venerdì 31 dicembre 2010

l’Unità 31.12.10
Il segretario contesta chi dubita dell’unità del Pd sul caso Fiat. «Ma siamo da 6 meno per coesione»
A Calderoli «Fare insieme il Federalismo? Se accetta il nostro...». «Se si vota è il fallimento di Berlusconi»
Bersani a Marchionne: «Errore escludere chi dissente»
Il leader del Pd esclude l’ingresso dell’Udc nel governo e rifiuta l’offerta di Calderoli di fare assieme le riforme istituzionali: «Noi siamo federalisti. Se ragioniamo sulle nostre proposte bene, altrimenti, non ci stiamo».
di Simone Collini


È sbagliato escludere chi dissente. Un principio che deve valere anche per la Fiat. Pier Luigi Bersani stigmatizza l’esclusione della Fiom dalla rappresentanza di Mirafiori, pur riconoscendo la necessità che l’azienda investa. Il leader del Pd nega che il suo partito sia diviso sull’accordo per Pomigliano. E anche se ammette che tra i suoi la «discussione» non manchi (anzi, in generale dà un 6 meno al Pd in fatto di coesione interna, di contro a un 7 in iniziativa politica), dice che sull’operazione di Marchionne non ci sono distinguo di fondo: «Abbiamo una posizione molto chiara e la sosteniamo tutti». Questa. «Primo punto: la questione produttiva, l’investimento e la nuova organizzazione del lavoro. Su questo i lavoratori si pronunceranno, rispetteremo le loro decisioni, ma noi ci auguriamo che l’investimento venga confermato perché è molto importante per Torino e per l’Italia», dice il leader del Pd in un’intervista a Sky Tg24. «Secondo: quell’accordo contiene una cosa che non va e che riguarda la rappresentanza», aggiunge però. «Per noi non è giusto che chi dissente venga tagliato fuori dai diritti sindacali», spiega. «Chi dissente non può impedire che si vada avanti ma non può essere buttato fuori dai diritti sindacali».
Il Pd a questo punto auspica che le organizzazioni sindacali lavorino per arrivare a un accordo sul tema della rappresentanza. E incalzerà il governo affinché su questo punto non faccia, per dirla con Bersani, l’«agnostico». «Il governo dovrebbe favorire questo percorso dice il leader del Pd voglio sapere cosa pensi di questi meccanismi di partecipazione». Se chi di dovere non si occuperà di tali questioni, ammonisce, se non verrà corretto questo «andamento», «c’è una palla di neve che può diventare una valanga e consegnarci una situazione assolutamente frantumata del Paese, una cosa che non serve a nessuno».
SFIDA AL GOVERNO
Insomma, il caso Pomigliano come questione esemplare di un più generale caso Italia. Per Bersani, se andrà avanti a impegnarsi nella campagna acquisti in Parlamento e a disinteressarsi dei problemi del paese, il governo difficilmente andrà oltre il mese di gennaio. Il leader del Pd esclude l’ingresso dell’Udc nell’esecutivo e rilancia al Terzo polo e a tutti quanti sono interessati ad andare «oltre Berlusconi» la proposta di un patto costituente che preveda una riforma della Repubblica e «un grande patto per il lavoro e la crescita». Bersani sa che alla ripresa dei lavori parlamentari il fronte Pdl-Lega avrà serie difficoltà in Aula (dove andrà discussa la mozione di sfiducia al ministro Bondi) e soprattutto nelle commissioni dove si discute di federalismo: la commissione Bilancio e quella Affari costituzionali. In entrambe l’opposizione, dopo lo spostamento dei finiani, è maggioranza. E pensando anche a questi nuovi equilibri, il leader del Pd rispedisce al mittente l’offerta di Calderoli di un confronto per fare assieme le riforme istituzionali, compresa quella dello Stato: «Noi riteniamo di essere federalisti, abbiamo una nostra proposta. Se ragioniamo sulla nostra bene, altrimenti, se Calderoli si tiene la sua, noi non ci stiamo».
Il ministro leghista replica a distanza con toni concilianti, proponendo per i primi dieci giorni di gennaio di lavorare «per dare finalmente concrete risposte al Paese». Parole che il Pd lascia però cadere nel vuoto. Del resto, dice Bersani pensando ai nuovi equilibri parlamentari ed essendo ancora tutt’altro che rassegnato all’idea di non veder nascere un nuovo governo di «responsabilità istituzionale», se la situazione dovesse precipitare il responsabile sarebbe uno solo. «Sulle elezioni io non ci scommetto dice il leader del Pd deve scommetterci Berlusconi: se ci arriviamo, però, è la proclamazione del suo fallimento totale».

l’Unità 31.12.10
Ma il Pd resta diviso e sulla Fiat scoppia il caso anche nell’Idv
Documento firmato da Ichino e Chiamparino: «I contratti aziendali possono prevalere su quello nazionale»
di S. C.


Il Pd non è diviso su Pomigliano, dice Bersani. E però per un Letta che parla di accordo «necessario» c’è un Cofferati che difende la Fiom («ha un atteggiamento addirittura moderato»), per un Boccia che prende le parti degli imprenditori («altro che padroni, sono gli eroi moderni», dice il coordinatore delle commissioni Economiche del Pd alla Camera), c’è un Damiano (capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera) che giudica l’accordo di Mirafiori «ambiguo» sul diritto di sciopero.
Come se non bastasse, un gruppo di parlamentari, sindaci, filosofi e costituzionalisti del Pd o vicini ad esso, presentano un documento nel quale in sintesi si sostiene che un contratto regionale o aziendale può prevalere sul contratto nazionale di lavoro. Si tratta di «un sì chiaro e tondo per Pomigliano e per Mirafiori», dice Stefano Ceccanti, tra i firmatari di una proposta di legge sulla rappresentanza sindacale che punta a riformare le relazioni industriali.
A firmare il documento, oltre al costituzionalista e senatore Pd, sono Sergio Chiamparino, Pietro Ichino, Ignazio Marino, Augusto Barbera, Antonello Cabras, Paolo Giaretta, Claudia Mancina, Enrico Morando, Alessia Mosca, Nicola Rossi, Francesco Tempestini, Giorgio Tonini. Esponenti del Pd appartenenti alle diverse anime del partito, ma che in questo caso hanno deciso di fare fronte comune per sottolineare che la vicenda Fiat, come si legge nel testo, «ha posto in evidenza la vischiosità e i difetti dell’ordinamento attuale» in materia di relazioni industriali e di rappresentanza sindacale. Anche per loro, come per Bersani, è un errore escludere chi non vuole firmare un accordo. E la soluzione che propongono è quella di sancire la possibilità che ci sia una prevalenza degli accordi aziendali rispetto a quello nazionale.
Si legge infatti nel documento, che rimanda alla proposta di legge presentato da una cinquantina di senatori Pd nell’autunno 2009: «Il contratto collettivo nazionale stipulato dal sindacato o coalizione maggioritaria resta la disciplina applicabile per default in tutta la categoria che il contratto stesso definisce. È fatta, però, salva la possibilità che a un livello inferiore regionale o aziendale un sindacato o coalizione maggioritaria stipuli efficacemente un altro contratto di contenuto diverso, che in tal caso prevale sulla disciplina collettiva di livello nazionale». A firmare il documento sono soprattutto esponenti del Pd vicini alle posizioni di Veltroni, di Letta e di Marino, mentre non compare il nome di nessun esponente della segreteria. E lo stesso Bersani evita di commentare l’iniziativa.
Ma l’accordi di Pomigliano agita le acque anche in altri partiti. Come l’Italia dei Valori. Antonio Di Pietro ha intenzione di incontrare nei prossimi giorni il segretario generale della Fiom Maurizio Landini «per concordare la costruzione di un fronte di resistenza che duri nel tempo». Scrive sul suo blog il leader dell’Idv: «L’ho già detto, lo ripeto e non mi stancherò mai di farlo. Le trattative e gli accordi sindacali possono mettere in discussione tutto ma non la Costituzione repubblicana. Quello è un confine che non si può oltrepassare. Lo si deve rispettare sempre, senza se e senza ma, senza provare ad aggirarlo da furbetti». Di Pietro attacca anche il Pd (in particolare Fassino e D’Alema) perché «la modernità di cui tanti cianciano dalla mattina alla sera non vuol dire tornare al passato, a quando le Costituzioni ancora non c'erano e i diritti non esistevano».
Un discorso che non piace a Massimo Donadi. «La vicenda aperta dagli accordi Fiat è assai complessa e nessuna delle parti in causa ha solo torti o ragioni», dice il capogruppo dell’Idv alla Camera invitando a non «sposare indistintamente le ragioni della Fiom». Donadi critica proprio la proposta di Di Pietro, dicendo che «prima di pensare a mettere addirittura in campo forme di resistenza comune e duratura sarà opportuno attendere l’esecutivo nazionale del partito fissato per il prossimo 14 gennaio per un più approfondito confronto interno».

l’Unità 31.12.10
La proposta piace in Cgil: «Non si può lottare se si sta fuori dalle rappresentanze aziendali»
Ma le tute blu si oppongono: «Sarebbe curioso siglare un accordo che non condividiamo»
Firma tecnica, no della Fiom: «È masochismo sindacale»
Il giorno dopo l’accordo di Pomigliano, la Fiom Cgil discute dell’ipotesi, avanzata dalla minoranza interna, di una firma tecnica per entrare nella Rsa. Ma la maggioranza è contraria: «Masochismo sindacale».
di Luigina Venturelli


Siglati gli accordi spartiacque di Mirafiori e Pomigliano spartiacque per la produzione nazionale di automobili, per le relazioni industriali del paese, per il futuro delle organizzazioni sindacali, e pure per le alleanze politiche nel centrosinistra è arrivato il momento di definire le strategie che verranno. Quelle che segneranno il passaggio dal prima al dopo l’esplosione della dottrina Marchionne.
L’IPOTESI FIRMA TECNICA
Tra tutte le parti in causa, la posizione più difficile è quella della Fiom Cgil, che a causa delle intese separate sottoscritte da Fim, Uilm, Ugl e Fismic verrà cacciata dalle fabbriche del Lingotto. Solo i sindacati firmatari avranno diritto di rappresentanza interna, mentre le tute blu di Maurizio Landini saranno escluse dalle Rsa, non riceveranno le trattenute dall’azienda, e saranno costrette a tesserare i propri iscritti uno per uno. Una prospettiva di cancellazione dall’universo Fiat che ha spinto la minoranza riformista della Fiom, quella che fa capo a Fausto Durante, ad interrogarsi sulla possibilità di una «firma tecnica» all’accordo per Mirafiori che permetta al sindacato di entrare almeno nelle rappresentanze aziendali.
Una proposta lanciata per lo stabilimento torinese, dove il referendum tra i lavoratori, previsto a metà gennaio, deve ancora farsi: prima la Fiom dovrebbe fare campagna tra gli operai per bocciare l’intesa e poi, in caso di un eventuale esito positivo della consultazione, dovrebbe suo malgrado firmarla. L’idea, però, è già stata rilanciata dai segretari generali della Cgil Campania e Napoli, Michele Gravano e Peppe Errico, per lo stabilimento di Pomigliano, i cui dipendenti si sono già espressi in favore dell’accordo: pur condannando «un’ipotesi autoritaria che esclude il sindacato da qualsiasi trattativa», i due dirigenti ritengono utile «una firma tecnica per tenere vivo il rapporto con i lavoratori iscritti a Pomigliano e far vivere dall’interno le ragioni critiche».
LA BOCCIATURA DI AIRAUDO
Una possibilità che incontra molti consensi nella confederazione guidata da Susanna Camusso. Ma è netta la contrarietà della maggioranza delle tute blu: «Sarebbe curioso che la Fiom apponesse una firma tecnica a un accordo che non condivide, che danneggia i lavoratori e impedisce loro di eleggere i propri rappresentanti. Sarebbe masochismo sindacale» ha affermato il responsabile Auto, Giorgio Airaudo. «La Fiom è totalmente titolare del potere negoziale per quel che riguarda i metalmeccanici Cgil». Ed anche ieri il segretario generale Landini è tornato ad attaccare l’azienda: «La Fiom in Italia è il sindacato che fa più accordi di chiunque altro, ma quello che è successo alla Fiat non è successo in nessun’altra impresa in Italia. Una trattativa degna di questo nome non è mai stato possibile farla. È la prima volta dal dopoguerra che si fa un accordo di questa natura».
La risposta diretta è arrivata dal responsabile delle relazioni istituzionali del Lingotto, Ernesto Auci: «La Fiom e i suoi segretari generali devono appuntarsi la medaglia di una lotta epica contro la Fiat. A quel punto acquistano la purezza rivoluzionaria e possono guidare il sindacato». Confindustria, invece, preoccupata per gli effetti a valanga dell’esclusione dalle aziende metalmeccaniche del sindacato più rappresentativo, ha preferito evitare note polemiche per rilanciare «un nuovo accordo con Cgil, Cisl e Uil sulla rappresentanza sindacale».

l’Unità 31.12.10
L’analisi
La sfida Marchionne: dopo i redditi sacrificare i diritti
La discussione nel Pd. Non arrendiamoci a un discorso che riguardi solo i margini di profitto
La vicenda Fiat ci impone di riflettere sul modello di società Giusto produrre ricchezza ma senza umiliare il lavoro
di Matteo Orfini, responsabile culturale Pd


