l’Unità 1.2.07
1977: Sì, fummo sconfitti ma Berlinguer vide giusto
di Bruno GravagnuoloANNIVERSARI Parla Adalberto Minucci, allora segretario torinese del Pci e direttore di Rinascita: «Con la nostra forza di massa al culmine delle vittorie elettorali sconfiggemmo il terrorismo, ma il quadro internazionale fu più forte»La mia «Rinascita» fu attentissima culturalmente ai movimenti e tuttavia dovevamo batterci su più frontiL’ondata del 1977 veniva dai nostri successi e il compromesso storico era l’unico sbocco possibileImpensabile allora una linea di alternativa alla Dc perché il Psi non ci avrebbe seguito e poi c’era la tenaglia internazionale...«Inutile negarlo, le difficoltà politiche ci furono, nel gestire l’ondata del 1977. E anche errori di analisi. Ma la linea di Berlinguer era giusta e la sconfitta venne per motivi di ordine internazionale». Parla Adalberto Minucci, maremmano di Magliano, 75 anni, all’epoca segretario della federazione di Torino del Pci, poi segretario regionale piemontese e infine direttore di Rinascita, ma ben dopo la cacciata di Lama dall’Università di Roma (17 febbraio). Osservatori privilegiati i suoi - Torino e Roma - e in più Minucci fu a lungo membro della segreteria nazionale del Pci, voluto da Berlinguer e in lotta contro Amendola e i riformisti, verso cui comunque ancora oggi nutre rispetto e stima («Amendola, dice, temeva “l’operaismo”, di cui mi riteneva un assertore, a motivo della sconfitta del biennio rosso nel 1920»).
Bene, ma quali gli errori, e quali le ragioni «esterne» della sconfitta di Berlinguer e del compromesso storico?Minucci, uscito nel 1990 dal partito contro la svolta Pds, la prende da lontano. Da Torino. «Innanzitutto - racconta - il periodo in questione coincide a Torino con il massimo di espansione del Pci, e ben per questo fronteggiammo con successo gli omicidi terroristici.Volevano intimidire le giurie popolari ai processi, ma riuscimmo a far passare una legge che proteggeva i giurati, e li facemmo celebrare quei processi. Eravamo padroni della città operaia, fortissimi ovunque, al centro, in periferia, in provincia. E ciò a partire dalla riscossa del 1965, dopo le batoste del 1955, quelle subite in fabbrica anche grazie all’azione antioperaia in Fiat di gente come Sogno e Cavallo. Una volta, dopo un’aggressione di Lotta continua contro la Fgci, gli operai scesero persino in sciopero. E creammo comitati operai contro il terrorismo».
D’accordo, a Torino controllavate la situazione, dalla fabbrica alle istituzioni, specie dopo le vittorie elettorali del 1975 e del 1976. E però malgrado Torino, in Italia la situazione vi sfuggì di mano... «Sì, altrove le cose erano più difficili. Io vado a Roma, convocato da Berlinguer, per andare a dirigere
l’Unità. Veto degli amendoliani e mi ritrovo direttore di
Rinascita. All’
Unità ci va Reichlin, e accetto la soluzione, comunque di prestigio. Alzai la tiratura a 80mila copie, con punte di 150mila, e una redazione splendida: Bruno Schacherl, Paolo Franchi, Angelo Bolaffi, Massimo Loche, Marcella Ferrara, Leonardo Paggi, che chiamai a collaborare, Massimo Boffa, Ottavio Cecchi».
E a Rinascita che fai? «La apro agli intellettuali, ai movimenti, ai nuovi filoni culturali. Il primo speciale del
Contemporaneo che feci fare si chiamava: “la società radicale”. E mandò in bestia tutti». Me lo ricordo, ci scrissi anch’io...«Ecco, cercammo di capire le ragioni di quel continente antagonista e refrattario, il suo immaginario sociale, le sue soggettività. Anche sullo sfondo della crisi di un certo marxismo, dei cosidetti nuovi bisogni...».
Già, Calvino, Cacciari, Rusconi, i discorsi su Weimar e la crisi di rappresentanza. La crisi del marxismo, la grande Vienna... Ma tutto questo non ti esime da una risposta più precisa: giusto il compromesso storico in quel clima? Asor Rosa ha sostenuto che il Pci era chiuso alla «seconda società» degli esclusi. E che la replica a quell’onda non poteva essere l’accordo Dc-Pci, che eccitava la protesta degli «esclusi». Bensì l’alternativa alla Dc. Tu che dici?«Non c’era alternativa a quella linea, unico sbocco possibile alle aspettative crescenti suscitate dalle nostre vittorie. E la novità stava negli “elementi di socialismo”: il governo politico dell’accumulazione. Sorretto da un forte ruolo pubblico e da una politica keynesiana incentrata su bisogni collettivi. La nostra era una politica radicale e non una tattica compromissoria, al di là del dato emergenziale: inflazione, stagnazione, terrorismo, crisi energetica. Di più, quella politica era l’unica in grado di farci incontrare il terzo e il quarto mondo, Willy Brandt e la sua socialdemocrazia...».
Sta di fatto però che l’estremismo si impenna, la «seconda società» non capisce e alla fine ci si trova fuori dal governo, dopo il rapimento Moro.«Il partito era diviso, gli errori non mancarono, e Berlinguer si trovò a tratti isolato. Ma soprattutto eravamo stretti in una morsa formidabile da destra e da sinistra. E la morsa più forte era quella internazionale. Ci si impedì di governare! Fu Moro stesso, di ritorno dall’America, a chiedere cautela a Berlinguer, come lui mi disse: gli Usa, con Ford e Kissinger in testa, lo avevano diffidato dal farci entrare».
Tutta colpa degli Usa, e magari dell’Urss?
«Credo proprio di sì. L’uccisione di Moro, la sua fine, ancora ammantata di enigmi, servì a questo: estrometterci, privandoci di un interlocutore chiave. E poi c’è l’Urss, certo. Anche lì dentro c’era una lotta. Da una parte quelli come Gorbaciov che fin dal 1976 stravedevano per Berlinguer (proprio a me chiese di conoscerlo in Italia). E dall’altra i neobrezneviani, che non tolleravano uno scongelamento del quadro geopolitico. Poi ci fu quello strano incidente a Berlinguer in Bulgaria...».
E il caso Lama, la polemica di Bufalini sul «diciannovismo» del 77?«Errore aver fatto entrare Lama all’Università in quelle condizioni, errore quella polemica. Ma giusta la linea di fondo: un mix di fermezza e di attenzione. Il terrorismo fummo in grado di batterlo, e grazie alla nostra forza di massa. Al resto, Moro in testa, davvero non c’era rimedio».
Sbagliata allora l’idea di un’alternativa, basata sull’accordo col Psi e magari su un’innovazione dell’identità comunista?«Dopo il 1976, non c’era maggioranza possibile, e uno sbocco politico dovevamo pur indicarlo a chi ci aveva votato. E poi, con Berlinguer all’apice del prestigio, un superamento dell’identità comunista era impossibile. Inoltre l’alternativa alla Dc avrebbe radicalizzato ancor di più tutto il quadro, accrescendo la pressione estremista e il ricatto Usa. Infine: sul Psi non potevamo contare. Craxi fin dall’inizio voleva piegarci. E fin dall’inizio si accordò con la destra Dc per scalzarci dal nostro ruolo e prepare la sua ascesa».
