sabato 5 luglio 2014

Corriere 5.7.14
Oggi l’Unità non sarà in edicola

Oggi ancora una volta l’Unità non sarà in edicola. I giornalisti hanno saputo giovedì dai liquidatori della società editrice che il giornale ha un altro mese di vita, a meno che non si trovi un compratore. Per ora l’unica offerta è un affitto di sei mesi più sei da parte di Matteo Fago, uno degli ultimi proprietari, che dovrebbe poi presentare un preliminare d’acquisto. Il comitato di redazione accusa di «scelte scellerate» tutti i soci Nie, la società che ha gestito fino a metà giugno il giornale fondato da Antonio Gramsci: Fago, Renato Soru, Maurizio Mian,Claudia Ioannucci. I 57 redattori dell’Unità non sono pagati da maggio.

Repubblica 5.7.14
Bersani attacca: un solo capo non può decidere tutto
Rivolta nel Pd sulle riforme Italicum a rischio
di Silvio Buzzanca


ROMA. Abbiamo già discusso e deciso a larga maggioranza nel partito su riforme e legge elettorale. Adesso lo facciamo in Parlamento «per mettere a punto dettagli significativi. Ma non deve diventare l'occasione per frenare». Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd cerca di mettere un argine al malumore che cresce nel partito dopo il nuovo incontro con Silvio Berlusconi.
Perché è tornato in campo Pierluigi Bersani che ieri ha ribadito a SkyTg24 che «l'Italicum va modificato, lo capisce anche un bambino. Ci sono le soglie, le liste che prendono voti ma non deputati. E poi bisogna fare in modo che il cittadino possa scegliersi il deputato. Le democrazie che funzionano non sono le democrazie padronali ». L’ex segretario spiega che il combinato disposto di legge elettorale e riforma del Senato alterà gli assetti costituzionali e, dunque «la Camera, che diventa l'unica camera elettiva, dovrà occuparsi credo degli equilibri generali del sistema».
Il problema del rapporto fra riforme e Costituzione viene sollevato anche da Gianni Cuperlo.
«Se noi licenziamo l'Italicum così com'è uscito dalla Camera, io credo che ci siano margini di rischio di costituzionalità di quella legge», dice.
Una critica che ribadisce anche Vannino Chiti che chiede di modificare le soglie di sbarramento, di varare un Senato elettivo e di permettere ai cittadini di scegliere gli eletti con i collegi uninominali o con le preferenze.
Il clima però non è molto tranquillo neanche in casa dell’altro contraente del patto del Nazareno. Silvio Berlusconi, infatti, giovedì non ha concluso l’assemblea dei gruppi che doveva decidere sulle riforme e sembra proprio che la riunione non avrà un seguito. Berlusconi pensa infatti che si debba andare avanti. E per chiarire ai suoi il percorso ha scritto una lettera-appello ai parlamentari in cui chiede che «Forza Italia sostenga convintamente le riforme». L’ex Cavaliere ricorda che «il dialogo« con Renzi è sulle riforme, mentre su tutto il resto «Forza Italia resta all'opposizione ». Inoltre Berlusconi insiste sul fatto che Renzi lo vuole coinvolgere anche nella riforma della giustizia. Parole che però non convincono Augusto Minzolini: «Sarebbe paradossale - dice - non avere il presidenzialismo e perdere contemporaneamente il Senato elettivo».
E un no sulla legge elettorale arriva anche da Gaetano Quagliariello: «Se resterà questa il Nuovo centrodestra non la voterà, e porrà un problema serio. La legge elettorale non può essere imposta a partire da un accordo a due».

Repubblica 5.7.14
Renzi sfida i ribelli: “Chi blocca le riforme sabota l’Italia”
di Francesco Bei


ROMA. «Adesso i frenatori spostano il tiro sull’Italicum: bene, vuol dire che sulla riforma del Senato si sono già rassegnati». Matteo Renzi è fatto così, la nuova pioggia di critiche che arriva dalla sinistra del partito quasi lo galvanizza. L’irritazione per i «frenatori» delle riforme si trasforma in una rinnovata spinta al processo in corso a Palazzo Madama. Un impulso che passa, necessariamente, per una blindatura del patto con Berlusconi. Renzi e Berlusconi, dopo la visita dell’ex Cavaliere a Palazzo Chigi, si sono infatti parlati di nuovo. Stavolta per telefono. È accaduto giovedì sera, dopo la drammatica assemblea dei parlamentari forzisti. Tutte quelle voci fuori dal coro, specie da parte dei senatori azzurri (voti decisivi per impedire i «ricatti» dei bersaniani), hanno infatti innalzato il livello di allarme a Oalazzo Chigi. «Forza Italia tiene?» Il premier l’ha chiesto a Denis Verdini, ma a sorpresa l’ambasciatore forzista gli ha passato «qualcuno che ti può dare, meglio di me, le rassicurazioni che stai cercando». Era Berlusconi, ovviamente, stanco per la lunga e caotica riunione della Sala della Regina. «Matteo, ne ho appena riparlato con i nostri capigruppo. Noi ci stiamo, il patto per me è valido. Io ho una parola sola». Ma il premier ha chiesto un gesto in più, una presa di posizione ufficiale, oltre a quelle di Romani e di Toti, per rimettere in riga i ribelli di Minzolini e Fitto. Qualcosa di inappellabile, che provenisse dal gran capo in prima persona. «Mi sembra giusto, adesso ci rifletto». Così è stato, il comunicato ufficiale di Berlusconi è arrivato ieri. Per il leader forzista la discussione è chiusa, a questo punto non c’è nemmeno bisogno di convocare di nuovo tutti i parlamentari per riaprire lo sfogatoio. Basterà un ufficio di presidenza a sancire la decisione presa. O magari nemmeno quello.
Stretti i bulloni del patto con Berlusconi, Renzi si è potuto de- dicare al fronte interno. Impostando la strategia in una riunione ieri pomeriggio con Lorenzo Guerini, Luca Lotti e il ministro Boschi. Al premier infatti quelle accuse del suo predecessore non sono piaciute affatto. Bersani che gli affibbia l’etichetta di “Grande Nominatore” per voler portare a casa una legge elettorale che gli darà potere assoluto sulle liste elettorali. La critica per lo «squilibrio democratico » che si verrebbe a creare sulle istituzioni di garanzia, l’affondo sulle liste bloccate. «Non possiamo lasciar correre», ha deciso Renzi. Il contrattacco si svilupperà in più stadi. Ieri è arrivato l’avvertimento di Guerini. Martedì, in un’assemblea congiunta di deputati e senatori dem, alla vigilia dell’arrivo in aula del ddl Boschi, a parlare sarà direttamente il premier. Un discorso duro, sostanzialmente già impostato. Da martedì i «frenatori» diventeranno forse anche «sabotatori». Non delle riforme Renzi, ma dell’Italia. Un renziano del cerchio stretto la spiega in questo modo: «Noi stiamo giocando una partita vitale e strategica in Europa per chiedere maggiore flessibilità E Matteo ha dato la sua parola alla Merkel che, in cambio, le riforme finalmente arriveranno. A partire da quella del Senato. Riforme in cambio di flessibilità, è questo il vero patto tra noi e Berlino. Chi ci ostacola sulle riforme a questo punto sta mettendo in gioco la possibilità che l’Italia esca dalla crisi».
Certo, poi c’è anche il merito di alcune modifiche che potranno essere introdotte. Boschi, Finocchiaro e Guerini infatti riconoscono in privato che il progetto costituzionale contiene qualche fragilità sul piano delle garanzie. E su questo si agirà con dei correttivi, ad esempio allargando la platea dei grandi elettori del capo dello Stato ai 73 eurodeputati (eletti con il proporzionale puro) o prevedendo maggioranze qualificate.
Ma sulla legge elettorale i margini di cambiamento sono minimi, a dispetto delle richieste della sinistra Pd e di un alleato come l’Ncd. Sull’introduzione delle preferenze infatti Berlusconi è irremovibile. E l’intesa a mandare avanti la riforma del Senato prevede, in cambio, la promessa di Renzi di non rendere scalabile Forza Italia. Semmai, per venire incontro alle richieste dei democratici e togliersi di dosso l’accusa bersaniana di essere un «Grande Nominatore », il premier e la sua squadra stanno pensando di aggirare il problema in un altro modo. Un’ipotesi sarebbe quella di garantire l’elezione ai capilista, lasciando libera la corsa alle preferenze solo per chi viene dietro. Una soluzione immaginata tempo fa da Alfredo D’Attorre, che consentirebbe a Berlusconi di controllare gli eletti. Ma la soluzione che piace più a Renzi è un’altra, in linea con la tradizione dem: primarie di partito per entrare in lista, obbligatorie per legge. E Berlusconi? L’idea è quella di inserire una norma transitoria che, solo per il primo rinnovo del Parlamento, lascerebbe i partiti liberi di farle o meno. «Primarie facoltative » dunque, almeno la prima volta. E comunque qualcosa su questo fronte si sta muovendo anche dentro Forza Italia. Laura Ravetto, incaricata un paio di settimane fa dal leader di scrivere un regolamento per le primarie di centrodestra (chieste a gran voce da Lega e FdI), ha presentato il suo lavoro a Berlusconi. In attesa che se ne discuta in un ufficio di presidenza.

Repubblica 5.7.14
Il Presidente dei democratici
Orfini: “Si discuta sulle garanzie ma le preferenze non servono”
di Tommaso Ciriaco


ROMA. A sera, dopo un lungo duello interno al Pd sulle riforme, Silvio Berlusconi blinda il patto del Nazareno. «Ecco - rileva il Presidente dem Matteo Orfini - queste parole dimostrano la forza dell’iniziativa politica del Pd. L’ex premier non può che seguire quel che facciamo, perché è ciò che gli italiani vogliono. Certo sarebbe paradossale se, quando finalmente si afferma la nostra centralità, le riforme si arenassero a causa del Pd...».
Qualcuno avanza il sospetto che in cambio Berlusconi chieda contropartite su giustizia e tv.
«No, davvero. Stiamo riuscendo a fare le riforme ed è ingeneroso e sbagliato immaginare contropartite inconfessabili. Sulla riforma della giustizia, come sulle altre, discuteremo con tutti, in Parlamento. Con una sola stella polare: i cittadini».
Il Pd, intanto, si divide sull’Italicum.
«Ogni ragionamento deve partire da una esigenza: dobbiamo fare le riforme, nei tempi brevi. È un impegno che abbiamo preso con il Capo dello Stato e con gli italiani. Ed è, fra l’altro, una delle ragioni del nostro risultato elettorale».
Lei, Presidente di garanzia, come valuta le richieste della minoranza?
«Siamo un grande partito e abbiamo sempre discusso approfonditamente al nostro interno. L’invito è a vivere questa discussione come Pd, senza dividerci tra maggioranza e minoranza. Cerchiamo soluzioni, ed eventuali soluzioni migliorative, ricordando che esiste un quadro frutto di un accordo con le altre forze politiche. Anche perché ognuno di noi ha una legge elettorale ideale, ma se viviamo queste idee come diktat, semplicemente non ci sarà alcuna riforma elettorale ».
Bersani, però, chiede le preferenze, Cuperlo è molto critico. E Guerini li attacca.
«Trovo curiosa l’idea che le preferenze siano lo strumento per bilanciare un eventuale eccesso di potere del premier e della maggioranza. Vedo, invece, un altro problema».
Quale?
«Con un impianto ipermaggioritario e questa riforma costituzionale, si corre il rischio che una minoranza del Paese prenda tutto, eleggendo il Presidente della Repubblica che, per la Costituzione, è una figura di garanzia, a capo delle forze armate e Presidente del Csm. Ecco, su questo ha ragione Bersani ed è possibile rafforzare i contrappesi. Non vedo, però, cosa c’entrino le preferenze. Anzi, le preferenze in Italia furono superate perché in alcuni casi erano strumento che favoriva il malaffare».
Dicono che si rischi un Parlamento di nominati.
«Si possono trovare delle soluzioni intermedie. La migliore sarebbe quella dei collegi. Se invece ci saranno liste bloccate, che siano almeno molto corte, sul modello spagnolo».
Renzi cerca un equilibrio tra il Patto del Nazareno e la trattativa con il M5S. Che succede se il Pd si divide?
«Non dobbiamo ragionare come monadi, ma come Pd. E cercare di aiutare Renzi nel lavoro difficile che sta portando avanti sulle riforme. Va bene discutere, lo faremo ancora, ma smettiamola con iniziative estemporanee ed individuali che rischiano di mettere in discussione il risultato».
Ma è davvero possibile un’intesa con il M5S?
«Il patto del Nazareno nacque quando chiedemmo alle altre forze di collaborare per le riforme. Forza Italia disse sì, il M5S no. Ora Grillo ha cambiato idea e vedremo se è possibile una convergenza. È chiaro però che cerchiamo di allargare l’alleanza per le riforme, non di costituirne una alternativa».
Ma i gruppi parlamentari reggeranno? Sono espressione di equilibri interni molto diversi dall’attuale segreteria.
«Come ha detto il capogruppo Speranza - che come me ha un’estrazione diversa - al dunque il Pd dimostrerà la sua tenuta in Aula. Come sempre».
C’è il rischio che Renzi, di fronte a nuove tensioni, ribalti il tavolo?
«Ma no, è naturale che esistono posizioni che tagliano trasversalmente il campo politico. La necessità delle riforme la riconoscono tutti, tocca alla politica la sintesi. Sono comunque ottimista, siamo vicini a un’intesa».

il Fatto 5.7.14
Inciucio
Orlando lo ammette: riforma della giustizia anche con B.
di Wa. Ma.


