sabato 12 aprile 2008

l’Unità 12.4.08
Bertinotti si candida all’opposizione
«Dobbiamo riprendere la battaglia da lì»
di Simone Collini


«Ci stanno provando e ci proveranno, a cancellare la sinistra. Dobbiamo unirci»

«Ci abbiamo provato a risolvere i problemi del popolo anche sporcandoci le mani sostenendo il governo»

Fausto Bertinotti spezza il pane e incassa, lui come tutti quelli che faranno "una scelta di parte" votando Sinistra arcobaleno, la benedizione di don Andrea Gallo: "Gesù non è mai stato moderato. E’ per la difesa degli ultimi". Si chiude così, a Genova, la campagna elettorale del candidato premier della lista rosso-verde, con un sostegno d’eccezione e il pensiero che per un po’ non va alle difficoltà vissute in queste ultime settimane e a quelle che dovranno essere affrontate nelle prossime.
Don Gallo se ne sta per tutto il tempo seduto dietro il palco, ascolta il comizio di Bertinotti e fuma il suo mezzo Toscano. "Ci abbiamo provato a risolvere i problemi del popolo", sta dicendo il candidato premier della Sinistra arcobaleno, "anche sporcandoci le mani, sostenendo il governo". Davanti al palco un migliaio di persone, che dovevano trovarsi a piazza Matteotti ma che la pioggia scesa su Genova ha costretto al coperto, nel cortile interno di Palazzo Ducale. "Abbiamo ingoiato bocconi amari", riconosce il presidente della Camera, ma quella che definisce "la grande delusione" va lasciata alle spalle: "Diceva Gramsci che compito dei rivoluzionari è provare e riprovare. Dobbiamo riprovarci. Ora dobbiamo riprendere la nostra battaglia dall’opposizione". Militanti e simpatizzanti applaudono forte. Don Gallo si sistema meglio sulla sedia di plastica, stacca via con un dito un pezzo di foglia di tabacco che non si è bruciata insieme al resto del sigaro. "Stiamo seminando per l’oggi e per il domani", è la promessa che fa Bertinotti, "per far nascere una grande sinistra italiana". Sventolano le bandiere della Sinistra arcobaleno. Non ce ne sono altre. Non si vedono né falce e martello né sole che ride. E almeno questo è un buon segno per chi, come Bertinotti, vuole che la lista con cui si sono presentati Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica non sia "soltanto un cartello elettorale che si disperde dopo il voto", ma sia anzi "l’annuncio della nascita di una nuova sinistra".
Il mozzicone è andato, Don Gallo tira fuori dalla tasca un altro Toscano e lo mette tra le labbra. "Questa è stata una campagna elettorale difficile e complicata", sta dicendo ora dal palco il presidente della Camera. "Ci stanno provando e ci proveranno, a cancellare la sinistra". Parole che ripeterà poi in serata, al comizio di chiusura in un’altra città simbolo del movimento operaio, Torino (ma la scelta di Genova è anche "per continuare a tenere viva la richiesta di verità" su quanto avvenuto nei giorni del G8) . Se la prende con la "bestemmia" del voto utile. Don Gallo non si scompone, così come non lascia trasparire nulla quando Bertinotti dice che il governo Prodi non è caduto per colpa della sinistra, come dicono nel Pd, ma "per l’intervento dei poteri forti, per le ingerenze di Confindustria e del Vaticano". Ora bisogna guardare avanti, al risultato che lunedì uscirà dalle urne ma anche oltre. Perché c’è una sciagura che la Sinistra arcobaleno deve far sì che non si realizzi, quella cioè di non avere nella prossima legislatura un numero di senatori sufficienti (10) per costituire un gruppo autonomo a Palazzo Madama. E perché, allargando la prospettiva al di là delle sedi istituzionali, "l’Italia ha bisogno della sinistra - dice Bertinotti - ma forze potentissime, economiche e politiche, lavorano perché non ci sia più". Per combatterle è necessario che "forze fino a ieri divise oggi e domani siano unite". E’ necessario, incita il presidente della Camera, che si aggiungano all’operazione anche associazioni, movimenti, "anche le forze critiche nei confronti di questi partiti" che oggi hanno dato vita alla lista rosso-verde. La gente giù dal palco applaude, ma Bertinotti sa che non tutti sono convinti. E allora assicura: "Se ci sono cose che non vi piacciono le cambieremo. Le cambieremo con la partecipazione". Il comizio finisce, dalla prima fila si alza un braccio che consegna al candidato premier un panino avvolto in un fazzoletto con su scritto "contro il carovita". Bertinotti lo prende, poi vede che Don Gallo gli arriva alle spalle e allora spezza il pane e ne dà metà a lui. Don Gallo lo prende, ma più che altro vuole parlare e si avvicina al microfono. "Siamo in un mare in tempesta, però la bussola ce l’abbiamo. La sinistra non la può cancellare nessuno. E ricordatevi: Gesù non è mai stato un moderato. È per la difesa degli ultimi".

Repubblica 12.4.08
Bertinotti chiude la campagna della Sinistra arcobaleno
"C'è bisogno di sinistra e mi rivolgo ai delusi"


TORINO - «L´Italia ha bisogno di sinistra. Ci sono forze potenti che vogliono cancellarla». E´ l´appello con il quale, a Torino, Fausto Bertinotti ha chiuso ieri sera la campagna elettorale della Sinistra arcobaleno. Ma se c´è chi lavora per far sparire la Cosa rossa, la «necessità» della sinistra «è altrettanto forte per tutti coloro che vivono nella precarietà, nell´incertezza, nella difficoltà di arrivare a fine mese. Chi vive questa realtà sarebbe orfano». Il candidato premier ha perciò lanciato un appello ai delusi e agli indecisi ma con il cuore a sinistra, «avete vissuto altre volte l´alternarsi della vittoria e della sconfitta. Non bisogna arrendersi, bisogna riprendere il cammino». Su tutte, una richiesta: l´aumento dei salari, che è possibile «riducendo rendite e i profitti». Parlando dal palco allestito in piazza San Carlo, davanti a circa 2 mila persone, Bertinotti ha spiegato che «in nessuna altra città come Torino si può cogliere il senso della parola ricominciare».
Nel pomeriggio, il presidente della Camera aveva parlato a Genova. Con un fuori programma: ha spezzato un panino, distribuendolo agli spettatori. Tutto è nato quando, al termine di un comizio sul palco allestito all´interno di Palazzo Ducale, ha raccolto uno "sfilatino" che gli era stato offerto con la scritta "contro il carovita", lo ha spezzato e poi lo ha distribuito tra la gente che lo stava applaudendo. Poco prima all´arrivo a Palazzo Ducale, Bertinotti si era brevemente incontrato con don Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto. A Genova, il candidato premier è tornato sulla vicenda del G8. «E´ giusto che la magistratura faccia il suo corso, ma aver impedito la commissione d´inchiesta sui fatti del G8 di Genova è un punto oscuro nella storia del Paese». E ha ricordato la presenza di Fini nella sala della questura durante gli incidenti. «Noi - ha concluso - siamo qui oggi per tributare un ricordo ai quei fatti del 2001, fatti sul cui silenzio non si può transigere. Siamo qui per continuare a mantenere viva una richiesta di verità».

Corriere della Sera 12.4.08
Bertinotti, ultimo attacco al Pd «Neocentrista, non ci ha voluti»
Il leader Arcobaleno con i camalli: da Fini scampoli di cultura fascista
«La sinistra è necessaria per chi è in condizioni di precarietà e incertezza. Questa realtà senza di noi sarebbe orfana»


ROMA — Ultimo giorno da presidente della Camera lì dove aveva cominciato, il primo maggio del 2006. A Torino, dove aveva vissuto gli anni ruggenti da sindacalista. È un addio alla politica istituzionale, quello di Fausto Bertinotti. Ma non un addio alla politica tout court: prima di andarsene in pensione c'è ancora da tenere a battesimo la nuova sinistra. Non la guiderà lui, su questo è stato chiaro. Ma gli spetta di diritto almeno guidarne la nascita. Per adesso ci sono le prime 20 mila tessere di «Uniti a Sinistra », lo zoccolo duro da cui dovrebbe nascere la nuova formazione. Il più presto possibile. «Se non ci sbrighiamo diventiamo reperti archeologici — diceva ieri in un'intervista al manifesto —. Rispettabili, persino affascinanti. Ma inutili ».
Prima però c'è da chiudere questa campagna elettorale tutta in salita, vissuta con l'incubo di non raggiungere i fatidici quorum. Bertinotti da giorni non guarda più i sondaggi, nemmeno quelli riservati che ogni partito tiene nei cassetti. E ha già ordinato al suo staff di non prendere appuntamenti dopo il 14 aprile: commenterà in televisione i risultati, quali che siano. Poi si farà da parte.
L'ultima giornata di campagna elettorale è cominciata a Genova, assieme ai camalli del porto e al loro inossidabile leader, Paride Batini. Occasione per parlare di morti sul lavoro, ma anche per rispondere con durezza a Gianfranco Fini: «Ha detto che i delinquenti votano per la sinistra? Ci sono momenti in questa campagna in cui riemergono nella destra scampoli di cultura fascista. Vorrei ricordare che Fini stava sulla tolda di comando in quelle terribili giornate del G8...». In piazza poi il leader della Sinistra Arcobaleno torna a picchiare anche sul Partito democratico, escludendo a priori la possibilità di entrare in una coalizione di governo guidata da Veltroni. «Il Pd ha scelto di no, andando da solo alle elezioni, con una piattaforma sostanzialmente neocentrista e con un attacco alla sinistra con cui dice di non volere rapporti». Poche ore dopo, da Roma, Veltroni confermerà e spiegherà per l'ennesima volta la sua scelta, rinfacciandogli con cattiveria la famosa battuta di Bertinotti su Prodi, definito «il più grande poeta morente». Battuta coniata in origine da Ennio Flaiano per il poeta Vincenzo Cardarelli.
Infine Torino, a piazza San Carlo. Dove ancora una volta Bertinotti parla dei precari, il suo cavallo di battaglia di tutta la campagna: «Bisogna far sì che viva nel futuro una sinistra in Italia. La cosa non è scontata perché le forze all'opera per evitare che questo sia lo scenario sono potenti. Però la necessità della sinistra è altrettanto forte per tutti quelli che da questo assetto della società ricavano condizioni di precarietà e di incertezza, di non riconoscimento della loro dignità di persona. Questa realtà senza la sinistra sarebbe orfana».

Repubblica 12.4.08
A Roma il Congresso della Federazione di Sessuologia
Sesso, desiderio in calo e 4 su 10 non lo fanno più
di Alessandra Retico


ROMA - L´amore si fa poco e se proprio si deve, meglio virtuale, strambo, mercenario. C´è poco appetito di sensi, 40 coppie su 100 si astengono e sempre più spesso la causa è lui. Che compensa l´indigenza mettendo in vetrina la propria compagna, nuda, su YouTube. Sindrome di Amsterdam la chiamano: come nella capitale olandese, il gioco è mostrare la partner mentre fa sesso. Vedere e non toccare. Lei, l´indesiderata, prima si sente in colpa, poi tradisce per difesa. In casi, e per niente estremi, cerca una nuova verginità: 4mila euro per ricostruire l´imene in una struttura privata, gratis all´ospedale. Fenomeno boom. È il ritratto, non proprio consolatorio, degli italiani a letto che ieri gli esperti hanno raccontato in occasione del IX Congresso della Federazione europea di Sessuologia che si apre a Roma domani.
Calo del desiderio: triplicato in 10 anni. Poca fame d´amore: «Le coppie italiane alla tavola del sesso sono riconducibili a 4 grandi categorie» spiega Chiara Simonelli, sessuologa della Sapienza di Roma e vicepresidente della Federazione. «Le anoressiche, le bulimiche, le sazie e le inappetenti». Quelle che non lo fanno sono di 40enni, relazioni stabili e prole. È lui che si ritrae, preferisce prostitute o donne virtuali su internet. Eccesso opposto: le bulimiche, 50enni che le provano tutte, 1 su 10 è scambista, pratica sadomaso e altre stranezze. Poi, si annoia. Ma ci sono anche le coppie "sazie", il 30%, hanno 30-35 anni (oppure 60), sono appagati. E un 20% di "inappetenti", 40-50enni stressati, il sesso sporadico, quando capita se capita. Se lui fugge sul web, lei va dal chirurgo: liste d´attesa di 30-35enni negli ospedali per la chirurgia dell´imene (47 interventi nel 2005). Oppure comprano un biglietto per il Sudamerica dove tornare "illibate" costa appena 1350 euro. Eccolo il nuovo turismo della verginità. Più che corpi nuovi, magari relazioni migliori.

Repubblica 12.4.08
Da ballata yiddish a inno partigiano il lungo viaggio di Bella ciao
di Jenner Meletti


Il brano fu portato in America da un musicista tzigano originario di Odessa
Ne esiste anche una versione operaia cantata dalle mondine dopo la guerra

In fin dei conti, svelare un segreto è costato solo due euro. «Nel giugno del 2006 ero al quartiere latino di Parigi, in un negozietto di dischi. Vedo un cd con il titolo: "Klezmer - Yiddish swing music", venti brani di varie orchestre. Lo compro, pagando appunto due euro. Dopo qualche settimana lo ascolto, mentre vado a lavorare in macchina. E all´improvviso, senza accorgermene, mi metto a cantare «Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao…». Insomma, la musica era proprio quella di Bella ciao, la canzone dei partigiani. Mi fermo, leggo il titolo e l´esecutore del pezzo. C´è scritto: "Koilen (3´.30) - Mishka Ziganoff 1919". E allora ho cominciato il mio viaggio nel mondo yiddish e nella musica klezmer. Volevo sapere come una musica popolare ebraica nata nell´Europa dell´Est e poi emigrata negli Stati Uniti agli inizi del ‘900 fosse diventata la base dell´inno partigiano».
E´ stata scritta tante volte, la «vera storia di Bella ciao». Ma Fausto Giovannardi, ingegnere a Borgo San Lorenzo e turista per caso a Parigi, ha scoperto un tassello importante: già nel 1919 il ritornello della canzone era suonato e inciso a New York. «Come poi sia arrivato in Italia - dice l´ingegnere - non è dato sapere. Forse l´ha portato un emigrante italiano tornato dagli Stati Uniti. Con quel cd in mano, copia dell´incisione del 1919, mi sono dato da fare e ho trovato un aiuto prezioso da parte di tanti docenti inglesi e americani. Martin Schwartz dell´università della California a Berkeley mi ha spiegato che la melodia di Koilen ha un distinto suono russo ed è forse originata da una canzone folk yiddish. Rod Hamilton, della The British Library di Londra sostiene che Mishka Ziganoff era un ebreo originario dell´est Europa, probabilmente russo e la canzone Koilen è una versione della canzone yiddish "Dus Zekele Koilen", una piccola borsa di carbone, di cui esistono almeno due registrazioni, una del 1921 di Abraham Moskowitz e una del 1922 di Morris Goldstein. Da Cornelius Van Sliedregt, musicista dell´olandese KLZMR band, ho la conferma che Koilen (ma anche koilin, koyln o koylyn) è stata registrata da Mishka Ziganoff (ma anche Tziganoff o Tsiganoff) nell´ottobre del 1919 a New York. Dice anche che è un pezzo basato su una canzone yiddish il cui titolo completo è "the little bag of coal", la piccola borsa di carbone».
Più di un anno di lavoro. «La Maxwell Street Klezmer Band di Harvard Terrace, negli Stati Uniti, ha in repertorio "Koylin" e trovare lo spartito diventa semplice. Provo a suonare la melodia… E´ proprio la Koilen di Mishka Tsiganoff. Ma resta un dubbio. Come può uno che si chiama Tsiganoff (tzigano) essere ebreo? La risposta arriva da Ernie Gruner, un australiano capobanda Klezmer: Mishka Tsiganoff era un "Cristian gypsy accordionist", un fisarmonicista zingaro cristiano, nato a Odessa, che aprì un ristorante a New York: parlava correttamente l´yiddish e lavorava come musicista klezmer». Del resto, la storia di Bella ciao è sempre stata travagliata. La canzone diventa inno "ufficiale" della Resistenza solo vent´anni dopo la fine della guerra. «Prima del ‘45 la cantavano - dice Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea all´università di Catania - solo alcuni gruppi di partigiani nel modenese e attorno a Bologna. La canzone più amata dai partigiani era "Fischia il vento". Ma era troppo "comunista". Innanzitutto era innestata sull´aria di una canzonetta sovietica del 1938, dedicata alla bella Katiuscia. E le parole non si prestavano ad equivoci. «Fischia il vento / infuria la bufera /scarpe rotte e pur bisogna andar / a conquistare la rossa primavera / dove sorge il sol dell´avvenir». E così, mentre stanno iniziando i governi di centro sinistra, Bella ciao quasi cancella Fischia il vento. Era politicamente corretta e con il suo riferimento all´"invasor" andava bene non solo al Psi, ma anche alla Dc e persino alle Forze armate. Questa "vittoria" di Bella ciao è stata studiata bene da Cesare Bermani, autore di uno scritto pionieristico sul canto sociale in Italia, che ha parlato di «invenzione di una tradizione». E poi, a consacrare il tutto, è arrivata Giovanna Daffini».
La "voce delle mondine", a Gualtieri di Reggio Emilia nel 1962 davanti al microfono di Gianni Bosio e Roberto Leydi aveva cantato una versione di Bella Ciao nella quale non si parlava di invasori e di partigiani, ma di una giornata di lavoro delle mondine. Aveva detto che l´aveva imparata nelle risaie di Vercelli e Novara, dove era mondariso prima della seconda guerra mondiale. «Alla mattina, appena alzate / o bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / alla mattina, appena alzate / là giù in risaia ci tocca andar». «Ai ricercatori non parve vero - dice il professor Granozzi - di avere trovato l´anello di congiunzione fra un inno di lotta, espressione delle coscienza antifascista, e un precedente canto del lavoro proveniente dal mondo contadino. La consacrazione avviene nel 1964, quando il Nuovo Canzoniere Italiano presenta a Spoleto uno spettacolo dal titolo "Bella ciao", in cui la canzone delle mondine apre il recital e quella dei partigiani lo chiude». I guai arrivano subito dopo. «Nel maggio 1965 - cito sempre il lavoro di Cesare Bermani - in una lettera all´Unità Vasco Scansani, anche lui di Gualtieri, racconta che le parole di Bella ciao delle mondine le ha scritte lui, non prima della guerra, ma nel 1951, in una gara fra cori di mondariso, e che la Daffini gli ha chiesto le parole. I ricercatori tornano al lavoro e dicono che comunque tracce di Bella ciao si trovano anche prima della seconda guerra. Forse la musica era presente in qualche canzone delle mondine, ma non c´erano certo le parole cantate dalla Daffini, scritte quando i tedeschi invasor erano stati cacciati da un bel pezzo dall´Italia». "Una mattina mi sono alzata…". Fino a quando ci sarà ricordo dei "ribelli per amore", si alzeranno le note di Bella Ciao, diventato inno quando già da anni i partigiani avevano consegnato le armi. «Bella Ciao? Forse le cantavano - dice William Michelini, gappista, presidente dell´Anpi di Bologna - quelli che erano in alta montagna. Noi gappisti di città e partigiani di pianura, gomito a gomito con fascisti e nazisti, non potevamo certo metterci a cantare».

