagliare sulla sanità non si può più, spendere meglio si deve. Eccome.
È passata la sua proposta?
La commissione Bilancio l’ha bocciata. Invece è passato l’emendamento del collega Andrea Mandelli, che ha fatto uscire dal Pht alcuni farmaci.
Mandelli è il presidente della Federazione degli Ordini dei farmacisti Italiani, uno dei 4 farmacisti eletti in Parlamento?
Esatto.

il Fatto 27.12.13
Scuola in rosso
Brescia, sos ai prof in pensione “Venite a fare lezione gratis”
di Marcello Longo


Gratis e dopo la pensione. Due contraddizioni per un’offerta di lavoro. L’ennesimo paradosso nel settore dell’istruzione pubblica. Le scuole di Brescia, preoccupate per la mancanza di fondi, lanciano un sos e si rivolgono ai docenti a riposo. L’obiettivo è salvare i corsi di potenziamento e altre attività extra-curriculari che le loro casse non possono garantire. Ecco dunque l’appello ai colleghi in pensione: tornare fra i banchi senza alcun compenso, da volontari. Nel dettaglio, si tratta di lezioni dedicate al sostegno degli studenti stranieri, che nella città lombarda superano il 25 per cento nelle scuole medie ed elementari. Ma l’iniziativa ha un orizzonte più ampio: possono aderire anche ingegneri o musicisti per l’insegnamento della matematica, della musica e per l’organizzazione di attività extra-didattiche. “Dopo la carta igienica pagata dalle famiglie, le minacce di tagliare i riscaldamenti, i ritardi nel pagamento dei supplenti, arriva il professore in quiescenza che torna a lavorare senza compenso”, denuncia l’Anief, l’associazione sindacale che unisce docenti e ricercatori.
GLI INTERESSATI dovranno presentare al comune di Brescia il curriculum vitae. Le richieste saranno valutate d’intesa con gli istituti e sarà creato un albo apposito. Una volta chiamati saranno assegnati alle scuole in base alle richieste avanzate dai presidi. La proposta ha ricevuto l’approvazione dell’assessore comunale all’Istruzione, Roberta Morelli: “Negli ultimi due anni abbiamo assistito al calo progressivo dei fondi regionali per il finanziamento di queste iniziative e la disponibilità dei volontari può assicurare continuità progettuale e finanziaria a tanti interventi”. Non è d’accordo Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’Anief: “Siamo di fronte a una tendenza molto pericolosa: nominare docenti in pensione per collaborare a titolo gratuito è una deriva che trae origine dai tagli ai finanziamenti per le scuole e dalle inadempienze dei pagamenti loro destinate da parte del ministero delle Finanze”. La protesta dell’Anief si muove su due fronti. Da un lato, l’associazione si chiede perché “non si sia neppure lo stanziamento dei fondi del ministero dell’Università e della Ricerca destinati alla formazione dei docenti impegnati nell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua. Dall’altro, la denuncia si concentra sul progressivo taglio alle risorse del fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (Mof): “Nell’anno scolastico 2013-2014 è stato eliminato il 25 per cento del fondo”. A Brescia si moltiplicano gli interventi per tamponare le falle della scuola pubblica: dal fund raising proposto dall’assessore Morelli per raccogliere risorse, alla rete dei genitori per le piccole manutenzioni. All’istituto comprensivo Kennedy, ad esempio, i papà degli studenti sono dovuti intervenire per mettere a posto le prese elettriche: non ce n’erano abbastanza per collegare i computer donati da alcune famiglie alla scuola.

il Fatto 27.12.13
Eataly Firenze
Il Bignami del Rinascimento: l’ultima idea per vendere paccheri
di Tomaso Montanari


“Eataly presenta il Rinascimento”. Esattamente come fa McDonald’s, che a Roma cita le rovine classiche e in Toscana i cipressi, anche la catena di Oscar Farinetti si mimetizza. Lo fa con lo stesso grado di fantasia (minima) e omologazione commerciale (massima). E visto che Firenze vive da secoli alle spalle del mito usuratissimo del Rinascimento, a cosa altro pensare per il nuovo negozio?
“Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre”, recita un cartello con ritratto del nuovo Vate. E lasciamo fare l’idea che la storia sia una top ten: è incredibile definire “percorso museale” alcuni piccoli pannelli appesi intorno alla scala che sale al primo piano e fruibili (unico particolare... ‘museale’) anche attraverso un’audioguida con la viva voce del “celebre scrittore e professore”.
Ma non era meglio dialogare con Firenze, invece che farne il riassunto? Non siamo a Sydney, o a Pechino: perché mai un fiorentino o un turista dovrebbero perdere tempo a sentire una sfilza di inevitabili banalità invece di andare a vedere con i propri occhi il Rinascimento, che si trova a pochi metri? E qui capisci che lo spirito di Eataly è il contrario di quello di Slow Food, del chilometro zero o, per rimanere a Firenze, di un Fabio Picchi: quello che conta è il packaging, la confezione. Che è capace di venderti tutto, perfino il Rinascimento ai fiorentini.
LA COSA diventa imbarazzante quando si legge. Un fiume di aneddoti triti e ritriti (e raccontati senza comprenderli: come quello sui crocifissi di Donatello e Brunelleschi, che manca del finale), riassuntini da wikipedia, slogan a effetto (Lorenzo il Magnifico è “una scimmia squisita”), tentativi penosi di stupire (il David di Donatello è definito “rilievo a tutto tondo”, ed è fotografato dal lato b). Un bignamino del Rinascimento da terza media, ma raccontato come se fosse una rivelazione storico-letteraria.
Sul sito di Eataly Firenze, poi, la cosa diventa tragica. “Gli otto valori del Rinascimento secondo Scurati” (ma quanto l’hanno pagato per convincerlo a prestarsi a una cosa del genere?) sono un rosario di errori madornali, in un italiano che non può essere del “celebre scrittore”: “Si abbandona la brutalità del Medio Evo per valori più raffinati e nobili quali la bellezza e la gentilezza che diventano norme del comportamento” (e addio allo Stilnovo, e alla cavalleria) ; “Le leggi matematiche lasciano spazio all’idea di infinito tramite la prospettiva centrale che durante il Rinascimento viene teorizzata da Leon Battista Alberti” (dove Alberti è scambiato per Giordano Bruno, e annegato in una specie di maionese storica impazzita). Ma ancora: “Si parte da Piazza Annunziata dallo Spedale degli Innocenti, l’edificio realizzato da Brunelleschi è il simbolo dell’origine dell’architettura rinascimentale e il protagonista indiscusso Cosimo de’ Medici, sovrano di Firenze ma soprattutto mercante d’arte”. Allora: la piazza si chiama della Santissima Annunziata (e questo è un dettaglio), e Cosimo non fu il sovrano di Firenze, e non fu un mercante d’arte (e questi non sono dettagli). E così via, pannello dopo pannello.
Ma come è possibile strumentalizzare con tanta arroganza qualcosa che si dichiara di voler far conoscere? È questo che intende Oscar Farinetti quando dichiara: “Caravaggio non può esser tenuto in cantina, non so se mi spiego”? E “gli studi e le ricerche inutili” che – come ha detto al Fatto – andrebbero eliminati, sono per caso quelli di storia e storia dell’arte? Esci da Eataly pensando all’identico uso del Rinascimento che fa il grande amico di Farinetti, Matteo Renzi: che non scrive un libro senza condirlo di strafalcioni su Leonardo, Michelangelo e Brunelleschi, che fora i muri di Palazzo Vecchio per cercare affreschi inesistenti e annuncia di voler costruire facciate progettate 500 anni fa. È la stessa idea di cultura ridotta a strumento per venderti qualcosa: poco importa se il prosciutto, o una candidatura.
E ormai non riesci a capire se è Renzi che imita Farinetti, o Farinetti che imita Renzi. L’unica cosa certa è che il Rinascimento non è mai stato così lontano.

l’Unità 27.12.13
Concesso il visto: Shalabayeva può tornare in Italia
di U. D. G.


Bonino, in un’intervista al Tg de La7 ha detto: “Questo caso mi è bruciato, perché non c’entravo nulla. La legge italiana - ha aggiunto - per giusta o sbagliata che sia, affida il controllo del territorio al ministro dell’Interno: punto. La Farnesina viene richiesta solo se si tratta di diplomatici accreditati”
Con uno “stile” opportunistico che non ci è piaciuto affatto e che ci è molto dispiaciuto per quanto nel passato avevamo sperato in lei, disperatamente cercando di “rifarsi una verginità”, tenta, senza riuscirvi, di farci dimenticare che quando il governo Letta si schierò vergognosamente in solidarietà con lui al fianco del ministro - appunto - dell’Interno, Angelino Alfano, che sosteneva spudoratamente la propria inconsapevolezza irresponsabilità e totale innocenza nella vergognosa vicenda della deportazione di Alma Shalabayeva e della sua bimba Alua, consegnate con la forza e l’inganno - illegalmente - al loro persecutore kazako,  anche lei votò per Angiolino Alfano con quel governo, non si distinse in alcun modo da esso, e restò al proprio posto in quello stesso governo, e al fianco di quello stesso ministro che oggi invece ammette essere stato il responsabile dell’abuso, dunque facendosi complice di esso.
Repubblica 27.12.13
La polemica
Kazakhstan, Shalabayeva libera per lei e la figlia un visto italiano “Oggi arriveranno a Roma”
Il ministro degli Esteri: la vicenda mi è bruciata, io non c’entravo
di Pietro Del Re


MOSCA — «A partire da oggi la signora Alma Shalabayeva può lasciare il Kazakhstan per qualsiasi Paese». La notizia viene battuta dalla agenzie il 24 dicembre, poco dopo le 9 del mattino. Ad annunciarla è il portavoce del ministero degli Esteri kazako, Zhanbolat Usenov, chiudendo una vicenda sulla quale la Farnesina ha lavorato per mesi dietro le quinte e continuerà a lavorare fino al rientro in Europa della moglie dell’ex oligarca e dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. «È previsto che arrivi stamattina a Roma insieme alla figlia Alua», annunciano i suoi avvocati, a meno di clamorose retromarce dell’ultima ora del governo del Kazakhstan.
La Shalabayeva, che fu brutalmente espulsa dall’Italia il 31 maggio scorso, e rispedita di forza ad Astana assieme alla sua bambina, «potrà lasciare il Paese dietro il pagamento di una cauzione, perché le autorità di polizia del Kazakhstan hanno deciso di cambiare le misure cautelari per il divieto di viaggiare al di fuori da Almaty ». Dietro questo colpo di scena c’è il lavoro della diplomazia italiana che in questi mesi ha cercato di riparare il danno fatto a primavera con la “deportazione” della donna.
Ed è stato proprio al ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, che la Shalabayeva ha telefonato la vigilia di Natale per rivolgere all’Italia «grandissimi ringraziamenti per l’incisiva assistenza fornita da Roma per farle riacquistare la libertà di movimento». E ieri la Bonino, in un’intervista al Tg deLa7 ha detto: «Questo caso mi è bruciato, perché non c’entravo nulla. La legge italiana - ha aggiunto - per giusta o sbagliata che sia, affida il controllo del territorio al ministro dell’Interno: punto. La Farnesina viene richiesta solo se si tratta di diplomatici accreditati». Il ministro degli Esteri, ha poi aggiunto poi di aver informato il ministro degli Interni Alfano della svolta, e del fatto che alla donna è stato consegnato un visto italiano.
Alma Shalabayeva che fino al maggio scorso risiedeva nel nostro Paese venne prelevata in una controversa operazione di polizia e messa su un aereo diretto alla volta del Khazakhstan con la figlia. Dai senatori del Pd Andrea Marcucci e Isabella De Monte, al senatore di Sel Arturo Scotto, in molti si augurano che con il suo rientro in Italia, quando fornirà lei stessa la versione sul caso che fece tremare il ministro dell’Interno Angelino Alfano, verranno chiarite le molte zone d’ombra su una operazione di polizia «formalmente mai autorizzata dal Viminale, informalmente con ogni probabilità colpevolmente tollerata».

