sabato 13 dicembre 2008

l’Unità 13.12.08
Anna Ingrao. La musica dei versi
In libreria una raccolta inedita di poesie
Anticipiamo l’introduzione scritta dal fratello Pietro
di Pietro Ingrao


L’autrice aveva partecipato alla stagione del neofemminismo

Chi erano? Chi li muoveva? Non so dire quante volte, frugando nella memoria, ho ripercorso il cammino che - nel cuore dell’Ottocento - aveva condotto i miei avi siciliani, di nome Ingrao, a risalire dall’estremo lembo dell’Isola, sino a incontrare quel paesello sperduto, Lenola, sito proprio al confine tra la Campania e il regno papalino. Venivano, quegli Ingrao, da Grotte, paese di contadini e zolfatari; facevano parte del ceto abbiente, ma con Mazzini e con Garibaldi si erano ribellati prima al pesante dominio dei Borboni, e poi - con una trama di cospirazioni segrete - anche al regno di Vittorio Emanuele, penetrato nel Sud d’Italia con l’iniziativa garibaldina e mazziniana, ma presto divenuto da liberatore oppressore.
L’amore segreto
In seguito fu il più anziano dei due Ingrao il primo a abbandonare l’isola di Napoli, divenuto centro di irrequieta ricerca culturale e di eresie politiche. Poi da Napoli approdò a Lenola, un paesotto di confine, dove iniziò a fare il medico: si sposò ed ebbe una figlia, Marianna. Là braccato dalla polizia crispina - risalendo clandestinamente le terre del Sud - lo raggiunse l’Ingrao più giovane. Tra l’adolescente Marianna di struggente bellezza e il siciliano più giovane nacque presto un amore segreto, di cui tanti anni dopo ritrovammo calde testimonianze. La Sicilia - per quegli Ingrao ormai lenolesi – divenne una lontana terra nativa, da cui giungevano dolci squisiti alla vigilia di Natale. E a Lenola s’insediò quel ramo degli Ingrao in cui nacque e crebbe mia sorella Anna.
I primi anni della sua giovinezza furono ombrosi e schivi. Poi venne improvviso un grande amore con Ubaldo Boccia, un giovane magistrato, severo d’indole e tenace nelle sue passioni. Da quel matrimonio vennero una figliolanza tutta femminile e una comunanza felice tra i due sposi. Poi venne la tragedia fulminante. E fu la morte di Ubaldo.
Fu un evento che segnò un crinale nella vita di Anna. Iniziò da allora un suo amaro interrogarsi sull’esistere. Ed è nella poesia che Anna troverà l’alfabeto e la risonanza necessari per affrontare la perdita ed il dolore. La musica del verso diventò la sua lingua. E la praticò con tenacia trascinando anche i suoi rapporti affettivi e politici. Divenne parte inscindibile del suo femminismo. Anna aveva partecipato, fin dagli inizi, alla straordinaria stagione del neofemminismo in Italia. Con altre donne aveva dato vita all’autogestione del Consultorio di Primavalle, un quartiere popolare di Roma che le era familiare per la forte e radicata presenza del sentire comunista. Là Anna aveva intessuto una comunicazione intensa con alcune donne assieme alle quali costituirà poi uno dei gruppi più significativi del «Centro culturale Virginia Woolf». Nell’attività del Centro trovò sbocco il suo amore per la poesia. Con la lettura dei suoi versi Anna animava i seminari e gli incontri che si svolsero, per lunghi anni, nelle nude stanze dell’ex convento Buon Pastore, allora semi diroccato ed occupato da avanguardie femministe.
Presto da un editore senese, e sotto la cura accorta di Alberto Olivetti, uscirono due testi di Anna: Ospite messaggera e Fiamma e accostamento. Più avanti negli anni venne un fascicolo di nuovi versi, pubblicati soltanto ora dopo la sua morte. Sono testi in cui ogni enfasi è cancellata, e c’è come una nuda innocenza nel cogliere l’immediatezza dell’esperienza umana e il senso generale del vivere. Leggendo oggi quelle strofe asciutte – a volte solo affidate a trascolorazioni improvvise – sembra in crisi la gerarchia degli eventi. Sbiadiscono le superbe cattedrali dei potenti della terra. A volte sembrano cedere di fronte al messaggio breve di una macchia di pervinca.
Forse la tensione più alta si raggiunge in brevissimi testi, dove la passione interiore sgorga dal vissuto quotidiano più nudo: come in quella scarna lirica finale, dove pare cancellata ogni enfasi, consumato ogni clamore. Dice così: Devo preparare la sera/ Al ritorno/ Sarà inverno... E in quei nudi versi il vivere umano sembra raccogliersi in quell’impallidire serale dell’ora. Poi venne il precipitare improvviso verso la morte che colse Anna nel suo paese natio e la portò via dalla terra quasi in modo fulminante.

l’Unità 13.12.08
Elementari, trappola Gelmini:
«Sì al tempo pieno con due insegnanti. Però ne pago uno»
L’Onda a Roma
di Luciana Cimino


Intervento del ministro al Tg1. «Saranno i genitori a scegliere se tenere i bambini in classe 24, 27, 30 o 40 ore». Ieri mattina a Roma corteo insieme al sindacato. Berlusconi: nessun dietrofront, solo un errore di comunicazione.

Il passaggio televisivo in prima serata del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini provoca più di un brivido. Ad insegnanti elementari e ai genitori. Dal prossimo anno le famiglie potranno scegliere tra il maestro unico o prevalente e il tempo pieno con due insegnanti, ma in quest’ultimo caso «per ogni ora di lezione - ha detto la Gelmini in un’intervista al Tg1 - verrà pagato un solo insegnante». Il ministro ha confermato che i genitori «potranno scegliere le 24 ore se preferiranno tenere i figli a scuola solo il mattino oppure le 27, le 30 o anche le 40 ore. È chiaro che in quel caso il maestro sarà prevalente, verrà affiancato da un insegnante che andrà a completare il quadro orario ma preciso che per ogni ora di lezione verrà pagato un solo insegnante».

La giornata
Nonostante il maltempo che ha imperversato sulla Capitale, nonostante gli inviti del sindaco Alemanno a non uscire di casa, l’Onda si conta dopo il dietrofront della Gelmini sulle superiori. E, nel giorno dello sciopero generale indetto dalla Cgil, i conti tornano. «Siamo 10 mila», gridano dalla testa del corteo partito in mattinata da piazzale Aldo Moro. In mezzo anche studenti, docenti e genitori del coordinamento “Non rubateci il futuro”. Rimbalzano lontane le parole del premier e quelle del ministro. «Non è cambiato nulla» ha detto ieri Berlusconi, innescando il solito refrain dell’«errore di comunicazione». Idem la Gelmini: «Il nostro progetto di scuola non è cambiato, è la sinistra che fa retromarcia».

I dietrofront
«Questa è una risposta di massa a chi ci voleva stanchi e disorientati dopo un autunno di manifestazioni», commenta Giacomo dal corteo, che studia Lettere alla Sapienza, mentre sul Colosseo viene affisso uno striscione con la scritta “No 133”. Sfila accanto ai lavoratori, l’Onda, ma non assieme a loro. «Abbiamo volutamente intercettato i due cortei; siamo autonomi, non separati», affermano. La necessità è quella di «condividere la nostra protesta con i settori non inerenti alla scuola», spiega Alice del Dams e Giorgio Sestili, del collettivo di Fisica aggiunge, «siamo scesi in piazza oggi per parlare con tutti, perché solo una forte alleanza sociale tra studenti e lavoratori può creare un’opposizione, visto che in parlamento non c’è» . E poi ribadisce, «in questo momento l’opposizione al governo è l’Onda con i genitori dei bambini». Nessuno canta ancora vittoria per il rinvio della legge deciso giovedì dal ministro.

La protesta
Arrivati davanti al ministero dell’Istruzione viene lanciato qualche uovo in direzione del massiccio cordone di forze dell’ordine, e poi dal megafono, parte l’appello ai poliziotti: «dovete stare dalle nostra parte, nelle scuole ci sono i vostri figli!». Uno studente inglese prende la parola, «la nostra protesta attraversa tutta l’Europa, lottiamo per un mondo migliore in Germania, in Italia e in Francia, contro gente come Sarkozy e Berlusconi ». E durante la manifestazione diversi sono stati gli omaggi per Alexis, il quindicenne greco ucciso dalla polizia qualche giorno fa, e per Vito Scafidi, morto per il crollo del controsoffitto della sua scuola.

Repubblica 13.12.08
La "destra normale" in un volumetto Reset
Sogni e profezie di Vittorio Foa
di Simonetta Fiori


Non c´è stato niente di rituale nell´omaggio reso a Vittorio Foa in occasione della sua scomparsa. Un tributo di pensieri e affetti originato da un bisogno diffuso di riferimenti morali. Un "bisogno di esempi", ha sintetizzato il suo amico Pietro Marcenaro nella cerimonia di commiato. Quel che di lui rimane - più che un corpus teorico di respiro gramsciano - è un´indicazione di metodo, sempre più preziosa nell´attuale tormenta politica e culturale. Anche il volumetto che gli dedica ora "Reset" - Una destra normale e altri sogni - restituisce questa singolare vocazione nell´evitare le strade più ovvie e prevedibili.
Un´occasione per esercitare l´eroico talento fu, alla metà degli anni Novanta, l´immissione nella democrazia italiana di una forza politica erede del fascismo. Quel fascismo contro cui aveva sacrificato la giovinezza. La sua mossa del cavallo, anche in quella circostanza, consistette nello spiazzare gli antifascisti più convinti. Tra questi figurava Furio Colombo (suo interlocutore nel dialogo del 1995 riproposto da "Reset"), che ora ricorda: «Al mio tagliar corto, che giudicava un po´ prefabbricato, Foa mi invitava a cambiare percorso. Questo il suo messaggio: lo sguardo fermo, fisso su un punto del passato, fa perdere troppe cose importanti, peggiori o migliori, tra tutto ciò che sta capitando adesso, in tempo reale. Questa perdita è anche un rischio, perché ti pietrifica in un punto fermo, proprio quando hai bisogno dell´agilità per cogliere sequenze di eventi mentre accadono».
L´immobilizzarsi verso il passato ti impedisce di cogliere le novità del presente. Inclusi i suoi pericoli. Il pericolo, per Foa, non era tanto nella possibilità di riproporsi del fascismo storico - che pur aveva avuto i suoi adoratori in alcune delle personalità pubbliche che occupavano le istituzioni democratiche. Il pericolo vero era avvistato in Berlusconi e in quel fenomeno che Foa già nel '95 definiva «berlusconismo»: «la deresponsabilizzazione», «l´azzeramento delle coscienze», «il pastrocchio dolciastro della pubblicità usata come strumento della politica». Qui era davvero in gioco il principio della libertà - stella polare della sua lunga militanza, come annota Michele Salvati in altre pagine del volume. Era il linguaggio di Berlusconi, più che quello di Fini, a evocargli la memoria del fascismo. Una preoccupazione manifestata con lucidità mite, senza enfasi catastrofista. Tredici anni dopo, quello della «destra normale» è ancora un sogno. Il resto, invece, profezia.

Repubblica 13.12.08
A colloquio con lo psicoanalista Stefano Bolognini
Dentro le paure della crisi economica
di Luciana Sica


Un convegno a Roma sul trauma "Nei nostri pazienti notiamo un calo di energie, un plafond comune di sfiducia profonda e di assenza di prospettive certe"

ROMA. Feriti dall´ansia, sempre più fragili e minacciati, spaventati da un futuro che sembra digrignare i denti, attraversiamo l´epoca del "traumatismo diffuso". Sullo sfondo c´è da tempo quello che gli psicoanalisti definiscono "un contesto di morte" - le mattanze dei terroristi, le malattie, le guerre, le catastrofi climatiche - ma ora c´è di più e più da vicino: c´è la recessione economica trainata da una tempesta finanziaria globale per molti versi incomprensibile.
Neppure il trauma è più quello di una volta Oggi non è soltanto un accidenti isolato che può capitare nella vita di tutti. Oggi assume forme e proporzioni diverse, si presenta con il volto di un dolore muto, scarsamente arginabile che rende opachi, mesti, inespressivi: più poveri, anche mentalmente. Sulla versione intimistica della crisi interroghiamo Stefano Bolognini, "didatta" della Società psicoanalitica, tra i pochissimi italiani a ricoprire incarichi di rilievo nell´Ipa (l´International Psychoanalytical Association fondata da Freud nel 1910). Autore di più saggi pubblicati da Bollati Boringhieri - il più recente s´intitola Passaggi segreti -, Bolognini è tra i relatori di un convegno su "L´impronta del trauma" in programma a Roma oggi e domani (via Salaria, 113): l´introduzione - affidata a Patrizia Cupelloni - incoraggia gli studiosi freudiani a misurare i modelli teorici classici con varianti inedite di sofferenza psichica.
L´intervista con Bolognini tratta comunque un tema inedito e piuttosto irrituale per lo stesso pensiero psicoanalitico. Eppure la stanza dell´analisi sembrerebbe un osservatorio privilegiato di questo periodo buio che crea inquietudini e anche incubi.
La crisi si percepisce sul lettino?
«Fu nel ´29 che si parlò della Grande Depressione, due parole appropriate per indicare quella drammatica crisi economica che sconvolse il mondo. La stessa espressione può essere riproposta oggi, ottant´anni dopo, in termini anche psicologici: depressione è, certo, parola tra le più abusate, ma senza dubbio nei nostri pazienti c´è un plafond comune di sfiducia profondissima, di assenza di ogni sana vitalità, di senso della prospettiva, c´è un calo verticale di energie... In questa fase sono gli aspetti mortiferi che si rafforzano e tendono a rivoltarsi o contro chi li vive o anche contro gli "altri", producendo un´ondata decisamente aggressiva nelle relazioni umane. Il sentimento profondo della paura crea una frana della coscienza di sé, mentre si accumulano le tonalità più oscure dell´umore, una specie di malmostosità, di nero di seppia, che monta e diventa sempre più pervasiva... Naturalmente, nel lavoro clinico, le vicende pubbliche vengono ovattate o anche smorzate da quelle più private: la visione razionale e realistica delle cose è condita da tutta una coloritura soggettiva che risente dei propri ideali, delle proprie aspettative rispetto a se stessi, del proprio senso del dovere...».
Le preoccupazioni di ordine economico si sono intensificate nei sogni, nel modo in cui vengono raccontati - indipendentemente da ogni implicazione inconscia?
«Non si colgono tanto nel materiale onirico, è piuttosto nella mente sveglia dei pazienti che compaiono le ansie legate alla crisi: nei resoconti verbali e soprattutto attraverso gli stati d´animo, le coloriture generali del discorso, i toni dell´umore...».
Il traumatismo debordante sospinge un po´ tutti a vivere nella penombra?
«Sì, ma può anche suscitare delle difese che noi analisti definiamo di tipo maniacale, vale a dire basate sull´eccitamento, sul completo diniego del dolore, sulla ricerca di un "altrove" salvifico. Un po´ come nel Re Leone, ricorda?, quando il leoncino - dopo la morte del padre e l´inaridimento della vallata in cui vivevano tutti felici e contenti - se ne va in un luogo "altro" dove con due buffi animaletti canta e balla continuamente. In una condizione maniacale, appunto... Ora sembra proprio che le nostre scene pubbliche condivise alternino la tragedia traumatica con l´eccitamento scintillante quanto vuoto, come se lo sforzo di tollerare la realtà non si potesse accompagnare con l´approvvigionarsi di "cose buone", facendo appello alle proprie risorse interne e contando all´esterno su qualcosa di positivo che possa sostenere».
Esiste pur sempre la "pulsione di vita"... Un sostegno può arrivare da quelle che voi analisti definite le "figure ispirative", ma trova davvero che in giro ce ne siano molte?
«Più di quanto si possa immaginare - sono le persone con cui possiamo entrare in un contatto non formale ma emotivo, che consentono uno sviluppo di sentimenti e di fantasie, di fiducia e di rinascita della speranza. Ce ne sono... Anche se noto come i sentimenti depressivi di molti miei pazienti siano sempre più accompagnati da un´impressione di impotenza dei propri equivalenti genitoriali o anche fraterni: i propri "maestri", magari i capi, i referenti professionali o le stesse istituzioni come il sindacato».
Sempre le vittime provano un sentimento di vergogna senza colpa, e naturalmente questo vale anche per le vittime della crisi economica. Chi ha perso o rischia di perdere il lavoro si sente più sfortunato o più inetto?
«Si sente proprio colpevole. Tenga conto che qui siamo in presenza di un trauma così destrutturante che spazza via ogni equilibrio precedente. Chi ne è colpito, ha una grande difficoltà a dare un senso al suo dolore e tende ad attribuirsi la responsabilità di quanto sta vivendo, imputandola alle proprie personali incapacità o insufficienze, agli errori compiuti nel corso della vita - mentre invece il fenomeno è davvero collettivo e va ben oltre le forze del singolo».

Corriere della Sera 13.12.08
Il Quirinale. Il presidente prende spunto dalla tutela del patrimonio storico e ambientale per difendere la Carta
Costituzione, l'altolà di Napolitano «Principi basilari fuori discussione»
Il capo dello Stato: soluzioni da condividere nell'interesse generale
di M. Br.


L'invito a usare cautela nelle modifiche alla carta costituzionale e il richiamo a evitare il muro contro muro

ROMA — «I principi fondamentali della Carta costituzionale sono fuori discussione», indisponibili, «e nessuno può pensare di modificarli o alterarli ». Dopo giorni di polemiche innescate dalla questione giustizia e rinforzate poi dall'annuncio del premier Berlusconi di voler metter mano alla Costituzione anche senza cercare una preventiva intesa con il centrosinistra, il capo dello Stato lancia un richiamo che suona rivolto anzitutto alle forze di governo, ma anche erga omnes.
Lo fa con un intervento a braccio, ricevendo al Quirinale i membri del Fai guidati da Giulia Maria Crespi, che pone a lui e al ministro Sandro Bondi «l'assoluta necessità di considerare il patrimonio storico, ambientale e culturale come una delle carte decisive» di cui l'Italia dispone per affermare il suo profilo e il suo peso nell'Europa e nel mondo.
Un obbligo di tutela che non a caso è sancito dalla nostra Magna Carta, all'articolo 9. Vale a dire appunto nella prima parte di quello che è il patto fondativo della democrazia repubblicana: una grammatica di doveri e diritti che per Giorgio Napolitano non è assolutamente lecito considerare in prescrizione. Né ora né mai, come sostiene una da tempo acquisita serie di eminenti pareri, che fanno giurisprudenza istituzionale.
Ma anche sulla smania di ritoccare le altre «voci» che compongono il documento, il presidente invita alla cautela. «Per quanto si discuta — argomento complicato — su cosa è possibile o opportuno modificare e cosa no della Costituzione, certamente quei princìpi fondamentali sono e restano fuori discussione», ripete. I nuovi ingegneri istituzionali dovrebbero insomma ispirarsi alla massima cautela e soprattutto alla ricerca di soluzioni il più larghe possibile e quindi condivise, «nell'interesse generale». Oltretutto l'esperienza dimostra che, quando si è voluto a ogni costo procedere a modifiche approvate a colpi di maggioranza, quelle stesse modifiche non hanno poi retto all'esame dell'approvazione popolare. Com'è accaduto per la vasta riforma votata dal centrodestra nel precedente esecutivo e sonoramente bocciata da un successivo referendum. Una lezione di cui sembra aver fatto tesoro in particolare la Lega, impegnata oggi (e quasi in solitudine nel Pdl) a cercare convergenze con l'opposizione sul federalismo fiscale che sta tanto a cuore a Umberto Bossi.
È forse maturato su questi umori l'ultimo appello di Napolitano, mutuato dallo stesso articolo 138 della Carta (laddove indica i modi per procedere a una revisione) ed evocato più volte in pubblici interventi dei mesi scorsi. Per esempio, il 18 settembre a Venezia, a poche ore da una minaccia del premier di varare il federalismo seppellendo il confronto con l'opposizione «perché il suo leader è inesistente». Disse allora il capo dello Stato che se «nessuno deve fare un'icona intoccabile» della Costituzione, mitizzandola, allo stesso modo bisogna «non cedere alla retorica del superamento, quasi per limiti d'età» del documento entrato in vigore sessant'anni fa. E concluse che, al di là di vecchi tabù o pretese di nuovismo, se tra le forze del Paese si afferma una «concezione non statica» di quel testo, occorre comunque che si intervenga con «riforme mirate e condivise». Il contrario di quel che si preannuncia in questi giorni, con inevitabili ansie e preoccupazioni di chi della Costituzione è garante.