L’Europa è nel pieno di una crisi economica che ogni giorno presenta un conto socialmente più elevato: aziende che chiudono, disoccupazione che cresce, insicurezza dei destini di vita che accomuna fasce sempre più ampie di cittadini. In Italia la situazione à ̈ resa ancor più grave dall'assenza di politiche di sviluppo che favoriscano la ripresa.
La crisi è il campo di battaglia su cui si decide il futuro di una parte del mondo che sta perdendo la sua storica centralità, l'Occidente (e in particolare l'Europa).
Conquiste di civiltà che credevamo ormai acquisite rischiano di essere messe in discussione dall'impatto della competizione globale con i paesi emergenti. Quale sarà la direzione che prenderà l'uscita dalla crisi? Cosa diventeranno le nostre società ? Dobbiamo rinunciare a quella miracolosa quadratura del cerchio che in Europa ha tenuto insieme diritti, opportunità e sviluppo, e considerare inevitabile l'aumento delle diseguaglianze, il trionfo di un individualismo egocentrico e disperato, la crescita dell'emarginazione e della miseria, con il conseguente aumento della violenza e del senso d'insicurezza, nel generale imbarbarimento dei rapporti sociali e civili che molti raccontano come frutto ineluttabile della modernità? O invece c'è ancora lo spazio per cambiare strada e dare una prospettiva di progresso ai nostri destini di europei? D'altra parte, è proprio la natura epocale del passaggio che stiamo attraversando che rende così lacerante, anche tra di noi, la discussione sulle scelte della Fiat. Su una cosa sono infatti tutti d'accordo: quello che sta accadendo non può essere sottovalutato, ridotto alla questione del destino di questo o quel singolo stabilimento, perché avrà un effetto sistemico profondo.
Qualche settimana fa, sul Foglio, Paolo Mieli ha definito le scelte di Marchionne "il bandolo americano da tirare per disbrogliare la grande crisi europea”, imponendo di conseguenza coerenza nell'istruzione, nella sanità, nel welfare, nell'organizzazione dello stato. Proprio un bel programmino, non c'è che dire, se guardiamo a istruzione, sanità e welfare americani.
Questo dunque è il livello della cosiddetta "sfida di Marchionne". Certo, in questa vicenda si misura anche la capacità dell'Italia di consentire a una multinazionale che vuole investire nel nostro paese di farlo senza doversene pentire un minuto dopo, ma davvero non possiamo offrire uno schema diverso dalla passiva accettazione dello scambio tra lavoro e diritti? Qui non si tratta di essere amici, collaterali o subalterni verso questo o quel sindacato, di spostarsi a sinistra o a destra, ma di indicare quale idea di società abbiamo in mente. Dopo un ventennio di violenta redistribuzione della ricchezza che ha visto crollare i redditi da lavoro e impennarsi i redditi da capitale, dobbiamo chiedere oggi di sacrificare anche i diritti?
O non è piuttosto nostro dovere scommettere su una società che produca ricchezza, valorizzando il lavoro e non umiliandolo? Su un' idea di impresa che non orienti le proprie scelte solo ed esclusivamente in base al margine di profitto, ma anche in base alla propria responsabilità sociale.
Non è un discorso di estrema sinistra, mi pare. Anzi, sarei lieto che nel Pd gli eredi della tradizione cattolico-democratica ne rivendicassero la primogenitura (che ovviamente contesterei, ma sarebbe, questa sì, una gran bella polemica).
Puntare su questi obiettivi significa ricostruire quel nesso tra soggettività politica e lavoro che da troppo tempo abbiamo smarrito, per colpa della subalternità a un impianto conservatore con cui noi tutti, ma proprio tutti, abbiamo attraversato gli anni 90. E significa anche rimettere davvero radici nella società, cercando di ricomporre le nuove fratture che attraversano il mondo del lavoro. E così facendo dare una risposta alla crisi strisciante delle nostre democrazie, rese fragili dalla crescente sfiducia e disillusione di sempre più larghi segmenti della società che si autoescludono dal sistema della rappresentanza.
Questa è ̈ la sfida che un grande partito come il nostro deve raccogliere, questo è il "bandolo" che dobbiamo afferrare.

Repubblica 31.12.10
Telefonata tra il leader della Cgil e il segretario della Fiom. Ma le distanze si allargano, compromesso difficile
Camusso: "Se vincono i sì devi firmare" Landini: "No, è un voto sotto ricatto"
di Roberto Mania


ROMA - «Maurizio, se resti fuori da Mirafiori e Pomigliano come difendi i lavoratori iscritti alla Fiom? Li lasci agli altri sindacati?». E´ in questa domanda di Susanna Camusso, leader della Cgil, al capo della Fiom Landini che, sul caso Fiat-Chrysler, si consuma, in una lunga telefonata mercoledì scorso, anche la frattura tra la confederazione rossa e la sua ala movimentista e di minoranza, quella dei metalmeccanici. Di fatto due sindacati costretti a convivere, separati in casa ormai da oltre un decennio.
La vertenza Fiat, però, può portare ora al redde rationem. Perché la linea oltranzista di Landini non è quella della Camusso. Che non condivide la scelta "aventianana" della Fiom sul prossimo (a metà gennaio) referendum a Mirafiori sull´accordo separato; che non condivide il no senza ritorno pur se i cinquemila di Torino dovessero approvare l´intesa; che non condivide la richiesta di sciopero generale (non solo dei metalmeccanici) contro la Fiat; che non condivide, infine, la risposta di Landini alla sua domanda: «Anche le vertenze giudiziarie fanno parte degli strumenti sindacali per tutelare i lavoratori. Ci sono le leggi italiane e anche quelle europee dalla nostra parte». Un duello, con accuse reciproche di eccessiva attenzione alla politica, allo scenario e agli equilibri politici, anziché ai cambiamenti profondi che la globalizzazione ha imposto alla produzione e al ruolo dei sindacati. Dietro ci sono anche due storie sindacali diverse: perché nei primi anni ´90 Susanna Camusso, socialista, venne "estromessa" dalla Fiom, proprio dopo aver firmato un accordo con la Fiat, dall´allora segretario generale Claudio Sabattini di cui oggi Landini è l´erede più autentico.
Camusso: «Sostenete che il referendum debba essere il perno del rapporto tra sindacati e lavoratori. Bene. Perché allora non fare la battaglia per il no a Mirafiori? Ma poi se dovesse prevalere il sì dovete trovare un modo per gestire dall´interno l´accordo».
Nella telefonata il leader della Cgil non parla esplicitamente di "firma tecnica", ma questa è la sua linea, sostenuta all´interno della Fiom dalla minoranza riformista di Fausto Durante. Se vince il sì, si firma per rientrare in fabbrica e da lì - «non da fuori come vuole proprio Marchionne», spiega Durante - manifestare le ragioni del dissenso. Camusso: «Maurizio, non puoi rischiare una doppia sconfitta». Landini: «Qui non ce n´è neanche una di sconfitta». Il leader della Fiom, infatti, ha scelto un´altra strada: «Il referendum è illegittimo, non posso riconoscerlo. Non si può chiedere ai lavoratori di rinunciare al contratto nazionale e anche diritti tutelati dalla legge. Non è un referendum: è un ricatto». E allora nessun "Comitato per il no" promosso esplicitamente dalla Fiom, ma solo un invito ai lavoratori a partecipare alla consultazione «per evitare di essere anche schedati dalla Fiat». Poi, vinca il sì o il no, si resta fuori.
Per ora. E´ una linea di resistenza quella della Fiom. Che a Corso d´Italia, sede della Cgil, appare come una strategia di autoconservazione dove gli interessi dei lavoratori rischiano di finire in secondo piano, di scolorire di fronte al protagonismo tutto di marca politica. L´estromissione era tra le opzioni considerate dalla Fiom tanto che a gennaio partirà il nuovo tesseramento tra i lavoratori. E poiché alla Fiat non sarà più possibile la trattenuta sindacale in busta paga perché i metalmeccanici della Cgil non ci saranno in azienda, l´idea è di trasformare il pagamento mensile della tessera in una sorta di cessione di credito che il singolo lavoratore fa alla Fiom attraverso la Fiat con tanto di oneri bancari. Ma non è questa la Cgil che vuole Camusso. Lo scontro, questa volta pubblico andrà in scena a Chianciano l´11 e il 12 gennaio alla prima assemblea delle Camere del lavoro della Cgil. Tutto prima del referendum di metà mese a Mirafiori. Un voto che farà comunque da spartiacque nelle relazioni industriali.

il Fatto 31.12.10
La fatica in fabbrica ignorata da Marchionne
Con meno pause e più straordinari cresce l’usura del lavoro in linea
di Salvatore Cannavò


La vertenza Fiat si è ormai caricata di una forte valenza politica. Ma la sostanza rimanda ancora ad aspetti molto concreti della vita degli operai coinvolti come la riduzione delle pause, l’aumento degli straordinari e i ritmi di lavoro che ne conseguono. C’è un precedente storico che aiuta a capire quali possono essere le conseguenze di ritmi di lavoro eccessivi: nel 2007, 68 dirigenti di Fiat Auto finirono sotto inchiesta a Torino dopo la denuncia di 187 operai delle Carrozzerie di Mirafiori che avevano contratto malattie per sforzo ripetuto. Quei manager patteggiarono la pena riconoscendo di fatto le ragioni degli operai.
LA FIAT ha adottato, dal 2006 in via sperimentale, la metodologia Ergo-Uas, un sistema molto sofisticato su cui sono impernia-ti   i nuovi accordi che misura il tempo necessario a svolgere le mansioni e il corrispondente tempo di riposo necessario a tutelare la salute degli operai. La Fiom ha realizzato una serie di studi (a cura di Franco Tuccino) per contestare il modello. In un'inchiesta a cura di Eliana Como e basata su interviste realizzate con ben 100 mila operai in 4000 fabbriche, il 68 per cento degli intervistati lamenta i movimenti ripetuti delle braccia e delle mani mentre il 32 per cento lamenta posizioni disagiate che provocano dolore. Soprattutto, il 40 per cento degli intervistati, 47 per cento tra le donne, ritiene che la propria saluta sia stata compromessa dalla condizione di lavoro. E questa “percezione” è suffragata da alcuni dati: i lavoratori con ridotte capacità lavorative sono, secondo i dati prodotti dalla Fiom e non smentiti dalla Fiat, 1500 sui 5500 dello stabilimento di Mira-fiori e addirittura 2200 su 5500 nello stabilimento di Melfi. Le   patologie più diffuse sono quelle muscolo-scheletriche: discopatie lombosacrali, tendiniti. “In fabbrica io sono addetto allo smistamento dei pezzi – dice Pasquale Loiacono di Mirafiori – e questi pesano 6 o 7 chili l'uno. La mansione è sempre la stessa, tutto il giorno per otto ore e il mio non è il lavoro peggiore”. Montare il pezzo sulla linea di montaggio, infatti, sottopone a un altro tipo di stress, quella della ripetitività e della monotonia.   L’Inail ha realizzato delle tabelle in cui si afferma la correlazione tra determinate attività lavorative e alcune patologie. Esistono poi condizioni lavorative che, se presenti, possono determinare il superamento delle soglie minime di rischio: ad esempio, operazioni di durata di 45 secondi per un'ora continuativa; sforzo delle mani una volta ogni cinque minuti per due ore complessive, e così via. Movimenti che in una fabbrica come Melfi, Pomigliano o Mirafiori sono la norma. “Noi lavoriamo in piedi tutto il tempo”, aggiunge Loia-cono, “e il montaggio di una boccola alla scocca dell'auto si ripete con movimenti lenti delle mani e delle dita per ore e ore”. A Mirafiori e Pomigliano la fatica si cumulerà con il disagio dovuto al maggiore ricorso ai turni di notte (l’unica ragione per cui il salario degli operai dovrebbe aumentare, di appena trenta euro al mese). 
Secondo i dati della Fondazione europea di Dublino sulle condizioni lavorative, in Europa il 57 per cento della forza lavoro effettua movimenti ripetuti degli arti superiori e il 33 per cento lo fa in modo intenso; sono 44 milioni (il 30 per cento) i lavoratori in Europa che accusano dolori alla schiena. Il costo totale dei dolori muscolo-scheletrici in Europa oscilla tra lo 0,5 e il 2 per cento del Pil, quindi si tratta di un costo sociale rilevante che ricade non solo sulle stesse aziende ma anche sulla collettività per il tramite dell'assistenza sanitaria.
PER APPLICARE il sistema Ergo-Uas la Fiat ha disdetto l'accordo del 1971 che regolava i ritmi di lavoro aumentando però di circa il 5 per cento i carichi sugli operai. La spiegazione è che migliorando le caratteristiche ergonomiche di una postazione di lavoro la riduzione delle pause non comporta maggiori rischi. Ma il sistema è contestato dalla Fiom che chiede una maggiore   scientificità dell'analisi e soprattutto un confronto costante con altri modelli. Per capire il problema è sufficiente un esempio: applicando il sistema Ergo-Uas la Fiat arriva a ridurre le pause a 30 minuti nell'arco delle 8 ore lavorative. Secondo un altro indice, l'Ocra (Occupational Ripetitive Actions), le pause dovrebbero essere di 10 minuti ogni 50 minuti continuativi di lavoro, quindi almeno il doppio.

il Fatto 31.12.10
Tempi moderni. Gli operai abbandonati
Il segretario non è in sede, arrangiati!
di Dario Fo