Al tavolo della riforma della giustizia si devono sedere tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Naturalmente, a partire da una proposta della maggioranza”. Andrea Orlando, il ministro della Giustizia in maniera apparentemente casuale a Firenze , dove partecipa a un’iniziativa sulla sinistra, la butta lì: a scrivere le regole della giustizia insieme a Renzi ci sarà anche Berlusconi. Stesso schema delle riforme costituzionali, insomma. Una dichiarazione ufficiale che conferma quel che i fatti hanno già evidenziato: la grande riforma della giustizia è stata rimandata a dopo l’estate. Perché Berlusconi e Renzi sono legati da un patto/ricatto di ferro: il premier ha bisogno dei voti di Forza Italia per le riforme costituzionali, l’ex Cavaliere ha chiesto in cambio di poter partecipare alla scrittura delle nuove regole in materia giudiziaria.
LA DICHIARAZIONE del Guardasigilli (lo stesso che aveva già pronti alcuni testi di legge, che poi è stato invitato ad accantonare) non a caso arriva dopo una nota di Berlusconi: “Ho invitato ed invito i nostri deputati e i nostri senatori a sostenere convintamente questo percorso, a cominciare dalla riforma che riguarda il Senato, che sarà seguita dalla discussione e approvazione della nuova legge elettorale e dalla riforma del Titolo V”. Rassicurazioni reciproche scorrono sull’asse del Nazareno. E arrivano alla fine di una giornata in cui - evidentemente - il patto ha bisogno di vedersi confermato. Perché se sul Renzi e Berlusconi (al netto delle rispettive fronde) sono d’accordo per far passare rapidamente in Aula il Senato, l’Italicum è ancora un buco nero. Ieri si sono affrettati a dare uno stop alla legge, soprattutto sul tema delle preferenze, prima Bersani e i suoi, e poi Gaetano Quagliariello, che ha messo in forse anche il voto di Ncd sulle riforme. B. nella nota in cui di fatto annulla anche la riunione del gruppo di FI prevista per domani neanche nomina legge elettorale e preferenze (alle quali il suo partito è contrario). Un altro modo per rassicurare il premier.

La Stampa 5.7.14
Renzi divide i tedeschi:
La Bild già lo ama, Zeit e SZ diffidano
di Tonia Mastrobuoni

qui
 

La Stampa 5.7.14
Werner Hoyer
“Il Patto di stabilità va bene così. Non serve altra flessibilità”
Il presidente della Bei: la crescita è debole, bisogna rilanciare gli investimenti
intervista di Marco Zatterin


«Io sono solo un osservatore interessato», assicura Werner Hoyer, tedesco, 62 anni, liberale, già segretario di stato agli Esteri nel secondo governo Merkel, dal 2012 presidente della Banca Europea degli investimenti, la fabbrica della finanza per lo sviluppo dell’economia europea. Lo dice quando lo si porta a parlare della flessibilità dei Trattatati Ue che reputa essere «sufficiente». Si spiega: «Non c’è bisogno di diluire il Patto di stabilità e crescita, non credo che tutta la flessibilità prevista sia stata interamente sfruttata». Hoyer conosce bene l’Italia. Nel 2013 i nuovi prestiti Bei verso il nostro paese hanno toccato la quota record di 10,4 miliardi, con un aumento del 50%. «Quando sono stato a Roma in giugno - racconta -, ho trovato uno stato d’animo completamente cambiato. Per la prima volta ho sentito un profondo senso di ottimismo. È tornata la convinzione che ce la si possa fare».
L’Italia chiede appunto meno oneri per fare le riforme.
«C’è disponibilità a usare pienamente la flessibilità esistente. In termini politici e nell’ambito dei Trattati. Ma la preoccupazione è che, per la seconda volta, dopo i peccati franco-tedeschi dello scorso decennio, si rimetta in dubbio il senso del patto di Stabilità e crescita».
A proposito. Come va l’economia?
«La crisi finirà solo quando avremo degli effetti sul lavoro, quando i tassi di sviluppo saranno più elevati rispetto agli attuali. Far festa per un punto e mezzo di crescita non è un gran che. È un passo avanti, ma non basta, non c’è ragione per compiacersi o fermare il processo avviato per cambiare l’Ue».
S’è fatto abbastanza?
«Le decisioni chiave per superare la crisi sono prese. Bisogna attuarle. Resta da fare molto in termini di riforme strutturali e politiche intelligenti per la crescita. La più grande sfida per l’Ue è rilanciare gli investimenti, fermi da sette anni: la situazione è grave e non vedo arrivare un cambiamento».
La disoccupazione erode lo sviluppo, no?
«È un disastro sociale, ma ha anche una dimensione puramente economica. Se per anni non diamo ai ragazzi la possibilità di formarsi e imparare, nel momento in cui la competitività internazionale e la ripartenza degli investimenti richiederanno forza lavoro con capacità specifiche e di alto livello, l’Europa pagherà il fatto che i propri ragazzi non saranno preparati. Sono temi che vanno affrontati in tutti i paesi, compreso il mio».
Avete lanciato la Italian Risk Sharing Initiative. Come funziona?
«L’idea base è semplice. Si usa una dotazione finanziaria nazionale, senza spenderla, come base per estendere le attività della nostra banca di cui gli italiani sono azionisti. Se qualcosa va male, si possono garantire le conseguenze. In numeri, si mettono 100 milioni di garanzia che consente 500 di prestiti per l’innovazione di pmi e mid caps, alle condizioni favorevoli che la provvista Bei fornisce. È una formula che, sono sicuro, verrà presto estesa ad altri paesi».
Soddisfatti del vostro aumento del capitale?
«Quando sono arrivato il primo gennaio del 2012 la Bei era costretta a ridurre il proprio giro d’affari, dopo l’aumento di attività degli anni precedenti per aiutare l’economia, colpita dalla crisi derivante dal fallimento della Lehman Brothers. Con coraggio, gli stati dell’Ue hanno preso una decisione straordinaria. Ci hanno permesso di tornare a svolgere un’azione anticiclica. Abbiamo aumentato le attività di quasi il 40%».
Una richiesta specifica per la presidenza italiana?
«Il nostro vero problema è l’incapacità di sviluppare i singoli progetti. Vogliamo rafforzare il terzo pilastro della nostra attività, la consulenza. Serve a sviluppare adeguatamente i dossier in questi tempi di liquidità a basso costo. Richiede più personale, più esperienza sviluppata internamente».
I Project bond diventeranno permanenti?
«Stiamo entrando nella fase a regime. Saremmo in grado di fare di più se le condizioni che erano valide all’inizio della fase pilota fossero ancora valide. Purtroppo, chi ha pensato i bond non poteva prevedere che le condizioni di eleggibilità sarebbero cambiate con il nuovo quadro finanziario pluriennale, approvato alla fine della fase pilota. Ad esempio, un progetto di immagazzinamento del gas oggi non sarebbe più finanziabile con questo strumento senza un interesse transnazionale. Questo rende le cose più difficili».

il Fatto 5.7.14
Perché il debitore Italia alza la voce?
di M. Pa.


Sono alcuni giorni, almeno dall’intervento di Matteo Renzi a Strasburgo, che si parla dello scontro tra sostenitori del rigore e della flessibilità in Europa. Ma di che si parla esattamente? Un breve promemoria
Cosa ha detto Renzi?
Sostanzialmente niente: nel suo discorso s’è tenuto sul vago, indicando quella che generosamente i suoi ghostwriter chiamano “visione”. È stato poi costretto – ma sempre senza entrare nel merito – a rispondere agli attacchi del capogruppo del Ppe, Manfred Weber, falco tedesco della Csu, partito cattolico federato con la Cdu di Angela Merkel, che aveva escluso qualunque forma di “flessibilità” per l'Italia: “Chi brandisce l’arma del pregiudizio sull’Italia sbaglia. Non accettiamo lezioni di morale”.
Che succede?
Il Partito socialista europeo – a cui appartiene il Pd – e molti altri partiti (compresi alcuni che aderiscono ai Popolari) hanno fatto campagna elettorale contro l’austerità, ovvero i tagli di spesa e l’aumento di tasse che hanno distrutto le economie greca, portoghese, spagnola e irlandese e mandato in recessione/stagnazione il resto dell’Eurozona. La Germania e i paesi che sono tradizionalmente suoi partner economici (la vecchia “area del marco”, che comprende Belgio, Olanda, Lussemburgo e Danimarca) non hanno però nessuna intenzione di mollare sul rispetto dei vincoli di bilancio: sono meno degli altri, ma sono più ricchi e contano di più.
Qual è il problema?
Sono i debiti dei cosiddetti Piigs (ma pure la Francia è messa male): non quelli pubblici, però, ma quelli privati. Come ha detto più volte il vicepresidente della Bce, Victor Constancio, “questa è una crisi di debito privato”. Che lo squilibrio sia nel settore privato è evidente dal fatto che tra i paesi colpiti dall’aumento degli spread ci siano stati anche Irlanda e Spagna, che avevano un bassissimo debito pubblico. Cosa era successo? Erano entrati in crisi quei paesi in cui, grazie alla moneta unica, erano esplose le importazioni, cioè famiglie e imprese si erano indebitate per comprare prodotti esteri, soprattutto tedeschi.
A cosa serve l’austerità?
Costringendo gli Stati a comprimere velocemente i loro bilanci pubblici – cioè a creare recessione economica e disoccupazione – Bruxelles, la Bce e Berlino, il grande creditore d’Europa, hanno compresso i consumi interni dei Piigs: bilance commerciali tornate in positivo (soprattutto grazie al calo delle importazioni) e l'intervento pubblico nel salvataggio delle banche hanno consentito ai paesi core (Germania e soci) di rientrare di un bel pezzo dei loro debiti.
Quali sono i risultati?
Per Italia, Spagna, Grecia eccetera è stato un disastro. I conti pubblici sono in larga parte peggiorati, quelli del settore privato sono un pianto. Motivo: maggiore spesa in sostegno sociale e al settore bancario. Per restare a noi: nel 2008 il debito pubblico italiano in percentuale al Pil era pari al 103% e spiccioli, oggi supera allegramente il 130%; il tasso di disoccupazione era al 6,7% nel 2008 e attualmente è poco sotto il 13%.
Cosa pretende ora la Germania?
Che si continui come prima e, per noi, che rispettiamo gli impegni presi dai precedenti governi. Fin dal G20 di Cannes, in cui Berlusconi fu pubblicamente umiliato, i nostri esecutivi sono stati sotto (informale) tutela internazionale: il governo di Mario Monti – che firmò il Fiscal Compact e introdusse il pareggio di bilancio in Costituzione
– e quello di Enrico Letta trovavano la loro legittimità nel rispetto dei diktat di Bruxelles. L’Italia, ad esempio, ha accettato di azzerare il deficit di corsa, mentre a Francia e Spagna è stato concesso di sforare (e di parecchio) persino il vincolo del 3%. Attualmente questo è quanto dovremmo fare secondo la Commissione: correggere il rapporto deficit/Pil dello 0,2% nel 2014 e dello 0,3% l’anno prossimo oltre a cominciare a far scendere il debito pubblico. In soldi – fra correzione e impegni già messi a bilancio da Letta (un altro 0,7% di disavanzo) – fa 20 miliardi di manovra che Renzi dovrebbe fare in autunno: oltre a uccidere l’economia italiana, ucciderebbe anche se stesso.
Cosa può ottenere Renzi?
A parte generici impegni sulla “flessibilita” come all’ultimo Consiglio europeo, dipende da quanto avanti vuole spingersi nel braccio di ferro e quanto Angela Merkel saprà tenere a bada i suoi falchi interni, Bundesbank su tutti. C’è molta disinformazione: l’Italia, ad esempio, dà a Bruxelles più di quanto riceva e non ha mai chiesto aiuti. Eppure lo stereotipo dell’italiano fannullone è assai radicato in Germania (e pure in Italia). Alla fine si potrebbe ottenere molto, poco o nulla. Molto: rimanere solo sotto il 3% col deficit, ma dimenticarsi del pareggio di bilancio e della riduzione del debito a tappe forzate (improbabile). Poco: lo scomputo degli investimenti pubblici, necessari a far ripartire almeno un pezzo di domanda interna (probabile). E nulla, infine, vuol dire nulla. Improbabile anche questo, però, perché gli interessi dei Piigs coincidono anche con quelli della Francia e l'ondata euroscettica ha ammorbidito parecchio la burocratja di Bruxelles.