Repubblica 12.4.08
Il regista di "Novecento" e "The dreamers" ricorda un'epoca di sogni e ideali forti
Il 68 di Bertolucci
"Erano giorni liberi Oggi siamo tutti anestetizzati"
di Paolo D’Agostini


Il regista di "Novecento" e "The dreamers" ricorda un´epoca di sogni e ideali forti
"Erano giorni liberi Oggi siamo tutti anestetizzati"

Cinque anni fa The dreamers ha anticipato il quarantennale. Bernardo Bertolucci ricorda con quale sentimento concepì il suo film. «Sentivo l´ingiustizia soprattutto di chi aveva partecipato su posizioni radicali e buttava via i sogni, gli ideali e le utopie del ´68. Volevo ritrovare quell´atmosfera dopo l´annientamento. Riempire il vuoto di memoria dei più giovani. Con il desiderio di trasmettere loro le emozioni che non hanno mai vissuto. Tutto questo sparare sul ´68, Sarkozy che gli ha attribuito l´origine di tutti i mali... Invece è stato un privilegio averlo vissuto, perché è stato un momento di grazia».
Di qua il vento di libertà che soffiava dall´America, di là il bagaglio ideologico del comunismo. Liliana Cavani dice che il vero spirito del ´68 è il primo.
«Nel mio Prima della rivoluzione, già nel ´64, mettevo in scena un comunista borghese in polemica con un partito immobile, chiuso al nuovo. Nel ´68 avevo 27 anni e mi sentivo comunista anche se non ancora iscritto al partito. Mi sarei iscritto nel ´69. Mi disturbava vedere amici e colleghi arresi alla mitologia maoista. Questo faceva la mia differenza con Bellocchio, Silvano Agosti, Godard e tanti altri. Ma se stiamo ricostruendo il clima di un´epoca attraverso lo sguardo dei registi è giusto parlare di cinema. Quella rivoluzione che oggi tanti ex sessantottini ritengono non ci sia stata, guardando indietro con sufficienza, è avvenuta pienamente nel cinema. Ci fu un equivoco. Quello dei film "politicamente impegnati" nel cui modello io non mi identificavo. Pensavo che la rivoluzione dovesse avvenire nello stile e nel linguaggio. Ciononostante dico che fummo ingiusti, ad esempio, verso un´opera importante come Zeta di Costa Gavras liquidandola come "convenzionale". Ripenso ad alcuni rifiuti di allora con un certo senso di colpa, oggi».
Insomma che cosa resta?
«Molto. A cominciare dai grandi mutamenti nel modo di vivere. Sulla società. Scomparse d´un colpo le autorità che ci rovinavano la vita: dai professori ai guardiani della morale che se trovavano due ragazzi che si baciavano li portavano al commissariato. L´opposizione venne da un mondo che non accettava di essere messo in discussione, ma non solo. All´indomani di Valle Giulia Pasolini espresse la sua maggior simpatia per i poliziotti, figli del sottoproletariato o di contadini del Sud buttati su quella scalinata di Architettura, piuttosto che per gli studenti dall´imperdonabile origine piccolo borghese. Poi scriverà sul Corriere che quei giovani si erano illusi di aver reso il mondo più libero, mentre quella (falsa) libertà era stata loro concessa, era un calcolo di convenienza dei padroni della società dei consumi. Una merce come un´altra. Ricordo la contestazione a Venezia. Ricordo Pier Paolo a Ca´ Foscari accolto dagli studenti - "Vi odio cari studenti" aveva scritto nella famosa poesia - a fischi e sputi. Riuscì a placarli e in pochi minuti li aveva completamente sedotti».
Si può dire che il "suo" ´68 si compie con Novecento?
«Forse. Novecento viene completato quando muore Pasolini, e la sua morte segna la fine del ´68, come la morte di Moro qualche anno dopo. Il film esce nel ´76, nel momento magico Moro-Berlinguer, del sogno del compromesso storico. È il frutto di quella grande tensione - e il mio omaggio - che porta alle elezioni del quasi-sorpasso. Adesso che siamo vicinissimi a nuove elezioni m´interrogo su che cosa votare, per la prima volta, con imbarazzo: ho sempre saputo come votare. So che nessuno può prescindere dal "ricatto" che se non voti Partito Democratico dai una possibilità in più a Berlusconi. Io non riesco a credere che più di metà degli italiani dopo cinque anni di regime berlusconiano voglia riprovarci. Dopo aver rivisto Novecento di cui si era appena festeggiato il trentennale ho risposto a Veltroni e Bettini che non me la sentivo di essere uno dei "testimonial" della nascita del Partito Democratico. Mi attraeva ma era un po´ come rinnegare Novecento, come Walter e Goffredo hanno rinnegato molto dell´eredità del Pci. Ma non riuscivo a spiegarmi bene questo sentimento. Che cosa rinnegherei? Mi sono chiesto. E mi sono risposto con un´altra domanda: che io sia ancora comunista? Se Saramago e anche Hobsbawm continuano a dirsi comunisti in fondo potrei anche io. Finché esistono grandi disuguaglianze, finché esistono così tante persone che soffrono possiamo continuare a dirci comunisti. So anche che oggi comunista è necessariamente inteso come sinonimo di Stalin e Gulag. Per me invece conserva un´aura. In me quella parola continua a suscitare emozione».
Allora potrebbe votare i partiti che ancora portano quel nome?
«Non è una questione di nome. Sento di non dare un dolore all´amico Veltroni se rivendico la legittimità di votarlo dicendomi ancora comunista».
Lei ha prediletto i perdenti, da Ultimo tango all´Ultimo imperatore. Riprendendo il filo dal ´68: chi ha vinto e chi ha perso?
«Non sono capace di rispondere. È vero che ho raccontato spesso dei loosers. Ma nel caso di queste elezioni la vittoria è molto più importante dei miei umori personali. Ho l´impressione che qui siamo tutti un po´ perdenti. Lo leggo nell´addossare al ´68 le colpe di tutto il peggio che è venuto dopo. Nel rifiuto di quel vento di libertà. Un anno fa ho scritto una lettera a Repubblica dove mi chiedevo perché la parola "cultura" sia così dribblata dalla politica. E perché è così accettata la presenza di Berlusconi, anomala agli occhi di chi ci guarda da fuori: nessuno all´estero capisce come sia ammissibile tanto potere politico nelle mani del più grande padrone di tv e giornali. Ma la cosa che gli è più riuscita è stata l´anestetizzazione delle menti di chi giorno per giorno si mette davanti alla tv. La sistematica non-cultura ha addormentato se non accecato una considerevole parte degli italiani».

Corriere della Sera 12.4.08
Confronti A partire dal 2000 la media dei decessi ogni anno è stata di 1.376 casi accertati
Statistiche Nei dati ufficiali non compaiono le cifre che riguardano i lavoratori pagati in nero
L'Italia e le morti bianche Come un secolo fa
Al primo posto in Europa per incidenti sul lavoro
di Gian Antonio Stella


Il muratore calabrese Nicola Coniglio, morto precipitando giù da un'impalcatura nel pieno centro di Perugia, non aveva forse mai visto le foto che Lewis W. Hine scattò nel 1930 durante la costruzione dell'Empire
State Building. Ma c'è un filo rosso che unisce lui e tanti altri a quegli operai fermati nelle straordinarie immagini del grande fotografo. Appesi come «Icarus» a un cavo nel cielo di New York. Intenti a stringere bulloni a trecento metri da terra, una mano a reggere l'appoggio e l'altra a stringere la chiave inglese. Seduti in fila su una traversina sospesa nel vuoto.
Quasi ottant'anni dopo, non è cambiato quasi niente. E migliaia di manovali vengono ogni giorno mandati su per le impalcature a lavorare così. Senza un casco, senza una imbragatura, senza un minimo di protezione contro gli infortuni. E come allora, quando morirono in cinque (senza contare le decine di feriti) nel cantiere del grande grattacielo newyorkese, continuano a cadere oggi. A grappoli. Basti dire che, di tutte le morti bianche sul lavoro, quelle nell'edilizia sono un quarto.
Marco Rovelli, un giovane insegnante, musicista e scrittore già autore di «Lager italiani » sui centri di permanenza temporanei, ha fatto un lungo viaggio tra i dolori, i lutti, gli scandali dei morti sul lavoro.
Si intitola «Lavorare uccide», è edito dalla Bur (Rizzoli) e arriva in libreria mercoledì prossimo. Ricco di storie, di testimonianze, di numeri: «Nel 42,5% dei casi si muore cadendo dall'alto. Nel 20,8% dei casi si muore travolti da una gru, da un carrello elevatore, da una ruspa. Nel 14,9% dei casi si muore colpiti da materiali da lavoro. Nel 10,6% dei casi si muore coinvolti dal crollo di un ponteggio o di un'altra struttura. Nel 5,5% dei casi si muore folgorati. Insomma si muore come si moriva decenni fa, nonostante, nel frattempo, le tecnologie disponibili siano migliorate di molto». Nel 2007, nei soli cantieri edili, hanno perso la vita in 235. Un po' meno che l'anno prima, ma molti di più che due anni fa, quando erano stati «solo» 191.
Uno su due muore al Nord, almeno uno su sei è un immigrato.
La precisazione «almeno» è obbligata. Come spiega Rovelli, in una realtà in cui il lavoro nero rappresenta una quota altissima, soprattutto nel Mezzogiorno, non è raro che il corpo di qualche poveretto venga rimosso in tutta fretta per simulare un incidente stradale. O più semplicemente venga fatto sparire.
Tanto, chi se ne accorge, degli immigrati? «A fine 2006 la polizia polacca fece circolare un appello: più di cento polacchi erano scomparsi dopo essere partiti per la raccolta dei pomodori. E, nello stesso periodo, la polizia italiana apriva un'indagine su una ventina di polacchi morti bruciati, affogati, strangolati, investiti nella zona del Tavoliere. E ti viene facile pensare che magari alcuni di loro sono stati inghiottiti da quelle morti bianchissime, cancellate, occultate, perché il padrone non può vedersi smascherato... ». Statistiche dell'Inail alla mano, abbiamo avuto a partire dal 2000 una media di 1376 morti l'anno. Troppi. Tolti i casi di chi ha lasciato la pelle negli incidenti stradali mentre andava al lavoro, la cui citazione da parte del vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei ha scatenato l'iradiddio di polemiche, siamo comunque primi nella classifica più terribile con 944 vittime contro le 804 della Germania e le 743 della Francia. Di più, tolta la Spagna, messa perfino peggio di noi, siamo in testa alla tabella degli incidenti mortali in rapporto al Pil: 68 ogni dieci miliardi di euro noi, 45 la Francia, 36 la Germania, solo 12 la Gran Bretagna. Un sesto.
Colpa della superficialità criminale di troppi «caporali» che rastrellano manodopera disperata e la affittano ad imprese clandestine a quaranta euro al giorno dei quali la metà va al lavoratore. Colpa della ignobile catena di subappalti subappaltati a subappaltatori che subappaltano col risultato che quando la magistratura condanna l'impresa a risarcire le vittime salta fuori che spesso i colpevoli risultano nullatenenti. Colpa della mancanza di controlli. Rivelata anche da un dettaglio di cui gli stessi lettori si saranno accorti: ma vi pare possibile che così tanti giovani muoiano il primo giorno di lavoro? Uno su sette, dicono i numeri ufficiali. Dietro, però, è probabile che ci sia dell'altro. Cioè che l'assunzione venga fatta spesso «dopo» l'incidente. Quando proprio non è possibile far sparire tutto.
La legge Bersani dell'agosto 2006, ricorda «Lavorare uccide», ha tentato di «mettere una toppa, imponendo di comunicare al Centro per l'Impiego l'assunzione di un lavoratore almeno un giorno prima della sua effettiva entrata in servizio. Ma la sanzione è talmente bassa — da 100 a 500 euro — che viene da chiedersi quanto sia efficace. Insomma, all'imprenditore può convenire sempre rischiare... ».
C'è di tutto, nel percorso di Rovelli. La storia di Gianfranco Viglizzo, caduto dal tetto di una cartiera in una vasca «piena di pastacarta, un impasto liquido dove si sprofonda come nelle sabbie mobili». E di Bogdan Mihalcea, morto come un topo mentre controllava un tombino, «portato via da un'ondata di melma di fogna ».
E di quelli che muoiono lentamente, come gli operai giuliani che per anni hanno lavorato con le fibre di amianto che «penetrano le fibre della pleura, poi d'un tratto, anche a cinquant'anni di distanza, si risvegliano e ti annegano di liquido in un mese». Nell'area di Monfalcone, «secondo il normale tasso di incidenza, ci sarebbe dovuto essere un caso ogni diciassette anni. Invece negli ultimi vent'anni sono stati duecentoquaranta solo a Monfalcone, e seicento complessivamente nella fascia costiera fino a Trieste. A Monfalcone più o meno tutte le famiglie hanno il proprio morto da amianto».
Andrea Gagliardoni aveva smesso il turno di notte alle dieci di sera, aveva dovuto riprendere alle cinque di mattina, era stanco morto e quando la macchina tampografica che imprimeva inchiostro sui frontalini degli elettrodomestici mostrò di stampare male, fece quello che gli avevano detto di fare: mise la pressa in stand-by e ci si infilò sotto per controllare gli inchiostri. Solo che la macchina, come già era successo, ripartì da sola. Schiaccandolo sotto un peso di otto tonnellate. Una «fatalità» omicida: invece di tre sistemi di sicurezza ne aveva uno, per di più rimosso per accelerare i tempi.
«È stata una morte annunciata», racconta la madre, Graziella, che ogni mese torna all'Asoplast di Ortezzano, in provincia di Ascoli Piceno, a portare un fiore là dove il figlio è morto: «Gli operai li avevano avvertiti, i loro capi. Ma la pressa era rimasta in funzione. Siccome il manutentore specializzato non era disponibile, era stato chiamato un elettricista del posto a metterci le mani. Ma la macchina aveva continuato a funzionare male». Era un martedì, il giorno in cui restò lì sotto. Aveva ventitrè anni.

Corriere della Sera 12.4.08
Rivelazioni. Un ex agente dei servizi: riunioni alla Casa Bianca
Fu la Rice ad autorizzare la tortura per i detenuti
Ora più difficile per Condi un «ticket» con McCain
Il candidato repubblicano alla Casa Bianca, torturato nelle carceri del Vietnam, è da sempre contrario agli interrogatori violenti
di P. Val.