Corriere della Sera 13.12.08
Nuovo documento La Santa Sede aggiorna la «Donum Vitae» del 1987
Il Vaticano e gli embrioni: hanno dignità di persone
«No al congelamento, i figli non sono prodotti da provetta»
di M.A.C.


Condannati i metodi contraccettivi come la pillola del giorno dopo per la quale si commette «peccato di aborto»

ROMA — L'embrione umano non è una muffa, come pure è stato sostenuto, ma «ha fin dall'inizio la dignità propria della persona». È la prima volta che lo afferma un documento dottrinario della Chiesa Cattolica, l'Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede «Dignitas personae», pubblicata ieri.
Il documento, approvato dal Papa lo scorso giugno, in una quarantina di pagine aggiorna la «Donum vitae» del 1987 nel cui testo la questione se l'embrione fosse o no una persona era rimasta sospesa per «non impegnarsi espressamente su un'affermazione di indole filosofica ». Passati vent'anni e a causa degli stessi progressi della scienza, l'ex Sant'Uffizio, ha osservato il segretario della Congregazione, Luis Ladaria, è giunto a un passo dal «dire che l'embrione è persona». Ma, ha aggiunto monsignor Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la vita «il dibattito filosofico è ancora complesso e ha conseguenze anche nell'ambito giuridico» nei vari ordinamenti in tutto il mondo. «Dato il carattere dottrinale di questo documento — ha detto — non si può entrare nel dibattito, ma viene ribadito che l'embrione ha una dignità tipica della persona umana». Da questo riconoscimento, il documento fa discendere una serie di restrizioni: si afferma che «il desiderio di un figlio non può giustificarne la produzione, così come il desiderio di non avere un figlio già concepito non può giustificarne l'abbandono o la distruzione », con riferimento al congelamento degli embrioni e ai metodi contraccettivi come la pillola del giorno dopo, per la quale si commette «peccato di aborto».
Quella degli embrioni viene definita «una situazione di ingiustizia di fatto irreparabile». Per essi «non si intravede una via d'uscita moralmente lecita». No anche all'«adozione degli embrioni» voluta dal Movimento per la vita.

Corriere della Sera 13.12.08
Dibattito a Milano con Stefania Craxi, Bertinotti e Cicchitto
I carri di Praga '68 dividono ancora
di Elisabetta Soglio


Come riassume Fausto Bertinotti, «questo dibattito fa muovere le viscere». C'è tanto cuore, ci sono passione, rancori e pezzi di vita nelle parole dei relatori che ieri a Milano, chiamati dalla Fondazione Craxi, hanno concluso la Conferenza internazionale dedicata a «La primavera di Praga, 40 anni dopo». C'è la veemenza di Stefania Craxi, che insiste: «In quell'epoca, i comunisti italiani stavano con i carrarmati sovietici. Noi, i socialisti, stavamo con la libertà e da quel momento fu rottura. Oggi, mi piacerebbe sentir dire non solo che in quegli anni sono stati commessi degli errori dalla sinistra, ma che c'era una sinistra che aveva ragione». C'è l'onestà intellettuale di Fausto Bertinotti, che difende il fatto che «quello della Primavera di Praga non era un sogno ingenuo perché aveva alle spalle un gruppo dirigente solido», ma ammette che «la Primavera di Praga è stata abbandonata da quelli che l'avrebbero potuta aiutare», che è stata «una scelta tragica non avere rotto con l'Unione Sovietica » e che «il movimento studentesco mondiale del '68 aveva preso lucciole per lanterne». C'è la rabbia di Fabrizio Cicchitto «perché io, che sono notoriamente filoisraeliano, posso dire che si ricorda la Shoah, giustamente, ma ci si è completamente dimenticati del gulag».
E ci sono tanti episodi di come era stato quel '68. Durante il quale, come ribadisce il vicedirettore del «Corriere», Pierluigi Battista, «a nessuno, anche nelle università, importava nulla della Primavera di Praga e non a caso né allora né dopo si sono mai viste T-shirt con la faccia di Jan Palach». Non è tutto: ricorda Battista che quando uscì con Mondadori (non con Sugarco come cerca di rivendicare Stefania Craxi, perdendo una scommessa pubblica) Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, «ci furono pochissime recensioni e il libro non ottenne il successo che qualcuno si aspettava». Sempre nel '68, il vicepresidente del Parlamento europeo Mario Mauro aveva 9 anni «e avevo in casa 18 ragazzi slovacchi che erano stati ospitati in un campo estivo del Gargano, raccolti da un prete bolognese di Gioventù Studentesca. Il movimento che, proprio dopo il '68 e non a caso, avrebbe cambiato il nome diventando Comunione e Liberazione».
Tanti ricordi e tanti punti di vista tra i quali cerca di mettere ordine il giornalista del «Corriere», Dario Fertilio, incalzando i relatori: «I carrarmati sono andati via da Praga — accusa Mauro — ma non hanno lasciato le coscienze di parte della sinistra europea. E non è un caso che siamo nel 2008, sono trascorsi 40 anni, ma il Parlamento europeo non ha ancora approvato una risoluzione sulla Primavera di Praga». È la tesi con cui chiude Stefania Craxi: «Anche da noi, la sinistra non ha ancora il coraggio di ammettere che mentre loro chiudevano le porte ai perseguitati politici dell'Est, Bettino Craxi ospitava Jiri Pelikán e spalancava le braccia a chiunque fosse stato privato della propria libertà, cileno, portoghese, ecuadoregno, slovacco o russo che fosse». Quarant'anni dopo, ancora politica, rabbia e passione.

il Riformista 13.12.08
Oggi Vendola va a vivere da solo e forse affitta dalle parti di Veltroni
Fu arcobaleno. Nasce il partito virtuale "Per la sinistra" (mezzo Prc, Sd e un po' di Verdi). Il Pd guarda con attenzione.
di Enrica Belli


Venticinque lettere più uno. La riscrittura della sinistra e la possibilità di una nuova edizione aggiornata e corretta del centrosinistra (si vedrà poi se col trattino o senza) potrebbe passare da un questionario a forma di alfabeto. Se lo troveranno davanti oggi all'Ambra Jovinelli di Roma i partecipanti alla prima assemblea di "Per la sinistra", l'associazione che raccoglie la minoranza di Rifondazione capeggiata da Nichi Vendola e benedetta da Fausto Bertinotti, la Sinistra democratica di Mussi e Fava e una parte dei Verdi, Paolo Cento in testa.
L'attenzione alla manifestazione va oltre l'appuntamento in sé, oltre le scissioni di un'area politica in terremoto costante. Per intrecciarsi con il destino del Partito democratico, dove la tregua siglata da Walter Veltroni e Massimo D'Alema non rassicura su esiti e scenari futuri. I simpatizzanti e aderenti del nuovo soggetto politico rosso o rosso-verde avranno mano libera nel decidere attraverso il loro questionario le caratteristiche di quello che si preannuncia come un costituendo partito, preludio alla spaccatura del Prc di Paolo Ferrero. A ogni lettera del questionario è accoppiata una frase. E se Veltroni potesse votare, probabilmente segnerebbe la lettera "s" con quel «la sinistra non ha paura» che suona un po' come l'obamiano "yes, we can". Ma il segretario non ci sarà e difficilmente farà capolino nel teatro romano qualche altro leader democratico, perché anche se di scissione nei fatti si tratta, quella di oggi ha ancora le forme della virtualità. E i colori netti di un'identità scomoda: «Io sono e resto comunista», risponde Gennaro Migliore a chi gli chiede se è pronto al grande salto. «Lavoriamo a un nuovo progetto, ma autonomo». Insomma la loro non è, assicura, una «strategia di confluenza», seppur molto lenta, nel Pd.
Eppure è certo che con i democratici c'è un'attenzione reciproca, con tutto il Pd pronto a tendere la mano. È infatti vero che D'Alema nei giorni scorsi ha ripetuto a Veltroni che sulle alleanze bisogna fare «una scelta», ma sull'ipotesi di un rapporto più stretto con una parte della sinistra attuale, Ferrero escluso, tra i due «non c'è una vera e propria divaricazione». Secondo il veltroniano Stefano Ceccanti, non è in discussione l'utilità di un collegamento con quel mondo: «a cambiare nelle due idee di partito che si confrontano sono invece gli schemi». L'opzione preferenziale per il leader di Red sarebbe quella di un partito radicato a sinistra che fa alleanze con il centro, con un'Udc magari rimpolpata da qualche ex margheritino. Mentre Veltroni non vuole mollare sull'idea di un «partito a vocazione maggioritaria», alleato al centro e a sinistra con chi ne condivida il programma.
Per adesso però è Bertinotti a frenare. L'ex presidente della Camera oggi non sarà all'Ambra Jovinelli, ma mercoledì sera ha riunito i suoi in un albergo romano suggerendo prudenza. Potrebbe prefigurarsi per il gruppo una strategia in due tempi: ci sono le europee alle porte che «non devono diventare un guaio» per la sinistra; il momento della divisione e della costruzione vera e propria di un nuovo partito verrà poi. Un nuovo fronte di lotta interna al partito di Ferrero però potrebbe iniziare già oggi, con la riunione del comitato politico nazionale. All'ordine del giorno non c'è ancora, formalmente, una discussione su Liberazione di Piero Sansonetti, accusato di troppa poca ortodossia con la linea della maggioranza. Ma qualcuno potrebbe tirare fuori la questione e chiedere un voto nella giornata di domenica. Se il caso dovesse scoppiare, con la richiesta di allontanamento del direttore, forse la minoranza potrebbe anche cambiare tattica e decidersi alla guerra.

l’Unità 13.12.08
«Facciamo tornare la sinistra ma no a cartelli elettorali»
all’Unità un incontro con Claudio Fava


Il segretario di Sd in redazione alla vigilia dell’assemblea dell’Associazione per la sinistra. «È l’inizio di un processo che si misurerà con le elezioni europee e le amministrative di primavera». I rapporti col Pd e quelli con Di Pietro, lo sciopero e l’opposizione.

Molte mail che riceviamo chiedono se c’è ancora la possibilità di unire la sinistra: onorevole Fava, cosa risponde a questi lettori?
«Non so se questa unità sia effettivamente un vantaggio, una risorsa. Il rischio è di sovrapporre progetti e ambizioni diverse, letture diverse di questo Paese. C’è chi sostiene che il risultato di aprile vada affrontato riproponendo con forza le proprie identità, storie, tradizioni e simboli. Io credo invece che si debba sì lavorare sull’eredità del secolo scorso, ma rielaborando culture politiche e categorie. Altrimenti noi parleremmo un linguaggio e il Paese reale un altro».
Quindi esclude una lista unitaria alle europee sul modello della Sinistra arcobaleno?
«Non sono più proponibili cartelli elettorali di tutta la sinistra. Il risultato delle politiche deriva dal fatto che si coglieva qualche elemento di finzione nel processo dell’Arcobaleno e anche qualche aspetto liturgico, notarile. E non è che ora possiamo ripresentarci dal notaio, cambiare l’ordine delle firme e riprodurre lo stesso contratto. Anche perché questo è un Paese che già di contratti, in politica, ne ha subiti parecchi».
Tuttavia molte mail criticano i tentennamenti nel processo unitario e il fatto che a sinistra ognuno difenda il suo piccolissimo orticello, quasi un’aiuola bonsai.
«Ma io sottoscrivo queste mail. E noi ci stiamo muovendo proprio per tornare a parlare di una sinistra che sia un sostantivo e non una filiera di aggettivi. C’è chi vorrebbe che la sinistra fosse un repertorio di aggettivi, come socialista, ambientalista e comunista, perdendo di vista che il Paese non ci chiede il repertorio degli aggettivi del secolo passato. Il punto è costruire un’altra idea di sinistra. E in quest’ottica un nuovo partito della sinistra è il punto di arrivo. Sapendo che dentro questa idea non ci sarà spazio per l’orgoglio comunista. Non è dicendoti comunista, esibendo questo orgoglio, che riesci a ottenere ascolto e a parlare a un Paese che è sofferente sul piano dei bisogni materiali».
Dunque come vi presenterete alle europee?
«Domani (oggi, ndr) presenteremo l’associazione “Per la sinistra”. E il nostro impegno è dare uno sbocco elettorale al progetto che mettiamo in campo. Vedremo chi sarà disponibile a starci subito dentro da protagonista, il punto è partire. Se in questo momento la tattica prevale sulla generosità rischiamo di essere spazzati via dalla storia. Generosità vuol dire non guardare al pallottoliere, ma far partire un processo che di qui alle elezioni deve fare politica, sporcarsi le mani, a partire dai temi del lavoro e della questione morale. In modo che il simbolo che apparirà sulla scheda elettorale significhi qualcosa, non rappresenti solo dei gruppi dirigenti che si applaudono a vicenda, come è accaduto nel dicembre dell’anno scorso con la nascita dell’Arcobaleno. La sinistra avrà senso se saprà essere il cemento di ciò che sta accadendo nei luoghi periferici del Paese, dalle fabbriche ai consigli comunali, dalle scuole alle università. Peppino Impastato, nei “Cento passi”, dice al segretario del suo partito, citando Majakovskij: “Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada”».
In concreto cosa farete?
«La costruzione della sinistra avrà i tempi lunghi di una generazione, ma ora è necessario lanciare il cuore oltre il muro, affermare questa urgenza, anche superando una bella parola come unità che rischia di essere vuota. Alle europee porteremo quello che saremo stati in grado di costruire in questi mesi, verificando quando è stato seminato e raccolto».
Quale sinistra intendete unire all’assemblea di domani (oggi, ndr)?
«Una sinistra che ha elaborato il lutto e che non continua a contemplare le macerie del voto di aprile e il proprio ombelico. Quella che attraversiamo oggi è una soglia di non ritorno. Da qui dovrà nascere un nuovo soggetto politico, una nuova sinistra che sceglie di darsi anche delle forme e un lavoro politico diverso. Quella che abbiamo alle spalle è stata una sinistra fatta di gruppi dirigenti molto autoreferenziali, di poca democrazia e partecipazione, di forti esclusioni. Oggi c’è un Paese che ci chiede di tornare a contare, di avere quote di responsabilità e di sovranità. Non a caso l’assemblea prevede tre o quattro interventi di dirigenti politici in senso tradizionale e una quarantina di interventi di persone che stanno costruendo la sinistra nei territori, che si sono prese sulle spalle alcune battaglie che in questo Paese sono ormai orfane, che hanno cominciato a vivere la questione morale non come una questione astratta ma come sopravvivenza politica perché operano in posti come Castel Volturno. Cioè il Paese reale, di cui abbiamo perso il senso».
Comunque darete vita a un nuovo partito?
«La forma partito è ideale se riesci a trasformarla, a farne davvero un luogo di riforma della politica, un luogo di inclusione e partecipazione. Il malessere nei confronti dei partiti dipende dal fatto che sono diventati strumenti di potere, dal modo in cui la politica ha perduto autonomia rispetto ai poteri forti. I “califfati” sono il prodotto di questo. La questione morale si affronta anche portando un’altra qualità del governo nei luoghi in cui si decide e si amministra».
Lei che è parlamentare europeo saprà che in tutta Europa, semplificando, esistono due sinistre: una maggioritaria riformista e di governo e una più radicale e identitaria. Non teme che un esperimento nuovo come quello che vi proponete finisca schiacciato da queste due realtà?
«Io parto da una lettura diversa di questo tempo. C’è sì una sinistra identitaria, quella di Ferrero e Diliberto, e un Pd che ho difficoltà a dire se sia sinistra riformista perché un partito lo definisci sulle scelte che fa. Il Pd, per come è stato costruito, è un partito che non è in condizione di scegliere. Io mi aspetto un partito che dica: sto con la Cisl, non mi piace uno sciopero contro la iella; oppure mi aspetto che il segretario del Pd dica: sto con la Cgil, scendo in piazza perché non si sciopera contro la iella e la crisi ma contro le proposte inadeguate e autoritarie che questo governo sta dando. Quando un segretario non dice, non sceglie, su questo e altri cento temi, ho difficoltà a confrontarmi col quadro delle due sinistre di cui parlava. Quando sento parlare di sinistra riformista e di governo non penso al Pd ma a Zapatero, ai socialisti francesi, a ciò che succede nell’Spd tedesca. E penso che tra 20 anni saremo in condizione di immaginare una sinistra che colleghi capacità di governo e capacità di radicalità. Anche la contrapposizione delle due sinistre è eredità del secolo scorso».
Niente orgoglio comunista, diceva. Quali sono i punti che caratterizzano l’identità della nuova sinistra di cui parlava e che la differenziano dal Pd?
«Noi partecipiamo a questo sciopero perché pensiamo che si è aperto uno scontro senza precedenti sul concetto stesso di lavoro. Allora la prima differenza profonda è che sul tema del lavoro non si può tacere, non si può non scegliere. Secondo punto, la questione morale: si deve decidere se è una questione giudiziaria che va affidata alle procure o se riteniamo che passi attraverso la riforma della politica, attraverso la sua autonomia. Quello che più mi ha impressionato nella vicenda di Firenze non è la comunicazione giudiziaria all’assessore Cioni, ma scoprire che le sue politiche securitarie erano finanziate dal palazzinaro Ligresti. Ecco cosa succede quando la politica è subalterna dei poteri forti. Un terzo punto riguarda la costruzione stessa del processo politico, la partecipazione. Le pratiche democratiche non possono riguardare soltanto l’elezione del leader. Serve la capacità di dare una quota di sovranità alla parte che rappresenti. Un ultimo punto è il modo in cui si fa opposizione. Questo è un governo con cui non costruisci un dialogo ma un confronto, che va portato avanti soltanto nei luoghi istituzionali. Su alcuni terreni questo governo non produce proposte ma smottamenti costituzionali. Sulla giustizia l’intenzione è quella che Berlusconi ogni tanto dichiara in un eccesso di verità: noi vogliamo riformare a spallate la Costituzione materiale di questo Paese e pazienza se perderemo una sana divisione tra poteri e se la giustizia diventerà un’appendice del potere esecutivo».
La sinistra morale, etica, in alcune zone dell’Italia esce clamorosamente sconfitta, ma non ha l’impressione che tutto il Paese sia ormai da un’altra parte?
«È profondamente cambiato il senso comune di questo Paese. Ma sarebbe un errore fatale per la sinistra e per tutte le forze democratiche adeguarsi a questo cambiamento, assecondarlo, che è ciò che fa il centrodestra. Per non adeguarti devi avere il coraggio di fare qualche gesto che costituisca in termini quasi biblici uno “scandalo”. Lo scandalo, con tutta l’amicizia che ho per Vladimir, non è la vittoria all’Isola dei famosi ma il fatto che l’onorevole Cosentino sia il capo del suo partito nella Campania, sia sottosegretario in questo governo e rappresenti organicamente, secondo ciò che dicono senza essere smentiti cinque collaboratori di giustizia, un clan mafioso. Allora, io credo che se dovessi andarmi ad incatenare, per dare senso e rumore alle mie catene io proverei, magari da ministro ombra di Giustizia del Pd, a farlo davanti al ministero dell’Economia dicendo: noi da qui non ce ne andiamo finché non se ne va Cosentino da questo governo. Perché se accetti questo e altri cento piccoli miserabili fatti come questo, Totò Cuffaro continuerà a prendere un milione di voti da siciliani che diranno: è amico dei mafiosi ma a me interessa che riesca a trasformare il bisogno in beneficio».
E secondo lei perché questo accade?
«Perché questo è un Paese che stiamo abituando all’abitudine. Trent’anni fa certe cose erano impensabili, la politica conservava ancora una funzione pedagogica e non si potevano mettere in discussione certi valori. Oggi la politica è gestione, passa dal governo alla sovranità. Le intercettazioni telefoniche di Firenze mostrano una specie di “guicciardinismo” di provincia: barattiamo quote di democrazia in cambio di quote di decisione. Ma è chiaro che su questo terreno Berlusconi ci batte, è più abile di noi a farlo».
Ma perché, visto che siete fuori dal Parlamento e che quindi la vostra capacità di costruire il senso comune e di incidere sui processi politici, non vi incatenate voi davanti al ministero dell’Economia?
«Io ho fatto di peggio. Sono andato sotto casa di Cosentino e dei suoi amici e ho appeso un manifesto con su scritto “La camorra è una montagna di merda”. Cosentino rappresenta i Casalesi al governo e noi l’abbiamo detto a casa sua. Ci saremmo aspettati una reazione da quella parte della destra attenta ai temi della legalità. E invece no: An è entrata nel Pdl e in Campania Cosentino è stato riconfermato come sovrano. Che fine ha fatto la destra dei valori e della legge?».
Cosa pensa della crescita nei sondaggi dell’Italia dei valori?
«È inevitabile che, in un momento come questo per il Pd, ci sia una protesta, una rabbia, una solitudine che trova i suoi spazi per esprimersi. Che possono essere le piazze di Grillo o i voti a Di Pietro, e tra le due cose naturalmente è meglio Di Pietro. C’è un pezzo di paese che è rimasto orfano di una buona politica, ed è un fatto positivo. La crescita di Di Pietro ci fa capire che c’è un paese non incartato, non sedimentato, un Paese in grado di costruire l’Onda, di riprendersi la piazza senza la mediazione dei partiti, capace di trovare nuovi linguaggi. Penso allo slogan “Io non ho paura”: se avesse dovuto inventarselo la politica ci sarebbero voluti anni di seminari. Eppure fotografa perfettamente la finzione, la bugia che sta dentro la parola paura che la destra ha agitato per vincere. E poi ci dice che questi ragazzi non hanno paura di fare politica in prima persona: c’è una vitalità nel Paese e io credo che quando il progetto della Sinistra uscirà dagli uffici studi e diventerà carne viva e una storia da costruire potrà incontrare questa parte di Paese».
Nichi Vendola e altri sostengono che Antonio Di Pietro esprima una cultura di destra. È d’accordo?
«Sì sono d’accordo, infatti quando dico che valuto come un buon segno i suoi consensi è solo nel senso della vitalità che dimostrano. L’idea che ci sia una Italia che non è in rianimazione, che cerca altre strade».
Il caso Firenze: voi proponete che gli indagati non possano partecipare alle primarie di coalizione? Se vincesse l’assessore Cioni, voi lo sosterreste?
«Su Cioni mi sono espresso in tempi non sospetti, quando era solo l’assessore che pensava di affrontare il problema della sicurezza sequestrando le spugnette ai lavavetri: avevo detto che se lui avesse vinto le primarie del Pd noi non lo avremmo sostenuto per ragioni politiche. L’inchiesta in corso conferma il nostro giudizio e lo aggrava, non per i suoi risvolti penali ma per quello che rivela sul piano della conduzione politica. Per questo sarebbe utile che Cioni non fosse presente. Siamo soddisfatti che si facciano primarie di coalizione, perché il meccanismo dei “soci di maggioranza” che decidono e poi gli alleati sono solo degli optional non ci piace affatto».
Parliamo di scuola. Lei elogia il movimento dell’Onda, però anche i partiti di sinistra come il vostro sono stati spiazzati, scavalcati da questi studenti.
«Il movimento ha messo in campo qualcosa di più articolato della difesa della scuola pubblica, la difesa del sapere e della sua autonomia, l’investimento sul sapere come chiave per risolvere la crisi in cui siamo precipitati. Sarkozy, che pure è un conservatore, ha messo a fuoco questa gerarchia di problemi e ha deciso di raddoppiare gli investimenti sul sapere».
Il governo di centrosinistra in Italia non l’ha fatto...
«Credo che sia caduto nei consensi anche per questo: avere deciso di mettere da parte alcuni elementi di forte discontinuità in favore di un intervento centrato sul quadro macroeconomico ha rivelato una grande ingenuità. Questo è un tempo che ha bisogno di gesti simbolici che comunichino con grande forza che si chiude una stagione politica e se ne apre un’altra. Zapatero, che pure non è un estremista socialista in campo economico, ha capito che doveva fare subito dei gesti per dimostrare che lui era qualcosa di diverso da Aznar, anche a costo di mettersi contro la tradizione cattolica della Spagna».
Quali sono i gesti simbolici che lei si aspetterebbe da un nuovo governo di centrosinistra?
«Partirei dal lavoro, dalla necessità di difendere con le unghie e con i denti alcune leggi che sono state soppresse anche se erano a costo zero. Penso alla legge 188 che impedisce ai datori di lavoro di far firmare dimissioni in bianco da una dipendente, nel caso intendesse fare un figlio. Voglio dire che anche il nostro governo ha fatto scelte giuste, altre sono state parcheggiate in attesa di capire come si sarebbe evoluto il quadro politico. E ne abbiamo pagato le conseguenze».
Che futuro vede per una possibile alleanza tra voi, il Pd e l’Italia dei valori di Di Pietro?
«Le alleanze si fanno sul merito. Faccio l’esempio dell’Abruzzo: si è pensato di costruire un’alleanza di centrosinistra, poi si è pensato di allargarla all’Udc, ci si è chiesti se mettere in lista o meno gli indagati perché comunque portano voti. Se questa è l’idea, il risultato è solo una somma di cose diverse e se vinci non cambia niente. Una coalizione funziona se c’è un progetto, una cornice. Io penso che con l’Udc non ci si possa alleare perché abbiamo un’idea diversa del Paese, dei valori. Altrimenti dimostreremmo agli elettori che barattiamo qualità in cambio di voti e loro ci punirebbero. Perderemmo anche in caso di vittoria, come è già accaduto. Dunque il punto è costruire una stessa idea, uno stesso progetto di Paese: per fare questo servono dei paletti, dei no, le differenze non possono essere sempre sfumate, altrimenti vince Cuffaro».
Totò Cuffaro è un po’ la sua bestia nera...
«Lo abbiamo assecondato e preservato, legittimato. Lo abbiamo considerato inamovibile nel suo ruolo di grande dispensatore di denaro pubblico. In Sicilia non siamo mai stati capaci di mettere la questione morale al centro di una mozione di sfiducia, perché era una mossa considerata perdente. Ma intanto avremmo costruito uno scandalo davanti all’opinione pubblica. Se non lo fai il tuo destino è segnato».
Dunque tra voi, il Pd e l’Idv che futuro c’è?
«Più che ragionare in astratto di centrosinistra, bisogna pensare in concreto, a partire da dove governiamo insieme, a una proposta politica comune».
Che spazio vede per l’utopia nella nuova sinistra che volete costruire? Ci sono nuove utopie a cui guardate?
«Trasformare l’esistente è già una forma di utopia. Però questo lo puoi fare dove governi. È lì che dobbiamo scommettere le nostre utopie e che abbiamo perso alcune sfide. In Campania abbiamo perso la sfida perché ci siamo cullati nell’idea di aver costruito la nuova capitale del Mediterraneo, fingendo di non sapere che non c’erano cacicchi ma califfi. La guerra delle tessere dura da 15 anni, ben prima della nascita del Pd, la corrente bassoliniana è composta da 8 sottocorrenti, il sindaco di Salerno e il governatore non si rivolgono la parola da anni. Come fai a costruire utopia in questo modo, senza affrontare la miseria di queste contraddizioni? Eppure la Campania è una terra che ci aveva tutto il consenso necessario perché noi potessimo governare con generosità, invece che costruire filiere di sottogoverno. Eppure sono rimaste solo tribù in lotta tra loro: oggi la politica del Pd in Campania è chi controlla la maggioranza delle 50mila tessere stampate. Ma se la politica è questa che senso ha parlare di utopia?».
La vostra assemblea sarà guidata da Moni Ovadia. Non crede che sia una fuga dalla politica? Vi siete posti il problema di lanciare nuovi leader, di un ricambio generazionale? Finora nel centrosinistra i leader hanno passato molto tempo a farsi la guerra tra loro...
«È vero, ci sono stati troppi poeti morenti... Ma sarebbe inconsueto se ci presentassimo alla prima assemblea lanciando un nuovo leader da acclamare. Ma tra chi interverrà domani (oggi, ndr) ci saranno tanti giovani che possono diventare classe dirigente. Nel partito da cui provengo, avevo più stima di quelli più vecchi di me di 20 anni che di quelli più giovani. Ho visto ragazzi cresciuti come polli in batteria, con i segni di una rassegnazione definitiva, di un apprendimento mnemonico delle cose giuste da dire in una riunione, di come costruire la loro carriera tra una corrente e l’altra. Nell’Onda, invece, vedo una grande capacità di usare un nuovo linguaggio, di dire in modo semplice quello che tutti vorremmo dire. Lì non ci sono “leaderini” imposti, c’è stato un processo di selezione naturale: è quello che stiamo cercando di fare con la Sinistra che nasce domani».