La Stampa 5.7.14
Roma-Berlino, la trappola antropologica
di Gian Enrico Rusconi


Prepariamoci ad una possibile turbolenza tra Germania e Italia. Ci sono tutte le premesse. Ma la peggiore sarebbe quella di attingere al collaudato armamentario dei reciproci giudizi e pregiudizi. Magari con la retorica della «memoria storica» – quella lunga, più che centenaria (per rimanere soltanto alla storia dei nostri Stati nazionali) o a quella più recente della costruzione europea.
La cosa peggiore è ricorrere all’antropologia da strapazzo, camuffata da «psicologia dei popoli», che parla genericamente «degli italiani» e «dei tedeschi». E’ tempo di cambiare stile e modo di argomentare. Scambio di ragioni, senza malcelati sospetti, senza risentite accuse di reciproci inadempimenti.
Domenica scorsa, su questo giornale, abbiamo criticato un noto giornalista tedesco per l’infelice titolo di un suo commento «Il tradimento dell’Italia» (Faz). Era basato sull’assunto che «l’Italia riceve aiuti immediati contro vaghe promesse, e la Germania ha motivo di sentirsi raggirata». E’ forse questo ciò che teme il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, con il suo commento ironico al discorso di Matteo Renzi?
Ma tre giorni fa, su un altro grande quotidiano tedesco (SZ), è uscito un articolo significativamente di segno opposto: «Renaissance dell’Italia». Ecco l’altra faccia del tedesco – in benevola attesa per le straordinarie risorse latenti dell’Italia.
Adesso però tutti aspettiamo i fatti. Fatalmente tutto sembra legato al fenomeno Renzi. Non tanto e non solo alla sua persona ma al mutamento politico che sta promuovendo.
Per contrasto – quasi per provocazione – voglio ricordare qui l’esperienza di Mario Monti, oggi rimossa e disapprovata. Contiene quasi tutti gli ingredienti di altre esperienze storiche tra governo italiano e governo tedesco: iniziale simpatetica convergenza di intenti con la Germania, adesione alle sue posizioni virtualmente egemoniche, poi graduale affermazione di prospettive e propositi diversi se non alternativi, che portano i tedeschi a sospettare una fraudolenta rottura italiana degli accordi presi.
Monti, il premier inizialmente salutato con entusiasmo e gratificato in Germania dall’epiteto di «tedesco» (in sottile antagonismo con «l’italiano» Mario Draghi) portava in sé l’anomalia istituzionale del governo «tecnico», sotto la forma del «governo del Presidente». Ma essa era stata accolta con assoluta benevolenza in Germania perché il programma enunciato e in parte realizzato era in sintonia con la linea tedesca. Quando Monti però ha tentato di modificare la rotta, chiedendo alla Germania «maggiore elasticità» in tema di patto fiscale, di stabilità finanziaria e riforma bancaria, ha subito incontrato l’ostilità tedesca.
Trascuro qui la catastrofica scelta politica interna di Monti – di cui per altro i tedeschi non avevano percezione. Mi limito a constatare che contro di lui è scattata la sindrome tedesca della slealtà, l’accusa della incapacità congenita degli italiani di mantenere i patti. Una presunta lettura antropologica ha preso il posto dell’analisi politica. Non c’è stata nessuna seria analisi se la politica di Monti, al di là del suo stile tecnocratico e della sua «strana maggioranza», fosse quella più adatta per un’Italia economicamente stremata. La crescente alienazione della popolazione dalla politica (che alle elezioni si tradurrà in cifre elevatissime di astensione), il fenomeno in crescita esponenziale del grillismo, la persistenza del berlusconismo e quindi il flop elettorale di Monti, vengono letti in Germania come conferma della cronica instabilità italiana. Quindi come antropologica inaffidabilità degli italiani. Non come segni di colossali problemi oggettivi da affrontare con un nuovo approccio razionale ed economico.
Poi inatteso arriva il fenomeno Renzi – l’altra faccia della «sorprendente Italia». Ma non è un miracolo all’italiana, bensì una scelta arrischiata a suo modo razionale.
Ricomincia il gioco. Angela Merkel sfoggia la sua benevola simpatia per il giovane premier italiano che dichiara la Germania non un nemico da battere ma un modello da imitare. Ma la cautela politica è d’obbligo e la cancelliera è maestra in questo. Nessuno sa ancora come andrà a finire.
Per noi rimane un punto importante: smettiamola con gli stereotipi su italiani e tedeschi. E’ ora che le classi politiche invece di baloccarsi con i luoghi comuni reciproci, imparino a conoscersi e a parlarsi più seriamente.

La Stampa 5.7.14
Domare i ribelli, l’ultima fatica di Silvio
La rivolta dei «peones» capitanata da Brunetta e da Minzolini è più preoccupante di quanto si creda: non era mai accaduto che la linea esposta dal leader nel suo intervento venisse apertamente contestata dall’intero gruppo parlamentare al Senato
Cosa farà adesso Berlusconi?
di Ugo Magri

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La Stampa 5.7.14
Psicodramma in Forza Italia. E Verdini finisce accerchiato
Rivolta del partito contro l’accordo
Brunetta: sospendere tutto, finché non decidiamo
di Amedeo La Mattina


Una riunione così non si era mai vista. Berlusconi che dice di non avere mai chiuso un accordo con Renzi su un Senato non eletto dal popolo («mi sono concentrato di più sulla legge elettorale»). Verdini che a quel punto perde le staffe, se ne va sbattendo la porta della sala della Regina, poi ritorna e racconta che invece quell’accordo c’è, eccome. Il vulcano esplode quando Brunetta chiede di prendere tempo, cambiare i patti su un punto: «Il Senato deve essere elettivo, non di secondo grado con sindaci e consiglieri regionali. Chiediamo alla Finocchiaro (la presidente della commissione Affari costituzionale del Senato ndr) di sospendere le votazioni in attesa di una nostra decisione. Renzi ha cambiato sei volte idea sulla legge elettorale e una ventina sulla riforma costituzionale: avremo diritto anche noi di avere un po’ più di tempo...». E questo dovrebbe essere proposto dopo che in mattinata, a Palazzo Chigi, il Cavaliere aveva detto a Renzi «Matteo stai tranquillo, voteremo le riforme». Romani, l’altro capogruppo che dovrebbe portare la «buona novella» alla Finocchiaro, risponde «non se ne parla, questo è un suicidio collettivo». Minzolini che replica «il suicidio collettivo è quello che ci proponi tu e Denis (Verdini ndr): alla fine Renzi incassa quello che vuole e ci porta lo stesso a votare e saremo asfaltati, ma lo capite o no?». «Ma siamo impazziti - sbotta furente Verdini - siamo al secondo tempo della partita e andiamo a dire all’altra squadra che si ricomincia tutto daccapo?». 
Verdini ha il volto rosso fuoco, parla in maniera talmente agitata che la Santanché si preoccupa: «Oddio, se continua così gli viene un infarto». Ma Capezzone non ha pietà: «Non possiamo accettare che Renzi ci dica “facciamo in fretta, veloci”, e noi pieghiamo la testa come cagnolini». In tutto questo Berlusconi è cupo in volto. A chi gli fa notare che l’uscita dai mondiali dell’Italia è una sconfitta per Renzi, lui risponde che il vero sconfitto è lui visto che le quotazioni di Balotelli sono precipitate. E poi non c’è solo la riforma costituzionale da valutare: c’è la legge elettorale che costringe i piccoli partiti ad allearsi con F.I. E c’è anche la possibilità di una buona riforma della giustizia: Renzi ha promesso che si farà insieme.
Uno scontro così aperto e plateale di fronte a un attonito Cavaliere non si era mai verificato in un’assemblea di parlamentari azzurri. Uno scontro drammatico sulla linea politica da tenere rispetto alle riforme e al governo. Una cosa del genere si era vista solo nel Pdl quando Berlusconi decise di abbandonare le larghe intese con Letta e ne venne fuori la scissione di Alfano. Non siamo alla rottura dolorosa del 2013, anche perché ai «ribelli» non passa per l’anticamera del cervello di abbandonare il partito. Però la battaglia cruenta c’è stata, sono volati gli stracci, il Cavaliere non è riuscito a convincere un bel pezzo dei suoi della bontà delle sue intese con l’amico Renzi (gli interventi contro sono stati una ventina).
Per la prima volta nei capannelli dei tanti «resistenti» (non certo davanti al vecchio capo che non ruggisce più) si sono sentite parole irriverenti: «Questa è una resa incondizionata a Renzi. Berlusconi ci vuole immolare sull’altare degli interessi della sua azienda». Sono stati passate ai raggi X le dichiarazioni di Piersilvio Berlusconi: un vero endorsement politico. «Cosa c’è dietro tutto questo?». Le risposte che gli oppositori si sono dati è sulla bocca di tutti: il Cavaliere teme per le sue aziende, teme per se stesso e per suo figlio (i processi Ruby e Mediatrade). 
C’era molto non detto all’assemblea di ieri a Montecitorio. Paure, timori, necessità di ridurre il danno. «Noi non dobbiamo temere niente, una grande forza politica non teme nulla», spiega Brunetta che sottolinea una mezza vittoria. Ieri infatti non è stato deciso nulla: la riunione è stata aggiornata a martedì prossimo. «Decidere insieme nell’unità - insiste Brunetta - ma una cosa è sicura: non ci possono essere fughe in avanti». È Berlusconi che decide di rinviare tutto perchè rimane «colpito» dalla raffica di interventi contro (anche quelli dei senatori Bonfrisco, D’Anna, Caliendo) che si susseguono dopo il suo intervento nel quale spiega le intese chiuse in mattinata a Palazzo Chigi con il premier. E invece no, il giocattolo gli si è rotto in mano e l’asse Verdini-Romani, al quale è stato chiamato a dare mano forte Gasparri, ha tremato.
L’ultima parola spetta al Cavaliere, ma il timore di Verdini è che alla fine Berlusconi dirà «andiamo avanti con le riforme insieme a Renzi, ma non sono io a volerlo: è Denis che insiste tanto...». La stessa cosa fece quando ruppe le larghe intese e buttò la colpa sui falchi, i soliti Verdini, Santanché e Fitto. Già Fitto: in tutta questa baraonda risulta non pervenuto. 

La Stampa 5.7.14
Quattro punti chiave per un patto di sistema
Senato, Italicum, giustizia. E una rassicurazione su Mediaset
di Ugo Magri e Fabio Martini


Due telefonate segrete la dicono lunga sui rapporti che corrono tra Berlusconi e Renzi. Ieri mattina, prima di recarsi dal nuovo giovane padrone d’Italia, l’ex Cavaliere ha chiamato il figlio Piersilvio. Per fargli sapere quanto era piaciuta a papà la pubblica uscita del giorno prima a sostegno del premier: «Non avresti potuto scegliere un momento migliore. Con i tuoi elogi tu mi hai fatto un assist meraviglioso. Ora io devo soltanto metterlo in rete...». Già, perché l’incontro con Renzi non è servito solo a mettere in sicurezza la riforma del Senato e del Titolo V. Né semplicemente a ribadire che l’«Italicum» non si tocca, e anzi proprio dal testo approvato alla Camera si dovrà ripartire. Nelle due ore di colloquio al terzo piano di Palazzo Chigi sono state gettate le basi per un’intesa a 360 gradi, che si proietta su temi cari all’ex Cavaliere come la giustizia o le televisioni, e addirittura prefigura una collaborazione stretta quando ci sarà da eleggere il nuovo Presidente della Repubblica (il giorno, è chiaro, che Napolitano riterrà di avere concluso la sua missione).
L’altra telefonata rivelatrice è delle nove di ieri sera. Cioè dopo che Forza Italia era precipitata nel caos, e non si capiva più se Silvio avesse ancora in pugno la situazione. «Non devi minimamente preoccuparti», ha dato la sua parola Verdini a Renzi, «perché Berlusconi mi prega di farti sapere che lui resta fedele alle intese. Semplicemente, oggi ha lasciato che i suoi parlamentari si sfogassero un po’. Ma è sicuro che, tempo qualche giorno, torneranno tutti all’ovile». Non saranno dunque Brunetta e Minzolini a far saltare un patto che guarda lontano, e mira ad affrontare di comune accordo argomenti finora considerati «tabù». Basti dire che nella «riforma complessiva della giustizia» promessa da Renzi a Berlusconi ci sarà anche la nuova normativa sulla responsabilità civile dei giudici, un articolato non punitivo, che non prevederà la rivalsa sul singolo magistrato, ma che sul «modello europeo», amplierà le maglie - attualmente strettissime - per perseguire una «colpa grave». Tra un sorso e l’altro di caffè si è chiacchierato - e trovato anche un’intesa di massima - sulle nomine alla Consulta e al Csm di indicazione parlamentare: per i giudici della Consulta l’intesa prevede un giudice (donna) al Pd e uno a Forza Italia; degli otto membri “laici” in votazione in questi giorni, 4 andranno al Pd e 4 agli altri partiti. 
Rientrato da Strasburgo, ieri mattina il presidente del Consiglio ha affrontato l’incontro con Berlusconi con la consueta nonchalance ma con un imperativo categorico molto pragmatico: blindare una volta per tutte le due riforme che più gli garantiscono il futuro. Anzitutto la riforma del Senato che per Renzi è più strategica di quanto appaia perché «diventerà la vera leva anti-casta, l’ arma con la quale il premier potrà affrontare le varie corporazioni con un argomento decisivo: la politica ha fatto il suo dovere, ora tocca a voi», come spiega il vicepresidente dei senatori Giorgio Tonini, l’unico renziano che a febbraio disse pubblicamente a Renzi - ricevendone soddisfazione tre mesi dopo- che quel Senato di sindaci non aveva molto senso. Nell’incontro del salottino, presenti oltre a Verdini pure Letta (lo zio Gianni) e Guerini, Berlusconi ha preannunciato a Renzi che piegare la resistenza dei suoi senatori sulle barricate non sarebbe stato facile, ma alla fine ha annuito: la riforma del Senato si può fare. Naturalmente Renzi voleva blindare - e Berlusconi anche su questo ha detto sì - la legge elettorale nella versione che più conviene al Pd: doppio turno e ballottaggio. Come dice Renzi: «A Berlusconi non è mai piaciuto il ballottaggio ma lo ha accettato, come a me non sono mai piaciuti tanti aspetti della legge elettorale che ho accettato».
Se si dà retta al giro berlusconiano, il padrone di Mediaset avrebbe profittato dell’incontro per chiedere precise garanzie circa il destino del le sue aziende. Dettate dal timore che il governo possa recepire qualche direttiva europea relativa al tetto della pubblicità: tema caro a un renziano convinto qual è Gentiloni. Che già in passato si era battuto da ministro per limitare l’affollamento pubblicitario sulle reti del Biscione. Non si sa in quali termini Berlusconi abbia sollevato il problema, tantomeno in che modo Renzi abbia risposto. Ma che se ne sia parlato durante il faccia a faccia, ai vertici di Forza Italia ne sono tutti arci-convinti. Al punto che molti senatori in rivolta, neppure troppo sottovoce, hanno protestato: «Per difendere le sue ragioni, Silvio sacrifica le nostre. E non è la prima volta...». 