Questo tragico e grottesco accordo di Mirafiori e Pomigliano ci riporta subito al film “Tempi Moderni” di Charlie Chaplin, dove si vive per la prima volta nella storia del lavoro dentro una fabbrica con catena di montaggio e assemblaggio automatizzato. Gli operai, Charlie Chaplin in testa, si muovono a ritmi stabiliti, gesti indicati dal programma in una strana danza che sembra festante, ma ha i tempi illogici di una storia di pazzi.
Subito mi viene in mente anche dell’e-sperimento condotto in un Paese dell’Oriente tecnologicamente avanzato dove, qualche anno fa, si è pensato di sostituire   agli operai delle scimmie appositamente ammaestrate. Dopo un certo periodo di addestramento gestuale le scimmie vengono inserite nella produzione. I dirigenti applaudono entusiasti: gli scimpanzé funzionano che è una meraviglia. E non c’è stato neanche bisogno di far loro firmare un contratto.
E’ incredibile: non perdono un colpo, meglio dire, un automatismo. Anzi, atteggiano il volto a un sorriso straordinariamente divertito. Macchina, scimmia, ingranaggi, tempi e metodi rendono meglio che con l’uomo operaio.
Ma dopo sei giorni, se pur rispettando le pause di riassetto e l’orario di mensa, ecco che le scimmie meccanizzate cominciano a dare strani segnali sconnessi.   Qualcuna ingoia qualche bullone. Altre saltano sulla catena spruzzando olio lubrificante sul muso dei caporeparto umani, quindi con una sincronia impressionante ognuna posa il proprio cranio sotto le presse che s’abbassano spietate, schiacciando le lavoratrici impazzite.
Non c’è niente da fare: all’impresa moderna sono adattabili e confacenti solo esseri umani appositamente selezionati. D’accordo, anche per i loro cervelli l’automatismo continuo produce un inevitabile marasma fisco. Si può ammorbidirlo e ritardarne quindi lo squak, allenando il cervello degli addetti a un completo distacco dall’azione fisica. Come insegna Graham, il perfezionatore di tempi e metodi nella catena di produzione, per riuscirci   il soggetto operante deve distogliere ogni pensiero o ragionamento dalla vita emotiva, dall’inserto mnemonico dei sentimenti. Uscire completamente dal pensiero, dal clima delle emozioni e delle proiezioni intellettive, tipo: “Che sto facendo? Era questo il mio programma? Dove mi porta questo lavoro? Dentro che vita mi sto muovendo? E mio figlio, mia moglie, cosa sto dando loro di me? In che società sto campando, ne val la pena?” Ecco questo, ci avverte Graham, è il cancello del baratro: se lo spalanchi e ti lasci andare nel precipizio sei finito.
A ‘sto punto, torna in primo piano Charlie Chaplin, che come un automa viene risucchiato dentro gli ingranaggi della grande macchina. Anche lui pian piano si   rende conto d’essere fatto di bulloni, cinghie di trasmissione, cerchi rotanti, stantuffi e trapani avvitanti.
Una voce meccanica ripete: “Chi non firma i contratti collettivi non ha diritto a rappresentanti sindacali. Chi s’ammala, per i primi tre giorni non riceve stipendio. Marchionne vi dà la vita e ve la toglie. Vi offre una nuova organizzazione del lavoro, prendere o lasciare. Cancella l’espressione ‘sindacato’ e rappresentanza. Sei dentro l’ingranaggio come in una giostra alla quale solo chi accetta di non contare può allacciarsi la cintura. La velocità di rotazione è decisa dalla produzione e tu che non ci stai sei segnato.”
A chi t’attacchi? Alla legge? Al partito della sinistra, a D’Alema, Fassino, Bersani? No, inutile. Il segretario è già uscito, non è in sede, arrangiati.
E speriamo che a sinistra ci siano ancora uomini e donne che si indignano come uomini e donne di sinistra.

il Fatto 31.12.10
Maurizio Landini:  “Se qualcuno è in crisi non è la Fiom”
“Noi isolati? Siamo a più 10%, è il Pd che perde voti”
di Luca Telese


Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom, ricorre all’ironia. Così, tra il serio e il faceto, si esibisce in una stoccata affilata verso quei dirigenti “riformisti” (così si autodefiniscono) che lo hanno attaccato per il no del suo sindacato all’intesa Fiat. D’Alema ha detto: “Landini non lavora alla catena di montaggio...”. Il leader della Fiom sorride, anche se con un punta di amarezza: “Trovo curiosa – spiega – questa accusa di non poter criticare l’accordo perché non sarei un lavoratore. Ho iniziato come apprendista saldatore a 16 anni, nell’officina del signor Cavazzoni a San Polo D’Enza. Ma al contrario di alcuni dirigenti del Pd, non penso che loro non possano parlare dell’accordo Mirafiori perché non hanno mai lavorato in fabbrica in vita loro. Mi basterebbe semplicemente che cercassero di mettersi nei panni di chi alla catena ci deve andare ogni giorno”.
Landini, il suo primo stipendio da metalmeccanico?
Credo... sulle 800 mila lire al mese. Una pacchia rispetto a oggi.
Ce lo vedi D’Alema saldatore?
Non lo so, non lo conosco abbastanza. Ricordo i miei primi giorni: ti dovevi abituare a respirare i fumi, vapori acri della fiamma, che bruciano la gola.... Ma anche la gioia di prendere il mio primo   brevetto, diventando operaio specializzato.
Altro ricordo dell’apprendistato?
Bisogna imparare a proteggersi dalla fiamma. La sera, se non stavi attento, chiudevi gli occhi e ti ritrovavi davanti le stelle. Non dormivi più.
Quando è che decidi di diventare sindacalista?
Non mi sono iscritto da giovane a nessuna segreteria. Pensa, fu il freddo dei cantieri all’aperto a cambiarmi la vita.
Cioè? 
Sono diventato delegato perché lavoravamo con la fiamma ossidrica, ma morivamo di freddo, e iniziammo a lottare. Non fosse stato per questo, oggi non sarei sindacalista.
Ripetono che la Fiom dice sempre no.
Una panzana colossale. Abbiamo firmato accordi con Whirpool Indesit, Electrolux... Sono tutte multinazionali, mica società di mutuo soccorso! Come mai solo la Fiat ha bisogno di infrangere il contratto?
Dicono che non volete lavorare di più.
Falso. Avevamo proposto alla Fiat di organizzare la pausa a rotazione: a Mirafiori così si sarebbero prodotte 30mila macchine in più. Non ci hanno nemmeno risposto.
Dicono che non volete lavorare come i tedeschi.
Una balla. Li abbiamo appena incontrati, i sindacalisti tedeschi: loro un contratto così non ce l’hanno e non lo firmerebbero mai!
Dicono che fate battaglie ideologiche e di principio.
Con questo accordo la Fiat acquisisce la libertà di licenziare i lavoratori in sciopero. Non mi pare una questione molto astratta.
Siete voi che avete dichiarato guerra al Pd o è il contrario?
Primo. Non tutto il Pd è sulle incredibili posizioni filo-Marchionne. Fassina - con la “A”, eh, eh - e Cofferati, tanto per fare dei nomi, sono   stati molto critici.
E Bersani?
Ha detto parole limitative, che fra l’altro non sono chiare. Mi farebbe piacere spiegargli.
Cioè?
La linea secondo cui l’investimento della Fiat sarebbe buono, ma sui diritti c’è qualcosa che non va. Siamo al solito ma-anche. Non si capisce nulla.
Nel Pd, non solo D’Alema, c’è chi vi dice: non fate gli interessi dei lavoratori.
A me farebbe piacere che, per una volta, quei dirigenti si mettessero nei panni di chi dovrebbero rappresentare, e non in quelli della controparte.
Come spieghi le loro posizioni?
Facile. Evidentemente non conoscono le condizioni di chi lavora. Non ci parlano.
E voi siete sicuri di avere il loro consenso?
Allora: da giugno ad oggi, in tutte le elezioni che si sono celebrate, la Fiom segnala il 10 per cento in più di voti. Il trend dei loro consensi mi pare.... che sia meno brillante.
Dicono che vi siete impuntati su una posizione miope.
Veramente erano loro che a giugno dicevano: accettiamo l’accordo di Pomigliano perché si tratta di una posizione eccezionale e irripetibile, una deroga una tantum. S’è visto!
Non vi ponete i problemi dell’impresa? 
A Brescia abbiamo firmato contratti di solidarietà e aumenti di produttività, concordati per salvare occupazione, d’accordo con le imprese.
Perché con la Fiat non si poteva?
A Mirafiori hanno fotocopiato lo stesso accordo e hanno detto ai sindacati: prendere o lasciare.
Dicono che rompete l’unità sindacale.
Difendiamo i diritti dei lavoratori, che è il nostro mestiere. L’unità sindacale la rompe chi accetta accordi discriminatori.
Per voi Cisl e Uil sono sindacati “gialli”?
Sono un “sindacato gendarme” che controlla gli operai in accordo con l’azienda.
Come mai non sei riuscito a convincere D’Alema e Bersani?
Non ho mai avuto il piacere di parlargli. Se mi chiamassero, magari... 
Avete paura di contarvi con il referendum?
Semmai è il contrario: vogliamo che i voti sugli accordi siano imposti per legge.
Però forse a Mirafiori vi asterrete?
Noi diciamo che votare dicendo ai lavoratori: “O dici sì o chiudiamo” rasenta il ricatto.
Un punto di questo accordo che vorresti far scoprire a D’Alema e Bersani?
C’è scritto che l’azienda può imporre un aumento di produzione anche lei ritardi della fornitura. Cioè per cause di cui il lavoratore non ha nessuna responsabilità! Un bel paradosso.
Perché?
Immagina questo: se i cinesi che fanno le materie prime scioperassero, i lavoratori della Fiat dovrebbero fare gli straordinari. Una bella idea della globalizzazione.

Corriere della Sera 31.12.10
Landini: nove anni in fabbrica a Cavriago e le mie liti con il Pci
di Marco Imarisio


MILANO— «Abbia pazienza un attimo» . La conversazione telefonica è spesso interrotta dai latrati di un cane che reclama l'attenzione del padrone. «Ne abbiamo due, entrambe femmine. Questa che sente è Dacia, ma non pensi che sia un omaggio comunista alle case di vacanza sovietiche... Abbiamo tenuto il nome che le ha dato l’allevatrice» . E l'altra? «Quella invece l'ho battezzata io. Si chiama Quenelle, che in francese significa polpettina» . Maurizio Landini non è scolpito in un blocco di granito, come sembra suggerire la faccia austera e lo scontro con Sergio Marchionne e le sigle sindacali che hanno firmato l'accordo su Mirafiori. Il segretario della Fiom è un uomo capace anche di ridere, con il gusto della battuta. «Chiamparino, Fassino e D’Alema sono di sinistra? Dipende dai giorni» . Quasi obbligatorio cominciare da qui. Dopo le parole dell'aspirante sindaco di Torino, «se fossi un operaio voterei quell’accordo» , lui ha replicato con l'invito ad andare a lavorare in una catena di montaggio. «Trovo legittimo che Fassino esprima il suo assenso alla trattativa. Ma non è giusto farlo mettendosi nei panni di un operaio. Non ha il diritto di vedere il mondo da quella parte. Noto che nel Pd ci sono posizioni diverse, non solo quelle di Fassino e D’Alema. Quel che mi sconcerta del Pd è la leggerezza con la quale vengono fatte certe dichiarazioni. Come se alcuni suoi esponenti non avessero a cuore gli interessi e la condizione di chi lavora» . A stretto giro di posta è arrivata anche la chiosa di Massimo D'Alema, che ha messo in dubbio la sua esperienza di vita operaia. «Io in fabbrica ci ho passato nove anni. E posso dimostrarlo» . Nasce nel 1961 a Castelnuovo ne'Monti (Reggio Emilia), quarto dei cinque figli di Guerino, ex partigiano e cantoniere, e di Bruna, casalinga, donna delle pulizie in casa d’altri. Landini ricorda bene il giorno in cui sua madre gli disse, senza tanti giri di parole, che forse era il caso di mollare l’istituto per geometri. Aveva 15 anni. «Cominciai come apprendista saldatore in un’azienda artigiana. Poi passai alla Ceti, una azienda cooperativa metalmeccanica, dove divenni tubista saldatore» . La Ceti aveva sede vicino a Cavriago, dove ancora oggi è presente in piazza il busto di Lenin. «Tutto era Pci, allora. Negli inverni del 1981 e dell’ 82 lavorammo molto in cantieri all’aperto. Freddo sottozero, condizioni dure. Eravamo un gruppo di giovani, e decidemmo di chiedere un’indennità per il lavoro in condizioni disagiate. Ci convocarono alla sede provinciale del partito, a Reggio Emilia. Un dirigente ci disse che nel nome del Pci dovevamo tenere conto dell’interesse della cooperativa. «Compagno» , gli risposi, «in tasca ho anch'io la tua tessera, ma quando lavoro nel cantiere ci ho freddo uguale» . Il giorno seguente i colleghi mi chiesero di diventare il loro delegato sindacale. Cominciai a capire che non sempre l'interesse del partito e quello dei lavoratori coincidono» . Nella vita di tutti c'è una nemesi, e la sua si chiama Pomigliano, la scintilla che a giugno ha acceso l’incendio di oggi. La spinta decisiva all’uscita dalla fabbrica venne da Francesco Trogu, metalmeccanico napoletano. «Era arrivato da poco alla Ceti. Eravamo alla fine del 1984, i giorni dello scontro sulla scala mobile. Lui era stato delegato a Pomigliano. Mi spinse a fare il salto» . Ed eccoci qui, ai giorni nostri. Landini si imbestialisce soltanto a sentirsi definire un signor No. «Ingiusto. La Fiom è la sigla che chiude più accordi. Ci dipingono come un sindacato che guarda indietro. Ma rivendicare autonomia e indipendenza, invece, è segno di modernità. Anche per questo critico Cisl e Uil: hanno subito un ricatto, o firmate o chiudiamo, e hanno chinato la testa senza considerare che nel modello proposto da Marchionne è insita la cancellazione del sindacato confederale e dei diritti di chi sta in fabbrica» . Come Peppone e don Camillo, ha chiosato qualcuno. Landini è ormai identificato come il grande avversario del manager abruzzese. «In realtà l’ho incontrato una sola volta, a Torino. Lui entrò, lesse il testo scritto in tre foglietti, e se ne andò. Fa sempre così. Marchionne ha un pregio, la chiarezza. E'importante quando chi hai davanti dice quel che pensa, per quanto inaccettabile» . Sono uno semplice, dice di sé. Sposato, sua moglie lavora in un ente pubblico. Tifoso di un Milan postumo, quello di Gianni Rivera e Pierino Prati, simpatizzante della Reggiana. Non ha mai letto Marx, frequenta i gialli di Carlo Lucarelli, la canzone della vita è Generale di Francesco De Gregori, stravede per la voce di Elisa. «Vivo con disagio questa esposizione, ne avrei fatto a meno» . La sensazione che trasmette è quella di un uomo che avverte il peso della situazione. Comunque vada, nulla sarà come prima, neppure per la Fiom. Lui è l'ultimo dei segretari con il cognome che finisce in "ini", da Claudio Sabattini a Gianni Rinaldini fino a Landini, una discendenza che non è solo lessicale o regionale, essendo tutti e tre nati in Emilia. «Ho conosciuto Claudio solo nel 1994. Mi riconosco però nella sua visione di una Fiom indipendente. L’irrilevanza per noi ci sarà solo quando gli operai non ci seguiranno più. Dal referendum su Pomigliano non abbiamo fatto altro che aumentare il numero di iscritti» . Il nome del "padre"Sabattini è legato alla sconfitta del 1980, 35 giorni di sciopero e la marcia dei quarantamila che seppellì tutto. «Oggi è peggio. Marchionne impone una radicalità maggiore di quella del 1980. Mi dispiace che il Pd non capisca. Il referendum di Mirafiori non è uno spartiacque. La responsabilità di quel che succede in Italia non può essere addossata su 5.500 lavoratori sotto ricatto. Noi andremo avanti, anche dopo. Adesso la saluto, vado a fare i regali di Natale. Finora non ho avuto il tempo di pensarci. Lo dica, al compagno D'Alema» .