il Riformista 13.12.08
Niente più turisti in coda agli Uffizi: effetto della crisi
di Maria Zipoli


FLESSIONE. Soprattutto i visitatori americani sono in calo, ma non solo. All'Accademia -13%.

Firenze. Si possono visitare gli Uffizi e l'Accademia del David di Michelangelo senza bisogno di sottoporsi a code spesso anche di ore. Buona notizia per gli amanti dell'arte, pessima per i fiorentini perché la mancanza di code nei più famosi musei cittadini è il segno della grave crisi turistica. Soprattutto americani, da sempre i turisti più ambiti da commercianti e ristoratori di Firenze. Rispetto al 2007 si registrano il 6-7 % di presenze in meno per l'intero settore alberghiero e l'1,8 % in meno dell'export verso gli Stati Uniti. Da gennaio a giugno del 2008 tra alberghiero e extralberghiero, c'è stata una flessione netta del 5% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
A patire la crisi sono anche i musei statali di Firenze che nel mese di novembre hanno registrato un calo si presenze assolutamente inatteso. Rispetto al novembre del 2007 il calo di visitatori è stato di 53.401 unità. Quest'anno infatti i visitatori - sempre a novembre - sono stati 258.532 mentre un anno fa oltre 311.000.
E la crisi colpisce soprattutto il più famoso museo, quello degli Uffizi, dove le presenze sono scese da 110 a 98 mila, un calo di oltre il 10%. Giù le presenze anche all'Accademia, dove è esposto lo splendido David di Michelangelo. Le foto delle file di turisti che si allungavano per le vie del centro storico di Firenze sono un pallido ricordo. A novembre anche il David ha patito la crisi con un calo di presenze di oltre il 13%.

il Riformista 13.12.08
Scomparso il grande intellettuale cinese prelevato dalla polizia
Liberate Liu, geniale dissidente rapito dal regime
di Ilaria Maria Sala


Carta 08. Un documento audace che chiede al governo di rispettare i diritti umani e avviare riforme politiche. Liu Xiaobo lo firma insieme ad altri 302. Tutti i firmatari finiscono nel mirino. Lui l'otto dicembre viene portato via. L'eco del suo arresto si rivela però più ampia del previsto. La dissidenza si organizza. E il potere s'inquieta.

Hong Kong. Ancora nessuna notizia ufficiale su Liu Xiaobo, uno dei più famosi intellettuali e dissidenti cinesi, prelevato dalla sua abitazione l'8 dicembre sera dopo la pubblicazione della "Carta 08", un documento di ampio respiro in cui si chiede al governo cinese di rispettare i diritti umani e dare il via a riforme politiche significative. Liu è uno dei redattori e co-firmatari della Carta, insieme ad altri 302 intellettuali, avvocati, giornalisti, uomini d'affari, e perfino contadini.
Liu, di 53 anni, professore di critica letteraria alla Normale di Pechino fino al1989, quando il suo impegno al fianco degli studenti in sciopero lo portò per la prima volta a conoscere il carcere, è uno degli scrittori più significativi della Cina contemporanea, con una grande capacità di dialogare tanto con le correnti cinesi che con quelle internazionali, ed una notevole chiarezza di pensiero e profondità: peccato però che i suoi saggi siano quasi inaccessibili ai suoi compatrioti, dal momento che, censurato in patria, può solo pubblicare su riviste in cinese di Hong Kong o su pubblicazioni straniere - che raggiungono il pubblico cinese più accorto solo tramite un attento scavalcamento delle barriere di censura di Internet.
Da quando dunque Liu è stato portato via dalla polizia - che ha anche sequestrato computer e quaderni, nonché staccato le linee del telefono della casa dove è rimasta la moglie, Liu Xia - la comunità dissidente cinese sta vivendo ore difficili. In primo luogo, perché continuano le incursioni notturne a casa degli altri firmatari, che sono sparsi per tutto il paese. Fra questi, la professoressa di Canton Ai Xiaoming, che insegna Studi cinesi all'università Sun Yatsen ed è autrice di documentari sulle difficoltà dei poveri, è stata portata via dopo che il suo appartamento è stato perquisito e molti documenti sono stati requisiti. Intanto, a Shanghai, l'avvocato di Zhang Enchong, già in difficoltà in passato per aver voluto difendere persone che erano state espulse dalle loro case per fare spazio a progetti edilizi, è stato messo agli arresti domiciliari.
La Carta 08 ha preso in contropiede le autorità cinesi e le forze dell'ordine, dal momento che si tratta non solo di un documento di grande potenza, fatto uscire proprio alla vigilia del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, ma anche perché dà prova di una grande capacità organizzativa, che è riuscita a raggiungere persone in tutto il paese senza essere intercettata dalle autorità - malgrado il sofisticato e capillare sistema di controllo vigente in Cina, dove sia i telefoni, che i messaggi sms, che naturalmente la corrispondenza email sono oggetto di sorveglianza e frequente censura. Non solo: il documento arriva proprio alla vigilia dell'anno di "tutti gli anniversari", per così dire, vissuto con trepidazione dai governanti che sanno di non aver conquistato la fiducia dei loro cittadini. Perché in un paese politicamente chiuso come lo è la Cina, dove gli spazi di dibattito sono angusti, gli anniversari divengono un punto focale, per combattere con la memoria il monopolio governativo sull'informazione.
Il 2009, infatti, è reputato dalle autorità cinesi un anno politicamente "sensibile", in quanto sarà non solo il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, ma anche il ventesimo anniversario della protesta di Piazza Tiananmen, schiacciata nel sangue, il cinquantesimo anniversario della fuga dal Tibet del Dalai Lama, il trentesimo anniversario della repressione contro il "Muro della Democrazia", che vide Wei Jingsheng chiedere che venissero introdotte, oltre alle riforme economiche, anche delle riforme politiche (Wei è attualmente in esilio negli Stati Uniti), ma anche il novantesimo anniversario della prima significativa protesta di piazza degli studenti cinesi, nel 1919, quando, già allora, in quello che fu in seguito chiamato il "Movimento del 4 Maggio", veniva richiesta democrazia e rigore scientifico.
L'eco dell'arresto di Liu Xiaobo si sta rivelando ampia: da quando è stato portato via, infatti, più di 1200 intellettuali ed attivisti cinesi hanno deciso di firmare una petizione online per richiedere il suo immediato rilascio, pur assistendo al perdurare della repressione nei confronti dei 303 firmatari originali della Carta 08:
«La Carta 08 è significativa, fra le altre cose, perché mostra al governo che, malgrado i suoi sforzi, non tutti gli intellettuali cinesi sono stati cooptati, e che l'aspirazione per i diritti umani e un sistema politico aperto e pluralista resta alta fra molti cinesi», dice Nicholas Bequelin, ricercatore sulla Cina per Human Rights Watch, aggiungendo che la prolungata detenzione di Liu Xiaobo senza un capo d'accusa e senza notificazione alla famiglia è in violazione delle stesse leggi cinesi.

il Riformista 13.12.08
Perché crediamo (non a Darwin)
Creazionismo. È preferito all'evoluzionismo, in America e non solo, perché il nostro cervello è "nato per credere".
di Andrea Valdambrini


La nostra ragione, sostiene Nietzsche, non è eccessivamente razionale. Forse per questo motivo molte persone, soprattutto negli Stati Uniti, preferiscono credere nella storia secondo cui Dio ha creato il mondo piuttosto che accettare la teoria dell'evoluzione.
Perché siamo tutti, in parte o completamente, attratti dalle spiegazioni fantasiose piuttosto che da quelle rigorose? Perché la scienza sembra avere così poco appeal sulla nostra mente?
A queste domande provano a rispondere in Nati per credere lo psicologo cognitivo Vittorio Girotto, il filosofo della scienza Telmo Pievani, e il neuroscienziato cognitivo Giorgio Vallortigara. Da un lato gli autori svelano il motivo per cui il creazionismo risulta più intuitivo del darwinismo, dall'altro propongono di considerare la religione come un fenomeno naturale, un adattamento, effetto dell'evoluzione della specie.
Il cervello, infatti, come una straordinaria macchina che produce credenze, porta spontaneamente a creare senso e ragioni anche dove probabilmente queste mancano.
Attraverso la nostra struttura psichica siamo spontaneamente portati a distinguere tra enti animati e non, e ad attribuire intenzioni e obiettivi perfino alla natura, che come ha svelato Darwin, procede senza prefiggersi scopi, più come un bricolage che come il progetto di un ingegnere.
Gli autori di Nati per credere (V. Girotto, T. Pievani e G. Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, Torino 2008) non esprimono alcun atteggiamento ironico o irridente nei confronti del fenomeno religioso. Preferiscono evidenziare - senza giudizi di condanna o assoluzione - come la tendenza a credere sia un elemento ben connaturato alla mente umana, e per questo perfettamente spiegabile. Se siamo irrazionali, insomma, è anche un po' colpa dell'evoluzione biologica. La quale da parte sua, per quanto possa sembrare paradossale, non ci aiuta affatto a credere nel darwinismo.

Il Mattino 13.12.08
Una ricerca: nel cervello le radici della giurisprudenza
I neuroni di delitto e castigo
di Titti Marrone


Dedicato ai tanti che oggi si accapigliano sulla giustizia nelle sue svariate incarnazioni mediatiche: agli appassionati di plastici della casa di Cogne, di Amanda e Raffaele, a chi ama le divisioni tra innocentisti e colpevolisti ma anche a chi vuole la separazione delle carriere e a chi la considera anticostituzionale, ai magistrati di Salerno intenti ad indagare su quelli di Catanzaro e a quelli di Catanzaro che fanno le pulci ai colleghi di Salerno. Fermi tutti, inutile agitarsi così. C’è una ricerca che dice: il diritto è terreno invitante quanto ostico, ma alla fine a determinarlo è il funzionamento del cervello.
Infatti, secondo uno studio pubblicato su Neuron, la più importante rivista internazionale di neuroscienze, gli esiti finali dei sistemi giudiziari - cioè le leggi che proclamano colpevolezza e pena - affonderebbero le loro radici nel modo di funzionare del cervello umano. Per semplificare, le decisioni da prendere su «delitto» e «castigo» sarebbero da ricondurre a due pulsioni cerebrali differenti: in un’area neurale ci sarebbero gli impulsi preposti a decidere sulla colpevolezza dell’individuo; in un’altra quelli da cui discende la punizione da infliggere. Significa che le leggi pensate per i crimini di varia natura nelle diverse epoche non sarebbero riflesso di processi storici, ma della fisiologia umana. Significa che Cesare Beccaria non aveva capito niente quando definiva le leggi «le condizioni colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e desiderosi di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla». Sempre secondo lo studio della rivista Neuron, secoli di filosofia del diritto avrebbero prodotto solo baggianate arrivando a conclusioni del tipo di questa di Trasimaco, citata e fatta propria dal grande Piero Calamandrei in un discorso inedito di recente pubblicazione: «La legge non esiste che come volontà politica di sostenere con la forza una data legge». Ad averci quasi azzeccato sarebbe stato invece Dostoevsky, che nel personaggio di Raskol’nikov, l’assassino di «Delitto e castigo», aveva costruito un’identità scissa tra emotività e ragione molto simile a quella di chi avrebbe dovuto giudicarlo. Di certo avrà pensato al mitico «io diviso» della letteratura russa l’équipe di scienziati della Vanderbilt University di Nashville, Tennessee, quando, dopo aver analizzato un gruppo di volontari, è arrivata alla sua conclusione. Questa: la corteccia dorsolaterale prefrontale destra - la più razionale - è quella che si attiva quando si tratta di decidere sulla colpevolezza di una persona, mobilitandosi intensamente quando c’è la certezza che l’imputato sia colpevole. Quando invece si tratta di stabilire una pena, a prendere il sopravvento è un’altra area neurale, più legata all’emotività, più disposta a considerare eventuali circostanze attenuanti. Ora, la conclusione può apparire convincente se riferita a un singolo soggetto giudicante o anche a un’intera giuria, di quelle che siamo abituati a vedere nei film americani: con la portinaia di colore, il camionista grasso e la smilza single infervorata. Persuade invece assai meno l’ipotesi di spiegare, con una simile ricerca, le radici di secoli di diritto e tradizione giuridica. Interpretarli così significa rinunciare all’idea di cambiare le leggi ingiuste, cioè correre un rischio, quello che alla fine (ancora Trasimaco) la giustizia sia «ciò che giova al più forte». Altro che neuroni.

venerdì 12 dicembre 2008

l’Unità 12.12.08
Retromarcia del ministro: il maestro sarà «unico» solo a richiesta e l’asilo non cambierà
Rinviata al 2010 la modifica delle superiori. Resta la riduzione oraria alle medie
La riforma Gelmini travolta dall’Onda e dai sondaggi
di Maristella Iervasi


Maestro unico solo a richiesta delle famiglie. Il governo illustra ai sindacati un verbale con le linee guida. Retromarcia della Gelmini, che per salvare la faccia scrive: «Svolta storica». Riforma licei al 2010.