Obiezione: fino al 1979 il Psi parlava di contrasto al capitalismo. Teorizzava l’alternativa alla Dc. E nel 1981 il Psi offrì al Pci un’intesa: appoggio esterno alla premiership di Craxi. In cambio di un’inclusione del Pci al governo su punti programmatici comuni, e addirittura di un fronte comune, se la Dc avesse rifiutato Craxi premier. Non era meglio «andare a vedere»? «Impossibile. Dimentichi le polemiche di allora, gli attacchi a Berlinguer e a me personalmente: “Ucci ucci sento odore di Minucci”, come scrisse sull’
Avanti! Una volta lo vidi in un camper - anche io! - e mi chiese di far fuori Berlinguer...».
Però si poteva almeno tentare di tirare il Psi dalla nostra parte. Viceversa, anche dopo la fine della solidarietà nazionale, l’interlocutore del Pci restò sempre la Dc.«No, Craxi voleva ricacciare indietro il Pci, per questo si accordava con la destra Dc. Ed era un uomo spregiudicato che puntava ad espandersi al centro con tutti i mezzi. Era diventato il padrone del Psi. Inimaginabile un’intesa».
Torniamo allora al 1976-1979. Ebbene Moro parlava di «terza fase», dopo la Costituente e dopo la contrapposizione Dc-Pci. Che voleva dire? E Berlinguer che idea se ne era fatta?«Per Berlinguer “terza fase” significava una possibile evoluzione della Dc in direzione sinistra-centro. Verso un’alleanza stabile e organica tra Dc democratica e Pci. Con la Dc di destra fuori. Moro stesso diceva: “siamo interessati a un nuovo socialismo”. E Berlinguer lo prendeva in parola».
Tiriamo le fila, Minucci. Niente autocritica sul 1977, se non nei dettagli. E riconferma della strategia del compromesso storico, fallita sugli scogli internazionali. E le critiche agli sprechi? Al corporativismo? Al massimalismo di quel periodo? Le critiche di Amendola, per intenderci?«Lui era un grande dirigente, segnato dall’esperienza catastrofica degli anni 20 e 30. Temeva la radicalizzazione dello scontro, l’isolamento operaio, come quando vinse il fascismo. E temeva l’inflazione. Avvertenze giuste le sue. Ma la radicalità nel 1977 era nei fatti, e quello di Berlinguer era l’unico modo per affrontarla».
E qual era quel modo, economicamente ad esempio?«Austerity, obiettivi produttivi concordati con l’impresa, partecipazione del lavoro. Diverso modello di consumo. E dentro tutto questo c’era spazio anche per l’innovazione e la competizione sul mercato globale. Ci fu un momento in cui a Torino, con Volponi, ci incontravamo con Umberto Agnelli, a discutere di tutto questo. Poi, al culmine, fu ucciso Moro, e poi nel 1983 venne la sconfitta alla Fiat. Ma a quel punto la storia si era già rovesciata all’indietro».
Repubblica 1.2.07
LA MUSICA E LE COSE DEL MONDO
UN SAGGIO DI PAOLO CASTALDI SU BACH, DEBUSSY E STRAVINSKIJ
di EUGENIO SCALFARI I tre compositori, ma soprattutto il primo, rappresentano per l'autore il culmine di una specie di rinuncia all'identità soggettiva, di fuga dell'arte e di rifugio in una forma di anacoresi monacaleSi rinvengono le tracce del pensiero di Rainer Maria Rilke e dei suoi "Sonetti a Orfeo"È riduttivo il suo giudizio su Mozart e su Beethoven. Inaspettato il suo favore verso l'ultimo RossiniNietzsche è onnipresente, sia quando è citato esplicitamente sia come ispiratoreL'autore è uno snob che detesta lo snobismo Vagheggia una società elitaria, ma si scaglia contro le éliteÈ anche un libro sulla filosofia, la politica e la trascendenza contro la ragione e contro gli IlluministiDopo averne letto, quasi per dovere d'ufficio come faccio per tutti i titoli che arrivano sul mio tavolo, le prime quattro pagine, ho deciso che si trattava di un libro scritto male, assai presuntuoso, carico di citazioni inutilmente colte e per di più su un tema - la musica e i musicisti - del quale sono un appassionato dilettante senza però possederne la competenza tecnica necessaria per affrontare un testo di non facile comprensione.
Perciò stavo per chiuderlo e passar oltre. Ma quella frase sulla sinfonia mozartiana Jupiter m'era rimasta a metà, mi sembrava intrigante (e infatti lo era) sicché continuai la lettura. Andando avanti ho superato altri motivi che suscitavano la mia cordiale antipatia.
Li enumero affinché tutto sia chiaro: i lettori hanno infatti il diritto di sapere che tra l'autore e il suo improvvisato critico si è svolta una lotta durata per tutte le 180 pagine del volume. Entravano in contrasto ad ogni riga con le mie più radicate convinzioni. Perché questo non è soltanto un libro sulla musica ma anche sulla filosofia, sulla politica, sullo stile, sulla trascendenza, sul mistero che ci circonda, contro la ragione, contro gli Illuministi. Per di più gremito di paradossi e di ossimori: infatti l'autore (a giudicarlo da queste pagine) è uno snob che detesta lo snobismo, vagheggia una società elitaria ma si scaglia contro le élite, cerca la chiarezza ma privilegia l'ombra e l'oscuro, si batte per un'arte d'avanguardia ma polemizza con tutte le avanguardie.
Infine lo stile. Da un autore così esigente ti aspetteresti una scrittura sorvegliata, sobria, lucida, chirurgica. Mi viene in mente la scrittura di Valéry. Invece niente di simile. Uno stile avviticchiato su se stesso, con due o tre proposizioni subordinate inserite nella principale, una dovizia di punti esclamativi, l'ingenua tentazione di fare prosa poetica accennando addirittura a qualche rima quando la passione del tema pervade tutta una pagina e l'autore pensa di sostenerla meglio ricorrendo a questi mezzucci.
Insomma, insopportabile. Eppure rapinoso. Ti prende nel suo ingranaggio e non riesci più a liberartene. Devi ammettere, magari con rabbia, che alcune delle tue idee cedono alle sue o quantomeno sono penetrate dal dubbio. Forse esagera nella sua radicalità, ma nellìesagerazione trova lo strumento per affievolire le tue resistenze. Lo stile resta approssimativo ma ne scaturisce una sorta di fascinazione esoterica e quasi di ipnosi intellettuale. Resta insopportabile ma è un incontro. Un incontro insopportabile o un insopportabile incontro? I cultori dello stile capiscono subito che la diversa collocazione dell'aggettivo rispetto al sostantivo fa la differenza. Nel caso di questo libro e di questo autore propendo per la seconda dizione, che rafforza il sostantivo e deprime l'aggettivo.
Aggiungo ancora a questa prima rassegna del testo che alcune chiavi hanno giocato in suo favore in questo mio contrastato innamoramento. La prima è l'onnipresenza di Nietzsche, sia quando è citato esplicitamente sia come ispiratore implicito di quasi tutte le pagine. La seconda è nel suo modo di intendere l'avanguardia come rottura delle forme tradizionali operando all'interno e non all'esterno di esse. Ciò che fece diversi, per fare un esempio, Matisse e Picasso.
Nella storia della musica questo libro ci fa comprendere quale carica rivoluzionaria abbiano avuto ai loro tempi Chopin, Schubert e Brahms e perfino il tardo Liszt e certamente Mahler rispetto al falso progressismo di Wagner o dei tardo-romantici. Mi sembra estremamente riduttivo il suo giudizio su Mozart e su Beethoven. Inaspettato il suo favore verso Rossini, specie quello della tarda età quando ha deliberatamente smesso di esprimersi sul pentagramma. Del resto (citazione) «Rossini avrebbe potuto mettere in musica perfino l'elenco delle lavandaie». Ma di ciò parleremo dopo.