Corriere 27.12.13
Perché servono le rappresentanze
L’egoismo sociale non è una risposta
di Giuseppe De Rita


Se mi è permesso per una volta dissentire dalla linea di opinione del Corriere vorrei segnalare il mio preoccupato sconcerto per la generalizzata voglia di spappolare ogni forma e struttura di rappresentazione sociale intermedia, sindacale, datoriale o associativa che sia. Anche sul piano politico la tendenza è evidente (basta pensare all’accanimento sull’abolizione delle Province o sulla decomposizione dei partiti) ma è sul piano sociale che si concentra in queste settimane l’attacco: il sindacato è un fattore di irrigidimento e conservazione, la Confindustria è in crisi di incidenza e di lucidità su ogni politica di rigore e sviluppo; Rete imprese Italia non corrisponde alle speranze di quando nacque, tre anni fa; le associazioni professionali sono luoghi di bieco e centrale corporativismo; il cosiddetto terzo settore è inquinato da professionismo camuffato.
Tutti questi soggetti sembrano destinati alla rottamazione, a livello nazionale e ancor più a livello locale, visto che le loro strutture periferiche non riescono neppure a fidelizzare i propri iscritti. Hanno fatto il loro tempo, e solo qualche nostalgico ama ricordare che buona parte dello sviluppo dei decenni passati e del fronteggiamento della crisi più recente è dovuto alla responsabilità di coesione sociale espressa proprio dalle citate rottamande sedi di rappresentanza.
Devo confessare che questa voglia di lacerare il tessuto intermedio della nostra società non mi convince e non mi piace, anche se riconosco che per molte delle rappresentanze stanno operando tentazioni suicide (l’essersi intruppate nella drammatizzazione enfatica della crisi da un lato e lo slittamento crescente verso la rappresentanza e la politica dall’altro). Non mi convince perché il cecchinaggio continuato di questo periodo porta in primo luogo alla vittoria della rappresentazione sulla rappresentanza: fa spettacolo l’inquadratura televisiva di un precario disperato o di un «forcone» furibondo, ma tutto resta senza alcuna conseguenza reale, neppure di protesta organizzata; e porta in secondo luogo ad aumentare a dismisura la solitudine di tutti i soggetti sociali (cittadini, imprenditori, lavoratori che siano) con una conseguente grande poltiglia antropologica; e porta infine tale solitudine individuale e tale poltiglia collettiva alla disperata ricerca di una personalizzata e verticistica leadership in cui riconoscersi. Capisco che a qualche leader la cosa piaccia, ma non serve alla società; esprimiamo spesso il timore che l’aumento del disagio e delle diseguaglianze sociali possano mettere in pericolo l’equilibrio democratico del Paese; ma io sono convinto che il pericolo maggiore lo corriamo se lasciamo andare per proprio conto il disagio e le diseguaglianze senza garantirsi filtri e mediazioni intermedie.
Spappolare tali filtri e tali mediazioni è quindi operazione che non mi convince; ma è anche operazione che non mi piace, per le modalità con cui si tende a procedere. Ci sento un sapore di prepotenza dell’opinione (lo abbiamo visto specie nel caso delle Province) che non tiene conto dei processi reali in corso: per cui nessuno ci spiega perché si diano legnate su legnate sull’associazionismo datoriale, l’unica sede in cui si può coltivare propensione imprenditoriale interna, quando si vuole incentivare gli investimenti esteri in Italia; nessuno si sofferma di fronte ai faticosi processi di ristrutturazione e crescita delle nuove rappresentanze (prima fra tutte Rete imprese Italia) che pur stanno fronteggiando — con successo — la moltiplicazione egoistica degli interessi; nessuno ci sa spiegare perché le associazioni professionali debbano cedere il passo a una disordinata molecolarità di iniziative personali senza alcun controllo di merito e, talvolta, di deontologia. Tutto è da decostruire, con un gusto distruttivo che si appaga di se stesso, spesso senza alcuna apertura alla discussione, al confronto per una pur necessaria rivisitazione del nostro spazio intermedio.

Repubblica 27.12.13
Care donne, fatemi un regalo: cancellate “femminicidio”
di Guido Ceronetti


IL MIO contributo alla giornata salvadonne è tardivo, ma capitale. Si tratta di eliminare l’orripilante femminicidio, che le abbassa a tutto ciò che, in natura, è di genere femminile, dunque zoologico, col destino comune di figliare e allattare. Ma, per noi, se non siamo bruti, donna significa molto di più. L’etimologia latina ne restringe il ruolo allo spazio domestico (domina); il Medioevo occidentale l’ha inventata (o rivelata) ideale, e su quel trono è rimasta, anche quando trattata a frustate. Sopprimiamo femminicidio e facciamogli subentrare da subito ginecidio. Non è un neologismo bellissimo, ma appartiene alla schiera dei derivati dal greco classico (giné-gynekòs) che suonano in italiano benissimo: gineceo, ginecologia, ginecofobia, misoginia, ginecomanía, ginandria... Non pensavo mi toccasse di proporre il termine più accettabile per una cosa tanto ripugnante. Però femminicidio va sbattuto fuori dal linguaggio, se ci sarò riuscito me ne farò un minimerito.
Nessun pericolo viene dal misogino. Le donne non hanno niente da temere. Misogini furono Euripide, Schopenhauer, l’autore biblico Qohélet, Leopardi, in genere quasi tutti i poeti e i filosofi, che mai si macchiarono di ginecidio, e delle donne, per troppo amore, per lo più furono vittime innocenti.
Schopenhauer, in vecchiaia, in un colloquio disse: — Mah... sulle donne non ho detto l’ultima parola... — Bisognerebbe indovinarla, perché quell’anima di profondità morì prima di averla detta. Spinoza, mani immacolate, patì il morso della gelosia per la figlia del suo maestro di latino, che gli preferì un altro allievo padre, e lui si rassegnò ad una solitudine senza sgarro, dove lo raggiunse anche la maledizione della sinagoga, chiudendosi nella gloria di un Dio che vide ben da vicino, maimpossibile da amare, inaccessibile a qualsiasi preghiera. Il capolavoro della misoginia italiana è il trattato “Se s’abbia a prender moglie” di Giovanni Della Casa, che si limita a sconsigliare implacabilmente ai giovani celibi il matrimonio, a causa della sfrenata libidine delle mogli, ma considera la sua messa in guardia una quaestio lepidissima, e si guarda bene dal risvegliare nella vittima mascolina l’istinto ginecida.
A più riflessione può indurre invece l’opinione di Nikola Tesla, figura delle più affascinanti, inventore della corrente alternata e profeta ispirato delle guerre future (in America è ritenuto il vero inventore della radio). Nel 1924, quasi settantenne, Tesla pensava che la più grande tragedia del nostro tempo fosse l’avvento del potere femminile, un combattimento escatologico delle donne contro l’uomo per subentrargli nel lavoro e nelle professioni, quindi capovolgendo i ruoli nella famiglia, buon motivo per lui di stare alla larga. (Avesse mai immaginato Thatcher, Golda, Indira, Hillary!). La riscossa maschile che vediamo è da specie degenerata: la coltellata, gli spari, lo stupro in branco, già in età precoce, per cura preventiva. Qui divergo dalle compunte proposte di rimedi culturali, scolastici, educativi — scappatoie per paura di applicare misure implacabilmente repressive. Una comunità senz’anima, né patriarcale né matriarcale, al bivio di Buridano, non può rispondere che debolmente a questo autentico attacco alla specie umana. Preferiamo esporre le ragazzine, piuttosto che terrificare i colpevoli.
Caro, adorabile genio solitario di Nikola Tesla! Le sue lunghe strane mani di extraterrestre (tale fu creduto da chi lo conobbe) mai si sarebbero macchiate di un qualsiasi atto malvagio! Ma vorrei fargli, nella sua stanza celibataria dove visse senza dimora fissa, al Waldorf Astoria, questa domanda: — C’è un diritto prestabilito fra tutte le leggi della realtà patriarcale che valga la trasgressione di Antigone? Se ci manca (e in verità ci manca) il lamento, la cura rituale di Antigone, scenderemo davvero placati tra i morti? E se qualcosa di lei ancora ci venisse incontro nei deserti manageriali e professionali, non sarà da benedire questa usurpazione? — Antigone, sorella di tutti i morti e di tutti i malvivi, la figlia di tutti i ciechi Edipi. La vista di una donna che singhiozza su un corpo morto, nelle grandi catastrofi naturali e nelle stragi politiche, consola: quel morto non è solo,non è consegnato senza compianto alla Macchina Sociale, alla purificazione crematoriale. Violentare, sfregiare, uccidere una donna è lo stesso che uccidere l’eterna legge trasgressiva di Antigone, quella dell’amore, perdutamente ed esclusivamente scritta sugli astri.

Corriere 27.12.13
Francia
L’aumento dei disoccupati imbarazza il socialista Hollande
di E. Ro.


