sabato 17 marzo 2007

il Riformista 17.3.07
BIOLOGIA. UNA RISPOSTA A GILBERTO CORBELLINI SUL TEMA DELLA GENETICA E DEI GAY
Ma la sessualità umana è una dialettica tra identità diverse
Il professore attacca Livia Profeti accusandola di neutralizzare la scienza evolutiva per opporsi ai tentativi della Chiesa di fondare la «presunta normalità naturale» sulla realtà biologica. In realtà si auspica lo sviluppo di una ricerca sul pensiero umano senza demiurghi divini
DI PAOLO FIORI NASTRO


Conosco Gilberto Corbellini da molti anni; abbiamo insegnato insieme Storia della medicina all’Università “La Sapienza” ed ho potuto apprezzare in molte occasioni il suo rigore intellettuale. Anche di Livia Profeti sono amico da molti anni, e so che conosce approfonditamente gli argomenti di cui scrive. Ho letto il suo articolo sul Riformista del 10/03/07 in cui esprime un pensiero complesso che si dipana però in modo assolutamente lineare. Ho dovuto leggere molte volte la risposta dell’amico Corbellini del 14/03/07 perché non riuscivo a spiegarmi i toni, a dir poco “virulenti”, con i quali lo scritto della Profeti viene stigmatizzato.
Pur consapevole della complessità delle questioni toccate nei due articoli ho ritenuto di dover intervenire anche perché credo che l’approfondimento di questi temi sia di notevole utilità per la ricerca sulla realtà umana che la sinistra tutta avverte oggi come una priorità assoluta.
L’articolo di Corbellini è centrato sull’affermazione che l’omosessualità ha una base genetica anche se la frase «lasciamo da parte la questione se i geni dell’omosessualità danno una marcia in più» lascia veramente perplessi perché potrebbe essere espressione di un pensiero che da solo minerebbe alla base l’intero articolo. Accanto a questo egli accusa la Profeti di cadere nella trappola di neutralizzare la biologia per opporsi ai tentativi della Chiesa di fondare la «presunta normalità naturale» proprio sulla realtà biologica, mentre la biologia avrebbe il potere di disvelare tutte «le credenze superstiziose attraverso cui sono influenzate le persone più sprovvedute». In realtà la Profeti non liquida affatto la biologia, anzi auspica che si sviluppi a sinistra la ricerca su un pensiero umano «che si crea a partire dalla nostra biologia, senza necessari interventi di demiurghi divini».
Detto questo mi sembra evidente che la questione posta sul tavolo dalla Profeti, ma soprattutto dalla risposta di Corbellini, riguarda non tanto l’omosessualità quanto la sessualità e in particolare la sessualità umana.
Se è vero che la specie umana è «il prodotto della evoluzione» è anche evidente che ciò che definisce l’“umano” non è solo una variazione quantitativa di quanto si manifesta negli animali, ma anche e soprattutto una variazione qualitativa (penso al pensiero, al linguaggio verbale, alla capacità di creare immagini che è la base della creatività scientifica e di quella artistica). Un amico non perde occasione di sottolineare come nessun animale abbia mai inventato nemmeno un ombrello. Non c’è alcun dubbio che la nostra realtà fisica sia la realizzazione di quanto è inscritto nel nostro codice genetico ma non esistono dubbi che la qualità della vita che il nostro organismo riesce a realizzare dipende da molti altri fattori genericamente definiti “ambientali” con i quali dobbiamo stabilire rapporti.
La sessualità è sicuramente uno degli aspetti in cui la lontananza dagli animali è più evidente sempre che si dia a questa parola un contenuto che non sia circoscritto al solo ambito fisico. L’argomento è spinoso e le posizioni controverse: dice monsignor Bagnasco sulla Repubblica del 15/3/07 che «la famiglia è un patrimonio naturale (quindi la Profeti non aveva torto) e il matrimonio è il vincolo tra un uomo e una donna che generano la vita».
È evidente che la sessualità cui fa riferimento il capo della Cei, da poco insediato, è una sessualità molto simile a quella animale, finalizzata alla procreazione. Gli animali sono molto poco inclini a perdere tempo, devono pensare alla sopravvivenza propria e del branco e quindi utilizzano la sessualità (nel senso dell’atto meccanico e nulla più) per realizzare la sopravvivenza della specie. Gli esseri umani invece, non so se dire per fortuna o purtroppo, godono di una libertà che permette loro di realizzare rapporti ben più ricchi e complessi all’interno dei quali la sessualità è ormai completamente sganciata dagl’intenti procreativi. Quando alla parola sessualità si fa seguire l’aggettivo umano si fa riferimento a quella possibilità che solo gli esseri umani hanno di realizzare la conoscenza di qualcuno che ci assomiglia ma che è al contempo completamente diverso da noi. È questo il vero cimento con cui gli uomini e le donne sono obbligati a confrontarsi: la conoscenza del diverso. È poco accettabile che si scinda la parola sessualità dalla parola identità perché la sessualità umana è dialettica tra due identità in cui ciascuno realizza la fusione tra realtà mentale e realtà biologica. Da questa prospettiva è nel rapporto tra uomo e donna che si realizza la massima diversità.

Repubblica 17.3.07
COME PENSANO I MISTICI
Un convegno a Roma
di Massimo Ammaniti


Un saggio di Daniel Dennett ha suscitato molte polemiche
Un'entità trascendente aiuta ad affrontare interrogativi nuovi
Le forme religiose si sarebbero sviluppate con l'homo sapiens
Il Nobel Romain Rolland, Freud e il misticismo indiano
Ci sono tecniche molto sofisticate di studio dei processi cerebrali
Neurobiologi e altri scienziati si interrogano su quali attività cerebrali entrano in gioco quando si prega o si sta in meditazione

Rompere l´incantesimo. La religione come fenomeno naturale è il titolo del libro del filosofo americano Daniel Dennett che ha suscitato negli Stati Uniti polemiche e critiche virulente (uscirà in Italia ad aprile, edito da Raffaello Cortina). L´intendimento dichiarato di Dennett è quello di sfidare il tabù, ossia l´incantesimo in base al quale le religioni siano verità divine rivelate e che non possano essere oggetto di investigazione scientifica. Cercando di rispondere al suo interrogativo iniziale - «da dove nasce la nostra devozione per Dio?» - Dennett si inoltra in un sentiero scivoloso, già percorso da molti altri pensatori come ad esempio Sigmund Freud, che riteneva che i sistemi religiosi fossero «la nevrosi ossessiva universale dell´umanità», una risposta alla paura della morte che attanaglia gli esseri umani, soprattutto se la vita rappresenta soltanto il frutto del caso.
Un analogo tentativo è stato effettuato anche dal filosofo della scienza Richard Dawkins nel suo libro The God Delusion, (L´illusione di Dio), che è stato recensito qualche mese fa sul London Review of Books, non da un teocon ma da uno studioso del marxismo che rileva in modo comprensibilmente critico che «in un libro di circa 400 pagine l´autore quasi non riconosce che un solo beneficio possa essere scaturito dalla fede religiosa, un punto di vista che non solo costituisce un apriori improbabile ma anche empiricamente falso».
Per ritornare a Dennett non si tratta, dal suo punto di vista, di discutere le prove dell´esistenza di Dio quanto piuttosto di sottoporre le convinzioni religiose dei credenti all´indagine scientifica utilizzando discipline diverse dalla teoria dell´evoluzione, all´antropologia e all´archeologia. Le forme religiose si sarebbero sviluppate ed evolute con l´avvento dell´Homo Sapiens, ma addirittura col Neanderthal, probabilmente in relazione al linguaggio, ossia alla dimensione simbolica. Non evento soprannaturale, ma naturale ossia un fenomeno umano fatto di eventi, organismi, oggetti, strutture e forme che obbediscano alle leggi della biologia e della fisica.
Cercando di ricostruire lo sviluppo della comunità umane decine di migliaia di anni fa la mente andò incontro a trasformazioni complesse con l´acquisizione di sistemi cognitivi distinti, fra cui il riconoscimento delle intenzioni delle altre persone oppure un sistema per individuare le fonti di inganno, proprio per migliorare le capacità adattative e di previsione dei possibili pericoli. È a questo punto che in base ad un sistema mentale così complesso prenderebbe corpo l´esigenza di un´entità che trascenda la dimensione immediata della realtà ed aiuti ad affrontare interrogativi nuovi e conflitti difficili da risolvere.
Le credenze e le pratiche religiose servono a confortare nei momenti di dolore e ad attenuare la paura della morte, ma anche a darsi delle spiegazioni di fenomeni incomprensibili, ad esempio il tuono o il fulmine. Ma c´è un altro aspetto che nel tempo si è rivelato vincente, il senso di appartenenza ad una religione favorisce la cooperazione e la coesione sociale, pensiamo che cosa seppe fare il popolo ebraico fuggendo dall´Egitto, unito nella comune convinzione religiosa con la guida di Mosè.
Naturalmente, ed è lo stesso Dennett ad ammetterlo, si tratta di ipotesi e supposizioni che dovranno essere confermate, anche se sono troppe semplicistiche e riduttive nel tentativo di spiegare un evento complesso come la religione. Forse la teoria evoluzionistica, che ha avuto ed ha grandi meriti scientifici, rischia di diventare una nuova credenza se pretende di spiegare ogni fenomeno umano.
Forse è più interessante circoscrivere il campo e studiare le credenze religiose come ad esempio fece il padre della psicologia moderna William James più di un secolo fa nel suo libro Varie forme di esperienza religiosa riconoscendo all´esperienza mistica il fondamento di ogni religione. Ma oggi l´esplorazione delle credenze e del senso di religiosità si è ampliato allo studio dei processi cerebrali attraverso nuove tecniche di indagine molto sofisticate, come viene messo in luce nelle Giornate di Studio dedicate al «Mystic Brain» (Il cervello mistico) organizzate in questi giorni presso l´Università di Roma La Sapienza.
Queste ricerche sono iniziate alla fine degli anni ´90. Vanno ricordate ad esempio quelle dell´Università della Pennsylvania che hanno studiato il cervello di credenti buddisti mentre facevano degli esercizi di meditazione oppure di suore francescane che pregavano in modo contemplativo.
Nonostante la diversità dei gruppi e delle appartenenze religiose si è messo in luce che durante la preghiera o la meditazione si attivano i lobi prefrontali, ossia la parte più recente del cervello che interviene nei processi mentali superiori come l´intenzionalità, la decisionalità e la capacità di focalizzare l´attenzione. Se da una parte avviene una concentrazione meditativa o mistica tipica del credente, dall´altra si è rilevata una ridotta attività del lobo parietale posteriore che è invece è un´area associativa che serve all´orientamento nello spazio e alla percezione degli stimoli dell´ambiente circostante. Infatti nell´intensità dell´assorbimento religioso e nel senso di unicità si perde di vista quello che ci succede intorno in una sorta di movimento psichico trascendente.
Naturalmente esistono delle profonde variabilità del senso religioso individuale, che, in base a queste ricerche, dipendono anche dal sistema cerebrale della serotonina e da altri neuromodulatori che intervengono sui recettori cerebrali oppioidi contribuendo ad un senso di benessere e di pacificazione interiore. Forse è questo che lega molti credenti alle proprie pratiche religiose contribuendo ad un senso di pace interiore, che non viene garantito da nessuna altra attività.
Come scrisse il Premio Nobel Romain Rolland, scrittore, poeta e studioso del misticismo indiano, in una lettera a Freud proprio su questo tema: «Mi sarebbe piaciuto che lei avesse fatto un´analisi del stato d´animo religioso spontaneo o più esattamente del sentimento religioso, che è totalmente diverso dalle religioni e molto più durevole... Mi sento a mia volta familiare con questa sensazione. Attraverso tutta la mia vita non mi ha mai abbandonato, si tratta di una fonte di rinnovamento vitale».