Travolta dall’Onda e «affondata» dai dati sullo sciopero della scuola del 30 ottobre scorso, nonché dalle proteste del Pd, Mariastella Gelmini ha fatto retromarcia. Proprio alla vigilia della nuova protesta del mondo della scuola. Il maestro unico sarà un optional, ci sarà ma solo se le famiglie lo chiederanno. Alle medie, tempo scuola più corto di 2 ore. Congelato persino l’incremento del numero massimo di alunni per classe. Mentre la tanto sbandierata riforma delle superiori (licei, tecnici e professionali) slitta di un anno: arrivederci al 1° settembre 2010 e non più come previsto dal 2009. La promessa di un tavolo sul precariato e disponibilità ad estendere ai dipendenti della scuola gli sgravi fiscali sulla retribuzione accessoria.
In pratica, hanno vinto i sindacati (Flc-Cgil in primis), le Regioni, l’opposizione, i comitati dei genitori, gli studenti e le maestre. Ha perso la Gelmini, che ha dovuto «pagare» lo scotto di aver fatto perdere a Berlusconi punti di gradimento nei sondaggi. Tant’è che ieri il ministro non ci ha messo la faccia. È salita a Palazzo Chigi in ritardo per l’appuntamento con i sindacati. E come è ormai prassi nella comunicazione di viale Trastevere, ancora prima delle conclusioni ha «parlato» un comunicato. Ora si cambia strategia, così pare: dialogo e non più muro contro muro. Anche se la Gelmini parla di «Svolta storica per l’offerta formativa» e di «modulo superato». Una prima verità si vedrà presto, nel Consiglio dei ministri di martedì.
Soddisfatti i sindacati e il Pd. Anche se i tagli di Tremonti previsti in Finanziaria (8miliardi di euro nei prossimi 3 anni) restano tutti. Walter Veltroni, segretario del Pd: «Tutte le prediche che ci avevano fatto, le lezioncine rivolte a quanti osavano criticare, che fine hanno fatto? Avevamo ragione noi, avevano ragione i sindacati dei docenti, gli studenti, i genitori. Aveva ragione quel grande movimento che aveva bocciato la finta riforma». Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: «Lo sciopero della scuola di oggi resta in piedi. Gli impegni del governo devono essere tradotti in fatti concreti. C’è stato solo l’avvio di un processo di confronto ma restano ambiguità sostanziali per quanto riguarda la scuola primaria. Al momento non ci sono garanzie sul mantenimento del modello pedagogico attuale. L’offerta formativa non si può trasformare in un supermercato».
LE LINEE GUIDA E IL VERTICE
L’incontro a sorpresa ieri a Palazzo Chigi, presieduto dal sottosegretario di Stato Gianni Letta. Arrivano i sindacalisti Domenico Pantaleo e Maria Brigida per la Cgil, Raffaele Bonanni, Giorgio Santini e Francesco Scrima per la Cisl; Luigi Angeletti e Massimo Di Menna per la Uil; Gennaro Di Meglio del Gilda. Ci sono già i ministri Maurizio Sacconi (Welfare) e Renato Brunetta (Funzione pubblica). Manca la Gelmini, che arriva in ritardo. In due paginette il verbale dell’incontro, ma non è un’intesa. Solo l’«illustrazione delle linee guida» dei provvedimenti attuativi della legge 133 del 2008 (piano programmatico). E come annunciato da l’Unità il 20 novembre scorso è proprio il cosidetto parere Aprea della Commissione Cultura della Camera che detta legge. Così come è già avvenuto per lo slittamento delle iscrizioni a scuola per il prossimo anno. In 21 punti la Pdl ha corroso i pilastri del piano Gelmini sul sitema scolastico. E ieri il governo l’ha recepito in toto.
MISURE E AMBIGUITÀ
L’orario obbligatorio della scuola dell’infanzia è garantito a 40 ore, con 2 insegnanti per sezione. Alla primaria invece è previsto uno «spezzatino», in relazione «anche alla esigenza di riorganizzazione didattica». Orario scolastico a 24 ore (per le prime classi) solo su richiesta delle famiglie, a 27, 30 e 40 ore. Classi a tempo pieno «funzionanti con 2 docenti». Alle medie invece si passa dalle attuali 32 a 30 ore, penalizzando sicuramente le materie come l’italiano e l’educazione tecnica. Stop all’aumento del numero massimo degli alunni per classi dal 1° settembre. Per le superiori, infine, nel 2009 sarà avviato il dibattio, nel 2010 la riforma. Istituti tecnici in due settori: economico e tecnologico e indirizzi ridotti a 11 con un orario di 32 ore di lezione settimanali. Licei rimodulati sulla riforma Moratti.
I TAGLI RESTANO
In piedi tutti i tagli in finanziaria sulla scuola. Per Mimmo Pantaleo il sottosegretario Letta avrebbe lasciato un minuscolo spiraglio: «Cercheremo di attenuarli», avrebbe detto. Per il 2009 il taglio alla scuola è di 456milioni di euro. Per il 2010 di 1.650 milioni che salgono a 2500 mdl nel 2011 e 3,1 mld per il 2012. Resta da capire come si coniugherà il risparmio con la retromarcia della Gelmini. Tremonti sembra non voler scucire un euro, mentre una variazione di bilancio sempra imporsi.
Claudio Fava, segretario nazionale di Sinistra democratica, ricorda le parole di Berlusconi: «Vedo una sinistra scandalosa che ha la capacità di rovesciare il vero e dire il contrario della verità. Sulla scuola i nostri sono provvedimenti con il buon senso del padre di famiglia». Evidentemente - fa notare Fava - non erano così di buon senso, «visto che è cominciata la retro marcia».

Repubblica 12.12.08
Orari, precari e classi numerose ecco tutte le novità "congelate"


ROMA - Marcia indietro in 11 mosse. Il parziale dietrofront del governo sulla riforma della scuola è tutto nell´accordo di ieri pomeriggio tra governo e sindacati. Le novità rispetto al cosiddetto Piano Gelmini, che tante proteste aveva suscitato tra gli studenti e i professori, e aveva portato allo sciopero generale del 30 novembre scorso, sono tante. Vediamole.
La riforma dei licei e degli istituti tecnici, cui si dovrebbe aggiungere quella degli istituti professionali, non partirà più il primo settembre 2009 ma dal 2010. Le famiglie avranno più di un anno di tempo per familiarizzare con una riforma che modificherà indirizzi scolastici, materie e quadri orario.
La riforma del primo ciclo (scuola dell´infanzia, primaria e media) e il Dimensionamento della rete scolastica partiranno dal 2009/2010. Ma il "maestro unico" (con 24 ore settimanali in una sola classe alla scuola elementare) non fa tempo a vedere la luce. Accanto a classi funzionanti con 27 e 30 ore settimanali, le 24 ore diventano una opzione che le famiglie che potranno richiedere.
Per il tempo pieno (con orario di 40 ore settimanali) continueranno ad essere utilizzati due insegnanti per classe. Nella scuola dell´infanzia (l´ex materna) il modello didattico principale sarà quello con 40 ore settimanali e due insegnanti: il cosiddetto tempo normale. Le classi che potranno funzionare con 25 ore settimanali (il tempo ridotto) costituiranno "un modello organizzativo residuale". Il Piano prevedeva "la progressiva generalizzazione" del modello antimeridiano.
Novità anche per la scuola media: le prime classi del prossimo anno potranno avere un orario obbligatorio variabile tra le 29 e le 30 ore «secondo i piani dell´offerta formativa delle scuole autonome». E le classi a tempo prolungato «funzioneranno con non meno di 36 e fino ad un massimo di 40 ore» settimanali.
La Gelmini aveva posizionato l´asticella dell´orario obbligatorio a 29 ore e condizionato l´apertura delle classi a tempo prolungato all´esistenza «dei servizi e delle strutture per lo svolgimento delle attività in fascia pomeridiana». Attraverso questa voce Tremonti aveva previsto di tagliare circa un quarto del tempo prolungato esistente: 4.275 classi. E ancora. «Sarà tutelato il rapporto di un docente ogni due alunni disabili», salvaguardando così la presenza nelle classi degli insegnanti di sostegno.
Per i precari si apre uno spiraglio: «Il governo si impegna a costituire un tavolo permanente di confronto per ricercare le possibili soluzioni a tutela del personale precario» con nomina annuale o fino al termine delle attività didattiche.
Viene, inoltre, congelato per un anno «l´incremento del numero massimo di alunni per classe in connessione con l´attivazione dei piani di riqualificazione dell´edilizia scolastica» e, se le risorse lo consentiranno, verranno estesi gli sgravi fiscali sul salario accessorio.
E i tagli? Saranno attivate «misure compensative idonee a garantire i complessivi obiettivi di riduzione» (132 mila posti in tre anni) previsti dal Piano.
(s. in.)

Corriere della Sera 12.12.08
Il governo: «Evitiamo tensioni». Passa la linea morbida
di Paola Di Caro


Al tavolo Berlusconi, Tremonti, la Gelmini e la Aprea, presidente della commissione cultura: non esasperiamo gli animi

ROMA — Primo: restituire qualcosa di spendibile a sindacati, come la Cisl e la Uil, che isolando la Cgil nel suo sciopero generale hanno concesso parecchio al governo. Secondo: evitare che in un momento «di crisi economica e sociale così pesante» si mantenga un clima di scontro con il mondo della scuola. Terzo: frenare nuove ondate di proteste degli studenti che, basta guardare ai drammatici fatti di Atene, nessuno può escludere che possano «finire molto male». Quarto: far procedere spedita la riforma dell'Università. Quinto: non rischiare nemmeno di incappare in un referendum per l'abolizione della riforma Gelmini, minacciato dal Pd.
Sta in molte ragioni quella che dall'opposizione definiscono «una marcia indietro clamorosa» del governo sulla riforma della scuola, e che l'esecutivo e lo stesso ministro Gelmini considerano nient'altro che una logica messa a punto di un progetto. Certo, parlare di stravolgimento totale dei princìpi della riforma è troppo, ma la correzione di rotta è evidente, tanto da far ironizzare un membro del governo: «Okay, il maestro unico diventa una libera scelta: d'altronde noi non siamo il Partito delle Libertà?».
Battute a parte, nessuno nel centrodestra nega che si è venuti incontro alle richieste di docenti, genitori, studenti, dello stesso Parlamento, ma soprattutto di sindacati che, dopo il successo dello sciopero del 30 ottobre, stavolta hanno preferito lasciare solo Epifani nella protesta di oggi e dialogare con quel Gianni Letta che, ancora una volta, ha favorito una mediazione che fa parlare Bonanni di «un risultato ampiamente positivo» visto che, come aggiunge il segretario confederale Cisl Giorgio Santini «ogni ora in più alla primaria per noi si traduce in 7000 posti di lavoro in più...».
Ma per arrivare a tanto, oltre alla volontà di Berlusconi di «non esasperare gli animi in un momento di crisi economica », c'è voluta una lunga riunione mercoledì al Plebiscito tra il premier, la Gelmini, Giulio Tremonti e la presidente della commissione Cultura Valentina Aprea, nella quale nonostante l'opposizione del superministro dell'Economia, la collega dell'Istruzione ha insistito sulla necessità di frenare una corsa che rischiava di mandare il governo a sbattere: non solo servono aperture sul tempo pieno garantito, ma serve anche lo stop alla riforma della scuola superiore, ha spiegato dopo che dai suoi uffici e dai provveditorati era partita una richiesta chiarissima in questo senso, perché «non ci sono i tempi sufficienti per cambiare » senza scatenare ondate di proteste.
Con tutti i rischi, appunto, di scontri di piazza che avevano portato più d'uno in viale Trastevere ad evocare «l'incubo Grecia».

l’Unità 12.12.08
Benedetto Vertecchi: «Una vittoria, ma attenti a fidarsi: sul maestro unico c’è puzza di bruciato»
Il movimento rilanci con proposte Il professore di Roma Tre: attenti alla bonaccia, il governo potrebbe riprovarci
di Ma. Ier.


Esordisce con una battuta: «Si è rimangiata tutto. Buon appetito!», il professor Benedetto Vertecchi, esperto di scuola e direttore del Dipartimento di progettazione educativa di Roma Tre, alla notizia della retromarcia della Gelmini sulla riforma della scuola. Poi, però, il prof si fa subito serio e dice: «Non vorrei che adesso scoppiasse la bonaccia».
Perché dice questo?
«Il successo è il risultato della levata di scudi sulla scuola, che è stata giustamente unanime. Ora non vorrei che non accadesse nulla fino alla prossima occasione. Come Mitridate, il re armeno che prevedendo una morte per intossicazione si abituava gradualmente al veleno. Vale a dire, vedo il rischio che non cresca la consapevolezza, ma che si plachi il malcontento e il disagio eliminandone soltanto la causa momentanea».
A chi le manda a dire professore?
«I sindacati ma anche i partiti di sinistra hanno ragione nel compiacersi del risultato raggiunto, che solo due mesi fa nessuno avrebbe immaginato. Ma da questo successo mi auguro che si apra un processo di riflessione, per elaborare proposte che non siano solo la risposta al governo. Le forze di progresso devono sempre anticipare e non aspettare che il ministro parli per rilanciare».
Il governo sembra aver capito la lezione, i sondaggi danno Berlusconi in calo per colpa delle proteste della scuola. Ora pare si riparta con il dialogo.
«Vorrei vedere i provvedimenti prima di parlare. Bisogna vedere nero su bianco i regolamenti, come li fanno».
Non si fida professore?
«Fino ad ora non c’è chiarezza. Prendiamo le elementari. Si è parlato di maestro unico, poi si parlato di quello “prevalente”. Vorrei capire in che cosa è prevalente. Qual è la differenza con il maestro unico. Perchè è affiancato da chi insegna inglese e religione? Aspettiamo di conoscere il profilo di questa figura di docente. Ma temo che sia solo un abbellimento nominalistico per fare digerire meglio il maestro unico. Vorrei proprio vedere una vecchia maestra alle prese con l’informatica. Ci sono attività che richiedono abilità specifiche. La musica, ad esempio, non si insegnerà più alle elementari?».
Tempo pieno a 40 ore e maestro unico a scelta delle famiglie. Le proteste di piazza hanno avuto la meglio. Non basta?
«No, per via di un aspetto mistificante. In Italia si contano le ore di lezione invece che il tempo scuola. In Europa le cose sono diverse: il numero delle ore di lezione può essere lo stesso ma i bambini restano a scuola fino alle 17.30. È importante il tempo che i bimbi trascorrono in comune: è nella scuola che si ricostruiscono le condivisioni che non hanno più spazio: l’uso intelligente delle mani, i giochi logici. In Francia è stato previsto il club degli scacchi per i bambini».

l’Unità 12.12.08
Sapienza, Frati invita di nuovo il Papa dopo le proteste


ROMA «Confesso di non aver capito, da ricercatore prima che da credente, il pregiudizio che quest'anno a gennaio ha mosso chi ha fatto riferimento al caso Galileo per giustificare una contrarietà alla sua visita alla Sapienza». Così ieri il rettore de La Sapienza Luigi Frati ha motivato il nuovo invito a papa Ratzinger a visitare l’ateneo romano, dopo le proteste degli studenti e la successiva rinuncia che accompagnarono una analoga iniziativa quasi un anno fa.
«Spero di poterla accogliere ed ascoltare nelle nostre sedi universitarie» ha detto Frati nel suo discorso durante l’incontro di Benedetto XVI con gli studenti nella basilica di San Pietro al quale ha partecipato anche il ministro Gelmini.

il Riformista 12.12.08
«Sciopero utile»
Epifani: «Governo immobile, la Cgil gli dà la sveglia»
intervista di Marco Ferrante


INTERVISTA. Le misure proposte dalla Cgil valgono 12 miliardi l'anno contro i 6 messi a disposizione dal governo. Perché scioperare contro la crisi? Dice il segretario generale: «Quella è solo un'abbreviazione, lo sciopero è contro l'inadeguata politica economica del governo».