PARIGI — Novembre ha quasi completamente cancellato il vantaggio segnato a ottobre: dei 20.500 disoccupati spariti dalle liste del collocamento in Francia, due mesi fa, ne sono riapparsi 17.800 il mese scorso. Appartengono alla categoria A, la più disperata, quella che non ha alcun tipo di attività per sostenersi. Il suo ingrossamento dello 0,5% è un guaio per il presidente della Repubblica, François Hollande, che promette dal 2012 un’inversione della curva della disoccupazione entro la fine del 2013. «Aspettiamo di vedere in gennaio i dati relativi a dicembre», prende tempo il governo. Ma l’opposizione si prepara, con un certo compiacimento, a fischiare le politiche messe in atto dall’amministrazione socialista e giudicate insufficienti ad alimentare la crescita e quindi la ripresa anche nel mondo del lavoro.
«La tendenza resta buona — minimizza Hollande attraverso un comunicato —, la regressione della disoccupazione è iniziata. La tendenza alla diminuzione è modesta, ma chiara e netta». Però ha delegato al ministro del Lavoro, Michel Sapin, l’onore e l’onere di commentare i nuovi dati forniti dall’ufficio di statistica del suo dicastero: «Le cifre confermano la loro volatilità, da un mese all’altro — si è barcamenato il ministro —, perciò bisogna esaminarli in un arco di tempo più ampio. Da questo punto di vista ci troviamo di fronte a un miglioramento rispetto all’inizio dell’anno. Un miglioramento che si conferma, gradualmente».
Combinando le medie mensili, su base trimestrale, e i numeri relativi a diverse tipologie di disoccupati: quelli che non hanno alcun impiego e quelli che hanno un’attività parziale o ridotta, si nota una lieve regressione in novembre dello 0,1% tra chi è in cerca di lavoro. Il governo, insomma, chiede ancora un po’ di pazienza. Ma dalle fila dell’opposizione, l’ex primo ministro del governo Sarkozy, François Fillon (Ump), concede poco credito all’Eliseo: «La trappola si è richiusa un altro po’ su François Hollande, che è a un passo dal perdere la sua grande scommessa politica. Questo prevedibile fiasco è il risultato di una cattiva strategia economica. Invece di accelerare su investimenti, competitività e riduzione del debito, la Francia è diventata campionessa europea dell’imposizione fiscale».
Per il primo semestre dell’anno prossimo, il governo intende garantire 70 mila posti per la formazione dei disoccupati più giovani e di orientare verso quelli ultracinquantenni, o senza lavoro da più tempo, gli sforzi per agevolare la loro assunzione con incentivi, fiscali o economici, alle imprese. Nel 2013 sono stati firmati 450 mila contratti di questo tipo.

il Fatto 27.12.13
“Comédie Italienne” a Parigi con finale melodrammatico
Attilio Maggiulli, fondatore e direttore dello storico teatro, si è schiantato con lk’auto sui cancelli dell’Eliseo
Voleva protestare contro il taglio dei fondi
di Carlo Antonio Biscotto


Alle 10:30 di ieri mattina un’auto ha tentato di sfondare, senza riuscirci, il cancello principale dell’Eliseo a Parigi. Non è stata una azione terroristica. Alla guida dell’utilitaria c’era Attilio Maggiulli, fondatore e direttore dello storico teatro ”Comédie Italienne”, ritrovo nel XIV arrondissement di Parigi di tutti coloro che amano la cultura e il teatro italiani. Maggiulli, attore e regista, nato a Corato (Bari) 67 anni fa, viveva a Parigi da 40 anni e negli anni 70, con il sostegno e l’incoraggiamento di grandi esponenti della cultura italiana tra cui Giorgio Strehler e Italo Calvino, aveva fondato a Montparnasse il teatro nel quale si rappresentavano in lingua francese produzioni italiane, classici e piece contemporanee.
LA POLIZIA francese ha arrestato Maggiulli che presentava qualche lieve escoriazione e appariva in stato confusionale.
Condotto in stato di fermo alla Centrale con l’accusa di danneggiamento di edificio pubblico, violenza privata e condotta pericolosa per l’altrui incolumità, Maggiulli avrebbe dichiarato che intendeva attirare l’attenzione sulle difficoltà economiche del suo teatro a seguito dei tagli alla cultura.
Stando a un’altra fonte di polizia, Maggiulli era già stato fermato nel pomeriggio di mercoledì nei pressi dell’Hotel Marigny, che si trova a non molta distanza dal palazzo presidenziale.
Secondo la stampa francese, l’uomo aveva tirato fuori dalla sua auto ”un Arlecchino e gli aveva dato fuoco dopo aver cosparso di alcol il manichino e aveva poi lanciato in strada volantini per denunciare le diminuite sovvenzioni al suo teatro”.
Maggiulli era stato fermato, interrogato dalla procura e immediatamente rilasciato senza alcuna accusa.
“L’uomo sembrava sull’orlo di una crisi di nervi”, ha fatto sapere la polizia francese dopo averlo interrogato. “Ho sentito un gran botto, mi sono voltato e ho visto un’auto grigia schiantata contro il cancello dell’Eliseo”, ha detto un testimone a Le Parisien. Dopo l’interrogatorio, Maggiulli è stato trasferito in ospedale per verificare la gravità delle ferite riportate e per svolgere accertamenti sul suo stato mentale.
IL TEATRO versava da tempo in gravissime difficoltà tanto che nel 2009 per salvarlo dalla chiusura, una petizione firmata da artisti e intellettuali italiani e francesi tra i quali Juliette Binoche, Renzo Piano, Michel Piccoli, Daniel Pennac e Fabrice Lucchini, era stata inviata al ministero francese della Cultura. Maggiulli, che ha lavorato con Ariane Mnouckine per il Théâtre du Soleil, e nel 1974 aveva aperto con l’attrice francese Helene Lestrade il suo Teatro italiano di Montparnasse poi diventato “Comédie Italienne”, non è nuovo alle clamorose proteste. Nel 1999, costretto a chiudere temporaneamente i battenti del teatro per mancanza di fondi, Maggiulli aveva venduto i costumi che gli erano stati regalati dal Piccolo di Milano e dalla Scala per pubblicare a pagamento su Le Monde e Libération una “Supplica del povero Arlecchino” diretta a Jacques Chirac e a Lionel Jospin.
In attesa di una risposta da parte del presidente e del primo ministro, aveva dato inizio a un digiuno di protesta.

il Fatto 27.12.13
Allievo di Strehler
Quel regista che sbeffeggiava B.
di Camilla Tagliabue


Fu il Re Sole, nel 1697, a chiudere per decreto il Théatre Italien, colpevole di satira velenosa nei confronti della sua favorita, Madame de Maintenon. Attilio Maggiulli, 67enne di Corato (Bari), è il degno erede di quell’irriverente tradizione, tanto da aver rifondato, nel 1974, insieme all’attrice Hélène Lestrade, la Comèdie Italienne di Parigi, ovvero il “Teatrino italiano di Montparnasse”, che negli anni vantò ospiti illustri come Samuel Beckett, Eugene Ionesco, Peter Brook, Italo Calvino, Dario Fo, Jean-Louis Barrault, Giovanni Arpino, Guido Ceronetti, Renzo Piano, Leonardo Sciascia e Jean Baudrillard. Da sempre orgoglioso delle proprie radici italiane, il regista si è formato nella vivace Milano degli anni Sessanta; è stato allievo di Giorgio Strehler e Jacques Lecocq e ha poi lavorato con il Thêatre du Soleil di Ariane Mnouchkine. Nel 2009 è stato insignito dal presidente Giorgio Napolitano della nomina a Commendatore della Repubblica per meriti.
NELLE ULTIME stagioni si è dedicato soprattutto alla Commedia dell’Arte, con oltre 50 messinscene, non disdegnando l’etichetta di “conservatore”: fedele, infatti, all’“esprit” di Arlecchino, da Goldoni a oggi, ha portato in scena la migliore scuola italiana, persino quella meno frequentata, dal Piccolomini a Flaminio Scala, da Machiavelli a Ruzante, da Fiorilli a Gherardi, dall’Aretino a Gozzi. Cosmopolita per vocazione, Maggiulli ha lavorato pure in Russia e in Polonia, ha tenuto seminari alla New University francese e ha aperto una scuola di recitazione in seno al suo teatro. Da ragazzo ha sperimentato inoltre l’ardore giornalistico, collaborando come corrispondente per “l’allora direttore di Lotta Continua, il mio antico compagno di studi Enrico Deaglio. Dei miei reportage e interviste da Parigi non vidi mai un centesimo, ma mi divertii un sacco”.
Fedele, poi, alla tradizione del teatro civile, Maggiulli ha allestito numerose pièce d’impegno, da Guantanamo Palace nelle università californiane ai discussi spettacoli su Berlusconi e Sarkozy. Qualche anno fa, a proposito del suo George W. Bush ou le triste cow boy de dieu, disse: “Ci fu un gran casino mediatico (Times, Los Angeles Times…), ma anche molte personalità che mi sostennero, come Susan Sarandon, Robert De Niro, gli amici di Berkeley e altri”. L’ultima sua rappresentazione, in cartellone quest’anno, è Noblesse et Bourgeoisie, ispirata ai canovacci e alle baruffe goldoniane. Ma la poetica è da sempre la stessa, quella di “un teatro che non teme di additare il re se questo è nudo”.

Repubblica 27.12.13
L’Onu contro Cameron: “Sugli immigrati schedatura etnica”


LONDRA – La Gran Bretagna sta rischiando di creare le premesse per delle «schedature etniche». Non sono lievi, le parole dell’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, António Guterres, nel documento di aspra critica contro la proposta di legge sull’immigrazione voluta da Cameron, già attaccata nei giorni scorsi dal ministro dell’Industria, il libdem Vince Cable. Il disegno di legge prevede restrizioni all’accesso bancario, agli affitti e alla sanità pubblica.Con il 2014, finiranno le misure restrittive per la circolazione degli europei dell’est e si prevede un forte afflusso di romeni e bulgari. Ma le misure ipotizzate, con un “tetto” di 75mila ingressi di migranti europei all’anno e Cameron che minaccia di usare il potere di veto verso l’Ue per bloccare un “eccesso” di europei, hanno mosso l’Onu, preoccupata che le nuove restrizioni colpiscano rifugiati e richiedenti asilo.
(a.b.)

l’Unità 27.12.13
Tetyana e Mulhem, storie di reporter scomodi
La giovane ucraina picchiata e il fotografo ucciso ad Aleppo sono gli ultimi casi di violenza su giornalisti nel mondo
di Roberto Monteforte


Corriere 27.12.13
Il crudele pestaggio della giornalista e il nuovo arrogante potere in Ucraina
di Fabrizio Dragosei


Quando viene picchiata a sangue una giornalista famosa per le sue denunce sulle ricchezze occulte degli uomini del potere, è difficile credere che si sia trattato di un caso. Se poi si scopre che gli aggressori che hanno mandato all’ospedale Tetyana Chernovol si muovevano a bordo di una Porsche Cayenne da oltre centomila euro, allora il sospetto di una connessione con ambienti governativi si fa ancora più forte.
A Kiev la gente è andata a protestare sotto casa del ministro dell’Interno per l’aggressione a Tetyana; quello stesso ministro del quale lei aveva parlato sul suo blog, denunciando la costruzione su un suo terreno di una supervilla. Prima ancora la giornalista aveva svelato che la «modesta abitazione» che il presidente Viktor Yanukovich diceva di possedere era ben altra cosa: un palazzo con colonne di marmo in un parco con tanto di eliporto.
Adesso qualcuno dice che Tetyana è stata solo vittima di un diverbio stradale e la polizia ha arrestato i tre presunti aggressori. Staremo a vedere se poi le indagini andranno avanti e gli uomini finiranno davanti a un giudice e verranno condannati.
Di certo c’è il fatto che negli ultimi giorni diversi oppositori sono stati pestati in varie parti dell’Ucraina. E che il potere sembra aver imboccato la strada delle minacce e della repressione poliziesca dopo aver firmato la Grande intesa con la Russia di Vladimir Putin.
In un Paese che ha abolito i visti per gli europei, i Servizi di sicurezza hanno affermato di aver bloccato alle frontiere diversi stranieri «sospetti»: volevano unirsi ai manifestanti che occupano il centro di Kiev per «destabilizzare» l’Ucraina, è stato detto.
Lo stesso presidente, poi, ha tuonato contro gli amministratori locali della parte occidentale del Paese che solidarizzano con le proteste filoeuropee. Al sindaco di Leopoli, che ha intenzione di usare la sua polizia per proteggere i manifestanti pacifici da eventuali attacchi delle forze antisommossa, ha risposto: «Non tollereremo il nichilismo né tantomeno tentativi scissionisti». Sembra di sentire un altro presidente. Di un Paese un po’ più grosso e potente dell’Ucraina.