Repubblica 17.3.07
L’Ordine dei medici: obiettore l’80% dei ginecologi. Flamigni: illegale non vendere farmaci prescritti
E negli ospedali scatta l’allarme "Già ora a rischio la legge 194"
di Maria Novella De Luca


ROMA - L´ultima denuncia è di pochi mesi fa: "Non ce la facciamo più, se continua così non potremo più garantire l´applicazione della legge 194". Firmato: i medici "non obiettori" di Roma e provincia. Perché il tema è delicato, e l´appello del Vaticano, affinché sanitari e farmacisti cattolici si astengano da quelle pratiche che in modo diretto o indiretto hanno a che fare con la tutela della vita, pone l´accento su una situazione drammatica. Già oggi in Italia circa l´80% dei ginecologi si dichiara obiettore di coscienza, si rifiuta cioè di praticare aborti negli ospedali, con punte che vanno dal 96,6% della Basilicata al 68,6% della Lombardia, costringendo le donne a peregrinare anche di regione in regione. Alcuni nosocomi infatti, soprattutto nelle province governate dal centrodestra hanno addirittura chiuso decine di reparti dove veniva eseguita l´interruzione volontaria di gravidanza.
Un atteggiamento che si sta estendendo al rifiuto di molti medici di somministrare la pillola del giorno dopo. Tanto che, soprattutto nei week end, per le donne, spesso giovanissime, inizia un calvario che le porta di ospedale in ospedale, fino a che un "non obiettore" consegna loro la ricetta. «Se il consultorio è aperto - spiega un medico del San Camillo di Roma - il farmaco viene prescritto dai medici del servizio, o dal medico generico. Ma se una donna ne ha bisogno durante il fine settimana, Pasqua o Natale, allora è molto più difficile, perché spesso i sanitari del pronto soccorso si rifiutano di prescriverla, creando così problemi seri, visto che il tempo massimo entro cui prendere la pillola è di 72 ore». Ad aggravare ulteriormente la situazione, lamenta il medico, «c´è stata da quest´anno l´introduzione del ticket, che ha fatto salire la spesa della pillola a 36 euro, cifra che per un´adolescente può risultare troppo alta».
Una prassi illegittima però, sottolinea Amedeo Bianco, presidente della Federazione degli Ordini dei Medici. «L´obiezione di coscienza nel nostro ordinamento è prevista solo per la procreazione assistita e l´aborto. Quanto invece alla contraccezione d´emergenza, cioè la pillola del giorno dopo, questa non si può ritenere dal punto di vista scientifico un aborto. Tanto è vero che non prevede le procedure indicate per l´interruzione di gravidanza dalla legge 194. E il medico, deve adoperarsi perché il paziente possa accedere in tempi appropriati al servizio richiesto, come ad esempio l´acquisto della pillola del giorno dopo».
Non può esserci quindi "omissione di cure" e l´appello del Vaticano ai farmacisti si inserisce su un terreno scivoloso. Dove la realtà è piena di ombre, come spiega il ginecologo Carlo Flamigni, membro del Comitato nazionale di Bioetica. «Questo dilagare dell´obiezione di coscienza, che costringe le donne ad affrontare rischiose liste d´attesa per poter effettuare una interruzione di gravidanza, è soltanto in pochissimi casi dettato da reali convincimenti etici o religiosi. La verità - dice Flamigni - è che fare gli aborti è considerato un lavoro minore, che non aiuta nella carriera, magari non è ben visto dai vertici sanitari, e così per assicurare alle donne un diritto, gli ospedali devono prendere medici esterni e personale precario. Sarò provocatorio ma vorrei che tutti questi obiettori fossero costretti ad utilizzare il tempo che si rifiutano di "concedere" alla legge 194, per fare promozione alla cultura della contraccezione. Rispetto all´invito fatto dal Vaticano ai farmacisti credo che questo violi tutte le regole: non è legale rifiutarsi di vendere un farmaco regolarmente prescritto, che sia un anticoncezionale o la pillola del giorno dopo. Il farmacista può finire in tribunale. Davvero non capisco questa nuova crociata della Chiesa, contro quelle che sono leggi dello Stato e diritti civili. Il Paese va da un´altra parte, la gente non li segue più, e questa guerriglia di religione non serve davvero a nessuno».

Corriere della Sera 17.3.07
L'Unione teme l'asse tra Chiesa e destra
di Massimo Franco


È probabile che non inciderà né sulla strategia di Benedetto XVI, né sulla «nota» che la Cei sta preparando sulle coppie di fatto. Ma politicamente, l'approccio morbido del cardinale Carlo Maria Martini ha rotto l'immagine monolitica della Chiesa; e offerto al centrosinistra un appiglio prestigioso al quale aggrapparsi per contestare la tesi di una collisione inevitabile con il Vaticano. Difendere il provvedimento sulle coppie di fatto, adesso, viene presentato come un atto che non può comportare mezze scomuniche. I commenti dell'Unione tradiscono il sollievo, anche se non è scontato che la legge passerà in Parlamento.
La novità è un'altra: per la prima volta, sui Dico la maggioranza si sente meno sola di fronte alle gerarchie. E usa il cardinale Martini come testimonial di un dialogo che il Vaticano di Benedetto XVI si ostinerebbe a rifiutare. Si nota un'inversione dei ruoli curiosa. Il disappunto del fronte berlusconiano contro l'ex arcivescovo di Milano, accusato di «cedere alla modernità», somiglia a quello che esprimeva nei giorni scorsi la maggioranza contro la rigidità dottrinale del Papa. Insomma, ogni schieramento usa le gerarchie per legittimare le proprie posizioni e screditare quelle avversarie.
Ma per l'Unione è un esercizio complicato dai segnali che continuano ad arrivare dalla Santa Sede. La «Pontificia accademia per la vita» che invoca l'obiezione di coscienza di medici e politici conferma le pressioni sui parlamentari chiamati a pronunciarsi sui Dico. Cresce l'impressione che la scelta sarà compiuta secondo logiche di schieramento che il sindaco di Roma, Walter Veltroni, vede come una vittoria dell'«integralismo» e del «laicismo esasperato».
Fausto Bertinotti teme una sconfitta del governo al Senato. Per questo, da presidente della Camera e dirigente del Prc, esalta la «laicità dello Stato e del legislatore» contro i «vincoli confessionali». Ma le tensioni col Vaticano ormai vanno oltre le unioni civili. Mimmo Lucà, dei Cristiano-sociali, evoca ed esorcizza «la saldatura tra integralismo cristiano e destra conservatrice». Nega la cittadinanza alla «Chiesa soggetto politico». Ed assegna al Partito democratico il compito di «evitare che quell'alleanza si saldi».
È un allarme indirizzato anche all'interno dell'Unione: ai settori che pensano di ridurre la «strategia vaticana» del centrosinistra all'anticlericalismo. Lo stesso Prodi cerca di abbozzare una risposta di compromesso. Invita a conciliare «l'ispirazione religiosa e la fedeltà ai propri convincimenti di fede» con «l'esercizio della responsabilità politica». Il premier sembra rivendicare la legge sui Dico quando spiega che occorrono «spirito aperto e disponibilità all'ascolto delle domande nuove che vengono dalla società». Ma è improbabile che si tratti di un'analisi accettata e condivisa oltre Tevere.
Il governo loda Martini ma resta l'ostacolo della legge sulle coppie di fatto

Repubblica 17.3.07
In Cina rivoluzione capitalista
La proprietà non è più furto
Il Parlamento vara la parità tra pubblico e privato
Un nuovo passo verso l'economia di mercato cancellando un altro pezzo dell'eredità storica di Mao
di Federico Rampini


PECHINO - La Cina fa un passo in più per essere una «normale» economia di mercato, cancellando un altro pezzo dell´eredità storica di Mao Zedong. Il Parlamento di Pechino ieri ha approvato l´attesa legge che sancisce la protezione della proprietà privata, e stabilisce il principio della parità di diritti fra proprietà privata e proprietà statale. Al tempo stesso è stata abolita l´ultradecennale agevolazione fiscale a favore delle imprese straniere, retaggio delle prime fasi del suo decollo industriale, quando la Repubblica popolare aveva bisogno di introdurre incentivi speciali per attirare capitali esteri e rafforzare la propria capacità di esportazione: ora l´aliquota fiscale è stata equiparata al 25% per tutte le imprese.
Il varo del nuovo testo sulla proprietà privata da parte del Congresso Nazionale del Popolo (così si chiama l´assemblea legislativa) può sembrare un caso di ritardo di adeguamento della legge alla realtà. Di fatto la proprietà privata esiste in Cina da oltre un quarto di secolo, cioè da quando il successore di Mao, Deng Xiaoping, iniziò nel 1979 la transizione verso l´economia di mercato. Secondo uno studio compiuto nel 2005 dalla Federazione cinese dell´industria e del commercio - un´equivalente della Confindustria - le imprese private contribuiscono per il 50% del Pil, e si arriva al 65% con l´aggiunta delle straniere. In certe regioni si stima che i privati versino fino all´80% del gettito fiscale delle amministrazioni locali. Per quanto i confini tra pubblico e privato siano meno trasparenti in Cina che nei paesi occidentali - molte società sono a capitale misto e si scopre che in ultima istanza l´azionista pubblico ha ancora un´influenza - tuttavia il capitalismo è ormai una realtà ben radicata in questo paese. Ma le normative non si erano ancora adeguate in misura sufficiente. Paradossalmente, per gli impegni legati alla sua adesione al Wto (l´organizzazione del commercio mondiale), la Cina si è dotata di una legge sulla tutela della proprietà intellettuale e del copyright, prima ancora di averne una sulla protezione della proprietà dei beni reali. Nel marzo 2004 il Congresso aveva sì introdotto nella Costituzione il principio che «la proprietà privata acquisita legalmente dai cittadini è inviolabile», ma nell´applicazione quotidiana del diritto la Costituzione è meno rilevante del codice civile. La nuova legge approvata ieri dal Congresso colma questa lacuna. Con la riforma di ieri migliora la certezza del diritto. E´ un fattore importante per favorire la crescita degli investimenti privati, in un paese dove la magistratura è ancora subordinata al potere politico e il rischio di arbitri ed abusi è sempre elevato.
Che la riforma di ieri non fosse scontata, lo dimostra la sua lunga e controversa gestazione. Ai vertici del partito l´idea originale di questa legge si affacciò già nel 1998 e a quell´epoca il Congresso costituì una commissione di nove esperti per scriverne il testo. L´anno scorso la legge era all´ordine del giorno della sessione del Congresso a marzo, ma l´opposizione uscì allo scoperto. Una petizione firmata da 200 esponenti del regime - studiosi autorevoli e dirigenti del partito in pensione - denunciò la riforma come un «tradimento della Costituzione socialista». Un noto esperto, il professor Gong Xiantian della facoltà di diritto di Pechino, ironizzò sulla «eguale protezione garantita alla limousine del miliardario e alla ciotola con cui il mendicante chiede l´elemosina». Era un´offensiva dell´ala ortodossa del partito comunista, ancora potente e capace di condizionare la leadership attuale del presidente Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. Tra gli argomenti usati dai conservatori, e molto popolari fra la gente, vi era il rischio che la riforma servisse a legalizzare ricchezze acquisite illegalmente dai dirigenti corrotti, attraverso l´appropriazione indebita di beni dello Stato. Gli argomenti usati dalla sinistra marxista sono pretestuosi: le leggi contro la corruzione esistono già e sulla carta sono assai severe (le sanzioni includono la pena di morte), la loro inefficacia deriva però dalla natura autoritaria del regime, dal monopolio di potere del partito unico, dalle protezioni di cui la nomenklatura corrotta gode nella magistratura e nella polizia. Alla fine le obiezioni dei veterocomunisti sono state superate e ieri il Congresso ha varato la legge sulla proprietà con una maggioranza tipicamente. cinese, del 99,1%. Ma le resistenze degli ideologi conservatori hanno sortito un risultato: ancora una volta dalla tutela della proprietà privata sono stati esclusi i terreni agricoli. Questo significa che le compravendite di terre rurali continueranno a essere soggette alla decisione delle autorità politiche locali. Questa differenza di trattamento giuridico mantiene i contadini in una posizione di inferiorità, alla mercé di dirigenti corrotti che espropriano le terre agricole per incassare tangenti da chi vi costruisce fabbriche o insediamenti residenziali. L´ideologia dell´ala sinistra del partito è servita quindi di copertura per rinviare la riforma della proprietà agricola, perpetuando così una fonte permanente di ingiustizie e soprusi.
A conferma del carattere controverso di questa legge, nel concludere la sessione legislativa del Congresso il premier Wen Jiabao ha evitato di menzionare la riforma della proprietà, e il testo preciso della nuova legge non è stato ancora divulgato.
Nelle conclusioni del primo ministro sono affiorate le stesse priorità enunciate un anno fa: sviluppo sostenibile, riequilibrio delle diseguaglianze sociali, maggiori investimenti nell´istruzione e nella sanità delle regioni più povere, lotta all´inquinamento. E´ il New Deal di tipo «socialdemocratico» con cui il nuovo gruppo dirigente legato a Hu Jintao cerca di correggere gli squilibri dello sviluppo economico e controllare i fermenti di conflitto sociale. Ma più la Cina diventa un´economia di mercato, meno il suo sviluppo obbedisce alle direttive del governo centrale. In quanto alla costruzione di uno Stato di diritto, i progressi saranno limitati finché il potere del partito unico resta il tabù che non si può mettere in discussione.