La Stampa 5.7.14
La partita doppia di Silvio e Matteo
di Marcello Sorgi


Il richiamo fatto da Berlusconi ieri sera ai parlamentari di Forza Italia, con l’invito a votare senza indugi la riforma del Senato e quella elettorale, non cambia molto il quadro, fattosi improvvisamente più difficile, del dibattito in corso a Palazzo Madama. L’accordo tra Renzi e Berlusconi c’è ed è confermato; manca quello tra i due leader e i loro gruppi. Anzi è in corso un simmetrico braccio di ferro tra le due pattuglie di dissidenti di centrodestra e centrosinistra e i vertici dei rispettivi partiti.
Ma mentre appunto nel Pd, che ieri ha visto schierato in prima linea contro la legge elettorale e l’abolizione delle preferenze l’ex-segretario Bersani, il vicesegretario Guerini, a nome di Renzi, ha ribadito che sui testi all’esame Parlamento il partito ha discusso e deciso, la partita interna al centrodestra è più complicata. Il problema che si ripropone è quello della possibilità o meno, per un partito che non ha mai avuto strumenti funzionanti di democrazia interna e ha sempre rispettato la volontà del Capo, di metterla invece in discussione per la prima volta seriamente. Anche se ha smentito di aver raggiunto un accordo più largo, comprendente anche la giustizia e gli assetti televisivi con il premier, per Berlusconi mantenere la parola data a Renzi è fondamentale e indispensabile dimostrare di essere ancora padrone del suo campo. I dissidenti, capeggiati da Brunetta e Minzolini, non ne fanno un problema di fedeltà o sottomissione, nel senso che riconoscono pienamente la leadership di Berlusconi, ma vorrebbero convincerlo che la rottura, accompagnata da un ritorno alla linea di contrapposizione frontale al centrosinistra che porterebbe a nuove elezioni anticipate, sia molto più conveniente per il Cavaliere e per il centrodestra.
Berlusconi invece è preoccupato per le sue vicende giudiziarie (il processo d’appello per il bunga-bunga che va verso la sentenza, quelli per la compravendita dei parlamentari e per la corruzione dei testimoni in corso o in arrivo), spinto dai suoi familiari e dai vertici delle sue aziende verso un appeacement, e non più convinto che il “lavacro elettorale”, come lo chiamava in altri tempi, sia la strada da battere per sé e il suo partito. Di qui la nota diffusa ieri, dopo che la rivolta dei parlamentari giovedì sera aveva smentito gli impegni presi al mattino con Renzi.
Su Renzi, e per far saltare il patto del Nazareno, preme anche il Movimento 5 stelle. Un nuovo incontro con il presidente del consiglio è previsto per lunedì. Ma i grillini fiutano l’aria e pensano di poter giocare di sponda nella complicata partita delle votazioni in aula al Senato.

il Fatto 5.7.14
L’amore degli Usa per Matteo, nel nome delle multinazionali
Dallo stop alla web tax al regalo-accise a Philip Morris, premiate le lobby americane
di Camilla Conti


Fra un selfie con Beppe Grillo e uno con Matteo Renzi il magic circle della lobby americana in Italia oggi sceglierebbe di sicuro il secondo. Lo conferma l’accoglienza riservata l’altra sera al leader del Movimento 5 Stelle durante il ricevimento organizzato a villa Taverna in occasione della festa dell’Indipendenza del 4 luglio. Grillo ha sfoderato uno smoking nero e occhiali auto-griffati per far colpo sull’ambasciatore americano John R. Phillips che invece ha cercato di evitare il comico genovese per tutta la serata. Questione di business. Perché, se da una parte Grillo guarda a Washington come una possibile sponda per la battaglia europea contro le politiche di austerità, a Bruxelles il suo Movimento combatte contro il cosiddetto Ttip, ovvero il contratto di libero scambio fra Stati Uniti e Europa per le aperture del mercato alle multinazionali Usa. Proprio quelle cui sta invece facendo la corte il presidente Matteo Renzi. Sempre più apprezzato dall’establishment americano che è rimasto affascinato dal new deal renziano. Soprattutto da quando ha appoggiato la battaglia contro la Web Tax (che impone l'apertura di una partita Iva italiana e ridefinisce il concetto di stabile organizzazione per le aziende digitali straniere) voluta invece da Letta. Per Renzi le porte dell’ambasciata Usa sono sempre aperte.
DEL RESTO con Phillips, che insieme alla moglie Linda ha comprato un intero borgo alle porte di Siena, si conoscono da tempo. Il 15 novembre del 2013 l’allora sindaco di Firenze lo aveva accolto a Palazzo Vecchio donandogli una cravatta di Ferragamo e un foulard di Gucci per la consorte e Phillips aveva ricambiato con un libro dedicato a Villa Taverna dove poi Renzi, da segretario Pd e da premier, è stato ricevuto numerose volte. Più che l’amicizia e la stima, contano però gli affari. Secondo quanto riferiscono fonti romane, qualche settimana fa il presidente del Consiglio avrebbe ricevuto il gran capo della British American Tobacco, Nicandro Durante, proprio alla vigilia dell’aumento delle accise sulle sigarette che dovrebbe essere varato a breve dal governo.
LE LOBBY sono in fermento: il decreto legislativo allo studio del Tesoro rischia infatti di scatenare una nuova guerra dei prezzi fra Philip Morris, che vende le sigarette di fascia alta, ad esempio le Marlboro, e la Bat che ha le meno costose Lucky Strike e Pall Mall. La rimodulazione del prelievo fiscale su cui sta lavorando il governo pare sia tesa ad aumentare i prezzi bassi e comprimere ulteriormente il mercato aumentando la profittabilità delle marche più care. Secondo i maligni la mossa serve per non disturbare Philip Morris, che alle porte di Bologna avvierà entro l’inizio del 2016 la prima fabbrica di sigarette di nuova generazione - le stesse che verrebbero premiate dal decreto allo studio del governo - con un investimento di 500 milioni di euro e che avrebbe intenzione di investire anche in Toscana. Per non rimanere schiacciata, Bat avrebbe promesso a Renzi di voler fare lo stesso, scommettendo su nuove fabbriche in Italia. Ma per il momento la linea di Palazzo Chigi non sembra essere cambiata.
LE MOSSE di Renzi sono seguite con attenzione anche dai soci dell’American Chamber of Commerce, ovvero l’organizzazione privata senza scopo di lucro affiliata alla Chamber of Commerce di Washington D.C., la Confindustria statunitense, alla quale aderiscono oltre tre milioni di imprese. L’AmCham è un club esclusivo dove si tessono relazioni e si stringono affari. Basta scorrere i componenti del “board of directors” presieduto da Vittorio Terzi, gran capo per l’Italia della McKinsey nonché candidato a occupare la poltrona di presidente del fondo infrastrutturale F2i, controllato dalla Cassa Depositi e Prestiti. Guarda caso tra i suoi quattro vice c’è il capo di Philip Morris in Italia, Eugenio Sidoli , oltre a David Bevilacqua di Cisco Systems, Maria Pierdicchi di Standard& Poor's e Stefano Venturi, di Hewlett-Packard. Certo, dall’elenco dei soci dell’AmCham spunta anche Enrico Sassoon, che dell’organizzazione è stato amministratore delegato oltreché ex socio di Gianroberto Casaleggio prima che il “guru” grillino si concentrasse sull’avventura del Movimento 5 Stelle. Ma evidentemente servono ben altri contatti per far parte del cerchio magico Usa. Dove ormai vige la regola: “No Renzi, no party”.

Corriere 5.7.14
Telemaco non era un rottamatore
In politica un patto tra generazioni
di Paolo Franchi


Lasciamo pure da parte il ricambio generazionale di cui, a proposito di Matteo Renzi e del renzismo, parlano tanto le cronache politiche. L’espressione è pudica, ma soprattutto un po’ vaga: dice e non dice. Di sicuro è usurata e, visto che di ricambi generazionali veri o presunti (nella Dc, nel Psi e, alla fine, pure nel Pci) la storia della Prima Repubblica è affollata, suona anche fastidiosamente politichese. Non deve essere un caso se ne parlano molto gli esegeti più attempati del renzismo, assai meno Matteo Renzi. Che il ricambio in questione lo pratica rudemente, piuttosto di teorizzarlo. E semmai prova ad offrirne, se non una narrazione, delle immagini (lui direbbe: dei selfie ) che possano evocarne il senso: la rottamazione oltre la rottamazione, il «chi siamo e cosa vogliamo» suo e della generazione che, con lui, è arrivata al potere. Giovani donne e giovani uomini, come il segretario-presidente ha più volte ricordato, che nel migliore dei casi andavano ancora a scuola quando cadde il Muro di Berlino ed erano poco più che ragazzi ai tempi di Maastricht e, in Italia, di Tangentopoli. Cittadini globali di un mondo orfano non solo delle ideologie e della Guerra fredda, ma pure della grande politica e delle sue istituzioni nazionali e internazionali. Convinti di aver ereditato dai loro anziani quasi solo le macerie sotto le quali sarebbero finiti intrappolati, se non fossero riusciti a toglierli di mezzo, con le buone o con le cattive, certo. Ma pure obbligati a trovare un filo che in qualche modo leghi il passato al presente, e il presente al futuro. E a dargli un nome.
Renzi a Strasburgo ha optato per Telemaco nella versione di Massimo Recalcati. Proponendolo (sin dallo sconcertante interrogativo: come mai si parla tanto di Ulisse e non di lui?) come può proporlo un rappresentante, anzi, il rappresentante per antonomasia della generazione Erasmus. Insegnanti di lungo corso assicurano che l’approccio ricorda da vicino quello delle tesine dei loro studenti per l’esame di maturità. Forse hanno ragione. E magari domani abbandonerà Telemaco per nuovi compagni d’avventura. Ma la sostanza della questione posta a modo suo da Renzi non cambia. Nemmeno in tempi in cui ogni riferimento alla storia sembra essere bandito, e in un mondo che si immagina senza passato e senza futuro,una generazione (relativamente) nuova può pensare di prendere il potere con l’ambizione di restarci a lungo, e di lasciare un segno, senza mettersi in caccia delle proprie radici.
I padri non si uccidono, come si illuse di fare il Sessantotto. Faticosamente, dolorosamente, pericolosamente si cercano. Perché solo mettendosi a rischio per cercarli c’è la speranza di trovare, almeno in parte, se stessi. Probabilmente Renzi non è un appassionato di Antonio Gramsci, ma forse avrà letto, oltre alle pagine di Recalcati su Telemaco, anche l’invettiva gramsciana contro i giovani arroganti e presuntuosi «costruttori di soffitte», nel cui atteggiamento liquidatorio verso chi li ha preceduti si celerebbe «il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere». Certo, nella storia europea e italiana più recente, di «grandi uomini», così come di grandi costruzioni politiche, non ce ne sono. I costituenti dell’Europa e dell’Italia, la cui eredità Renzi vorrebbe rinvenire lungo un viaggio destinato a proseguire molto più indietro nel tempo, sono, in realtà, dei nonni o dei bisnonni, i padri regalati dall’ultimo ventennio si sono dimostrati pochissima cosa. Ma il nuovismo populista e giovanilista del «tutti a casa alé» e dell’anno zero non conduce lontano, sia che lo si declini per così dire dal basso, per intenderci alla Grillo, sia che lo si promuova dall’alto, dal governo e dalle istituzioni. Tra le generazioni non serve una guerra che non si concluderebbe con una conferenza della pace, ma sarebbe semplicemente rovinosa per tutti. Serve, tutto al contrario, un nuovo patto. Sul medio periodo vincerà chi avrà dimostrato di essere capace di proporlo, gettarne le basi, fissarne le linee di fondo. Non è detto, anzi, è molto difficile che questo vincitore ci sia. Se ci sarà, non potrà far parte che della generazione dei figli. Quella che, su questa scommessa, si gioca il domani.
Difficile dire se e quanto di tutto ciò Renzi abbia davvero contezza, e ancor più decrittare, nella sua politica smart , i segni, ammesso che ci siano, del patto in questione. Certo, la riscoperta di Telemaco può far sorridere e, se lo si considera un diversivo buono per vestire i panni del cocco dell’Europa sfuggendo alla tenaglia tra austerità e crescita, anche irritare: per scrivere il suo patto con il popolo americano, a Franklin Delano Roosevelt non passò per la mente di scomodare il figlio di Ulisse. Ma Renzi, che non sarà Roosevelt, e però piaccia o no è uno dei pochissimi animali politici, anzi, iper politici in circolazione, il problema lo ha per lo meno annusato. Annusare non basta, per carità. Ma di questi tempi disporre di un buon olfatto è già qualcosa.

Repubblica 5.7.14
Telemaco
La parola che diventa mito
di Maurizio Bettini


QUANDO Diomede, l’eroe dell’Iliade, si alza in assemblea per contrastare le parole di Agamennone, prima di esprimere la propria opinione, è costretto a recitare, per intero, la propria genealogia. Perché? Eppure ciò che ha da dire è saggio, tant’è vero che gli Achei seguiranno poi il suo consiglio, ed egli è sicuramente un guerriero forte e temibile. Solo che Diomede è il più giovane di tutti, come lui stesso dichiara prima di cominciare a parlare, e per questo ha paura che i presenti disprezzino il suo discorso - anzi, il suo mùthos , come lo chiama il poeta. In Omero infatti questo termine non indica ancora il racconto favoloso, la parola seducente ma infondata, così come sarà nella cultura greca successiva e come è ancora per noi, che usiamo “mito” in questo senso. Tutto al contrario, nell’epica antica si definisce mùthos il discorso pronunziato da uno speaker autorevole, come può esserlo un re scettrato che parla in assemblea o una divinità irata. Il mùthos indica insomma la parola tanto autorevole quanto efficace, capace di influire concretamente sul contesto che la riceve: ed è proprio la capacità di pronunziare mùthoi che, in Omero, viene negata ai giovani. Non ci si aspetta che l’abbia Diomede, così come non ci si aspetta che l’abbia Telemaco. Salvo che, nel suo caso, capita qualcosa di imprevisto.
Dopo l’incontro con Mente (in realtà Atena in sembianze umane), il figlio di Ulisse ha infatti assunto un piglio diverso: la dea “gli ha infuso nel petto forza ed audacia”. Ecco perché, con grande stupore di sua madre Penelope, dopo un breve scambio di battute Telemaco le dirà seccamente di lasciare a lui il mùthos, perché è lui che ha «il potere in questa casa»; così come rivolgerà ai Proci un mùthos il cui contenuto è molto esplicito: che lascino la reggia, cessino di divorare le sue sostanze, o invocherà su di loro la punizione degli dèi. Il ragazzo di casa ha ricevuto l’investitura del mùthos, da questo momento in poi la sua parola è divenuta autorevole e dovrà essere ascoltata con rispetto.
Credo sia questo il Telemaco che, meglio di altri, si presta a simboleggiare la generazione di giovani che Renzi ha rappresentato a Strasburgo. Non solo i “giusti eredi” evocati da Massimo Recalcati, ma tutti coloro che, Renzi per primo, si sono finalmente guadagnati il diritto di pronunziare mùthoi, parole autorevoli che debbono essere ascoltate con rispetto e sono anzi destinate a produrre effetti sul contesto che le riceve. Fino a questo momento, nelle rare occasioni in cui li si lasciava parlare, i giovani potevano al massimo aspirare alla posizione di Diomede - quella di chi, per farsi ascoltare, deve come minimo recitare la propria genealogia. Adesso non è più così, Atena sembra aver suscitato nel loro petto “forza ed audacia” e la loro parola è divenuta mùthos. Speriamo solo che la dea continui a ispirarli.