Guglielmo Epifani, il leader della Cgil, si prepara allo sciopero generale. Lo raggiungiamo al telefono, è in treno per Bologna. La Cgil ritiene che le misure del governo di fronte alla crisi economica non siano adeguate. L'obiezione più immediata rispetto alla posizione del più grande sindacato italiano è che lo sciopero sia a sua volta una reazione non proporzionata, visto che le misure proposte dalla Cgil valgono dodici miliardi l'anno contro i sei messi a disposizione da Giulio Tremonti. Dunque, perché scioperare contro la crisi? Dice Epifani: «Ovviamente quella è solo un'abbreviazione, lo sciopero è contro la politica economica del governo, che peraltro secondo un calcolo non mette a disposizione neanche uno di quei sei miliardi che sarebbero senza copertura».
Continua Epifani: «Noi siamo l'unico paese che, di fronte alla crisi del secolo, si comporta come se non fosse accaduto nulla, la Fiat chiude per un mese (mai successo in tempi normali), i consumi crollano, la produzione industriale anche, 1,8 milioni di persone assunte a tempo determinato rischiano il posto di lavoro, nei primi dieci mesi dell'anno è cresciuto il gettito tributario dell'7 per cento solo sul lavoro dipendente, cioè l'Irpef. Questo è il punto di partenza, i provvedimenti messi in campo dal governo sono pochissima cosa: un'operazione sulla liquidità delle banche senza ottenere in cambio più elasticità sul credito, una manovra insufficiente e discrezionale sui bassi redditi, uno spostamento di poste finanziarie a favore degli investimenti pubblici che però sottraggono risorse al mezzogiorno. Di fronte a questa premessa, noi abbiamo consultato la nostra base, 40.000 assemblee. La base ha detto di sì, e non abbiamo mai registrato una simile partecipazione da parte della gente. Lo sciopero di quattro ore serve semplicemente a dire al governo che vogliamo un cambiamento. Viceversa, tra Sky, questione morale, cambiamenti costituzionali, la politica rischia di perdere di vista la centralità dei problemi reali delle persone».
La manovra non è robusta, ma voi siete rimproverati dalle altre organizzazioni del lavoro di essere l'unico sindacato occidentale a scioperare.
«Non è vero, anche altri sindacati stanno scioperando. Chiedere un sacrificio in favore di una visione è un modo responsabile di agire. È uno sciopero molto rispettoso dei diritti dei cittadini, e della situazione in cui ci troviamo, come si vede dalle deroghe o dall'assicurazione dei servizi di trasporto a causa del nubifragio».
Voi non chiedete un cambiamento radicale, rivoluzionario, rispetto alla politica economica del governo, ma solo un robusto aggiustamento. Non c'è una reazione carnale, di visione politica, in cui un grande sindacato, guidato da un leader ancora giovane, socialista, riformista, prende di petto la situazione e proponga - sono solo esempi - una grande svolta sulla riduzione della spesa pubblica improduttiva, piuttosto che sull'intervento pubblico in economia …
«Noi abbiamo chiesto una cosa possibile. Prendiamoci un po' di spazio di manovra grazie alla flessibilià europea, riattiviamo sviluppo senza far ricadere il costo della crisi sul lavoro dipendente e diamo più attenzione ai precari che rischiano per questa crisi. Direi che al governo non c'è nessuna visione di politica industriale, mentre noi qualche idea ce l'avremmo, ma non ci sono tavoli cui negoziare. Prendiamo il settore auto. Io credo che dovremmo fare quello che faranno gli altri. Se ci saranno aiuti di stato nel resto dei paesi occidentali, dovremmo farli anche noi. Non con la rottamazione, ma incentivando l'innovazione dei modelli e concentrandoci sull'abbattimento delle emissioni e sul risparmio di energia. La crisi diventerebbe un'opportunità per rafforzarci. Adesso ci sono voci di aggregazioni internazionali che riguardano la Fiat. Ma sembra un problema che non riguarda la nostra classe dirigente».
Lo sciopero rende più profondo il solco tra voi e le altre organizzazioni sindacali. Non teme che il tasso dialettico tra voi sindacati, danneggi la vostra reputazione, che l'opinione pubblica vi percepisca come un pezzo di classe dirigente a cavallo tra politica ed economia preoccupata soprattutto dalla conservazione di un ruolo?
«No, noi abbiamo fatto 40.000 assemblee e ci sembra di essere vicini ai lavoratori, noi non siamo un sindacato da salotti tv».
Intanto però un libro sul sindacato (L'altra casta, Stefano Livadiotti) è stato per tre mesi in classifica, attirandosi l'attenzione dell'opinione pubblica…
«In quel caso c'era stata una grande campagna mediatica sulla casta a cui quel libro si richiamava. Io credo che esista un rischio di credibilità che può essere combattuto tornando tra i lavoratori e difendendo con coerenza le proprie opinioni. Personalmente ritengo che finchè si riesce a dare risposte ai lavoratori, non si corra il rischio di uno scollamento».
Lo sciopero sembra porre un altro problema. Non è chiaro quanta parte dell'oposizione parlamentare vi seguirà oggi. Senza sostegno parlamentare, senza sponda, in che modo è possibile trasformare le vostre richieste in provvedimenti?
«E' un problema. Molta gente nelle assemblee ci ha chiesto perché ci sono delle differenze con il partito democratico. Il pd è un sistema complesso, e credo che quando si tratterà di discutere in parlamento, si ragionerà sul merito, e sul merito credo che le nostre idee siano in gran parte condivise dall'opposizione».
E' vero che si sta preparando un riavvicinamento con la Confindustria, dopo Natale, e che a partire dai rapporti tra lei ed Emma Marcegaglia le tensioni si stanno sciogliendo?
«Io vorrei che Confindustria fosse disponibile ad aprire un tavolo sulla crisi prima che lo faccia il governo che sta tardando. Mi piacerebbe una cabina di regia comune. Sul modello contrattuale e sul testo unico sulla sicurezza ci sono delle forti divergenze, cominciamo con il sederci insieme a un tavolo sulla crisi».

Liberazione 12.12.08
La speranza che viene dall'America e la nuova indipendenza della Cgil
di Fausto Bertinotti


Se qualcuno, sei mesi fa, avesse previsto che il governo degli Stati uniti d'America stava per nazionalizzare nientemeno che l'industria dell'automobile, il simbolo forse più corposo dello sviluppo capitalistico del ‘900, sarebbe stato preso per un visionario - se non per un pazzo. Ora, però, nella patria del liberismo (sia pure, talora, più conclamato che praticato), è proprio quello che sta avvenendo: non solo uno stanziamento colossale (15 miliardi di dollari) per salvare GM, Crysler e Ford, ma l'istituzione di uno "Zar dell'auto", di nomina governativa, con il compito di indirizzare la produzione e con il potere di deciderne, d'ora in poi, anche alcuni settori di investimento - auto ecologiche o anche treni, se necessario. Qualcuno ha già detto che gli Usa, dove la sinistra è da quasi sempre fuori dalle istituzioni rappresentative e dove il sindacato vive una crisi profonda, sono diventati, quasi di colpo, il nuovo paese del socialismo - e certo si tratta di una definizione assai azzardata. Ciò che non toglie nulla alla straordinarietà del processo che si è messo in moto da quella parte dell'Oceano, a partire da una recessione economica di dimensioni e portata ancora inesplorate e, soprattutto, grazie all'irruzione di Barack Obama: il nuovo Presidente non è ancora entrato davvero in carica, alla Casa Bianca c'è ancora George W. Bush, ma nel centro dell'Impero è cambiata radicalmente l'aria - il clima, la politica. Di nuovo, i fatti reali si incaricano di mettere in discussione molti dei nostri schemi e molte delle nostre più solide certezze. Quali prove ulteriori si dovrebbero esibire per dimostrare il fallimento (forse epocale) del neo-liberismo, delle sue ricette, di ciò che si è chiamata "globalizzazione" e che per anni molti, troppi, anche a sinistra, hanno scambiato per un nuovo balzo in avanti per l'umanità intera? Ora, la crisi esplode davvero, devasta la società, blocca insieme allo sviluppo e alla crescita del Pil ogni idea di futuro, si scarica addosso alle classi subalterne e ai più deboli, distrugge diritti e speranze, specie quelle dei giovani. E si va manifestando come crisi, essa sì, globalizzata, mondiale, planetaria.
Ecco, mentre negli Usa di Obama lo Stato - la politica - intervengono con forza inedita nella crisi dell'economia, mentre, più modestamente, anche nella finora riluttante Germania si annuncia (a spese dello Stato) la "settimana corta" nelle industrie in difficoltà, in Italia il governo di centro-destra vara un piano (virtuale) a tutela dei banchieri e al popolo riserva una modestissima elemosina di stato - la così detta "social card", poco più di un euro al giorno, che non scalfisce di un millimetro la vita delle persone in difficoltà (e che qualcuno percepirà quasi soltanto come la sanzione, di Stato, appunto, della propria condizione di povertà). Nessun intervento sui salari, sul lavoro, sull'occupazione, sulla precarietà, quando si annuncia, a breve, la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro - quando è percepibile, nell'aria che respiriamo, la drammatica regressione della vita di milioni di persone, e ogni giorno muoiono tre, quattro o cinque lavoratori, i "fortunati" che un lavoro, almeno, l'avevano trovato. Nessun provvedimento di natura strutturale o strategica - all'opposto, la devastazione sistematica del sistema dell'istruzione pubblica, dall'asilo all'università, e l'annuncio di analoghe intenzioni distruttrici in tutto il Welfare. Questa è la politica del governo Berlusconi e del ministro Tremonti, che nella sua pratica reale smentisce la "speranza" e alimenta la "paura". Ma questa è purtroppo anche la realtà più complessiva della politica italiana, dove l'opposizione politica - il Partito Democratico - non appare in grado né di contrastare le scelte governative né di offrire una sponda politica alla protesta sociale, ovvero ai nuovi movimenti - come l'Onda - che in questi mesi si sono attivamente sviluppati in tutto il Paese. Non a caso, essi si sono autodefiniti come "non rappresentatibili". Molto più che autonomi: indipendenti
Si colloca in questo contesto lo sciopero generale di quest'oggi, che la Cgil ha promosso senza il concorso di Cisl e Uil. E senza il sostegno, salvo molte singole eccezioni, di quello che, in altre epoche e in altri contesti, sarebbe stato definito il proprio "partito di riferimento". Uno sciopero coraggioso e necessario, che ci eravamo permessi di auspicare da tempo come l'unica scelta razionale oggi a nostra disposizione: il punto di partenza "obbligato" per costruire un progetto di opposizione e di alternativa, ridare senso unitario al disagio e al conflitto, cominciare a restituire carne e sangue a parole come democrazia e partecipazione. Uno sciopero che sarà comunque un grande successo di mobilitazione, partecipazione, adesione: perché comunque le larghe masse, il popolo, si potrà sentire, finalmente, protagonista - in piazza, nella sua agorà. Curioso che molti, anche a sinistra, arrivino a dire che si tratterebbe di uno sciopero "inutile", perfino dannoso, o riducano la portata di questa scelta a un problema quasi tutto interno agli equilibri (e ai contrasti) del più grande sindacato italiano. Curioso, anche perché, al contrario, se mai troppo tempo (e troppe titubanze, per quanto comprensibili) è stato impiegato, a ritardare una decisione già da tempo ampiamente matura. La forza della crisi economica e sociale, certo, che procede a ritmi accelerati, ha spinto la Cgil a rompere gli indugi, a sfidare il rischio di "isolamento", a superare il condizionamento di una politica sempre più paralizzante. Ad affermare nei fatti, come dicevamo, non la propria autonomia, ma la propria tendenziale "indipendenza" di soggetto sociale e politico del tutto originale. Così, il maggior sindacato italiano si candida a svolgere il ruolo attivo e protagonistico, nella ricerca di una via d'uscita concreta alla crisi italiana, che gli è più congeniale. Ma non solo. Si ricolloca in sintonia con i bisogni di massa, con la "nuova antropologia" dei movimenti di questa fase, con la protesta diffusa e latente. Siamo, credo, alle soglie di novità rilevanti proprio nel rapporto tra istituzioni e masse, tra partiti e sommovimenti, tra politica e società: la crisi non è più soltanto della rappresentanza, come avviene ormai da molti anni, ma della possibilità di una connessione positiva tra queste diverse dimensioni - di un rapporto dialettico, complesso quanto si vuole, ma di un rapporto in qualche modo organico. Le "coppie dialettiche" su cui ci siamo finora basati e di cui ci siamo nutriti - destrasinistra, alto asso - hanno smarrito la loro forza d'impatto, la loro significanza di massa: nel loro divenire soggettivo, le proteste, i conflitti, le rivolte si percepiscono come "irriducibili", in larga parte, a queste categorie. Ciò avviene, s'intende, soprattutto perché, mentre si manifestano culture e linguaggi nuovi, e mentre avanza - nel movimento della scuola, ma anche in insorgenze giovanili e in esperienze, pur circoscritte, dal segno alternativo - una pienezza, un pieno di contenuti, la sinistra reale, quella maggioritaria o come tale percepita, esprime un vuoto desolante. Ma avviene forse anche per altre e più profonde ragioni. Nel consumarsi della separatezza tra società e politica, può per esempio accadere - accade - che il consenso al governo di destra, e perfino l'egemonia che le destre realizzano, non produce né pace sociale né stabilizzazione. Per questo, e dentro questo snodo, i movimenti attuali agiscono in proprio, "fuori" da ogni connessione organica con la politica: come una soggettività, appunto, indipendente, mossa da bisogni insoddisfatti e pressanti, animata da obiettivi e piattaforme molto concrete. Per questo, credo, la Cgil ha trovato il coraggio di agire "in proprio" e di lanciare una sfida che è anche quella della propria salvezza.
Potrebbe essere questo sistema di "nuove indipendenze" la cifra della prossima, pur durissima fase, che ci attende? O dobbiamo rimetterci al lavoro per ricostruire, con tutta la pazienza e la tenacia che si renderanno necessarie, le connessioni perdute? Forse, la prima strada potrebbe rivelarsi più feconda dell'altra, che più ci appartiene per cultura politica e prassi storica. Forse la costituente di una nuova sinistra - che torni ad essere una dimensione che appartiene davvero alle larghe masse - abita proprio qui.

Liberazione 12.12.08
Carlo Podda Segretario generale della Funzione pubblica/Cgil
«Precari, welfare, diritti. Il pubblico impiego è sotto attacco. Rispondiamo»
di Fabio Sebastiani


L'atteggiamento del Governo non è che aiuti a mantenere questo sciopero come uno sciopero sindacale e basta. Nel caso della Funzione pubblica, poi, questa astensione assume un valore tutto particolare.
E' una risposta che è diretta più degli altri al Governo, come controparte diretta. Siamo in presenza di un rinnovo contrattuale che è uguale alla social card. E' uno sciopero contro la precarietà, poi, visto che il pubblico continua ad essere il maggior datore di lavoro precario. 59mila verranno mandati via a luglio. E diventeranno 120mila l'anno prossimo. Fino a coprire una cifra di oltre 250mila lavoratori. Nel 2007 abbiamo avuto un aumento del 7,5% di lavoratori precari nella pubblica amministrazione contro una diminuzione del 4% del lavoro dipendente.
Oltre alla questione contrattuale c'è l'attaco al Welfare.
Il Libro verde sta cambiando il paradigma del Welfare. Una trasformazione epocale. Pensioni, assistenza e sanità sono sotto attacco. Basti pensare che l'attivo dell'Inps viene utilizzato per pagare l'assistenza. Si prendono quote dei datori di lavoro e dei lavoratori per finanziare voci che fino ad oggi erano a carico della fiscalità generale. Le misure che il governo assume non hanno nessuna caratteristica di rilanciare l'economia. Ai Comuni è stato tagliato il fondo per l'assistenza sociale. Noi questa cosa l'avevamo vista molto prima. E tutta la campagna di delegimittazione del lavoro pubblico è una campagna che tende a rendere sostenibile l'affidamento esterno e i tagli, come nel caso della Mastercard appunto. Ma in questo modo la funzione pubblica non si riforma mai. Abbiamo bisogno di più funzione pubblica, non di meno. Se taglieranno l'assistenza non solo avremo anziani più poveri ma anche meno buste paga nel privato sociale. Come fanno a dire che è una manovra keynesiana?
La polemica unitaria intanto non sembra placarsi.
C'è quache stupidaggine di qualche sindacalista che dice che saremmo gli unici a fare sciopero. Basta andare sul sitio della Ces per rendersi conto che non è così: Inghilterra, Belgio, Germania, i lavoratori pubblici sono dapertutto in movimento. Lo sottolineo perché Bonanni ha detto che non c'è nessun paese europeo che fa sciopero. Basta cliccare sul punto giusto. E dire che i governi di quei paesi hanno messo in campo misure rispetto alle quali quelle italiane fanno ridere. Sarkozy ha aumentato del 60% le pensioni minime, del 29% lo Smig; poi c'è un piano straordinario per la casa e svariati investimenti pubblici. Lo stesso il piano di Gordon Brown, per non parlare degli Usa. E' evidente che lo sciopero generale ha un significato politico in questo senso. Uno sciopero di contrasto alla politica economica del Governo. Le proposte della Cgil intendono affrontare robustamente la situazione, anche perché il disastro sociale è psicologicamente rifiutato. Tra gennaio e febbraio centinaia di migliaia di imprese in cassa integrazione o sull'orlo del licenziamento. Il miracolo delle piccole e medie imprese è finito in Italia. Confersercenti in provincia di Milano parla di un saldo negativo di meno 60mila aziende. La risposta è un po' di spicci a una minoranza esigua del paese. Non voglio avere l'aria snob. Vedo a Roma alcuni vecchietti fare la spesa al cassonetto. Senza contare poi che la Mastercard prende un punto e mezzo di provvigione sulla social card. Vorrei ricordare che la si poteva fare benissimo appoggiandosi a una struttura pubblica. In questo caso siamo in presenza di un vero e proprio spreco.
Voi avete già dichiarato uno sciopero generale di categoria per l'anno prossimo.
C'è un tema che riguarda il rapporto generale con il Governo e la politica. Tema che è in capo alla Cgil. Non vorrei che si dimenticasse che noi abbiamo un problema della categoria, delle condizoini di lavoro di coloro che rappresentiamo. Lo sciopero generale con manifestazione lo teniamo in standby perché ci siamo riunificati all'interno del movimento della Cgil. La verità amara su cui jriflettere è che l'altra volta avevamo un assetto unitario. Questa volta le cose sono più complicate: Cisl e Uil negli enti centrali stanno insieme, ma negli enti locali e sanità non è così. Tutto questo comporta il fatto che abbiamo la responsabilità verso i lavoratori di indicare la rotta che abbiamo davanti. Dobbiamo dare il senso di una affidabilità delle cose che facciamo.
In standby o meno è un percorso di lotta che farete con i metalmeccanici. Un fatto inedito.
Lungo questa strada abbiamo incrociato un rapporto positivo con la Fiom, un rapporto molto generoso che ci ha consentito di rompere l'isolamento in un momento in cui siamo sotto attacco. Ci sono punti in comune, come la condizione della precarietà. Se non altro ha avuto l'effetto di rompere l'offensiva sul lavoro pubblico nemico del lavoro privato.
Dentro questo percorso con la Fiom c'è un passaggio qualificante sulla democrazia, ovvero il referendum sull'accordo.
Nei primi dieci giorni abbiamo raccolto 150mila firme. Puntiamo al doppio degli iscritti della Cgil, 280mila iscritti quindi numero tondo saranno 600mila firme. Moltissimi che hanno firmato non sono iscritti alla Cgil. Chiedono il diritto di esprimersi sul proprio contratto.

l’Unità 12.12.08
Perché è giusto stare al fianco di chi sciopera
di Paolo Nerozzi


Ad un anno dalla tragedia della Thyssen, e scossi dalle tante morti sul lavoro a cui assistiamo quotidianamente, dobbiamo purtroppo registrare, che al di là delle frasi di circostanza, l'attuale governo non ha messo in campo una politica utile affinché un dramma simile non abbia a ripetersi. Viceversa oggi assistiamo al tentativo di alcune organizzazioni imprenditoriali di sterilizzazione del Testo unico sulla sicurezza del lavoro voluto dall'ex ministro Damiano. Nei giorni scorsi nella commissione sugli infortuni sul lavoro e le cosiddette "morti bianche" le organizzazioni dell'impresa hanno presentato le loro ipotesi di modifica al Testo unico. Si profila in sostanza, tra le varie proposte, il tentativo di abbassare il livello sanzionatorio e differenziarlo tra piccola e media impresa, come se il valore della vita umana perda di peso se si lavora in una piccola azienda. Si tende, inoltre, ad una definizione del rischio da valutarsi tra le parti (impresa e lavoratori) con il rischio elevato che in una situazione di crisi industriale, come quella che il nostro Paese attraversa, con la scomparsa di un soggetto terzo la sicurezza venga sacrificata sull'altare dell'incremento della produzione e delle ore di lavoro straordinario. Tutte misure, in sostanza, che tendono a smantellare le garanzie fin qui acquisite e ancora troppo spesso non applicate. Il Governo ed il ministro Sacconi stanno lavorando per depotenziare il Testo unico, dopo aver di fatto già cancellato l'accordo del 23 luglio. I drammatici dati della crisi dell'economia reale, della produzione industriale insieme a quelli del Pil dimostrano che l'Italia è in recessione e corre il rischio di cadere in una spirale depressiva. Da più parti ormai si indica in un milione il numero dei posti di lavoro a rischio nei prossimi mesi. Una situazione che richiederebbe altre misure da quelle proposte dall'attuale maggioranza. Abbiamo chiesto strumenti per il recupero del potere d'acquisto dei salari, per i lavoratori dipendenti e per i pensionati, un'indennità di disoccupazione per i precari che perdono il posto di lavoro ed investimenti per le piccole e medie imprese, ma le misure del governo vanno in altra direzione. Temo che anche la partita sulla sicurezza, se si continua su questa strada, sia messa sul banco quale strumento di abbattimento del costo del lavoro insieme alla mancata stabilizzazione del lavoro precario e l'attacco ai dipendenti pubblici. In questo quadro, non solo la piattaforma dello sciopero indetto dalla Cgil è condivisibile, ma è ancor più necessario che ci sia una grande mobilitazione nel Paese che dia voce al disagio dei cittadini e che questo disagio trovi una interlocuzione sociale che lo rappresenti. Sarò in piazza con i lavoratori che sciopereranno e spero di trovarmi in compagnia di molti militanti e dirigenti del Pd, perché al malessere sociale vi sia anche un adeguata risposta politica.