Corriere 27.12.13
Perché il presidente russo ha graziato Khodorkovskij
risponde Sergio Romano


Caro Romano, cosa sta succedendo in Russia? Come mai all’improvviso Putin ha decretato un’amnistia? Non pensa che sia un segnale all’Unione Europea?
Fosca Cassani

Cara Signora,
Per dare una migliore risposta alla sua domanda dovrei sapere se vi siano stati accordi e impegni con il prigioniero graziato. Forse avremmo dovuto attribuire maggiore importanza alla lunga intervista che Michail Khodorkovskij ha dato a Neil Buckley del Financial Times nello scorso autunno e che il giornale ha pubblicato nella sua edizione del 26 ottobre. Nei dieci anni della sua prigionia, l’ex proprietario della Yukos ha scritto articoli e pubblicato libri, ma questa, salvo errore, è la prima occasione in cui un giornalista occidentale è stato autorizzato ad avere con lui un lungo colloquio nella colonia penale di Serezha in Carelia, una regione al confine con la Finlandia. Dopo molte domande sulle condizioni della sua prigionia, Buckley ha chiesto a Khodorkovskij che cosa avrebbe fatto dopo la sua liberazione e ha aggiunto: «Lei ha detto di non avere programmi per entrare in politica o tornare agli affari. Ma se la gente glielo chiedesse, prenderebbe in considerazione un ruolo politico?». Anche dopo le dichiarazioni fatte recentemente da Khodorkovskij a Berlino, la risposta resta molto interessante: «So quanto fortemente i poteri costituiti temano la mia liberazione ed è questa la ragione per cui non faccio programmi. Le mie priorità sono la famiglia, i genitori, gli amici. Il ritorno agli affari non mi interessa e non sono attratto da incarichi governativi, dalla caccia ai voti di un elettorato prigioniero di logiche paternalistiche, dagli intrighi politici. Sono pronto a battermi per gli interessi di persone che dipendono da sé stesse e hanno il sentimento della propria dignità. Le comprendo e mi comprendono. Sfortunatamente, per ora, i veri cittadini in Russia, non sono molti, ma aumenteranno. Per questa ragione continuerò a impegnarmi in iniziative civili».
La mia impressione , cara Signora, è che non vi sarà un partito Khodorkovskij, ma una grande fondazione simile a quella creata da George Soros quando il finanziere americano di origine ungherese decise di lasciare ad altri la quotidiana gestione della sua impresa. Putin aveva certamente letto la risposta al Financial Times ed era probabilmente giunto alla conclusione che una tale prospettiva fosse politicamente meno pericolosa dei danni che la continua detenzione di Khodorkovskij avrebbe provocato alla sua immagine durante i prossimi Giochi olimpici. Il presidente russo sa che le Olimpiadi sono state spesso un evento politico, un grande palcoscenico per chi voleva guastare la festa con le proprie rivendicazioni. È accaduto nel 1968 in Messico, quando due atleti afro-americani salutarono il pubblico dal podio con il pugno chiuso delle Pantere nere; nel 1972 a Monaco, quando la formazione palestinese Settembre nero uccise undici atleti israeliani; nel 1980, quando gli Stati Uniti disertarono le Olimpiadi di Mosca in segno di protesta per l’occupazione sovietica dell’Afghanistan; nel 1984 quando l’Urss restituì l’offesa disertando quelle di Los Angeles.
Nulla e nessuno può garantire che a Sochi, durante le prossime Olimpiadi invernali, non vi sarà qualche manifestazione di protesta. Ma la grazia a Khodorkovskij e l’amnistia votata dalla Duma con la conseguente liberazione delle Pussy Riot (le ragazze che inscenarono un ballo blasfemo nella chiesa di Cristo Salvatore) e degli attivisti di Greenpeace, processati per l’attacco a una piattaforma petrolifera nell’Artico, dovrebbero eliminare le manifestazioni più imbarazzanti. Resta piazza Maidan a Kiev, teatro di grandi manifestazioni filo-occidentali, ma Putin pensa che i 15 miliardi di dollari stanziati per il risanamento dell’economia ucraina dovrebbero evitare che l’onda della protesta arrivi sino a Sochi.

il Fatto 27.12.13
Erdogan fa un’ecatombe di ministri per salvare il posto
Mega rimpasto di governo: il premier del partito musulmano cambia 10 ministri
Dopo la protesta di Gezi Park, la gente torna in piazzaper appoggiare la “Mani pulite” turca
di Roberta Zunini


Scatole di scarpe imbottite di dollari nascoste negli armadi contro scatole straripanti di frustrazione, brandite dai manifestanti tornati in piazza per chiedere le dimissioni del premier Tayyip Erdogan. La Tangentopoli turca sta mettendo a durissima prova il suo governo e la sua leadership, oltre al suo cerchio magico fatto di palazzinari timorati di Allah, uomini d’affari con mogli rigorosamente velate e conflitti di interessi. Non mancano inoltre alti funzionari pubblici, tra i quali l’Ad della banca statale Halk, Suleyman Aslan, nella cui casa sono stati trovati 5 milioni di dollari occultati nella scarpiera e organi di stampa asserviti o di proprietà di parenti, come il gruppo Calik, amministrato dal genero di Erdogan che possiede contemporaneamente imprese di costruzioni e giornali.
IL PREMIER ha cercato di salvare il salvabile con un mega rimpasto in cui sono stati sostituiti 10 ministri. Ma è arrivato troppo tardi e non ha, ovviamente, convinto l’opposizione, né i milioni di cittadini che sette mesi fa scesero nelle strade di tutte le principali città turche contro la sua brutale intolleranza nei confronti degli ambientalisti impegnati a proteggere il parco di Gezi dal suo progetto di cementificarlo. Un tentativo che gli stava riuscendo grazie alla complicità del ministro dell’ambiente-urbanistica Erdogan Bayraktar, il cui figlio è stato arrestato il 17 dicembre nell’ambito della maxi inchiesta per corruzione. Nella retata sono finiti in carcere anche il figlio del ministro degli Interni Muammer Güler e dell'Economia Zafer Caglayan.
Prima di accettare le loro dimissioni e procedere con il rimpasto, il premier ha cercato di insabbiare l’inchiesta rimuovendo i capi e i quadri della polizia (più di 400) che hanno investigato assieme ai magistrati ed eseguito il blitz, accusandoli di essere parte di un complotto ordito da forze oscure e legate ad ambienti stranieri. Si tratta peraltro di quella stessa polizia che Erdogan aveva definito “eroica”, pur avendo ucciso cinque giovani manifestanti disarmati, e difeso dalle critiche di violenza sproporzionata durante la sollevazione popolare estiva e di quei magistrati che aveva elogiato per aver istruito il maxi processo Ergenekon, una sorta di purga contro stampa e militari non in linea con la sua visione affaristica e islamica della società turca. “È un’operazione sporca come quella di Gezi per cercare di far cadere il mio governo a 3 mesi dalle elezioni regionali”, ha urlato Erdogan ai suoi sostenitori durante un comizio.
STAVOLTA però l’accusa potrebbe essere non del tutto campata in aria perché il suo più temibile nemico, il ricchissimo e influente predicatore islamico Fetullah Gullen, suo mentore e sostenitore negli scorsi anni, gliel’ha giurata per aver deciso di chiudere le scuole private preparatorie per gli esami di Stato. Nelle scuole del “Servizio” - il nome della setta di Gulen - hanno studiato molti dirigenti di polizia e magistrati che ora si trovano nei posti di comando e che, fino alla sentenza Ergenekon di agosto, erano considerati anche loro eroici. Uno di loro, Maummer Akkas, ha detto: “Tutti i miei colleghi e l’opinione pubblica dovrebbero sapere che come procuratore non sono riuscito ad avviare un’indagine”, riferendosi a un’inchiesta collaterale in cui sarebbe implicato anche il figlio di Erdogan. Fetullah Gulen, peraltro, vive in autoesilio negli Stati Uniti da 13 anni ed Erdogan sostiene che dietro di lui ci sia lo zampino degli Stati Uniti, tanto che l’altro giorno ha minacciato l’ambasciatore Usa in Tiurchia, Ricciardone di espulsione se “non si farà gli affari suoi e continuerà a ingerire negli affari interni turchi”.
Gli Usa, fin dai tempi di Bush junior hanno sotenuto Erdogan come garante dei loro affari, della Nato e dell’islam moderato in quest’area bollente del Medio Oriente. E in questi anni di egemonia incontrastata, Erdogan e il suo partito ( Akp) non hanno fatto prigionieri, licenziando e accusando di complotto i generali laici e i giornalisti che criticavano le mani sulla città, anzi su un Paese intero, di questo “sultano” post moderno convinto di poter rinverdire il potere degli ottomani.

il Fatto e The Independent 7.12.13
Egitto
Dal Palazzo al terrorismo la parabola dei Fratelli islamici
di Heather Saul


Il governo ”provvisorio” egiziano sostenuto dai militari, attribuendo alla “Fratellanza Musulmana” la responsabilità di un attentato contro una stazione di polizia, ne ha approfittato per dichiarare che si tratta di una organizzazione terroristica bollando di fatto come illegali e criminose tutte le sue attività, le forme di finanziamento e la stessa appartenenza ai Fratelli Musulmani. La decisione di inserirli nell’elenco dei gruppi terroristici rappresenta l’escalation del conflitto tra il governo e l’organizzazione appoggiata dall’ex presidente Mohammed Morsi deposto il 3 luglio.
L’ORGANIZZAZIONE era già stata messa fuori legge a settembre a seguito di una decisione della magistratura. Hossam Eissa, ministro dell’Istruzione superiore, ha spiegato che la decisione è stata presa in risposta all’attentato dinamitardo di martedì contro una stazione di polizia nella zona del delta del Nilo. Nell’attentato sono morte sedici persone. Al cospetto della stampa egiziana e internazionale, Eissa ha dato lettura della dichiarazione del governo adottata dopo un lunghissimo consiglio dei ministri: “Il governo ha dichiarato che la Fratellanza Musulmana e la sua organizzazione sono una cellula terroristica.
L’intero Egitto, dal nord al sud del Paese, è inorridito dai sanguinosi crimini commessi dalla Fratellanza Musulmana. Questi crimini hanno avuto luogo nel quadro di una pericolosa escalation di violenza contro l’Egitto e gli egiziani e sono la prova che i Fratelli Musulmani non conoscono altra strada se non quella della violenza”. La Fratellanza Musulmana ha negato ogni responsabilità nell’attentato contro la stazione di polizia di Mansoura che è stato rivendicato da un gruppo che si ritiene vicino ad Al Qaeda. Si tratta del gruppo militante più noto, Ansar Beit al-Maqdis, che ha confermato di aver organizzato e realizzato l’attentato per evitare “lo spargimento di sangue musulmano innocente” per mano del “regime apostata” che governa l’Egitto e che ha ordinato alle forze di sicurezza e ai servizi segreti di soffocare ogni forma di dissenso da parte degli islamisti dopo il colpo di Stato.
LA DECISIONE del governo arriva dopo che la settimana scorsa la Procura della repubblica egiziana aveva notificato all’ex presidente Morsi il terzo rinvio a giudizio con l’accusa di aver organizzato evasioni dalle prigioni durante la rivolta del 2011 e di aver fatto arrestare agenti di polizia con la collaborazione di militanti stranieri. Queste ultime accuse vanno ad aggiungersi a quelle che gli sono state mosse in precedenza e che sono al momento oggetto di due processi nei quali Morsi deve rispondere di incitamento alla violenza contro i nemici politici e di cospirazione con gruppi stranieri per destabilizzare l’Egitto. Per alcune delle incriminazione è prevista la pena di morte. Come temuto e previsto, la reazione non si è fatta attendere. Il ministro degli Interni ha confermato che 5 persone sono rimaste ferite nell’esplosione avvenuta ieri al passaggio di un autobus nel quartiere di Nasr City, Cairo, ad appena 48 ore dall’attentato contro la stazione di polizia nel delta del Nilo che aveva fatto 16 vittime e un centinaio di feriti L’ordigno di fabbricazione artigianale era stato piazzato su uno spartitraffico ed è esploso mentre transitava il bus con diversi passeggeri a bordo. Un secondo ordigno è stato fatto esplodere dagli artificieri.
Le immagini del bus sono state trasmesse dalla tv di Stato. Il portavoce del ministero dell’Interno, Abdel-Fatah Osman, ha dichiarato che la bomba aveva lo scopo di “terrorizzare la gente e seminare il caos”. Resta il fatto che gli attentati degli ultimi giorni hanno suscitato il giustificato timore di una spirale di violenze con l’avvicinarsi del referendum costituzionale di gennaio, il tutto mentre il governo favorisce apertamente una transizione a guida militare. Il governo ha invitato gli egiziani a battersi contro il “terrorismo nero” e sembra intenzionato a portare il conflitto fino al totale annientamento della Fratellanza Musulmana ritenendo che con questa organizzazione sia impossibile qualsiasi forma di trattativa e di compromesso. Da quando l’esercito ha deposto il presidente islamista Mohammed Morsi dopo giorni e giorni di manifestazioni di protesta contro la sua gestione del potere, gli attentati suicidi, gli attentati dinamitardi e le sparatorie sono divenuti quasi ordinaria amministrazione nella penisola del Sinai.
© The Independent Traduzione di Carlo Biscotto