WASHINGTON — I vertici dell'Amministrazione Bush discussero nei dettagli e approvarono l'uso della tortura negli interrogatori dei presunti terroristi di al-Qaeda, in una serie di riunioni presiedute da Condoleezza Rice, allora consigliere per la sicurezza nazionale, nella situation room della Casa Bianca.
Rivelata da Abc News e confermata all'Associated Press da un ex agente dei servizi americani, la notizia scioglie i dubbi e gli equivoci che hanno sempre circondato l'atteggiamento del governo di Washington sull'impiego del waterboarding
(che produce negli interrogati la sensazione di annegare) e di altri metodi come schiaffi e privazione del sonno.
Con la Rice, agli incontri presero parte anche il vice-presidente Cheney, il segretario di Stato Colin Powell, il ministro della Giustizia John Ashcroft e il capo della Cia, George Tenet. Secondo la Abc, i partecipanti ebbero cura di non coinvolgere direttamente il presidente nelle discussioni. Né la Casa Bianca, né alcuno dei protagonisti hanno voluto ieri rilasciare dichiarazioni.
L'ex agente ha spiegato che le discussioni durarono mesi e che Cheney e gli altri parteciparono direttamente alla stesura del programma di interrogatori, dei metodi da usare, chiedendo a più riprese pareri legali al ministero della Giustizia. Non tutti si dissero d'accordo. A sollevare obiezioni furono Powell e perfino l'Attorney General, Ashcroft, che pure era considerato un falco: «Perché discutiamo di questo alla Casa Bianca? La storia non lo giudicherà con favore», avrebbe detto quest'ultimo durante una delle riunioni. Ma nessuno si oppose al via libero finale.
Secondo l'Abc, a svolgere un ruolo decisivo nell'autorizzare l'uso della tortura fu Condoleezza Rice, avvicinata dai vertici della Cia subito dopo lo scoppio dello scandalo di Abu Ghraib, la prigione dove soldati americani torturarono e umiliarono i prigionieri iracheni con il beneplacito del Pentagono. L'attuale segretario di Stato spinse in avanti il programma: «Questa è la vostra creatura, andate avanti», avrebbe detto Rice agli uomini della Cia, che spiegavano e illustravano fin nei dettagli tutte le cosiddette «tecniche avanzate d'interrogazione », gergo per le torture.
La rivelazione potrebbe nuocere a Rice, il cui nome è stato fatto come possibile ipotesi per la vice-presidenza, insieme al candidato repubblicano John McCain. Quest'ultimo, torturato nelle carceri del Vietnam dove fu prigioniero per oltre 5 anni, è da sempre contrario a ogni forma di tortura: «La nostra credibilità morale - ama dire McCain - è la migliore arma nella guerra al terrorismo». Anche se i sondaggi danno il tandem McCain- Rice davanti al cosiddetto «dream-team» democratico, con Obama e Hillary Clinton, sembra improbabile che il senatore repubblicano sacrifichi i principi in nome dell'eleggibilità.

Corriere della Sera 12.4.08
Memoria Iniziativa per rievocare il ruolo della Reichsbahn nella Shoah
Il treno dell'Olocausto boicottato dalle Ferrovie
Negata la stazione di Berlino. Oggi la protesta
Gli organizzatori: «Posizione indegna, incoraggia l'estrema destra e danneggia la Germania»
di Danilo Taino


BERLINO — Furono le ferrovie la chiave logistica che permise lo straordinario «successo organizzativo» dell'Olocausto. E furono le stazioni gli unici luoghi in cui i tedeschi poterono vedere, in presa diretta, come funzionava lo sterminio progettato dai nazisti. La Reichsbahn - le ferrovie del Terzo Reich - ebbe cioè una funzione centrale nel trasporto degli ebrei ai campi di concentramento. Qualcosa che vale la pena ricordare. A quanto pare, però, i dirigenti della Deutsche Bahn - il gestore attuale di binari, treni e stazioni non sopportano di parlare di quegli anni.
Il Comitato Internazionale Auschwitz, un'organizzazione con sede a Berlino, aveva pensato fosse solo logico organizzare un Treno della Memoria che portasse in giro per la Germania una mostra dedicata al ruolo delle ferrovie naziste. Quindi, ha organizzato una locomotiva con quattro vagoni pieni di materiale che testimonia la deportazione di un milione e mezzo di bambini e giovani ebrei e rom che, tra il 1940 e il '44, da tutta Europa, Russia compresa, furono avviati ai campi di sterminio. Le ferrovie e il loro presidente, Hartmut Mehdon, avrebbero però fatto di tutto per boicottare l'iniziativa - accusa il Comitato - , fino a negare al treno- mostra l'ingresso nella stazione centrale di Berlino, domani. Tanto che oggi gli organizzatori della mostra viaggiante terranno una manifestazione davanti alla Porta di Brandeburgo, nella capitale, che poi raggiungerà il quartier generale della Deutsche Bahn.
Il Treno della memoria è partito lo scorso novembre da Francoforte e ha ormai toccato una trentina di stazioni, dove si è fermato ed è stato visitato da migliaia di persone. E' previsto che, dopo tremila chilometri, arrivi in Polonia, ad Auschwitz, l'8 maggio, anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Europa. Che ci sarebbero state tensioni si è però capito presto. Mehdon, per dire, pare non abbia fatto alcuno sconto agli organizzatori del viaggio commemorativo: chiede che paghino tra i 70 e i centomila euro per l'utilizzo dei binari e per le soste nelle stazioni. Non solo: il Comitato Auschwitz aveva chiesto di fermarsi anche nella nuova Hauptbahnhof di Berlino che guarda gli edifici del Bundestag e della Cancelleria. Permesso negato per la ragione che la locomotiva avrebbe costretto le ferrovie a disinnescare i sistemi di allarme anti-incendio della stazione. A Berlino, solo in periferia.
Costernazione degli organizzatori. Il presidente del Comitato Auschwitz, Noach Flug, ha accusato Mehdon e le ferrovie di tenere «una posizione indegna », di danneggiare la reputazione della Germania e di «incoraggiare i gruppi di estrema destra in Europa». Parole di fuoco, che Deutsche Bahn ha respinto sostenendo di non avere mai voluto cancellare le tracce della storia, per quanto orribili. Il fatto è che già nell'ottobre 2006 Mehdon era stato al centro di una polemica simile.
Il ministro dei Trasporti, Wolfgang Tiefensee, voleva organizzare una mostra dello stesso genere nelle stazioni tedesche, organizzata in quel caso da Beate Klarsfeld, la famosa casalinga che per anni è stata tra i protagonisti della caccia agli ex nazisti. La mostra - intitolata «Undicimila bambini ebrei: con la Reichsbahn verso la morte» - era già stata vista nelle stazioni francesi con enorme successo, sembrava ovvio fare lo stesso in Germania. Mehdon, però, non diede il permesso, sollevando questioni tecniche e finanziarie. E aggiunse: «Il soggetto è troppo serio perché la gente lo affronti mentre mastica un sandwich o corre per prendere un treno».

Corriere della Sera 12.4.08
Un articolo del Nobel che ha scoperto l'origine delle galassie
Energia oscura, l'enigma dell'universo che accelera
«Einstein l'aveva previsto ma non c'è spiegazione»
di George Smoot, Nobel nel 2006


La scoperta ottenuta dieci anni fa dell'espansione a un ritmo crescente dell'universo risultò sconcertante. Nel 1998, due gruppi che studiavano le supernovae distanti di «tipo Ia» dimostrarono indipendentemente l'aumento di questa velocità di espansione. Sin dalla scoperta di Edwin Hubble nel 1929 della fuga delle galassie, i cosmologi avevano cercato di misurare il rallentamento dei corpi galattici dovuto alla gravità. Quindi la scoperta dell'accelerazione cosmica, che va nella direzione contraria, rappresenta uno dei progressi più importanti della moderna astronomia.
Essa rappresenta l'ultimo importante tassello dell'attuale modello cosmologico, secondo cui l'universo è composto per il 4% da materia ordinaria, per il 20% da materia oscura e per il 76% da energia oscura, così battezzate perchè non se ne conosce la natura. E questo è oggi uno dei misteri più profondi di tutta la scienza. Diverse sono le ipotesi elaborate per spiegare l'enigma. L'accelerazione cosmica potrebbe derivare dalla forza di gravità repulsiva dell'energia oscura e potrebbe smentire la teoria einsteiniana della relatività generale di gravitazione che sarebbe quindi da sostituire o modificare in modo sostanziale.
Una storia intricata collega l'energia oscura alla «costante cosmologica » proposta da Einstein a cui è collegata l'accelerazione in questione. Poiché la gravitazione era stata sempre considerata come forza attrattiva, Einstein aveva bisogno di una forza repulsiva per mantenere un equilibrio atto a produrre l'universo statico considerato all'epoca il modello esatto. Così introdusse la sua costante nelle equazioni di campo della relatività generale del 1917 e delineare un modello cosmologico statico e finito. La scoperta dell'espansione dell'universo di Hubble il fondamento logico della costante cosmologica sembrava, quindi, sfumare. Invece cinquant'anni dopo, Yakov Zeldovich, il padre della bomba all'idrogeno sovietica poi finito agli arresti domiciliari in quanto dissidente, dimostrava che la costante di Einstein sull'accelerazione era matematicamente valida.
Nella teoria quantistica di campo, lo stato di vuoto è riempito da particelle virtuali e i loro effetti venivano misurati negli spostamenti di linee atomiche e in masse di particelle. La densità di energia del vuoto avrebbe esattamente lo stesso effetto della costante cosmologica la quale rappresenta la spiegazione più semplice dell'accelerazione dell'espansione dell'universo. Inoltre essa coincide con le osservazioni compiute in particolare sulle supernovae e sugli agglomerati di galassie e con gli studi sul fondo cosmico a microonde: tutti confermano l'eccezionalità della scoperta.
Tuttavia, l'origine fisica dell'accelerazione cosmica resta un grande mistero. Secondo la relatività generale, se l'universo è riempito di materia ordinaria o di radiazioni, le due componenti conosciute del cosmo, la gravità dovrebbe determinare un rallentamento dell'espansione. Poiché invece essa sta accelerando, ci troviamo di fronte a due possibilità, ciascuna delle quali avrebbe profonde implicazioni nella nostra comprensione dell'universo e per le leggi della fisica.
La prima è che il 75% della densità energetica dell'universo esiste in una nuova forma esercitando una grande pressione negativa, chiamata energia scura. L'energia legata al vuoto avrebbe esattamente questa proprietà. L'altra possibilità è il crollo della teoria della relatività generale su scale cosmologiche che, pertanto, deve essere sostituita con una teoria più completa di gravità.
Ci troviamo allora ad affrontare un altro problema: se la relatività generale è corretta ed esiste un altro componente dell'universo chiamato energia oscura, questa energia è qualcosa di simile all'energia fissa del vuoto o è un nuovo campo che può passare attraverso transizioni di fase, analogamente all'acqua che si trasforma in ghiaccio? Se è un'energia fissa, allora l'universo continuerà a espandersi per sempre. Se invece l'energia oscura può cambiare stato, allora potrebbe modificarsi da quello repulsivo a quello attrattivo e l'universo potrebbe rallentare la sua velocità di espansione ed eventualmente collassare. Il destino finale del cosmo dipende, insomma, dalla capacità di stabilire se l'energia oscura è una nuova teoria gravitazionale, un'energia fissa del vuoto, oppure un nuovo campo energetico. Questa è la risposta che cerchiamo di dare. È molto improbabile che la definizione completa all'importante quesito dipenda da una singola osservazione o da una serie di osservazioni tramite un'unica tecnica, poiché si potrebbe modificare ciascuna di queste alternative per far coincidere i risultati del singolo approccio a causa della nostra limitata prospettiva. Solo diversi approcci e osservazioni precise con verifiche incrociate possono allora consentire una distinzione arrivando all'ambito risultato.

Corriere della Sera 12.4.08
Documenti Recuperate le prime lezioni del filosofo sull'arte
La bellezza è libertà: e Heidegger annunciò la scoperta di Schiller
di Armando Torno


Heidegger riserva continuamente sorprese. Una sua ricerca, un viaggio, un corso suggeriscono sempre idee utili alla cultura contemporanea. Così è di un seminario tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1936-37, dedicato alle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo di Schiller, del quale è andato perduto il testo originale e restano soltanto frammentarie annotazioni. Le pagine non figurano nell'edizione tedesca in corso delle opere del filosofo, ma alcuni partecipanti presero appunti. Grazie a uno di essi, il medico attempato Wilhelm Hallwachs (era nato nel 1872 e seguiva il maestro dal 1930), è possibile ricostruire i dodici incontri, tra il 4 novembre 1936 e il 17 febbraio 1937.
Che importanza può avere un seminario su Schiller del pensatore tedesco? Diremo innanzitutto che le pagine, nate in un corso per matricole, affrontano temi di grande portata e riflettono una scelta esistenziale, giacché in quel tempo Heidegger resta appartato. C'è tuttavia qualcosa di più: come ben nota il curatore dell'edizione italiana, Adriano Ardovino, l'Introduzione all'estetica (uscita ora da Carocci) è un documento prezioso in cui si riflette «la definitiva centralità dell'arte all'interno di un pensiero che valorizza sempre più la storicità dell'esistenza umana». La posta in gioco è alta: Heidegger mostra — utilizziamo le conclusioni presenti nell'edizione italiana — come le Lettere di Schiller rappresentino uno dei tentativi più profondi per ritrovare nella riappropriazione estetica della natura sensibile la storia della libertà umana.
Il filosofo si lasciava alle spalle non poche questioni e alla fine del 1935 in una conferenza a Friburgo, ripetuta a Zurigo all'inizio del 1936, esponeva per la prima volta le sue tesi sull'arte, sulle quali si baserà l'opera definitiva L'origine dell'opera d'arte (tradotta dall'editore Marinotti). Quel 1936 fu un anno di studi, di domande, di tristezze. Schiller è anche un rifugio. Cosa racchiudono veramente queste lezioni?
Cominciamo a rispondere, ricordando che nella primavera — sempre del 1936 — il filosofo è invitato a Roma per dieci giorni. È la prima volta che vede il nostro Paese e ne visita la capitale. Il 2 aprile tiene la conferenza Hölderlin e l'essenza della poesia all'Istituto italiano di studi germanici, dove lo accoglie un pubblico entusiasta; l'8 legge alla Biblioteca Hertziana un testo dal titolo L'Europa e la filosofia tedesca. Rivede, tra i molti, il suo allievo Karl Löwith che, fuggito dal Reich, vive a Roma grazie a una borsa di studio ottenuta per interessamento dello stesso Heidegger. Non passerà molto tempo e dovrà riparare in Giappone.
Tornato in patria, ha uno scambio di corrispondenze e di testi con Jaspers. Emergono le difficoltà di entrambi: uno si sente emarginato, l'altro è preoccupato («...mi si blocca la parola! Nell'operosità silenziosa, però, finché è concesso, possiamo trovarci»). Non è difficile, d'altra parte, per Jaspers prevedere tempi difficili: avendo sposato un'ebrea, nel 1937 gli verrà interdetta la possibilità di insegnare e dal 1938 ogni pubblicazione. Anche Heidegger non sa più cosa siano i giorni di gloria: il 14 maggio il partito ordina accertamenti sulla sua attività, il 29 le informazioni raccolte sono inoltrate al Sicherheitsdienst (il servizio di sicurezza del Reich) e viene decisa la sorveglianza del filosofo.
In quei mesi, tuttavia, l'autore di Essere e tempo è come se guardasse altrove; abbandona sempre più quel che gli sembra superfluo e si immerge nelle ricerche, elaborando testi per i corsi. Tiene quello estivo del 1936 sul saggio dedicato da Schelling alla libertà, ed esercitazioni sulla Critica del giudizio di Kant, né dimentica Hölderlin e Nietzsche (pensa in quei giorni alle lezioni su «La volontà di potenza come arte»), mentre medita qualcosa per il Congresso internazionale su Cartesio del 1937 a Parigi, città dove si sarebbe recato nel-l'estate del 1935 per predisporre la strategia dell'evento (non ci andrà, la delegazione tedesca verrà guidata da Hans Heyse). Poi le lezioni su Schiller. Sembrano l'ultima fuga in una dimensione dove abita un'altra luce. Il 20 gennaio 1937 proferisce al seminario la frase: «I popoli si destano al loro inizio con la poesia e con la fuoruscita da essa giungono alla fine»; e sottolinea: «Nel colloquio, noi viviamo nel linguaggio ». Il 10 febbraio, quasi alla conclusione, afferma: «La forma è tutto. L'apparenza è l'essenza dell'arte. La bellezza è libertà del fenomeno. (Lo stato estetico è la prima forma di libertà, ossia ricettività spontanea). Libertà e forma devono essere lo stesso. Che significa libertà? Ciò che si determina da se stesso». Heidegger aveva dunque trovato nella bellezza la libertà, nella poesia il battito del cuore delle civiltà. Per questo poteva ripetere nella lezione del 2 dicembre 1936 con l'amato Schiller: «Le nature volgari pagano con ciò che fanno, quelle nobili con ciò che sono!».