Corriere della Sera 17.3.05
Il leader della fronda marxista «Una truffa. Hanno vinto i ladri»
Il docente: «Un disastro, è stato scelto il capitalismo»
di Fabio Cavalera


PECHINO — Il professor Gong Xiantian ha da poco traslocato nella nuova sede dell'istituto di studi giuridici all'Università di Pechino. Pile di libri sono ancora accatastate attorno alla sua scrivania. Fanno bella mostra le opere complete di Marx e di Lenin, vecchie edizioni in lingua russa. Per due anni, questo docente quasi sessantenne ha tenuto alta la bandiera dell'opposizione alla legge sulla proprietà privata. Si è trascinato dietro un bel gruppo di accademici, ha riunito una parte del partito e per sette volte ha costretto l'Assemblea nazionale a rinviare il voto. È stato il promotore di un nuovo dissenso, un dissenso di sinistra. Le categorie della politica in Cina stanno cambiando. Identificare il professor Gong Xiantian con l'ortodossia conservatrice e con il purismo maoista, tanto meno con l'estremismo rivoluzionario, non ha senso ed è sbagliato. In verità, ciò che rappresenta lo studioso è un' area estranea alla vecchia nomenklatura. Una corrente di pensiero anticapitalista. Una «nuova sinistra» che si richiama ai principi dell'economia socialista con gli aggiustamenti indotti dai processi globali e suggeriti dalle aspirazioni consumiste del ceto medio urbano.
La Cina volta pagina. Riconoscere e disciplinare la proprietà privata significa — aldilà delle dichiarazioni formali dei dirigenti — abbandonare per sempre l'ideologia collettivista. Per lei, marxista, è una sconfitta.
«Indubbiamente è un cambiamento epocale. La legge sposta definitivamente gli equilibri: la Cina ha scelto il capitalismo».
Lei afferma che la legge sposta gli equilibri nella società, nell'economia, nel partito. Cosa intende?
«Occorre essere chiari. È una legge pessima costruita a tutela di quello che io chiamo il Triangolo di Ferro, il Triangolo padrone della economia cinese, il Triangolo del quale era esponente di rilievo il segretario di Shanghai. È l'alleanza che unisce i funzionari corrotti del partito, gli intellettuali ormai privi di coscienza e la borghesia prepotente ed egoista. È una legge pasticciata che causerà instabilità e che isolerà ancora di più il partito».
Perché una legge pasticciata?
«Da un lato equipara la proprietà collettiva e dello Stato alla proprietà privata: è una aberrazione teorica. Anche negli ordinamenti capitalisti si riconosce la superiorità dello Stato, nel senso che si riconosce l'inalienabilità di certi beni fondamentali. In linea di principio è lo Stato che deve proteggere la proprietà privata. Nel caso nostro invece lo Stato diventa l'oggetto da proteggere. Sarò un provocatore ma preferisco esprimermi con chiarezza: è una legge su misura per i ladri. Il Triangolo di Ferro sarà libero di fare il bello e il cattivo tempo. È l'affermazione definitiva di un blocco autoritario. E lo dimostra un particolare...».
Quale?
«La legge dice che la terra è un bene dello Stato e che lo Stato può cederne il diritto di utilizzo. Ebbene il diritto di utilizzo viene esercitato dal Consiglio di Stato, dal governo. Si espropria l'organo legislativo, l'Assemblea Nazionale. È molto sbagliato. Il via libera, per legge, all' arbitrio».
Lei resta convinto che la proprietà privata sia una sorta di delitto?
«Me ne guardo bene. Noi marxisti cinesi non siamo rimasti fermi a due secoli fa. Un cittadino ha il diritto di essere proprietario di una bella casa o di una macchina o di tutto ciò che serve nella vita quotidiana. In un ordinamento socialista sono i mezzi materiali della produzione che rimangono di proprietà pubblica. In Cina non sarà più così. I corrotti si approprieranno dei beni dello Stato».
La stragrande maggioranza dei delegati al Congresso del popolo ha approvato la legge.
«È una legge costruita apposta per non essere capita. Il Triangolo di Ferro, d'accordo con gli Stati Uniti, ha agito in modo furbo. Non sono solo io a dirlo. Siamo in tanti, dentro e fuori il partito a sostenere che questa legge contraddice il pensiero e la linea del grande Deng Xiaoping. È un tradimento che avrà conseguenze nefaste quando il popolo si accorgerà che ad avvantaggiarsene saranno i corrotti.
È l'alleanza tra i funzionari di partito corrotti, gli intellettuali privi di coscienza e la borghesia egoista».

Repubblica - Genova 17.3.07
Reich, l'inquieto pensatore: un libro per non dimenticarlo

Una celebrazioncina non si nega a nessuno negli anni tondi della morte o della nascita, anzi, sono sempre più le stesse annate succulente a essere festeggiate con fragore, specie dalla produzione editoriale di scuola giornalistico-televisiva. Nel diluvio ininterrotto di commemorazioni, ricorrenze, anniversari, solennità, rievocazioni, genetliaci e giubilei, ancora nessuno ha speso una parola per ricordare, a cinquant´anni della morte, Wilhelm Reich, uno dei pensatori più originali del secolo scorso, uno dei suoi spiriti più inquieti, curiosi, anticonformisti, genuinamente libertari, e forse l´unico a vantare uno score di persecuzioni completo da parte di tutti i totalitarismi del Novecento. In ordine cronologico gli capitò di essere perseguitato dai nazisti per gli studi che tendevano a trovare una sintesi tra le teorie (e le pratiche) freudiane e quelle marxiste (oltre che per le sue origine ebraiche, va da sé), di essere espulso con ignominia dalla comunità internazionale degli psicoanalisti per delitto di lesa maestà freudiana, di essere cacciato dal partito comunista austriaco e poi osteggiato e boicottato dalla sessuofobia stalinista per aver aperto consultori sessuologici per i ragazzi delle classi lavoratrici, infine di essere imprigionato e lasciato morire (appunto nel 1957) in un democratico carcere della democratica America in quanto devoto al culto del sesso e dell´anarchia. Tutti gli snodi fondamentali della biografia intellettuale, scientifica ed esistenziale di Reich furono scaldati e rischiarati da colossali falò delle sue opere. Farsi bruciare i propri scritti da nazisti, stalinisti e democratici è un privilegio capitato a pochi. Particolarmente prestigioso l´ultimo rogo, quello del 23 agosto 1956 a New York, quando funzionari della Food and Drug Administration svuotarono di pubblicazioni e documenti gli archivi dell´istituto di ricerca fondato da Reich, e con un grande camion li portarono nell´inceneritore di Gansevoort a Manhattan. Non fosse stato un importante ricercatore che ha lasciato un segno definitivo in tutte le discipline nelle quali si è applicato (la psicoanalisi, la sociologia e la biologia) varrebbe la pena di riservare a Reich un ricordo almeno per il suo record in fatto di falò culturali. In attesa del 3 novembre prossimo, quando verranno tolti i sigilli all´archivio e alla biblioteca personale e chissà, verranno svelati gli ultimi segreti di questo indefesso demolitore di dogmi, suggerisco, per una celebrazione privata, la lettura di un piccolo libro dell´ultimo Reich (il più censurato da tutte le ortodossie, al massimo sbeffeggiato) Ascolta, piccolo uomo (Sugarco, euro 8,80). Da parte mia leverò il calice per ricordare i 50 anni dalla sua morte ripetendomi il motto che usava anteporre ai suoi scritti: "L´amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita. Dovrebbero anche governarla".

venerdì 16 marzo 2007

Liberazione 10.3.07
Il paradosso dell’antipolitica di sinistra
Riflessioni (e dissenso) su alcune idee di Marco Revelli
di Rina Gagliardi

Quando il manifesto (allora partito politico in formazione) decise di presentarsi alle elezioni politiche del 1972, scoppiai in un pianto dirotto: mi pareva che tutto, la politica, la rivoluzione, fossero ormai finiti. Immaginavo una pattuglia di dieci, quindici deputati pronti a svendere tutti i miei ideali per un pugno di banali mediazioni. Avevo l’attenuante di avere meno di venticinque anni, di essere reduce fresca del ’68, e di ritenere in conseguenza che le istituzioni fossero una cosa di “lor Signori”, per loro natura un po’ sporche, lontane e molto corrompenti. Alla fine, come è noto, in quelle elezioni il manifesto non ottenne il quorum – e la “purezza” così preservata, con quei miseri 223.789 voti presi e nessun seggio, fu un brusco risveglio. Capii allora, credo, che la questione del rapporto tra politica e società era tanto più complessa delle mie lacrime infantili e che ogni assolutismo “di principio” risultava comunque fuorviante. “L’apparir del vero” di leopardiana memoria non era l’avvio del cretinismo parlamentare, ma, crudamente, l’assenza di consenso.
Questo brandello (un po’) autobiografico mi è tornato alla memoria nel fuoco del dibattito di queste settimane. Trentacinque anni dopo, è vero, tutto è diverso, quasi come in un altro paese e in un altro pianeta. Eppure, un filo sotterraneo c’è, a legare i giovani astensionisti degli anni ’70 a quei pezzi di sinistra radicale e di movimento che invocano oggi un gesto di rottura. Che identificano la salvezza (possibile, nient’affatto certa) in una sequenza di “No” da pronunciare in parlamento – oggi Afghanistan, domani chissà. E che concentrano la loro critica, la loro delusione, la loro polemica, sempre più veemente e organica, addosso ai partiti della sinistra radicale, segnatamente addosso a Rifondazione comunista. Ma non sono soltanto i contenuti e le singole scelte che pesano, assunte ciascuna come un Simbolo o una bandiera da sventolare – c’è qualcosa di più profondo, che investe l’idea stessa di politica. La politica tout court. La legittimità e l’utilità del “far politica”. Ieri, me lo ricordo bene, era soprattutto un umore extraistituzionale. Oggi, esso assume il volto dell’antipolitica. Un’antipolitica di sinistra, naturalmente, se questo ossimoro davvero si dà in natura.

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L’ultimo articolo di Marco Revelli (il manifesto del 6 marzo) sintetizza questi umori e queste tentazioni in termini quasi esemplari. Conosco (e stimo) da molti anni questo intellettuale rigoroso, coerente, capace di mettersi personalmente in gioco e, oltre ad altri meriti, immune dalle pratiche presenzialistico-mediatiche così care a molti “dissenzienti”. Mi pare però che nella sua ricerca, da tempo, stiano prevalendo pulsioni apocalittiche, oltre che un cupo pessimismo sulla possibilità, come si diceva una volta, di “cambiare il mondo”. L’antipolitica, perciò, diventa per Revelli l’approdo naturale del bilancio catastrofico di “Oltre il Novecento”, dove si dichiarava chiusa (e conclusa, dopo le tragedie del socialismo reale) la pensabilità stessa dell’anticapitalismo, di una lotta di trasformazione capace di proporsi il superamento del modo di produzione capitalistico. Oggi, la riflessione di Revelli muove da un bilancio radicalmente critico sia dell’operato del governo Prodi sia, conseguentemente, del “non operato” (o del cedimento) del Prc. La conclusione è che, perfino al di là delle contingenti vicende di governo, la vera novità di questa fase è che si è chiusa ogni possibilità di comunicazione tra sfera della politica e movimenti: esse sono ormai abissalmente distanti per natura ed orizzonti. L’ultima eredità del ‘900, la rappresentanza, si è insomma consumata.
E dunque? Dunque, non resta che la strada della estraneità, della autonomia del sociale – dell’esodo.

Revelli non si sofferma, più di tanto, sulle conseguenze da trarre da questa analisi (scrive, anzi premette di aver tirato anche lui un “sospiro di sollievo” di fronte alla ricomposizione della crisi) ma esse sono implicite: se la politica, qualsiasi politica in quanto tale, è fatta di mediazioni e compromessi, e se i movimenti sono portatori di valori “non negoziabili” e di obiettivi non mediabili - tutti e sempre “senza se e senza ma” - è evidente che tra le due dimensioni è calata una Grande Muraglia. Sulla Pace - per esempio - non si danno percorsi, possibilità di avanzamento, soluzioni parziali: o si dà, o non si dà. Ora, questa impostazione può apparire “radicale”, o “rivoluzionaria” o “antiriformista”: a me pare, piuttosto un’impostazione di tipo religioso. Un assolutismo forse laico nei suoi contenuti, ma non poi così diverso, nell’ispirazione, da quello che muove i teodem o i cattolici ruiniani - anch’essi, del resto, parlano della Famiglia e della Vita come valori “indisponibili”, non consegnabili alla politica. Un intransigentismo che non solo rischia l’indifferenza ai risultati, ai mutamenti, agli spostamenti di potere (un “lusso” che le larghe masse non si possono consentire), ma che mette in causa l’idea stessa di aggregazione e di efficacia dell’azione, anche nei movimenti. Alla fine, chi è il soggetto portatore di “valori non negoziabili” se non il singolo individuo? E come si può ragionare della soggettività dei movimenti o di analoghi soggetti della società civile espungendo da essi (come fa Revelli) la mediazione interna, le norme di funzionamento, i rapporti, la rappresentanza? Non è vero che soltanto la politica, o i partiti, o i grandi apparati sindacali, vivono di mediazioni: ogni azione collettiva, se tale vuole essere e come tale vuole operare, non può che trascendere gli assolutismi, gli individui, gli assolutismi individuali. Questo mi pare sia successo, precisamente, nella fase alta del movimento no global e dei forum mondiali - che non per caso, fino a Firenze, hanno dedicato ai temi della democrazia interna, della rappresentanza e delle “procedure” lunghissime ore di discussione e di confronto. Questo, purtroppo, non succede in questa fase, caratterizzata dalla frammentazione e dalla disunione: per cui quasi chiunque è legittimato ad alzarsi e parlare “nel nome” del movimento. Legittimato da chi? Dalla propria fede personale, dall’autorità di un condottiero o di un capo, dalla “rappresentazione” arbitraria di quella che si ritiene essere la “volontà generale” di un territorio o di una generazione o di un’area culturale? Curioso che un intellettuale sensibile come Marco Revelli non si accorga che oggi, proprio nel rapporto tra politica e movimenti si pongano questioni un po’ più complesse della “storica frattura” che egli denuncia.