Corriere 5.7.14
I nuovi perbenisti nel Paese immobile
di Piero Ostellino


Un giornalismo, di estrema destra e di matrice squadrista, che si comporta come se l’ Habeas corpus — il complesso di garanzie per l’accusato approvato dal Parlamento inglese nel Seicento e che sta a fondamento della civiltà del diritto occidentale — fosse un purgante e descrive ogni imputato come un condannato, confondendo la giustizia con il linciaggio; una classe politica culturalmente opaca e politicamente imbrogliona, che non sa, o non vuole, far risalire le cause della corruzione e del malaffare all’eccesso di intermediazione pubblica nella sfera privata e, perciò, non fa le riforme; l’interesse ad attribuire gli scandali alla disonestà personale di alcuni politici e ad identificare, quindi, il rimedio nella magistratura.
Queste le cause che hanno prodotto l’italiano, laico, democratico, antifascista, politicamente impegnato d’oggi; il «nuovo resistente» che, facendosi forte dell’idea di giustizia che giornalismo e politica gli hanno propinato e lui ha introitato senza porsi domande, maschera dietro un surreale legalismo — se Craxi è morto all’estero è perché era colpevole ed era scappato per non finire in galera — l’incapacità di pensare con la propria testa, e di capire, nonché una forte intolleranza para-religiosa, il proprio moralistico fanatismo ideologico e politico.
È il Perbenista; il cittadino esemplare, che non sa, e neppure vuole sapere altra spiegazione perché scoppino tanti scandali che quella che gli viene fornita da chi ha interesse a nascondergli la verità. È il prodotto della «questione morale» inventata da Enrico Berlinguer — il comunista chiamato a far fronte a problemi più grandi di lui, ma anche tanto abile da truccare le carte a proprio vantaggio — per tenerne accuratamente fuori il Pci, finanziato dall’Urss ! È l’italiano che non ha ancora capito come vanno le cose. Insomma, un perfetto idiota. È persino inutile, a questo punto, dire che quella che sta attraversando il Paese è una crisi culturale, una sorta di «circolo vizioso» i cui fattori si sono alimentati in passato, e ancora si alimentano adesso, l’un l’altro senza fine, impedendo ogni via d’uscita... anche perché, restarne allineati, conviene a tutti. È la concezione del mondo che aveva il Pci, secondo la quale, per risolvere la corruzione dilagante, bastava cambiare gli uomini, passando da quelli, democristiani e socialisti, al governo, a quelli comunisti all’opposizione senza cambiare le regole del gioco. Come è, poi, accaduto, non per via elettorale, come sarebbe stato fisiologico, ma per via giudiziaria, grazie alla magistratura.
Che piaccia o no, Matteo Renzi è, ancorché indirettamente, debitore di questa operazione. Il ragazzone fiorentino è, d’altra parte, troppo furbo, cinico e innamorato del potere, per non aver capito che bisogna uscirne. Ciò che promette quotidianamente non ha altro obiettivo che far dimenticare che cosa sono stati l’Italia e la sinistra fino a ieri. Ci sta riuscendo anche grazie ai Perbenisti, creati alla bisogna e spuntati nel frattempo, che gli fanno da megafono... E questa sarebbe l’Italia che cambia ? Per favore...

Corriere 5.7.14
San Marino e Vaticano, la luce sul conto delle bollette italiane
Gli accordi e la possibile revisione con il taglio degli aiuti
di Stefano Agnoli


MILANO — Togliere a chi ha avuto troppo e restituire a chi ha dato di più. E’ l’obiettivo del decreto «taglia-bollette», che a breve passerà all’esame del Parlamento. Non è dato ancora sapere, però, se i sacrifici toccheranno anche il Vaticano e la Repubblica di San Marino, «stati esteri» che fino ad oggi hanno beneficiato di un regime del tutto speciale, finanziato in ultima istanza dalle bollette dei consumatori italiani. Per il momento pare di no, anche se nella lista iniziale degli interventi del ministero il capitolo delle due “enclave” era ben presente. Non che si tratti di cifre stratosferiche: il «regalo» energetico che lo Stato fa ogni anno alla Santa Sede e alla Repubblica del Titano ha un valore di 15-16 milioni di euro, ripartiti più o meno a metà. Il taglio, sempre nelle intenzioni, avrebbe quindi un valore più simbolico che altro («tutti devono fare la loro parte»), aggiungendosi però alle altre misure dello stesso tenore, quelle che colpiscono le energie rinnovabili fino alle Ferrovie e ai pensionati Enel.
Ci sono però diversi ostacoli. La Santa Sede, ad esempio, è un cliente delicato, e in generale non è con un decreto dello Stato italiano che si possono modificare accordi «internazionali». Proprio così, perché proprio per il fatto di essere due Stati sovrani, e due «enclave» circondate dal territorio italiano, Vaticano e San Marino devono poter accedere a un corridoio di fornitura esterno. Cosa alla quale lo Stato italiano provvede ogni anno, garantendo sempre per decreto una quota della capacità di importazione di energia elettrica dalla Francia (per il Vaticano) e dalla Svizzera (per San Marino). Energia «preziosa» e aggiudicata con delle aste perché costa molto meno di quella prodotta in Italia. Per la Santa Sede si tratta di 50 Megawatt e per la Repubblica di 54 Megawatt. Ai valori di asta (circa 16 euro a Megawattora) i due lotti valgono appunto 7-8 milioni di euro l’uno. A questo punto che cosa accade? Che i due Stati esteri si accordano con due fornitori italiani (Acea a Roma, Enel per il monte Titano), scambiando la capacità di importazione con l’elettricità che a loro serve. In più, secondo qualche maligno, sfruttando non solo l’opportunità di ricevere l’elettricità a costi bassissimi (quelli del trasporto). Ma anche quella di ricavare qualche provento extra: San Marino ad esempio, che ha circa 32mila abitanti, consuma ogni anno il 60% dell’elettricità alla quale avrebbe diritto grazie alla riserva garantita dallo Stato italiano (270 mila Megawattora su circa 470mila). E il resto?
Potrà cambiare in futuro la situazione, all’insegna di maggiore trasparenza ed equità? La disponibilità delle parti, almeno in via informale, ci sarebbe, ma i due casi sono diversi. Per il Vaticano la garanzia di energia elettrica sarebbe addirittura contemplata dai Patti Lateranensi del 1929 (l’articolo 6), che forse dovrebbero essere modificati. Pare inoltre che l’amministrazione vaticana si sia «dimenticata» di segnalare il proprio diritto per il 2014, e infatti nel decreto import del ministero dello Sviluppo di fine dicembre scorso la riserva di 50 Megawatt per la Santa Sede non è stata riconfermata. Tra fine febbraio e fine marzo l’errore sarebbe stato segnalato al governo italiano, ma poi la staffetta Letta-Renzi (e Zanonato-Guidi) avrebbe rallentato la correzione del ministero. A quel punto, viste le intenzioni di «risparmio» del governo, il Vaticano avrebbe manifestato la sua disponibilità ad accettare un taglio in linea con il 10% medio che l’esecutivo vorrebbe portare a casa. Si vedrà.
San Marino, invece, per i suoi 54 Megawatt vanta un diritto decennale, ribadito da un accordo con l’Italia del 2011. In teoria le cose potrebbero andare avanti così fino al 2020. Ma anche in questo caso è possibile che, bontà sua, la Repubblica accetti di avviare una trattativa. Il margine ci sarebbe.

Il governo Renzi in aiuto delle scuole e degli asili privati, nella stragande maggioranza cattolici...
Il Sole 5.7.14
Piano scuola. Il Miur prepara le misure per l'istruzione - Incentivi fiscali e normativi per le imprese che sponsorizzano il potenziamento o la riqualificazione degli istituti
«School bonus» sugli investimenti privati
di Claudio Tucci


ROMA Bonus fiscale ("school bonus") per ogni investimento privato nella scuola. "School guarantee", un premio aggiuntivo, se l'impegno economico dell'impresa riesce anche a creare occupazione giovanile. E per rispondere ai rilievi europei più spazio all'alternanza scuola-lavoro, con l'obiettivo di far sperimentare a tutti gli studenti che hanno superato i 15 anni percorsi di didattica in realtà aziendali (anche pubbliche e del no-profit).
Il ministero dell'Istruzione sta mettendo a punto le proposte da inserire nel "pacchetto Scuola", annunciato nei giorni scorsi dal premier, Matteo Renzi. I due "cantieri" voluti da Stefania Giannini, coordinati dal capo di gabinetto, Alessandro Fusacchia, e dal capo della segreteria tecnica, Francesco Luccisano, stanno ultimando i lavori, e dalla prossima settimana le misure di intervento individuate da Viale Trastevere saranno discusse all'interno del Governo. E in particolare con il ministero dell'Economia per verificare le coperture e, soprattutto, per capire quante risorse potranno essere reperite ed effettivamente destinate all'operazione "Scuola". Che, dalle prime bozze di documenti in circolazione, si annuncia piuttosto ambiziosa.
Nei testi si ipotizzano una serie di interventi per sostenere, con incentivi normativi e fiscali, ogni investimento di una impresa o di un attore privato (fondazione o banca, per esempio) indirizzato a una scuola o a una rete di scuole (poli tecnico-professionali). Sulla falsariga del cosiddetto "Art bonus" introdotto con il decreto Cultura, i tecnici del Miur pensano a una sorta di "school bonus", cioè un bonus fiscale ad hoc a favore dei privati (per esempio tramite sponsorizzazioni) che potrebbe trovare immediata applicazione nell'opera di potenziamento e riqualificazione degli istituti scolastici, dei loro laboratori, per l'acquisto di nuove tecnologie, o per l'apertura prolungata del plesso (una opzione, fino alle ore 22, rilanciata nei giorni scorsi dal sottosegretario Roberto Reggi, assieme all'altra ipotesi di portare a 36 ore le ore di lavoro dei docenti).
Un altro strumento da poter mettere in campo si chiama "school guarantee", che è pensato per l'impresa che investe risorse per finanziare l'alternanza scuola-lavoro o per potenziare un laboratorio. Potrà ricevere incentivi aggiuntivi allo "school bonus" se si dimostra il "successo formativo" dell'intervento in termini di maggior occupazione dei ragazzi. Si ipotizzano anche misure di incoraggiamento a meccanismi di crowdfunding (micro-finanziamento diffuso) per la scuola per coinvolgere anche i singoli cittadini e la collettività. Certo, si tratta di proposte onerose e le coperture sono ancora tutte da verificare, dicono dal Miur, «ma i ragazzi ci chiedono istituti aperti ad altre realtà e al territorio», sottolinea il sottosegretario Gabriele Toccafondi.
Il punto è che «serve una visione nuova che veda la scuola come un investimento del Paese», rilancia il dg per gli Ordinamenti scolastici, Carmela Palumbo. In quest'ottica, tra le proposte che si studiano al Miur, c'è anche quella di potenziare l'alternanza scuola-lavoro per dare attuazione in Italia al modello duale tedesco. E rispondere ai rilievi dell'Europa. Secondo gli ultimi dati ufficiali (Miur-Indire) nell'anno scolastico 2012-2013 sono stati coinvolti in esperienze di studio e lavoro quasi 228mila studenti, per di più provenienti da istituti professionali e tecnici, e una nicchia di aziende.
Per invertire il trend si richiama la necessità di rafforzare l'obbligatorietà dell'alternanza scuola-lavoro negli istituti tecnici e professionali, utilizzando una quota cospicua dell'orario curriculare (si ipotizza un periodo di formazione in ambiente lavorativo di circa 600 ore totali nell'arco dell'ultimo triennio). Il costo stimato per questo intervento è di 75 milioni di euro annui, che si potrebbero coprire utilizzando quota parte dei fondi strutturali. Per gli studenti dei licei, invece, si suggerisce di rafforzare il legame con il ministero dei Beni culturali per favorire il passaggio dei ragazzi dalle classi agli operatori del mondo della cultura e della conservazione dei beni artistici. Per coinvolgere, infine, le pmi e le imprese in aree del Paese meno sviluppate la proposta è quella di implementare lo strumento della "scuola bottega".