Corriere della Sera 12.4.08
Religioni. Il norvegese Bondevik: spaventosa e banale, scriviamo Geenna
«Via la parola Inferno dalla Bibbia» Il vescovo luterano cambia traduzione
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Uno come Urs von Balthasar, il grande teologo e cardinale, a suo tempo disse che l'inferno esiste, ma è vuoto di anime. Ma c'è anche chi, al luogo fiammeggiante della penitenza eterna, ha deciso senz'altro di cambiar nome: è il caso di Odd Bondevik, vescovo luterano e direttore della Società biblistica norvegese, che nella prossima traduzione della Bibbia abolirà proprio la parola «inferno» per sostituirla con «geenna », dall'ebraico ge-hinnom o «valle di Innom» nei pressi di Gerusalemme, che ha poi lo stesso significato, e con questo significato compare in vari passi del Nuovo e dell'Antico Testamento (ma non così spesso come «inferno»). Motivazione del cambio: «inferno», dicono Bondevik e altri biblisti, «sa di Medioevo» è troppo «spaventoso » e insieme «super-banalizzato», per come è usato in continuazione nel linguaggio quotidiano. Insomma: da un lato, sarebbe un termine che fa venire brividi superati e, dall'altro, si dice ormai «va all'inferno» o «quella serata è stata un inferno», in un tono salottiero che farebbe indignare Dante, e forse delizierebbe Mefistofele, storicamente attento a ogni possibilità di mimetizzazione. «Geenna», valle dove — secondo la tradizione — un tempo si bruciavano cadaveri e rifiuti, avrebbe invece un suono meno sconvolgente, e un senso più preciso.
Molti però, sui giornali e sul Web, contestano la tesi di Bondevik, personaggio di peso anche politicamente (è figlio di un noto deputato e cugino di un ex-primo ministro). La contestano, un po' perché «Gehenna» è già il nome di un complesso musicale «black metal». E un po' perché, anche se i veri praticanti sono molti di meno, l'85% dei norvegesi aderisce alla chiesa luterana ed è sensibile a certi temi, non li percepisce come banali. Secondo un sondaggio fatto pochi mesi fa, il 51,6% della popolazione crede in Dio, e il 40,3% nella resurrezione di Cristo: «ma chi crede in Dio e nel paradiso, crede anche nel diavolo e nell'inferno » sostiene uno dei critici di Bondevik.
La polemica è attizzata anche dal momento politico. Fino a due giorni fa, il luteranesimo era la religione ufficiale di Stato, ma ora i 7 maggiori partiti si sono accordati su una modifica alla Costituzione: parole più vaghe, «i valori di base della nostra nazione risiedono nella nostra tradizione cristiana e umanistica». Anche nella vicina Svezia, Mefistofele fa discutere: il caporedattore di un giornale è stato minacciato di morte per aver pubblicato il manifesto di un concerto punk, dove un diavolo balza fuori dalle fiamme e si beffa con gesti osceni di un uomo crocifisso.

venerdì 11 aprile 2008

Repubblica 11.4.08
L’idea del male nei rapporti sessuali

Gentile Augias, ho letto su la Repubblica l'articolo «No alla pillola del giorno dopo. Pisa, la Procura apre un'inchiesta» e sono riuscita a dare voce a un interrogativo che mi girava nella mente da tempo. Se le leggi servono a regolare i rapporti fra gli individui in modo che non prevalga il diritto dell'uno su quello dell'altro (ovvero, il sopruso), com'è possibile che esista, soprattutto nel caso della pillola del giorno dopo, la possibilità dell'obiezione di coscienza? Come si può opporre la propria coscienza a una scelta che riguarda un'altra persona ed è tutelata da una legge dello Stato? La Procura infatti ha aperto un'inchiesta ma anche il ministro della salute Livia Turco non è stata chiara. Ribadisce, sì, che la pillola del giorno dopo non è una pillola abortiva, però non afferma che allora non esiste diritto all'obiezione di coscienza; dice solo che dovrebbe essere garantita la presenza di personale e medici non obiettori nei pronto soccorso e nelle guardie mediche. Il ragionamento dovrebbe comunque estendersi anche al diritto all'aborto, perché il riconoscimento dell'obiezione di coscienza nelle strutture pubbliche va sempre a detrimento del singolo che si vede negato un diritto tutelato dalla legge. Come mai è così esteso il diritto di obiezione solo nel caso di leggi che riguardano una scelta delle donne?
Susanna Sinigaglia susanna.sinigaglia@inwind.it

Ogni giorno ricevo lettere di donne costrette all'umiliante serie dei rifiuti, di medico in medico, di ospedale in ospedale, per ottenere la prescrizione ad un medicinale che in Europa, ricordo, viene spesso distribuito nei dispensari delle scuole. La pillola del giorno dopo è un contraccettivo non un abortivo, tecnicamente non è diverso dalla pillola presa ogni giorno che impedisce l'ovulazione o da un qualsiasi contraccettivo meccanico maschile o femminile che blocca il cammino dello spermatozoo verso l'ovulo. A questo dunque si oppongono gli obiettori: la scelta consapevole di una donna che non desidera trasformare un rapporto in gravidanza.
Una materia nella quale nessuno ha diritto di interferire. A meno di non voler tirare in ballo la dottrina che vieta i rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione. Ma questa (ammesso che sia ancora in vigore) è materia di fede. Era il motto ricamato sulle camice da notte delle bisnonne che recitava «Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio». Uno degli aspetti vergognosi di questa trafila è la sua ipocrisia. Non si ha coraggio di affrontare frontalmente il problema perché tutti sanno che uno scontro diretto sarebbe respinto dalla maggioranza degli italiani. Allora si lavora sui fianchi, si cerca il logoramento lento, la malizia trasversale, il diniego motivato dalle ragioni più varie non escluse quelle della convenienza spicciola, oppure della battaglia ideologica. Dimentichi che è in ballo l'applicazione di una legge la quale solo nei paesi islamici non ha la precedenza sulla valutazione del possibile `peccato'.

Repubblica 11.4.08
L'opera narrativa di Suhrawardi
di Pietro Citati


Compose anche alcuni bellissimi e singolarissimi testi brevi che sono insieme apologhi e trattati: sarebbero piaciuti a Franz Kafka
Una notte si sentì avvolto da una nuvola di letizia e gli apparve Aristotele: lo incitava a non contentarsi della conoscenza ordinaria
Il capolavoro filosofico si intitola "La sapienza dell´illuminazione" dettata dallo Spirito Santo in una meravigliosa giornata
Il filosofo nacque nel 1155 in Iran e compì i suoi studi a Isfahan dove era ancora vivo l’insegnamento di Avicenna. Poi vagabondò senza fine e morì o forse fu ucciso a trentasei anni

Shihab al-din Yahya Suhrawardi nacque, nel 1155, a Suhraward, nella parte settentrionale dell´Iran, dove esistevano ancora gruppi di Zoroastriani, fedeli all´antica religione della Persia. Studiò logica, filosofia e giurisprudenza a Maragha: poi compì gli studi a Isfahan, dove era vivo l´insegnamento di Avicenna, il più famoso filosofo persiano. Uno dei suoi amici disse di lui: «Di quale fuoco, di quale splendore d´aurora brilla il giovane Suhrawardi! Non ho mai incontrato nella mia vita qualcuno che gli assomigli. Ma temo per l´eccesso della sua foga, e per la sua imprudenza. Temo che questo diventi la causa della sua perdita». L´amico non aveva torto.
Anche nelle opere filosofiche di Suhrawardi avvertiamo un´esaltazione, uno slancio lirico, un desiderio di venire consumato dal fuoco della luce suprema.
Poi Suhrawardi lasciò gli studi, e cominciò a vagabondare per le strade della Siria e dell´Anatolia, indossando le vesti bianche e nere dei Sufi: vagabondare senza fine per il mondo, restare in un luogo qualche giorno o qualche mese e poi riprendere il cammino, gli sembrava l´unico modo per imitare il passo degli Angeli. Rimase qualche tempo presso due corti anatoliche. Agli inizi del 1190 raggiunse Aleppo, dove il giovane principe al-Malik al-Zahir, figlio del sultano Salah al-din, il Saladino dei Crociati, ebbe una profonda amicizia per lui. Ogni mattina, all´alba, Suhrawardi lasciava la propria stanza per contemplare il sole che sorge: così conosceva indirettamente Dio, perché il sole rappresenta, in terra, l´eco della Luce delle luci.
Alla corte di Aleppo, i dottori della legge l´accusarono di sostenere che l´epoca della profezia non si era conclusa con Maometto, il «Sigillo dei profeti»: mentre Suhrawardi diceva che la «linfa» divina fa riapparire sempre di nuovo tra i fedeli, anche quando il tempo dei profeti è finito, il fiore dell´Ispirazione segreta. I dottori della Legge accusarono Suhrawardi presso il Saladino: «Se lo lasci vivere, corromperà la fede di tuo figlio». In quest´occasione il Saladino non mostrò il volto mite e cavalleresco, che gli attribuirono i crociati cristiani. Ordinò al figlio di far uccidere Suhrawardi. Il figlio si rifiutò per due volte, e cercò disperatamente di difendere l´amico. Infine cedette. Il 29 luglio 1191, a trentasei anni, Suhrawardi morì: non sappiamo come. Qualcuno disse che venne strangolato: altri che venne decapitato o arso vivo o ucciso per fame; altri ancora che egli stesso si lasciò morire d´inedia. Così ripeté il destino di al-Hallaj, il suo vero maestro, decapitato ed arso a Baghdad, quasi tre secoli prima, per incitamento di altri maestri della legge.
Suhrawardi aveva composto quattro anni prima il suo capolavoro filosofico, La sapienza dell´illuminazione (tradotto in francese da Henry Corbin, sotto il titolo Le livre de la sagesse orientale, Verdier). Come egli raccontò, lo Spirito Santo ispirò il suo cuore in una giornata di meravigliosa bellezza. I viaggi lo costrinsero a stendere il libro in molti mesi; e lo terminò una sera del mese di Giomada II, nell´anno 582 dell´Egira (1187), quando i sette pianeti si trovavano congiunti nel segno della Bilancia. Era certo - diceva orgogliosamente - che Dio aveva divulgato, attraverso di lui, qualcosa che né gli antichi né i moderni avevano compreso. Suhrawardi cercava di far riapparire «La Saggezza dell´antica Persia»: ricordava la sapienza di Ermete Trismegisto, gli antichi filosofi greci, il «nostro maestro Platone», i pensatori neoplatonici, la Gnosi; e naturalmente il Corano, e la filosofia di Avicenna, dalla quale cercava tuttavia di distaccarsi. Aveva il sentimento di appartenere a una famiglia spirituale dispersa attraverso i tempi e gli spazi, ma che un legame invisibile rendeva solida come i rami di un grande albero. Secondo un discepolo, egli rinnovava ciò che i cicli del tempo avevano corrotto, faceva riapparire ciò che le età avevano cancellato, e risuscitava ciò che era morto e abolito.
Una notte, Suhrawardi si sentì avvolto da una nuvola di letizia, mentre una figura umana si disegnava chiaramente davanti a lui. Era il primus Magister, Aristotele, in una forma meravigliosamente bella. Gli diceva, parlando un linguaggio platonico: «Non accontentarti della conoscenza ordinaria. Devi superarla, raggiungendo la conoscenza unitiva».
Suhrawardi comprese che i suoi libri dovevano fondere filosofia e mistica. Coltivava le sottigliezze, le raffinatezze e le astuzie, che Platone, i neoplatonici e Avicenna gli avevano appreso: ma questa cultura era morta, se non si concludeva in un´esperienza mistica. Nel cuore della civiltà islamica, Suhrawardi voleva creare la filosofia della luce. Lassù, sul gradino più alto, sta La Luce delle Luci: la luce necessaria e assolutamente pura. Essa emana «la luce più prossima», l´Intelletto universale, identificato con l´antico arcangelo iranico Bahman: dalla quale derivano, con uno slancio che non conosce interruzioni, tutte le luci angeliche e spirituali, via via meno pure, fino a scendere al livello oscuro della materia.
Con quale ardore, Suhrawardi rappresenta questa incessante emanazione di luce, che attraversa lo spirito degli eletti. Quando Dio purifica il loro cuore, essi conoscono i primi lampi, che appaiono all´improvviso, accecano come spade, dividono in due il cuore ed il corpo, e scompaiono. Poi i lampi aumentano, si sovrappongono, producono forti tremiti nelle membra, toccano il cervello, il dorso e le spalle, mentre il sangue batte più intensamente.
Nella stazione successiva subentra, nell´eletto, la presenza pacificante. Ecco - dice Suhrawardi - «una luce estremamente dolce, senza somiglianze col lampo, accompagnata da una condizione di allegria sottile e tenera». Allora il filosofo-mistico legge nella mente altrui: avverte le cose nascoste, scorge forme tenui e leggerissime, osserva luci mai viste, ascolta i richiami della Luce delle Luci. Qualche volta, per l´eccesso della gioia spirituale, viene meno. Infine, nell´ultima stazione, ha luogo la grande estinzione. L´animo dimentica sé stesso, perde ogni conoscenza di sé, dimentica la propria dimenticanza, e si scioglie nello splendore divino.
***
Insieme agli scritti filosofici, Suhrawardi compose alcuni bellissimi e singolarissimi testi brevi, che sono insieme apologhi, trattati, emblemi, racconti.
Sarebbero piaciuti a Kafka, specie nel periodo del Messaggio dell´imperatore e in quello degli Aforismi di Zurau. Si tratta di undici testi, pubblicati sotto il titolo Il fruscio delle ali di Gabriele. Racconti esoterici (a cura di Nasrollah Pourjavady, traduzione di Sergio Foti, Mondadori, Islamica, pagg. XXII-230, euro 16). In questi racconti scorgiamo con occhi lucidissimi la luminosa e trasparente «città di non-dove», nella quale non incontriamo nessuna traccia di spazio e di tempo. Il fuoco dell´immaginazione visionaria - nutrita dall´antica tradizione persiana - supera ogni limite, mentre l´intelligenza filosofica osa proporre ipotesi sempre più ardite e sconvolgenti, e gioca liberamente con l´assoluto.
Un sovrano possedeva un giardino che in nessuna stagione mancava di piante profumate, di vegetazione e di acque correnti: alberi alti e snelli levavano le cime verso il cielo; e ogni specie di uccelli facevano intendere le loro modulazioni dall´estremità dei rami. Tutte le gioie che possono occupare il pensiero, e le gioie che possono offrirsi all´immaginazione, vi erano raccolte. Un giorno, il sovrano plasmò degli esseri umani, prima della loro nascita, nelle forme di pavoni dalle penne foltissime e dai colori variegati e sontuosi. Li dispose nel giardino. Lì essi ascoltavano i discorsi degli altri uccelli. Nessuna sillaba sfuggiva alla loro comprensione, nessun canto celava i propri segreti. Conoscendo la lingua degli uccelli, essi conoscevano la lingua dei misteri: intendevano i disegni di Dio, il futuro del mondo, la voce simbolica dei colori e dei suoni.
Poi venne la caduta, che Suhrawardi racconta in modi diversi. Fu una decisione del Sovrano? Oppure una trappola posta dal Destino? Un giorno i pavoni penetrarono in un bosco, dove dei cacciatori avevano teso le reti. Quando i cacciatori li scorsero, li chiamarono con un fischio sottile, penetrante e lusinghiero. Gli uccelli non avevano mai inteso una voce umana, e furono attratti da quel suono sconosciuto, che sembrava offrire nuovi piaceri all´immaginazione. Senza provare alcuna inquietudine, caddero nelle trappole. Gli anelli si chiusero strettamente sui loro colli, le reti impacciarono le loro ali, le corde si aggrovigliarono attorno alle loro zampe. Cercarono di liberarsi: gridarono implorando aiuto; ma nessuno corse in soccorso. I cacciatori li portarono in un paese straniero, dove li cucirono in rozze peli di cuoio, in modo che dimenticassero i colori delle proprie penne e la visione della propria bellezza. Poi chiusero ognuno di essi in una cesta. Il cielo scomparve, la luce fu ottenebrata. Da una fessura strettissima, una mano gettava ogni giorno un poco di miglio.
Molto tempo passò. Chiusi nella stretta cesta, avvolti nel cuoio grossolano, i pavoni persero il ricordo del giardino dove avevano trascorso la giovinezza. Quando si guardavano intorno, non vedevano che oscurità, appena interrotta da qualche bagliore, e ripugnanti pelli di cuoio. Finirono per convincersi che non esistevano luoghi più grandi del fondo del cesto; e se qualcuno avesse parlato loro del colore degli alberi, o delle loro penne verdi ed azzurre, avrebbero risposto che erano soltanto favole o menzogne. Eppure, talvolta avevano dubbi. Quando un soffio di vento portava l´odore lontano degli alberi, il profumo delle rose, delle viole e dei gelsomini, i pavoni avvertivano una dolcezza misteriosa. Quando sentivano le remote modulazioni degli altri uccelli, rinasceva la medesima nostalgia.
Una specie di ansia e di commozione si impadronì di loro. Non sapevano cosa fossero quei profumi né cosa significassero quelle voci, smarrite nei recessi della memoria. Erano turbati, e desideravano volare in un luogo lontano. Passò altro tempo. Un giorno qualcuno allargò le fessure del cesto, e i pavoni videro di nuovo sé stessi, osservarono i propri colori, il giardino e gli alberi, riconobbero i canti, le voci, lo spazio dove volare e viaggiare. Riacquistarono la memoria del loro passato, e sentirono la miseria della condizione presente. Quella notte, la mano sconosciuta liberò i pavoni anche dalla prigione di cuoio. Mossero timidamente le ali. Avevano nostalgia del cielo, e lo guardarono fissamente.
Quando videro ruotare le due Orse e contemplarono la spiga luminosa della Vergine e la fiamma tremula del Leone, pensarono di aver ritrovato la patria dimenticata. All´alba, i pavoni si trovarono sul margine del deserto, dove cominciava il «paese di non-dove». In quel momento scorsero una persona venire verso di loro, col passo del viandante esercitato alle lunghe fatiche. Era un giovane dal volto luminoso, con le guance appena tinte di porpora, i capelli di neve che scendevano in lunghe pieghe sulle spalle, e due grandi ali. «O giovane - gli chiese uno dei pavoni - , dove vai?». «Giovane? - rispose il viandante - ti sbagli se mi chiami così. Io sono uno dei più antichi figli della creazione, e da migliaia di anni percorro le valli e i deserti. Il mio nome è Gabriele». Gli uccelli ricordarono cosa avevano appreso prima di esistere. L´angelo Gabriele era il decimo Intelletto emanato dalla Luce delle Luci.
Governava il mondo degli elementi e delle anime umane, e faceva parte di questo mondo. Qualcuno tra gli uccelli sapeva che era l´angelo custode di ciascuno di loro. Mentre i raggi del sole illuminavano la terra, i pavoni si accorsero che le ali del viandante erano diverse. L´ala destra era bianchissima. Sopra quella sinistra, si stendeva una macchia rossastra, simile alla macchia di porpora tenebrosa, che copre una parte della luna. «La mia ala destra - disse Gabriele - è sempre rivolta verso la luce del cielo. Quando la muovo, nascono tra gli uccelli le anime luminose, i profeti, le pure visioni spirituali, i sogni rivelatori. L´ala sinistra dimostra che anch´io, come voi, sono stato gettato nel pozzo oscuro del destino. Appena un leggerissimo fruscio della mia ala scende nel vostro mondo, accadono gli eventi, i fenomeni, i miraggi, le illusioni, i casi, i gridi di sventura. Essa è rossastra perché la porpora è un colore intermedio. Osservate il tramonto e l´alba. Entrambi sono rivolti sia verso la luce del giorno sia verso la notte; e tanto il crepuscolo del mattino quanto quello della sera ci paiono irraggiati di porpora. Anche voi, divisi tra la luce e la tenebra, irraggiate ai miei occhi un riflesso di porpora».
Gabriele scomparve. La ricerca felice e disperata dei pavoni continuò. Essi intesero la musica delle stelle: un suono che giungeva all´udito come il pauroso fragore di una catena di metallo trascinata sopra una massiccia scogliera. I muscoli del corpo sembrarono lacerarsi, e le loro giunture sciogliersi per la terribile estasi. Poi i pavoni si purificarono nell´acqua della sorgente della vita. Col becco si liberarono dalle penne, e presero il volo, come se soltanto rinunciando allo splendore sontuoso del piumaggio, alla bellezza che avevano tanto amato, potessero raggiungere la meta dei loro desideri.
Le ali dei pavoni batterono sempre più stancamente nello spazio, finché toccarono la montagna di Qaf, la quale simboleggiava, per i persiani, la nona sfera celeste. Avevano ritrovato la patria: potevano vedere in basso, come zaffiri e smeraldi e ametiste e topazi incastonati nel cielo, le stelle e le costellazioni: le due Orse e Sirio, il Dragone, lo Scorpione, Arturo, Boote, la Vergine, Andromeda, Ariete ed i Pesci. Rimasero sotto l´ombra della montagna di Qaf mille anni - mille anni che, per La Luce delle Luci, non sono più lunghi di un mattino.
Infine conobbero il Simorgh: un immenso uccello dalle ali sfolgoranti e dalla lunghissima coda variopinta, che riuniva in sé le proprietà di ogni animale conosciuto - grifone ed usignolo, aquila e leone, dragone, tigre ed antilope - e fondeva nel suo sguardo la dolcezza e il rigore, la crudeltà e la benevolenza. Portava molti nomi: «la grande luce», «la più prossima delle luci», l´arcangelo zoroastriano Bahman, l´Intelletto universale. Era la prima emanazione luminosa che Dio aveva gettato fuori di sé. I pavoni lo osservarono attentamente; e di colpo si identificarono con lui. Il lungo viaggio spirituale era terminato. I pavoni non esistevano più. Un nuovo Simorgh volava nel cielo.
Nessun mistico aveva forse proposto un´immagine così ardita come quella di Suhrawardi. Al-Hallaj aveva proclamato: «io sono Dio»: ma voleva dire che il suo io era stato cancellato, di lui non restava nemmeno un´ombra, e in quello spazio vuoto abitava Dio. Suhrawardi osò immaginare che i pavoni (o gli uomini), esseri così miseri, che avevano vissuto prigionieri nell´oscuro carcere di cuoio, senza vedere nient´altro che una cesta, si identificavano con la prima emanazione luminosa di Dio. La loro ombra sfiorava La Luce delle luci.