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Anche la questione dei partiti si colloca nello stesso ambito tematico: che è poi, in senso ampio, la crisi della democrazia. Per Revelli i partiti sono luoghi morti, apparati burocratici (a cominciare dal Prc) dediti allo sport dell’“epurazione”, “divinità esigenti” e affamate di sacrifici umani. Che strana descrizione per entità che sono, invece, sostanzialmente deboli (altro che moloc), mentre l’individualismo (quello che trentacinque anni fa avrei definito come l’“individualismo borghese”) è in pieno trionfo, grazie anche alla spettacolarizzazione mediatica: una singola persona, purché collocata nel contesto giusto (istituzionale) e dotata delle relazioni giuste, “vale” , decide, determina molto di più del lavoro gratuito, della fatica e del dono offerti da migliaia di altre persone, che hanno il solo torto di essere “consenzienti”. Strano che questa assimmetria di potere, e dell’uso del potere, sfugga alla sensibilità democratica di Marco, che so essere molto alta. Curiosa la sua definizione di “mandato elettorale”, proprio come se non sapesse che di “mandato di coalizione”, per governare dentro un’alleanza zeppa di centristi e moderati, si trattava, dato lo (sciagurato) sistema bipolare e maggioritario vigente. Ma, per tornare al problema dei “dissenzienti” e della “coscienza” (altro concetto, se assolutizzato, più religioso che laico), eviterei di scomodare grandi principi e grandi teorie politiche. Per capire che cosa è successo, è la pratica musicale ad offrirci un’indicazione preziosa: prendiamo un coro, formato da cantori liberamente associati, che deve esibirsi in uno spettacolo importante. Esso discute a lungo che cosa cantare e, alla fine, non senza contestazioni interne, sceglie il coro del Nabucco verdiano, il classico “Va Pensiero”. Ecco, se durante l’esibizione, uno o due membri del coro si mettono ad intonare un’altra cosa - un bellissimo blues, tipo “The House of rising Sun” - il coro verdiano non riesce ad andare avanti. Non è solo cacofonia, è proprio che il coro si blocca. Ne consegue che il cantore di blues viene invitato ad andare a cantare altrove, viene, in sintesi, “allontanato”. Non è piacevole, per nessuno, anzi, è doloroso - quel coro aveva un’armonia d’insieme, un equilibrio di voci, un’agogia che adesso non ci sono più. Ma il diritto di quel coro a cantare il “Va Pensiero” valeva qualcosa o no?

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Naturalmente, la crisi della politica c’è - e come. Così come è evidente la crisi della rappresentanza - che il maggioritario contribuisce per altro ad acuire ma che non nasce dai sistemi elettorali, ma dalla fine dei partiti di massa, dalla disgregazione sociale, dalle tendenze a-democratiche e autoritarie dell’establishment, dal dominio della televisione, e da mille altri fattori che qui non possiamo analizzare. In questo senso, la rifondazione - radicale - della politica è uno dei compiti ineludibili di questa fase storica, e anche una delle ragioni principali che giustificano la presenza in una coalizione di governo della sinistra radicale. Invece l’antipolitica - la fuga dalla politica - mi pare assecondare, sia pure da sinistra, quel processo di “americanizzazione” della nostra società (del rapporto tra politica e società) già ampiamente in atto, che alle classi dirigenti viene in insperato soccorso: una sfera istituzionale del tutto separata non dalla società, ma dalle classi subalterne, nella quale la sinistra non può avere rappresentanza alcuna; una società dove miriadi di movimenti, o di associazioni, o di aggregazioni temporanee, sono capaci di promuovere conflitti, che la politica non la incontreranno mai. Una politica che consta di un solo partito, sia pure diviso in due formazioni storiche, e che, come tutti i poteri che contano, è gestita in proprio dai poteri forti - anzi, dai ricchi. Non è sempre stata questa, del resto, l’aspirazione recondita del capitalismo? Tutto ciò che a noi oggi può apparire scontato - come il suffragio universale, la democrazia rappresentativa, lo Stato sociale, la scuola pubblica - è il frutto di lotte epocali, non è mai stato gentilmente “concesso”, octroyee. La politica, il “far politica” non serve, più di tanto, alle classi dirigenti, che anzi la vivono come un impiccio, un ingombro, una concessione forzata alla modernità. I modelli ideali di Montezemolo e del cardinal Ruini (o del suo fresco successore) non prevedono la politica o la partecipazione politica, ma le obbedienze che la società dovrebbe riservare alla logica dell’azienda o ai dettami della Chiesa cattolica. Gli omosessuali di regime, come Franco Zeffirelli, non hanno bisogno dei Pacs o dei Dico. Alla fin fine, può darsi, sì, che la politica abbia toccato limiti così profondi da risultare “non riformabile” e che l’Apocalisse revelliana ne esca confermata. Vorrei sommessamente sapere chi, in questo caso, potrà dire di aver vinto.

Aprileonline.info 15.3.07
La Chiesa e i suoi valori non negoziabili
di Carlo Diana

Dibattito Sullo sfondo è chiara come il sole l'intolleranza, non verso la diversità ma nei confronti della sua dignità. Il diverso deve rimanere caduco nella sua dignità, essere ben distinto dalla normalità e da tutto ciò che la consacra

Si discute in questi giorni sulle posizioni della Chiesa cattolica e sugli eccessi di laicismo.
Il problema così posto a me pare sembra fuorviante. Non c'entra nulla il laicismo e neppure la sua esagerazione. Non della comparazione tra gli eccessi ci si dovrebbe occupare con urgenza, ed il diritto di espressione, di qualsiasi credo religioso, non è in discussione.

Il fatto che non si coglie sta nella pericolosissima strategia di radicalizzazione della Chiesa cattolica attorno a presunti valori non negoziabili. Sullo sfondo è chiara come il sole l'intolleranza, non verso la diversità ma nei confronti della sua dignità. Il diverso deve rimanere caduco nella sua dignità, essere ben distinto dalla normalità e da tutto ciò che la consacra. Lo si può sopportare, forse anche aiutare con pietà cristiana, come si fa per un malato, per uno sfortunato, per chi per natura, per scelta o per sorte sociale non si è adeguato, non è un uguale.

I gay o le coppie di fatto rappresentano il pericolo minore per questa Chiesa, di fronte al fantasma di tante etnie e religioni che ormai invadono l'Europa. E' lì il vero problema della Chiesa cattolica, tanto che le recenti posizioni sulla politica italiana fanno coppia con quelle espresse da autorevoli rappresentati cattolici della Unione Europea. Si torna all'attacco sulle radici cristiano-giudaiche del vecchio continente che la Chiesa vorrebbe fondamento etico-morale della costituzione europea, argine per ogni possibilità di apertura a nuovi diritti e perimetro asfittico di un mondo che non dovrebbe cambiare integrandosi. E' la posizione che radicalizza gli scontri dentro le società e fra popoli differenti. E' opzione tanto precisa quanto irresponsabile che pretende di piegare alle sue ragioni religiose la libera scelta di uomini e donne, di intere culture ed etnie.

Se a qualcuno pare di tornare indietro di un secolo, il mio ricordo va al 31 ottobre 1517, a Martin Lutero, alla Riforma protestante, ad una Chiesa cattolica ancora alle prese con roghi e streghe, costretta a confrontarsi con la modernità. Ecco, con questo pontificato sembra che tutta l'era contemporanea e moderna venga oscurata con un salto lungo a ritroso fin dentro il medioevo.

Qui in Italia c'è una specificità - ci distinguiamo in furberia e scaltrezza, è risaputo - invece che essere la Chiesa ad influenzare la politica, a me pare un disegno politico meschino d'una destra che tenta gli ultimi fendenti al corpo vacillante del Governo Prodi, ricompattato alla men peggio sulla politica estera. Si prova ora col colpo basso dell'etica, da parte di una destra che schiera in prima fila una sfilza di divorziati appena tollerati da Santa Romana Chiesa.

Repubblica Torino 16.3.07
l'intervento
Il docente: è importante imparare a non abbassare la voce
"Laici difendetevi meglio" Lezione del filosofo Viano
di Federica Cravero


È Carlo Augusto Viano il «Laico dell´anno 2006», un premio istituito per la prima volta dalla Consulta torinese per la laicità delle istituzioni e consegnato ieri al professore emerito di Storia della filosofia all´Università di Torino, che ha tenuto una lectio magistralis in Rettorato.
«Il laicismo contemporaneo – ha detto Viano – deve affrontare la sfida costituita dalle pretese delle religioni di rientrare nella sfera pubblica, per imporre le prescrizioni delle autorità religiose indipendentemente dalla volontà dei cittadini». Dunque un conto è manifestarsi in pubblico, atteggiamento lecito per qualunque religione, un altro è prendere decisioni pubbliche. Di lì alle intromissioni in tema di eutanasia, fecondazione assistita e Dico il passo è breve. «I laici non fanno abbastanza per difendersi, ma non è il ruolo degli intellettuali insegnare ai politici come fare. L´importante è non abbassare la voce e soprattutto non accontentarsi dei compromessi e avere risposte intelligenti e adeguate da controbattere. Magari le prese di posizione della Chiesa rafforzeranno le coscienze laiche, ma ne faremmo volentieri a meno», ha affermato il professore.
E sul dibattito tra Dico nazionali e il disegno di legge regionale sulle discriminazioni, Viano non si schiera a favore di nessuno dei due e con un sorriso dice: «Avrò letto una decina di testi di legge, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di compromessi. Io sono per soluzioni più liberali e d´altra parte le chiusure che sono state poste su questo tema non rispondono nemmeno alla sensibilità dei credenti. Si deve pensare a una società delle differenze: paradossalmente siamo più aperti alle diversità multiculturali che a quelle legate all´individuo».

Corriere della Sera 16.3.07
INEDITI Negli scritti giovanili il passaggio dalla teologia alla filosofia
Heidegger cattolico.
Un profilo sconosciuto del pensatore antimodernista e vicino alla Chiesa
di Armando Torno


IL PENSATORE
Martin Heidegger (1889-1976). Risale al 1927 il suo capolavoro «Essere e Tempo». Nel 1955 si ritirò nella Foresta Nera a Todtnauberg, dove morì.

Nel 1972 furono pubblicati per la prima volta gli scritti giovanili di Martin Heidegger che fecero conoscere a un vasto pubblico i testi da lui elaborati tra il 1909 e il 1919. Oltre alle opere più note di quel tempo — citiamo la dissertazione per la libera docenza a Friburgo La teoria delle categorie e del significato in Duns Scoto ( tradotta da Laterza) — non mancavano studi di logica, corsi e seminari su Kant, Aristotele, Fichte. È un periodo fecondo, che più tardi si arricchirà con ricerche sui mistici medievali, la fenomenologia religiosa, i rapporti tra Agostino e i neoplatonici.
L'opera fondamentale, Essere e tempo, è lontana (uscirà nel 1927), così come Hitler e le polemiche che investiranno il filosofo. Nel 1980, un articolo di Bernhard Casper apparso in «Freiburger Diözesan-Archiv», dava il via alle indagini biografiche sul giovane pensatore, spostando l'attenzione sul periodo che precedeva il dottorato. Victor Farias e Hugo Ott, poi, individuavano nuovi testi e nel 2000 li pubblicavano nel volume 16 delle Opere che stanno uscendo presso Klostermann di Francoforte (102 volumi previsti, dei quali sono disponibili in tedesco poco più della metà). Non staremo a indicarvi altre vicissitudini, diremo soltanto che Alfred Denker ha da poco scoperto alcuni scritti di Heidegger rimasti finora sconosciuti. Sono due brevi saggi, due recensioni, una dichiarazione firmata da alcuni studenti (tra i quali c'è, appunto, Martin), dei resoconti di conferenze e soprattutto cinque articoli con i quali il futuro autore di Essere e tempo polemizza — scrivendo sul foglio cattolico locale «Heuberger Volksblatt» — contro la rivista liberale edita a Messkirch «Oberbadischer Grenzbote», vero e proprio covo modernista. Saranno esaminati in un saggio di Alberto Anelli («Heidegger e il modernismo») e pubblicati in italiano per la prima volta, con una serie di considerazioni sui nuovi ritrovamenti, sul bimestrale «Humanitas», che nel prossimo numero (in uscita a fine mese) ospita appunto una sezione sul modernismo in Europa, coordinata da Maurilio Guasco. «Humanitas» è pubblicata dalla Morcelliana di Brescia e diretta da Ilario Bertoletti.
Che valore hanno tali polemiche giovanili della primavera 1911, quando Heidegger aveva 22 anni? Basta dare un'occhiata ai cinque articoli per rendersi conto che qui c'è la traccia di una svolta epocale che si era dimenticata: in essi è possibile indicare il suo passaggio dalla teologia alla filosofia. Vicino ai valori tradizionali del cattolicesimo, ai gesuiti, contrario ai venti modernisti che in quegli anni spiravano nella Chiesa, apologeta del papato: ecco sommariamente il giovane Martin. Ma c'è altro. Egli trova i mezzi per argomentare contro l'epistemologia che si fa largo nella teologia del primo '900, contro le contaminazioni tra piano logico e psichico.
Nella prima risposta «al filosofo del Grenzbote» (7 aprile 1911), che resta anonimo, Heidegger nota che come lo Stato punisce ciò che minaccia la sua esistenza e il buon costume, allo stesso modo la «Chiesa ha il diritto e il dovere di tutelare i credenti, mettendo in guardia dai pericoli che minacciano fede e morale; può perciò chiedere che i più alti beni dell'uomo possano non venire umiliati, derisi ed esposti al ridicolo da chiunque, in discorsi e scritti, liberamente e senza ostacolo». Tra l'altro, rimanda a un testo del reverendo Heiner, uscito in terza edizione a Mainz nel 1905, dove si difende il Sillabo di Pio IX. Roba da causare, già in quell'epoca, l'orticaria ai liberali (o a coloro che tali si credevano e credono). È ancora Heidegger in questa prima polemica a ricordare all'avversario di conoscere poco e male la logica: «Una cosa è il concetto di tolleranza dogmatica, un'altra quello di tolleranza borghese e un'altra ancora quello di tolleranza statale. In linea di principio, la Chiesa, come custode della verità, deve respingere l'idea secondo cui tutte le religioni sarebbero vere allo stesso modo; infatti c'è solo una verità ». Di più: la frase «extra ecclesiam nulla salus» (al di fuori della Chiesa non c'è salvezza), Heidegger sottolinea che «non è enunciazione di fatto, ma un principio. Resta quindi sempre la possibilità di partecipare alla grazia della redenzione per chi si trovi nell'errore senza colpa».
Nel secondo scritto polemico (10 aprile), tra l'altro, Heidegger confuta l'idea che le ricerche dei gesuiti siano viziate dalla «non libertà di pensiero», invita l'avversario a leggere bene Kant e nota che con il suo procedere logico «non si dimostra assolutamente nulla». Peccato che il 19 aprile la replica non sia di Martin, giacché l'articolo ricorda l'impossibilità di dimostrare la derivazione dell'uomo dalla scimmia; comunque il terzo colpo è del 17 maggio di quel 1911. In esso sottolinea: «Aspetto a tutt'oggi ancora una risposta alle questioni che ho posto», facendo intendere che tutte le repliche sono di modesto parere, o meglio da «scrittori di mezza tacca». La quarta — 22 maggio — si acutizza sui concetti di conoscenza e dimostrazione; la quinta — il 31 — offre un affondo finale contro il modernismo in senso lato: «È un'affermazione insostenibile quella che identifica l'essenza della dimostrazione con l'esperimento. Dimostrare è una funzione del pensiero che si serve del comprendere,
del giudicare e del concludere ».
Dunque: in questi frammenti c'è un giovane che sta passando alla filosofia. Il suo nome, nel volgere di qualche anno, diventerà centrale per il pensiero. Ancora oggi lo si maledice o lo si ringrazia, ma i conti con lui occorre farli. E tutto è iniziato tirando fendenti ai modernisti.