La Stampa 27.12.13
Nella ricetta di Xi Iinping caccia ai media occidentali
di Anne-Marie Slaughter

qui

Corriere 27.12.13
Nuovi tiranni, clan e ricchezze
La maledizione della violenza etnica
di Michele Farina


Soyinka: «È la mentalità di dominio il dramma dell’Africa» Riek Machar contro Salva Kiir, l’ex vicepresidente di etnia Nuer che si ribella al presidente di etnia Dinka che l’ha licenziato. La radice della nuova guerra in Sud Sudan (migliaia di vittime e di sfollati negli scontri tra i due principali gruppi etnici) è una brutale sfida tra i clan che si contendono il potere nel più giovane Stato del mondo.
«Quando i politici usano la mobilitazione etnica per promuovere la loro agenda, la violenza può velocemente propagarsi come metastasi», ha scritto l’attore George Clooney in un appello alla comunità internazionale e ai due sfidanti di Juba. Da quelle parti Clooney s’è preso la malaria e il mal d’Africa, diventando un appassionato sostenitore dell’autodeterminazione per i 9 milioni di sud sudanesi. Gli occhi elettronici del suo «Satellite Sentinel Project» erano puntati sul confine con il Nord sui movimenti di truppe del regime di Khartoum che, dopo aver accettato a malincuore l’indipendenza dei vicini (costata 2 milioni di morti), ancora trama per destabilizzarla. Ma la leadership del Sud dimostra di non aver bisogno di aiuti esterni per spingersi sul precipizio. Clooney ha ragione a puntare il dito sulle agende personali dei capi coinvolti, gli stessi che ieri hanno lanciato timidi segnali di dialogo: a Juba sono volati i presidenti di Kenya e Etiopia per discutere con il presidente Kiir, mentre il rivale Machar pone come condizione per una tregua il rilascio di 10 suoi alleati. Ma la sfida personale tra due miopi politici non spiega perché la violenza inter-etnica sia ancora oggi così facile da scatenare nell’Africa del boom economico e della democrazia avanzante. Eppure Steven Pinker, nel suo monumentale libro sul «Declino della violenza», rileva come dal 1950 al 2003 le discriminazioni politiche ai danni di 337 minoranze etniche nel mondo siano calate dal 44% al 19% dei casi su un totale di 124 Paesi. E l’Africa non è stata l’unico teatro di infamie tra connazionali: il genocidio dei tutsi in Ruanda avveniva all’incirca negli anni in cui l’Europa assisteva ai massacri in Bosnia. Però poi è arrivato il terrore in Darfur, mentre il conflitto etnico ruandese si delocalizzava nel Congo. Anche Paesi relativamente stabili e prosperi (come la Costa d’Avorio) hanno visto in anni recenti degenerare lo scontro tra clan politici che hanno utilizzato «la mobilitazione etnica». Lo stesso presidente del Kenya chiamato a mediare in Sud Sudan, Uhuru Kenyatta, è accusato dal Tribunale penale dell’Aia (non nel suo Paese) di crimini contro l’umanità per gli squadroni della morte che hanno seminato violenza tra i Kikuyu, i Luo e i Kalenjin durante le elezioni del 2007 nella Rift Valley, la culla dell’umanità.
Kenyatta come Kiir, il presidente con il cappello da cowboy, o come Machar, l’eterno signore della guerra laureato in filosofia in Inghilterra, non hanno seguito le orme di Nelson Mandela sulla via dello Stato di diritto. È un’amara coincidenza che la morte del gigante sudafricano sia coincisa con l’esplosione di due crisi mortali nel cuore del continente. Nella Repubblica Centrafricana la guerra tra leader e gruppi militari si è incanalata e si è ingrossata lungo linee geografiche (Nord contro Sud) e religiose (musulmani e cristiani) innescando una catena di vendette tra comunità all’interno degli stessi quartieri. In Sud Sudan, che conta duecento gruppi etnici, lo scontro al vertice è «colato» alla base mobilitando in maniera caotica le due etnie principali. Ma come: proprio nel Paese più giovane del mondo, fino a ieri «storia di successo»? Nel suo libro «The J curve» del 2006 il geopolitologo Ian Bremmer dimostrava come proprio i Paesi che si staccano dall’autoritarismo vivano un periodo di maggiore instabilità prima di assestarsi sugli standard di libertà e apertura raggiunti «sulla carta». La mappa dell’Africa è cambiata sorprendentemente poco da quando fu disegnata dalle potenze coloniali meno di 150 anni fa, potenze che spesso hanno giocato e soffiato sulle differenze tribali per governare meglio. Molti osservatori considerano quel retaggio tra le cause dei conflitti di oggi. Ma il Nobel nigeriano Wole Soyinka, 79 anni, poeta e attivista considerato la «coscienza dell’Africa», ha parlato recentemente di una linea diretta che lega i tiranni di oggi (e le loro consorterie) agli africani che vendettero i propri fratelli ai negrieri occidentali. «I discendenti di quei collaborazionisti sono ancora tra noi: i problemi attuali del continente — dice Soyinka — dipendono in parte dalla nostra mentalità di dominio».

Corriere 27.12.13
La preoccupante crisi di liquidità in Cina
di Guido Santevecchi


La Cina chiude il 2013 con una crescita del Prodotto interno lordo del 7,6 per cento, in calo rispetto al 7,7 del 2012. Ma una cifra che la mantiene sempre in testa e con enorme distacco sul gruppo delle grandi economie mondiali, pronte a festeggiare anche un +1%. Però, la frenata progressiva di Pechino preoccupa il mondo globalizzato. La settimana scorsa l’allarme è venuto dal suo sistema bancario che si è trovato di fronte a una crisi di liquidità, la seconda in sei mesi. I «tassi interbancari» a sette giorni, che misurano il costo del denaro che le banche si prestano tra di loro, è schizzato all’8,94%. È dovuta intervenire la Banca popolare di Cina (l’istituto centrale) con un’iniezione di 5 miliardi di dollari in un solo giorno nel mercato finanziario. La manovra è riuscita: ieri il tasso è sceso di 344 punti base, fino al 5,4%. «Il peggio di questo round è passato», hanno commentato gli analisti di Shanghai che però già aspettano la prossima scossa.
Che cosa succede alla Cina? Dopo trent’anni di corsa del Pil a doppia cifra, a una media del 10 per cento l’anno, il partito comunista ha capito e deciso che il modello va cambiato. Il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno adottato lo slogan della «crescita sostenibile», a passo più lento, per arginare la diseguaglianza sociale. L’economia nei prossimi dieci anni sarà orientata più verso i consumi interni e il settore dei servizi che le esportazioni sostenute da investimenti statali poco remunerativi, spesso in perdita. Serve un rallentamento guidato con estrema attenzione, per evitare quello che in gergo economico si definisce «hard landing», vale a dire un atterraggio disastroso dopo un lungo volo. La Cina non può più pensare di essere la «fabbrica del mondo», perché il suo costo del lavoro sta salendo e ci sono molti altri Paesi asiatici e non che possono offrire opportunità migliori alla manifattura internazionale.
In questi ultimi anni, soprattutto a partire dal 2008, l’industria cinese ha avuto un accesso al credito troppo facile e spesso opaco. Secondo il Fondo monetario internazionale il cumulo dei prestiti classici e di quelli «non tradizionali» accordati dalle cosiddette «banche ombra», ha raggiunto il 200 per cento del Pil nel 2013. Era del 130% nel 2008. Si tratta di una bolla del debito che potrebbe esplodere, facendo saltare anche la seconda economia del mondo, come è già successo alle potenze occidentali.
Questi dati spiegano le due crisi di liquidità che hanno colpito il sistema finanziario cinese nel 2013. Finora la Banca centrale ha solo mandato segnali di avvertimento, ma il peggio potrebbe ancora venire. E le onde cinesi raggiungerebbero tutte le coste del pianeta globalizzato.
Bisogna essere molto preoccupati? Il partito comunista cinese ha fissato un obiettivo di crescita del Prodotto interno lordo al 7 per cento medio per i prossimi cinque anni, mantenendo la disoccupazione sotto il 5 per cento (oggi è al 4,1%). Il 7,6% che chiude il 2013 in questo senso sembra confortante.
Ma oltre a frenare il credito facile, Xi Jinping e Li Keqiang debbono stare attenti alla bolla immobiliare, visto che gli indicatori sui prezzi delle case sono gli stessi, o anche più allarmanti, di quelli che precedettero l’esplosione del mercato americano nel 2008. I prezzi delle abitazioni nelle grandi città cinesi sono saliti del 113% dal 2004 al 2012; quelli Usa erano aumentati dell’84% tra 2001 e 2006. E forse il dato cinese va anche ritoccato in alto, perché il 113% ingloba le case vecchie: se si considerano solo gli appartamenti nuovi l’incremento raggiunge il 250%. Negli ultimi mesi si sono susseguiti interventi per cercare di calmierare il mercato (sin qui senza buoni risultati).
Xi e Li non negano le difficoltà. Ma sono convinti di avere un’arma totale nel loro piano di sostegno dell’economia: l’urbanizzazione. Entro il 2020/2030 vogliono portare a vivere in città altri 400 milioni di cinesi. Un piano che lancerebbe i consumi interni, arricchirebbe i ranghi della classe media e, se riuscisse, aiuterebbe le esportazioni dal resto del mondo. C’è solo da sperare che a Pechino non sbaglino i conti.