Il Sole 5.7.14
Dopo il flop del 2013, il voucher introdotto dalla riforma Fornero sarà modificato
Il bonus asilo diventa più ricco
di Matteo Prioschi


Più ricco, più semplice, più accessibile. Dopo il flop dell'anno scorso il voucher per pagare asili nido o baby sitter previsto dalla riforma Fornero del 2012 (legge 92/2012) sarà presto rinnovato.
Le modifiche a cui sta lavorando il ministero del Lavoro prevedono l'estensione della fruibilità del bonus alle dipendenti del pubblico impiego; l'incremento dell'importo mensile del voucher, che passerà da 300 a 600 euro; la possibilità di richiedere il contributo entro il 31 dicembre, eliminando quindi il bando a tempo limitato utilizzato nella prima edizione.
In base a quanto previsto dalla legge 92/2012, una madre lavoratrice, in alternativa al congedo parentale, può chiedere di ricevere un voucher di importo mensile di 300 euro per un massimo di 6 mesi con cui pagare la retta degli asili nido accreditati o la baby sitter.
A copertura dell'operazione sono stati stanziati 20 milioni di euro all'anno dal 2013 al 2015. L'anno scorso, però, come confermato dal ministero del Lavoro, meno di 4mila madri hanno sfruttato questa possibilità e sono stati utilizzati circa 5 milioni di euro.
Ciò a fronte delle difficoltà di conciliare famiglia e lavoro da parte delle neo-mamme: «Quasi il 43% delle donne con figli piccoli – ha commentato Teresa Bellanova, sottosegretario al Lavoro con la delega alle pari opportunità e conciliazione – lamenta la difficoltà di tenere insieme lavoro e maternità. È evidente l'urgenza di mettere a disposizione delle donne servizi e forme di sostegno tarate sulle effettive esigenze delle famiglie, che siano efficaci».
Da qui la decisione di rivedere le regole del bonus, tramite un decreto ministeriale che dovrebbe vedere la luce a breve. «Stiamo lavorando perché la misura così modificata sia operativa nel più breve tempo possibile – ha affermato Bellanova – e l'obiettivo è recuperare i fondi inutilizzati e reinvestirli per la stessa misura».

Il governo Renzi contro i lavoratori e i sindacati
Il Sole 5.7.14
Lavoro, la maggioranza cerca l'intesa
Delega al Senato: sul tavolo forme contrattuali, ammortizzatori, politiche attive
di Giorgio Pogliotti


ROMA La maggioranza è alla ricerca di una posizione comune in commissione Lavoro al Senato, dove si sta esaminando il Jobs act, il Ddl con cinque deleghe al Governo sul riordino delle forme contrattuali, nuovi ammortizzatori, politiche attive. Martedì mattina alle 8 è previsto l'incontro tra il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti e i rappresentanti dei partiti della maggioranza: il principale nodo da sciogliere riguarda il ruolo dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Da un lato il Pd sostiene il contratto di inserimento a tutele crescenti (che congela l'articolo 18 ai neoassunti solo per un periodo iniziale di prova), dall'altro il Nuovo centro destra, Scelta civica, Popolari per l'Italia e Svp hanno firmato l'emendamento all'articolo 4 presentato dal senatore Pietro Ichino, che ripropone la premessa inserita nel decreto Poletti sull'adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, prevedendo l'introduzione del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente, senza alterare l'attuale articolazione delle tipologie contrattuali. In caso di licenziamento, la tutela reale dell'articolo 18 viene cancellata per tutti i nuovi contratti a tempo indeterminato, fatta eccezione per i licenziamenti discriminatori, per quali è prevista la reintegra. «Con la nuova disciplina, – spiega Ichino – in caso di licenziamento verrà corrisposta al lavoratore un'indennità, di importo crescente in base all'anzianità di servizio. Non sarà il solo sostegno, poichè puntiamo ad un sistema di flexsecurity che aiuti chi è stato licenziato a trovare un nuovo posto di lavoro con i contratti di ricollocazione». Ichino avverte: «se non verrà rispettato l'impegno preso dalla maggioranza nel Dl Poletti, non voteremo l'articolo 4 del Ddl».
Quanto al Pd, punta a sperimentare il contratto di inserimento, congelando l'applicazione dell'articolo 18 solo per il primo periodo di prova ai neoassunti. «Vogliamo attenerci a quanto previsto dal Ddl – spiega la capogruppo del Pd in commissione, Annamaria Parente –. Allo stesso tempo dobbiamo metter mano alle politiche attive, ai servizi per l'impiego, agli ammortizzatori, per offrire un sistema efficiente di tutele. Ma dobbiamo fare presto, per rispettare la scadenza di fine anno fissata dal governo». Un emendamento del vicepresidente del gruppo Pd al Senato, Stefano Lepri, prevede che il nuovo contratto possa essere utilizzato anche per la ricollocazione: al termine «se la sperimentazione funziona si avrebbe un regime a doppio binario» con l'applicazione dell'articolo 18 per chi ha già un contratto, mentre «tutti i nuovi contratti sarebbero con il nuovo regime, sia per i neoassunti sia per chi ha perso il lavoro e fa un nuovo contratto», in caso di licenziamento si avrebbe un «indennizzo». Per il presidente della commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd) è «apartheid per i giovani», critici anche gli altri partiti della maggioranza. «Dobbiamo offrire un quadro regolatorio certo e semplice alle imprese che vogliono creare lavoro – sostiene il presidente della commissione Lavoro al Senato, Maurizio Sacconi (Ncd), relatore del Ddl –. Non serve a nulla un periodo di prova iniziale che sterilizzi l'articolo 18. Gli imprenditori devono sapere che se viene meno il rapporto di fiducia con il lavoratore possono licenziarlo, senza doverlo reintegrare, a meno che non si tratti di un licenziamento discriminatorio. L'indennizzo monetario, sarà proporzionato all'anzianità di servizio». Insieme al recesso, l'altro tema che va affrontato per Saccconi è quello delle demansionamento: «È disciplinato dallo Statuto dei lavoratori che dopo 44 anni di vita è superato – afferma –. Su questi temi il governo si gioca la credibilità in Europa». In un convegno organizzato da LabLaw mercoledì al Senato, lo stesso Sacconi ha fatto capire che in assenza di una chiara volontà di cambiamento su questi temi, potrebbe anche dimettersi da relatore.
Tornando a martedì prossimo, dopo il vertice di maggioranza, intorno alle 11,30, è stata convocata la commissione Lavoro che inizierà a votare circa 450 emendamenti, per portare il testo in Aula tra il 15 e il 17 luglio.

La "riforma" dela giustizia del governo Renzi favorisce i criminali
Corriere 5.7.14
L’allarme delle associazioni che si occupano di violenza sulle donne
Stalker scarcerati per decreto
I magistrati: modificare il testo
Le nuove norme, in vigore dal 28 giugno, escludono l’arresto per reati puniti con meno di tre anni
I magistrati chiedono che non sia applicabile per lo stalking aggravato
di Giusi Fasano

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La Stampa 5.7.14
Siddi: “I giornalisti non sono l’ombelico del mondo”
Il segretario della Federazione Nazionale della Stampa: “chi mi critica non ha ben chiaro né il sistema editoriale né la realtà nella quale viviamo: non è vero che questo contratto è stato pensato a difesa di una casta”
intervista di Paolo Festuccia

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La Stampa 5.7.14
Tra i bimbi nei quartieri dell’Ilva


“Si ammaleranno per 50 anni”
A Taranto dopo i dati choc: solo i volontari aiutano le famiglie
di Grazia Longo


È un pomeriggio assolato come nel resto del Sud e molti bambini si rincorrono ridendo sul lungomare. Dall’altra parte della città no. Dove il camino «E 132» dell’Ilva - tossico più di 10 mila inceneritori messi insieme - si erge minaccioso in una desolazione di cemento, con pochi e spelacchiati alberi intorno, i bambini sono meno bambini degli altri.
Questa è la drammatica realtà di chi vive tra Tamburri e Statte. I bambini dell’Ilva hanno per compagni di giochi i clown degli ospedali che cercano di farli ridere, mentre le speranze di guarire dalla leucemia precipitano più del mercurio sotto lo zero. I bambini dell’Ilva non hanno neppure un reparto pediatrico ematologico: chi non può permettersi i viaggi al Bambin Gesù di Roma per la chemioterapia, deve affidarsi alla generosità del primario del Moscati, Patrizio Mazza, che insieme all’Arci ha allestito una baby room tra le stanze dei pazienti adulti. I bambini dell’Ilva hanno le braccia talmente bucate per le troppe flebo da dover ricorrere a minuscoli cateteri sul petto.
Le storie di Ambra, Michele e Luca - 4, 10 e 12 anni - raccontano di mascherine indossate nelle poche giornate dell’anno trascorse a scuola invece che in corsia. Di fantasie escogitate per aggirare lo spettro della morte. Di una gita al mare agognata per anni. Di un coraggio disarmante per combattere contro un nemico infido e insidioso. Guardi i loro occhi sgranati, attenti, e ti domandi dove trovino la forza di essere ancora così curiosi nonostante tutto. Sembrano piccoli Don Chisciotte contro i mulini della fabbrica della morte. 
«Per almeno altri 50 anni assisteremo a bambini, ma anche adulti, ammalarsi e morire per la diossina - dice il pediatra Roberto Brundisini -. Si doveva aspettare l’allarme dell’Istituto superiore di Sanità per far capire alla nostra classe politica che a Taranto si muore d’Ilva? Nel ’73 il disastro della diossina fuoriuscita a Seveso procurò la giusta allerta. Qui in Puglia, niente. Eppure, seppur diluita nel tempo, la diossina dell’Ilva è doppia rispetto a Seveso».
Lo ripete anche Paolo Mastromarino, 47 anni, insegnante di musica precario, papà di Luca che ha 12 anni e da quando ne aveva 4 lotta contro la leucemia. Ne ha avute due, l’ultima ha richiesto il trapianto del midollo osseo. «Per la prima volta, dopo tantissimi anni, andremo al mare a un’ora di macchina da Taranto - racconta il padre -. Luca da 7 anni entra ed esce dal Bambin Gesù di Roma. A volte è ricoverato per 3-4 mesi, ma siamo stati lì anche un anno di fila. Immaginate cosa significhi per un bambino, eppure lui ha sempre cercato di reagire».
Il sogno nel cassetto di Luca è giocare in una squadra di pallavolo, ma sa che non può e ha ripiegato sul tiro con l’arco. I compiti li riceve tramite Facebook da una compagna dolcissima, Alessia Cappellano (premiata pure come bambina più buona d’Italia), che glieli porta a casa nei rari periodi in cui Luca resta a Taranto. 
Ambra Friolo, invece, 4 anni, genitori disoccupati, non si può permettere neanche le trasferte in un ospedale pediatrico. «Per fortuna la cura qui il dottor Mazza - racconta la mamma Chiara, 32 anni -. Ambra sta male da quando aveva pochi mesi, ma solo a febbraio abbiamo scoperto che si tratta di leucemia. Gioca con le bambole e con la borsa del dottore, perché dice che vuole curare i bambini malati come lei».
Anche Ambra quando è a casa viene assistita dai volontari della sezione locale Ail (associazione italiana leucemia e linfomi). 
La presidente, Paola D’Andria è una signora di 63 anni infaticabile e premurosa con i piccoli e le loro famiglie. «Abbiamo una squadra di ragazzi che intrattengono i bimbi - spiega -, ma anche medici, infermieri e psicologi che si occupano delle loro patologie ma anche delle difficoltà dei genitori e dei fratelli. Sono anni che sfiliamo e protestiamo per l’inquinamento dell’Ilva, eppure finora nessuno ci ha ascoltato veramente. Ma che cosa dobbiamo fare per attirare l’attenzione sui nostri bambini?».
Michele, 10 anni, è stato colpito da un tumore alla faringe, «come neppure il più incallito fumatore adulto, eppure nessuno di chi conta veramente si è mobilitato per lui». L’Ail fa di tutto per alleggerire il peso dei bambini. L’ultima iniziativa una regata sul mare, alla quale hanno partecipato tutti quelli che potevano scendere dal letto in quell’occasione. «Sognando Itaca» è stata un’opportunità unica, indimenticabile, per molti di loro.
«Anche per Luca - precisa ancora suo padre -, basta osservare il suo sorriso stampato sulla foto. Cosa vuole che le dica? Andare avanti non è semplice, le recidive sono sempre dietro l’angolo». 
Ma Luca non molla e scommette su una possibile partita a pallavolo.

il Fatto 5.7.14
Angelo Bonelli
“Taranto, strage dei bambini Lo Stato è complice dell’Ilva”
intervista di Beatrice Borromeo


Presenterò un esposto per omicidio e disastro ambientale continuato. Chiedo alla Procura di Taranto di aprire un nuovo filone d’inchiesta, ora che i dati dell’Istituto Superiore della sanità hanno dimostrato che questi reati sono stati reiterati per anni”. Per il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, i responsabili non sono più, solo, i dirigenti dell’Ilva: “È colpevole anche lo Stato”.
Cosa contesta, Bonelli, allo Stato?
Di non aver fatto nulla, di essere stato inadempiente. Questo immobilismo ha consentito all’inquinamento di perdurare. E ora a Taranto vediamo un incremento della mortalità infantile per tutte le cause: il 21 per cento in più rispetto alla media regionale. È il dato più alto che si sia mai registrato. E l’eccesso dell’incidenza dei tumori nella fascia 0-14 anni è addirittura del 54 per cento. Sono studi che si riferiscono al 2011, mentre il processo “ambiente svenduto” si ferma prima. Tocca ai magistrati agire.
Eppure erano stati stanziati 119 milioni di euro per le bonifiche.
Ne hanno usati solo 15, per interventi marginali. Intanto però il decreto del ministro Galletti alza il limite degli scarichi tossici a mare, e la ministra Guidi vuole ammazzare le energie rinnovabili. Il governo di Matteo Renzi ha ben poco di ambientalista. Preferisce fare i regalini alle acciaierie e alle centrali a carbone. E poi, se la mortalità infantile di Taranto è cresciuta in media del 21 per cento, immaginate quanto è salita nel quartiere Tamburi. Il sub-commissario Ilva Edo Ronchi dice che qui l’aria è più pulita che a Milano? Sono senza parole.
Ronchi, nell’intervista rilasciata al Fatto, spiega che in Lombardia si sfora il limite delle polveri sottili più che nel capoluogo pugliese.
Peccato che questo non voglia dire nulla. L’aria di Roma o Milano è sicuramente avvelenata dallo smog, ma le polveri di Taranto hanno una composizione chimica che non si può paragonare ad altre città: dentro ci sono metalli pesanti, cromo, benzo(a)pirene. È altamente tossica .
Questo però, ribatte il sub-commissario, non è regolato da alcuna normativa.
È vero: la legge non ne parla. Ma che quelle polveri siano pericolose per la salute, pure in quantità ridotte, lo sa benissimo anche Ronchi. Persino quando indagava la procura, non c’erano particolari sforamenti di polveri.
Il sub-commissario cita dati dell’Arpa, che sono ufficiali.
L’Arpa l’ha pure smentito. E noi abbiamo assistito alla trasformazione di un ambientalista in un tecnocrate, che deve dimostrare a chi l’ha messo su quella poltrona di essere affidabile, sulla falsariga di chi sosteneva che i tumori dei tarantini sono dovuti alle sigarette. La diminuzione della polvere non è figlia del risanamento: è la diretta conseguenza della riduzione della produzione. Non sono stati applicati i filtri perché costano 70 milioni di euro . A Taranto si accumulano veleni da decenni.
Infatti Ronchi dà la colpa all’inquinamento storico.
E dice pure che non gli risulta che dall’Ilva esca piombo, il che fa rabbrividire. In Italia, secondo i dati del registro Ines – che quantifica le emissioni inquinanti in atmosfera
– vengono sparsi nell’aria quasi 100 mila chili di piombo ogni anno. L’Ilva Spa, proprio quella di Taranto, ne spara circa 75 mila chili. Il che significa che il coefficiente d’incidenza dell’Ilva sulla quantità di piombo che si respira è quasi del 70 per cento. Che un sub-commissario non sappia queste cose fa accapponare la pelle.
Ronchi sostiene però che il piombo – ritrovato anche nel sangue dei bambini di Tamburi – non sia particolarmente dannoso per la salute.
Uno studio di Oxford ha testato 141 tarantini, metà uomini e metà donne. Il valore medio di piombo nel loro sangue è di 10,8 microgrammi al litro, mentre la quantità tollerabile per l’organismo è tra gli 0,5 e i 3,5 microgrammi al litro.
Quali sono gli effetti del piombo sull’organismo umano?
Agisce sul sistema nervoso, provoca danni renali ed è molto pericoloso per le donne incinte, perché causa deficit neurologici sui nascituri. Infatti a Taranto l’incidenza di queste patologie è molto alta.
Quindi lei sostiene che i dati Arpa non siano indicativi?
Sì, e non sono solo: anche il direttore generale di Arpa Giorgio Assennato, quando gli hanno fatto notare che l’aria dentro l’acciaieria risulta meno contaminata di quella di Taranto, ha detto che quei dati non sono attendibili. Come si spiega questo fenomeno? Vogliamo dire che è la città di Taranto ad avvelenare l’Ilva?