l’Unità 12.12.08
Intervista a Franco Cordero
«Cambiare la Costituzione? Così è pirateria istituzionale. Vuole pm sottomessi»
di Federica Fantozzi


Giurista, autore di pamphlet polemici e docente di procedura penale, Franco Cordero commenta con disincanto l’intenzione del premier di modificare la Costituzione da solo, salvo referendum confermativo: «Sul piano tecnico c’è poco da dire: rispettando l’articolo 138 la maggioranza può fare ciò che vuole. Ma è pirateria politica. Un gesto di eversione mascherato legalisticamente osservando i requisiti costituzionali».
Un atto fuori dalla normalità istituzionale?
«Prima che emergesse Berlusconi non era concepibile che la Carta fosse modificata o solo emendata senza il consenso di tutte le parti. Ma siamo nel campo dell’onestà, della moralità, della fisiologia politica».
Per i costituzionalisti è una scelta legittima però inopportuna.
«Un gesto simile sarebbe autentica soperchieria. Equivale a dire: ho i numeri grazie ai quali faccio quello che voglio. Nessun giurista con la testa sul collo e sufficiente cultura può dire che una riforma così nasce invalida. Nasce vergognosamente combinata».
Fini, alleato di Berlusconi, ha evocato il cesarismo.
«È una formula debole rispetto a ciò che il premier ha in mente. Cesare e Ottaviano non agivano così. Ottaviano era rispettoso dell’autorità del Senato, non si arrogava poteri abnormi. Gli veniva riconosciuta auctoritas: prestigio politico, autorità morale, carisma. Ben lontano dalla fenomenologia che abbiamo sotto gli occhi».
Berlusconi non vuole ostacoli alla sua riforma della giustizia. La separazione delle carriere è utile o dannosa?
«È una formula eufemistica sotto cui vuole costruire il pm come ufficio investigativo che riferisce al Guardasigilli. Quindi le preocure lunga mano del governo. È chiaro che salta il concetto di obbligatorietà dell’azione penale».
È un obiettivo realizzabile?
«Se anche si togliesse di mezzo questo aspetto, e l’articolo 112 fosse amputato, non si avrebbe un pm manovrato dall’esecutivo. La Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni. Dunque la questione si invelenirebbe».
Fino a che punto?
«Nel delirio di onnipotenza Berlusconi punterebbe a una revisione radicale per fondare la signoria che di fatto già esercita. Il presidente eletto, investito di consenso carismatico che rende irrilevante il conflitto di interessi perché il popolo sovrano lo ha assolto. Discorsi da ignorante di logica costituzionale moderna».
Quali sono i pericoli?
«Quest’ottica implica una regressione di 7 secoli, al regime di signoria selvaggia. Un terrificante passo indietro fatto in una logica stralunata».
Sono proclami o si arriverà davvero a questo scenario?
«Politicamente il referendum è un grosso rischio. Se fallisse Berlusconi ne uscirebbe colto in flagrante debolezza. Credo che cercherà di acquisire, con metodi in cui lo sappiamo esercitatissimo, i consensi parlamentari che gli servono. Ma resta lontano dalla maggioranza dei due terzi che gli serve».
In questa legislatura il Parlamento non lavora a vantaggio del consiglio dei ministri. Un’altra anomalia?
«Decide lui con i suoi. Ha un concetto piratesco pure dei decreti legge. È una forma condizionata a presupposti di necessità e urgenza: in più casi il governo ne ha fatto un uso visibilmente abusivo».
Berlusconi usa la questione morale contro il centrosinistra. Ha qualche fondamento?
«Le regole morali valgono per tutti e l’affare Unipol non è stato edificante. Ma la sua logica è: tra noi e voi non esiste differenza antropologica, siamo tutti uguali in un paese dove i giudici non applicano equamente le leggi e i cittadini non hanno la moralità nel sangue, quindi non seccatemi. Ovviamente non è così».
Cosa dovrebbe fare l’opposizione ora che il dialogo è defunto?
«L’alternativa di una collusione non sarebbe stata molto più virtuosa. Se i contenuti della riforma restano lontani dall’ortodossia costituzionale, meglio che il premier vada da solo piuttosto che condividere un gesto soperchiatorio».

Repubblica 12.12.08
Sud America. Un piano contro le toghe
Parla Gustavo Zagrebelsky: "È un piano per controllare la giustizia" intervista di Giuseppe D’Avanzo


Se i magistrati vengono sottomessi al governo, la funzione giudiziaria si trasforma in uno strumento di lotta politica Ecco perché siamo in una triste situazione

"La Carta non è strumento di potere così Berlusconi torna a Cromwell"
Zagrebelsky: correnti e autonomia mal gestita, errori dei giudici

Non c´è vincitore di elezioni, capo-popolo, o colonnello in sud America che non annunci un suo progetto costituzionale
Se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica
E´ stato un errore non adeguare la Costituzione al nuovo sistema bipolare. Ora chi vince può cambiarla da solo
Spero che nella maggioranza qualcuno responsabile si renda conto ceh sono in gioco le garanzie, i diritti ed i principi

A Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente emerito della Corte costituzionale, Repubblica chiede di riflettere ad alta voce sul significato e il valore dell´annuncio di Silvio Berlusconi: il premier vuole riformare, con la sua sola maggioranza, il Consiglio superiore della magistratura; separare in due diversi ordini la magistratura giudicante dalla requirente (i pubblici ministeri); un referendum popolare dovrebbe poi confermare entro tre mesi il disegno.
«Prima di discutere il merito - dice Zagrebelsky - qualcosa va detto sulle riforme mancate, sulle colpe, le responsabilità dei riformatori finora mancati. Mi definisco un conservatore costituzionale. Penso che il lavoro compiuto all´inizio di un ciclo politico sia sempre più apprezzabile, migliore, di un´attività in corso d´opera. E tuttavia non è che non veda come un grave deficit non aver adeguato i meccanismi di garanzia della Costituzione alle trasformazioni del sistema politico. Ne è un esempio proprio l´articolo 138?».
L´art. 138 della Costituzione regola le leggi di revisione della Costituzione.
«Appunto, l´art. 138 prevede che le riforme costituzionali debbano essere approvate con un ampio consenso raccogliendo il voto della maggioranza e di una parte dell´opposizione».
Qual era il significato di questo consenso qualificato?
«Che la Costituzione, la sua manutenzione, le sue modifiche non dovessero essere appannaggio della pura maggioranza. Poi però le leggi elettorali hanno cambiato il sistema politico, polarizzandolo su due sponde e ora chi ha il sopravvento nella competizione elettorale e conquista la maggioranza si fa da sé le riforme costituzionali».
Salvo poi sottoporle a referendum popolare, come ha ricordato Berlusconi.
«Berlusconi ha fatto un discorso piano. Prende atto della disciplina costituzionale, si fa votare la sua riforma con la maggioranza che il sistema elettorale attuale gli ha dato, chiede al referendum l´approvazione definitiva. Anche se ineccepibile, però, questo metodo cambia profondamente l´essenza stessa della Costituzione».
Perché, se quel metodo è previsto dalla stessa Costituzione?
«Perché ci sono due nozioni di Costituzione. La prima considera la Costituzione come strumento di chi governa. Per Cromwell, la Costituzione, è appunto Instrument of Government. Siamo qui alla presenza di Platone, Aristotele, Hobbes, Schmitt. Per venire al presente o al passato prossimo, non c´è in Sud America vincitore di elezioni, capo-popolo o colonnello, che non abbia e annunci un suo progetto costituzionale: è lo strumento di cui intende servirsi per esercitare il potere».
Qual è la seconda nozione?
«E´ la nostra. Qui il riferimento è John Locke. La Costituzione è inclusiva. Non è scritta da chi vince contro gli sconfitti. La Costituzione non si occupa di chi sia il vincitore. Scrive principi per tutti, garantisce i diritti di tutti. Noi siamo figli di questo costituzionalismo. La nostra Carta fondamentale è nata con la Dichiarazione dei Diritti dell´Uomo delle Nazioni Unite del 1948, con la Convenzione europea dei diritti dell´uomo e delle libertà del 1950. La Costituzione italiana si colloca in questa tradizione. E´ nata per essere inclusiva, per valere per tutti. Non è uno strumento di potere ma di garanzia contro gli abusi del potere. Berlusconi invece vuole fare il Cromwell. Può essere ancora più chiaro se ritorniamo al 138. Quell´articolo prevede che anche un accordo politico ampio possa essere bocciato da una minoranza del corpo elettorale. Come si sa, il referendum costituzionale non ha il quorum e, se vanno a votare il 20 per cento degli italiani, l´11 per cento può bocciare la nuova legge. Il progetto di Berlusconi capovolge questa logica. Non riconosce al referendum un potere distruttivo, ma pretende che sia confermativo della riforma votata soltanto dalla coalizione di governo. Diciamo che la manovra, di tipo demagogico, manomette la Costituzione, annullando lo spirito di convivenza che la sostiene, e la trasforma in strumento di governo, in strumento di potere».
Si può dire che la riforma annunciata non fa che accentuare quella «china costituzionale» di cui lei spesso ha scritto: indifferenza per l´universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per la dialettica parlamentare, per la legalità.
«Sì. Un regime liberale-democratico adotta come principio ciò che dice l´articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789: "Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione". Una Costituzione che diventa strumento di potere contraddice la separazione dei poteri. E´ quel che sta accadendo. Abbiamo già un Parlamento impotente dinanzi a un governo che impone le sue scelte con il voto di fiducia. Ora è il turno della magistratura».
Lei condivide la previsione che la separazione del pubblico ministero dal giudice anticipa la sottomissione della magistratura requirente all´esecutivo?
«Ci sono molti aspetti discutibili nella divisione del Consiglio superiore della magistratura in due, ma uno è chiaro fin d´ora. Se un pubblico ministero non è un magistrato a pieno titolo, che cos´è se non un funzionario dell´esecutivo? E evidente allora che, secondo logica, quel funzionario dovrà dipendere da un´autorità di governo, così pregiudicando l´indipendenza della funzione giudiziaria e cancellando la separazione dei poteri. Mi chiedo: che bisogno c’è?».
E´ inutile nascondersi che è lo spettacolo offerto dalla magistratura, con il conflitto tra due procure, ad aprire spazi a questi progetti di riforma.
«Lo spettacolo è sgradevole e la situazione in cui versa la magistratura italiana è certamente insoddisfacente. Ma mi chiedo: le proposte che si avanzano eliminano le difficoltà e i difetti o li aggravano?».
Qual è la sua opinione?
«Per quel che ho letto, dalle inchieste di Catanzaro sono emersi collegamenti della magistratura con ambienti politici, finanziari, malavitosi. La soluzione che propone il governo ? l´attrazione del pubblico ministero nell´area della politica governativa ? rafforza quei legami e non elimina quindi le cause delle disfunzioni, mentre bisognerebbe lavorare per rendere effettiva l´autonomia della magistratura dai poteri economici, amministrativi, politici e, naturalmente, criminali. Il disegno di riforma, codificando una dipendenza, avrà un solo effetto: eliminerà la notizia di quei legami, non la loro esistenza. Continueranno a esserci, ma non si vedranno».
Quali sono le responsabilità della magistratura in questa crisi?
«Il sistema costituzionale assegna alla magistratura il massimo dell´indipendenza e non sempre questa posizione è stata usata con la responsabilità necessaria. Se le cose funzionano, il merito è della magistratura. Se non funzionano, bisogna dirlo, è della magistratura il demerito».
Quali sono le ragioni o le prassi o le convinzioni che inceppano l´autogoverno della magistratura?
«Non c´è dubbio che la formazione di correnti, che all´inizio è stata favorita da un confronto culturale (culturale era il dibattito su come si dovesse interpretare la Costituzione), ha finito per diventare strumento di promozione e di carriera. E´ una degenerazione. Se non hai una corrente alla spalle non assurgi a un incarico direttivo. Solo una corrente può proteggerti quando verrai giudicato per i tuoi errori. Mi sembra che l´autonomia non sia stata gestita nel senso per il quale è stata prevista».
Forse anche per questo è largo il consenso per una riforma.
«Ci sono le istituzioni e gli uomini. La migliore Costituzione può essere corrotta da uomini mediocri. Una mediocre Costituzione può funzionare bene con uomini capaci. Credo che la magistratura debba fare un severo esame su se stessa. Se il sistema non funziona, non ne porta anch´essa la responsabilità?».
Lei crede che questa riforma costituzionale alla fine si farà davvero?
«Si può sperare che nella maggioranza ci sia qualcuno che si renda conto della delicatezza delle questioni. Sono in gioco le garanzie, i diritti, i principi e l´eguaglianza del cittadino di fronte alle legge. Perché se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica. Mi appare incredibile che si vada avanti su una strada così pericolosa e non ci siano voci responsabili che denuncino il pericolo, anche all´interno della maggioranza».
Se il governo, come dice Berlusconi, tirasse diritto?
«Siamo in una situazione tristissima. Penso che occorra far breccia nelle convinzioni collettive, spiegare all´opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all´altro secoli di storia e di valori civili».

Repubblica 12.12.08
L'Italia del leviatano
di Franco Cordero


L´ammalato grave era l´Impero ottomano, poi s´ammala l´absburgico, d´un morbo letale: affondano tutt´e due; da anni versa in allarmante climaterio la Rutulia, paese piccolo, ormai quasi trascurabile (quarantesimo nella graduatoria dello sviluppo economico planetario, dopo Estonia e Thailandia), ma trascina resti d´antiche glorie. «Stylus» (rivista chic, sognata da Edgar Allan Poe) vuol sapere cosa succede, ed ecco le notizie. Cominciamo dal 26 gennaio 1978. L´ambiente soffre d´una tabe organica: la pianta uomo ne produce d´assai dotati; altrove riuscirebbero benissimo; qui soccombono perché ab immemorabili ordiscono la tela consorterie parassitarie, donde micidiali selezioni negative (remote anamnesi chiamano in causa la mancata riforma religiosa e un cinico ateismo clericocratico). Organi vitali risultano guasti: sotto maschera santimoniosa una società segreta criminal-massonica infesta servizi segreti, ministeri, banche, editoria; e quel giovedì riceve un ancora poco noto impresario edile la cui fortuna presenta aspetti bui. I dignitari l´accolgono col solito rituale, spada e guanti bianchi.
Chiamiamolo Leviathan, nome d´un coccodrillo. Nel dialogo del Creatore con Giobbe è una meraviglia del creato: veste squame invulnerabili, starnuta fuoco, spaventa gli angeli; impersona una potenza infraumana. Ai caimani, formidabili nell´anima sensitiva, manca l´intellettiva: non ne hanno bisogno, tanto perfetta è la macchina biofisica coordinata alle pulsioni, né patiscono conflitti interni; il loro cervello ignora i valori (vero, buono, bello), nel cui faticoso studio l´animale fornito d´intelletto spende tanto tempo con profitto esiguo o addirittura in perdita. Questo neofita d´una compagnia losca stava sommerso ed erompe nel mercato delle televisioni commerciali affossando i concorrenti. L´irresistibile ascesa ricorda le mosse con cui l´alligatore avvista, punta, azzanna le prede. Ha tre gole, come il lupo d´una favola, e stomaco senza fondo: parla, ride, canta, stordendo chi l´ascolta; nel suo lessico, «vero», «buono», «bello» significano «roba da inghiottire». Questo meccanismo biologico gli assicura atouts determinanti nelle partite rutule, fuori delle quali i colpi gli riescono male: Satanasso teme l´acqua santa; lui sparisce dove vigano regole applicate sul serio. Indenne da freni morali, percepisce solo bisogni e li soddisfa nella massima misura, al minimo costo: non rispetta nessuno; imbroglia i diavoli; prende Domineddio sotto gamba; se il caso lo richiede, delinque impunito, truccando i giudizi. Definiamolo Napoleone dei lucri mediante furberia, frode, plagio. Monopolista delle televisioni commerciali, in quasi trent´anni abbassa inesorabilmente i livelli intellettuali e del gusto allevando masse in stato d´ipnosi: confondono reale e virtuale; gli credono qualunque cosa dica; perso l´uso del pensiero, chi l´avesse, ripetono formule elementari somministrate dall´organo d´una manutenzione collettiva dei cervelli; parole-esca scatenano corti circuiti emotivi, ad esempio, la paura degl´inesistenti «comunisti». Sia chiaro: in stregoneria moderna è un capolavoro; e se lo combina nel modo più naturale, sfogando puri riflessi, mentre l´animale pensante, sensibile all´aculeo morale, dubita, esita, soffre, fatica, lungo vie tortuose quanto brevi sono le sue. È una forza essere monco d´alcune costose qualità umane.
Tipico animal impoliticum: il politico capisce l´avversario, commisura gl´interessi, coglie i lati delle questioni, scova punti d´intesa, presupponendo che le regole vincolino e violarle sia atto indegno; Leviathan ascolta e vede solo l´enorme Ego. Esce dall´utero d´un regime corrotto: caduto il quale, ne prende il posto, avendo larga riserva elettorale nel pubblico televisivo; schiera uomini dell´azienda, tutti uguali; raccoglie dei superstiti e i soliti cercatori d´ingaggio; viene anche qualche sciabola libera, male accolta perché lì dentro vale uno slogan della guerra civile spagnola («Abajo la Inteligencia», grida José Millán Astray y Terreros, generale necrofilo, in faccia al malinconico umanista Miguel de Unamuno). Forte dell´ordigno con cui entra nelle teste, vince, perde due anni dopo, rivince, governa male, perde ancora d´una minima misura, infine rioccupa i luoghi del potere, risoluto a goderselo almeno diciannove anni (ne ha settantadue); e subito si proclama immune dalla giurisdizione penale, qualunque sia l´ipotetico delitto, passato o futuro. Nel mondo evoluto la Rutulia è l´unico paese dove potesse accadere. Leviathan regola l´anima ai sudditi con le lanterne magiche che gli portano soldi a palate: vanta un patrimonio illo tempore stimato in ventimila milioni d´euro; ed è impossibile che questa lunga coda non s´insinui nelle decisioni governative. Stravaganze da Nave dei Folli: i Rutuli gliele concedono; nei sei anni dei loro governi gli attuali oppositori stavano col cappello in mano davanti all´Impero. Era prevedibile che Leviathan governasse male: non è il suo mestiere; l´arte dell´arricchirsi in frode alle norme istupidendo armenti umani ha poco da spartire con la scienza laboriosamente praticata da Cavour, Giolitti, De Gasperi. I mangiatori del papavero via etere pensavano che, così abile nel coltivare i suoi interessi, beneficasse tutti: nossignori, diventa ancora più ricco provvedendo a se stesso; il resto va secondo le lune.
Ne sopravviene una nerissima nella notte della recessione planetaria. Qui appare inetto in forme sbalorditive. Dapprima nega il pericolo: mandino al diavolo i beccamorti predicanti sventura; le cose vanno bene; «siete ricchi, giovani, belli» (nel suo vangelo i vecchi hanno diritto a chiome finte e dentiere scintillanti, ma sinora i soli beneficiari del favore governativo sono scuole confessionali e gl´insegnanti di religione nella scuola statale). Quando la res publica corre pericolo, gli statisti chiedono sforzi collettivi. Agl´Inglesi rimasti soli contro Hitler, Winston Churchill prospetta lacrime, sudore, sangue. Leviathan lancia un appello edonistico ai consumi: siamo sotto le feste; l´importante è spendere; «dipende da voi rimettere in moto la macchina». Almeno avesse detto: «chi può spenda»; l´enciclica mobilita anche i poveri e gli ormai quasi tali, sono tanti. Viene in mente Maria Antonietta, stupita che i popolani tumultuino: «non hanno pane, Maestà»; «mangino brioches». Non è temerario supporre che s´arricchisca anche sulla recessione. Occhiate dal parterre studiano il corpo del re, in cerca d´indizi: commette frequenti gaffes; parla, disdice, nega quel che milioni d´occhi hanno visto e orecchie udito; bofonchia contumelie («imbecilli», «miserabili», «imparino il mestiere», «vadano a casa»). Affiorano fondi sinistri. Ad esempio, va in provincia: i devoti se lo bevono; raccoglie suppliche; corre seminando quelli del sèguito; e quando un paralitico in carrozzella chiede aiuto, risponde beffardo; non gli basta avere una bella moglie? Suona come l´aneddoto d´un nero vangelo apocrifo. Lo scenario clinico appare molto interessante. Nella prossima lettera a «Stylus» esporrò qualche ipotesi prognostica.