Repubblica 27.12.13
Tokyo, lo schiaffo del premier alla Cina visita nel tempio dei criminali di guerra
Abe a Yasukuni per voltare pagina sul pacifismo di Stato
Lo Yasukuni Shrine è un tempio shintoista dedicato a chi è morto per l’imperatore
Nel libro delle anime ci sono 2.466.532 nomi: 1.068 sono criminali di guerra di cui 14 cosiddetti “criminali di classe A”
di Renata Pisu


SAPEVA benissimo il primo ministro giapponese Shinzo Abe che la sua visita, ieri mattina al Tempio di Yasukuni dove sono onorate le anime di tutti i caduti della Seconda guerra mondia-le, una sorta di Parco delle rimembranze nel centro di Tokyo, avrebbe suscitato un putiferio. Quindi — sono i primi commenti da parte cinese e della Corea del Sud — l’ha fatto apposta, per ribadire lo spirito guerrafondaio del nuovo Giappone, che mai si è dissociato in realtà dalla politica seguita all’epoca in cui il Giappone portò morte e distruzione in Cina, in Corea e in altri Paesi del Sud Est asiatico. Infatti, non sono onorati a Yasukuni soltanto semplici soldati e civili ma anche criminali di guerra, condannati al processo di Tokyo, la versione asiatica del processo di Norimberga contro i criminali nazisti.
Era dal 2006, dopo che il primo ministro allora in carica, Junichiro Koizumi, si era recato al tempio di rito scintoista, che le visite ufficiali erano state sospese, visite che si erano sempre svolte il 15 agosto, data della capitolazione giapponese del 1945. Abe, succeduto a Koizumi come premier, si era rammaricato di aver rinunciato durante il suo primo mandato di recarsi a Yasukuni ma ieri, primo anniversario del suo secondo mandato alla guida del governo nipponico, ha voluto platealmente inscenare, con televisione e giornalisti al seguito, una visita ufficiale che è stata vista come una provocazione anche dall’ambasciata degli Stati Unito a Tokyo. Per non parlare delle furie che il gesto ha scatenato specialmente in Cina, dove la politica intransigente del Giappone riguardo al possesso del piccolo arcipelago disabitato delle isole Diaoyu o Senkaku, conteso tra Giappone e Cina, ha inasprito la vertenza tra quelli che sono ormai i due colossi incontrastati dell’Asia e che potrebbero scontrarsi tra loro.
È l’acuirsi del loro contrasto, enfatizzato dal fatto che negli ultimi tempi le spese destinate alla Difesa sono aumentate siain Cina sia in Giappone, che preoccupa Washington, almeno così sostiene Takehiko Yamamoto, docente di politica internazionale all’Università di Waseda il quale non si perita di dar voce a quanto gli Stati Uniti per ora preferiscono non mettere troppo in evidenza, anche se in seguito alla inaspettata visita di Abe a Yasukuni, un portavocedell’ambasciata americana in Giappone si è detto spaventato da un possibile rigurgito di militarismo. E allora si riferisce al Giappone, visto che il «rigurgito » può essere soltanto giapponese dato che la Cina finora è stata molte altre cose ma militarista ancora no. Secondo Yamamoto, il gesto di Abe è stata una «pura follia che rischia di deteriorare ancora più le relazioni con la Cina e la Corea del sud».
Ma allora, perché Abe ha voluto sacralizzare il primo anno del suo secondo mandato come premier in maniera così plateale e fuori il collaudato calendario del 15 agosto? Forse, dice la stampa giapponese, per rendere palese che per il Giappone sta per iniziare una nuova era dopoil pacifismo post-bellico imposto dalla Costituzione dettata dagli americani, i vincitori. E infatti ora in Giappone si parla di revisione della Costituzione. O anche perché suo nonno è stato condannato nel 1945 come criminale di guerra. O ancora perché il suo mandato dipende dai voti dell’area oltranzista del partito di maggioranza e deve tenersela buona in quanto tutto ciò che urta la Cina giova invece al Giappone.
Sono tante le opzioni possibili in questo scenario asiatico troppo spesso oggi considerato unicamente sotto il profilo del dio mercato: come divinità, di sicuro è una possente divinità, infatti già si stanno calcolando le conseguenze economiche e commerciali della visita al tempio Yasukuni di Abe. Ma ci sono altri dei in Asia, altri scheletrinegli armadi che loro appena adesso cominciano ad aprire: l’atomica di Hiroshima, il Massacro di Nanchino, le donne di conforto per i bordelli militari del soldati del Sol Levante, gli eccidi, le carestie, tante lacrime e tanto sangue. Un blogger cinese ha commentato ieri: “Il primo Ministro Abe è andato a Yasukuni, il nostro premier Xi Jinping ha reso omaggio al presidente Mao per il 120° anniversario della sua nascita. Possibile che il passato ancora non passi?”

l’Unità 27.12.13
I violini e la memoria
Sono gli strumenti appartenuti agli ebrei deportati. Ora fanno musica per la pace
Quasi reliquie della Shoah e Il 27 gennaio suoneranno all’Auditorium di Roma
Sul palco un violinista ebreo uno musulmano, uno cattolico e la JuniOrchestra dell’Accademia di Santa Cecilia diretta da Yoel Levi
Un messaggio di speranza dialogo e fratellanza
di Stefania Miccolis


l’Unità 27.12.13
Un sabato di cultura: musei statali e siti saranno aperti e gratis
L’iniziativa voluta dal ministro Bray coinvolge 250 spazi in tutta Italia e tanti eventi collaterali
di Valeria Trigo


l’Unità 27.12.13
Roma, hic sunt leones
La Colonna di Traiano e l’Ara Pacis a confronto
di Renato Barilli


Corriere 27.12.13
I gay e la scienza, la pagina nera della discriminazione di Turing
di Giovanni Caprara


Sono occorsi 61 anni perché la regina d’Inghilterra riscattasse l’onore e la figura del padre dell’intelligenza artificiale Alan Turing, ingiustamente accusato e colpevolizzato per la sua omosessualità. Ma il suo non è l’unico caso nella storia della scienza. Altri, da Leonardo da Vinci a Isaac Newton, da Alexander von Humboldt ad Anna Freud, si sono dovuti confrontare con una società che li osservava attentamente. I momenti in cui vivevano, però, erano diversi e la loro omosessualità fu socialmente percepita in modo differente. Le reazioni ai loro comportamenti non incisero negativamente sul lavoro di ricerca.
Turing invece soffrì così profondamente da suicidarsi con il veleno (forse una mela con cianuro di potassio, secondo una leggenda) quando aveva 41 anni. Così, tragicamente, scompariva una delle menti più geniali, iniziatore della computer science. La regina Elisabetta alla vigilia di Natale ha elargito il suo «perdono» attraverso il Royal Prerogative of Mercy annunciato dal segretario alla giustizia Chris Grayling, che ha parlato del trattamento ingiusto e discriminatorio subito da Turing spiegando che l’illustre matematico doveva essere ricordato e considerato per il suo eccezionale contributo allo sforzo bellico e per l’eredità scientifica.
Turing, già famoso per le sue scoperte, fu arruolato con altri scienziati nei primi anni Quaranta, tutti riuniti in un palazzo di mattoni immerso nel verde di Bletchley Park, vicino ad Oxford. Lì nascosti, segretamente riuscirono a decrittare i codici della macchina Enigma attraverso la quale i nazisti trasmettevano i loro messaggi alle forze armate. Fu uno sforzo prodigioso che permise agli alleati di sopraffare le navi italiane nel Mediterraneo, i sommergibili nell’oceano Atlantico e le forze nemiche in Africa contribuendo in modo definitivo alla vittoria. Il suo apporto rimase segreto e nel 1952 Turing fu accusato di «indecenza» per aver avuto rapporti con un uomo. Uno scandalo che la legge puniva con iniezioni di ormoni: era la castrazione chimica. Così, mentre vedeva il suo seno crescere come conseguenza degli ormoni, a Turing venne tolta la facoltà di lavorare ai progetti di ricerca più avanzati e segreti. Fino a che nel ‘54 il giovane dai capelli neri ben pettinati che andava in bicicletta a Bletchley Park per salvare la patria, si tolse la vita diventata per lui impossibile.
Nel silenzio ufficiale emerse soltanto la «colpa» e nessun merito. Anche se per la scienza era sempre più evidente il suo contributo fondamentale alla nascita dell’informatica (contribuì alla realizzazione del primo computer) mentre poneva le basi dell’intelligenza artificiale. Tanto che porta il suo nome il famoso test per distinguere se una macchina può essere classificata intelligente.
Verso la fine dello scorso decennio ha raccolto 30 mila firme la petizione tra gli scienziati che chiedeva al governo un intervento di riabilitazione. Nel 2009 il primo ministro Gordon Brawn, ammettendo che Turing fu vittima di un trattamento ingiusto, aggiunse perfidamente che «avrebbe dovuto sapere» che stava commettendo un reato secondo la legge del tempo. Ma la raccolta firme degli scienziati non si è fermata, ha toccato quota 35 mila — compresa quella dell’illustre astrofisico Stephen Hawking — e finalmente l’appello ha raggiunto la regina che ha concesso il perdono. Così si chiude una brutta storia della società britannica, fatta di accanimento su un ricercatore giudicato tra i 100 più importanti del ventesimo secolo.
Del resto nessuno accusò Leonardo da Vinci di farsi accompagnare dai giovani allievi Francesco Melzi e Gian Giacomo Caprotti detto Salai. Non ci sono state persecuzioni o indagini nei confronti di Cartesio o Newton, ritenuti omosessuali pur non essendo mai stata raccolta una prova definitiva. Altrettanto per Nicola Tesla il fisico americano concorrente di Marconi. E nell’Ottocento, il grande naturalista ed esploratore prussiano Alexander von Humboldt che influenzò i lavori di Darwin oltre ad essere tra i fondatori della meteorologia, non fu certo perseguito nonostante le sue note amicizie maschili tra cui il celebre chimico francese Gay-Lussac di cui a scuola studiamo le leggi. Così come nessuno ha mai puntato il dito contro Anna Freud, figlia del padre della psicanalisi e fondatrice della psicologia infantile, per la sua presunta omosessualità. Rimaneva solo la vicenda di Alan Turing, una pagina nera nella storia umana della scienza. Per fortuna ora la regina d’Inghilterra ha voltato pagina.