ma... il governo Renzi contro il diritto alla salute, tutelato dalla Costituzione
Il Sole 5.7.14
Il governo garantisce per l'Ilva
Il ministro Guidi: assicureremo la liquidità all'azienda per tutti gli stabilimenti
di Matteo Meneghello


MILANO. L'appuntamento è fissato al prossimo consiglio dei ministri. In quella sede si decideranno le prossime mosse per sbloccare il prestito ponte a favore di Ilva. Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, ieri al termine di una giornata carica di tensione – caratterizzata dalle proteste a Genova – ha ribadito quanto affermato giovedì in tarda serata dopo l'incontro con i sindacati, sottolineando la volontà di definire in breve tempo i provvedimenti per superare la crisi di liquidità dell'Ilva – a questo proposito, sarebbero in corso in queste ore, in Ilva, riunioni tecniche volte a studiare le modalità per sbloccare utilizzare, come anticipato dal commissario Piero Gnudi, le risorse sequestrate dalla Procura alla famiglia Riva – e consentire all'azienda di proseguire la sua attività con un prestito-ponte. Il ministro ha inoltre confermato quanto assicurato da Gnudi: gli stipendi di giugno saranno pagati regolarmente, e il premio di produttività sarà erogato a luglio.
A stretto giro, il sindacato ha deciso di sospendere lo sciopero di gruppo di otto ore e la manifestazione a Roma prevista per l'11 luglio. Resta confermata, però, la mobilitazione a livello locale. Taranto ha anticipato a giovedì uno sciopero delle ultime quattro ore di ogni turno, mentre a Genova, dopo le 24 ore di sciopero di giovedì, ieri, con altre 8 ore di fermata, si è alzato ulteriormente il livello della protesta. In tarda mattinata un corteo con mezzi meccanici, partito da Cornigliano, è giunto davanti alla prefettura, dove era in corso un incontro sulla vicenda tra il prefetto Giovanni Balsamo e una delegazione sindacale. Si è sfiorato lo scontro tra polizia e manifestanti alle 13, quando i lavoratori hanno bloccato una delle piazze principali della città e l'accesso alla Prefettura: per potere «parcheggiare» un portarotoli da 30 tonnellate, davanti al portone del palazzo, gli operai hanno spostato a braccia due automobili della polizia che erano state collocate a spina di pesce davanti all'entrata.
Il tavolo di confronto si è poi concluso positivamente: i sindacati hanno ottenuto l'impegno scritto del commissario Piero Gnudi a pagare in luglio lo stipendio di giugno e in agosto lo stipendio di luglio e il premio di produzione. I lavoratori hanno quindi lasciato la Prefettura, togliendo il blocco stradale, per dirigersi in corteo verso lo stabilimento di Cornigliano dove si è conclusa la manifestazione. «Bisogna garantire gli stipendi ai lavoratori – ha detto ieri il presidente della Regione Liguria Claudio Burlando –. Per mantenere la filiera dell'acciaio in Italia bisogna investire tra 2-3 miliardi di euro: non ci potrà che essere un rapporto tra chi farà l'investimento e chi sarà proprietario dell'Ilva e la gestirà. È da un anno che siamo fermi davanti a questo nodo, che adesso va sciolto». Secondo Burlando «le questioni sono diverse: la prima è che bisogna dare una risposta immediata al problema degli ammortizzatori sociali, venuti meno con la scadenza dei contratti di solidarietà. Da questo punto di vista – ha proseguito – bisogna procedere ad una nuova fase di cassa in deroga di tipo nazionale. Non c'è altra strada, perché è una questione nazionale».
Preoccupati per il futuro dell'azienda anche i sindacati, che hanno ribadito la necessità di «ricercare soluzioni che permettano all'azienda di avere le necessarie risorse economiche per far fronte sia al pagamento degli stipendi, dell'arretrato sui fornitori e di potere ottemperare alle disposizioni del piano ambientale». Fim, Fiom, Uilm nazionali hanno ribadito la preoccupazione sulle prospettive generali del gruppo e la necessità di rendere esplicite sia la strategia del Governo che il mandato del Commissario Gnudi. Il Governo dovrebbe fornire al sindacato un quadro di maggiore chiarezza in un nuovo incontro al ministero dello Sviluppo Economico fissato per il 16 luglio.

Il governo Renzi a favore degli evasori fiscali
Il Sole 5.7.14
Rientro capitali con lo «sconto»
Rispetto alla procedura del dl si pagano imposte piene e sanzioni meno pesanti
di Monica Laguardia e Marco Piazza


L'ultima versione della proposta di legge sul rientro di capitali detenuti all'estero in violazione della disciplina sul monitoraggio fiscale (quadro RW) presenta un quadro sanzionatorio estremamente articolato. La soluzione legislativa adottata consiste nell'inserimento nel Dl 167/1990 degli articoli da 5 quater a 5 septies, mentre la cosiddetta "voluntary nazionale" è regolata dall'1, comma 1 bis del progetto di legge. Allo stato attuale è chiaro che la collaborazione volontaria comporterà l'obbligo di pagare l'intero ammontare delle imposte evase nei periodi d'imposta considerati. Unica semplificazione nei conteggi è contenuta nell'articolo 5 quinquies, comma 5 ter, introdotto nel Dl 167/1990, che consente (è una facoltà) di determinare i rendimenti dei capitali detenuti all'estero nella misura forfetaria del 5% della consistenza di fine anno e di tassarli al 27%.
Per la violazione del quadro RW le sanzioni sono comminabili dall'anno 2008 (Unico 2009). Me se le attività sono detenute in Paesi black List che entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge non abbiano stipulato con l'Italia un accordo per lo scambio d'informazioni che copra anche il periodo che intercorre fra la sua stipula e la sua entrata in vigore, è ancora aperto il 2003. Il periodo lungo, quindi, non si applica, ad esempio, a Cipro, Malesia, Malta, Mauritius, Oman, San Marino, Singapore, Equador, Lussemburgo, Emirati Arabi, Kuwait, Corea del Sud, Uruguay, Libano.
Per l'evasione delle imposte sui redditi è ancora aperto il periodo d'imposta 2009 (Unico 2010) o il 2008 (Unico 2009 in caso di omessa dichiarazione). Per le attività detenute in Paesi black list si applica il periodo lungo (2005 se la dichiarazione è stata presentata; 2003 in caso di omessa presentazione) a meno che siano verificate congiuntamente le condizioni indicate nell'articolo 5 quater, comma 3 bis (si veda la tabella a fianco), non facilmente verificabili per alcuni Paesi, come la Svizzera. Resta il termine lungo in presenza di reati tributari.
Per le attività detenute in Paesi non black list la sanzione minima viene ridotta al 100% delle imposte evase; nel caso in cui il contribuente dia acquiescenza all'invito al contraddittorio emesso dall'ufficio in seguito all'autodenuncia, la sanzione è determinata sommando i minimi edittali dovuti per tutte le imposte e per tutti gli anni ridotti al 100% (calcolando il cumulo giuridico solo quando siano applicabili più sanzioni per una stessa imposta, come accade per l'Iva) e applicando alla somma la riduzione a un sesto. Se, invece si decide di presentare istanza di accertamento con adesione, la riduzione è a un terzo. Se i redditi sono stati prodotti in Paesi black list, la sanzione minima scende dal 200 al 150% e in sede di adesione all'invito al contraddittorio o all'accertamento con adesione viene ridotta rispettivamente a un sesto o a un terzo.
Per le attività detenute in Paesi non black list la sanzione dovuta in caso di adesione all'atto di contestazione è in pratica ridotta allo 0,5% del valore delle attività non dichiarate in ogni anno dal 2008 in poi. Più complesso è il caso dei Paesi black list. Per le attività detenute in Paesi che hanno firmato con l'Italia un accordo per lo scambio d'informazione, la sanzione dovuta è in pratica dell'1% del valore delle attività non dichiarate in ogni anno dal 2008. Altrimenti si deve distinguere:
- se le attività, in sede di collaborazione volontaria, vengono trasferite in Italia o in Paesi Ue o See white list, oppure se l'autore delle violazioni autorizza l'intermediario estero a trasmettere alle autorità italiane richiedenti i dati delle attività emerse e allega copia di tale autorizzazione, controfirmata dall'intermediario estero, alla richiesta di collaborazione volontaria, la sanzione dovuta, in sede di adesione è dello 0,83% dal 2003 al 2007 e dell'1% dal 2008;
- altrimenti la sanzione è del 1% dal 2003 al 2007 e dell'1,5% dal 2008.
Supponendo che il contribuente abbia ricevuto un'eredità di 3 milioni in Paese black list senza scambio d'informazioni nel 2006 e che abbia conseguito proventi finanziari per 60.000 euro all'anno, ed evaso imposte sui redditi per 12.000 euro all'anno, con la collaborazione volontaria, decidendo di trasferire le attività in Italia, ma non avendo autorizzato l'intermediario estero allo trasmissione dei dati, pagherà, per il quadro RW, 246.680 euro di sanzioni, oltre per le imposte evase (96.000 euro), e le sanzioni sulle imposte evase (il 25% di 96.000 euro: 24.000 euro) per un totale di euro 366.678, pari a circa l'11% del capitale più gli interessi sulle imposte.

Il governo Renzi al servizio degli Usa e dell’industria bellica
il Fatto 5.7.14
F-35, perfino il Pentagono ha paura di volare
Dopo l’incendio di un jet in una base della Florida, gli USA decidono di bloccare l’intera flotta. Ma l’Italia non rinuncia al loro acquisto
di Daniele Martini