Ora è venuto il momento di rivelare che stiamo scrivendo di Paolo Castaldi, il libro si intitola
Bach, Debussy, Stravinskij, l'editore è Adelphi (e chi altri poteva invaghirsi d'un così ostico autore e così congeniale con le idee dell'editore?) che io sappia il libro, uscito già da qualche mese, non ha avuto recensioni sui giornali. E ne capisco il perché. L'autore, per quanto ne so, è anche un compositore d'avanguardia in polemica con l'avanguardia. Non conosco le sue composizioni e non ho alcuna propensione a conoscerle. Credo infatti che sciuperebbero il valore del testo.
* * *
Si apre con venti pagine di introduzione, scritte nel marzo 2006, a ridosso della pubblicazione. Seguono tre parti intitolate ai tre musicisti del titolo. La prima su Bach fu scritta nel 1994. La seconda, sotto forma di lettera a Debussy, nel 1987. Infine lo Stravinskij fu pubblicato nel '72 con uno scritto dal titolo
In nome del padre.
Riunire queste tre parti, di fatto inedite per i più salvo
In nome del padre pubblicato dallo stesso Adelphi nel 2005, è stata un'iniziativa di intelligenza editoriale perché chiariscono i nessi della concezione musicale (e non solo) di Castaldi. Che non a caso pone al culmine della musica Bach e al culmine della sua immensa produzione la sua opera più tarda, l'Arte della Fuga, con la quale si compie quell'opera di de-soggettivizzazione, di rinuncia all'identità soggettiva, di rifugio in una sorta di anacoresi monacale che, secondo Castaldi, attinge l'essenza della musica disancorandola dalle cose del mondo e togliendole di dosso ogni significato e ogni "messaggio" che non sia quello della forma che realizza se stessa e in se stessa si riconosce e si compiace.
Ed ecco perché lo Chopin delle
Etudes e dei
Preludi; ecco perché lo Schubert dei
Lieder e soprattutto della musica cameristica, ecco perché il Brahms delle sonate e - infine - perché tanta sufficienza verso il Beethoven sinfonico ed invece il riconoscimento che viene tributato alle ultime sonate per violino e piano e per piano solo, a finire con la 111 di cui Castaldi cita la splendida interpretazione che ne dà Thomas Mann nel
Doctor Faustus.
I nessi sono ora evidenti.
L'Arte della Fuga (o La Fuga nell'Arte, come a un certo punto suggerisce l'autore) al vertice della sequenza; con un salto di un secolo e mezzo Debussy che prosegue l'operazione di distacco dall'identità soggettiva e da ogni tipo di messaggio lanciando il solo che sia compatibile con l'Arte della Musica: «Il piacere è la regola». Questa massima debussiana costituisce il ponte necessario per transitare dalla polifonia rinascimentale, anzi addirittura dal canto Gregoriano alla modernità e Castaldi lo imbocca di gran carriera, non so se consapevole delle antimonie che ne possono scaturire in termini di fuoriuscita dalla storia e dalla memoria (che gli sono giustamente carissime) e schiacciamento sul mero presente.
Felice decompressione spirituale, cancellazione del messaggio, desogettivizzazione e distacco, costituiscono certamente i presupposti d'una conoscenza più solidale con le cose, di un'arte che trovi nella forma il suo massimo fondamento e la sua sovrana indipendenza; ma contengono altresì il tarlo della "decadence" e del nichilismo. La presenza del pensiero nietzschiano in queste pagine è, a mio avviso, corroborante e positivamente significativa.
Vorrei aggiungere anche tracce del pensiero e dell'arte di Rilke là dove, specie nei
Sonetti a Orfeo e nei
Quaderni di Malte Laurids Brigge fa della desogettivizzazione il percorso necessario per identificarsi con l'altro-da-sé. Ma si tratta di interpretare a dovere il pensiero nietzschiano: un'operazione tra le più ardue a causa della quantità di enigmi che Nietzsche ha posto tra sé e i suoi lettori, tra sé e il mondo e, soprattutto, tra sé e se stesso.
Nietzsche non è un nichilista e si è sforzato, esplicitamente, di trovare un'uscita dal nichilismo. E non è neppure il creatore d'un superuomo che abbia come compito quello di calpestare la morale di fronte ad un altare dedicato all'egolatria. Fu probabilmente l'ultimo dei moralisti. Il suo sogno non fu il superuomo di tipo stirneriano ma un oltre-uomo, capace appunto di de-soggettivarsi per conoscere le cose. Delicatamente. Con tenera mitezza. Se volete, con la mitezza della follia melanconica.
Per questo mi permetto di avvertire Castaldi. Vedo bene il positivo che egli legge nella massima di Debussy, «Il piacere è la regola», apparentemente così lontana dal rigore claustrale dell'
Arte della Fuga eppure così impregnata dagli stessi insegnamenti decompressivi e da analoghi canoni stilistici. Ma vedo anche il negativo che quella massima contiene, non soltanto per la vita ma anche per l'arte che - una volta che si appiattisca soltanto sul presente - non saprà far altro che balbettare sul pentagramma, sulla tavolozza e nell'immenso vocabolario delle parole. So, perché ho letto il libro con attenzione, che non è questo il segno sotto il quale si muove l'autore, perciò gli segnalo il pericolo.
* * *
Ma torniamo all'
Arte della Fuga, perno centrale di tutta la dissertazione castaldiana. Mi sento obbligato verso l'autore per avermi sollecitato a riascoltarla, visto che non capita spesso di farlo nei concerti in programmazione. Il miracolo di questa splendida quanto enigmatica partitura è tutto nei primi quattro movimenti centrati sul contrappunto a voci triple e quadruple che iniziano di solito con un tema affidato al violoncello o al violino e toccano il culmine con l'intervento del basso che entra in scena dopo i primi quaranta o cinquanta secondi e resta dominante fino alla fine. Il tema è unico, ripreso con molteplici e spesso minimali variazioni. Il penultimo movimento si chiude con una sorta di interruzione improvvisa cui segue la fuga finale, una sorta di addio declinato sulle note del si bemolle, la, do, si naturale, che corrispondono al nome dell'autore. La firma d'un uomo stremato dall'aver compiuto uno sforzo creativo colossale, misconosciuto dai contemporanei, quasi cieco e morente come lo fu il Mozart del
Requiem e il Beethoven dell'ultima sonata, anch'essa rimasta incompiuta su solo due tempi.
Il senso dell'intera partitura è stato già anticipato nell'
Introduzione e sta nel raccordo con la polifonia rinascimentale calata nella complessità strumentale settecentesca, nella ricerca d'una nuova oggettività spersonalizzata dalla quale, dopo di lui, anche attraverso e nonostante la grande esplosione romantica, tutta la musica successiva dovrà tener conto, fino alla più avanzata modernità.
Cito in proposito Milan Kundera: «Bach è stato uno straordinario crocevia delle tendenze e dei problemi storici della musica. Un centinaio d'anni prima di lui un analogo crocevia è costituito dall'opera di Monteverdi che è il luogo in cui si incontrano due estetiche contrapposte: la prima fondata sulla polifonia, la seconda - pragmaticamente espressiva - fondata sulla monodia. Un altro straordinario crocevia delle tendenze storiche è l'opera di Stravinskij: duecento anni dopo la morte di Bach arriva un momento unico in cui la storia della musica è totalmente presente. A me pare che di questo momento la musica di Stravinskij rappresenti il monumento».