Corriere della Sera 11.4.08
Contraccezione. L'assessore Montaldo (Pd): un ginecologo non obiettore sempre in servizio
L'ordine all'ospedale del cardinale: prescriva la pillola del giorno dopo
La Regione Liguria scrive al Galliera, presieduto da Bagnasco
Il caso dopo la denuncia di alcune donne sull'impossibilità di ottenere il farmaco. L'ospedale: verificheremo
di Erika Dellacasa


GENOVA — «L'ospedale Galliera deve assicurare la prescrizione della pillola del giorno dopo, come tutte le Asl liguri, non ci sono eccezioni », l'assessore alla sanità della Regione Liguria, Claudio Montaldo (Pd), sta scrivendo un nuovo capitolo dei rapporti tra la Regione e l'ospedale presieduto dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. E' successo che alcune donne abbiano segnalato la difficoltà di ottenere la prescrizione presso il Galliera. L'assessore ha chiesto spiegazioni e ha avuto dal direttore sanitario del nosocomio una risposta che, spiega Montaldo, «in sostanza attribuisce la responsabilità a un infermiere che a chi chiedeva di vedere il medico ha risposto di rivolgersi altrove. E questo perché il medico di turno era obiettore di coscienza e avrebbe rifiutato la pillola». In fondo l'infermiere cercava solo di evitare alla donna una perdita di tempo.
Nella schermaglia con l'assessorato, il Galliera ha inviato ieri mattina una lettera in cui spiega di aver aperto «una verifica interna» sull'episodio e di aver rinnovato le disposizioni affinché le donne vengano in ogni caso indirizzate dal medico che «farà le valutazioni necessarie ». In questo gioco di fioretto, però, l'assessore non ci sta a passare da ingenuo: «Ho mandato una lettera al Galliera con cui in sintesi dico che devono garantire la presenza di un medico non obiettore di coscienza in ogni turno. Nella lettera chiedo che il Galliera mi informi su come intende attuare questa direttiva regionale che è valida per tutte le Asl».
Al di fuori del linguaggio burocratico con cui sono stilate tutte le comunicazioni fra assessorato e ospedale, il succo è che il Galliera deve organizzarsi per dotare il pronto soccorso di un ginecologo non obiettore che possa prescrivere — sempre salve le valutazioni sanitarie — la pillola del giorno dopo. L'assessore non aspetta un sì o un no, la direttiva impegna il Galliera a dare seguito alle disposizioni della Regione, l'ospedale deve ora informare l'assessorato su «come » intende attuarle.
Fino a pochissimo tempo fa il Galliera non aveva ginecologi non obiettori di coscienza, solo ultimamente sono stati assunti due medici non obiettori ma la politica dell'ospedale, il cui consiglio di amministrazione è presieduto dal cardinale Bagnasco e che ha avuto come ex presidenti Tettamanzi e Bertone, è contraria all'interruzione di gravidanza. Non è la prima volta che le linee guida della Curia si scontrano con la politica sanitaria regionale in tema di applicazione della 194 e di fecondazione assistita. La soluzione attuale, per le interruzioni di gravidanza, è di praticarle altrove e con personale di un altro ospedale, l'Evangelico. «Ma il Galliera — dice l'assessore— è convenzionato con il servizio sanitario pubblico e non può di fatto negare la possibilità di prescrizione della pillola del giorno dopo».

Corriere della Sera 11.4.08
Prima pronuncia Chiesta l'archiviazione di una denuncia per omissione di atti d'ufficio a Roma. Deciderà il gip
Ma il pm: simile all'aborto, si può rifiutare
di Laura Martellini


ROMA — Per la prima volta, tocca a un magistrato pronunciarsi sul tema della pillola del giorno dopo: il 5 giugno il gip del Tribunale di Roma, Claudio Mattioli, dovrà decidere se archiviare o meno l'inchiesta per omissione di atti di ufficio nata due anni fa, quando una donna presentò denuncia contro ignoti per essere stata respinta da due ospedali dove aveva chiesto le venisse prescritta la pillola del giorno dopo. Il pm Angelantonio Racanelli nel luglio 2006 ha sollecitato l'archiviazione del procedimento, perché «non può escludersi alla luce degli accertamenti svolti la sussistenza della causa di giustificazione (l'obiezione di coscienza alla somministrazione della pillola del giorno dopo) quanto meno sotto il profilo putativo». Anche perché il pm non escluderebbe «la possibilità che tale tipo di pillola possa essere una pratica abortiva ». Infine, «non vi è alcun elemento certo — dice il pm — per ritenere che il personale medico in servizio sia stato reso edotto della richiesta della donna». E nella premessa, il pm ritiene necessario un «intervento legislativo » in materie. Come accadde per il caso Welby. Replica Amedeo Bianco, presidente degli Ordini dei medici (Fnomceo): «Deve prevalere il giudizio del medico, non servono altre leggi».
Alla richiesta del pm si è opposto l'avvocato della donna, Alessandro Gerardi, affiancato dai Radicali romani e dall'associazione Luca Coscioni che giudicano il caso esemplare di un'«arretratezza normativa rispetto agli altri Paesi europei, dove la pillola del giorno dopo viene data senza ricetta ». Per Gerardi «non ha senso parlare di obiezione di coscienza di fronte ad un farmaco sul mercato da 8 anni, contraccettivo e non abortivo». L'udienza, fissata per oggi, è stata rimandata al 5 giugno per un difetto di notifica. Non ne era stata data notizia alla persona offesa: una biologa di Roma Nord, Francesca Capone, all'epoca 35enne, che di quella vicenda dice di conservare un solo, forte ricordo: «La sensazione di rabbia». Al «no» del pronto soccorso ginecologico del Policlinico Umberto I, era seguito quello del San Giovanni, dove la donna si era recata di sabato: chiusi i consultori, difficilmente rintracciabili i medici di base, un'impresa procurarsi la ricetta. «Alcuni infermieri fecero da filtro — ricorda — spiegandoci che in quel momento non c'era nessuno disposto a prescriverci il farmaco: "Meglio andare di lunedì al consultorio". Ma come è noto la pillola ha efficacia entro 72 ore dal rapporto». Ricorda ancora, Francesca, le parole sarcastiche di un ausiliario: «Speriamo che il tuo ragazzo abbia gli spermatozoi non fertili, così non resti incinta». E l'indignazione crescente. «Solo al San Camillo — conclude — ho ottenuto la ricetta.
Il ministro della Salute Livia Turco ha commentato: «La legge è molto chiara. L'obiezione di coscienza è garantita dalla 194. Ma la pillola del giorno dopo è un anticoncezionale d'emergenza, non un farmaco abortivo ». Mentre Eugenia Roccella, candidata del Pdl e portavoce del Family day: «Spero si arrivi all'archiviazione. Mi sembra eccessivo che un medico finisca in tribunale perché si è sottratto a una prestazione estranea alla sua morale».

Corriere della Sera 11.4.08
Dibattito Il Vaticano prepara un convegno. Mentre si discute di selezione sociale e di totalitarismo
Charles Darwin, ultimo processo
Ravasi: sintesi tra evoluzione e disegno intelligente. Boncinelli: un naufragio
di Dario Fertilio


Santo o dannato, questo Darwin? Santo, risponde la «Preghiera darwiniana» di Michele Luzzatto, fresca di stampa da Cortina, dove il naturalista inglese viene accostato a Giacobbe e Giobbe. Dannato, suggeriscono invece alcune pagine sulfuree che gli dedica Hannah Arendt nel suo celebre saggio sulle «Origini del totalitarismo», da poco ristampato per Einaudi. Parole come piombo fuso, gli rovescia addosso la filosofa allieva di Heidegger: secondo lei l'evoluzionismo di Darwin, con la sua spietata «legge del movimento», sarebbe insieme a quella marxista una matrice non solo del razzismo, ma anche del totalitarismo e del terrore rivoluzionario. Giacché «è il movimento stesso che individua i nemici dell'umanità contro cui scatenare il terrore».
Con l'avvicinarsi delle celebrazioni per i 200 anni dalla nascita — cadranno nel febbraio del prossimo anno — si cerca una via di mezzo fra salvezza e dannazione per il vecchio Sir Charles. Fu buono o cattivo maestro? La domanda, al di là del suo rapporto con il totalitarismo, tocca la posizione della Chiesa, la conciliabilità fra evoluzione e ruolo di Dio. In questa luce bisogna vedere l'annuncio di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio pontificio per la cultura: si svolgerà in Vaticano un convegno internazionale sull'evoluzionismo e le sue teorie, come parte di un «piano più generale di dialogo tra scienza e teologia ». Si tratterà di un evento di portata mondiale, «preparato da workshop sia a Roma che negli Stati Uniti», con lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, turbati da certi atteggiamenti critici del Papa nei confronti delle teorie di Darwin (giudicate «non completamente dimostrabili »). Più in generale, lo scopo dell'iniziativa di Ravasi sembra essere quella di ridare dignità culturale alla teoria del «disegno intelligente» posto alla base della vita, con l'intervento decisivo di Dio.
Certo il dibattito su Darwin non si limita a questo. Si discute, ad esempio, su quel «darwinismo sociale» che ispirò filosofi come Herbert Spencer; su quelle teorie della selezione naturale e della «sopravvivenza del più adatto» che oggi suonano vagamente sinistre, ma al tempo in cui vennero formulate si proponevano come ferree leggi di natura. Ispirando memorabili tirate letterarie, come quella del «Martin Eden» di Jack London: «L'antica legge dell'evoluzione domina ancora. Nella lotta per l'esistenza, il forte e la progenie del forte tendono a vivere, mentre il debole e la progenie del debole sono schiacciati e tendono a perire. Questa è l'evoluzione. Ma voi, schiavi, sognate di una società dove la legge dello sviluppo sarà annullata...».
Appunto l'applicazione del darwinismo alle scienze sociali è criticata oggi da Alberto Martinelli, per lo meno nella sua variante americana del primo novecento, individualista e liberista: «È l'idea di una lotta senza esclusione di colpi, attuata da robber barons, basata sull'idea che il più adatto a sopravvivere sia colui che riesce ad accumulare maggiori ricchezze». Bastano simili idee per sospingere Darwin fra i cattivi maestri? Secondo Martinelli «l'applicazione delle sue teorie ai fenomeni umani si era rivelata adatta allo spirito di frontiera, tipico di un Theodore Roosevelt. Ma ancor oggi — ricorda — nella cultura degli Stati Uniti la definizione di loser, di perdente, equivale a una sanzione sociale durissima». Né le cose sono andate meglio con il darwinismo sociale europeo, quello di un Ludwig Gumplowicz «che interpretò la lotta di razza come essenza del processo storico e fornì armi al nazismo, al colonialismo, all'imperialismo ». Eppure, nonostante tutto, «buon maestro e grande scienziato» secondo Martinelli resta Darwin. Lo difende anche sul versante del totalitarismo: «Le affermazioni della Arendt a suo carico sono eccessive e schematiche, i veri modelli di quei regimi erano Gobineau, Chamberlain, Gumplowicz». Non la pensa proprio così invece la filosofa Simona Forti, studiosa della Arendt. «Il problema non è il contenuto di verità del darwinismo, ma il modo in cui è stato utilizzato all'interno della pratica del potere». Ora, «il totalitarismo usa il sapere biologico, benché non si possa stabilire una filiazione diretta con Darwin». Resta il fatto, aggiunge la Forti, che «la biopolitica è l'orizzonte del darwinismo sociale, dove la vita intesa come totalità biologica entra nel campo della politica». C'è un punto oltre il quale il pensiero di Darwin genera mostri? «Concordo su questo» risponde: «Guardare con occhi critici al darwinismo sociale equivale a criticare qualsiasi tentativo di tradurre un sapere scientifico in una teoria politica sull'uomo».
E poi c'è il punto più delicato del darwinismo, quella teoria dell'evoluzione naturale che sembrerebbe escludere l'intervento di Dio. Riuscirà il pensiero religioso, e magari anche il convegno progettato dall'arcivescovo Ravasi, a placare i contrasti? È profondamente scettico Edoardo Boncinelli: «Qui si parla di due realtà completamente diverse. Il neodarwinismo è una teoria scientifica che vuole analizzare i fenomeni naturali in termini di meccanismi precisi e riproducibili, cioè scientifici. L'idea di un disegno intelligente divino, invece, è metafisica della specie più brutta». In che senso? «Si antepongono i propri desideri e idiosincrasie alla realtà. Ma non c'è nessuna base per crederci, se non il fatto che a tutti noi fa piacere pensare che sia così». È drastico, Boncinelli, sulla progettata iniziativa vaticana: «Un tentativo destinato al naufragio o, peggio ancora, alla menzogna ». Esattamente il contrario di quanto crede Paolo De Benedetti, docente di giudaismo alla facoltà teologica di Milano: «Non c'è nessun conflitto fra scienza e sistemi attuali di lettura della Bibbia, attuati con metodo storico-critico. Del resto il racconto biblico attinge a sua volta alla mitologia mesopotamica: l'importante non è dire che le cose siano andate così o all'opposto, dal momento che le stesse parabole di Gesù non vanno prese in senso storico-letterario ». Dunque, il tentativo di conciliazione fra Darwin e la Bibbia può riuscire? «Certo, è conciliabile l'incontro fra una concezione mitica — nel senso di un racconto fondato sulle categorie culturali dell'epoca — e una scientifica, che come tale poggia sempre su ipotesi e non su certezze definitive».
Già, ma proprio qui non rischia di cascare l'asino? Come valutare l'allarme lanciato da un pensatore liberale, come François Fejtö: «La difesa di una verità scientifica suscita a volte la medesima passione di un articolo di fede, come testimoniano la storia del darwinismo, della psicoanalisi e della teoria della relatività»? Vero, riconosce Paolo De Benedetti, «ma il rischio di un dogmatismo fideistico è più presente nei divulgatori che negli scienziati». Vero anche per Edoardo Boncinelli, con una precisazione: «Il rischio di dogmatismo c'è sempre, l'uomo ha bisogno di odiare».

Libero news magazine 11.4.08
Valentina, l'amante perfetta
di Sara Gambèro


La Lodovini, da La Giusta Distanza, per cui ha ottenuto la nomination al David di Donatello al film indipendente Riprendimi, in cui interpreta lo scomodo ruolo dell'altra.