Corriere 27.12.13
Così è l’amore secondo Stendhal: eterna sfida tra ardore e freddezza
Le figure femminili che affascinano (e dividono) i lettori
di Giorgio Montefoschi


«Era una donna alta, ben fatta, che era stata la bellezza della regione, come si dice tra queste montagne. Aveva una certa aria di semplicità, e un’andatura giovanile; a un parigino quella grazia ingenua, piena di innocenza e di brio, avrebbe addirittura suggerito qualche idea di dolce voluttà». Così, per la prima volta, viene descritta da Stendhal la signora de Renal, una delle due protagoniste de Il rosso e il nero , che oggi, per una collana di classici con nuove traduzioni — questa è di Margherita Botto — propone Einaudi (pagine 524, e 24). Quando apre la porta di casa, nel villaggio di Verrières, ai piedi del massiccio del Giura, e si trova di fronte Julien, il ventenne figlio del carpentiere che suo marito, il sindaco di Verrières, ha scelto come precettore per i loro figli, è colpita dalla sua carnagione pallidissima, dagli occhi dolci che hanno appena pianto. Il ragazzo timido che conosce a perfezione la Bibbia e a memoria sa recitarla in latino, e la moglie del sindaco si guardano. L’attrazione reciproca è immediata.
Inizia in tal modo la prima delle due vicende sentimentali e tragiche che coinvolgeranno Julien, attraverso le quali — fermo restando il carattere volitivo e ambizioso del giovane avviato alla carriera ecclesiastica, ammiratore di Napoleone, corrotto dal veleno delle disparità sociali, egoista come tutti nelle passioni, ingenuo e cinico, straziato dal contrasto fra il tumulto amoroso e ciò che gli impone come dovere il proprio orgoglio — conosceremo due donne diversissime che, fino all’ultima pagina del romanzo, ci lasceranno dubbiosi sulla risposta da dare a una domanda assai semplice, in definitiva: noi chi avremmo più amato, la signora de Renal, o la sua rivale, la signorina de La Mole ?
La signora de Renal, che di anni ne ha trenta, è sposata a un uomo gretto e vive in un ambiente gretto. Julien è una scintilla imprevista nella noia della vita coniugale. La seduzione si consuma in una serie di contatti fisici che avvengono in giardino di giorno, e durante le notti estive sotto il grande tiglio avvolto nell’oscurità. Sono scene meravigliose. La signora de Renal si è già rivolta a Julien chiamandolo «mio caro». Una mattina, passeggiando, si appoggia al suo braccio in un «modo strano». Poche sere più tardi lui le tocca la mano poggiata sulla spalliera della poltroncina e lei si ritrae; la sera seguente lui nuovamente gliela prende e la «sventurata» lascia che gliela stringa, provocando un’ondata di gioia; una terza sera, Julien, in presenza addirittura del sindaco, copre il braccio nudo della signora de Renal di baci frementi; durante una assenza di Julien, lei, ormai perdutamente innamorata, compra delle calze traforate e delle deliziose scarpette; lui, mentre passano da una stanza all’altra, la bacia; lei pensa: è pazzo, e dopo: cosa mi accadrebbe se fossi sola con lui; lui, quella sera, le tocca il piede inguainato nella calza traforata e le annuncia che alle due della notte sarà nella sua stanza; lei gli apre la porta e esclama: «Disgraziato!»; lui si getta alle sue ginocchia; lei, persino quando non ha più nulla da rifiutargli, lo respinge con autentica indignazione, quindi lo stringe fra le braccia.
Ora, il gioco degli sguardi che più si sottraggono e più sono rivelatori, i turbamenti e le gelosie che subito intervengono nel cuore della signora de Renal, e sono le stigmate della passione, svaniscono per lasciare il campo a un doloroso supplizio. Lei, la progenitrice di Madame Bovary, è tormentata dalla consapevolezza della differenza d’età che le fa temere di perdere il suo amante; lui, dal proprio dissidio interiore; lei sente di non aver mai provato questa «cupa follia» che la sconvolge; lui è roso dal tarlo sociale che gli impone di non cedere a se stesso e di recitare, anche nei momenti più belli, un suo ruolo. Poi, un figlio della signora de Renal si ammala e lei, adultera, pensa che sia la punizione divina, impone a Julien di andarsene e intanto gli si avvinghia come l’edera a un muro; il bambino guarisce; i baci si fanno più ardenti perché la signora de Renal sa che il tempo corre; compaiono le inevitabili lettere anonime; Julien, seguendo il consiglio del suo abate, va a ritirarsi nel seminario di Besançon; quindi torna, una notte, e con una scala sale nella sua stanza; lei, coprendolo di baci, sussurra: «Ah, morire, morire così!»; all’alba, Julien parte a cavallo, voltandosi, fino all’ultimo, a guardare il campanile di Verrières.
Le vicende del romanzo che (al pari di quelle fin qui trascurate) non raccontiamo, portano Julien a Parigi, nello sfarzoso palazzo del ricco marchese de La Mole. Julien diventa il suo segretario. Il primo giorno, a tavola appare Mathilde de La Mole. Questa, la descrizione di Stendhal: «Una ragazza biondissima e molto ben fatta, che andò a sedersi di fronte a lui. Non gli piacque; eppure, guardandola attentamente, pensò di non aver mai visto occhi così belli; però rivelavano una grande freddezza d’animo. Poi gli parve che tradissero una noia che scruta ma senza dimenticare di incutere rispetto. «Che differenza — pensa Julien — con gli occhi della signora de Renal animati dall’ardore delle passioni; in questi, brilla casomai quello dell’arguzia».
La vita che si svolge nel palazzo dei de La Mole, è la vita stolta di una magione nobile nell’epoca della Restaurazione: cene, visite, conversazioni inutili. A Mathilde la sorte ha dato ogni cosa: lustro, ricchezza, gioventù; tranne la felicità. Ben presto i suoi occhi si posano su Julien, che lavora in biblioteca, con una diversa attenzione rispetto a quella gelida dell’inizio. Anche perché Julien è colto , intelligente, diverso dai suoi svenevoli corteggiatori. Ma a lui continua a essere indifferente. Una sera, con la «voce vivace e secca e senza alcunché di femminile che usano le donne dell’alta società», lei lo invita al ballo del signore di Retz. Lui obbedisce. Ed è in questa serata — in un altro palazzo da favola pieno di candele, profumi e belle donne — che cambia tutto. È uno dei «balli» psicologicamente più intensi della letteratura ottocentesca, non inferiore a quelli della Austen. Mathilde ha un abito molto scollato ed è molto ammirata. Ma «si direbbe che abbia paura di piacere a chi sta parlando». I suoi grandi occhi azzurri, proprio quando sembra che stiano per tradirsi, lentamente si abbassano. È l’arte della seduzione nascosta in un nobile ritegno, o non è piuttosto la paura di amare? Julien la guarda e si accorge che è bella. Lei è preda dei sentimenti più confusi, nei suoi confronti: non ultimo l’irritazione se lui non la guarda. Dunque, balla fino a stordirsi.
La mattina seguente, entra in biblioteca vestita a lutto. Indossa il nero, perché è l’anniversario di un episodio che appartiene alla storia della sua famiglia per il quale ha un vero e proprio culto. Bonifacio de La Mole, amante della regina Margherita di Navarra, voleva restituire la libertà ai suoi amici. Non vi riuscì e fu consegnato al boia. Margherita si fece dare la sua testa e andò a seppellirla personalmente ai piedi di Montmatre. Quale donna — dice Mathilde a Julien mentre passeggiano in giardino — oggi non inorridirebbe al pensiero di toccare la testa del proprio amante decapitato? Julien pensa che i nobili hanno questo vantaggio rispetto ai plebei come lui: la storia dei loro avi li innalza al di sopra dei sentimenti volgari e non devono sempre pensare ai mezzi per sopravvivere. Lei si appoggia al suo braccio in un «modo molto strano». Julien pensa: mi prende in giro o mi ama?
Inizia, a questo punto, un doppio conflitto — feroce — nell’animo dei due. Lei ama, ne è più che certa, ma deve vincere, più che l’orgoglio di abbassarsi ad amare un contadino, la sua paura di amare. Lui teme un raggiro, è diffidente: «Anche quando i suoi begli occhi azzurri mi fissano con abbandono, vi scorgo sempre una certa sfumatura inquisitoria, un fondo di freddezza e di cattiveria». Un giorno, lei gli scrive una lettera in cui si dichiara. Lui è cauto. Lei, in una seconda lettera, gli dice che quella notte vuole parlargli. «Il cielo — scrive Stendhal con un accostamento sublime di due parole — è disperatamente sereno». Julien monta su una scala (sempre una scala, sempre una salita) come gli è stato detto di fare, e entra nella stanza di Mathilde; le ultime resistenze reciproche sono vinte; i due diventano amanti. E di nuovo, in una oscillazione senza fine di rifiuti, cadute nell’abbandono e di nuovo rifiuti e abbandono, ricomincia la spietata lotta di ciascuno dei due contro se stesso. Finché Mathilde non scopre di essere incinta e il meccanismo obbligato delle vicende non sopravanza questa lotta.
Tutti sappiamo come si conclude Il rosso e il nero . Costretta dal suo confessore, la signora de Renal scrive al marchese de La Mole accusando Julien di essere un profittatore. Mathilde lo avverte. Lui compra due pistole e a Verrierès, in chiesa, spara alla signora de Renal. Che però si salva. Julien, quindi, si dichiara colpevole. In attesa della ghigliottina, le due donne se lo contendono, ma lui confessa alla signora di Renal che ha amato solo lei, nella vita. Poi affronta il patibolo. Tre giorni dopo la signora di Renal muore. Mathilde si fa consegnare la testa di Julien e la seppellisce con le sue mani. E noi lettori non sappiamo ancora se abbiamo amato di più la tenera, tremante provinciale e le sue estenuanti effusioni, oppure l’algida ragazza parigina che ha combattuto con ogni sua forza contro l’amore, e dall’amore è stata vinta.