l’Unità 31.12.10
Intervista con Chiara Saraceno
«L’Italia senza welfare tiene in scacco giovani e donne»
Per la sociologa «la famiglia resta l’unico pilastro possibile. I servizi sociali al lumicino. Il mondo femminile resta prigioniero di una cultura arretrata»
di Bianca Di Giovanni


Il 2010? Non molto diverso dagli altri anni. Purtroppo». Chiara Saraceno torna a parlare dei «mali d’Italia»: sempre gli stessi. Giovani con poche speranze per il futuro, welfare inadeguato a rendere i cittadini autonomi dalla loro famiglia d’origine, società ferma nelle sue diseguaglianze. Sembra che nulla del nostro Paese possa più sorprendere la sociologa che dopo vari impegni in diverse istituzioni italiane, è «espatriata» (sarà un caso?) a Berlino. Ma c’è un tema su cui l’allarme si fa più pressante: le donne. «Per le donne italiane questi sono anni bruttissimi dichiara sia dal punto di vista simbolico che da quello della rappresentazione pubblica». Nel mondo femminile c’è una distanza netta tra Italia e resto del mondo. «La quantità di bocche rifatte qui da noi è abnorme». Riflesso di un berlusconismo ormai dominante? No di certo. Saraceno non punta mai il dito solo su Berlusconi. Sono molte e complesse le cause delle storture italiane. C’entra l’economia, c’entra la cultura, c’entra il governo e c’entra anche la sinistra che non indica una strada alternativa. E soprattutto c’entra quella coazione a ripetere della politica, che si ritrova sempre come se fosse in campagna elettorale, con fronti contrapposti e richiami all’appartenenza. «In queste condizioni non si può parlare di nulla». Quest’anno i giovani si sono identificati come «generazione senza futuro». Il 2010 segna un cambiamento? «Non c’è stata una cesura rispetto a prima, ma solo un lento progredire nella crisi. Forse c’è una maggiore consapevolezza nel dibattito pubblico, ma già dal 2009 si era visto che sui giovani si sarebbero scaricati i costi della crisi. Sono stati colpiti i secondi redditi: quelli dei precari e delle donne. I capifamiglia sono stati protetti dalla cig, e i giovani a loro volta dalla famiglia. È stata una scelta consapevole del governo, che infatti usa ripetere spesso che in Italia c’è la famiglia che aiuta. Ma non funziona esattamente così. prima di tutto diventa sempre più difficile farsela una famiglia, visto che i giovani restano dipendenti. Secondo, anche la cig è una protezione solo temporanea: prima o poi finirà e allora cominceranno i guai. Dagli ultimi dati europei si è visto che la famiglia ha tenuto: ma per quanto tempo? E a quali condizioni? La cig rappresenta comunque una riduzione di reddito».
Definirsi «senza futuro» significa non credere neanche alle opposizioni, non avere una alternativa credibile. «Infatti: a sinistra vedo solo molta confusione. I messaggi non si comprendono. Senza contare il fatto che spesso c’è una corresponsabilità nei problemi dell’Italia. Per esempio su scuola e Università i problemi non derivano solo da Gelmini o dai tagli. Ci sono stati almeno tre interventi della sinistra: Berlinguer, Fioroni e Mussi. In ogni caso anche su questo io non ho visto il Pd dire chiaramente cosa avrebbe fatto. Ho visto come al solito una strumentalizzazione, giovani usati come cannoni per attaccare il governo».
Sta di fatto che c’è un malessere che il governo non vede. «Anche qui bisogna essere chiari: la crisi non ha colpito tutti, e non tutti allo stesso modo. In Italia tutto dipende dalla famiglia, ma non tutte le famiglie sono in difficoltà. Se si è mantenuto il reddito, con l’inflazione ai minimi si è sofferto meno, anzi si è guadagnato. Il vero problema ce l’ha chi ha perso il lavoro».
La distanza tra ricchi e poveri però è impressionante. «Anche in questo l’Italia non è diversa da altri Paesi. Ha colpito molto la notizia che il decile più ricco possiede il 45% della ricchezza. Ma negli Stati Uniti è ancora peggio, e anche in Germania, dove il decimo dei più abbienti detengono il 60% della ricchezza. Il vero problema italiano è che da noi la famiglia è l’unica rappresenta l’unico pilastro su cui contare, non ce ne sono altri. Se un giovane tedesco ha dei problemi, può contare su un welfare più avanzato, se non ha casa ha diritto per un certo periodo a un aiuto per l’affitto, se fa figli ha congedi parentali. Da noi tutto questo non funziona. Così, se la famiglia ce la fa, va tutto bene, altrimenti sono guai».
Come hanno reagito le famiglie?
«In termini assoluti, cioè di quantità di ricchezza bruciata dalla crisi, hanno perso più i ricchi. Ma certamente i più poveri se perdono l’unica cosa che hanno, cioè il lavoro, perdono tutto. Le famiglie, inoltre, stanno perdendo anche quei pochi servizi che avevano. la scelta politica è stata di ridurre al lumicino la spesa sociale. Mancano i servizi all’infanzia, e questo rende difficile qualsiasi tentativo di autonomia sia dei giovani che delle donne».

l’Unità 31.12.10
Una lettera dal Colle a Berlusconi per illustrare i punti su cui sarà necessario intervenire
Le critiche del Quirinale anche sulla concessione delle borse di studio su base territoriale
Università, Napolitano firma «Ma è una legge con criticità»
Il presidente della Repubblica ha accompagnato con una lettera a Berlusconi la firma alla legge Gelmini. L’iter «è stato lungo e faticoso» ma non sono state ravvisate ragioni per un rinvio. però «restano criticità».
di Marcella Ciarnelli


Approvata l’antivigilia di Natale la legge di riforma dell’università è stata firmata dal Capo dello Stato l’antivigilia del primo giorno del nuovo anno, quello in cui si cominceranno a verificare gli effetti di una legge molto contestata e frutto di uno scarso confronto con i diretti interessati, gli studenti, i ricercatori, i docenti. Il presidente della Repubblica ha promulgato la legge ai sensi dell’articolo 87 della Costituzione «non avendo ravvisato nel testo motivi evidenti e gravi per cjiedere una nuova deliberazione alle Camere, correttiva della legge approvata a conclusione di un lungo e faticoso iter parlamentare» ma ha accompagnato la sua firma con una lettera al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi che, per conoscenza, è arrivata anche sulle scrivanie di Renato Schifani e Gianfranco Fini.
UN ITER LUNGO
Perchè se è vero che formalmente non ci sono rilievi Napolitano ha voluto mettere agli atti «le criticità» da lui ravvisate in una normativa oggettivamente necessaria ma non nelle forme e i modi che sono stati scelti dal ministro e dall’esecutivo. C’è stata in buona sostanza una prova di forza che sarebbe stato meglio risparmiare al Paese, ai giovani, a quanti sono coinvolti nelle norme appena approvate e nella loro stesura definitiva dato che, ha ricordato Napolitano al premier, «l’attuazione della legge è del resto demandata a un elevato numero di provvedimenti, a mezzo di delega legislativa, di regolamenti governativi e di decreti ministerali».
Ribadisce il presidente che «quello che sta per avviarsi è dunque un processo di riforma, nel corso del quale saranno concretamente definiti gli indirizzi indicati nel testo legislativo e potranno essere affrontate talune criticità».
«Criticità». Questa la parola scelta da Napolitano per indicare le parti in cui, più che in altre, sarà necessario apportare correzioni nel corso di un percorso che non si preannuncia facile. Soto la lente d’ingrandimento del Quirinale sono finiti in particolare gli articoli 4, 6, 23 e 26. Il presidente entra nel dettaglio: «Per quel che riguarda l'articolo 6, concernente il titolo di professore aggregato pur non lasciando la norma, da un punto di vista sostanziale, spazio a dubbi interpretativi della reale volontà del legislatore si attende che ai fini di un auspicabile migliore coordinamento formale, il governo adempia senza indugio all'impegno assunto dal Ministro Gelmini nella seduta del 21 dicembre in Senato, eventualmente attraverso la soppressione del comma 5 dell'articolo. Per quanto concerne l'art. 4 relativo alla concessione di borse di studio agli studenti, appare non pienamente coerente con il criterio del merito nella parte in cui prevede una riserva basata anche sul criterio dell'appartenenza territoriale. Inoltre l'art. 23, nel disciplinare i contratti per attività di insegnamento, appare di dubbia ragionevolezza nella parte in cui aggiunge una limitazione oggettiva riferita al reddito ai requisiti soggettivi di carattere scientifico e professionale. Infine è opportuno che l'art. 26, nel prevedere l'interpretazione autentica dell'art. 1, comma 1, del decreto legge n. 2 del 2004 sia formulato in termini non equivoci e corrispondenti al consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte Costituzionale». Il messaggi al governo è stato quanto mai chiaro. Io firmo ma le criticità che vi ho segnalate dovete impegnarvi a superarle ascoltando tutti i soggetti coinvolti «cercando di ricercare un costruttivo confronto con le parti interessate». In questo senso «resta importante l’iniziativa che spetta al governo in esecuzione agli ordini del giorno accolti nella seduta del 21 dicembre in Senato, contenenti precise integrazioni anche integrative, sul piano dei contenuti e delle risorse, delle scelte compiute con la legge approvata dall’Assemblea». Quella citata da Napolitano è stata una delle occasioni in cui si è trovata una maggioranza più ampia di quella che c’è stando ai numeri. Segnale di una possibilità di dialogo tra le parti coinvolte direttamente nella riforma ma che Napolitano si è sempre augurato possa avvenire sulla maggior parte delle decisioni prese nell’interesse del Paese.
Il ministro Gelmini ha incassato la firma del Capo dello Stato con una evidente soddisfazione e la consueta tendenza a minimizzare le critiche. «Terremo in massima considerazione le osservazioni del presidente. Appare evidente dall'analisi dei punti rilevati che nessuno di essi tocca elementi portanti e qualificanti della legge. Aver approvato la legge sull'università è un segnale positivo per il Paese perché dimostra che è possibile realizzare le riforme».
Le associazioni degli studenti, alcuni furono ricevuti al Colle, hanno reagito alla firma con un misto di delusione ma anche di comprensione, comunque «una piccola conquista». Il presidente aveva usato con loro un «linguaggio di verità» invitandoli a passare dalla protesta alla proposta ed a riflettere che il dialogo e il confronto non si deve fermare davanti ad una legge. «Il presidente Napolitano ci ha ricevuto e ascoltato con rispetto, ma non ci aspettavamo che fosse lui a dare battaglia al posto nostro. A bloccare la riforma Gelmini dovranno essere gli studenti, i dottorandi, i precari, i ricercatori, i tecnici-amministrativi, tutti coloro che vivono sulla propria pelle la schiavitù della precarietà e il furto di futuro operato da questa riforma».

l’Unità 31.12.10
Lettera a Saviano
Roberto, non sono d’accordo
di Marco Rovelli


Roberto ti scrivo perchè ti stimo ma questa volta ti sbagli. I numeri e le immagini mi sembrano chiare... la logica dei buoni e dei cattivi questa volta regge poco». Davvero tanti i commenti di dissenso in calce alla lettera di Saviano sul sito di Repubblica. Gli studenti, o almeno molti di loro, non ci stavano alla divisione in buoni e cattivi, come del resto anche questo giornale aveva dato conto subito in margine alle assemblee degli universitari. La rabbia esplosa a Roma è stata l’onda violenta di qualcosa che scuote, sommuove, di un no future che sta davanti agli occhi di una massa di giovani disincantati (nulla a che vedere con gli anni Settanta, questa è una rivolta esistenziale ed etica, “materialistica”, una rivolta contro la precarietà globale), che non trovano rappresentanza politica né culturale, che vedono agitarsi davanti sé solo uno stanco teatrino della politica che si rinchiude in sé stesso, come la blindatura del Palazzo aveva perfettamente metaforizzato. Scrivevano a Saviano, anche: «Perchè, quando si parla dell’estero si parla di rivolta e qui sono solo una cinquantina di black block? Saviano, gli intellettuali dovrebbero aiutare il popolo a riconquistare quello che sta perdendo, dare supporto, non tarpare le ali. Ho visto VITA in piazza, ed era tanto che non la vedevo...». Ma quella violenza era stata un’esplosione contingente, che la piazza aveva sostenuto alla notizia della fiducia: nulla che faccia parte di un progetto, di una pratica identitaria, tantomeno di una cornice ideologica. E infatti il 22 dicembre il movimento ha di nuovo sorpreso tutti, ritraendosi, lasciando il Palazzo alla “solitudine della sua miseria”. Ha conquistato il centro della scena con la propria sottrazione, e per fare questo ci vuole molta intelligenza. È un movimento maturo, che sta forgiando gli strumenti di un nuovo mondo, e non ci sta a farsi ingabbiare in facili etichettature di un altro mondo. Per l’anno a venire è una bella speranza.