A Valentina Lodovini, attrice toscana (di San Sepolcro, provincia di Arezzo) in ascesa piacciono tanto tre cose: il rossetto e i tacchi alti, con cui si sente super femminile, e "stupire". Motivo per cui ama cambiare continuamente genere e registro nel suo lavoro: dai ruoli comici a quelli drammatici, dai film d’autore (Mazzacurati, Sorrentino, Comencini) a quelli indipendenti a basso costo. Come Riprendimi, dove interpreta Michela, l'amante del protagonista. «Ho accettato questo ruolo per l’urgenza del racconto, per le idee nuove contenute nel film e per il fatto che ci fosse una produttrice (Francesca Neri, ndr) che finalmente rischiava. Cosa di cui abbiamo un gran bisogno, in Italia».

Quanto ti somiglia Michela, il tuo personaggio in Riprendimi?
Non mi assomiglia per niente, però l’ho amata tanto, perché pur sembrando apparentemente molto dura e poco simpatica - è pur sempre l'"altra", quella che porta via il marito o fidanzato -, in realtà ha solo paura a ricominciare. Anche lei è stata abbandonata, ha sofferto e ha questa resistenza a lasciarsi andare che trovo molto tenera e in qualche modo riconosco. D'altronde quando uno si scotta e viene ferito, poi ha molta paura a riaprirsi e lasciarsi andare.

Tu potresti mai innamorarti di uno come Giovanni, che abbandona moglie e figlio per mettersi con Michela con estrema facilità?
Credo che sarebbe difficile. Anche perché Giovanni è uno che non sa bene cosa vuole dalla vita e io, Valentina, mi sentirei completamente persa con uno così. Sarebbe il delirio, ho bisogno di uno che mi faccia sentire più sicura.

Perché hai scelto di partecipare a un film come questo, indipendente e rischioso?
Per tre motivi essenzialmente: per l’urgenza del racconto, che quando l’ho letto ho sentito che non era scritto ma vissuto, per le idee nuove contenute nel film e per il fatto che ci fosse una produttrice che rischiava finalmente, cosa di cui abbiamo tanto bisogno in Italia. Poi mi piaceva che Anna (Negri, la regista, ndr) fosse stata la prima a propormi il ruolo dell’altra. Che probabilmente non starà molto simpatico a tante donne, ma mi sembrava giusto fare.

È vero che sul set c’era un’atmosfera di grande libertà e coinvolgimento tra di voi?
Guarda, mai come questa volta ho vissuto il cinema come gruppo ed è stato molto bello. Un gruppo di persone che lavoravano insieme per raccontare una storia, con pochi mezzi e grosse difficoltà. Anche attoriali, perché io dovevo fingere di essere una persona comune ripresa da una telecamera. Però è stato bello, intenso, frenetico e per niente ovvio. E comunque, ripeto, io credo molto all’idea di cinema come gruppo e in questo lavoro è stato molto tangibile questo aspetto.

Hai fatto un grande lavoro di preparazione prima per arrivare all’alto grado di spontaneità che si vede nel film?
Sì, ho provato molto prima per rendere questa naturalezza.

Parlaci della tua candidatura al David di Donatello per il personaggio della Giusta distanza di Mazzacurati
Sono lusingata, incredula, stordita. È una emozione indefinibile. Non me ne rendo ancora conto, però sono così felice e orgogliosa di averla ricevuta per La giusta distanza che è un film che ho amato tanto. Non credevo fosse un capitolo completamente chiuso, ma di certo non mi aspettavo mi portasse fino ai David!

Hai già in progetto qualcosa di nuovo?
A giugno comincerò il film di Marco Risi su Giancarlo Siani.

Ci puoi anticipare qualcosa del tuo personaggio?
Non dico nulla, se non che è un prodotto molto interessante, commovente. Poi è una storia vera.

Ma tu chi sarai?
La protagonista femminile.

E chi farà Giancarlo Siani?
Credo Libero de Rienzo, anche se non so se è confermato. Diciamo che dovrebbe essere lui…

La giusta distanza, Riprendimi, il film su Siani. Ruoli leggeri, più comici, mai?
In realtà sono stata protagonista di Pornorama, il film di Marc Rothemund, regista della Rosa Bianca. L’ho girato tra Berlino e Monaco ma per ora è andato solo in Europa, non so se arriverà in Italia.

Di cosa parla?
È una commedia brillante e divertentissima e io lì sono proprio comica! Poi anche il prossimo film dopo quello di Marco Risi sarà una commedia. Voglio sfuggire da qualunque etichetta, ragione per cui ho accettato anche questo film, Riprendimi.

In che senso?
Perché il ruolo dell’altra non me lo aveva mai offerto nessuno, e volevo rischiare, fare una cosa nuova.

Una domanda indiscreta: sei mai stata l’altra nella tua vita?
No, mai.

Indossi sempre delle scarpe stratosferiche, ci ho fatto caso già al Festival del cinema di Roma (indossa un paio di décolleté dal tacco altissimo, nere e verdi, ndr). È una tua passione?
No, macchè (ride, ndr), in realtà non guardo per nulla queste cose. La moda mi piace nella misura in cui mi diverto a stupire gli altri. Infatti chi lavora con me non mi riconosce mai: un giorno arrivo in tuta, l’altro con i tacchi altissimi. Mi diverte stupire e sono fortunata perché ho un'ampia scelta di abiti e accessori.

Ma i tacchi ti piacciono?
Moltissimo, mi fanno sentire donna. Un donna sicura, con rossetto rosso e tacco alto!

Che rapporto hai con la rete?
Non sono molto tecnologica, pensa che amo ancora scrivere le lettere vecchia maniera. E ho una macchina fotografica con rullino. Però capisco che per il mio lavoro la rete sia un mezzo molto utile. Al tempo stesso però ritengo possa diventare anche molto pericoloso e un po’ mi spaventa, perché attraverso internet si può sapere tutto di tutto, scoprire anche cose non belle. Diciamo che lo uso soprattutto per lavoro, per documentarmi.

Hai un tuo sito, dove curi il rapporto con i fan?
No, anche perché mi sento molto più spettatrice o studente che attrice. Mi devo ancora abituare all’idea che si sta realizzando il mio sogno.

giovedì 10 aprile 2008

Corriere della Sera 10.4.08
Bertinotti: la politica di Prodi non è diversa da quella di Silvio
«L'abbiamo sostenuto, anche ingoiando dei bocconi amari»
di Giuliano Gallo


Il Mezzogiorno è una miniera a cielo aperto e deve essere rivalutato, a patto che il Sud non venga più considerato la pattumiera del Nord

ROMA — Due piazze diverse, stessa città, Napoli. E da una piazza all'altra Walter Veltroni e Fausto Bertinotti polemizzano quasi in diretta. Il leader della Sinistra Arcobaleno ieri mattina era tornato ad esprimere la sua delusione sul governo Prodi: «Ha fatto anche delle cose buone, politica internazionale buona, alcune leggi come quella sugli infortuni sul lavoro, ma ha mancato l'essenziale, cioè fare una politica realmente diversa da quella di Berlusconi». Passa qualche ora, e il leader del Partito democratico gli risponde piccato. «Prodi ha risanato i conti del Paese», scandisce da piazza Municipio. «Prodi ha risanato i conti ma non i bilanci delle famiglie e dei lavoratori», gli risponde l'altro da piazza Dante, pochi chilometri più in là. Dal governo Prodi insomma «non è venuto un netto miglioramento della condizione delle lavoratrici e dei lavoratori italiani». Noi, dice, «ci siamo battuti sistematicamente in questi due anni perché avvenisse questo. Nella Finanziaria, dopo la Finanziaria. L'abbiamo sostenuto anche quando non eravamo d'accordo, abbiamo anche ingoiato bocconi amari...».
È una battaglia tutta in salita, quella della Sinistra Arcobaleno, e il presidente della Camera lo sa bene: il fantasma contro cui si deve battere è l'ormai celebre «voto utile» evocato da Berlusconi e Veltroni praticamente all'unisono. Contro la polarizzazione del voto, non gli resta dunque che volare alto: «Se il voto si riduce solo a Berlusconi e Veltroni, è effimero. Mentre votare Sinistra Arcobaleno è fare una scelta di vita, è rispondere ad una domanda drammatica, e cioè se serve o no in Italia una sinistra ».
In una campagna elettorale fattasi ormai rude come un incontro di pugilato, Bertinotti continua tenacemente a battere sui tasti che gli appartengono: il lavoro, la precarietà, l'emarginazione. Ieri era Giugliano, grosso paese dell'hinterland napoletano che è anche l'unico in Campania dove si vota per il consiglio comunale. E alla gente ha parlato della camorra, «che strangola il territorio » anche grazie alla «complicità fra politica ed economia». Poi a Caserta, dove la platea era fatta quasi per intero di immigrati, di extracomunitari. Gente che conosce la precarietà sulla propria pelle. E infine a Napoli, dove dalla piazza saliva un solo grido: «lavoro, lavoro ». Dovunque nel Sud, in Sicilia, in Puglia, in Calabria, Bertinotti ha continuato a ripetere la sua idea di fondo: «È il modello economico che va cambiato: il Mezzogiorno è una miniera a cielo aperto e deve essere rivalutato, a patto che il Sud non venga più considerato la pattumiera del Nord». Invece il Partito democratico questo non riesce a capirlo, ribadisce. «Il Pd ha molto appeal su un certo piano, quello dell'immagine, ma non riesce ad andare più in profondità, dove ci sono le aree più sofferenti».
Lo spazio per la polemica pura è invece volutamente ridotto. Così se Berlusconi parla di concedere una Camera all'opposizione solo a patto che il presidente della Repubblica si dimetta, lui taglia corto: «Le dichiarazioni di Berlusconi escono dalla politica, sono fuori dalla politica».

Repubblica 10.4.08
Il Sessantotto. Amore e dolore
Un saggio della storica Anna Bravo
di Guido Crainz


Il tema della violenza, i nessi tra ragione e passione, tra responsabilità individuale e vicenda collettiva. Un banco di prova per due generazioni
Sbagliato instaurare una continuità col terrorismo, ma non fu un´età dell´innocenza
Nei capitoli sulle donne la disumana realtà dell´aborto clandestino e il dolore del feto

A colpi di cuore. Storie del sessantotto (pagg. 322, euro 15) di Anna Bravo, ora in libreria per la casa editrice Laterza, è un libro complesso. Difficile da discutere, perché toglie vie di scampo alle semplificazioni di diverso e opposto segno. Fortemente segnato ma non imprigionato dal vissuto generazionale. Intriso di soggettività, e di riflessioni su di essa, ma al tempo stesso attento a indicare le tracce profonde di un "contesto" che nulla giustifica ma aiuta a capire. Incentrato sugli "anni ´68", cioè sugli anni sessanta e settanta, con un´attenzione privilegiata ai percorsi di formazione di giovani e donne, movimenti studenteschi e femminismo.
Lo sguardo si allarga dalla generazione del dopoguerra, cresciuta all´ombra della paura atomica, sino agli anni di piombo e si misura al tempo stesso con la dimensione internazionale dei processi. Sceglie di farlo ripercorrendo culture ed esperienze, in modo trasversale e non sistematico: un terreno che può essere infido, una sfida rischiosa che appare per più versi però una sfida vinta. In larga misura, dunque, un libro di storia culturale e al tempo stesso di riflessione etica che si muove fra Italia e Stati Uniti, Europa dell´Ovest e dell´Est, e che mette al centro i banchi di prova più impegnativi: il tema della violenza, il rapporto fra responsabilità individuale e vicenda collettiva e, in varie forme, i nessi fra passione e ragione (non solo nei capitoli che a questo esplicitamente rinviano, dedicati a Dolore e Amore) .
Al tempo stesso, una ricerca sul rapporto fra generazioni, generi e modernità: con una attenzione specifica alla vicenda italiana che inizia con le trasformazioni degli anni cinquanta e conosce poi una cesura alla fine degli anni settanta. In questo quadro l´analisi si muove fra due poli in qualche modo estremi, interrogati entrambi in modo problematico.
Da un lato si sottolinea la rottura salutare indotta dai movimenti giovanili, sin da quelli dei beat e degli hippie, capaci di avviare o perlomeno accelerare processi più ampi. Ciò vale in modo particolare per un paese come il nostro, segnato da un´arretratezza delle istituzioni e da condizionamenti sociali e familiari oggi inimmaginabili, ma anche da contraddizioni e storture della incipiente modernità. Da arcaismi ma al tempo stesso, precocemente, da modelli di successo e di ascesa individuale sprezzanti di regole e vincoli collettivi. La presa di parola degli "anni ´68" aprì indubbiamente la via a una concezione più ampia dei diritti e moltiplicò i soggetti in grado di rivendicarli. Hannah Arendt vi vide il riproporsi della "felicità pubblica", il coincidere della liberazione individuale e di quella collettiva, e l´immagine ha segnato l´autoraccontarsi (talora consolatorio) di una generazione. «È vero (o quasi) per una scheggia di tempo», osserva la Bravo, e aggiunge: «Per chi e per quanti?». Con altrettanto rigore sono considerati quei terreni su cui, a giudizio quasi unanime, i movimenti avrebbero vinto: la cultura, il costume, le sensibilità. Certo, si annota, è forte la memoria di una trasformazione ma in quella memoria rimane «una cicatrice: il dubbio di aver vinto male». Non può esser rimosso, in altri termini, l´interrogarsi sulla qualità dei processi che si sono poi affermati. E anche quel "partire da sé" che sembrò - e forse poteva essere - la via per rifondare la politica è sottoposto ad un vaglio critico serrato.
La sottolineatura di una straordinaria effervescenza («del ´68 tutto si può dire tranne che non fosse desiderabile esserci») non impedisce insomma di indagare a fondo la natura di essa: feconda ma al tempo stesso inadeguata a misurarsi con contraddizioni profonde. Ed esposta anche a deformazioni che ne avrebbero limitato le potenzialità e contribuito a derive negative.
All´altro estremo, all´altro polo della riflessione vi è infatti non solo e non tanto la barbarie del terrorismo quanto il nodo in sé della violenza. Non è un tema che possa essere affrontato come gli altri, sottolinea la Bravo, e riprendendo parole di Andrea Casalegno aggiunge: «si può cambiare, e molti lo hanno fatto senza sbandierarlo; ma non si può diventare ex assassini, per l´identico motivo per cui non si diventa mai ex madri». Oggetto privilegiato di indagine è la violenza di chi «è rimasto al di qua dello spartiacque rappresentato dall´aver versato il sangue degli altri», e in generale il nodo della responsabilità individuale: pratiche violente e pratiche armate non sono direttamente assimilabili ma al tempo stesso non sono prive di legami, di zone di confine. Anche in questo caso l´ambito della riflessione è indicato con nettezza. Instaurare una continuità fra ´68 e terrorismo «è un´operazione storiograficamente debole e ideologicamente fortissima, serve poco a capire quegli anni», ma è altrettanto debole l´idea del ´68 come "età dell´innocenza totale" («i riferimenti teorici prevedevano la violenza, i simboli e i popoli più amati erano uomini e popoli in guerra»). In Italia come in America e altrove, si osserva, nel loro sorgere i movimenti adottano forme di lotta pacifiche, la violenza è un´eccezione. Di lì a poco però sarà vero il contrario, e il peso di contesti internazionali e nazionali tesissimi non esime dall´interrogarsi sulle scelte soggettive, sulle motivazioni che portano all´adozione di alcuni modelli e ll´appannamento di altri: con il privilegiamento, appunto, di quelli armati, ed il quasi totale disinteresse per le suggestioni che potevano venire dai grandi esempi del pacifismo internazionale. O dai percorsi stessi del dissenso nell´Europa centro-orientale, che costringe a misurarsi con un altro banco di prova impietoso.
Negli "anni ´68", sottolinea la Bravo, è forte la sensibilità nei confronti del dolore degli oppressi ma «non tutti gli oppressi hanno diritto al compianto (e neppure ai diritti democratici)».
Dopo il ´56 ungherese, Solzenicyn, Praga, la realtà dell´est europeo non può essere ignorata eppure «quell´enorme giacimento di sofferenza è il meno sentito dei mali del secolo». Vi è qui un nodo irto, al quale è impossibile sfuggire: il paradosso di un movimento che nasce sinceramente libertario e portatore di vere ansie di democratizzazione, ma al tempo stesso carente di una reale cultura democratica e per questo esposto all´insidia delle ideologie.
È una questione che ritorna in più forme e sin nelle pagine che si interrogano sul rapporto fra ´68 e femminismo, sulle contraddizioni più che sulla parentela fra essi: anche a voler ammettere che il femminismo degli anni settanta nasca dal ´68, annota la Bravo, ne è semmai figlio non previsto, non voluto, in molti casi avversato. Già nel 1964 del resto le attiviste nere dello Student Non-violent Coordinating Committee (il più importante movimento per i diritti civili degli afro-americani) denunciavano le discriminazioni nei confronti delle donne all´interno dell´organizzazione. E «il sé da cui si parte nel ´68 è filtrato dal maschile», altra spia di un universalismo solo apparente.
È qui impossibile seguire più da presso il libro nel suo ripercorrere fasi e problemi del femminismo, origini di lungo periodo e tumultuosi sviluppi, rovelli e talora rimozioni. Nel suo considerare la più generale storia delle donne, disseminata di "eredità senza testamento", cioè senza destinatari né canali ufficiali, ma anche di "testamenti senza eredi", di patrimoni culturali che rischiano di andare dispersi. Almeno un aspetto va però segnalato, il rigore con cui vengono posti i problemi connessi alle discussioni degli anni settanta e ottanta sull´aborto («un´esperienza che oscilla fra la categoria della violenza e quella del dolore»). È richiamato anche qui il contesto, la disumana realtà dell´aborto clandestino e le ragioni dell´impegno per introdurre tutele e norme di legge, ma sono indagati al tempo stesso gli elementi di insensibilità che in quell´impegno talora affiorano. È la "cognizione del dolore" (e del "dolore del feto") ad essere interrogata, così come la rimozione di quell´angoscia. Dietro il silenzio, osserva Anna Bravo, vi era il peso di vecchie forme mentali: «il primato di quel che è compiuto e completo su quel che è parziale e liminale, la cecità verso il dolore non detto, non dicibile, non accertabile completamente». E conclude: non eravamo sole in questa difficoltà a cogliere la vicinanza fra l´umano e il non ancora o imperfettamente umano.
Sono solo alcuni esempi, alcuni squarci di un denso e complesso libro che si legge d´un fiato e che sarà difficile metter da parte.