l’Unità 12.12.08
L’esilio senza fine
Sei milioni sono i rifugiati «senza ritorno», costretti a vivere in condizioni disperate. 50 milioni sono invece le persone che hanno dovuto lasciare il proprio Paese per le guerre o le persecuzioni. Il 50% sono donne. La metà di loro sono ragazzi o bambini. L’ultima fotografia delle Nazioni Unite
di Umberto De Giovannangeli


È l’«esercito» dei senza diritti. Dei senza patria. Sono sei milioni. È il popolo dei rifugiati intrappolati da anni nel limbo dell’esilio senza possibilità di una soluzione. A ricordarne l’esistenza è l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) Antonio Guetteres. «Nella maggior parte di queste situazioni protratte - ricorda Gutteres aprendo a Ginevra un convegno internazionale - i rifugiati sono abbandonati, costretti a trascorrere i migliori anni della loro vita in campi trasandati e baraccopoli, esposti a ogni genere di pericolo e con gravi restrizioni ai propri diritti e alle proprie libertà. Molti rifugiati di lungo periodo non possono tornare a casa perché il proprio Paese è in guerra o perché i diritti umani sono gravemente violati. Solo una piccola parte ha la possibilità di sistemarsi in Paesi terzi. La meritoria opera dell’Unhcr ci permette di avere un quadro dettagliato di una sofferenza diffusa, angosciante. Rifugiati, vite nell’ombra. Un’ombra che l’ultimo rapporto dell’Agenzia Onu aiuta a diradare. Le Nazioni Unite definiscono un rifugiato come una persona che «temendo a ragione di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, apppartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese (dalla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiato - Ginevra 1951).
Ogni rifugiato ha diritto a sicurezza di asilo, e inoltre ad usufruire dei diritti fondamentali e degli aiuti di cui gode ogni altro straniero che risieda legalmente nel Paese ospite; ha diritto alla libertà di pensiero e di movimento, alle cure mediche e ai benefici sociali ed economici, alla libertà dalle torture. Ha diritto al lavoro. Sulla carta. Perché la realtà racconta di altre storie, fatte di diritti negati, di identità calpestate, di sfruttamento e vessazioni. Nessun bambino rifugiato dovrebbe essere privato del diritto di ricevere un’istruzione. Ma queste privazioni sono costanti e diffuse. La condizione dei richiedenti asilo in Italia (circa 38 mila al 2007), ricorda il rapporto dell’Unhcr, è molto difficile. La mancanza di una legge sul diritto d’asilo, pure sancita dall’articolo 10 della Costituzione, ha prodotto in questi anni una situazione di estremo disagio per persone che sono state costrette a lasciare la propria terra. Tra queste persone vi sono molte donne, bambini e vittime di tortura o maltrattamenti nel loro Paese d’origine. In tutte le popolazioni di rifugiati, circa il 50% delle persone è costituito da donne e ragazze. Lontane dalla loro casa, dalla loro famiglia, senza la protezione del loro governo, le donne - sottolinea il rapporto - sono particolarmente vulnerabili. La maggior parte delle donne in fuga non arriva a chiedere asilo all’estero. Tuttavia, per molte donne anche l’asilo non significa salvezza. Esse sono spesso soggette ad abusi da parte di poliziotti o altre persone. E ancor più vulnerabili. sono i bambini. I bimbi rifugiati: numeri da incubo. Più della metà dei circa 21 milioni di rifugiati in tutto il mondo sono bambini e adolescenti di età inferiore a 18 anni. Un’umanità che chiede rispetto. E diritti. Troppo spesso negati.

l’Unità 12.12.08
Paul Virilio: «La città è anche in ascensore»
di Luca Sebastiani


Duecento milioni. Sono le persone che vivono fuori dal Paese d’origine. Il XXI secolo, secondo Virilio, sarà «il secolo dei popoli in movimento».
Un miliardo. Sono le persone migranti che nei prossimi decenni si metteranno in cammino per ragioni economiche o per le guerre, a causa del riscaldamento climatico o delle catastrofi naturali
Nel 2007. La maggioranza della popolazione mondiale vive in città. Per la prima volta l’esodo urbano sostituisce l’esodo rurale. Dalla campagna alla città, dalla città alle grandi metropoli di 20 o 30 milioni d’abitanti. È l’era della «circolazione abitabile»

Un sesto della popolazione, un miliardo di persone, è o diventerà migrante. Noi invece viaggiamo ma, con la Rete, siamo rintracciabili e «stanziali». Ecco la rivoluzione pratica, ma anche concettuale, di questo secolo.

Per spiegare il cambiamento che attraverso la velocità sta investendo il mondo, Paul Virilio, filosofo e urbanista, ama raccontare una storia. «Un amico pompiere mi ha raccontato che una volta fece partorire una donna su un treno. E la cosa che oggi può apparire strana è che all’epoca bisognava far fermare il treno per permettere al nascituro di avere un luogo di nascita. Oggi - continua Virilio - un treno ad alta velocità o un aereo non si fermano più e l’identità, che è legata ad un luogo, viene soppiantata da una traiettoria».
Terra Natale è appunto il titolo di un’esposizione che il filosofo ha montato a Parigi insieme a Raymond Depardon, fotografo e cineasta che nei suoi ultimi lavori si è occupato di indagare il mondo contadino, il suo radicamento al territorio, la sua sedentarietà.
CONTADINI E URBANISTI
«Io, invece, che sono urbanista e figlio di un immigrato italiano clandestino, per questa esposizione ho lavorato sullo sradicamento, sugli enormi movimenti di popolazione che si preparano e che stanno già mettendo in causa la città, la sedentarietà e l’identità così come le abbiamo conosciute finora».
Per Virilio ci troviamo infatti di fronte «ad un crisi migratoria senza precedenti» che farà del XXI secolo «il secolo dei popoli in movimento». Già oggi ci sono 200 milioni di persone che vivono fuori del paese d’origine e si calcola che «nei prossimi decenni un miliardo di migranti si metteranno in cammino per ragioni economiche o per le guerre, a causa del riscaldamento climatico o delle catastrofi naturali».
La differenza con le migrazioni dei secoli scorsi è incomparabile. «Non si tratta più solo di un problema legato al lavoro. Le cause politiche, economiche ed ecologiche dei nuovi esodi si legano alle tecnologie di trasporto che rendono possibili spostamenti di massa». Rifugiati, profughi, popolazioni fluttuanti. Il risultato è che le politiche di contenimento delle migrazioni sono diventate prioritarie e «i muri stanno diffondendosi ovunque». Alla frontiera tra Stati Uniti e Messico, tra Arabia Saudita e Yemen. «Ma anche all’interno dei confini nazionali, come a Padova».
«Si tratta di un fenomeno storico maggiore», avverte Virilio. Nel 2007 è stata superata una soglia, dice. «Per la prima volta la maggioranza della popolazione mondiale vive in città. L’esodo rurale è stato sostituito dall’esodo urbano». Dalla campagna alla città, dalla città alle grandi metropoli «di 20 o 30milioni d’abitanti». Allora la questione dell’urbanizzazione del mondo contemporaneo è posta in termini che rimettono in causa la distinzione classica tra sedentarietà e nomadismo. Dopo l’era secolare dello «stazionamento duraturo» che introduceva il diritto di cittadinanza e lo «Stato di diritto» delle nazioni, oggi siamo «nell’era della circolazione abitabile».
«Nell’epoca contemporanea è sedentario colui che è ovunque a casa propria con i suoi mezzi di comunicazione, il suo cellulare, il suo computer. La città è là dove si trova, in aereo, in barca, nell’ascensore. Un’omnicittà. Il sedentario è in movimento e il nomade, lui, non è da nessuna parte a casa sua. È colui che non accede a questa capacità di connessione».
Secondo Virilio, allora, l’identità che era legata al luogo di nascita, oggi tende a diventare «tracciabilità». Con il passaporto biometrico, la geolocalizzazione e i sistemi di videocontrollo, le persone sono seguite «alla traccia» e la loro identità natale perde importanza a profitto del controllo della loro traiettoria. «La traiettografia prende il posto della geografia».
Un processo che arriva a compimento con la mondializzazione in cui «è il tempo reale degli scambi che ha rimpiazzato lo spazio reale dei beni». In questo senso «lo slogan della grande distribuzione "flussi tesi, zero stock" non riguarda più solo i prodotti, ma anche le persone e i popoli. Flussi tesi vuol dire che la traiettoria vince sull’oggetto e sul soggetto». L’accumulazione, che era rappresentata dalla città come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, è ormai dominata dall’accelerazione.
Se la rivoluzione industriale è stata la standardizzazione dei prodotti e dei valori, dice Virilio, ora è alla rivoluzione della sincronizzazione che ci troviamo di fronte. «La mondializzazione è la preminenza dell’immediatezza, dell’ubiquità, dell’istantaneità sullo spazio reale dei valori». È una manipolazione degli attributi del divino che ci sfugge di mano. «Che cerchiamo di gestire con sistemi matematici che funzionano in un tempo che non è più quello del pensiero economico. E ancor meno del pensiero politico». La «collettività istantanea» ci sfugge perché necessita di «una nuova intelligenza che non è né a destra né a sinistra. E tanto meno dai trader».
La crisi finanziaria attuale, spiega Virilio, è allo stesso tempo il prodotto e l’esemplificazione di questa nuova era in cui la velocità ha acquistato autonomia «esponendoci ad una forma dell’incidentale che mette in causa la natura del progresso». Spesso per parlare della crisi attuale si fa riferimento al 1929. «Ma la fonte del caos odierno è nel Program Trading del 1987, con cui le borse si sono connesse istantaneamente e i flussi virtuali sconnessi dalla realtà». Il risultato è il «Big Crunch» di oggi, «in cui s’ignora dove si trovino i rischi». L’economia è sorpassata dalla velocità e «trasportata in un incidente sistemico, qualcosa che somiglia più alla reazione a catena che all’incidente classico definito da Aristotele». Per questo «siamo lontani dall’aver capito come uscirne».

Paul Virilio, filosofo, scrittore, urbanista, teorico culturale ed esperto di nuove tecnologie francese, è nato a Parigi nel 1932. È conosciuto principalmente per i suoi scritti sullo sviluppo della tecnologia in relazione alla velocità ed al potere, con vari riferimenti all’architettura, l’arte, la municipalità e le forze armate. Tra i libri pubblicati in Italia ricordiamo «L’università del disastro» (Raffaello Cortina, 2008), «L’arte dell’accecamento» (Raffaello Cortina 2007), «Discorso sull’orrore dell’arte» (Eleuthera 2007), «Città panico, l’orrore comincia qui» (Raffaello Cortina 2004), «Lo spazio critico» (Dedalo, 1998), «Estetica della sparizione» (Liguori, 1992). Dal 1968 Virilio è professore di Architettura presso l’Ecole Spéciale d’Architecture a Parigi,

l’Unità 12.12.08
De Oliveira e il secolo breve
Il maestro portoghese compie cent’anni e sta ancora sul set
E il primo a non crederci è lui
di Alberto Crespi


Ha esordito nel ’42 ... e ora sta ancora girando

La notizia è che Manoel de Oliveira ha compiuto 100 anni, ma la vera domanda è: quando? Ci crediate o meno, circola fra i cinefili una leggenda secondo la quale il grande portoghese si leva 2 anni dai tempi in cui era un giovane gagà dedito alle macchine da corsa e al corteggiamento delle fanciulle del Portogallo «bene». Sarebbe nato, quindi, nel 1906, non nel 1908. Nessuno ha mai confermato tale leggenda, per cui a noi piace pensare che sia vera! E che Oliveira abbia compiuto un secolo due anni fa, fregandoci tutti. Restando invece ai dati inoppugnabili, Oliveira dovrebbe aver festeggiato i 100 anni oggi, anzi ieri: secondo molte biografie risulta nato l’11 dicembre 1908, ma ieri le agenzie informavano che suo padre lo denunciò all’anagrafe di Oporto solo il 12 (accadeva, e forse accade ancora). Non è l’unico grande del cinema la cui nascita è avvolta nel mistero: ad esempio, non si è mai capito se John Ford sia nato nel 1895 o nel 1894, mentre Marlene Dietrich (ufficialmente nata nel 1901) ha passato un’intera vita a raccontare di essere del 1905 - ma ad una signora, si sa, non si chiede l’età...
La pignoleria dei pedanti non impedirà comunque a Manoel de Oliveira di esser felice di questo emozionante traguardo, e a Mario Monicelli di continuare a invidiarlo. Ehi, quest’ultima frase è scherzosa! È da qualche anno che il nostro grande e amato Mario non perde occasione di prendersela con Oliveira, perché vorrebbe esser lui il più anziano regista vivente (o morente, come dice lui stesso, sempre scherzando). Dai Mario: superare Oliveira non sarà facile, ma puoi farcela, e può essere un’ottima scusa per tener duro altri 15-20 anni. L’unicità di Oliveira sta altrove: altri cineasti hanno sfondato quota 100, ma lui è l’unico che a quell’età continua a lavorare. Carlo Ludovico Bragaglia, quando è morto nel 1998, aveva ampiamente superato il secolo di vita, ma non dirigeva un film dal 1963! Invece il portoghese ha un progetto di regia annunciato per il 2009, un film chiamato Singularidades de uma rapariga loira, un titolo che ci vogliono cent’anni solo a scriverlo.
I suoi ultimi lavori sono corti e mediometraggi che, diciamolo, se non fossero diretti da Manoel de Oliveira non avrebbero nemmeno visto la luce; ma esiste un pensiero critico, comunque rispettabile, secondo il quale ogni fotogramma firmato dal nostro è automaticamente un capolavoro, ed è un pensiero che gli permette di andare ai festival, tutti proni di fronte all’età. E forse è giusto così. L’ultimo lungometraggio vero è stato Bella sempre, del 2006: un’idea del tutto insensata, dare un seguito a un capolavoro irripetibile come Bella di giorno di Bunuel. Ma anche in quel caso il rispetto prevalse sulla ragione, e anche in quel caso, chissà, forse era giusto così.
E pensare che Manoel de Oliveira non prese sul serio il cinema fino ai 40-45 anni. Figlio di un industriale tessile, proprietario di vigneti, pilota di macchine da corsa, nel Portogallo di Salazar si dedicò assai di più alla dolce vita che all’arte. Un suo documentario recentemente restaurato, Douro lavoro fluviale, gli diede fama già nel 1931, ma il primo vero film - Aniki-Bobò - è del 1942 e il primo vero capolavoro, Il passato e il presente, addirittura del 1972. La svolta è Francisca, del 1981, un film letterario di quasi 3 ore (in alcune sale dove venne proiettato c’è ancora gente che dorme): nel frattempo in Portogallo c’è stata la rivoluzione dei garofani, in Francia i cinefili lo mitizzano e Oliveira si sblocca: prima di Francisca 13 film, corti e documentari compresi, in 60 anni; dopo, 35 - sempre includendo tutti i formati - in 27 anni. E non è finita! Auguri signor de Oliveira, è comunque bellissimo averla ancora fra noi.

l’Unità 12.12.08
La figlia: «Il ritmo infernale di papà Manoel»
di M. P.


Colpi di tosse, bicchieri che sbattono, bambini e cani. C’è festa a casa De Oliveira. Dura da ore, finirà quando sul fondo dell’ultima bottiglia, non rimarrà che l’immagine riflessa. Adelaide, figlia ultrasettantenne del maestro, risponde allegra. «Il secolo breve di mio padre? Un’avventura affrontata con l’unico scopo di creare. Immagini, suggestioni, filosofie, apologhi. Ci ha insegnato a ridere e a vedere la vita come dovrebbe sempre essere, un gioco che non prevede noia o stanchezza. Ha cent’anni e lo vedo meno di quand’ero bambina. Lavora senza soste, dorme sul set. Un ritmo infernale, l’unico possibile per lui. Sa un’altra cosa? È difficile sorprendere lo spettatore senza artifizi, con la forza della riflessione, delle idee. del cinema». Lui ci riesce, speriamo continui.

Corriere della Sera 12.12.08
Un libro del credente Antiseri e dell'ateo Giorello
Filosofia e religione non possono rinunciare alla ricerca della verità: ma in democrazia nessuno può vantarsi di possederla
Relativismo, una maschera del nulla
di Claudio Magris


Oggi l'«incultura dell'optional» mette tutto sullo stesso piano, dalla pornografia alla fede

«Verità relativismo relatività» (Quodlibet, pp. 224, e 18) è il titolo dell'ultimo fascicolo, curato da Tito Perlini, dell'«Ospite ingrato», rivista del Centro studi Franco Fortini. Il libro di Dario Antiseri e Giulio Giorello «Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti» (pp. 180, e 17) è edito da Bompiani.