l’Unità 31.12.10
Parte la campagna per ripristinare i fondi tagliati dalla legge di Stabilità e dal milleproroghe
Vita (Pd) c’è un emendamento parlamentare, il governo ci ripensi. Articolo 21: pronti alla lotta
Altolà di editoria e cultura: basta tagli, i fondi ci sono
Giornalisti e associazioni dello spettacolo e della cultura preparano la battaglia per ripristinare i fondi tagliati. Siddi (Fnsi): il bliz sull’editoria è uno schiaffo al Parlamento e un attacco al pluralismo.
di Bianca Di Giovanni


«Un durissimo schiaffo al parlamento e un colpo al cuore alla libertà di informazione». Così Franco Siddi, segretario della Fnsi descrive l’ultimo blitz di Giulio Tremonti: il taglio di 50 milioni al fondo per l’editoria disposto nel milleproroghe. Una decisione che rimette in discussione la sopravvivenza di 92 testate (giornali politici, tra cui l’Unità, non profit e di cooperative come Il Manifesto) e mette a rischio 4mila posti di lavoro. In una conferenza stampa a cui hanno partecipato i vertici dell’Fnsi, il segretario dell’Associazione Stamparomana Paolo Butturini, il presidente di Mediacoop Lelio Grassucci, il senatore Pd Vincenzo Vita e altri esponenti del mondo della cultura, sono volati fendenti durissimi contro il governo. Ogni anno si ripete lo stesso «programma»: Tremonti taglia, il Parlamento reintroduce dopo lunghe e «defatiganti» (parola di Vita) trattative. Quest’anno il record: tre volte in 12 mesi. E l’ultima volta in un giorno si è passati dallo stanziamento dei fondi al loro taglio. Un vero scippo, che ha definitivamente depotenziato un fondo già da anni sotto la scure dell’Economia. Va da sé che in queste condizioni la sopravvivenza delle aziende è messa a repentaglio più che dai tagli, dall’incertezza: non si possono chiudere i bilanci, né si possono fornire garanzie ai creditori.
ATTACCO
Stavolta l’attacco è stato più virulento, ed ha mostrato tutta la portata di una scelta politica precisa e predeterminata. L’affondo, infatti, è parallelo alla chiusura dei rubinetti per i teatri, i cinema, il mondo della cultura. Tutti rimasti senza ossigeno. Insomma, si distingue chiaramente una visione totalitaria verso tutte le espressioni del pensiero. Tanto che la conferenza di ieri è stata convocata dal Comitato per la libertà, il diritto all’informazione e alla cultura, che racchiude una miriade di soggetti, uniti dai tagli di Tremonti. Il quale, oltre a togliere risorse, gioca anche sul tavolo del populismo, mettendo in chiara contrapposizione i fondi per l’editoria con quelli del 5 per mille. Contrapposizione inesistente, visto che i due fondi «convivevano» tranquillamente nel bilancio del 2010. La scelta di tagliare l’uno per finanziare l’altro è solo politica. Senza contare che all’editoria dei «piccoli» e non allineati si toglie, ma si concendono gli sgravi per la carta destinati ai grandi gruppi, tra cui anche Mondadori. Torna, nel silenzio assordante di molti osservatori, lanomalia del conflitto d’interessi del premier. Inoltre nulla dice il ministro delle risorse riservate alla casta dei protetti, dei privilegiati dalle varie «parentopoli», agli sprechi mai davvero intercettati, che comunque hanno fatto impennare la spesa corrente anche in questi anni di rigore a senso unico.
Ora comincia la battaglia. «In Parlamento è già pronto un emendamento dichiara Vita che attenua il taglio utilizzando i fondi del credito sulla carta. Una proposta che ha già ottenuto un consenso ampio». Ma non ci si fermerà qui: stavolta c’è bisogno di un salto di qualità. Il Comitato è convocato in modo permanente, finché non sarà trovata una soluzione definitiva su tutti i settori (editoria, spettacolo, cultura). Lo schieramento è amplissimo. Articolo 21, con Giuseppe Giulietti, ha assicurato il suo appoggio a tutte le iniziative, che inizieranno già in gennaio con l’avvio dei lavori parlamentari. L’esame del provevdimento partirà il 12 gennaio in Senato. Per quella data il Comitato si è impegnato a proporre soluzioni alternative, riforme di settore da presentare al governo. «Non lasciamo a Tremonti la parola rigore. Lo sfidiamo a un confronto pubblico su questo ha spiegato il presidente Fnsi Roberto Natale nel paese del conflitto degli interessi il sindacato non può accettare la chiusura di alcune voci dell'informazione, mentre altri si arricchiscono in un regime di duopolio o monopolio». Butturini ha annunciato che la protesta sarà al centro della manifestazione organizzata da Stamparomana il 24 gennaio, data di scadenza dei termini per impugnare i contratti dei precari fissata dal colelgato lavoro.

l’Unità 31.12.10
La scure contro editoria e cultura
Quella voglia di ridurre al silenzio
di Francesco Verducci


Alcuni tagli sono più profondi di altri. Lasciano ferite che non si rimarginano. I tagli alla cultura e all’informazione riducono al silenzio voci, espressioni. Opinioni. “Censurate”. Per gli effetti di un decreto: il ‘Milleproroghe’ varato dal Governo il 23 dicembre. Che mortifica la cultura. E colpisce a morte una parte vitale della libera editoria, togliendo 50 milioni al Fondo per le testate di idee, no profit, cooperative, di partito e 45 milioni alle tv locali. Fondi stanziati dalla Legge di Stabilità appena approvata.
Un provvedimento fortemente voluto da uno schieramento parlamentare trasversale che ormai da mesi, reiteratamente, chiede al Governo il ripristino del Fondo dell’Editoria e la presentazione di un progetto di Riforma del comparto. Tutto di colpo azzerato dal “Milleproroghe”, ennesimo atto governativo di protervia nei confronti del Parlamento e di spregio verso il mondo dell’informazione. C’è una connessione politica negli atti con cui la destra colpisce cultura e informazione. La volontà dell’esecutivo di anestetizzare settori ed energie vitali della società ed esercitare, attraverso tagli e bavagli, controllo e pressioni.
Negli ultimi tre anni la scure dei tagli di Tremonti ha ridotto l’editoria italiana ad un cumulo di macerie, mettendo a rischio oltre 90 testate e migliaia di posti di lavoro di giornalisti e poligrafici. Colpendo i virtuosi e lasciando indenni sprechi e testate fantasma, in un crescendo drammatico di chiusure, licenziamenti, aumento del precariato.
Senza un intervento immediato tante vocinazionali, di comunità territoriali, di organizzazioni sociali, culturali, religiosechiuderanno.
L’allarme lanciato dal Comitato per la Libertà di Informazione e per il Pluralismo parla chiaro. Un grande bene pubblico, un importante settore produttivo, è soggetto a decimazione e smantellamento.
Da due anni e più Bonaiuti promette e non mantiene la convocazione degli Stati generali.
Nel frattempo il settore agonizza sotto i colpi dei tagli, improvvisi, senza criterio, che precludono ogni ipotesi di riforma e, costringendo molti alla chiusura, colpiscono duramente pluralismo e libertà.
Nella colpevole incapacità e indifferenza di Bonaiuti.
Sta a noi adesso alzare ulteriormente il tono della denuncia. Costruire una vasta mobilitazione che rompa il silenzio dell’opinione pubblica su un tema così importante, che investe le fondamenta e il futuro della nostra democrazia. Correggere il Decreto e tornare alla volontà parlamentare oltraggiata dall’Esecutivo.

Corriere della Sera 31.12.10
Polito e l’addio al Riformista: ci hanno strozzato
«Il Cavaliere avrebbe dovuto cambiare le regole, costringendo la sinistra a seguirlo, ma non l’ha fatto»
di Fabrizio Roncone


ROMA— «Aspetta, mi infilo il cappotto ed esco...» . L’ultima passeggiata su via delle Botteghe Oscure, da direttore del «Riformista» . «Quando ristrutturammo il piano terra del vecchio Bottegone, il palazzo che aveva ospitato la storica sede del Partito comunista italiano, insistetti affinché ci fossero queste vetrate sul marciapiede... L’architetto mi chiese: "Dottor Polito, ma è sicuro?". Gli dissi di sì, a me sembrava una bella idea rendere visibile, trasparente il lavoro della redazione» . Perché lasci il giornale che fondasti otto anni fa? «Oh, è molto semplice: perché me lo hanno chiesto» . Chi te lo ha chiesto? «Beh, non è un segreto che c’è una trattativa in fase avanzata per acquistare il giornale... e se il sottoscritto, che un poco ingombrante è, essendo non solo il direttore della testata, ma anche uno dei fondatori, si toglie di mezzo... come dire? la trattativa, forse, ne trae vantaggio in termini di rapidità» . A trattare l’acquisto della testata con la famiglia Angelucci sono Emanuele Macaluso e Gianni Cervetti, due ex importanti dirigenti del Pci, area migliorista. «Sì, così dicono: la trattiva sarebbe tra loro... ma...» . Dai, prosegui. «Forse è il caso di cominciare dall’inizio, e spiegare perché siamo arrivati a questo» . Spiegalo. «Semplice: ci hanno strozzato» . — è una metafora forte. «Il guaio è che non è nemmeno una metafora: è pura realtà» . I responsabili? «Allora, la storia è questa: all’improvviso, due anni fa, il Dipartimento per l’editoria di Palazzo Chigi ci sospende l’erogazione dei finanziamenti pubblici cui hanno diritto anche altri giornali come Il Foglio, l’Unità, il manifesto e via dicendo... e, in più, viene pure attivata un’indagine dell’Agcom» . L’accusa qual è? «Ci viene contestato che gli Angelucci, attuali proprietari della testata, posseggono anche un’altra testata, Libero. E i finanziamenti per due giornali non si possono prendere. Noi mettiamo subito al lavoro gli avvocati, e cerchiamo di spiegare che la testata del Riformista è sì di proprietà degli Angelucci, però poi la società editrice è una cooperativa che incassa il contributo intestato a Le Nuove Ragioni del Socialismo, di cui Macaluso è direttore, e per editare paga un affitto, un canone agli Angelucci» . La sentenza dell’Agcom è prevista per febbraio, giusto? «Giusto. Ma intanto i debiti sono aumentati, e quando hai debiti, c’è poco da fare, il rischio di essere condizionati è sempre in agguato. Ora, ti dico: io credo di aver difeso la nostra autonomia fino alla pignoleria... Però è chiaro che, a questo punto, per ricominciare a ottenere il finanziamento pubblico, è meglio mutare assetto proprietari o » . Macaluso e Cervetti cambieranno la linea politica del giornale? «Non lo so, ma può darsi» . Tu e Velardi cominciaste con un sogno. «Una scommessa, più che un sogno: volevamo evitare che la sinistra di questo Paese finisse nelle mani di Bertinotti e Cofferati. Ti ricordi cosa accadde al Palazzetto dello sport di Firenze, no?» . Nanni Moretti consegnò simbolicamente tutto il movimento dei Girotondi a Cofferati... «Quel giorno pensai: il riformismo, in Italia, rischia di morire ancor prima di nascere» . Cofferati non... «Cofferati? Una volta disse che la parola "riformismo"era una parola malata. Fu per sfida che demmo al giornale questo nome...» . Velardi, sul Fatto, ha raccontato che il primo vostro finanziatore fu la famiglia Garrone. «I petrolieri genovesi. Il padre lo incontrai in un albergo di via del Babuino, a Roma. Mi disse: "Mio figlio m’ha parlato di voi...". Mise un milione di euro» . Cominciaste con un giornale di poche pagine, arancione. «Graficamente, molto chic. Politicamente...» . Di rito dalemiano. «Mah... Con D’Alema abbiamo avuto anche degli scontri. Certo era all’area riformista che ci rivolgevamo, e D’Alema, otto anni fa, era un interlocutore serissimo. Purtroppo non ebbe il coraggio di rompere con Cofferati» . E con la Cgil. «Com’era già chiaro all’epoca, il problema della sinistra italiana è la Cgil, il sindacato. Ieri c’era Cofferati, oggi c’è la Fiom di Landini» . In mezzo, il Pd di Veltroni. «Uomo di insostenibile leggerezza. Per noi il Pd era l’isola, l’approdo. Purtroppo Veltroni andò al Lingotto e fece un magnifico discorso riformista solo perché, nella fretta di prepararsi un testo, aveva saccheggiato gli scritti di gente come Morando, come Rossi... Poi, tornato da Torino, oscillò tra radicalismo e inciuci con Berlusconi...» . Alla fine, editorialmente, vi è mancato il pascolo. «Colpa anche di Berlusconi. Avrebbe dovuto, sia pure a modo suo, fare delle riforme. Costringendo poi la sinistra ad andargli dietro. Purtroppo lui è rimasto dov’era, e la sinistra è tornata ad essere vecchia e radicale» . Chi firmerà il giornale dal primo gennaio? «Stefano Cappellini, uno dei miei due vice» . Tu che farai ora? «Rallento. Dirigere stanca. E poi ho moglie e tre figli: mi piace l’idea di tornare a cenare con loro...» . (Rientra in redazione. Aveva una squadra irriverente, di talento. «Puoi scrivere che sono orgoglioso di loro?» ).