Kundera scrive questo suo giudizio nell'ambito di un ampio saggio su Stravinskij (sta nel libro
Les Testaments trahis pubblicato nel 1993 e tradotto in italiano da Adelphi con il titolo
I testamenti traditi) la cui linea conduttrice coincide direi al novanta per cento con quella di Castaldi. Non so se avesse letto gli scritti di Castaldi, alcuni dei quali cronologicamente lo precedono, altri lo seguono. Probabilmente no, trattandosi di scritti di fatto inediti salvo il
In nome del padre che è del 2005. Ma il problema ovviamente non è questo. C´è una stupefacente contiguità di pensieri e di giudizi tra questi due scrittori con una differenza: Kundera è Kundera e maneggia la scrittura da maestro. Del resto è il suo mestiere.
C'è un passo in cui Kundera riferisce d'un colloquio con un giornalista che voleva intervistarlo. Vale la pena di rileggerlo perché è la miglior descrizione dell'autonomia dell'arte che si possa dare. «"Lei è comunista, signor Kundera?" "No, sono un romanziere". "Lei è dissidente?" "No, sono un romanziere" "Lei è di sinistra o di destra?" "Né l'uno né l'altro. Sono un romanziere"». Così avrebbe risposto Bach a chi in un ipotetico aldilà gli avesse chiesto se si sentiva polifonico o classico o romantico o dodecafonico. «Sono un musicista». Avrebbe detto e come se lo era.
Castaldi - per tornare a lui - solleva a proposito dell'
Arte della Fuga una questione delicata. Si pone il problema del razionalismo illuministico e dei possibili rapporti con la musica di Bach. Il periodo cronologicamente è il medesimo, a metà del secolo XVIII; la ragione illuminata ha un suo rigore e una sua secchezza, un suo
esprits de geometrie che ricorda l'autore dei
Brandeburghesi. Per di più la
Fuga è coeva della
Critica della Ragion Pura. Queste coincidenze e convergenze allarmano molto, a quanto capisco, Castaldi il quale nutre nei confronti degli Enciclopedisti una sorta di singolare idiosincrasia. Il suo Bach non può essere un materialista (e certo non lo era), tantomeno un arido razionalista (non mi pare che vi sia un pensiero bachiano sull'argomento). Ma può ben essere un "numerologo", un "matematico della musica" e questo è probabilmente vero, almeno nei limiti in cui anche le note sono numeri e sembra che Pitagora ne sia stato l'inventore.
Ma il nostro autore ha il culto del trascendente e del mistero e considera Bach come il musicista più rappresentativo di queste visioni. Può darsi e non può darsi. Comunque la musica è la musica. Che cosa pensasse Bach in materia filosofica e teologica non è di alcuna importanza. Noi valutiamo l'opera non è così? Che fa a meno del messaggio, non è questa l'
Arte della Fuga e l'insieme dell'immensa produzione del maestro di cappella? E allora! (mi si perdoni l'esclamativo).
Vorrei piuttosto osservare che nelle numerose citazioni che costellano il saggio in questione, ne manca una e mi ha molto stupito: manca la citazione della grande "ciaccona" che chiude la Partita 2 in re minore, per "violino solo senza basso". Dove il contrappunto è presente perfino eseguito da un solo strumento che riesce a dar voce a due e a volte perfino tre temi melodici attraverso accordi arpeggianti, note alte e note basse ed altri accorgimenti tecnici che non sono soltanto esempi di bravura ma di altissima ispirazione musicale che, a mio avviso, non teme il confronto con l'
Arte della Fuga se non per le diverse dimensioni delle partiture.
* * *
Dovrei ancora dire del saggio su Debussy e di quello, molto più contenuto perché già ampiamente trattato nel libro dell'anno precedente, su Stravinskij. Ma tralascio, sia per ragioni di spazio e sia perché si è già detto l'essenziale. Nel pensiero dell'autore sia Debussy sia Stravinskij appartengono allo stesso filone bachiano della de-soggettivizzazione musicale, della rinuncia al realismo, al messaggio, al contenuto. Infine, alla restituzione dell'Arte alla sua pura forma, "monotona" e proprio per questo di cosmica altezza. Non si parla nel linguaggio corrente di musica delle sfere?
Resta un punto però e lo affronta anche Kundera nel saggio che ho sopra ricordato. È il punto degli affetti. La musica non dovrebbe suscitare affetti? Non dovrebbe parlare soprattutto al cuore prima ancora che all´intelletto? Non è questa una posizione che sposta l'attenzione - e il valore - sulla musica romantica più che su altri momenti della storia dell'arte?
Castaldi pensa di no e anzi si rifiuta di giudicare la musica per la sua capacità di mobilitare gli affetti. E Kundera è all'unisono. Il loro comune avversario è Adorno, che Castaldi strapazza un po' troppo rudemente mentre Kundera strapazza con qualche riguardo. Il primo arriva al punto di indicare come capolavoro del teatro mozartiano il
Così fan tutte che «per fortuna non fu dotato delle lusinghe librettistiche delle
Nozze di Figaro e del
Don Giovanni e poté così dispiegare la forza del grottesco e la perdita d'ogni contenuto che non sia la simmetria tra i quattro personaggi principali, i due di supporto e il gestore di quel balletto a contrappunto scenico». Quanto a Kundera, egli porta a titolo d'esempio
Le sacre du printemps che riesce a dare per la prima volta forma musicale alla bellezza dei riti barbarici.
Concluderò dunque citando ancora Kundera. Me ne scuso con Castaldi, ma dicono con parole diverse la stessa cosa. Con la quale - per il nulla che può valere il dilettante che sono - concordo anch'io con la sola differenza che il "Romantik" è stato un grandioso periodo della storia della musica e in quella storia sta con la pari dignità del polifonico, del barocco, del classico, fino al moderno e poi al jazz. Dopo di che è cominciato l'estatico balbettio del rumore. E sotto al rumore, niente.
Scrive dunque Kundera: «Da sempre detesto profondamente e violentemente quelli che in un'opera d'arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa) invece di cercarvi un'intenzione di conoscenza. In realtà il retaggio del romanticismo che ci portiamo dentro si ribella contro la sua più coerente e perfetta negazione. Stravinskij avrebbe dunque mortificato un bisogno essenziale insito in ciascuno di noi, il bisogno di preferire gli occhi umidi agli occhi asciutti, la mano posta sul cuore alla mano in tasca, la fede allo scetticismo, la passione alla serenità, la confessione alla conoscenza. Ma come si fa ad esser così sicuri che il cuore sia eticamente superiore al cervello? Non si commettono forse altrettante turpitudini con la partecipazione del cuore di quante si commettono in assenza di essa? Verrà mai il giorno in cui la faremo finita con questa ottusa inquisizione sentimentale, con questo Terrore del cuore?».
Personalmente mi commuovo perfino quando sento l'inno di Mameli o la Marsigliese, però col cervello sono d'accordo con Kundera e con Castaldi. Purché vengano salvati Mozart e Beethoven. Su tutto il resto sono con voi.
il manifesto 1.2.07
Sepoltura ai feti in Lombardia. Ed è bagarre
La norma contenuta in un regolamento per i cimiteri: obbligo di sepoltura anche al di sotto delle venti settimane. Vota anche la sinistra, poi si accorge della «forzatura». I Ds: solo una questione tecnica. Flamigni: così apriamo la strada a dittatura dell'embrione
di Eleonora MartiniL'hanno votato tutti, Ds e Prc compresi. Ma il giorno dopo, mentre la destra esulta e i movimenti pro-vita benedicono il governatore lombardo Roberto Formigoni, i futuri componenti del Partito democratico minimizzano e Rifondazione promette iniziative in Consiglio regionale per correggere la «forzatura» di cui sono stati inconsapevolmente veicolo. Stiamo parlando del nuovo regolamento varato martedì dalla regione Lombardia sulle attività funebri e cimiteriali che introduce l'obbligo della sepoltura per gli embrioni e i feti provenienti dagli aborti. Tutti gli aborti, fin dalla prima settimana di gravidanza. Per Formigoni gli embrioni, anche sotto la ventesima settimana, come prevede invece la legge vigente, devono essere sepolti nei cimiteri - sia pure in fosse comuni - e non trattati come «rifiuti ospedalieri speciali».