Corriere 27.12.13
Così il peccato parlò alla Vergine
di Paolo Isotta


In queste feste natalizie esce un disco ch’è in misura e modo incredibili destinato a celebrarle: e si tratta d’un ennesimo contributo alla conoscenza della grande tradizione musicale del Barocco napoletano da parte del suo più perito conoscitore, il direttore d’orchestra e (sia preso il vocabolo in bonam partem ) musicologo Antonio Florio. Questi è Barese ma da una vita risiede e opera a Napoli: e questo non fa meraviglia giacché, tolte alcune cospicue eccezioni, i Maestri della Scuola Napoletana sono Pugliesi; e fra i castrati, i grandi interpreti vocali del Sei- e Settecento, i Pugliesi sono la maggioranza assoluta. L’opera qui presentata è del grande compositore Gaetano Veneziano, nato, appunto, a Bisceglie nel 1656 e morto a Napoli nel 1716: e risale al 1693.
Si tratta di un Oratorio dedicato all’Immacolata, il culto della quale a Napoli è tuttora intensissimo, intitolato La santissima Trinità su testo del Palermitano, poi divenuto Napoletano, Andrea Perrucci: il quale, fecondissimo, va ricordato oggi in primis per aver egli concepito la Sacra Rappresentazione La cantata dei pastori la quale costituisce un culmine del teatro barocco di origine gesuitica, come ho più volte ricordato, e che ha a interprete sommo Peppe Barra: anche quest’anno ha debuttato il giorno di Natale con l’impegnativa rappresentazione nel napoletano teatro Trianon , all’interno del quale sono allogate le mura greche dell’antica Neapolis .
Il Perrucci, nel costruire il testo dell’Oratorio, ricorre alla figura rettorica prettamente barocca dell’ipotiposi , la quale non è in dottrina nettamente distinta dalla prosopopea : si tratta della personificazione di concetti. La poesia è in realtà in ogni epoca ricorsa al procedimento: del quale si avvale soprattutto l’encomiastica. Per nascite, compleanni, giorno onomastico, esequie, il Genio di Roma, la Virtù, la Clemenza, la Senna, il Tevere, il Sebeto, l’Ambizione, la Gelosia, Tristizia (destinate, come le loro sorelle, a essere «deluse»), sono sempre a disposizione. Solo che il Perrucci osa assai: e mi domando se in luoghi differenti dalla tollerantissima Napoli lo potrebbe. Egli infatti, oltre a mettere in campo un personaggio reale, la Vergine, pone l’Am
or Divino, che vuol dire Gesù, la Sapienza, che vuol dire lo Spirito Santo, l’Onnipotenza, che vuol dire il Padre. E contrappone loro il Peccato: il quale, come nella Cantata dei Pastori, impersona Lucifero.
Costoro sono molto disinvolti nei confronti della Teologia; o, per meglio dire, le dedicano concetti e concettini che, se Manzoni avesse potuto conoscerli, avrebbe arricchito la biblioteca di Don Ferrante, a onta dell’anacronismo. Il Peccato ha una parte di basso profondo e ricorre a uno stile teatrale fantasticamente eloquente: nell’incisione diretta da Antonio Florio il bravissimo Giuseppe Naviglio viene portato a ricorrere a una sorta di Sprechgesang , ossia un parlando come nel Pierrot lunaire di Schönberg, a ricordare a noi tutti che quest’ultimo nasce da una sorta di Espressionismo barocco da Schönberg inventato.
Nell’Oratorio Recitativi di suprema fattura si alternano ad Arie brevi e rifinite. Leslie Visco interpreta la Vergine, Cristina Grifone l’Amor Divino, Filippo Mineccia la Sapienza, Rosario Totaro l’Onnipotenza. Eseguono la parte strumentale I Turchini di Antonio Florio .
Veneziano è allievo di Francesco Provenzale, il quale ebbe a esser più volte sconfitto da Alessandro Scarlatti: questi è anche uno dei sommi polifonisti della Storia, capace tanto di scrivere nello stile di Palestrina quanto in quello di Gesualdo; ed è, insieme col figlio Domenico, il più importante cultore settecentesco di Gesualdo. Ma Provenzale era anch’egli un buon contrappuntista, come dimostra la meravigliosa partitura di Veneziano, che ricorre di continuo allo stile imitativo. E poi c’è un simbolo fantastico: l’opera si conclude in Mi maggiore, la M essendo la consonanza che indica, sintetizza e simboleggia la Madonna.
È straordinario che sulla partitura, allogata a Bruxelles, sia indicato il nome degl’interpreti: e sono per l’Onnipotenza Antonio Bisignano, per la Sapienza un non meglio precisato Sign. Compare (parola meridionale che significa famigliare ), Paoluccio Lorenzano per la Vergine, poi Sign. Matteuccio , ch’è il celeberrimo Matteuccio Sassano, studiato dal grande erudito napoletano Ulisse Prota-Giurleo; il Sign. Vincenzo Iacobellis è l’unico uomo della comitiva. E io mi diverto a pensare a quanto i castrati interpreti di figure tutte legate da reciproco amore e consonanza dovessero tra loro odiarsi….
La gran parte dei manoscritti del Veneziano è allogata presso il fondo musicale della biblioteca napoletana dei Girolamini: donde la loro inaccessibilità prima, per una ragione, oggi per un’altra. Sia fatta la volontà di Dio!

Repubblica 27.12.13
Il medico delle favole
In volume la raccolta curata nell’800 da un pioniere dell’etnografia
Il più ricco repertorio mai realizzato in Europa
Amori, demoni e cunti, ecco il mondo di Pitré
di Enzo D’Antona


Nella seconda metà dell’Ottocento la filatrice cieca Rosa Brusca cominciò – omericamente – la sua narrazione. Con voce lieve raccontò storie di decapitazioni, di principi assassini e reginelle resuscitate, di rituali terribili in cui il lieto fine era manifestamente posticcio. A lei si aggiunse in seguito Agatuzza Messia, di professione nutrice, che parlò di eroine scaltre e ribelli. E poi lacriàta–servetta Elisabetta Sanfratello che iniziò a ricordare spietate storie contadine. Vennero anche Maria Curatolo, Francesca Leto e Rosa Amari con il demone Malacarne. E tante altre, a formare un unico grande coro narrativo. Mentre in Europa si dispiegava lo stendardo delle donne scrittrici da George Eliot a George Sand, le popolane siciliane attingevano alla loro tradizione orale – del resto non sapevano né leggere né scrivere – per raccontare e codificare icunti.Un impasto di tragedia greca, saghe normanne eMille e una notte.Il cui risultato finale fu un realismo fatato, quasi pre-verista. Fiabe sì, dunque, ma fino a un certo punto.
L’epicentro è il quartiere del Borgo a Palermo, un rione che ancora adesso mantiene una burbera identità popolare e confini ben precisi. Le donne, e poi le figlie e le madri e talvolta persino i nonni e i mariti, pescano nella memoria per alimentare l’ingordigia etnografica del loro medico curante. Un signore che se ne va in giro con il suo calesse, la borsa da chirurgo e un taccuino zeppo di appunti. E che risponde al nome di Giuseppe Pitrè.
Il personaggio è già tutto un programma. Le foto ci restituiscono l’immagine di un borghese inquieto, con barba e viso affilato, sempre con le scarpe impolverate dal gran camminare su e giù dalla Marina al Papireto o nei vicoli di Ballarò e dell’Albergheria. Pitrè è considerato oggi uno dei maggiori folcloristi europei, ma ha dovuto aspettare quasi un secolo e mezzo prima che questa qualità gli fosse riconosciuta dai lettori fuori dalla Sicilia. I contemporanei all’inizio lo snobbavano un po’. Era nato proprio al Borgo da una famiglia povera. Il padre, marinaio sulle rotte transoceaniche, era morto di febbre gialla a New Orleans. Nel 1860, a 19 anni, Pitrè partecipa alla guerra garibaldina e l’anno dopo si iscrive a medicina. E qui comincia la sua avventura alla ricerca delle tradizioni popolari, un’avventura ricca e lunga fatta di parole, segni, oggetti e simboli raccolti in parecchi volumi e in un museo che oggi porta il suo nome, e che non si sarebbe interrotta nemmeno con la nomina a senatore del Regno nel dicembre del 1914, sedici mesi prima della morte.
Dunque Pitrè vagabonda per la città, entra in alcune case borghesi e in molticatoi, e dopo la visita vuole essere ricompensato con le storie. Annota parola per parola con ogni variante linguistica e segna anche il nome del narrante. Prima aneddoti e proverbi. Poi nenie, filastrocche e canti popolari. Poi ancora formule contro il malocchio, scongiuri, scaramanzie, superstizioni. E infine i cunti,che arrivano allo strabiliante numero di trecento. La raccolta, in lingua siciliana, vede la luce nel 1875 con il titolo Fiabe, novelle e tradizioni popolari di Siciliaedè adesso riproposta dall’editore Donzelli in entrambe le versioni – siciliana e traduzione italiana – con le suggestive illustrazioni di Fabian Negrin e con il titoloIl pozzo delle meraviglie. È il più ricco repertorio mai pubblicato in Europa. I fratelli Grimm nella versione definitiva dei Kinder-und Hausmärchenne avevano raccolte 200, Andersen ne ha scritte 156. E Calvino, tra le 200Fiabe italianescelte dalle diverse tradizioni regionali, ne ha selezionate ben 40 dello stesso Pitrè, etichettandole come «l’optimum dell’arte di raccontare a voce». Proprio Calvino giudicò la Ninetta del
cunto Dattero-beldattero, sorella negletta che conquista il principe a dispetto delle sorellastre, «la più colorata e mediterranea » di tutte le Cenerentole mai raccontate.
La doppia prefazione-introduzione alPozzo delle meraviglie, di Bianca Lazzaro e del grande studioso della fiaba Jack Zipes, rende giustizia a Pitrè e alle sue narratrici analfabete capaci di raccontare gli incantesimi come nessuno prima era riuscito a fare. Siamo in presenza qui di una summa di saperi popolari, di luoghi dove spesso si sente il profumo dei genoardi, i giardini arabo-normanni, e ogni tanto la puzza di zolfo con il diavolo Maometto amico di Sgraffagnino e Belzebù. Qui basta ovviamente mangiare un fico dalla pianta sbagliata per trasformarsi in un mostro come nelle storie di Sherazade. Basta guardare una ragazza per poi scoprire che è una vecchia Mammadraga sotto mentite spoglie. I nomi dei potenti sono reminiscenze di chissà cosa: un re si chiama Cicerone, una regina Trebisonda. E le Rosine, le Angeliche, le Rosmarine e le Ninette per uscire dalla subalternità e guadagnarsi un posto al sole ingaggiano battaglie epiche: ottengono, vincendole, quello che le loro narratrici non riusciranno mai ad avere. «La felicità – scrive Zipes – era una finzione. Era un’aspirazione destinata a rimanere irrealizzata nella vita della maggior parte dei narratori e di chi li ascoltava. Ma le storie erano di per sé una forma di realizzazione ». Giustissimo. E tutto ciò risulta più evidente perché l’unica mediazione, l’unico filtro attraverso cui queste storie ci arrivano, è l’etnografia. La letteratura, filtro dei Grimm e di tanti altri, da Perrault a Emma Perodi, lo avrebbe impedito.
Gli archetipi ci sono tutti. Oltre a Cenerentola- Ninetta abbiamo per esempio Don Giuseppe Pero-Il gatto con gli stivali: il gatto però è una volpe e il finale è molto più violento perché don Giuseppe, come un boss della Kalsa, la uccide perché lei sa troppo del suo passato. C’è un altro Giuseppe ciabattino-Ali Babà, ma i ladroni sono solo dodici e al posto di “Apriti sesamo” la formula magica è “Apriti pepe”. Con sostanziosi cambiamenti, quasi sempre cruenti, sono presenti altre versioni di fiabe classiche, da
La Bella e la Bestia a Raperonzolo. E non potevano mancare il ciclo di Giufà – appellativo dato in Sicilia fino ai nostri giorni a ogni scemo del paese – e quello di un Bertoldo locale che si chiama Ferrazzano e vince sul potere grazie alla capacità retorica e a una furbizia raccontata quasi come una qualità genetica. Le vittime infatti sono spesso calabresi e napoletani.
Ma ci sono altre storie che sfuggono a ogni precedente, che arrivano da ricordi sconosciuti e producono sceneggiature surrealiste. Una per tutte, che ancora circolava per trasmissione rigorosamente orale fino a qualche decennio fa, è Il vaso del basilico, conosciuta nell’entroterra come Sangue e ricotta. Lei, ancora una Rosina, provoca ogni giorno il bel principe con una domanda lanciata da un balcone: «O figlio del re incoronato, quante stelle ci sono nel cielo stellato? ». L’ossessione porta il giovane a sposarla per poterla uccidere. Sul letto di nozze avviene la decapitazione, poi il principe lecca la spada e dice, tutto anglosassone: «Però, com’eri dolce». Al che Rosina esce da sotto il letto e rivela che la decapitata è solo una pupa di zucchero e miele – i bambini la immaginavano di marzapane e ricotta, come una cassata – e che saranno per sempre marito e moglie. E vissero, imprevedibilmente, felici e contenti.

IL LIBRO Il pozzo delle meraviglie di Giuseppe Pitrè (Donzelli, pagg. 806, euro 30)