l’Unità 31.12.10
L’ex presidente è stato inchiodato da tre ex dipendenti, rischia fino a 16 anni di carcere
Le reazioni Il premier Netanyahu: «La legge è uguale per tutti». I legali annunciano l’appello
Israele, verdetto «epocale»
Katsav colpevole di stupro
I giudici sottolineano: «Quando una donna dice no, è no»
Moshe Katsav, ex presidente israeliano, è stato riconosciuto colpevole di stupro, dopo lo scandalo che lo costrinse a dimettersi nel 2007. Rischia fino a 16 anni. Netanyahu: «Tutti uguali davanti alla legge».
di Virginia Lori


Colpevole di stupro e di altri crimini sessuali. È una condanna infamante quella emessa con un verdetto unanime dal tribunale di Tel Aviv. L’ex presidente israeliano, Moshe Katsav, 65 anni, è stato condannato per il sexgate che aveva scioccato l’opinione pubblica e lo aveva costretto alle dimissioni da capo dello Stato nel 2007. «Oggi è una giornata triste per Israele e i suoi abitanti», ha commentato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Triste anche per il Likud, di cui entrambi sono membri. Ma Netanyahu si è sforzato di trovare un risvolto positivo in una sentenza che sancisce «l’uguaglianza di tutti i cittadini dinnanzi alla legge e il pieno diritto di ogni donna al proprio corpo».
«NON È VERO»
«Quando una donna dice no, è no» hanno affermato i giudici. L’entità della pena sarà decisa in un’altra seduta, e per lo stupro potrebbe arrivare a 16 anni di reclusione. Intanto i giudici hanno imposto a Katsav di consegnare il passaporto e di non lasciare il Paese.
Un verdetto che molti considerano «epocale» per la difesa delle donne. Katsav in particolare è stato giudicato colpevole di due stupri e di violenza sessuale ai danni di A., ex impiegata del ministero del turismo negli anni in cui in cui lui era il titolare. Non un episodio isolato. Durante la sua presidenza (2000-2007) Katsav si è reso colpevole di un «atto indecente» e di molestie sessuali nei confronti di L., allora impiegata nella residenza presidenziale, e di molestie sesuali nei confronti di H., anche lei dipendente della presidenza. Infine, secondo la Corte, Katsav ha cercato di ostacolare il corso della giustizia.
Il tribunale ha accolto pressoché interamente le ragioni dell’accusa, ha respinto quelle del collegio di difesa, peraltro composto da alcuni dei più noti principi del foro, e ha definito «infarcita di menzogne» la deposizione di Katsav. «No, no», ha esclamato più volte, terreo in volto, l’ex presidente durante la lettura della sentenza. «Non è vero», ha gridato uno dei figli, in un disperato tentativo di smentita.
Katsav ha abbandonato l’aula del tribunale senza fare alcuna dichiarazione, i suoi avvocati annunciano un ricorso in appello. L’unico a commentare è stato uno dei figli, per il quale «il verdetto non si ispira ai dettami dell’ebraismo». «Continueremo ad andare avanti ha detto a testa alta, fieri di nostro padre».
La sentenza è stata accolta con grandissima soddisfazione dalle organizzazioni femministe che più volte avevano accusato i tribunali di avere la mano lieve nei confronti di persone accusate di crimini sessuali. Il verdetto dimostra che «il primo cittadino dello stato non ha i diritti sessuali di un re feudale». ha scritto la giornalista Neir Livneh. Diversi giuristi e uomini politici, hanno definito la sentenza una vittoria dello stato di diritto.
Si conclude così una vicenda cominciata quattro anni fa e un processo durato circa un anno e mezzo in gran parte a porte chiuse. Un processo che Katsav avrebbe potuto evitare se avesse accettato il patteggiamento con l’accusa: avrebbe dovuto dichiararsi colpevole di reati minori, evitando però la prigione.

l’Unità 31.12.10
Intervista a Hanan Ashrawi
«Il mio sogno per il 2011: Obama più forte con Israele»
L’ex portavoce della Lega araba: «Noi palestinesi non smettiamo di volere un futuro di libertà ma il premier Netanyahu ha bruciato ogni chance di pace»
«I falchi israeliani si sentono al di sopra di tutto, hanno rifiutato anche la mini-moratoria sugli insediamenti»
di Umberto De Giovannangeli


Lei mi chiede cosa mi attendo per il 2011. Una svolta nel processo di pace sarebbe la risposta più facile, scontata. Ma oggi suonerebbe la più falsa. Ciò che mi auguro è di non smettere di sognare un futuro di libertà. Perché dopo la terra, è questo il furto più grande, atroce che noi palestinesi stiamo subendo. Smettere di sognare significa arrendersi definitivamente. Significa accettare che qualcosa sia morta dentro ognuno di noi: la speranza di poter vivere da donne e uomini liberi». Il 2011 dei palestinesi visto da una delle figure più nobili e rappresentative dei Territori: Hanan Ashrawi, parlamentare, più volte ministra dell’Anp, la prima donna portavoce della Lega Araba, oggi paladina dei diritti umani nei Territori palestinesi. Hanan Ashrawi non crede possibile portare avanti un serio negoziato di pace con l’attuale governo israeliano.
«Quello israeliano – spiega è un governo di piromani. Sistematicamente hanno dato fuoco ad ogni possibilità di dialogo e hanno scelto la strada dello scontro frontale mascherandola a volte con la retorica delle buone intenzioni. Con un' aggravante ulteriore rispetto al passato: stavolta hanno esaltato l'aspetto religioso, ideologico, nella loro logica militarista e colonizzatrice. I falchi israeliani si sentono al di sopra di tutto e di tutti. Hanno chiuso la porta in faccia a Obama, rifiutando anche la proposta di una mini moratoria di tre mesi nella costruzione degli insediamenti, fatto orecchie da mercante alle critiche dell'Unione Europea...È un delirio di onnipotenza che non prevede compromessi ma solo l’annientamento della controparte. Per costoro pace è solo sinonimo di resa incondizionata del nemico». Se deve indicare la grande delusione del 2010 che sta finendo, Hanan Ashrawi non ha dubbi: «La delusione si chiama Barack Obama. Con il suo discorso del “Nuovo Inizio” il presidente Usa aveva suscitato grandi speranze e aspettative tra i palestinesi e nel mondo arabo. Ad oggi queste aspettative sono del tutto inevase». Il 2011 può essere l’anno della svolta nel negoziato di pace israelo-palestinese?
«La Terra Santa è terra di miracoli, ma questo mi sembra andare oltre ogni immaginazione e fervore religioso...Parlare di pace con l’attuale governo israeliano mi sembra un andare contro natura, significa non voler fare i conti con la logica che sottende ogni loro azione».
Di quale logica si tratta?
«Quella militarista, colonizzatrice, impastata di nazionalismo e fonda-
mentalismo religioso. La logica di chi non contempla il compromesso, di chi sfida apertamente le leggi internazionali, incurante delle critiche della comunità internazionale. A partire da Gerusalemme dove stanno conducendo una pulizia etnica». Come fermarli?
«Isolandoli. Con i fatti, non a parole. Facendo intendere loro, con i fatti, che il tempo dell'impunità è finito. Quando parlo di fatti, penso agli accordi economici e militari che molti Paesi, l'America e non solo, hanno con Israele. Penso a pressioni diplomatiche, a manifestazioni di protesta. Il silenzio è complicità con questi falchi animati da un delirio di onnipotenza». C'è il rischio che si ritorni ai tempi, tragici, della seconda Intifada?
«La rabbia è tanta e rischia di esplodere. Noi palestinesi dobbiamo riflettere sugli errori commessi ed evitare di cadere nella trappola dei falchi israeliani. Ho sempre ritenuto che la militarizzazione dell'Intifada sia stato un grave errore che non dobbiamo ripetere. Tra gli “shahid” e la rassegnazione esiste una terza via».
Quale?
«La via della rivolta popolare, non violenta, che recuperi lo spirito della prima Intifada, di quella “rivolta delle pietre” che riportò la questione palestinese al centro dell'interesse internazionale. La via della disobbedienza civile, quella del boicottaggio di tutti i prodotti israeliani che provengono dalle colonie. È la via che da tempo palestinesi e israeliani stanno praticando a Beilin (villaggio palestinese in Cisgiordania, ndr), opponendosi alla realizzazione del Muro dell'apartheid. È la protesta non violenta che palestinesi e israeliani stanno portando avanti contro la costruzione di nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme Est. Non è facile, lo so bene. Ma è la strada giusta».
Stati Uniti, Europa, il Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia) ribadiscono che l'unica soluzione possibile è quella fondata sul principio “due popoli, due Stati”. È anche lei di questo avviso?
«Il principio è giusto ma la sua realizzazione si fa ogni giorno più problematica. Le basi di un accordo globale sono quelle delineate dalle risoluzioni Onu, indicate dalla Road Map...Non c'è nulla da inventare. Occorre la volontà politica di puntare al compromesso. Una volontà che non vedo in chi oggi governa Israele. Tra noi e loro c’è un Muro. E non solo fisico».
Due anni fa di questi giorni, Gaza era stretta in una morsa di fuoco. Due anni, dopo come leggere quegli eventi? «A Gaza Israele ha perpetrato un crimine di guerra, contro l’umanità che non può essere giustificato in nome del diritto di difesa. Quel crimine è rimasto impunito. La Striscia resta una enorme prigione a cielo aperto, isolata dal mondo. La gente di Gaza chiede giustizia. Ma il mondo si rifiuta di ascoltarla».
Tra i nodi più intricati da sciogliere c’è quello legato allo status di Gerusalemme. Lei in precedenza ha parlato di pulizia etnica in atto a Gerusalemme Est da parte israeliana. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha ribadito più volte che qualsiasi moratoria sugli insediamenti non riguarderebbe comunque Gerusalemme...
«È una posizione inaccettabile che contrasta peraltro con due risoluzioni Onu e con la legalità internazionale. Escludere Gerusalemme dal negoziato è voler far saltare il “banco” prima ancora di aver messo le carte sul tavolo».
Qual è la forza su cui far leva per non smettere di sognare un futuro di libertà? «La forza di un popolo oppresso sta nel mantenere viva la propria identità nazionale. È pensare, agire come una Nazione che rivendica il proprio Stato. È resistere all’occupazione e al tempo stesso gettare le basi di uno Stato che rispetti le diversità , politiche, religiose, di sesso, e faccia di questa pluralità la sua forza. È puntare sui giovani, e i giovani palestinesi, mi creda, sono ragazze e ragazzi straordinari, colti, determinati, parte di quella “generazione internet” che si apre al mondo nonostante Muri divisori. Possono limitare i loro spostamenti fisici ma non ingabbiare la loro mente. A loro dobbiamo una prospettiva di vita e non di mera sopravvivenza. Solo così potremo evitare che ciò che sta già avvenendo, l’emigrazione di migliaia di giovani, si trasformi in un esodo di massa. Questa sì sarebbe una sconfitta irrimediabile».
Ai giovani del mondo aveva parlato anche Barack Obama, suscitando grandi aspettative... «È vero, e ciò ha riguardato anche i giovani palestinesi. Nel risponderle ho usato un verbo al passato, perché in questo senso il 2010 è stato l’anno delle aspettative frustrate. Si lo so, Obama non ha la bacchetta magica per trasformare falchi in colombe, ma un leader che scatena emozioni, che suscita speranze è ancora più esposto alla valutazione dei fatti. E se guardo alla situazione del mio popolo i fatti sono carenti. Un Obama più decisionista, determinato a far valere il peso dell’America su Israele: è quello che mi auguro per l’anno che sta arrivando».

l’Unità 31.12.10
In Iraq, Sudan, Nigeria lo scontro non è tra religioni
La guerra tra civiltà è una categoria che nasconde conflitti originati da altro. Dal risentimento per le tante vittime civili a Baghdad al controllo del petrolio altrove. Ma la stampa fa finta di no
L’appartenenza a fedi diverse non conduce fatalmente all’intolleranza e all’aggressione. Ma diventa spesso pretesto per la sopraffazione
di Pino Arlacchi