Repubblica 10.4.08
Si è aperto a Perugia il Festival internazionale del Giornalismo
Scalfari: il nostro crudele mestiere
di Susanna Nirenstein


Nella lectio magistralis il fondatore di "Repubblica" ha annunciato la prossima uscita del suo nuovo libro: "L´uomo che non credeva in Dio"

Perugia. Se l´informazione è, come è, alla base della democrazia, benvenute le cinque giornate del Festival internazionale del Giornalismo che si sono aperte ieri a . Cinquanta eventi con centocinquanta ospiti in arrivo da Roma, Milano, Londra e New York come da New Dheli e il Medio Oriente, per mettere a confronto i parametri dell´investigazione e della cronaca, il rapporto dei media con le nuove tecnologie e la professione, quello con le guerre, il potere, i delitti, l´universo giudiziario, la storia, l´inquinamento o la scienza piuttosto che la cucina. Ad aprire l´appuntamento, la lectio magistralis di Eugenio Scalfari davanti a un pubblico di seicento persone, in gran parte studenti dell´Università o della Scuola di giornalismo di Perugia.
Prende spunto dal suo nuovo libro in uscita tra un mese il fondatore di Repubblica, L´uomo che non credeva in Dio (Einaudi): una ricerca che intende mostrare «come certi momenti di vita vissuta abbiano influito nella formazione dei miei pensieri e, viceversa, come le convinzioni raggiunte abbiano imposto alcune svolte fattuali».
Tra i capitoli, racconta Scalfari, quello dedicato al giornalismo intitolato «Un mestiere crudele». Una definizione che comporta delle spiegazioni naturalmente, innanzitutto un chiarimento su cosa si intende per giornalista, su quali siano i prerequisiti necessari: «curiosità infinita, assillante, per le grandi come per le piccole cose, accanto alla disponibilità a vincere la timidezza e ad uscire da sé». Non solo, la capacità di accompagnare il viaggio nel mondo esterno, con un viaggio nell´universo interno, «perché è impossibile voler sapere degli altri se non sappiamo chi siamo, se non calibriamo il metro di conoscenza del fuori sulla nostra consapevolezza».
E il termine "crudele" che Scalfari attribuisce al reporter? «La curiosità comporta che denudiamo il mondo dei fatti, delle persone, dei paesaggi non accontentandoci delle apparenze, ma cercando la sostanza. E denudare significa invadere. Il giornalista, senza spogliarsi del proprio io, invade, passa limiti che altre persone, non altrettanto curiose, non varcherebbero. Il giornalista è spietato».
Di qui la delicata questione della verità, visto che quella assoluta, a meno che non si sia legati a una fede o a un´ideologia (e in quel caso si fa un cattivo giornalismo), non esiste. «Chi sostiene che si può distinguere tra fatti (oggettivi) e opinioni (soggettive) si nasconde dietro un dito: anche il racconto dei fatti appartiene al giornalista, e lui scrive dal suo punto di vista, così come il direttore e il caporedattore, dai loro punti di vista, sceglieranno la posizione in pagina, l´ampiezza del servizio, il titolo». Ed ecco che il cerchio si chiude, la posizione più onesta, conclude il fondatore di Repubblica, è essere consapevoli di sé e dichiarare il proprio punto di vista, «se vi dico prima le mie faziosità, potrete decrittare quello che scrivo», una manifestazione di convinzioni che sta alla base di Repubblica com´era e com´è.
La lezione prosegue e, cavalcando attraverso la storia del Novecento italiano, affronta il ruolo dell´editore, della direzione, delle scelte politiche di un giornale: i ragazzi ascoltano attenti, per loro sarà il punto di partenza per seguire nelle ore e nei giorni successivi i molteplici tavoli di confronto che da ieri si sono aperti nelle varie sedi del Festival. Tra i tanti appuntamenti, quello del tardo pomeriggio di ieri con Edmondo Berselli e Maria Latella sul Sessantotto, e quello di oggi alle 14,30 su Media e potere con, tra gli altri, Carl Bernstein - il mitico giornalista che con Woodward svelò il caso Watergate - e Alastair Campbell, spin doctor di Tony Blair dal 1997 al 2003. Da segnalare, sempre negli incontri di oggi, alle 18, Giornalisti e politici. Chi condiziona chi? con Ezio Mauro e Angelo Agostini; Economia e giornalismo dove sarà presente anche Gad Lerner, e, alle 19,30, il confronto tra Mario Calabresi, Filippo Ceccarelli, Giovanni Bianconi e Marco Damilano sul terrorismo in Italia.

Corriere della Sera 10.4.08
Dopo 50 anni Ricostruita la vicenda di Robert Bialek
«Non perdonate i nazisti» E la Stasi lo eliminò
Così sparì l'ex capo della polizia a Berlino Est
di Danilo Taino


Antifascista, a 40 anni fu portato nel carcere di Hohenschönhausen: di lui furono cancellate tutte le tracce

La Stasi era la polizia segreta dell'ex Repubblica democratica tedesca. Aveva 91 mila dipendenti e ufficialmente 300mila informatori: secondo dati recenti, uno ogni 7 abitanti della Ddr era, a un certo punto della sua vita, un informatore della Stasi

BERLINO — Il compagno Robert Bialek era apprezzato da parecchi nella Sed, il partito che regolava la vita, ma anche la morte, nella Germania dell'Est. Antifascista specchiato, cinque anni nelle galere naziste, studente diligente del marxismo, militante puntuale. Erano però gli anni più cupi della Guerra Fredda, i primi Cinquanta, e a un alto funzionario di partito, a Berlino, servivano almeno due cose: assenza totale di senso critico e amici al posto giusto. A Bialek mancarono entrambe e ora, 52 anni dopo, si capisce cosa probabilmente ciò ha significato: rapimento su ordine della Stasi — il ministero della polizia —, corsa in auto alla Hohenschönhausen — il terribile carcere per dissidenti della città —, torture, morte e totale cancellazione delle prove.
La vicenda di quest'uomo di indiscutibile coraggio era conosciuta, ma le circostanze della sua morte erano misteriose. Ieri, uno storico che lavora alla Hohenschönhausen (adesso è un museo), Peter Erler, ha rintracciato un documento che dovrebbe mettere una parola definitiva alla ricostruzione della sua vicenda: la registrazione di un ingresso nella prigione, alle 23 del 4 febbraio 1956, di un individuo non identificato e del quale non appare poi più traccia, nel senso che dal carcere ufficialmente non uscì mai. Quella stessa notte, alle dieci meno venti, Bialek era stato prelevato dalla sua casa a Berlino Ovest, dove si era trasferito tre anni prima, in rotta con il partito. Erler e Hubertus Knabe, il direttore del museo- prigione, dicono di non avere dubbi: l'ex militante comunista fu ammazzato, a 40 anni, nella galera della Stasi.
Giovanissimo, Bialek si iscrisse ai sindacati giovanili e poi, nel 1933, l'anno della salita al potere di Hitler, al partito comunista. Divenne amico di Erich Honecker, che poi guiderà partito e Stato. Entrò in clandestinità fino a quando, nel 1935, fu arrestato e condannato a 5 anni di carcere. Rientrò nella clandestinità e, a nazismo crollato, iniziò la carriera politica nella Ddr. Fino a diventare in breve tempo il capo della Volkspolizei, la polizia popolare. A quel punto, iniziarono i guai. Di base, non era simpatico a Walter Ulbricht, il potente capo del partito, di cui non condivideva scelte e metodi. E se il numero uno della polizia non era in buoni rapporti con il dittatore, c'era un problema: in fondo erano anni di stalinismo vigente, tanto che Honecker dimenticò l'amicizia giovanile. In più, Bialek era critico della politica di reclutamento dei funzionari, anche della polizia, che stava riabilitando molti ex funzionari nazisti.
Fu degradato e, quando il 17 giugno 1953 la polizia della cosiddetta Repubblica democratica tedesca sparò sulla folla che protestava, ruppe gli indugi e si trasferì con la famiglia a Berlino Ovest: non c'era ancora il Muro, in quegli anni, ma la scelta di campo (passare nella zona controllata dagli anglo-americani e non dai russi) fu giudicata un tradimento. Era diventato un nemico dello Stato socialista. Non solo. Bialek iniziò a lavorare per il partito socialdemocratico dell'Ovest e per la Bbc, per la quale raccolse testimonianze sulla vita nella Ddr e sulla politica del pugno di ferro di Ulbricht. Il peggio, dal punto di vista della Stasi.
Il 4 febbraio 1956, dunque, qualcuno decise che il suo passaggio in questa vita avrebbe dovuto concludersi, probabilmente per il bene del proletariato. I compagni della Stasi lo prelevarono in piena Berlino Ovest, lo portarono facilmente a Est e lo registrarono come numero 2357 nel carcere di Hohenschönhausen. Ultimo grazie a un antifascista come pochi.

Corriere della Sera 10.4.08
Libro sull'epoca di Hitler
Seimila i lavoratori coatti sfruttati dalla Chiesa


BERLINO — La Chiesa cattolica tedesca fa luce sul suo passato durante il nazismo e con il libro «Lavoro coatto e Chiesa cattolica 1939-1945», presentato a Magonza, in Germania occidentale, documenta lo sfruttamento da parte di istituzioni religiose cattoliche di circa seimila tra lavoratori coatti civili e prigionieri di guerra stranieri. La Chiesa cattolica nel 2000 ha riconosciuto di essersi servita di lavoro coatto ai tempi di Adolf Hitler. «Un episodio che resta un peso storico e una sfida per la nostra Chiesa anche nel futuro» ha detto il cardinale Karl Lehmann, ex presidente della Conferenza episcopale tedesca.

Corriere della Sera 10.4.08
Il celebre pittore inglese parla del ruolo «politico» esercitato da arte e pittura
La rivoluzione è nelle immagini
Il declino della Chiesa inizia con le macchine fotografiche
di David Hockney


Michael Curtis, uno dei fondatori di Hollywood, regista di Casablanca e di molti dei film avventurosi di Errol Flynn, racconta di aver avuto il suo primo assaggio di cinema verso il 1908, al Cafe New York di Budapest. Quel che l'aveva affascinato, ricorda, non era stato tanto il film, quanto il fatto che tutti stessero a guardarlo. Aveva capito che mentre a teatro o all'opera non vanno in molti, il cinema avrebbe avuto un richiamo di massa. Nel 1920 era a Hollywood, che allora rispetto a Budapest era un villaggio, ma in California c'erano i soldi, la luce e la tecnologia. Aveva visto giusto.
Andiamo indietro di 350 anni, ai tempi dello studioso napoletano Giambattista Della Porta, che pubblicò un libro, Magia naturalis, sulle proiezioni ottiche di oggetti naturali. Era un uomo del Rinascimento: scienziato e commediografo. Allestì spettacoli che impiegavano delle semplici proiezioni e la Chiesa lo portò dinanzi al tribunale dell'Inquisizione.
A quei tempi la Chiesa era l'unica a produrre immagini. Conosceva il loro potere e Della Porta doveva essersi reso conto, come Michael Curtis, di quanto fossero attraenti le proiezioni ottiche. Lo sono tuttora. La Chiesa controllava la società. Chi aveva il controllo delle immagini aveva potere. È ancora così. Il controllo sociale è stato legato alla lente e allo specchio per gran parte del Ventesimo secolo. Ora il controllo sociale è esercitato dai cosiddetti mass media, non più dalla Chiesa, ma stiamo entrando in una nuova era, poiché la produzione e la distribuzione delle immagini sta cambiando. Tutti possono produrre e distribuire immagini con un telefono cellulare. Gli strumenti per farlo sono ovunque.
Non vi sono molte discussioni sulle immagini. Il loro ambito è separato da quello dell'arte, ma il potere sta nelle immagini, non nell'arte. Sorge un problema ovvio. Il mondo delle immagini pretende di essere in relazione con la realtà visibile (vedi il caso della televisione e del cinema), ma questa pretesa non è più sostenibile. Se non rifletteremo su questo punto saremo sempre più confusi.
Facciamo un esempio: il National Health Service britannico aveva pubblicato l'immagine di un ragazzo (o forse una ragazza) con un amo in bocca. Si trattava di una campagna contro il fumo e una scritta diceva, «Non abboccare». Ci furono proteste perché l'immagine, che veniva mostrata in televisione e alle fermate degli autobus, era scioccante. Dovettero toglierla. L'immagine sembrava una fotografia, e con questo intendo riferirmi a un evento verificatosi di fronte a una macchina fotografica in un dato momento e in un dato luogo. Se fosse stato davvero così, il fotografo avrebbe dovuto essere perseguito dalla legge — in Gran Bretagna mostrare un atto di crudeltà verso un essere umano è vietato, ma naturalmente si distingue tra pittura e fotografia: i quadri della crocifissione, infatti, sono «permessi».
Nessuno è stato denunciato. Perché? Perché nessuno ha creduto che il fatto fosse realmente accaduto. Era stato costruito al computer con un programma come Photoshop. Ci sono oggi persone perseguite per possesso di immagini. Ma come si fa a sapere se queste immagini hanno effettivamente a che fare con la realtà?
Il Parlamento discuterà della produzione di immagini, ma non di arte. Siamo in un periodo di confusione. Il declino della religione in Europa è considerato anche un riflesso della rivoluzione «scientifica». Ma io dubito sia così: penso piuttosto che abbia a che fare con le immagini. Il declino della Chiesa va di pari passo con la produzione di massa di macchine fotografiche. I due fenomeni sono profondamente collegati. In un recente viaggio in Italia ho notato che pochi italiani andavano nelle chiese per vedere immagini. Le vedono a casa, non fatte da Botticelli, ma da Berlusconi. Pensateci.
© Guardian News and Media (Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 10.4.08
Memoria È nato ieri il Centro Primo Levi. Amos Luzzatto nominato presidente
«Un baluardo contro revisionismi e razzismi»
di Vera Schiavazzi


TORINO — Ci sono voluti ventuno anni (l'anniversario della morte ricorre domani) ma alla fine Torino è riuscita a onorare degnamente il suo scrittore forse più famoso, certamente più letto e tradotto nel mondo: Primo Levi. Il Centro internazionale di studi che porta il suo nome è nato ufficialmente ieri, per volontà di un primo gruppo di fondatori che raccoglie Comune, Provincia, Comunità ebraica, Fondazione per il libro, e i figli Lisa e Renzo Levi. Amos Luzzatto, medico e saggista, a lungo alla guida dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, è stato scelto come presidente, incarico che in veste onoraria è stato conferito anche a Bianca Guidetti Serra.
E proprio Luzzatto, ieri pomeriggio, ha sottolineato l'importanza simbolica, culturale e politica di un atto che arriva «proprio mentre i segnali di revisionismo, negazionismo e razzismo si moltiplicano. Vogliamo che in questo centro arrivino non solo gli studiosi e i conoscitori appassionati di Primo Levi, ma i giovani delle università e dei licei che possono far vivere i suoi insegnamenti. Levi non ha fatto soltanto memorialistica sui lager, al contrario ci ha lasciato molte e diverse eredità, dalla cultura scientifica alla tradizione ebraica». Luzzatto ha anche annunciato che sarà presente alla Fiera del libro con un saggio-intervista sui temi della laicità da poco realizzato con Francesca Nadari: «Ci tengo a esserci — spiega — proprio per l'assurdità delle tesi espresse in favore del boicottaggio. Chi le sostiene forse non sa che in questo modo si danneggiano i fautori della pace tra Israele e Palestina e si sostiene nei fatti una guerra all'ultimo sangue».
Direttore del centro sarà lo storico torinese Fabio Levi, mentre vicepresidente è Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del libro, e del consiglio di amministrazione fanno parte Fiorenzo Alfieri, Dario Disegni, Valter Giuliano e il presidente della Comunità ebraica di Torino Tullio Levi. Il Centro vuole raccogliere nel tempo tutta la documentazione esistente sullo scrittore, realizzando un censimento completo e la raccolta di studi, tesi di laurea e testimonianze sull'autore di Se questo è un uomo,
in un quadro di collaborazione internazionale. La sede sarà quella del grande complesso juvarriano dei Quartieri militari, che già ospita l'Istituto storico della resistenza e il Museo della deportazione e che nel prossimo futuro accoglierà anche l'Istituto per la memoria e la cultura del lavoro, dell'impresa e dei diritti. La Compagnia di San Paolo ha sostenuto l'iniziativa con 250 mila euro.

l’Unità 10.4.08
Galileo e Leopardi? Mai stati così vicini
di Pietro Greco


Oggi alle ore 18.30
SCIENZA E LETTERATURA L’influenza del grande scienziato sul pensiero del poeta recanatese fu decisiva. Gaspare Polizzi, storico e docente universitario, ci spiega in un libro come e perché