Sarà compito della direzione sanitaria ospedaliera «informare i genitori (non la donna, ndr) della possibilità di richiedere la sepoltura», recita il nuovo regolamento regionale. Ma nel caso di rifiuto da parte degli interessati a godere di tale opportunità - già prevista dalle norme nazionali - sarà l'ospedale stesso a provvedere al trasferimento in un'area cimiteriale «in analogia a quanto disposto per le parti anatomiche riconoscibili». Il «prodotto del concepimento», come lo chiama il provvedimento lombardo, anche quello proveniente dall'interruzione di gravidanza entro i termini previsti dalla legge 194, sarà quindi non più trattato al pari di un'appendice asportata o del sangue perso durante un'operazione, ma come un arto amputato o come un feto proveniente da aborto terapeutico praticato tra la 20a e la 28a settimana (termine entro il quale non c'è il dovere di registrazione all'anagrafe).
Obbligo di sepoltura - sepoltura di stato - a carico della pubblica amministrazione. Anche per donne non consenzienti. «Un altro passo verso la dittatura dell'embrione», lo definisce il professore bolognese di ostetricia e ginecologia Carlo Flamigni componente del Comitato nazionale di bioetica. «Sbaglia questa sinistra che pensa siano solo delle sciocchezze - continua Flamigni - perché il provvedimento risponde alla linea scelta dalla Chiesa di dare forza all'etica della verità anziché quella della compassione. Un'etica molto difficile da sostenere perché cozza con le verità degli altri». Eppure Flamigni ricorda che fino al 1600 la dottrina ecclesiastica dell'ilomorfismo non riconosceva l'anima ai feti che non avevano ancora acquisito sembianze umane. E, non essendo pari agli uomini, non potevano ricevere i sacramenti. «Inoltre l'aborto scelto o subito dalla donna - conclude Flamigni - è diventato, con le nuove tecnologie in grado di far sentire il battito cardiaco e di fotografare l'embrione, un problema psicologico molto più grave di quello di 20 anni fa. Non capisco perché aumentarne il grado di sofferenza». E se la radicale Donatella Poretti chiede l'intervento del governo e della magistratura su quello che definisce «una misera imitazione dei fondamentalismi cristiani», la consigliera regionale Ardemia Oriano (Ds) minimizza il suo voto favorevole e assicura che «la legge 194 non viene messa in discussione». D'accordo con lei anche Alessandra Kustermann, responsabile del reparto patologia fetale del policlinico milanese Mangiagalli: «Non vedo il problema. Le donne che hanno abortito volontariamente non saranno certo preoccupate che il loro grumo di sangue e placenta vada a finire in una fossa biologica. Mi sembra più grave invece il cimitero degli embrioni, scartati dalle fecondazioni artificiali e che non potranno essere mai più utilizzati, creato in applicazione della legge 40». Eppure il problema c'è se il Movimento per la Vita Ambrosiano esulta insieme a tutta la destra: «Un regolamento atteso da anni che restituisce al feto la dignità di persona». «Etica di regime» la definisce il ginecologo del Sant'Anna di Torino ed esponente radicale Silvio Viale: «Un tentativo di ridurre la libertà di scelta e l'anonimato della donna garantiti dalla legge 194, e di introdurre surrettiziamente lo stato giuridico dell'embrione». Ma, conclude Viale, da Milano viene anche una buona notizia: «La richiesta di archiviazione del caso del professor Nicolini accusato per aver fornito in 53 casi un farmaco abortivo sostitutivo della Ru486. L'aborto farmacologico è legale in Italia, e sarà difficile rintracciare qualcosa da seppellire».
il manifesto 1.2.07
Tutti pensano in termini di transizione ma è ora di ridefinire sia il concetto di capitalismo, che quelli di socialismo e di democrazia
Un potere machiavellico dietro la Grande Muraglia
Incontro a Pechino con il teorico della politica Cui Zhiyuan, esponente della «nuova sinistra». L'ideologia socialista - dice - è un fattore importante, soprattutto per la sua valenza simbolica: serve alle forze sociali per nutrire di ideali le loro richieste e agisce come deterrente agli abusi di potere del partito Difficile che possa ripetersi un'altra Tian Anmen, dice Cui Zhiyuan: i molti uomini d'affari che allora erano a fianco degli studenti oggi non sosterrebbero le
di Angela PascucciCos'è oggi la «nuova sinistra»? Compito arduo rispondere, persino nell'emisfero occidentale. Figuriamoci in Cina, dove la storia si è incaricata di dare al termine «sinistra» una connotazione tutta sua e, tra gli strati più popolari, fortemente di destra. Destino inevitabile, del resto, quando a dettare le regole è un partito che si dice comunista.
Sta di fatto che la «nuova sinistra» cinese ha alla fine accettato con riluttanza tale etichetta, anche perché quella di «intellettuali critici», di gran lunga preferita per gli echi profondi suscitati nell'immaginario, poco diceva al mondo, sulla cui scena l'intellighenzia cinese ha oggi voglia di intervenire.
Cui Zhiyuan, professore di Politica pubblica e Management alla Università Tsinghua di Pechino ci racconta la sua entrata nella New Left. Accadde nel 1994, quando gli capitò di invitare Robin Blackburn, l'allora direttore della «New Left Review», storica rivista della sinistra inglese, a una conferenza internazionale a Pechino. Le complicanze della burocrazia impedirono a Blackburn di partecipare ai lavori ufficiali e la sua presenza si limitò agli incontri informali a latere. Ma ciò bastò perché un giornalista del Quotidiano della Gioventù di Pechino, organo ufficiale assai influente, afferrasse il termine «New Left» e lo estendesse a tutti, annunciando l'emergere di una «nuova sinistra» cinese, avvenimento al quale il giornale della gioventù dedicò persino un editoriale.
Un termine soggetto a confusione
In realtà, non era sfuggito agli occhiuti osservatori dell'establishment politico che già all'inizio di quell'anno Cui aveva pubblicato su una rivista di Hong Kong, «Ventunesimo Secolo», un articolo dove affermava la necessità di procedere a una «seconda liberazione del pensiero», perché la prima, avviata nel 1978 con la politica di riforme economiche e di apertura al mondo, pur essendo stata cosa buona, era diventata a sua volta dogmatica e poco feconda. Quello fu l'inizio, anche se il segnale che una nuova formazione intellettuale era nata arrivò più tardi, nel 1997, con la pubblicazione sulla rivista «Tianya» del saggio di Wang Hui sul «pensiero cinese contemporaneo e la questione della modernità» (contenuto nel libro di Wang Hui Il nuovo ordine cinese edito da Manifestolibri).