La persecuzione anticristiana in corso in Iraq è inspiegabile se non si tiene conto del trauma della guerra del 2003. Molti osservatori rilevano con sorpresa come lo scontro religioso fosse del tutto sconosciuto in Iraq prima dell’invasione anglo-americana. Cristiani e musulmani professavano liberamente la propria religione, nel solco di una millenaria tradizione mediorientale, all’ interno di uno stato autoritario ma laico, dove un cristiano militante come Tarek Aziz poteva raggiungere i vertici del potere pubblico senza che si prestasse alcuna attenzione alla sua fede.
È stato il terribile shock dell’occupazione militare che ha letteralmente scassato la società irachena, scatenando una specie di lotta di tutti contro tutti: odi e tensioni irriducibili non solo tra cristiani e musulmani, ma tra sciiti e sunniti, e tra questi ed altre minoranze. La religione in se stessa non c’entra nulla con le animosità attuali. Se non si tiene conto dell’immenso risentimento provocato dai bombardamenti e dalle distruzioni belliche condotte in Iraq da potenze occidentali e cristiane che hanno fatto a pezzi il paese e lasciato sul terreno 660 mila vittime civili, non si capisce nulla di ciò che accade adesso. Si vedono solo gli effetti perversi di cause sconosciute. Oppure si invocano impulsi primordiali, o inclinazioni violente dell’Islam che datano comunque da secoli, e che non si sa perché siano riaffiorate solo adesso.
Lo scontro di civiltà (e di religioni) è una invenzione nefasta, che continua a venire proposta per interpretare crisi che hanno matrici completamente differenti. La Chiesa cattolica si tiene alla larga da questo concetto, perché ne conosce la pericolosità, e perché è impegnata da decenni in un dialogo interreligioso che sta portando frutti importanti. La Chiesa, perciò, invoca libertà religiosa per tutti, e non solo per i propri fedeli. In Italia, la promozione dell’idea dello scontro di civiltà è opera soprattutto del “Corriere della sera” e dei suoi editorialisti e collaboratori, che non si stancano di attaccare questa etichetta fuorviante a una congerie di argomenti: dall’Iraq alla Nigeria, dal Sudan all’Egitto, dal terrorismo alle migrazioni. Pochi giorni fa, il Corriere ha pubblicato un articolo di Benny Morris nel quale la guerra civile in atto in Sudan veniva definita come uno scontro di civiltà, e di religioni, tra il Nord arabo e musulmano e il sud nero e cristiano. Quando chiunque conosca anche un po’ la questione sa bene che il vero tema del conflitto è il controllo di una risorsa fondamentale come il petrolio, e che la religione non gioca alcun ruolo autonomo nella contesa. Il Presidente attuale del Sudan è accusato dalla Corte penale internazionale di violazioni che egli avrebbe commesso comunque, dati gli interessi in ballo e la natura del suo potere. Se il Sud del paese fosse stato turco o buddista non avrebbe fatto molta differenza.
Uno scenario analogo è quello della Nigeria, dove da un paio di decenni sono in corso conflitti sanguinosi, che costano ogni anno la vita di centinaia di persone, e che vengono descritti – non solo dal “Corriere”, in verità, ma da gran parte dei media occidentali come scontri tra cristiani ed islamici. Ma il fattore religioso conta in realtà poco e niente. Il problema è che anche quando l’autore del reportage, come nel Corriere del 29 dicembre, scrive correttamente che nelle carneficine in atto «in ballo non c’è soltanto la religione, ma soprattutto potere e soldi», e quando sottolinea che i «leader religiosi cristiani e musulmani hanno accusato i politici locali di usare la fede per esasperare le tensioni tra le due comunità in vista delle elezioni di aprile», ci si ritrova con il solito titolo degli 80 morti negli scontri religiosi. Tutto questo non significa negare l’influenza della religione nei comportamenti della gente. Intendo solo dire che essa non è mai la base esclusiva dell’identità degli individui. E soprattutto non conduce fatalmente all’intolleranza e all’aggressione, come i seguaci di Samuel Huntington e di altri fondamentalisti vogliono farci credere. Decine di esempi storici dimostrano come, lasciati liberi di riunirsi, di pregare ed onorare il loro Dio, né i musulmani né i cristiani né gli altri tendono naturalmente a disprezzarsi e ad attaccarsi. La norma è piuttosto la coesistenza pacifica e il rispetto reciproco. La rissa scoppia quando entrano in campo i grandi giochi e traumi della storia, oppure gli interessi costituiti e le macchine politiche con il loro corredo di manipolazioni e disinformazioni. La religione ridiventa allora l’antico pretesto per la sopraffazione, e lo scontro religioso è l’ultimo anello di una catena che spesso non si vede, ma che va portata alla luce se non si vuole restare intrappolati nell’inganno.

l’Unità 31.12.10
Buon anno nuovo, vecchio Marx
Il 2010 è stato l’anno dell’autore del «Capitale: convegni, libri e sondaggi che ne hanno decretato l’irresistibile successo. Come mai? Ecco le risposte dei libri più aggiornati che rilanciano i temi e le profezie del filosofo
Profezie riscoperte. Predisse il quadro della mercificazione globale e i sortilegi della finanza
Punti forti e deboli. Descrisse sfruttamento e flessibilità, sottostimò la leva della democrazia
L’enigma. Come mai in Cina convivono marxismo e capitalismo autoritario?
di Bruno Gravagnuolo


È stato un anno marxista, o marxiano se si vuole, a ripescare un’antica distinzione terminologica un po’ bizantina che lascia il tempo che trova. Dunque, su Karl Marx, saggi, libriccini e biografie e prima ancora, convegni, hit parade e sondaggi on line che hanno assegnato a Marx la palma del filosofo più letto e «up to date» (Bbc, Newsweek e Financial Time). Tra i contributi pubblicati in italiano andiamo a segnalarvene sei. Cominciando dai libriccini. Il Karl Marx (in pillole), antologia di autori vari della Ediesse (pp.168, euro 10), a metà tra divulgazione e indagine di frontiere più esterne al perimetro marxista (l’ecologia), ma altresì indagabili «con Marx» (la natura come valore d’uso, merce e relazione sociale). Il Marx, istruzioni per l’uso (Ponte alle Grazie, pp. 252, euro 16,50) di Daniel Bensaid, studioso scomparso nel 2010 che si è valso di Charb, famoso disegnatore francese e direttore di Charle Hebdo per raccontare a vignette e in chiave di romanzo poliziesco i segreti del «plusvalore» e del meccanismo capitalistico scandagliati nel Capitale.
Seguono quattro libri ambiziosi, e cioè due biografie e due saggi. Le biografie sono a firma l’una di Nicolao Merker, allievo del grande Galvano della Volpe (Karl Marx. Vita e opere. Laterza, pp. 257, euro 18) e l’altra a firma di Francis Wheen, giornalista dell’anno in Inghilterra per il 2004: Karl Marx. Una vita (Isbn, pp. 397, euro 27). Quanto ai due saggi, molto diversi tra loro. «Marxologico» quello di Jacques Bidet, studioso emerito a Nanterre e tra i più originali revisori neomarxisti di Marx: Il Capitale. Spiegazione e ricostruzione (Manifestolibri, pp. 286, euro 32), con prefazione di Stefano Petrucciani e Michela Russo. Infine, dal titolo intrigante, il Gengis Kahn o Karl Marx? (Associazione culturale Arlem editore, via Capponi 57 Roma, pp.119, euro 12)) di Arminio Savioli, già notissimo inviato esteri de l’Unità, che fa i conti con gli esiti totalitari delle rivoluzioni comuniste, con la chiave di una categoria storiografica poco frequentata: il «dispotismo asiatico» (introdotta nel XX secolo da Karl Wittfogel).
Impossibile riassumere questa sterminata massa di pagine, ma qualche filo che le congiunge tutte c’è. Intanto due domande comuni e insistenti: come mai malgrado il crollo dei regimi marxisti il fascino di Marx perdura? E davvero Marx è colpevole degli esiti spesso nefasti delle sue predicazioni? Quest’ultima domanda ne sottende un’altra: in quale punto le idee di Marx lasciano scoperto il varco entro il quale passeranno deformazioni funeste? Proviamo a rispondere, utilizzando questi libri. Che tutti insieme rispondono all’unisono sul motivo dell’irresistibile rinascita di Marx: l’unificazione economica del mondo globale odierno. Ovvero l’impetuoso sviluppo di forze produttive planetarie, che ha reso il capitalismo onnipervasivo e capillare, proprio al modo in cui Marx lo aveva previsto dal Manifesto al Capitale. Non solo infatti il mondo è mercificato senza barriere, dall’immensa circolazione di prodotti che attraversa l’esistenza di ciascuno. Ma i pensieri, l’immaginazione e le attese psicologiche sono merce. Gli stili di vita e la riproduzione simbolica del mondo sono tali, in una spirale spettrale dove il virtuale non si distingue dal reale. Mai vi fu cosa tanto «sensibilmente sovrasensibile» della finanza e del denaro a credito, sulla cui reddittività in titoli si scommette, e senza alcun rapporto con la concretezza materiale dei valori d’uso prodotti. Proprio come vaticinava Marx nei Grundrisse e in quei luoghi del Capitale dove descriveva il sistema di truffe della borsa legati alla scissione tra proprietà e management nelle imprese. Altra profezia azzeccata: l’intensificazione del valore prodotto, tramite l’intensificazione tecnologica dei tempi di lavoro (più tempo di sfruttamento in meno tempo). E con meno addetti. Inoltre: la creazione di un immenso esercito di riserva flessibile per il lavoro capitalistico che tiene bassi i salari e in concorrenza virtuosa (per il capitalista). E ancora: l’intercambiabilità dei lavori, in un lavoro generale e «astratto» dove tutti fanno tutto e a poco prezzo nella costrizione continua di doversi riciclare. Dalla fabbrica, ai servizi, all’intrattenimento. Da ultimo, e qui l’«antica novità»: l’assottigliamento del ceto medio, passato dall’espansione degli anni di welfare alla minaccia dell’impoverimento. Col corollario invece dell’espansione del lavoro dipendente e multiuso, decentrato e delocalizzato, al punto di non sapersi più riconoscere come classe (e magari incattivito da ideologie populiste, localiste o fondamentaliste). Ebbene Marx conobbe, a modo suo e anticipò, queste cose. Non senza tralasciare l’andamento ciclico dello sviluppo capitalistico, tra saturazione del mercato, ipertecnologia e sottoconsumo. Benché sottovalutasse altre cose. La prima fu la sottovalutazione degli effetti che la sua stessa profezia comportò: la lotta operaia che fece salire il prezzo della forza valoro. E le dinamiche statuali che regolarono il conflitto in chiave autoritaria o keynesiano-welfarista. Con conseguente nascita di un ceto medio oggi impoverito, ma ieri (subito dopo Marx) irrobustito. Altra pecca di Marx fu non aver ben compreso il tema democratico (lo spiega Merker): la democrazia come leva di mutamento e di trasformazione dello stato. Ineliminabile in occidente, come «metastruttura» da cui non si ritorna indietro (neanche nazismo e fascismo abolirono la «società civile» come sfera del contratto e di una certa autonomia individuale). Ecco il cavallo di battaglia di Jacques Bidet, marxista che cerca di salvare mercato, democrazia e socialismo, in una visione conflittuale del marxismo. Dove pur nell’uso sociale e cooperativo del mercato, si tiene ferma la denuncia dello «sfruttamento» (appropriazione privata del valore-lavoro contro il carattere sociale della produzione). Qui entra in gioco il «dispotismo», di cui ci parla Savioli. La cui tesi suona: le società dove Marx «trionfò» erano dispotiche e comunitarie fin dalle origini, e non potevano che generare un dispotismo comunitario sotto specie marxista. Giusto, e meritevole di approfondimento in altra sede. Ma allora la conclusione non può essere che questa: il marxismo politico non socialdemocratico fu alla fine un grandioso tentativo di emancipazione barbarica dell’arretratezza. Destinato al riscatto di società coloniali o semibarbariche sotto l’impeto di catastrofi (le guerre mondiali). Legittimò, quel marxismo, la riedizione dell’Impero zarista, che a sua volta modellò i suoi satelliti. Oggi però quel marxismo dispotico convive col capitalismo asiatico autoritario. Un enigma teorico e pratico a sciogliere il quale ci vorrà un altro Marx.

Repubblica 31.12.10
Il Nobel
Giorgio Parisi: “Ecco perché la fisica moderna è assurda come un testo di Beckett"
"Con la teoria del caos studiamo come piccole reazioni possano produrre enormi cambiamenti"
intervista di Antonio Gnoli


Lo scienziato è da poco stato insignito della medaglia Planck. Prima di lui solo altri due italiani
"Per me dio non è neanche un´ipotesi La fede può aiutare, ma non si può credere solo per vivere meglio"
Spesso le ipotesi della scienza hanno poco a che vedere con il senso comune
Spero di non fare la fine di quelle persone completamente rovinate dal Nobel