Autore e Tesi
Martin Heidegger nasce a Messkirch, nel Baden, in Germania nel 1889.
Si laurea in filosofia a Friburgo nel 1913.
Nel 1923 ottiene una cattedra a Marburgo, dove insegna fino al 1927, anno in cui pubblica «Essere e Tempo». Nel 1955 si ritira a Todtnauberg, dove vive fino alla morte nel 1976.
Il «Modernismo» fu un movimento di pensiero cattolico di fine '800 che cercava una conciliazione tra filosofia moderna e teologia. Fu condannato nella enciclica Pascendi Dominici Gregis di papa Pio X del 1907

Corriere della Sera 16.3.07
IL BRANO

Quando la scienza devia dalla Fede non dice la verità
di Martin Heidegger

Pubblichiamo parte dell'articolo del 7 aprile 1911 apparso su «Heuberger Volksblatt» e recentemente ritrovato, nel quale il giovane Martin Heidegger ribatte le tesi moderniste, citando tra l'altro anche testi di Pio IX, uscite su «Oberbadischer Grenzbote».
C hiedo: che cosa ha l'autore da obiettare contro la «decisione normativa e infallibile» del Concilio Vaticano I, che respinge l'idea secondo cui vi potrebbe essere un conflitto tra un risultato della ricerca scientifica e il dogma? Se è scientificamente dimostrato che la Chiesa cattolica è un'istituzione divina che ha l'incarico di conservare intatta la dottrina della fede, cioè l'eterna verità divina, e di annunciarla, allora è chiaro a tutti che un presunto risultato della ricerca scientifica che stia in contraddizione con la dottrina della fede, la verità eterna, non può essere vero.... Se l'autore volesse muovere un'obiezione valida alla citata decisione del Concilio, allora dovrebbe dimostrare che l'esistenza di Dio non può essere dimostrata, che non è possibile una rivelazione e che non può essere storica, che Cristo era semplicemente un uomo e che quindi la Chiesa è una società esclusivamente umana.
Tutte le altre riflessioni non valgono, perché non colgono il punto in questione.
Per di più la Chiesa non prescrive a chi fa ricerca nulla in positivo, cioè a quale risultato debba giungere; essa dà piuttosto solo una norma in negativo. Se l'autore ritiene che gli studiosi cattolici dovrebbero sottomettersi alle decisioni delle congregazioni
(che per espressa dottrina della Chiesa
non sono infallibili) proprio come si fa con una decisione infallibile di un Concilio,
allora potrebbe essere in errore. Le decisioni delle congregazioni non sono fide divina et catholica, cioè non vi si deve credere come se fossero verità rivelate e proposte dal magistero ecclesiastico, tanto meno sono opinioni teologiche...
Non posso e non devo assolutamente biasimare l'autore per il fatto che queste più precise distinzioni teologiche non gli siano famigliari (dottrina teologica e dottrina
dogmatica sono due cose assolutamente diverse). Del resto la Chiesa potrà chiedere ai suoi membri di prestar ossequio alle decisioni di una congregazione che nel corso dei secoli ha sbagliato una sola volta (il caso Galilei). In che senso questa sottomissione deve comportare la «morte della scienza»?
Suona molto ingenua la domanda dell'autore: «Ma se gli scienziati lo scoprissero (cioè che l'uomo deriva dall'animale)? Che succederebbe?».
Come si possa rispondere a questa domanda, lo potrebbe dire all'autore il professor Wilhelm Branca, direttore dell'istituto geologico-paleontologico dell'università di Berlino. Branca, di cui l'autore certo riconoscerà l'autorevolezza, scrive così nel suo libro Der Stand unserer Kenntnisse von fossilen Menschen ( Lo stato delle nostre conoscenze degli uomini fossili, Lipsia 1910; n.d.r.): «Chi dia uno sguardo complessivo a questa insufficienza dei famosi resti fossili finora rinvenuti di esseri antropomorfi, capirà senz'altro, perfino da profano, che è fuori discussione il fatto che essi ci forniscano la dimostrazione di una catena genealogica continua dell'uomo».
Quindi possiamo aspettare con calma la prova.
il manifesto 16.3.07
Grazie, Europa
Heidegger è esistito.
di Rodrigo Garcia

Al contrario, tutte le notizie sui nostri Dei, fanno ridere.
C'è solo letteratura e poi successivamente buona pittura pagata dalla chiesa e la musica di Bach. Un'altra volta mi succede lo stesso in questa Italia cattolica appestata di profumo: mi proibiscono di fare la mia performance ACCIDENS.
Perché c'è un astice vivo in scena.
Perché assistiamo all'agonia, ma in un contesto differente dalla pescheria. Perché un attore, alla fine di 30 minuti di un'opera completa, lo taglia e lo cucina come in tanti ristoranti e lo mangia.
Lo proibiscono i giudici con scarpe di pelle, giudici con borse di pelle, poliziotti con camicie cucite dai bambini dell'Asia e la gente della politica che permette che la televisione sia uno schifo e che nelle strade pubbliche proprio in questo momento un prodotto venga pubblicizzato con un bebè di sei mesi che pensa o sogna di comprare non so cosa.
Di fronte a tanta ipocrisia e violenza ancora esistono edifici chiamati teatri che si offrono alla città come spazi o selve di resistenza poetica in assoluta utopia. Ci sono zone - e persone che popolano queste zone - che fanno tesoro della speranza di condividere giorni e chilometri di libertà. Non si tratta di una finzione della libertà: il fatto teatrale esiste e ogni proposta è una realtà. Parlo di pesanti bombe casalinghe che consegniamo in mano a ciascun individuo del pubblico; alcune scoppiano, altre no, e ciò dipende da ciascun individuo, se decidi di togliere la sicura della bomba e tremi e vivi e osservi come bisogna fare, come il primo uomo e non come una fotocopia umana.
La scorsa notte c'era la polizia nel Teatro i di Milano, dentro. Il pubblico, è rimasto fuori.
Che diavolo ci fa la polizia in un teatro?
Che ci fa il pubblico fuori da un teatro?
Perché il neonato di sei mesi sogna già di comprare un prodotto e la sua foto è su una strada pubblica come pornografia di cattivo gusto e noi dobbiamo cancellare un'azione poetica?
Che c'è dopo di questo? A te, ti parlo adesso?
Cosa c'è dopo tutto questo? Sto parlando con te adesso. Con te. Ti faccio una domanda semplice, a te: cosa c'è dopo tutto questo?
Il silenzio di ciascuna donna e di ciascun uomo d'Europa è la frequenza brutale, che fa sì che i miei timpani scoppino.


Repubblica 16.3.07
La mandibola rinvenuta in Marocco. "Era di un bambino. Viveva con i genitori e cresceva con ritmi uguali a quelli dei suoi coetanei di oggi"
Homo Sapiens, l'alba della famiglia
Gli studiosi: simile alla nostra. La scoperta grazie a un dente di 160mila anni fa
di Cinzia Dal Maso


In uno scimpanzé il primo molare compare a 4 anni, il Sapiens lo ha avuto a sei
Dopo questa scoperta i confini tra noi e i nostri antenati si fanno sempre più labili

ROMA - L´uomo è un inguaribile "mammone". E lo è da sempre. Almeno da 160.000 anni, come dimostra ora una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.
Già allora, quasi agli albori della comparsa di Homo Sapiens sulla terra, c´erano a Jebel Irhoud, in Marocco, bambini che avevano tempi di crescita molto simili ai nostri oggi. Non diventavano adulti in fretta come gli scimpanzè e come gli ominidi che ci hanno preceduto. Neppure abbandonavano presto la madre per vivere autonomamente. Venivano invece curati e nutriti, e il loro cervello aveva il tempo necessario per apprendere di più e formarsi in modo molto elaborato. E sappiamo che per fare tutto ciò serviva un´organizzazione sia familiare che sociale abbastanza complessa e sofisticata. Non abbiamo mai saputo quando esattamente l´uomo ha sviluppato tale caratteristica, ma credevamo in tempi molto recenti, più o meno gli ultimi 40-30.000 anni. Invece è una caratteristica antichissima. Già i primi Sapiens non avevano solo forme simili alle nostre, ma anche lo sviluppo corporeo e una - seppur primitiva - vita sociale. Insomma, in qualche modo erano già "moderni".
Lo prova l´analisi dettagliatissima di alcuni denti dalla mandibola di un giovane Sapiens marocchino. Con tecnologie avanzate di microtomografia con luce di sincrotrone (sviluppate all´European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble), è stato possibile ricostruire virtualmente i denti per poi analizzarne in dettaglio la morfologia. In particolare sono stati individuati i tempi di crescita, che lasciano il proprio marchio su smalto e dentina proprio come fanno gli anelli sui tronchi degli alberi.
«La risposta è stata davvero sorprendente e inaspettata», dice Tanya Smith del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia e coautrice della ricerca. «Il piccolo Sapiens marocchino, che alla morte aveva circa otto anni, aveva uno sviluppo dentario molto simile ai suoi coetanei di oggi. Il suo primo molare è apparso attorno ai sei anni di età (mentre negli scimpanzè il primo molare appare a quattro anni), e a otto anni la formazione del dente era pressoché completa. E si sa che i tempi di crescita dei denti sono specchi assolutamente fedeli della crescita complessiva degli individui e in particolare dello sviluppo del cervello umano».
Tempi di crescita lenti che, strano a dirsi, condividiamo con i nostri "cugini" Neandertal. Lo sappiamo dal novembre scorso, quando un team di ricercatori franco-anglo-italiano ha pubblicato sulla rivista scientifica Nature lo studio dei molari di un neandertaliano di 130.000 anni fa trovati a La Chaise-de-Vouthon, in Francia. Sempre grazie alle nuovissime tecnologie del laboratorio di Grenoble, per primi sono riusciti a "entrare dentro i denti". E a dimostrare che, al pari del più antico Sapiens marocchino, anche il Neandertal francese cresceva più o meno come noi.
Dopotutto, noi condividiamo coi neandertaliani il 99,5 per cento del patrimonio genetico, come ci è stato rivelato solo pochi mesi fa. E così i confini tra noi e i nostri antenati nella scala evolutiva si fanno sempre meno rigidi.
«Ma questo è solo l´inizio promettente di una nuova stagione di studi che ci permetterà di scoprire molti lati oscuri sull´evoluzione dell´uomo», afferma Luca Bondioli del Museo Pigorini di Roma, coautore dello studio sul Neandertal. «I denti sono una fonte di informazioni importantissima sulla vita degli individui. Ci possono svelare origine, sviluppo, alimentazione, abitudini di vita. Finora però l´unico modo per ottenere queste informazioni era sezionare un dente e dunque distruggerlo. E non abbiamo mai voluto distruggere denti così antichi e preziosi. Ora questa nuova tecnologia non distruttiva ci aiuterà a sciogliere molti grandi dubbi sui nostri antenati».