Che alcuni giovani comunisti parlassero di «nuova sinistra» era, già nel 1994, di per sé un po' malizioso, fa capire Cui Zhiyuan. Nel contesto cinese di oggi, la «sinistra», quando non agita tra gli intellettuali l'inquietante e aborrito fantasma del «radicalismo», viene associata a una posizione conservatrice, nostalgica dei vecchi tempi e dunque contraria alle riforme. Naturalmente, l'intento di Cui era esattamente l'opposto. Cercò di dissipare la confusione cui diede adito il termine «sinistra» spiegando, a chi lo interrogava, che poteva essere per lui accettabile il significato originario coniato dall'Occidente durante la Rivoluzione francese, quando i rappresentanti del popolo sedevano alla sinistra del re mentre aristocrazia e clero si ponevano alla destra.
Profilo di un giovane intellettualePoco più che quarantenne, folti capelli sale e pepe che cadono sistematicamente sugli occhi per essere rimossi con un gesto da nervoso adolescente, il professore della Tsinghua anche fisicamente fa parte di una nuova generazione di intellettuali cinesi che non è forzato definire «globali» e che smentiscono lo stereotipo di un mondo asfittico e prigioniero. Quando lo abbiamo incontrato, a Pechino, Cui era appena rientrato dalla Corea del sud dove era stato chiamato per partecipare a un seminario internazionale sulle tensioni nella penisola coreana e stava preparando il suo nuovo viaggio negli Stati Uniti dove in primavera, alla Cornell Law School, terrà lezioni e seminari sul sistema legale cinese. Cui, collega, sodale e amico di Wang Hui con cui ha lavorato «sul campo» aiutando gli operai di Yangzhou (città natale di Hui) a organizzare la resistenza contro la privatizzazione della loro fabbrica, ha riferimenti teorici molto vasti e una formazione maturata soprattutto negli Stati Uniti, dove per sei anni, dal 1995 al 2001, è stato Assistant Professor di Scienze politiche al Massachusetts Institute of Technology. Si sente dunque parte di un universo culturale più esteso di quello cinese, anche se l'ancoraggio alle radici è fortissimo ed è in questo ambito che Cui muove la sua elaborazione più originale, incardinata nel bisogno di inventiva istituzionale e teorica. Con il suo articolo su «Ventunesimo Secolo» - spiega - intendeva proprio questo: andare verso una fase di innovazione istituzionale che ricrei dalle fondamenta il sistema. In Cina, certo, ma anche in Occidente. Tutti - dice - pensano in termini di transizione da un sistema all'altro, prefissando già l'obiettivo. Ma sia esso il capitalismo, il socialismo o la democrazia, l'obiettivo viene pensato come corrispondente a un concetto già dato, mentre sarebbe tempo di ridefinirlo, perché solo così si potrà rinnovare in modo radicale il sistema istituzionale: un lavoro che deve essere «open ended», aperto a sbocchi diversi.
È evidente come solo a occhi esterni appaia paradossale il fatto che Cui Zhiyuan abbia preferito misurarsi con le sfide imposte dalla transizione cinese, un buon campo d'azione per la sua visionarietà, quando avrebbe potuto restare forse per sempre negli Stati Uniti. Non a caso, dunque, richiesto di un giudizio sul presente, stretto tra lotta alla corruzione e leggi per ridistribuire il reddito in favore dei contadini e delle fasce più sfavorite, si proclama «cautamente ottimista»; perché - dice - «la situazione è molto fluida. È come sparare a un bersaglio mobile, dunque non ha senso generalizzare. Tutto può accadere: il peggio e il meglio.
Per spiegare le dinamiche in corso fra i diversi attori della transizione cinese, partito, governo, gruppi di interesse, società, Cui Zhiyuan fa ricorso a Machiavelli e al sistema fluido di alleanze del Principe che, a seconda delle convenienze e delle necessità, si allea ora con l'aristocrazia ora con il popolo.
In Cina oggi il Principe è costituito dal governo centrale, dal Politburo del partito, dalla leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao. L'aristocrazia è rappresentata dai governi locali e dai forti gruppi di interesse economico. E poi c'è il popolo. Meglio ancora della dialettica società-stato (e Cui Zhiyuan cita come riferimento teorico Norberto Bobbio) è questa complessa triangolazione che può dare conto di quanto accade oggi in Cina, aggiunge ancora il professore della Tsinghua. I vertici politici, indicando la «società armoniosa» come loro obiettivo - spiega Cui - dichiarano la loro alleanza con il popolo contro i pochi. L'equilibrio è molto difficile da ottenere, dato il contrasto tra i diversi interessi in campo, e occorre che il Principe sia illuminato, che agisca accortamente e che abbia forza e inventiva - precisa Cui Zhiyuan. A proposito delle rivolte rurali, dice: «Molti mi chiedono se queste proteste faranno cadere il governo centrale. La mia risposta è no, perché di fatto quasi tutti quelli che protestano fanno riferimento alle leggi emanate dal governo centrale che le autorità locali non applicano o violano». Questa, per Cui, è la parte buona che tuttavia potrebbe volgere al peggio se, al di là delle alleanze, la politica non sarà efficace e innovatrice e non manterrà le promesse di beneficiare davvero la maggioranza dei cinesi. Le proteste potrebbero allora moltiplicarsi e i vertici potrebbero, per paura, allearsi di nuovo con l'oligarchia.
La Cina, oggi, è in balia di questi flussi, occorre dunque osservare attentamente quel che accade, le dinamiche tra decisioni concrete e movimenti di base, che pure cominciano ad esistere. Un momento come quello attuale ha un precedente nella storia cinese del '900: la Rivoluzione culturale, che vide Mao tentare di allearsi con la base contro la burocrazia del partito. Non andò come si era sperato. Per questo, dice Cui, non possiamo ancora dare giudizi precisi, dobbiamo restare in osservazione: guardare, per esempio, a quanto è accaduto quando sono state abolite le tasse agricole. Uno dei primi effetti è stato che molti contadini, migrati in altre parti del paese perché non ce la facevano a vivere del lavoro della terra, sono tornati ai luoghi d'origine. Nel Guangdong o nel Fujian, aree di massimo sviluppo, dove i salari erano molto bassi e non conoscevano aumenti da dieci anni, molti si sono chiesti perché continuare a vivere in condizioni miserabili; così hanno deciso di tornare a casa e con i loro magri risparmi hanno avviato nuove attività nei villaggi. Di conseguenza le imprese si sono ritrovate per la prima volta di fronte a una diminuzione della manodopera disponibile a buon mercato: hanno perciò dovuto aumentare i salari, alzare il livello della tecnologia, oppure muoversi verso zone meno sviluppate. Nessuno, nemmeno il governo, aveva previsto tutto ciò, ma è quello che è accaduto, sostiene Cui. Qualcuno però ci ha rimesso. I governi locali, con l'abolizione delle tasse, hanno visto diminuire drammaticamente le loro entrate. Alcuni balzelli erano davvero vessatori, tuttavia la loro cancellazione ha prosciugato le casse, con immaginabili problemi, anche di corruzione.
Cui fa ancora un esempio, parlando della dinamica avviata dall'equiparazione fiscale fra imprese cinesi e imprese straniere, che sin dall'inizio della politica delle riforme hanno goduto di agevolazioni e di notevoli sgravi fiscali. Ma il tentativo di riportare in equilibrio la situazione ha provocato un putiferio e un'intensa opera di lobbying politica delle multinazionali, che l'anno scorso sono riuscite a bloccare il passaggio della legge all'Assemblea del popolo. Solo temporaneamente, però. La legge entrerà in vigore, anche perché lo richiedono le norme del Wto.