C’è un filo rosso che lega la storia della grande letteratura italiana, da Dante a Galileo fino a Giacomo Leopardi. Questo filo rosso - anzi questa «vocazione profonda» - diceva Italo Calvino, è la filosofia naturale. Qui tre grandi - e poi lo stesso Calvino - hanno considerato «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile».
Cosicché tra la grande letteratura e la scienza, in Italia, non c’è mai stata quella separazione denunciata cinquant’anni fa da Charles Percy Snow nel suo famoso libro sulle «due culture». Ma c’è stata una reciproca influenza? Quanto la figura di Dante ha contato per Galileo? E quanto Galileo ha pesato su Leopardi?
Alla prima domanda si può rispondere di sì: chi è venuto dopo si è lasciato influenzare dal grande che lo ha preceduto. Basti ricordare, per quanto riguarda Galileo, che la sua carriera accademica è iniziata virtualmente nel 1588, con le «Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante», il ventiquattrenne figlio del musicista Vincenzio dimostra di essere sia un valente matematico che un profondo conoscitore del Sommo Poeta.
Per quanto riguarda l’influenza che lo stesso Galileo avrà su Leopardi abbiamo prove meno evidenti. Nelle sue opere il poeta nato a Recanati non cita spesso lo scienziato nato a Pisa. Eppure è possibile dimostrare che «la figura e l’opera di Galileo (hanno un ruolo decisivo) sulla filosofia di Leopardi e sul suo stile». L’affermazione è di Gaspare Polizzi. E gli argomenti, solidi e documentati, a favore della sua impegnativa tesi sono contenuti nel libro, Galileo in Leopardi (pagine 220, euro 22,00) che lo storico della scienza in forze all’università di Firenze ha da poco pubblicato presso la casa editrice Le Lettere.
Gaspare Polizzi ha passato in rassegna con grande rigore tutta l’opera di Leopardi alla ricerca di tracce, dirette o indirette, che riconducono a Galileo. Giungendo,* a nostro avviso, a tre conclusioni di grande rilievo e a una considerazione che riteniamo di stringente attualità.
La prima conclusione finora niente affatto scontata è che, malgrado il nome dell’«Artista Toscano» (le definizione è del poeta John Milton) ricorra relativamente poco negli scritti di Leopardi - tranne in quelli resi pubblici della Crestomazia della Prosa e in quelli inediti dello Zibaldone - la presenza di Galileo nel pensiero e persino nello stile del poeta di Recanati non solo c’è, ma è addirittura decisiva.
Leopardi, infatti, non solo ha letto Galileo e le opere su Galileo. Ma lo considera: il più grande fisico di tutti i tempi; un filosofo di primaria importanza nella storia del pensiero umano; e, insieme a Dante, appunto, il più grande rappresentante della letteratura italiana. Galileo è «per la sua magnanimità nel pensare e nello scrivere» un (forse «il») modello per Leopardi.
La seconda conclusione documentata da Gaspare Polizzi è che Giacomo Leopardi, pur conservando, questa sintonia di fondo con Galileo, modifica e aggiorna e affina nel tempo i suoi giudizi sullo scienziato toscano. Gaspare Polizzi è così abile da mostrarci come Leopardi scopre nel tempo Galileo. Quali opere legge. E da quali è particolarmente colpito.
La terza conclusione è che, per quanto grande e addirittura decisiva sia l’influenza che Galileo esercita su Leopardi, l’epistemologia del poeta di Recanati non si esaurisce totalmente in quella dello scienziato pisano. Anzi, vi sono talvolta delle differenze. Entrambi, certo, considerano lo studio della natura, attraverso certe dimostrazioni e sensate esperienze, il nuovo modo, superiore, di filosofare intorno ai fatti del mondo fisico. Ed entrambi credono nella «potenza della ragione», capace di leggere il libro della natura e superare le false credenze degli antichi. Tuttavia Leopardi insiste molto più di Galileo sui limiti della conoscenza umana anche sui fatti della natura e, dunque, sulla relatività delle verità scientifiche. Ha un’attenzione per la matematica e per il suo valore epistemologico molto meno marcata dello scienziato toscano. E, più di Galileo, focalizza la sua attenzione sulla complessità del mondo. Anzi, per dare risalto a questa sua visione molto articolata del mondo fisico - dove piccole cause all’apparenza insignificanti possono produrre grandi effetti - Leopardi non esita a "tirare" fino a distorcere il pensiero di Galileo.
Galileo, dunque, ha una grande influenza su Leopardi. Ma, come sempre accade con i giganti che salgono sulle spalle di giganti, Leopardi ha una lettura critica e personale di Galileo.
C’è, infine, una ultima considerazione che ci propone il libro di Gaspare Polizzi e che ha un qualche riverbero nell’attualità. Nei suoi scritti Leopardi mostra una certa riluttanza a parlare della teoria copernicana e opera delle censure abbastanza sistematiche sul «processo a Galileo». Uno dei motivi, scrive Polizzi, è da attribuire al conflitto a distanza con il padre intorno alla legittimità della proposta galileiana. Ma, probabilmente, c’è anche una certa ritrosia - forse un vero e proprio timore - del giovane di Recanati ad assumere posizioni non conformi alla lettura che la Chiesa cattolica a due secoli di distanza fa del «processo a Galileo».
Paolo Casini e Antonio Di Meo presenteranno il libro di Gaspare Polizzi Galileo in Leopardi (Le Lettere) alla Libreria della Fronda di Roma (Via Enrico Stevenson, 28/30)

l’Unità 10.4.08
Matteo Merzagora e Paola Rodari analizzano il rapporto tra le istituzioni museali scientifiche e la comunicazione oggi, un dibattito che può aiutare l’Italia ad uscire dal declino
La prossima sfida: ricostruire la «società della conoscenza»
di Luigi Amodio


Tra i tanti temi posti all’ordine del giorno dal bel libro di Matteo Merzagora e Paola Rodari su musei, science centre e comunicazione, La scienza in mostra (Bruno Mondadori), ne coglierei qui uno che, in particolare, ritengo vada ripreso nel dibattito sul ruolo delle istituzioni museali scientifiche e la comunicazione della scienza oggi. E, precisamente, il tema della transizione - ormai compiuta - dalla dimensione accademica della scienza a quella condizione che molti definiscono oggi «post-accademica».
Molto in sintesi, la scienza accademica è ciò a cui, usualmente, pensiamo quando utilizziamo il termine «scienza pura» o «scienza in generale», quella che emerge nel corso della rivoluzione scientifica del XVII secolo e le cui norme - formalizzate da Robert Merton - sono ben note: comunitarsmo, universalismo, disinteresse e umiltà, originalità, scetticismo. L’avvento della scienza post-accademica - che emerge nel secondo dopoguerra e diviene evidente in tempi sostanzialmente recenti - dipende sia da fattori esterni alla scienza così come da ragioni interne e cioè da un progresso scientifico e tecnologico sempre più rapido e dalla sempre maggiore interdipendenza tra scienza e tecnologia. Come dice il fisico John Ziman, le caratteristiche di questa nuova condizione della scienza sono: collettivizzazione, limiti allo sviluppo della scienza, sfruttamento della conoscenza, politicizzazione della scienza, industrializzazione, burocratizzazione.
Ma ciò che ci interessa maggiormente, in questo contesto, è che la pluralità di attori partecipanti al lavoro scientifico, nella dimensione post-accademica è sempre più vasta, sino a poter dire che le relazioni tra scienza, politica, industria, pubblico, divengono del tutto interne al «farsi» della scienza stessa; sono, insomma, attività rilevanti per il suo stesso sviluppo.
Se tutto ciò è vero, come molti ritengono, e se è altrettanto vero che la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione garantisce una circolazione del sapere impensabile fino a pochi anni addietro, è possibile allora immaginare che la cultura scientifica venga messa a sistema in una prospettiva che, di queste trasformazioni radicali, tenga sempre più conto.
Ragionare su questi temi oggi non solo è possibile, come dimostra la massa critica di esperienze, studi, buone pratiche documentate da Merzagora e Rodari; ma è certamente necessario, proprio perché la reazione al declino italiano (documentato nel bel volume di Pietro Greco e Settimo Termini, Contro il declino, Codice Edizioni) parte proprio da qui: dalla ricostruzione, cioè, di una cittadinanza all’altezza della «società della conoscenza».
In tal senso, l’azione di identificare e promuovere strumenti - come appunto i musei e i science centre - che rafforzino il legame tra scienza e società; di costruire nuove agorà per favorire questo legame; di reindirizzare l’attuale crisi delle carriere scientifiche, rafforzando l’educazione scientifica e garantendo la competitività futura del paese puntando su ricerca e sviluppo, si fondono un unico obiettivo da perseguire. E c’è da scommettere che molti - rappresentanti del mondo imprenditoriale, ricercatori, professionisti della comunicazione scientifica e dell’educazione - sono pronti a impegnarsi e a raccogliere la sfida.
*Direttore della Fondazione IDIS-Città della Scienza, Napoli, Direttore del Science Centre di Città della Scienza, Napoli, Docente di Comunicazione museale all’Università Federico II di Napoli

l’Unità 10.4.08
Due importanti volumi, uno di Angelo R. Pupino e l’altro di Andrea Bisicchia, dedicati alla narrativa e alla drammaturgia di Pirandello
L’umorismo, ecco cosa muove vorticosamente tutto l’universo pirandelliano
di Roberto Carnero


L’opera di Luigi Pirandello (1867-1936) è un autentico e vastissimo «continente letterario», sia per la sua ampiezza quantitativa sia, soprattutto, per la versatilità di questo autore, che si è cimentato con diversi generi, conseguendo sempre risultati di altissimo livello estetico e di notevole spessore filosofico: dalle novelle ai romanzi, dalle poesie alle pièces teatrali, dai saggi critici agli scritti teorici. Dunque potrebbe apparire discutibile l’idea di studiarne separatamente i diversi ambiti creativi, tanto più che notevoli sono i punti di contatto tra i vari momenti della sua produzione, quella che potremmo chiamare l’«intertestualità interna». Tuttavia forse, proprio per la mole critica - di libri, saggi, interventi - che nel tempo si è depositata sul lavoro dello scrittore siciliano, sondare separatamente aspetti particolari del suo universo poetico può apparire non solo legittimo, ma doveroso. Anche a giudicare dai risultati di tali indagini «parziali», quando siano condotte con attenzione alla totalità del quadro.
Sono usciti di recente due importanti volumi, ricchi di novità interpretative, dedicati rispettivamente alla narrativa e al teatro pirandelliano. Il primo - incentrato su una puntuale analisi dei romanzi - è a firma di Angelo R. Pupino, professore di Letteratura italiana contemporanea all’«Orientale» di Napoli. Il titolo, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, rimanda a un concetto chiave contenuto nel testo più noto del Pirandello teorico: il celebre saggio sull’umorismo, che, scritto per un concorso universitario al quale lo scrittore si voleva presentare, rappresenta anche un’utilissima chiave interpretativa dell’opera creativa dello stesso autore. Lì si parla dell’umorismo come strettamente legato all’avvertimento del «sentimento del contrario».
Un’idea che Pupino vede realizzarsi compiutamente non solo in opere come Il fu Mattia Pascal, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Uno, nessuno e centomila, ma anche nel precedente L’esclusa, in cui la negazione dell’ideale armonico, e dunque l’affermazione della dissonanza, era già ampiamente presente. Si tratta di una «destrutturazione» sia del mondo psichico dei personaggi, sia, sul piano costruttivo, degli stessi schemi narrativi. E persino in un’opera come I vecchi e i giovani, riportata dalla critica all’ambito di un’influenza tardo-verista, Pupino rintraccia questa che ormai ci appare come una costante di tutta l’opera pirandelliana sul piano delle digressioni che interrompono l’andamento narrativo principale e insieme su quello del linguaggio in cui si esprimono i personaggi, in alternanza tra un tono grave e magniloquente e un altro basso ed elementare. Diventa così chiaro come «fin dal principio Pirandello sembra mosso, pur senza linearità alcuna, da una spinta endogena verso quel suo epicentro, L’umorismo appunto».
Al lavoro teatrale è invece dedicato il saggio Pirandello in scena. Il linguaggio della rappresentazione di Andrea Bisicchia, docente di Metodologia e critica dello spettacolo all’Università di Parma. Uno studio basato su un approccio particolarmente innovativo: l’analisi non tanto dei testi dei drammi pirandelliani, quanto delle loro messe in scena. Basandosi sulla sua memoria e sulla sua esperienza di spettatore (prima ancora che di critico), ma anche su materiali d’archivio (come le recensioni agli spettacoli o le note di scena dei grandi registi: da Orazio Costa a Luigi Squarzina, da Mario Missiroli a Luca Ronconi), Bisicchia analizza i modi in cui la concretezza delle rappresentazioni teatrali è stata ed è in grado di dire qualcosa di nuovo su Pirandello e sulla sua opera, mostrandone lati rimasti in ombra e giungendo a interpretarli in maniera inedita.
Così Carlo Cecchi ha fatto emergere il lato comico, e non solo quello esistenziale, dei Sei personaggi in cerca d’autore, mentre Giorgio Strehler, con il suo uso delle luci, ha ottenuto ai Giganti della montagna effetti magrittiani, surrealisti, quasi onirici. Bisicchia spiega come il lavoro filologico sui testi possa e debba accompagnarsi proficuamente allo studio di quei grandi saggi critici scritti dai registi non su pagine di carta ma direttamente sui palcoscenici.

Pirandello o l’arte della dissonanza, Angelo R. Pupino, Salerno Editrice, pp. 360, euro 28,00

Pirandello in scena, Andrea Bisicchia, Utet Università, pp. 232, euro 16,00.

il Riformista 10.4.08
Il messaggio era tra le righe della lettera al «governo che verrà»
Bellocchio e Montaldo, la realpolitik dei Centoautori
di Luca Mastrantonio


Dopo Placido e Maselli cresce l'attenzione al disegno di legge della deputata forzista. Bisogna depoliticizzare le battaglie dei cineasti e guardare di più ai risultati concreti. Una nuova fase dell'impegno culturale o il risultato della lettura dei sondaggi?

Forse è scritto tra le righe, come suggeriscono dal coordinamento dei Centoautori, nell'ultima lettera al governo che verrà. Dove si chiedeva maggiore attenzione, a tutte le parti politiche, e ai vincitori, nei confronti del cinema. Un'industria che ha bisogno di un rilancio concreto, economico e imprenditoriale, comunicazionale, senza pregiudizi ideologici. Ma l'outing di Michele Placido, che al convegno di Barbareschi - come ha riportato il Corriere della sera - ha elogiato il disegno di legge dell'onorevole Carlucci, seguito da Citto Maselli, sembra indicare che l'aria è cambiata.
Per Marco Bellocchio, tra i firmatari della lettera, è ora che la politica dei Centoautori si caratterizzi per una maggiore realpolitik. «Prima ci si è relazionati soprattutto con Rutelli, le cui intenzioni erano molto buone, oggettivamente positive, senza colore politico. Questo deve valere anche nell'altro senso, politico, con la Carlucci o chi per lei. Sarebbe masochistico non appoggiare un progetto che vuole aiutare il cinema, perché magari viene da qualcuno a destra. L'ha capito anche uno come Citto Maselli, che io metto, scherzando, all'estrema sinistra del cinema italiano. Bisogna rendere attrattivo il disegno di legge sul cinema».
Ci vuole concretezza, anche perché «di tax shelter sento parlare da quando faccio cinema. Almeno quarant'anni, mi sembra una leggenda, un fumetto o qualcosa di comico», scherza Bellocchio. Convinto che «si debba recuperare concretezza nelle battaglie degli autori, rinunciare alle sigle come Api e Anac, alle divisioni, e puntare a conquiste di posizioni e incarichi, per non dover essere costretti a strisciare ai piedi del potere solamente politico di turno, per ottenere qualcosa. Ognuno, poi, singolarmente, può essere un sostenitore di Turigliatto o… della Santanché?... sì, anche se mi riesce più difficile immaginarlo. Comunque bisogna trovare una base comune, una piattaforma, e buttarla meno in politica, altrimenti siamo divisi».
Per questo bisogna sostenere chiunque voglia aiutare il cinema, conclude Bellocchio, senza guardare al colore politico. «Bisogna essere meno ideologici e più disponibili, l'artista è di per sé un idealista, ma non su tutto, su altre cose deve essere realista, concreto. Discriminare politicamente qualcuno, da parte della sinistra, è quasi ridicolo, qualcosa che è fuori tempo, ripeto, masochistico».
Quando gli chiediamo se per caso in questo cambio di clima, più dialogante, ci sia la consapevolezza che per i prossimi anni l'interlocutore sarà la destra, Bellocchio abbozza: «Non diamoci per sconfitti, tra qualche giorno lo scopriremo, ma non è detto». Però poi ci ricorda che lui, «a differenza di molti dei Centoautori, che sostengono o militano nel Pd», sta con la Sinistra arcobaleno. Dai pugni in tasca ai soldi in tasca? Niente facili battute, ma la sensazione è che anche per il cinema di sinistra valga uno dei titoli che è valso a Bob Dylan il Booker prize: The times they are a-changing .
Anche Giuliano Montaldo, che sabato riceverà il premio Grinzane cinema, a Stresa, non si preoccupa di vedere realizzati antichi progetti da attori politici di colore diverso dal suo. «Non conosco la Carlucci, ma certo se fosse grazie a lei che si realizzeranno finalmente quegli incentivi a produrre cultura e lavoro nel cinema, sarei ben lieto di stringerle la mano. Ho delle idee politiche diverse, ma non ci devono essere tessere quando si parla di cultura. Da presidente di Rai Cinema ho visto il problema della filiera che riguarda il cinema e ho sviluppato la convinzione che bisogna puntare sul privato, sull'agevolare finanziamenti privati, anche piccoli, più che rimpiangere quelli statali». Insomma, anche nel cinema si respira aria di larghe intese.