Repubblica 16.3.07
Le sfide di Orson Welles
Escono in America due saggi che interpretano il regista in modo opposto


Ma è probabile anche che il suo disordine fosse parte integrante di una personalità ingestibile
Era un artista prodigioso e forse non si è mai realizzato in maniera adeguata ai suoi mezzi
Si impegnò anche in politica per i democratici e in particolare per la rielezione di Roosevelt
Tra gli aspetti meno noti messi in luce c´è l´influenza dell´educazione cattolica
A ventitre anni aveva già conquistato la copertina di "Time" e molti consensi

NEW YORK. Che sia stato un genio del cinema, sono in pochi a metterlo in dubbio. E sono ancora meno coloro che non individuano nell´eclettismo che lo ha portato a cimentarsi con eguale successo sui palcoscenici teatrali e persino alla radio, un dato che ne ingrandisce la personalità più grande della vita. E´ stato un uomo volubile fino all´arroganza e geniale sino alla dissipatezza. Infantile come un bambino e saggio come chi conosce la fine inevitabile di ogni cosa. Quando ha vestito i panni di attore ha alternato la grandezza alla gigioneria, dissimulando a volte le motivazioni puramente alimentari delle sue interpretazioni, salvo poi smentirle con guizzi di recitazione straordinaria, nei quali risaltava la totale immedesimazione con il personaggio che si trovava ad immortalare. Ancora oggi, Citizen Kane è considerato da molti il film più importante mai realizzato, e basta chiedere ad un qualunque cinephile per sentirsi dire che L´orgoglio degli Amberson sarebbe stato ancora più bello, se solo ne avesso potuto controllare il montaggio. Per non parlare di Touch of Evil, che uscì in Italia con il goffo titolo L´infernale Quinlan, La Signora di Shanghai, nel quale attentò crudelmente all´immagine di sex symbol della moglie Rita Hayworth, o l´Otello, girato tra mille peripezie e continue interruzioni. Ma non esiste critico o semplice appassionato di cinema che non consideri questi film, meravigliosi a dispetto dei continui rimaneggiamenti, una dimostrazione di quello che Orson Welles avrebbe potuto realizzare, e che invece è riuscito a dimostrare solo in parte.
Due libri usciti contemporaneamente negli Stati Uniti (Orson Welles. Hello Americans di Simon Callow, Viking, pagg. 507, dollari 32.95; e What ever happened to Orson Welles? di Joseph McBride, University Press of Kentucky, pagg. 344, dollari 29.95), ed un lungo saggio sul New York Review of Books a firma di Sanford Schwartz, riflettono sulla personalità e sull´opera di Welles partendo da posizioni opposte, e si interrogano se sia stato un artista incredibilmente dotato che non è mai stato messo nelle condizioni di sfruttare a pieno il suo prodigioso talento, o invece una personalità controversa e ingestibile sia sul piano artistico che su quello privato, condannato ad esprimersi in questa maniera ed ottenere risultati segnati dai continui conflitti con i suoi interlocutori, e prima ancora, con se stesso. Schwartz sottolinea come dopo Citizen Kane (anche in quel caso il titolo italiano Quarto Potere tradiva l´originale, che ribadiva la volontà di ritrarre a tutto tondo un «cittadino» americano) non ci sia stato film hollywoodiano di Welles che non sia stato drasticamente rimontato dai produttori, ma avvalora la tesi di McBride, che contrasta chi considera quel capolavoro come l´unico film del quale si possa attribuire interamente la paternità al regista, e ancor di più chi pensa che Welles non abbia mai più realizzato del film di analogo livello. A detta dei due saggisti, tutti i film citati in precedenza, ma anche Mr.Arkadin, Il Processo e quel formidabile «mockumentary» che era F for Fake rivelano una personalità artistica che manifesta la propria grandezza proprio nello sfidare le convenzioni. Nella consapevolezza, da parte dell´autore, che il linguaggio delle immagini porti con sé un´implicita fragilità e, soprattutto, una cupa fallacia. Caratteristiche che hanno trovato ripetutamente un gioco di specchi nei temi e nelle storie raccontate lungo tutta la carriera, e trovano un ritratto autoironico proprio in F For Fake, nel quale Welles, che era prestigiatore di grandissima abilità, definisce un mago come «un attore che recita la parte di un mago».
E´ evidente che un senso così forte di fallacia poteva provarlo solo un artista che a ventitré anni aveva già conquistato la copertina di Time ed un lungo servizio celebratorio sul New Yorker in scena un Macbeth con un cast interamente di colore e quindi un Giulio Cesare con espliciti riferimenti al fascismo. Un elemento interessante trattato in questi nuovi testi è il rapporto tra Welles con il surrealismo e con il pensiero di Freud, ma probabilmente il dato più innovativo è l´analisi dell´influenza dell´educazione cattolica ricevuta in gioventù rispetto all´elaborazione drammaturgica dei suoi protagonisti, in particolare per quanto riguarda le scelte etiche dei personaggi ed il rapporto che essi hanno con il senso del peccato. Non meno stimolante il parallelo con l´opera pittorica di Giorgio De Chirico. Schwartz, che individua il momento più suggestivo di questa affinità nell´uso degli spazi vuoti e dei giochi d´ombra dell´Otello, sottolinea come per entrambi gli artisti sia stata sempre centrale l´ineluttabile presenza della nostalgia, che per De Chirico diventa metafisica e a tratti trascendentale, mentre per Welles diviene il preludio per un´amara sconfitta terrena. Il dibattito diviene più interessante se si prendono in considerazione i più importanti libri scritti in precedenza sul regista, a cominciare da Rosebud di David Thompson, sino a This is Orson Welles di Peter Bogdanovich, che, con il loro tono celebratorio, finiscono per accentuare il senso di frustrazione di fronte al ritratto di un uomo che, per usare le sue stesse parole, ha «raggiunto la cima troppo in fretta, e poi ha potuto solo scendere». Sia Callow, il cui libro è una continuazione ideale del precedente Road to Xanadu, che McBride, minimizzano gli aspetti aneddotici, cercando semmai di comprendere le motivazioni più intime di scelte che lo hanno portato a conoscere ripetutamente il fallimento.
Non è una novità scoprire che i tre matrimoni (con Virginia Nicholson, Rita Hayworth e Paola Mori) segnati da continui tradimenti, ma è interessante il racconto di come anche queste relazioni, nelle quali all´inizio credette sinceramente, gli facessero sentire l´impossibilità di un appagamento. Non meno interessante sono i capitoli dedicati alla politica, che vedono Welles impegnarsi attivamente per il partito Democratico, ed in particolare per la rielezione nel 1944 di Franklyn Delano Roosevalt. In quegli anni cominciò a scrivere una rubrica per il New York Post, dove parlò raramente di cinema, ed affrontò invece temi squisitamente politici, denunciando ripetutamente l´abominio del razzismo. Sono gli stessi anni in cui fu seriamente tentato di candidarsi per un saggio senatoriale nel Wisconsin, prima di rinunciare per non ripetere nella realtà quello che aveva raccontato sullo schermo con il cittadino Kane. Analizzando il suo film più celebre (ma anche Falstaff), Callow suggerisce che l´approccio artistico così attento ai movimenti di macchina da presa, e al ruolo etico, prima che estetico, di un personaggio all´interno di un luogo, fa di Welles un artista che va ben oltre il semplice cineasta: il suo occhio è quello di un fotografo e di un coreografo, ma il senso dello spazio e dell´evoluzione narrativa evidenzia il talento dell´architetto e del romanziere. Nel tentativo di raffigurare i limiti e le potenzialità di una carriera autenticamente indipendente, i due autori finiscono per parlare relativamente poco della realizzazione di Citizen Kane e degli infiniti conflitti con William Randolph Hearst.
Anche in questo caso l´aneddotica è ridotta al minimo (per chi è interessato è consigliabile la prefazione di Gore Vidal al libro It´s all true nel quale arriva a dire che Rosebud era il soprannome con cui Hearst aveva soprannominato le parti intime di Marion Davies), ed entrambi i saggisti si schierano con Bogdanovich nel contrastare la lettura di Pauline Kael, la quale in Raising Kane tentava di ridimensionare l´apporto creativo di Welles a favore dello sceneggiatore Herman Manckiewicz. Anche quel personaggio, che Welles rese immortale a soli venticinque anni, non è altro che un profetico autoritratto, e sin dal momento del debutto pochi autori si sono identificati in maniera più ironica e tormentata con i propri protagonisti titanici e disperati, al punto che nel finale di Touch of evil, realizzato quasi trenta anni prima delle sua morte, la battuta pronunciata da Marlene Dietrich non è rivolta solo all´infernale Hank Quinlan, ma all´uomo che lo interpreta. «Leggimi il futuro» dice Quinlan, e lei risponde, senza battere ciglio: «non ne hai, lo hai consumato tutto».

il manifesto 16.3.07
L'incommensurabile prigione della verità rivelata
«La dischiusura» del filosofo francese Jean-Luc Nancy. Un impegnato testo che si pone l'obiettivo di scioglere l'abbraccio mortale tra filosofia e religione a favore di un severo e sobrio esercizio del pensiero
di Roberto Ciccarelli