Tra azioni, reazioni e difficili equilibri, alcuni in Occidente vedono però profilarsi un'altra Tian Anmen: Cui Zhiyuan lo ritiene molto difficile. Tanta acqua è passata sotto i ponti della storia, sia pure in un tempo relativamente breve, e le dinamiche sociali sono profondamente cambiate. Allora molti uomini d'affari erano a fianco degli studenti, mentre oggi sostengono di più il partito e non appoggerebbero mai simili proteste. Quanto agli studenti, sono troppo impegnati a trovare un lavoro e molto presi da preoccupazioni individuali. Vedere nel futuro cinese è dunque impossibile, e configurare lo scenario delle prossime evoluzioni è una sfida alla quale il giovane teorico della politica si sottrae, perché non accetta che si possa presupporre una realtà già definita. Molti chiedono a Cui Zhiyuan: cosa dovrebbe diventare il Pc cinese? Un partito socialdemocratico? Magari cambiando nome come il Pc italiano? Questioni poco utili, secondo lui, perché presuppongono concetti nei quali resteremmo intrappolati. In Cina a un certo punto si è posta la questione del «nome S» (dove S sta per socialismo) e del «nome C» (dove C sta per «capitalismo»). L'inventiva istituzionale di Cui però ne prescinde: per lui la Cina è un terreno ideale, fertile, per ripartire verso il mondo nuovo. Anche se ha una struttura fatta di società private molto attive, il paese ha mantenuto nei settori strategici una notevole ossatura di imprese industriali statali (centosessantuno sono oggi quelle amministrate centralmente: ma secondo un annuncio arrivato dopo il colloquio con Cui entro il 2010 saranno consolidate con un processo di ristrutturazione che le ridurrà a un centinaio). La maggior parte delle imprese pubbliche, poi, incassa profitti enormi. Anche la terra e le risorse naturali sono ancora di proprietà pubblica, la più grande del mondo; ma essa - sostiene con decisione Cui - non va intesa come un fardello, bensì come una enorme potenzialità.
Nelle vesti dell'avvocato del diavolo, facciamo presente a Cui Zhiyuan che uno dei grandi problemi della contemporaneità cinese sta proprio nella gestione dei monopoli, che si considerano potentati autonomi e ridistribuiscono le risorse accumulate al proprio interno con lauti stipendi, ignorando il «bene comune». Cui lo riconosce ma risponde che, anche in questo caso, il governo centrale sta cercando di mettere le corporazioni statali sotto controllo, imponendo ristrutturazioni, tetti agli stipendi e versamenti alle casse del Tesoro centrale. Quindi si può benissimo andare oltre. Lo fa l'Alaska, dice, dove le risorse sono di proprietà pubblica e le royalties versate dalle compagnie petrolifere per sfruttare i giacimenti vanno in un fondo permanente del popolo, il quale investe e ridistribuisce i profitti sotto forma di dividendi sociali. La Cina potrebbe fare anche meglio. Il professore non ha dubbi.
Un'ideologia foriera di doveri
In tutto questo, che ne è stato della mitica classe operaia? La risposta di Cui Zhiyuan riflette, ancora una volta, tutta la complicazione del presente cinese: «i lavoratori urbani, dice, protestano per i loro interessi materiali, ma la rivendicazione economica non conduce automaticamente alla protesta politica». In questo senso, argomenta, è importante che il Pcc preservi la sua ideologia perché costituisce un'autocostrizione e lo obbliga a rappresentare i lavoratori in quanto «avanguardia della classe operaia». Sembra un'enormità anche a lui, tanto che ride mentre lo dice; ma prosegue ragionando sul fatto che nel Pcc sono presenti molti fattori contraddittori, di cui bisogna osservare l'evoluzione. Cui non ritiene l'ideologia socialista professata dal partito una barzelletta o un enunciato di pura facciata, a prescindere persino da quel che ne pensano molti suoi membri o dirigenti. Può sembrare singolare, dice, ma anche se nessuno la prendesse sul serio avrebbe comunque un valore simbolico, dunque un potere costrittivo. Paradossale, ammette, ma vero. L'elemento simbolico, insiste, è importante. Le forze sociali ci credono e lo usano per promuovere i propri interessi sostanziali. Così gli operai protestano e dicono: noi siamo i padroni del paese perché il Pc è il partito della classe operaia, è il nostro Partito, e noi non gli andremo contro. E dall'altra parte, il più delle volte si è costretti a elargire qualche concessione; talvolta ci sono episodi di repressione violenta, ma diventano difficili da sostenere.
il Riformista 1.2.07
Così il quotidiano di De Benedetti ha finito col servire un assist perfetto all'odiato cavaliere
Cara Repubblica, te lo meriti tutto Berlusconi
L'enfasi data alla lettera evidenzia una sconcertante sublaternità culturale del giornale che vuole cambiare il PaeseC'è un caso Lario-Berlusconi. Ma, almeno ai nostri occhi, c'è anche, enorme, un caso Repubblica. E cioè il caso di un giornale che ha pubblicato la lettera della signora Lario così come la ha pubblicata ieri
Repubblica. Titolo e alcune righe in apertura di prima, e poi un'intera pagina, la quarta, a caratteri grossi grossi, tipo quelli di una pubblicità a pagamento di un formaggino o della Toyota Corolla, sotto una grande foto dell'autrice. Con tutto il rispetto per l'Emmenthal e la Toyota, non è bello. Non si fa. Tant'è vero che non si era mai fatto, almeno sui giornali italiani, pure ricchissimi di imbarazzanti precedenti in fatto di servilismo verso i potenti di turno e corrività nei confronti di quanto si muove nel ventre dell'opinione.
Una caduta di stile? Peggio. È una patetica dichiarazione di resa a quel certo spirito pubblico e a quel modo di intendere la politica della lotta contro i quali il quotidiano che fu di Eugenio Scalfari e ora è di Ezio Mauro ama farsi paladino. Di più. È un esempio sconcertante di subalternità non solo culturale ma anche, per paradossale che possa sembrare la cosa, politica. Basta guardare alla cronaca. La lettera di pubbliche scuse di Silvio Berlusconi è arrivata, puntuale, nel giro di poche ore. Non sappiamo se oggi
Repubblica le darà lo stesso rilievo offerto ieri alla missiva della signora Lario. Ci è già chiarissimo, però, che l'opinione pubblica (probabilmente non solo quella di centrodestra) la ha accolta con un atteggiamento di benevola curiosità. Berlusconi ha fatto gol,
Repubblica gli ha servito l'assist.
Intendiamoci. La lettera, che evoca temi prossimi a quelli solitamente sollevati nelle procedure di divorzio, era di per sé una notizia, e anche clamorosa. Il quotidiano della tessera numero 1 del Partito democratico aveva il diritto e il dovere di pubblicarla, anche con grande rilievo. Ma il modo in cui ha scelto di farlo, l'inappropriatissima enfasi con cui ha colorato il suo farsi cassetta di opinioni, sensibilità e magari operazioni altrui getta un'ombra scura sui dichiarati buoni propositi del giornale che si fa voce del partito che dovrebbe rinnovare l'Italia e la sua vita pubblica, e che non ha fatto passare un giorno senza tuonare contro il berlusconismo e i danni che questo ha diffuso nel corpo della nostra società.
il Riformista 1.2.07
Il Vaticano e la bioetica del professor Ratzinger
di Paolo RodariProcedono in Vaticano, negli uffici della Congregazione per la dottrina della fede, i lavori preparatori di un documento dedicato alla bioetica, alla biogenetica e, in particolare, alla protezione dell’embrione. Le pagine del documento, via via che vengono ultimate, sono sottoposte all’attenzione del pontefice, ma quanto alla data di pubblicazione ancora nessuno si sbilancia.