In una delle sue ultime interviste, Horkheimer — fondatore, con Adorno, di quella Scuola di Francoforte che, col suo marxismo critico e autocritico, è tuttora fondamentale per capire la nostra realtà — dice che il mondo finito e contingente in cui viviamo è l'unico di cui possiamo parlare, ma non è necessariamente l'unico esistente e comunque non basta. Esso è l'unico oggetto di una onesta conoscenza razionale, ma la sua finitezza evoca quell'inattingibile altrove, quell'irriducibile Altro che danno senso al nostro confronto con esso, con le sue mancanze che chiedono di essere colmate, con le sue ferite che domandano di essere sanate, con le sue esigenze di giustizia e di felicità sempre deluse eppur mai cancellate. Per la tradizione ebraica, che nutre il pensiero di Horkheimer, il Messia non è ancora venuto, ma anche chi ritiene che non verrà non può comprendere veramente la realtà umana senza fare i conti con il senso e con l'esigenza di quell'attesa, di quella promessa di redenzione. Ogni filosofia che rinuncia a essere ricerca della verità e del significato si riduce a un mero protocollo di un bilancio societario; d'altronde un pensiero che pretenda di essersi impossessato della verità come ci si impossessa di un oggetto o della formula di un esperimento è una retorica menzognera. Di Dio, dicono tutti i grandi mistici, non si può dire nulla, perché lo si degraderebbe a misura umana, bestemmiando la sua assolutezza; si può solo sentirsi avvolti dalla sua oscurità, mentre ci si occupa onestamente delle singole cose che si possono vedere.
Quelle parole di Horkheimer, alieno da qualsiasi fede positiva, indicano come la fede, contrariamente a ciò che spesso si dice, non sia un ombrello che ripara da dubbi e incertezze, bensì un violento squarcio del consueto sipario quotidiano che ci protegge con tutte le convinzioni e le convenzioni passivamente acquisite, uno squarcio che ci espone a venti ignoti. Gesù o Buddha non sono venuti a fondare una religione, perché già allora ce n'erano troppe, bensì a cambiare la vita, con tutto il rischio e lo smarrimento che ciò comporta e che Gesù ha provato nel Getsemani; secondo le sue parole, solo chi è disposto a perdere la propria vita la salverà e perdere la vita — ossia tutto il suo corredo di convinzioni, abitudini, valori, legami, buoni sentimenti e comportamenti assennati — significa non sapere a cosa si va incontro.
Nel suo dialogo con Giulio Giorello — Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti — Dario Antiseri ha sottolineato come la fede, proprio perché afferma di credere in una verità e non di sapere cosa sia la verità, si offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave dell'assoluto. Inoltre la fede, a differenza di tante ideologie, impedisce di innalzare falsamente ad assoluto qualsiasi realtà umana, storica, sociale, politica, morale, religiosa, ecclesiastica; essa è una difesa contro ogni idolatria e dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta sempre come un (falso) assoluto, un idolo che esige cieca obbedienza e magari sacrifici di sangue. Come Giorello, ammiro più la preghiera a schiena diritta che quella in ginocchio, ma inginocchiarsi solo dinanzi all'assolutamente Altro aiuta a non inginocchiarsi davanti a ogni potere che pretende di essere Dio o il suo unico autorizzato rappresentante e di parlare a suo nome. I fondamentalismi di ogni genere — anche e soprattutto quelli religiosi, di ogni religione e di ogni Chiesa, nessuna esclusa — sono spesso i primi a commettere questo peccato di blasfema e violenta idolatria.
Il dialogo fra Giorello e Antiseri è nato anche dalle ripetute condanne del relativismo pronunciate da Benedetto XVI e dalle polemiche da esse provocate. Un intenso approfondimento di questa tematica, inteso a sfatare da posizioni laiche la fallace identificazione del relativismo col pluralismo e con la libertà, è costituito dal volume Verità relativismo relatività
(ed. Quodlibet), curato da Tito Perlini, autore dell'affascinante saggio che lo apre. Interprete e seguace del marxismo critico della Scuola di Francoforte, sulla quale ha scritto pagine fondamentali, figura intellettuale di rilievo nella sinistra minoritaria italiana e aperto a quell'«assolutamente Altro» di cui parlava Horkheimer, Perlini è una delle intelligenze che hanno capito più a fondo le trasformazioni epocali degli ultimi decenni. Pago di capire, pronto a prendere atto con tranquillo disincanto del fallimento di molte sue aspettative politiche, riluttante ad apparire (non per sdegnosa o schiva riservatezza, bensì piuttosto per sana ancorché esagerata pigrizia), Perlini è stato sempre restio a ridurre i suoi acutissimi e torrenziali saggi, sin dalla sua voluminosa tesi di laurea sul Doktor Faustus, che ben più di mezzo secolo fa sfondò lo zaino in cui l'aveva messa il suo maestro Guido Devescovi, l'amico e compagno di classe di Scipio Slataper, per portarsela a leggere in montagna.
Nel suo saggio, Perlini combatte il rifiuto dell'idea di verità e della sua ricerca, che da Nietzsche in poi domina il pensiero occidentale. Benedetto XVI, condannando il relativismo sul piano etico e teoretico, ne riconosce la validità sul piano politico quale fondamento della democrazia, basata sul presupposto che nessuno possa pretendere di conoscere e tanto meno di imporre la strada giusta. Certamente più democratico di Benedetto XVI, Perlini è tuttavia ben più radicale nella critica non della democrazia, in cui crede, bensì della sua attuale degenerazione: una politica che ha abdicato a ogni visione del mondo e si è ridotta a mera gestione — talora a indebita appropriazione — dell'esistente, declassando la democrazia a «dittatura dell'opinione pubblica manipolata che legittima ogni forma di demagogia posta al servizio degli interessi dominanti sul piano economico e finanziario».
È un ritratto perfetto dell'Italia di oggi. Alle classi tradizionali è subentrato un gelatinoso «ceto medio» che non ha nulla della classica borghesia e che produce e consuma — scrive Perlini riprendendo un'osservazione di Goffredo Fofi — una colloidale «cultura media» che avviluppa come un chewing gum i giornali, l'università, la televisione, l'editoria, il dibattito intellettuale, livellando ed equiparando tutti i valori in una melassa sostanzialmente uniforme e facilmente digeribile, che smussa ogni reale contraddizione e scarta o disarma ogni elemento capace di mettere realmente in discussione l'ordine imperante — ogni scandalo e follia della croce, per citare il Vangelo. Questa medietà non è la modesta e onesta tappa in cui quasi tutti noi mediocri siamo ovviamente costretti a fermarci nel cammino verso l'alto, ma è la totalitaria eliminazione di ogni tensione fra l'alto e il basso, l'ordine e il caos, la vita e la morte, il senso e il nulla. Il relativismo è il presupposto di questa (in) cultura dell'optional, che ammannisce un po' di tutto mettendo tutto insieme sullo stesso piano e sullo stesso piatto, pornografia e prediche sui valori familiari, fumisterie esoteriche e pacchiane superstizioni, un etto di cristianesimo e un assaggio di buddhismo, volgarità plebea e volgarità pseudoaristocratica di spregiatori delle masse graditi a quest'ultime, Madonne di gesso che piangono e veline che discutono con filosofi, abbronzature di famosi su belle isole e pii cadaveri dissotterrati e messi impudicamente in mostra.
Questo relativismo, in cui tutto è interscambiabile, non ha niente a che vedere col rispetto laico dei diversi valori altrui accompagnato dal fermo proposito di contestarli rispettosamente ma duramente in nome dei propri; è il trionfo dell'indifferenza, collante di una solidale e inscalfibile egemonia. Così il relativista, scrive Perlini, è intollerante verso ogni ricerca di verità, in cui vede un pericolo per la propria piatta sicurezza, che egli si convince sia l'esercizio della ragione. L'autentico illuminismo, fondamento della nostra civiltà inviso ai fondamentalisti clericali e anticlericali, è quello espresso da Lessing nella sua famosa parabola dei tre anelli: nessuno sa quale sia quello vero, perché l'occhio umano non può distinguerlo, ma si sa che uno è vero, che c'è la verità e che vivere significa cercarla pur sapendo di non poter mai esser certi di averla raggiunta. Il relativismo — scrive Perlini — è uno stimolo salutare all'interno della ricerca della verità, per impedire che essa si snaturi, come è avvenuto e avviene spesso, nell'intollerante dogmatismo. Altrimenti il relativismo è l'altra faccia del fondamentalismo sicuro di sé, poca importa se trionfalmente ateistico o trionfalmente bigotto, muro di supponenza che un io debole e timoroso della vita si costruisce per tenerla lontana. Finché c'è il muro, il timore dei fantasmi è forte. Ma come dice la vecchia storia? «La paura bussa alla porta. La fede va ad aprire. Fuori non c'è nessuno».

Liberazione 12.12.08
Gli atei a convegno per la laicità dello Stato


«Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi». Recita così l'articolo 7 della nostra Costituzione. Sessant'anni dopo, come si deve leggere quell'articolo, e che cosa possiamo augurarci per il futuro della laicità del nostro paese? Questo il tema del convegno organizzato dalla Uaar alle 10 nella Sala della Pace di Palazzo Valentini di Roma . Al convegno parteciperà un nutrito parterre di giuristi: Sergio Lariccia docente di Diritto amministrativo alla Sapienza di Roma, Fabio Corvaja costituzionalista dell'università di Padova, Piero Bellini professore emerito di Storia del diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, Nicola Colaianni docente di Diritto ecclesiastico all'Università di Bari), Nicola Fiorita docente di Diritto ecclesiastico all'Università di Firenze, Valerio Pocar docente di Sociologia del diritto all'università di Milano Bicocca. «Sono passati sessant'anni dall'approvazione della Costituzione - spiega Raffaele Carcano, segretario nazionale della Uaar - e in questi sessant'anni l'Italia e il mondo sono cambiati radicalmente, dal punto di vista dei diritti ma anche dal punto di vista della cultura e della società. Con questo convegno, coi i relatori di altissimo profilo che vi partecipano, vogliamo dare un contributo alla riflessione su che cosa sia, e come si possa realizzare appieno, la laicità dello Stato»

Liberazione 12.12.08
Il caso Englaro è la nuova breccia di Porta Pia
di Maurizio Mori


Anticipiamo l'introduzione dell'ultimo saggio di Maurizio Mori, a giorni nelle librerie

Perché non permettere ai genitori di Eluana di liberare la figlia dai vincoli tecnici che la tengono prigioniera in una condizione di "non vita" che da lei era aborrita e lo sarebbe ancora di più oggi? Perché tanti contrasti?
(...) Più che di per sé (di persone ne muoiono tante, anche in situazioni ben peggiori), il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l'analogo del caso creatosi con la breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina. Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana. Sospendere l'alimentazione e l'idratazione artificiali implica abbattere una concezione dell'umanità e cambiare l'idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria che affonda le radici nell'ippocratismo e anche prima nella visione dell'homo religiosus, per affermarne una nuova da costruire.
Come Porta Pia segna la fine del papa re e di un paradigma del ruolo sacrale della religione in politica, gettando le basi di un'aurorale democrazia in Italia, così il caso Eluana segna la fine (sul piano teorico) del paternalismo in medicina e di un paradigma medico fondato sul vitalismo ippocratico, gettando le basi di un aurorale controllo della propria vita da parte delle persone. Come c'è voluto parecchio tempo prima che in campo politico la democrazia si consolidasse e il diritto di voto diventasse fatto acquisito e rilevante, così è probabile che ci vorrà ancora del tempo prima che in campo medico si consolidi l'idea che il paziente deve avere il controllo della propria vita, e che l'autodeterminazione (col suo consenso informato) diventi davvero il centro della pratica clinica. Come Porta Pia ha dato origine a quella durissima opposizione della Chiesa cattolica romana che ha portato alla "questione romana", al Non expedit e al papa che, per oltre mezzo, secolo si è ritenuto "prigioniero" e "usurpato", così il caso Eluana ha suscitato opposizioni e ostruzionismi davvero straordinari e fuori dal comune, anche se non sappiamo per quanto tempo ancora durerà il turbamento per il tabù violato.
Se vale l'analogia, allora si può anche azzardare una previsione: è facile che, prima o poi, anche sulla "breccia di Eluana" ci sarà la conciliazione, come è avvenuto con la "breccia di Porta Pia". Anche quest'ultima all'inizio sembrava una tragedia, un danno irreparabile: come osservava nel 1962 l'allora cardinale Gian Battista Montini (diventato l'anno seguente papa Paolo VI), la perdita dello Stato pontificio «parve un crollo (…) e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarvi». Eppure, «la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose». Infatti, oggi è comune ritenere che sia stato un bene per la Chiesa cattolica romana non essere più gravata dalle incombenze del potere temporale. È facile che qualcosa del genere accada anche con il caso Eluana: ora ai cattolici romani pare impossibile poter accettare l'autonomia e l'autodeterminazione in bioetica, valori che sono condannati essendo il frutto avvelenato di un individualismo possessivo e selvaggio. Ma anche in passato condannavano la democrazia, l'autonomia in politica, la libertà di pensiero e via dicendo: verranno dapprima a più miti consigli e poi, forse, anche a riconoscere che l'autodeterminazione sulla vita è centrale per la realizzazione personale. Può darsi anche che in qualche modo riconosceranno di avere sbagliato o che, storicizzando, attribuiranno agli "eccessi" degli individualisti o dei nichilisti la ragione dell'attuale dura opposizione, venendo a concludere che da sempre l'autonomia e l'autodeterminazione sono stati "valori cristiani", e che gli attuali contrasti sul caso Eluana sono il frutto di meri e banali fraintendimenti.
Oggi, però, lo scontro è durissimo: "tremendo", come direbbe Beppino Englaro. E non sembra che sia per qualche fraintendimento, ma perché ci sono reali, forti e insanabili divergenze su punti cruciali - che ho cercato di chiarire nel libro. L'uomo è animale simbolico che ha bisogno di significati: vive anche (o forse soprattutto) di simboli, non di solo pane. Come ha scritto Peter Berger: «Il significato è il fenomeno centrale della vita sociale (…). Né la vita collettiva né quella individuale è possibile senza un'intelaiatura di significato (…). Una società non può stare in piedi senza una serie di significati condivisi dai suoi membri; un individuo non può dare un senso alla propria vita senza una simile serie di significati». Lo scontro sul caso Eluana è durissimo perché esso scardina la tradizionale "mappa di significati", fenomeno questo che getta alcune persone in quella terribile e insopportabile condizione che è l'anomia, ossia la situazione di totale disorientamento e di privazione di simboli in cui le persone si sentono quando sono prive di riferimenti, di mete da raggiungere, di valori in cui credere.
In particolare, si ripropongono per il campo biomedico i problemi che già si sono posti in passato per altri aspetti della modernità. Come ricorda sempre Berger, nelle società premoderne i «significati sono presentati all'individuo come fatti scontati, generalmente sacri, sui quali egli può esercitare tanta poca scelta quanto sui fatti naturali: i valori che governano la vita familiare, per esempio, esistono più o meno come esiste una roccia, un albero e il colore dei propri capelli. Invece nelle società moderne un numero sempre maggiore di significati importanti è offerto all'individuo in una sorta di supermercato dei significati, in cui egli si aggira come un consumatore con ampie possibilità di scelta: per esempio fra diversi valori familiari, stili di vita, e anche preferenze sessuali [ed ora anche sulla vita biologica stessa]. Di conseguenza, il "diritto al significato" implica nei due tipi di società cose quasi opposte: in una società moderna implica il diritto dell'individuo di scegliere i propri significati; nelle società premoderne implica il suo diritto di attenersi alla tradizione».
L'asimmetria tra le due opposte "mappe di significati" o "paradigmi morali" non è da poco, perché nel primo caso i significati "ci sono", sono "dati" (come le pietre o le case), mentre nell'altro "sono da costruire". Per questo il nuovo è in svantaggio e chi sostiene la tradizione difende a gran voce i bei tempi passati. Consapevole di questa situazione, ho cercato di esaminare gli argomenti a sostegno dell'una e dell'altra prospettiva per indicare le buone ragioni della nuova risposta etica al caso Eluana. L'uomo ha bisogno di simboli e l'etica è una grande costruzione simbolica. Quando un'etica diventa inadeguata e incapace di dare risposte soddisfacenti, alcuni hanno la sensazione del "crollo" e protestano perché si sentono sull'orlo del precipizio o già sprofondare nel baratro. Altri però sono perplessi e non sanno che dire; e altri ancora intuiscono la positività del nuovo, magari senza riuscire ad articolarne le ragioni. In queste situazioni c'è bisogno di presentare le ragioni morali che sostengono la nuova "mappa di significati" o il nuovo "paradigma morale". Dando una risposta alle domande postemi da Beppino Englaro ho cercato anche di esplicitare le ragioni che sostengono la moralità della richiesta di sospendere la terapia nutrizionale di Eluana.

il Riformista 12.12.08
Non ci resta che sperare in Renato Soru
di Francesco Bonami


Riguardo al conflitto d'interessi l'ex governatore della Sardegna ha affermato che l'uomo politico vive un quotidiano conflitto d'interessi, partendo da quando deve decidere se portare avanti i propri figli o quelli degli altri. Sembra una banalità, ma trovatemi un'altra figura politica in grado oggi di fare affermazioni così essenzialmente chiare

Caro Bob - L'altra sera mi godevo, guardando "Che tempo che fa" di Fabio Fazio, l'intervista all'ombroso ex governatore della Sardegna Renato Soru. Più lo ascoltavo e più mi veniva istintivo pensare che questo signore sarebbe l'uomo giusto per la rinascita della sinistra italiana. Non solo, sarebbe anche la figura adattata al rinnovamento di tutta l'immagine italiana, ovvero diventando primo ministro. Le parole di Soru, le sue idee, i suoi concetti il suo distacco umano, frutto di una timidezza atavica e non di un'arroganza mediatica, trasmettevano quella qualità che oggi è introvabile nei politici italiani continentali, il carisma.
Renato Soru sembra al tempo stesso un uomo nuovo e un uomo antico, ma sicuramente non un personaggio stracotto, bollito o imbalsamato. Lui ha subito chiarito che il suo futuro è in Sardegna, non altrove, confermando la proverbiale testa dura del popolo sardo. Eppure dalla Sardegna sono venuti tre fra le migliori figure politiche dell'Italia del dopo guerra, Enrico Berlinguer, Francesco Cossiga e Antonio Segni. Non sarebbe così strano se Renato Soru li seguisse uscendo dall'isolamento isolano.
Al momento Soru sembra più deciso a seguire le orme di Pasquale Paoli, l'illuminato eroe che scrisse la Costituzione della Repubblica Corsa nel 1755, ammirato anche da Napoleone. Soru non vuole certo fondare la Repubblica Sarda ma sicuramente l'attaccamento alla sua terra sembra impedirgli un coinvolgimento più ampio con tutta la nazione, che invece di figure come lui ha bisogno come il pane. Dal suo nurago Soru ha tutti i numeri per poter far partire un uragano politico che spazzi via la giungla della sinistra e apra nuove strade e opportunità per il rinnovamento politico e sociale del paese.
Da Fazio l'imprenditore di Tiscali è sembrato irremovibile, ma al tempo stesso la dolcezza con la quale raccontava il suo attaccamento alla cultura sarda, al suo ritmo quotidiano e al suo paesaggio, era velata da quella malinconia che ha nel cuore solo colui che sa di doverle prima o poi abbandonare per affrontare sfide più grandi.
Il Paese e la sinistra hanno bisogno di un leader che sia italiano e straniero al tempo stesso, proprio come lo è Barack Obama. Una figura che sia maturata a una certa distanza dal potere centrale ma che al tempo stesso abbia gestito un potere in un luogo molto particolare come la Sardegna, che non è certo Chicago, ma come Chicago ha una sua identità molto forte, definita e dura. In più Renato Soru possiede un umorismo raffinato quasi invisibile, ben diverso da quello al quale ci ha abituato Silvio Berlusconi un giorno sì e un giorno no.
L'Italia ha anche bisogno di ritrovare la sua compostezza politica attraverso un carattere meno estroverso come quello dell'uomo politico di Villasimius. Non solo il Paese ha la disperata necessità di riscrivere la sua Costituzione, non come sta minacciando di fare il centrodestra, ma in modo illuminato alla Pascale Paoli, con un certo idealismo fra le mani e non solo la deprimente praticità dei propri interessi. Soru ha detto a Fazio che un buon politico è colui che si sa annullare per mettersi al servizio della comunità che è stato chiamato a servire. Il fatto che lui non sia un estroverso lo può aiutare in questo difficile esercizio di generoso annulamento. Riguardo al conflitto d'interessi l'ex governatore ha affermato che l'uomo politico vive un quotidiano conflitto d'interessi, partendo da quando deve decidere se portare avanti i propri figli o quelli degli altri. Sembra una banalità, ma trovatemi un'altra figura politica in grado oggi di fare affermazioni così essenzialmente chiare. Se Soru decidesse di diventare il Pascale Paoli di una nuova Italia dovremo rinunciare alle risate quotidiane che garantisce oggi l'attuale primo ministro, ma ritroveremmo una dignità un'integrità e un'identità senza le quali non possiamo più andare avanti sulla strada del futuro.
Speriamo quindi che Soru ci ripensi andando in barbagia a tutti.

il Riformista 12.12.08
Promosso il poliziotto picchiatore
di Peppino Caldarola


Una notizia buona e una cattiva. Riguardano la stessa persona. Si chiama Alessandro Perugini che era il numero 2 della Digos ligure sette anni fa durante i fatti del G8. Questo signore è stato fotografato e immortalato in terribili immagini televisive mentre spaccava la faccia a calci a un povero ragazzo di quindici anni, Bruno Mattana. Il ragazzino fu poi arrestato, pestato e incarcerato sulla base di verbali contraffatti. Il signor Perugini è stato condannato a 2 anni e 3mesi con la pena non condonata. Aveva avuto un'altra condanna simile per Bolzaneto. E' una buona notizia perché ci dice che la giustizia, di rado ma talvolta accade, fa il suo corso. La notizia cattiva è che il signor Perugini, dopo l'ignobile pestaggio, è stato promosso vice-questore, primo dirigente e responsabile della sezione anti-crimine della Questura di Alessandria. All'epoca della promozione era solo indagato e lo spiacevole avanzamento di carriera può essere giustificato dal garantismo. Ora c'è una sentenza, e il Perugini non dovrebbe essere più là dove è stato promosso. L'ho scritto tante volte che abbiamo i dirigenti di polizia, a cominciare dal capo, Antonio Manganelli, migliori del mondo. So che De Gennaro è un investigatore eccezionale e una persona perbene. Ma che senso ha far amministrare la legalità da un violento picchiatore che si è accanito su un ragazzino inerme di quindici anni. Non volete licenziarlo? Mettetelo in un ufficio lontano da bambini. Anche picchiarli sadicamente è pedofilia.