L'ossessiva campagna denigratoria contro le libertà individuali e la politica delle relazioni allestita dai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica è basata su un assunto: oggi, non è possibile non dirsi cristiani. La perentorietà di tale affermazione produce un irrigidimento delle posizioni che produce reazioni altrettanto violente, e giustificate, ma spesso non consentono di capire se il cristianesimo rappresenti realmente una necessità per il nostro tempo. A questo proposito, quanto mai opportuna giunge la traduzione in italiano di uno degli ultimi volumi di Jean-Luc Nancy che ha un titolo apparentemente provocatorio: La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I (Cronopio, pp. 223, euro 20).
La dischiusura non è tuttavia un libro scritto da un Voltaire avvelenato da astio anti-clericale. La «decostruzione» annunciata nel titolo è ispirata alla grande tradizione filosofica del Novecento che, prima con Martin Heidegger, e successivamente con Jacques Derrida, ha rivelato il rapporto costitutivo tra l'ateismo greco e il monoteismo ebraico nella formazione del pensiero occidentale. Il cristianesimo è il punto d'unione in cui questi due elementi si rafforzano e si respingono allo stesso tempo, trovando nella figura del Dio unico e nella razionalità del pensiero moderno, gli strumenti per la sua affermazione universale. La «dischiusura» (questa la traduzione proposta da Rolando Deval e da Antonella Moscati del termine francese Déclosion, un neo-logismo che significa «togliere una chiusura») intende proseguire l'opera di questi predecessori (e amici, nel caso di Derrida che poco prima di morire dedicò a Nancy il libro dal titolo Le Toucher).
Un bipolarismo morale
Dischiudere dunque i confini tra filosofia e religione, rompere l'abbraccio mortale che li lega e portare alla luce ciò che li accomuna. E' un'avvertenza quasi obbligatoria dal momento che, nella discussione di questi ultimi anni, non sembrano esserci spazi per chi rifiuta di fare suo l'integralismo politico-religioso puramente reattivo o il laicismo militante di qualche causa anti-clericale un po' datata. È dal 1998 che Nancy, tra conferenze e saggi, lavora su questo tema. Da allora non sembra essersi fatto tentare dall'improbabile bipolarismo morale tra laici e cattolici che oggi sembra esaurire, in Italia, l'etica pubblica. Anzi, la sua tesi sembra andare in controtendenza. Per Nancy, l'Occidente non è nato dalla liquidazione di un mondo di oscure credenze cristiane dissolte dalla luce della razionalità. Al contrario, il cristianesimo è l'Occidente. Lo ha prima inventato, poi assorbito ed infine disconosciuto dopo l'affermazione della «modernità» illuministica.
Ciò non toglie che, sin dalla sua origine, l'Occidente sia vissuto all'ombra del cristianesimo, un po' come l'ombra di Buddha è rimasta mille anni a vegliare la caverna dov'era seppellito il suo cadavere. Cristianesimo e Occidente tendono a ridimensionare ad una misura comune ciò che è fuori dalla razionalità. Dio è per il cristianesimo ciò che il problema matematico dell'incommensurabile è per il logos moderno. Così come la religione porta l'alterità assoluta al centro della vita degli uomini, il pensiero moderno introduce lo smisurato nella ragione.
Il cristianesimo può essere riassunto nel precetto di vivere in questo mondo come fuori di esso. Questo fuori non esiste, è la promessa di una salvezza che arriverà alla fine dei tempi e che nel presente vale come apertura su un'alterità assoluta. Il pensiero moderno impone invece agli uomini di vivere questa stessa alterità assoluta nei confini della «pura ragione», come diceva Kant. L'invito di gran parte del pensiero del Novecento, da Freud a Wittgenstein sino a Heidegger, è stato quello di pensare questa alterità e di restituirne la misura sfuggente del suo apparire.
Nancy precisa che il cristianesimo tende a «chiudere» il movimento di apertura su questa alterità attribuendola ad un essere supremo, mentre il pensiero della Destruktion di Heidegger e della «decostruzione» di Derrida la lascia libera da (quasi) tutte le paralisi teologiche. Ciò non toglie che anche il razionalista intransigente eviti di spezzare il «tenue arco che ci lega all'inaccessibile», così come il credente adulto e consapevole comprende che il suo Dio è il punto estremo della rappresentabilità di un'alterità che non ha misura.
Non è superfluo ripetere qui tutte le accuse che è legittimo imputare al cristianesimo, come l'asservimento del pensiero fino allo sfruttamento ignobile del dolore e del risentimento. Oggi più che mai tornano utili le armi tradizionali che sono state utilizzate contro il dominio religioso (la libertà, l'individuo, la ragione stessa), ma esse non bastano per spiegare perché «ragione» e «fede» siano animate dallo stesso principio e, in un certo senso, si comportino come due gemelli siamesi.
E' per questa condivisione di orizzonte che Nancy esclude che il cristianesimo possa essere attaccato o difeso, rimosso o salvato da chiunque. Esso non è una grave malattia congenita dell'Occidente, ma non è nemmeno un plusvalore morale che indica la strada della salvezza per le donne e gli uomini. Progetti di questo tipo fanno torto all'essenza del problema: il cristianesimo e l'ateismo, ciò che afferma l'esistenza di un Dio e ciò che lo nega, sono volti diversi dello stesso nichilismo.
Scrisse il filosofo Luigi Pareyson: «Può essere attuale solo un cristianesimo che contempli la possibilità della sua negazione». Una forte presa di posizione che permette di vedere nel cristianesimo la riflessione su un dubbio disperante (Dio è perché si nega), e non l'affermazione di una verità valida per tutti. E' cieco dichiarare un embargo permanente nei confronti del cristianesimo, dato che l'ateismo condivide la stessa radice. «Può essere attuale solo un ateismo che contempli la realtà della sua provenienza cristiana», commenta Nancy parafrasando Pareyson.
Il sole nero del nichilismo
Se dunque il cristianesimo attribuisce a Dio la causa prima e il fine ultimo della vita, l'ateismo gli nega questo privilegio attribuendo la causa e il fine alla razionalità. Entrambi sostengono che la vita è rivelazione di un principio superiore, quello di Dio o quello della Ragione. Anche il papa teologo Ratzinger rivendica la razionalità tra le principali caratteristiche che rendono universale, vero e buono il Dio cristiano. Oscurando tuttavia ciò che il pensiero della decostruzione ha denunciato: la coincidenza tra il cristianesimo e la razionalità è dovuta al fatto che entrambi sono espressione del nichilismo occidentale.
Nichilismo, spiega Nancy, in realtà vuol dire: fare principio del niente. Ma questo «niente» significa disfare ogni principio, compreso lo stesso principio del niente. Laici e cattolici gravitano attorno allo stesso sole nero: l'affermazione incondizionata di un principio corrisponde infatti allo svuotamento del mondo, al suo impoverimento in nome di valori trascendenti (la Vita, il Bene) o alla sua mortificazione in nome di certezze immanenti (la Storia, la Tecnica). In altre parole, laici e cattolici soffrono della dissoluzione del principio in cui credono. Sul versante cristiano, il problema è dolente: il Dio cristiano crea il mondo attraverso la negazione di se stesso. Il cristiano tende con tutte le forze a ricongiungersi a quella negazione che l'ha posto in essere. Un paradosso senza salvezza.
A questo tragico esito non è estraneo nemmeno il pensiero «laico». C'è la razionalità che rifiuta ogni teleologia e, da Hegel in poi, esige di essere compresa come il primo pensiero che fa a meno di Dio e si carica sulle spalle il mondo per dargli un senso. Ma una volta sospese le ambizioni hegeliane, e dimostrato che il mondo non è retto da alcun principio trascendente, nemmeno quello della storia, l'ateo realizza che alla «morte di Dio» non è seguita alcuna nuova comprensione del mondo. E' questa la tristezza che riassume l'ateismo. A differenza del cristiano, l'ateo non si dà nemmeno la possibilità consolatrice di sentirsi abbandonato dal proprio Dio. E' solo, e rifiuta la gioia tragica di cui Nietzsche e il giovane Walter Benjamin furono testimoni.
L'annuncio della buona fine
Finché non avremo la misura esatta della nostra provenienza cristiana, resteremo prigionieri di qualcosa che non è stato elaborato all'altezza del nostro tempo. Su questo punto, Nancy non fa sconti nemmeno al proprio discorso e ammette: è lo stesso cristianesimo a decostruirsi. Il cristianesimo ha passato gran parte della propria storia a correggere e ad auto-rettificare il contenuto della verità annunciata. Esso è la forma più occidentalizzata delle religioni monoteiste, si distende nella forma di un'auto-analisi in vista di un ritorno ad un'origine sempre più pura.
Questo processo comincia già nei Vangeli e in San Paolo, continua con il monachesimo e si afferma, ovviamente, nelle diverse Riforme. Con il risultato che il cristianesimo ha certamente sviluppato una volontà di potenza sconosciuta alle altre religioni, ma l'ha accompagnata con un potente desiderio di spoliazione e di abbandono di sé spingendolo all'auto-dissoluzione. Esso ci ha consegnato un mondo che è in attesa di una rivelazione, non solo quella di Dio, ma di un senso generale che rimane sospeso tra gli uomini nei termini di una promessa o di un progetto (politico, esistenziale).
La promessa annunciata dal cristianesimo è «una fine senza fine». E' questo il nucleo «kerygmatico» del Vangelo (dal greco euaggelion, «buon annuncio»): l'annuncio della fine dei tempi corrisponde alla seconda venuta di Dio sulla terra. Ma questa venuta, se avverrà, avverrà alla fine dei tempi. Una fine infinita che si protrae disperatamente per tutta la storia. Cosa si annuncia dunque nei Vangeli? «Quasi niente», risponde Nancy. E' su questo «niente» che l'auto-decostruzione del cristianesimo mostra la sua ambiguità. Davanti all'annuncio non c'è infatti più storia, né ritorno all'origine. C'è la fine del mondo e la morte di Dio.
Ripensare l'ateismo
Per Jean-Luc Nancy viviamo nel cuore di una trasformazione epocale paragonabile a quella che ha portato dall'antichità al mondo moderno. Questa trasformazione appare talvolta come una perdita, ma ha anche il sapore di un nuovo inizio. Il suo è un pensiero che resta aperto alla testimonianza di un'incommensurabilità tra noi e ogni legge, umana o divina che sia. Ritornare alla nostra provenienza cristiana, e ridiscuterla radicalmente, è essenziale per capire come questo incommensurabile non sia più quello di un Dio trascendente. L'incommensurabile è invece la scoperta di una comunità di uomini e donne ispirata ad un senso eccedente di cui il sacro ha cercato di dare una definizione, senza tuttavia coglierne la potenza costitutiva.
Pensare la «morte di Dio» non come il nichilismo, ma come l'uscita dal nichilismo, è il primo passo per scoprire che è possibile liberarsi dal pesante fardello del teologico-politico sulla nostra cultura. Non c'è alcuna ragione «di salvare la religione, e meno che mai di farvi ritorno», afferma Nancy. Si tratta piuttosto di prendere coscienza che viviamo in un mondo che rifiuta in maniera incommensurabile la sacralizzazione di ogni autorità, compresa quella della legge.
Per farlo, è necessario rinunciare alla politica che vorrebbe continuare a pensarsi nei termini di una versione secolarizzata del cristianesimo. L'ateismo può essere una risorsa, anzi per Nancy è l'«unico ethos possibile del nostro tempo» che permette di pensare ciò che c'è di comune tra gli uomini, a condizione di liberarlo dallo schema di un teismo rovesciato. Questo ethos permette di rivendicare un senso che nessuna religione, nessuna credenza e certamente nessuna Chiesa può pretendere. Per quello che noi siamo non basta né il culto, né la preghiera, ma l'esercizio rigoroso e severo, sobrio e gioioso, di ciò che si chiama il pensiero.

Jean-Luc Nancy
Non c'è ragione di salvare la religione in un mondo che rifiuta la sacralizzazione di ogni autorità, compresa quella divina

Scaffali di una comunità inoperosa
Il corpo e l'atto di un «essere singolare plurale»
Nato il 26 luglio 1940, Jean-Luc Nancy insegna filosofia all'università di scienze umane a Strasburgo. Nel 1991 ha pubblicato con Philippe Lacoue-Labarthe il saggio «Il mito Nazi» nel quale interroga la ragione per cui il mito è al cuore della pratica politica e sociale del nazismo. I libri che lo hanno fatto conoscere in Italia sono sopratutto «La comunità inoperosa», «L'esperienza della libertà», «Il corpo» e «Essere singolare plurale». I suoi ultimi lavori hanno come tema la libertà, la comunità, la globalizzazione e il «senso» e si sforzano di affrontare la fine di un certo numero di possibilità filosofiche, innanzitutto quelle che discendono dall'umanesimo. Per molti anni ha diretto la collana dell'editore Galilée «La Philosophie en effet» insieme a Jacques Derrida e a Philippe Lacoue-Labarthe, recentemente scomparsi. Tutti i libri di questa collana recano ad esergo una frase di Nietzsche: «Introdurre un senso, questo compito rimane assolutamente ancora da realizzare, ammesso che esista ancora un senso». Ne «La creazione del mondo o la mondializzazione» (Einaudi) Nancy ha sostenuto che è la «mondialità, intesa come la nostra condizione esistenza, a rappresentare questo senso».

giovedì 15 marzo 2007

l’Unità Lettere 15.3.07
Sapete che vi dico? Io mi sono «sbattezzata»


Cara Unità,
la forza si basa anche sui numeri e, per quanto mi riguarda, quelli sui quali si basa la chiesa cattolica apostolica romana non corrispondono alla realtà. Atterrata con qualche difficoltà sono stata battezzata in ospedale, sia mai che morissi prima... Non mi sono mai trovata troppo a mio agio nella religione ma ho fatto come tanti comunione e cresima, tirandomi poi tutto dietro, un po’ per inerzia, un po’ per abitudine. Le reiterate ingerenze della nostra instancabile chiesa nei 360 gradi della vita del paese mi stanno offendendo e mi hanno spinto a prendere una decisione: mi sono sbattezzata. Questa chiesa proterva non mi appartiene, ma soprattutto io non appartengo a lei che da oggi non può più «contare» su di me. Chi è interessato all’argomento può farsi un giro in www.uaar.it, tra Margherita Hack, Piergiorgio Odifreddi, Laura Balbo, Dànilo Mainardi, Sergio Staino, Carlo Flamigni e tanti altri sarà in ottima compagnia. Non fosse altro che per curiosità.
Silvia Palombi

Repubblica 15.3.07
"Il Prc sbaglia sul Papa" militante cattolico lascia


ALBENGA - Un dirigente locale del Prc, Massimo Colombo, si è dimesso dalle cariche finora ricoperte nel partito perchè «preoccupato dall´anticlericalismo che sta montando nel Paese e che ha intaccato anche nostri ambienti». Colombo ha lasciato il Collegio regionale di garanzia, il Comitato politico federale di Savona e il direttivo del circolo di Albenga. «Come cattolico praticante - ha affermato - intendo osservare le linee che il Papa e la Chiesa ci indicano, ma sulla questione dei Dico il Prc ha assunto posizioni nettamente contrarie ai suggerimenti ecclesiastici».

il manifesto 15.3.07
Il contributo di Gadamer all'esperienza della verità
Mentre si inaugura oggi a Roma un convegno dedicato al filosofo tedesco, esce dal Mulino la monografia che gli ha dedicato Donatella Di Cesare, secondo la quale tutto il pensiero di Gadamer ruota intorno a Platone in quanto maestro del dialogo
di Enrico Redaelli


Tracciare la mappa dell'«ermeneutica», nella sua evoluzione storica, significa ridisegnarne continuamente i confini. Poche parole come questa hanno visto allargare così tanto il proprio raggio d'azione. Se originariamente indicava l'antica dottrina dell'interpretazione dei testi, il termine «ermeneutica» ha assunto nel secolo scorso un significato filosofico, come movimento di pensiero il cui filone maestro parte da Heidegger e trova una sistemazione nella riflessione di Gadamer, finché, a partire dagli anni Ottanta, è divenuto sinonimo di «filosofia continentale» in opposizione alla filosofia di matrice anglosassone.
In questa ultima evoluzione semantica, l'ermeneutica è divenuta un contenitore molto ospitale, una sorta di etichetta culturale sotto il cui cappello si sono riconosciute diverse prospettive teoriche, il più delle volte molto distanti tra loro. In tale dispersione di senso, la specificità della proposta di Gadamer, cui si deve l'articolazione originaria dell'«ermeneutica filosofica» propriamente detta, è forse quella che ne ha più risentito.
Letto troppo spesso a partire da Heidegger, o con le lenti deformate dai dibattiti che gli sono seguiti, il pensiero di Gadamer si è trovato all'incrocio di molte vie del pensiero contemporaneo e solo negli ultimi anni il suo percorso è stato approfondito nelle peculiarità che lo contraddistinguono e che ne marcano i confini rispetto ad altri, con cui pure è entrato in dialogo. Per orientarsi, una attenta ricostruzione del suo apporto filosofico è offerta da Donatella Di Cesare nel ritratto titolato semplicemente Gadamer (Il Mulino, pp. 319, euro 19,50). Con la consueta chiarezza espositiva e con la limpidezza di linguaggio che distingue anche i suoi precedenti saggi, l'autrice, che del filosofo di Marburgo è stata una degli allievi di ultima generazione, ne ripercorre il cammino di pensiero in tutte le sue tappe.
Il volume ha il pregio di sfatare alcuni miti che ancora aleggiano sulla ricezione di Gadamer, come la sua presunta identificazione di essere e linguaggio, che pure il filosofo rifiutò esplicitamente, e la lettura del suo pensiero nei termini di una «filosofia dell'interpretazione», tema nietzschiano (che tanto influsso ha avuto sull'ermeneutica italiana) ma per nulla gadameriano. Anziché l'interpretazione, è la comprensione il perno attorno cui si sviluppa il suo percorso filosofico. Comprendere, come sottolinea Di Cesare, non è interpretare né sapere, perché si delinea piuttosto come una esperienza. Esperienza di verità che accomuna l'uomo e che si declina nell'arte, nella storia e nel linguaggio. Esperienza che Gadamer intende rivalutare, contro la riduzione della verità e del suo senso operata dal metodo scientifico, attraverso l'opera cardine, Verità e metodo, pubblicata nel 1960. Per il suo autore, nella comprensione è da vedersi l'articolazione stessa dell'esistenza e il carattere finito, limitato, di ogni esperienza umana. Quella di Gadamer può perciò essere chiamata a buon diritto una «filosofia della finitezza», ma basata su una concezione positiva del limite, sempre letto come l'oltre dell'altro. In questa prospettiva, ulteriormente elaborata negli anni successivi a Verità e metodo, nulla può essere definitivo: la ricerca filosofica è sempre aperta, non può mai fissarsi, trovare sistemazione, tanto meno nei limiti di un testo scritto, rinviando perciò al dialogo orale e alla vita vissuta. Si rivela qui l'ispirazione socratica dell'ermeneutica filosofica. Articolata nel movimento di domanda e risposta, e perciò costitutivamente aperta al confronto con l'altro, la dialettica di Socrate, così come la troviamo raccontata nelle opere di Platone, è da Gadamer assunta a modello di riferimento.
Si spiega così il suo interesse per la filosofia greca. La sua lettura della dialettica antica e il ruolo decisivo che essa ha rivestito per l'ermeneutica - messi in luce solo di recente e a cui giustamente questo volume dedica ampio spazio - sono la vera e propria chiave interpretativa con cui Donatella Di Cesare legge il pensiero gadameriano. Se si guarda a tutto lo sviluppo della sua riflessione, sostiene l'autrice, si può dire che l'opera principale di Gadamer, anziché Verità e metodo, sia il libro su Platone che non ha mai scritto. Non il Platone «metafisico», che mira alla «più assoluta verità» (come leggiamo nel Sofista), né il Platone fondatore di una teoria dei principi, ma il Platone maestro del dialogo, dietro cui si nasconde Socrate e rimane vivo il suo insegnamento. Leggendo i dialoghi platonici, il filosofo di Marburgo vuole infatti mostrare come la dialettica sia essenzialmente una esperienza, piuttosto che un metodo. Una esperienza che vive della partecipazione dell'altro, come il personaggio di Socrate, messo in scena nei dialoghi, sta appunto a testimoniare.
Ma il libro di Donatella Di Cesare non si limita a una ricostruzione del pensiero di Gadamer, sottraendolo al bagliore riflesso di Heidegger per restituirgli luce propria e sottolineandone piuttosto i rapporti col pensiero greco. Vi si legge anche la proposta, già delineata nei precedenti saggi dell'autrice, di un'ermeneutica della finitezza che intende distinguersi dal pensiero debole come da ogni deriva nichilista o relativista. Infatti, dietro la contrapposizione tra assolutismo della verità e relativismo, oggi tanto dibattuta, si nasconde una più profonda complicità. La metafisica, con la sua verità assoluta, e il nichilismo sono da vedersi come le due facce della medesima medaglia: condividono la stessa logica di fondo, cioè quella di un fondamento incrollabile, che l'ermeneutica intende invece lasciarsi alle spalle. Sottrarsi a questa logica significa rifiutare una concezione della verità che intende irretire l'esperienza umana in un senso ultimo e conclusivo. Senza per questo abdicare alla verità, o negarla nichilisticamente, ma declinandola come dialogo, ovvero: esperienza dell'altro, evento del comprendere.