Nella erre blesa di Giorgio Parisi sembrano idealmente convergere i diversi aspetti di uno scienziato che, pur avendo dedicato larga parte delle sue energie intellettuali alla ricerca, non rinuncia agli altri interessi della vita. Ama la storia e la musica. Gli piace la letteratura. Sia di genere, come la fantascienza, che quella impegnata. Ha letto e riletto la Recherche di Proust, che ha poco del manuale scientifico e molto della vastità retorica del grande romanzo. Adora Ian Mc Ewan. Ma anche Dumas. Non è blasé, non se la tira. Fa quello che sente di fare: con naturalezza, direi domestica. Veste in modo casuale – indossa un maglioncino giro collo e un paio di pantaloni stazzonati – l´ultimo premio Planck per la fisica. Non è un riconoscimento tra i tanti. A vincere la medaglia Planck sono stati, fra gli altri, Einstein, Bohr, Heisenberg, Schrödinger, Landau, Pauli, Dirac. Tra gli italiani, prima di Parisi, soltanto due nomi arricchiscono la palmarès: Enrico Fermi che ebbe la medaglia nel 1954 e Bruno Zumino che la ottenne nel 1989.
Lei professore in quale branca della fisica è specializzato?
«Ho iniziato con la fisica delle particelle, lavorando con Nicola Cabibbo, poi sono passato alla meccanica statistica e alla teoria della complessità. Il Planck è un premio, se si può dire così, alla carriera. Ne sono ovviamente fiero e non me lo aspettavo».
In un fisico della sua levatura quanto conta la preparazione e quanto la parte innata?
«È come per il pianoforte: ci sono persone più dotate di altre per suonarlo. Poi, però, senza quattro o cinque ore di applicazione quotidiana si resterebbe dei mediocri musicisti. Non ricordo più quale pianista diceva: "se non faccio esercizi un giorno, se ne accorge solo Dio, se non li faccio per due me ne accorgo anch´io, se non li faccio per tre se ne accorge il pubblico».
E la predisposizione in che cosa consiste?
«Per un matematico nella facilità di lavorare con i numeri. E in generale con il pensiero astratto. Un di loro affermò che la matematica moderna è quella scienza di cui non si sa bene di che cosa parla».
Incoraggiante.
«In molti casi serve l´intuizione. Bisogna sapere immaginare cose astratte. Richard Feynman – che è stato un famoso fisico – riusciva perfettamente a immaginare e a lavorare con gli oggetti che i matematici gli mettevano a disposizione».
Quando dice "oggetto" matematico intende qualcosa di diverso da un oggetto qualsiasi, che so?, un posacenere, una penna?
«L´oggetto matematico – che può essere una sfera, un cilindro, una superficie e così via – non necessariamente deve esistere in concreto. La parola più precisa per connotarlo sarebbe "ente" più che oggetto, perché quest´ultimo fa pensare a qualcosa di reale. Ma che un oggetto esista o no nel mondo reale, in matematica e in fisica, non è importante. Lo stesso mondo galileiano era piuttosto distante dal mondo reale».
Sorprende un po´ la sua affermazione. La fisica galileiana non ha molte corrispondenze con la realtà?
«Le ha nel senso che alla fine tutto, o quasi, confluisce nella realtà. Ma le sue ipotesi hanno poco a che vedere con il mondo esterno. Galileo immaginò la teoria del moto in assenza di attrito, ma con ogni evidenza egli era consapevole che nel mondo reale, senza attrito non avremmo potuto neppure camminare. Quando Torricelli volle dedurre matematicamente quello che Galileo aveva sperimentato, giunse alla conclusione che se il mondo vero si comportasse in un modo un po´ diverso dallo schema matematico peggio per il mondo».
Nell´astrazione c´è dunque anche il rischio di non incontrare mai la realtà?
«Al matematico importa poco quanto un´ipotesi possa essere reale. Uno dei due fratelli Montgolfier gettò nella nebbia l´ancora del suo pallone aerostatico e quando la nebbia si diradò vide sotto un uomo che lo osservava. Gli chiese: "buon uomo può dirmi dove sono?". E quello: "Lei è a venti metri sopra di me" Al che Montgolfier gli chiese se per caso fosse un matematico. "Sì, come fa a saperlo?". Perché la sua risposta è esatta ma non serve a niente».
Davvero è inutile?
«Intendiamoci, le astrazioni matematiche alla fine sono utilissime. Einstein, che all´inizio della carriera non era ferratissimo in matematica, si servì a man bassa del formalismo matematico, sviluppato da alcuni geometri italiani alla fine dell´Ottocento, per la sua teoria sullo spazio curvo».
Cosa ha significato il passaggio dalla fisica classica a quella moderna?
«Se penso al Novecento è stato come passare da Amleto ad Aspettando Godot. Scherzo naturalmente. In realtà, quando diciamo fisica moderna intendiamo le due grandi rivoluzioni che ci sono state all´inizio del secolo scorso: da un lato, la doppia relatività, ristretta e generale, e dall´altro la meccanica quantistica. Le cose insomma si fanno molto più complicate rispetto a Galileo e a Newton. Assistiamo a un drastico allontanamento dal senso comune».
Non si rischia di dar vita a una casta separata di specialisti, la cui lingua è totalmente incomprensibile ai più?
«Anche gli studiosi che si occupano di sanscrito vivono in una dimensione a parte. Ci sono mondi astratti che non corrispondono a quelli che troviamo tutti i giorni. E ciò si chiama specializzazione dei saperi».
Proprio la fisica è tornata a occuparsi di problemi che nascono da osservazioni molto concrete: tipo il comportamento della sabbia che scende da un pugno chiuso, o come si impregna un foglio di scottex immerso nel caffè.
«È vero. Ricordo che quando iniziai a occuparmi di fisica, si pensava che problemi del genere non ne facessero parte. Perché non c´erano gli strumenti concettuali per studiarli. Perché ad esempio l´acqua bolle a 101 gradi e diventa vapore? Perché una piccola escursione termica crea un grande cambiamento? Perché le diverse circonvoluzioni del cervello di due gemelli monovulari, perfettamente uguali all´esterno, producono situazioni totalmente diverse?».
C´entra la teoria del caos?
«Sì, con essa si studia, dal punto di vista matematico e fisico, come una piccola reazione alle condizioni iniziali produce un grosso cambiamento».
È il famoso battito di ali della farfalla che da un continente all´altro provoca un uragano.
«Questo vale anche per i nostri comportamenti. È probabile che se uno fosse passato, un minuto prima o un minuto dopo, in un dato posto, il risultato avrebbe potuto essere completamente diverso. La teoria del caos si è sviluppata per cercare di capire che cosa si può comprendere nella perturbazione di un sistema».
C´è anche un aspetto qualitativo e non solo quantitativo nella ricerca?
«Esattamente. Si affrontano gli aspetti qualitativi quando non si è in grado di fare i conti con le quantità. Se devo calcolare il moto dei pianeti utilizzo un formalismo matematico che mi consente di farlo in modo preciso. Se prendo un foglio di scottex potrei anche creare un modello che mi permette di determinare esattamente la posizione del bordo del caffè sapendo la distribuzione delle irregolarità della carta. Ma sarebbe un lavoro enorme. A questo punto o rinuncio a studiare il problema oppure cerco di affrontarlo in forma più qualitativa, più probabilistica».
Su questo punto la fisica si incontra con la biologia?
«Moltissime applicazioni della fisica vengono fatte con i sistemi biologici. Una di queste è cercare di capire come funziona la memoria del cervello umano, che è molto diversa da quella di un calcolatore».
E la differenza in cosa consiste?
«Possiamo immaginare la memoria di un calcolatore come una grande cassettiera, con i suoi cassettini, contraddistinti da un numero, nei quali raccolgo informazioni che si possono utilizzare. La memoria umana funziona diversamente. Dico la parola "Giovanni" e ricordo la sua faccia. Dico "peperoncino" ed evoco il suo sapore, il colore eccetera. Se c´è la parola, se c´è il concetto, sono possibili tutta una serie di associazioni. Alla memoria umana basta vedere la metà di un oggetto per riconoscere anche la parte nascosta».
E i fisici in che modo sono intervenuti?
«Creando dei modelli di comportamento dei neuroni, una sorta di sistema di memoria associativa che funzioni come la memoria di un vero essere vivente. L´idea è che, diversamente dalla memoria del calcolatore, nella memoria umana non c´è il singolo neurone responsabile di una singola informazione».
Un´informazione o un concetto si spalmano su una rete di neuroni.
«Esattamente. Come dicono i biologi non esiste un neurone specifico che sia responsabile del concetto di "nonna". Per cui, diversamente da quello che accadrebbe in un computer, se cancellassimo quel singolo neurone non perderemmo il concetto di "nonna". I biologi recentemente hanno avuto un bell´aiuto dai fisici».
Cosa la sorprende nella ricerca di uno scienziato?
«Quello che mi sorprende, e in genere non si valuta abbastanza, è il fatto che quanto uno scienziato cerca non è detto che sia ciò che alla fine trova. Le faccio un esempio. Sarebbe stato molto complicato far nascere in un sol colpo la meccanica quantistica, per la semplice ragione che dal momento che si distacca totalmente dal senso comune nessuno sarebbe stato in grado di immaginarla. Quando Planck gli ha dato un nome lo ha fatto perché ogni volta che si è trovato davanti a un problema che non poteva risolvere con la fisica classica, lo accantonava e a forza di accumulare casi anomali o inspiegabili con gli strumenti tradizionali, è riuscito a creare quell´insieme di "oggetti" che col tempo hanno dato vita alla teoria dei quanti».
Una teoria può essere bella, oltre che vera?
«La teoria di Einstein era più elegante di quella di Newton. Ma in fisica l´eleganza non è un fattore estetico, è connessa alla concisione, alla capacità di spiegare una classe più o meno ampia di fenomeni ricorrendo a ipotesi minime».
E l´etica: in che misura lo scienziato ne deve tener conto?
«C´è un´etica professionale: non affermare cose false sapendo che sono false. Poi c´è la responsabilità dello scienziato verso la società. Ma qui la questione si complica. Io ad esempio non ho mai lavorato né lavorerei a un progetto militare. Mi sono anche chiesto se avrei mai partecipato al progetto Manhattan. Se avessi saputo che i tedeschi erano lontanissimi dalla bomba atomica, certamente no. Ma se, come si pensava, fossero stati molto vicini, beh allora la scelta sarebbe stata molto più difficile».
Lei crede in Dio?
«Dio per me non è neanche un´ipotesi».
In un lontano incontro, Cabibbo disse che la fede è comunque un bel vantaggio.
«Non dubito, se uno crede. Ma uno non è che può credere per vivere meglio. Cabibbo è stato Presidente dell´Accademia Pontificia, ma non so quanto credesse».
Lui non prese il Nobel per le sue scoperte e fu dato ad altri che le avevano utilizzate. Fu un´ingiustizia?
«A guardare oggi la questione penso che il vero danneggiato fu il comitato del Nobel, perché le cose scoperte da Cabibbo restano, i comitati passano».
Dopo la medaglia Planck, si dice che lei sia in odore di Nobel.
«Mi pare un´esagerazione».
Le cambierebbe la vita?
«Spero proprio di no. Anche perché ci sono state persone completamente rovinate dal Nobel. Sono come dei santoni. Mi auguro di non fare quella fine».

l’Unità 31.12.10
Calci e sputi alla porta di casa: identificati i quattro responsabili. Nello spavento lui cade sulle scale
Alla radio commento agghiacciante del leghista Pinti: «Purtroppo non ha avuto danni permanenti»
Notte da incubo per Vendola molestato da militanti del Pdl
Schiamazzi e botte sul portone di casa Vendola vicino a Bari. Protagonisti 4 giovani Pdl. Il governatore cade e si infortuna a una gamba: «Per lo spavento sono caduto dalle scale, una notte da incubo...».
di Andrea Carugati


Schiamazzi, colpi insistenti e sputi contro il portone di casa. Ieri notte, intorno alle 3, un gruppetto di giovani simpatizzanti del Pdl ha deciso di molestare il governatore pugliese Nichi Vendola, proprio a casa sua, a Terlizzi, a 30 chilometri di Bari. Svegliato di soprassalto dai rumori, Vendola è scivolato per le scale e si è infortunato ad una gamba. La notizia l’ha data lo stesso presidente, che si è presentato ieri mattina visibilmente zoppicante alla conferenza stampa di fine anno alla sede della Regione Puglia. «Non ho avuto una buona nottata, perché giovani del Pdl hanno pensato di molestare il presidente della Regione, immaginando che una abitazione privata possa essere una sorta di protesi della lotta politica». Il dolore alla gamba resta forte («Appena finisco di parlare con voi», ha confidato ai cronisti), ma è soprattutto l’amarezza che segna la giornata di Vendola: «Ho scelto di andare a vivere nel centro storico del mio paese di fronte al mercato, e non in una villa residenziale separato dal popolo, e non mi faranno cambiare idea. Spero che questi giovani del Pdl imparino le regole della civile lotta politica...». «È stata una notte da incubo, per lo spavento sono caduto dalle scale. Ho pensato che fosse accaduto qualcosa a mia madre». Un pessimo risveglio: «Dal video citofono ho visto delle ombre, battevano i pugni contro il portone, sputavano, lanciavano volantini con scritte contro di me».
I QUATTRO: «SOLO UNA BRAVATA» I quattro, tra i 23 e i 27 anni, incensurati, sono stati identificati dai carabinieri, chiamati dal governatore. I militari li hanno trovati in auto nei pressi dell’abitazione. Hanno ammesso di aver bussato più volte al portone e di aver attaccato ai muri dei volantini di protesta e dei fiocchi rosa e azzurri, quelli per la nascita di nuovi bambini, ma listati a lutto. «Aveva promesso di riaprire il reparto di ginecologia dell’ospedale di Terlizzi e non lo ha fatto, per questo abbiamo protestato», hanno spiegato.
La procura di Trani ha aperto un’inchiesta, ma i giovani non risultano per ora indagati, visto che serve una querela da parte della vittima delle molestie. «Lo abbiamo svegliato involontariamente, è stato un gesto goliardico e pacifico», si giustificano. «Solo una bravata, Vendola sta mettendo in scena una montatura», protestano i responsabili dei Giovani Pdl della Puglia, ammettendo che i quattro appartengono al loro gruppo: «Abbiamo chiamato i ragazzo che ha citofonato al presidente, rimproverandolo, come un fratello maggiore fa nei confronti del fratello più piccolo quando questi commette una bravata», dicono Riccardo Memeo e Fabio Romito.
PAROLE CHOC A RADIO PADANIA
Da Radio Padania, invece, arriva un commento choc: «Purtroppo Vendola cadendo non ha avuto danni permanenti», si duole il giovane consigliere della Lega a Varese Marco Pinti. La replica di Vendola: «Immaginare la disgrazia fisica dei propri avversari è segno di una impressionante piccineria morale. Io auguro piena salute e lunga vita a tutti i miei avversari». Claudio Fava, coordinatore di Sel, punta il dito contro il ministro Maroni: «Invece di prendersela una volta con gli studenti italiani un'altra con i pastori sardi spedendo la celere in piazza, dica e faccia qualcosa di utile per quel dirigente leghista della sua città, esponente nazionale dei cosiddetti giovani padani, che ha straparlato irresponsabilmente sulla vicenda del raid di giovani Pdl sotto casa di Vendola».
Tra i primi ad esprimere «solidarietà e sdegno» il vicesegretario del Pd Enrico Letta. Messaggi anche da altri esponenti Pd, come Emanuele Fiano e Alberto Losacco. Condanna anche dal leader Prc Ferrero, dall’Udc Galletti e dal capogruppo dell’Idv Massimo Donadi, che denuncia «il silenzio della maggioranza di fronte a questo gesto». Dal Pdl arriva la solidarietà del presidente della Provincia di Bari Francesco Schittulli, mentre il capogruppo in Regione Rocco Palese invita a «non costruire teoremi». Gasparri accusa Vendola di «teatrale vittimismo».
Il governatore, durante la conferenza stampa, ha ribadito l’intenzione di correre alle primarie: «Contribuire a una svolta nel Paese è un modo di servire e amare la Puglia». Sul governo, ha usato parole di disgelo: «Spero che nel 2011 i rapporti possano essere più facili...».