La conferma della notizia, che circolava già da qualche mese, è stata data quattro giorni fa dal segretario della stessa Congregazione: monsignor Angelo Amato, il presule salesiano 69enne che ha mantenuto il ruolo di segretario dell’ex Sant’Uffizio anche dopo che Ratzinger è salito il 19 aprile 2005 al terzo piano del palazzo apostolico. Un ruolo delicato il suo, soprattutto perché è toccato a lui aiutare - non senza difficoltà - lo statunitense cardinale William Levada (il successore di Ratzinger alla dottrina della fede) a entrare nei meccanismi della curia romana e nel merito dei lavori di una tra le congregazioni più prestigiose di Santa Romana Chiesa.
Con il documento in uscita, l’intento del Vaticano è quello di attualizzare e integrare l’istruzione
Donum Vitae firmata da Ratzinger il 22 febbraio del 1987 e dedicata al rispetto della vita umana nascente e alla dignità della procreazione. E, di più, l’auspicio è di offrire una parola sicura - e in qualche modo definitiva - su una materia vasta e che negli ultimi tempi ha portato varie personalità della Chiesa a uscire con dichiarazioni non del tutto gradite nelle alte stanze della Santa Sede. Anche perché - è questo il pensiero di Amato - se c’è una congregazione indicata a riportare il punto di vista della Chiesa su questi argomenti, è proprio l’ex Sant’Uffizio.
Lo ha anche detto esplicitamente lo stesso Amato quattro giorni fa, intervenendo con parole dure su Avvenire: «Lo studio di argomenti così delicati è di competenza della nostra congregazione che poi sottopone i suoi lavori al papa». «E, quindi, le opinioni su questi temi provenienti da altre pur rispettabili istituzioni o personalità ecclesiastiche non possono avere quella autorevolezza che a volte i mass media sembrano voler riconoscere».
Tra gli ultimi interventi significativi di esponenti ecclesiastici, è senz’altro da segnalare l’uscita del cardinale Martini di nove mesi fa sull’Espresso - più ampia, per contenuti, dell’articolo apparso a sua firma il 21 gennaio scorso sulla pagina domenicale de
Il Sole 24 Ore - in cui l’ex arcivescovo di Milano spiegò come molte questioni che riguardano la nascita e la fine della vita sono «zone di frontiera o zone grigie dove non è subito evidente quale sia il vero bene». Quindi - disse - «è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni». Martini, aveva parlato anche dell’uso del preservativo quale «male minore» se esso impedisce il contagio mortale dell’Hiv.
Dello stesso argomento, lo scorso novembre, aveva parlato il cardinale Havier Lozano Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la salute. Quest’ultimo aveva sbandierato l’uscita di un dossier, realizzato a suo dire su indicazione di Benedetto XVI e redatto con l’ausilio sia di scienziati che di teologi, relativo ad alcune indicazioni circa l’uso del preservativo.
Monsignor Amato, nell’annunciare l’uscita del documento ufficiale del Vaticano dedicato alla bioetica, non ha citato esplicitamente i nomi di quelle «pur rispettabili istituzioni o personalità ecclesiastiche» che non avrebbero l’autorevolezza per parlare su tali tematiche. Tuttavia, quattro giorni fa, intervenendo sempre sul quotidiano dei vescovi italiani, i riferimenti sono apparsi tutt’altro che oscuri: «La
Donum Vitae - ha spiegato Amato parlando dell’istruzione, firmata da Ratzinger, che il nuovo documento in uscita andrebbe a implementare - conserva tutto il suo valore e per certi versi è profetica. Il problema è che nonostante abbia vent’anni è ancora scarsamente conosciuta». Quindi - ed è qui il passaggio più significativo - la questione non è, ad esempio, una revisione della dottrina morale riguardo la liceità del profilattico, che non mi sembra all’ordine del giorno, quanto invece nuove sfide per certi versi ben più gravi e disgregatrici dell’identità della persona umana, come quella del concepito che viene considerato come prodotto biologico e non come essere umano».
Repubblica.it 1.2.07
Ordine unanime sul caso del medico che staccò il respiratore
Il verdetto nella notte dopo l'audizione del dottor Mario Riccio
Welby, archiviazione per l'anestesista
"Non violò il codice deontologico"
Il medico: "I pazienti possono sospendere una terapia anche salvavita"
La moglie di Piergiorgio: "Ha aiutato mio marito ad avere una morte serena"CREMONA - L'Ordine dei medici di Cremona ha deciso l'archiviazione del procedimento disciplinare a carico di Mario Riccio, l'anestesista che il 20 dicembre scorso aiutò Piergiorgio Welby a morire staccandogli il respiratore che lo teneva in vita. Nella lunga riunione di stanotte, i colleghi di Riccio hanno stabilito che non c'è stata violazione del codice deontologico. "Oggi si apre il caso Welby", ha commentato l'anestesista. "Dal punto di vista deontologico c'è stata la conferma che i pazienti possono sospendere una terapia, anche quelle salvavita". "Contenta" del verdetto si dice anche Mina, la moglie di Piergiorgio Welby: "Me l'aspettavo. So che imedici sono rigorosi in quello che fanno e tra di loro: sono contenta che sia finita così. Il dottor Riccio - ha aggiunto - ha aiutato Piergiorgio ad avere una morte serena".
Il verdetto dell'Ordine dei medici è stato raggiunto all'unanimità nella nottata dalla commissione disciplinare alla quale Riccio era stato rinviato lo scorso 27 dicembre dopo un primo lungo colloquio con il presidente dell'Ordine Andrea Bianchi. In quel faccia a faccia, Bianchi aveva potuto ascoltare la ricostruzione fornita dall'anestesista che per avallare le sue azioni aveva consegnato al presidente alcuni documenti e un diario (una sorta di cartella clinica di tre pagine) sul caso Welby.
Al termine dell'incontro Bianchi però non si era sentito di prendere una decisione "in quanto il rinvio alla commissione su un caso delicato e complesso è un atto dovuto". La commissione si è riunita due volte: la prima il 26 gennaio, la seconda ieri alle 21. Attorno a mezzanotte i 15 membri sono arrivati alla decisione unanime di archiviare il caso.
Corriere.it 1.2.07Caso Welby. Nessuna misura contro l'anestesistaL'ordine dei medici di Cremona ha deciso l'archiviazione del procedimento disciplinare a carico di Mario Riccio, l'anestesista che il 20 dicembre scorso aiutò Piergiorgio Welby a morire staccandogli il respiratore che lo teneva in vita; nella lunga riunione di mercoledì notte, i colleghi di Riccio hanno infatti stabilito che non c'è stata violazione del codice deontologico.
Il verdetto è stato raggiunto all'unanimità nella nottata dalla commissione disciplinare alla quale Riccio era stato rinviato lo scorso 27 dicembre dopo un primo lungo colloquio con il presidente dell'Ordine, il dottor Andrea Bianchi.
In quel faccia a faccia Bianchi aveva potuto ascoltare la ricostruzione fornita dall'anestesista che per avallare le sue azioni aveva consegnato al presidente alcuni documenti e un diario (una sorta di cartella clinica di tre pagine) sul caso Welby. Al termine dell'incontro Bianchi però non si era sentito di prendere una decisione 'in quanto il rinvio alla commissione su un caso delicato e complesso è un atto dovutò.
La commissione si è riunita due volte: la prima il 26 gennaio, la seconda ieri alle 21. Attorno a mezzanotte i 15 membri dopo avere preso in cosiderazione diversi punti, tra cui la volontà del paziente, sono arrivati alla decisone unanime di archiviare il caso.