L'espresso 14.3.07
Quell'istinto chiamato morale
Più il mondo si globalizza e più si rafforzano e si moltiplicano criteri e principi etici separati
di Eugenio Scalfari


Parecchi anni fa, tra letture, scritture ed esperienze vissute, mi posi il problema della morale (al singolare) e delle morali (al plurale). Da allora quel tema è diventato sempre più assillante perché ne vedevo spesso le rifrazioni nella società e le deformazioni che ne derivavano.

Detto in breve e nel modo più chiaro possibile: la morale, cioè la scelta che crediamo di dover compiere sulla base di un criterio che distingue il bene dal male, entra sempre più spesso in conflitto con le morali che potremmo definire deontologiche: quella dell'uomo politico, quella dell'avvocato, del medico, dell'imprenditore, del banchiere, del contribuente, dell'artista, del giornalista e perfino quella del giudice.

Morali autonome per altrettante attività autonome. Al limite esiste perfino una morale mafiosa che è addirittura una delle più rigorose e implacabili perché regola le condizioni dell'esistenza stessa di quella società criminale che pretende di essere (e di fatto è) una sorta di Stato dentro lo Stato, di società dentro la società, con le sue regole, i suoi giudici, la sua polizia interna e ovviamente i suoi criteri 'morali'. Ed esiste, lo sappiamo bene, anche una morale terrorista.

Più il mondo si globalizza e più si rafforzano e si moltiplicano le morali separate. Più si professionalizza e più aumentano le morali deontologiche.

I religiosi pensano che l'indebolimento della morale sia la conseguenza del relativismo che, rivendicando l'autonomia della morale rispetto ai dogmi della fede, avrebbe aperto le società alla polverizzazione della morale. Il vero elemento unificante sarebbe cioè la religione, il cui messaggio tende a diffondere una morale trascendente e obbligante per tutti.

Ma le cose non stanno così, neppure se si aggancia il criterio religioso al cosiddetto diritto naturale. L'idealizzazione del diritto naturale non corrisponde alla realtà quando immagina un 'corpus' di diritti sempre eguali nel tempo e nello spazio. Non è così. Nel mondo reale i diritti naturali sono molto diversi da luogo a luogo e nelle varie fasi storiche.

Del resto le stesse religioni sono plurime, come le rispettive morali, e soggette a continua evoluzione: la moralità delle Chiese cristiane dei primi secoli era profondamente diversa da quella di oggi e così per tutte le religioni storiche.

Dico di più: all'interno d'una stessa religione e addirittura negli stessi luoghi e tempi la morale differiva tra una comunità religiosa e l'altra. Quella di Francesco d'Assisi e dei suoi compagni non era affatto la medesima di quella dei frati dell'ordine domenicano o dell'ordine benedettino. Le loro regole e i loro statuti differivano profondamente. Per non dire della lotta asprissima tra i domenicani e i gesuiti che segnò per oltre un secolo la storia della cattolicità controriformista.

Non è questione dunque di relativismo filosofico, che avrebbe disgregato i comportamenti morali aprendo la strada al nichilismo e all'anarchia del pensiero. La spiegazione del problema va cercata più a fondo, nel concetto stesso di morale e nei criteri comportamentali che ne discendono. Nell'ambito della coscienza individuale e nel suo rapporto con gli istinti di sopravvivenza del singolo individuo e della società nella quale è inserito. Al limite: della specie di cui fa parte.

Questo ragionamento può essere graficizzato se si vuole renderne elementare la comprensione.

Diciamo che sia un punto a rappresentare l'istinto di sopravvivenza del singolo individuo. Attorno a quel punto la vita di relazione crea una serie di cerchi via via più vasti e inclusivi: la famiglia in cui si è nati, il quartiere dove si vive, il paese dove si risiede, la scuola che si frequenta, la professione che si sceglie, la classe sociale cui si appartiene, la nazione dove si parla la stessa lingua, la religione che si professa e così via.

A ciascuno di questi cerchi e degli infiniti altri che la vita di relazione propone e ai quali l'individuo appartiene almeno con una parte dei suoi interessi e dei suoi ideali, corrisponde una morale comportamentale.

Repubblica 15.3.07
I filosofi del papa
di Joseph Ratzinger


Il testo di una prolusione tenuta da Joseph Ratzinger nel 1959

La ragione teoretica non accede a dio
I rapporti tra religione e scienza

Un confronto tra la fede e i grandi pensatori. Da Cartesio a Pascal. Fino, andando indietro, a san Tommaso d´Aquino

Pubblichiamo parte di una prolusione tenuta da a Bonn nel giugno del 1959, intitolata Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, e che ora viene per la prima volta edita in italiano dalla Marcianum Press, curata da Heino Sonnemans.

Il tema di queste riflessioni, «Il Dio della fede e il Dio dei filosofi» è, per l´argomento, antico come il confronto tra fede e filosofia. Ma la sua storia esplicita comincia con un foglietto di pergamena che, qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal, venne trovato cucito dentro la fodera della giacca del defunto. Questo foglietto, chiamato Mémorial, dà notizia scarna e nello stesso tempo impressionante del cambiamento sperimentato da quest´uomo nella notte dal 23 al 24 novembre 1654. Comincia, dopo un´indicazione molto precisa del giorno e dell´ora, con le parole: «Fuoco. "Dio d´Abramo, Dio d´Isacco, Dio di Giacobbe", non dei filosofi e degli scienziati». Il matematico e filosofo Pascal aveva sperimentato il Dio vivente, il Dio della fede, e in un tale incontro vivente con il Tu di Dio l´aveva chiaramente compreso in sbalordito e lieto stupore, come in altro modo l´irruzione della realtà di Dio lo è nel confronto con ciò che la filosofia matematica di un Descartes, per esempio, sapeva dire di Dio. I Pensées di Pascal debbono essere compresi partendo da questa esperienza fondamentale della sua vita.
Contrariamente alla teologia metafisica del tempo, con il suo Dio puramente teoretico, essi cercano di condurre dalla realtà dell´essere umano concreto, con il suo inscindibile insieme di grandezza e di miseria, direttamente all´incontro con il Dio che è la risposta vivente all´esplicita domanda dell´essere umano, e questo non è altro che il Dio amorevole in Gesù Cristo, il Dio d´Abramo, d´Isacco e di Giacobbe.
Se la filosofia del tempo, in particolare quella di Descartes, è una filosofia dell´esprit de géometrie, i Pensées di Pascal cercano di essere una filosofia dell´esprit de finesse, della comprensione concreta della realtà, che penetra più in profondità di quanto faccia l´astrazione matematica. Tuttavia, la filosofia razionalistica del tempo, anche se vagliata a fondo da Pascal nella sua insufficienza, era allora ancora così sicura di se stessa che non poté essere scossa dalle «estranee» e frammentarie osservazioni di un filosofo autodidatta quale era Pascal. Solo la frantumazione della metafisica speculativa, operata da Kant, ed il trasferimento dell´elemento religioso nell´ambito extrarazionale e quindi anche extrametafisico del sentimento, operato da Schleiermacher, portarono finalmente il pensiero di Pascal a manifestarsi e condussero ora per la prima volta al radicale inasprimento del problema. Ora per la prima volta il fossato tra metafisica e religione è incolmabile: la metafisica, cioè la ragione teoretica, non ha accesso a Dio; la religione non ha sede nell´ambito della ratio; essa è esperienza vissuta che si sottrae alla misurabilità scientifica; volerla provare, tuttavia, significa trarne un modello irreale, il «Dio dei filosofi».
Ciò ha un´ulteriore conseguenza: la religione che non è razionalizzabile non può essere, in fondo, neppure dogmatica, quando invece il dogma deve essere un´asserzione razionale su contenuti religiosi. Così, l´antitesi concretamente sperimentata tra il Dio della fede e il Dio dei filosofi viene infine generalizzata in antitesi tra Dio della religione e Dio dei filosofi. La religione è fatto vissuto, la filosofia è teoria; corrispondentemente, il Dio della religione è vivo e personale, il Dio dei filosofi vuoto e inerte.
Oggi, questa distinzione è divenuta quasi una parola d´ordine e, in ogni caso, un luogo comune, dietro il quale possono nascondersi rappresentazioni molto diverse e abbastanza spesso anche una mancanza di conoscenza reale dei problemi. Tanto più importante rimane fare chiarezza in questo argomento, principalmente con riferimento a questa distinzione, nei termini ai quali si è accennato, prestando attenzione ai problemi di base della teologia fondamentale, come quello del rapporto tra religione e filosofia, tra fede e scienza, tra ragione generalmente intesa e vissuto religioso, e infine soprattutto il problema della possibilità di una religione dogmatica.
Inoltre, si mostrerà come appropriato uscire dalla più limitata, anche se meglio comprensibile, contrapposizione «Dio della fede e Dio dei filosofi» trattando insieme praticamente, per ovvia necessità, la maggiore contrapposizione «Dio della religione e Dio dei filosofi». (...)
Ecco innanzitutto la risposta di san Tommaso d´Aquino, che è possibile enunciare in poche parole. Sia consentito di premettere che Tommaso non conosce, ovviamente, la formulazione moderna del problema, ma conosce bene l´argomento e ne fa oggetto della sua trattazione. La sua opinione si può esporre nel modo seguente: per Tommaso, Dio della religione e Dio dei filosofi coincidono pienamente, mentre Dio della fede e Dio della filosofia sono in parte distinti; il Dio della fede supera il Dio dei filosofi, gli aggiunge qualcosa. La religio naturalis, e cioè ogni religione al di fuori del cristianesimo, non ha un contenuto più alto e non può avere un contenuto più alto di quello che gli offre la teologia filosofica. Anzi, tutto ciò che essa contiene in più o in contrasto è deviazione e confusione. Al di fuori della fede cristiana la filosofia è soprattutto, secondo Tommaso, la più alta possibilità dello spirito umano. Max Scheler parla qui non a torto di un sistema parziale d´identità proposto dall´Aquinate, che identifica le religioni al di fuori del cristianesimo, secondo il loro contenuto di verità, con la filosofia, e tiene fuori da questa totale identità soltanto la fede cristiana; questa comunica una nuova immagine di Dio, più alta di quanto la ragione filosofica l´abbia potuta immaginare e ideare. Ma neppure la fede contraddice la teologia filosofica; per chiarire il suo rapporto con essa, si è lasciata applicare piuttosto, conformemente al senso, la formula «gratia non destruit, sed elevat et perficit naturam». La fede cristiana in Dio accoglie in sé la teologia filosofica e la perfeziona. Detto in termini più precisi: il Dio di Aristotele e il Dio di Gesù Cristo è unico e lo stesso; Aristotele ha riconosciuto il vero Dio che noi nella fede possiamo comprendere in modo più profondo e più puro, così come noi nella visione di Dio nell´al di là ne comprenderemo ancora più intimamente e più da vicino l´essenza. Si potrebbe forse dire, senza alcuna forzatura della realtà: la fede cristiana si rapporta alla conoscenza filosofica di Dio più o meno come si rapporta la visione escatologica di Dio alla fede. Si tratta di tre gradi di un unico cammino comune.