A questo punto, dopo l'ennesimo guasto che ha costretto il Pentagono a prendere la grave decisione di mettere a terra tutta la flotta degli F-35 Joint Strike Fighter, se l'Italia si incaponisse nell'acquisto di quegli avveniristici quanto fragili cacciabombardieri sarebbe un accanimento insensato. È chiaro che quel costosissimo aereo è venuto male. Capita: non è la prima volta nella storia dell'aviazione e probabilmente non sarà neppure l'ultima.
LA SCELTA di interdire il volo a un'intera flotta di aerei non viene mai presa a cuor leggero dalle autorità aeronautiche, neppure da quelle militari. Ma gli incidenti capitati nel giro di un mese a esemplari diversi di F-35 appartengono decisamente alla categoria di quelli gravi. Dieci giorni fa sulla pista di Eglin in Florida un caccia ha cominciato a perdere pezzi al decollo e poi ha preso fuoco nella parte posteriore. Il pilota è stato svelto ad abortire la manovra e a fermare il jet prima di guai peggiori. Un paio di settimane prima era successo che durante un altro volo di prova un secondo F-35 aveva cominciato a seminare olio dal motore in volo e il pilota aveva ritenuto opportuno fare subito rientro alla base. I tecnici non sono ancora riusciti a capire di che cosa si tratti. Sotto accusa è il motore prodotto dalla Pratt & Whitney, una ditta che rifornisce le flotte aeree commerciali e militari di mezzo mondo. Difficilmente i mille difetti emersi in questi anni di prove e collaudi degli F-35 potranno essere modificati in tempi rapidi e con costi ragionevoli. Anche da un punto di vista strettamente tecnico non appare quindi opportuno che il Parlamento e il governo italiano decidano di insistere sull'F-35 come jet di riferimento della difesa nazionale. Spendendo un occhio della testa, oltretutto: dai 10 miliardi di euro in su per l'acquisto secco di 90 esemplari. Somma che, secondo alcune proiezioni, lieviterebbe a una quarantina di miliardi nel giro di un ventennio per i ricambi e la manutenzione . L'Italia già partecipa con Alenia (Fin-meccanica) alla produzione di un jet dalle caratteristiche simili all'F-35 ma di impianto europeo, l'Eurofighter, che a differenza del primo è invisibile ai radar ma funziona e finora ha offerto ottime prove. Meglio allora ripristinare gli ordini di acquisto del caccia europeo frettolosamente cancellati per far posto all'aereo americano della Lockheed Martin. Mezzo mondo sta tornando sui suoi passi con il caccia Usa e di fronte agli ennesimi guasti anche la Corea del Sud ha fatto sapere che non è più tanto intenzionata a insistere.
L'Italia è ancora in tempo per fare marcia indietro, anche se purtroppo negli anni passati sono stati avventatamente presi dal nostro Paese impegni a non finire per l'acquisto del caccia americano. E anche se molti politici e generali degli Stati maggiori negli ultimi tempi hanno fatto a gara per lasciar intendere che ormai il dado era tratto e non era possibile alcun ripensamento. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, proprio qualche giorno fa è volata a Washington e al capo del Pentagono, Chuck Hagel, ha spiegato l'iter che l'Italia sta seguendo per gli F-35. Quel percorso prevede che dopo anni di fughe
in avanti
e di decisioni segrete e avventate, prima di ogni firma vincolante ora si esprima il Parlamento con un Libro bianco nel quale saranno finalmente definite
le esigenze della difesa nazionale e in base a esse sarà stabilito quali sistemi d'arma sono da ritenersi necessari e compatibili con le nostre esigenze. Tutti i sistemi d'arma, quelli dell'esercito, della marina e dell'aviazione, compreso quindi l'F-35, il cui ipotizzato acquisto riguarda l'Aeronautica (60 esemplari della versione A base) e la Marina (30 aerei a decollo corto del modello B).
A QUEL PUNTO il Parlamento potrebbe, anzi, considerando come si sono messe le cose, forse dovrebbe rinunciare del tutto all'acquisto del costosissimo e difettoso cacciabombardiere. Finora abbiamo firmato contratti per comprare sei esemplari e per quelli probabilmente sarà difficile tornare indietro, anche se il malfunzionamento dell'aereo potrebbe essere invocato come una ragione valida per la ridiscussione dei termini dell'accordo. Inoltre a Cameri, in provincia di Novara, lo Stato italiano ha speso più di 700 milioni di euro per allestire un modernissimo stabilimento affidato all'Alenia per l'assemblaggio delle ali costruite in Texas per l'Europa. Ma proprio nei giorni passati Norvegia, Olanda e Gran Bretagna hanno fatto sapere che non intendono più servirsi della fabbrica italiana per i loro F35. Motivo in più per governo e Parlamento italiano per riconsiderare anche questo aspetto della partita. Prima di insistere a testa bassa nell'acquisto dei 90 F-35 meglio eventualmente fare marcia indietro anche su Cameri, magari dedicando quel gigantesco impianto, se possibile e per quanto possibile, alla costruzione di nuovi Eurofighter.

il Fatto 5.7.14
Il governo tace, il Pd insiste: “Il progetto non si ferma”


NESSUNA REAZIONE da parte del ministro della Difesa Roberta Pinotti sulla decisione degli Stati Uniti di bloccare a terra la flotta degli F-35 dopo aver preso atto della loro insicurezza. La partita dei cacciabombardieri in Italia si gioca dal 2009, quando il Parlamento ha proposto il programma di acquisto di 131 F35 al prezzo di 12,9 miliardi di euro. Nel 2012 l’allora ministro della Difesa Giampaolo Di Paola annuncia di ridimensionare la compera a 30 velivoli. Il numero non è più messo in discussione. Di fronte alle drastiche misure del Pentagono, il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare e presidente della Fondazione Icsa, è convinto che questo episodio non deve pregiudicare la realizzazione degli F-35. Anche il Pd ne è convinto seppur con qualche riserva. “La nostra partecipazione al progetto non è in discussione - ha detto Gianpiero Scanu, capogruppo Pd in Commissione Difesa alla Camera - allo stesso tempo, considero impossibile che si possa procedere all’acquisto anche di un solo aereo senza che ci sia un riconoscimento unanime della sicurezza e della praticabilità di questo strumento”.

Il Sole 5.7.14
F 35
La variabile costi e il rischio che aumentino ancora
di Gianandrea Gaiani


Ennesima battuta d'arresto per l'F-35, il cacciabombardiere messo a punto da Lockheed Martin e destinato ad equipaggiare con oltre 3mila esemplari le forze statunitensi e di un'altra dozzina di Paesi alleati. L'ultimo stop ai voli ordinato dal Pentagono, il quinto in tre anni, è indotto da motivi di sicurezza dopo l'incendio del motore e della parte posteriore di un velivolo durante il decollo sulla base di Eglin il 23 giugno.
Malfunzionamenti e difetti sono normali in tutti i nuovi velivoli e l'F-35 incorpora molte nuove tecnologie che dovrebbero consentire di condurre in modo furtivo attacchi in profondità in territorio nemico mantenendo uno scambio costante di informazioni e dati con altre "piattaforme" (aerei, navi, unità terrestri, satelliti). La messa a terra della flotta è quindi una pratica standard adottata in caso di incidenti anche per velivoli più anziani e meno tecnologici. L'F-35 risulta però particolarmente esposto alle critiche non solo per il suo elevato costo e per i ritardi nella messa a punto che rischiano di ritardarne l'ingresso in servizio e il raggiungimento delle capacità operative, ma soprattutto perché l'aereo è il primo nella storia a venire prodotto in lotti di pre-serie (già oltre un centinaio gli esemplari completati) prima che il suo sviluppo sia completato. Questo significa che gli aerei che escono dalle linee di produzione hanno prestazioni e operatività limitate e dovranno essere aggiornati più volte (con costi aggiuntivi) progressivamente con lo sviluppo del software che gestisce il sistema di combattimento in forte ritardo sui tempi previsti.
Inoltre molti problemi tecnici sono ancora in cerca di una soluzione. L'incidente del 23 giugno è avvenuto appena dieci giorni dopo un altro stop alle attività della flotta di F-35 (dovuto in quel caso alla perdita di olio in volo) ma questa volta le cause potrebbero risultare complesse considerato che il Pentagono ammette che le indagini svolte finora non hanno dato risultati soddisfacenti. Molte le ipotesi possibili, da un difetto di assemblaggio limitato al singolo velivolo coinvolto nell'incendio a problemi di progettazione o difetti in una o più componenti dell'aereo o del motore F-135 (da 29 di milioni di dollari a esemplare) realizzato da Pratt & Whitney in assenza di concorrenza dopo che nel 2012 la Casa Bianca impose la rinuncia allo sviluppo di un motore alternativo progettato da General Electric e Rolls Royce con la significativa partecipazione dell'italiana Avio.
Come ricorda l'esperto Silvio Lora Lamia «l'F-35 ha già registrato problemi alle parti interne dei piani orizzontali di coda, modificate perché col postbruciatore in funzione si carbonizzavano. Anche i circuiti idraulici di raffreddamento hanno presentato diversi problemi mentre la dissipazione del calore prodotto dal motore è essenziale per ridurre la rilevabilità dell'aereo all'infrarosso». Il problema potrebbe quindi inficiare proprio "l'invisibilità", cioè la caratteristica peculiare del velivolo prolungando così i tempi di messa a punto e innalzando i costi complessivi del programma che ricadrebbero anche sui Paesi acquirenti.

Repubblica 5.7.14
Ior-Carige, appalto sospetto al Bambino Gesù
di Marco Preve


GENOVA . La procura di Genova e gli investigatori della finanza vogliono capire se esista un collegamento tra la controversa operazione finanziaria con lo Ior, che cinque anni fa vide la Fondazione Carige “regalare” alla banca vaticana circa 9 milioni di euro, e l’appalto che una società di Flavio Repetto, che della Fondazione era presidente, nello stesso periodo ottenne dall’ospedale Bambino Gesù di Roma, di proprietà del Vaticano.
La vicenda è un filone appena nato nella maxi inchiesta che ha portato in carcere per truffa e riciclaggio l’ex presidente di Banca Carige Giovanni Berneschi e altre cinque persone. In un interrogatorio secretato dai pm Nicola Piacente e Silvio Franz, Berneschi ha fatto rivelazioni su Repetto e l’affaire Ior. La scorsa settimana i finanzieri del nucleo di polizia tributaria hanno sequestrato in Fondazione le carte relative alla vicenda. Tutto inizia nel 2010, quando, per rafforzare Banca Carige, il principale azionista, cioè la Fondazione, lancia un prestito obbligazionario convertibile in azioni. Lo Ior ne sottoscrive per cento milioni, ma l’anno successivo, invece di convertire, abbandona. La Fondazione si riprende le obbligazioni ma senza farsi pagare i diritti d’opzione. Si insospettisce anche il Mef che a dicembre di quest’anno chiede spiegazioni. Intanto gli inquirenti scoprono che proprio nel 2009, cioè quando erano in corso segretamente le trattative tra Carige e Ior, la Generale Ristorazione, società di Flavio Repetto, otteneva un importante appalto per l’installazione di distributori automatici nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù con un contratto di cinque anni (è inscadenza in questi mesi). In cambio Repetto ha dovuto sottoscrivere un’erogazione liberale di 400 mila euro all’anno ai laboratori di ricerca dell’ospedale. Repetto ha spiegato di incassare 600 mila euro all’anno dall’appalto ottenuto con trattativa privata (l’ospedale è del Vaticano).
Nella Fondazione del Bambino Gesù sedevano in quel periodo personaggi di spicco. Al vertice il presidente dell’ospedale Giuseppe Profiti, il genovese scelto dal segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone. Il segretario generale era Marco Simeon, sanremese, altro fedelissimo di Bertone, oggi responsabile Rai in Brasile, che all’epoca era anche nel cda della Fondazione Carige. Sarebbe stato proprio lui, in quegli anni, a ottenere da Repetto due erogazioni insolite per la Fondazione: 100 mila euro per l’acquisto di stole per una riunione romana dei vescovi, e 150 mila euro per i dvd della fiction La Bibbia prodotta dalla Lux Vide di Ettore Bernabei. E nella Fondazione Bambino Gesù cinque anni fa c’erano anche due big del mondo bancario: Corrado Passera e Cesare Geronzi.

Repubblica 5.7.14
Il sindaco Marino “Il teatro Valle deve tornare libero”
Il primo cittadino di Roma: ripristinare la legalità
Gli occupanti: “Niente ipocrisie, mandi la polizia”
di Rodolfo Di Giammarco


LOCALITÀ. È SCONTRO aperto fra il sindaco di Roma Ignazio Marino e gli occupanti del Teatro Valle. A tre anni di distanza dal giugno 2011 che segnò l’inizio della clamorosa occupazione del Valle, Marino ha fatto sapere il modo in cui il Comune di Roma intende risolvere la questione. Ha anzitutto puntato il dito sulla «contraddizione evidente» in cui è vissuto il questi tre anni il Valle Occupato, «che nessuno si è assunto la responsabilità di affrontare », a cominciare dalla giunta Alemanno. «La legalità deve valere per tutti» afferma il sindaco, «in particolare di fronte alle enormi difficoltà che tanti teatri cittadini affrontano quotidianamente per mantenersi in vita». Fin qui le riflessioni, basate sul rapporto sulla questione Valle affidato a cinque “saggi”, da cui Marino vuole partire per una azione concreta.
Azione che consisterà nel «bandire nel più breve tempo possibile una gara di evidenza pubblica d’intesa col Ministero». Ma, e qui sta il passaggio cruciale dell’intervento del sindaco, «serve anche un’assunzione di responsabilità da parte degli occupanti che devono al più presto rendere disponibile la struttura per favorire il processo di rilancio, anche facendo tesoro dell’esperienza fino ad ora maturata». In sostanza, si chiede che il teatro venga sgomberato prima di ogni altra iniziativa.
Naturalmente la reazione degli occupanti del Valle non si è fatta attendere. In una nota firmata collettivamente Valle Occupato, gli animatori del teatro leggono nelle parole del sindaco un «disconoscimento di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo » e definiscono «gaffe clamorosa » l’eventuale «esclusione di moltissimi soci fondatori, artisti e operatori che sostengono questo modello a livello cittadino, nazionale e internazionale ». Ribadiscono infine la volontà di resistere a un eventuale sgombero: «Se il sindaco ritiene questa esperienza talmente priva di legittimità al punto di negare qualsiasi tipo di incontro e interlocuzione, allora, fuori da ogni ipocrisia, si assuma la responsabilità politica di sgomberarla con la forza pubblica».
La netta presa di posizione del sindaco Marino ha finito per dividere la maggioranza che lo sostiene e persino lo stesso partito democratico. Se il capogruppo pd nell’assemblea capitolina, Francesco D’Ausilio, esprime parole di apprezzamento, Stefano Pedica della direzione del pd romano parla di «vergognoso invito a sloggiare »; subito rintuzzato dal vicesegretario dei democratici cittadini, Luciano Nobili. All’attacco di Marino anche il capogruppo di Sel (che sta nella maggioranza che governa Roma) in consiglio comunale, Gianluca Peciola, che chiede il «riconoscimento di progetti di alto valore culturale, sociale e politico come quelli intrapresi in questi anni dal Teatro Valle»

Corriere 5.7.14
Lettera a mio figlio, soldato che vuole andarsene da Israele
di Zeruya Shalev


Mio figlio maggiore si è arruolato nell’esercito tre mesi fa e ieri ha terminato un corso per istruttori di soldati e ufficiali. Quando siamo arrivati alla base allegri, carichi di cibo e bevande, lui ci ha accolti con una faccia scura: «Non si può andare avanti così, se non fossi un militare me ne andrei subito da Israele!».
Ci siamo seduti su una stuoia sotto un albero, nella canicola, col cuore pesante. Ammetto che le sue parole mi hanno ferito. Ho pensato ai miei nonni, arrivati in Israele nei primi anni del ventesimo secolo dalla Russia e dalla Polonia e stabilitisi in uno dei primi kibbutz nella torrida e desolata valle del Giordano. Se non fossero arrivati qui sarebbero morti nella Shoah, come tutti i loro parenti. Ho pensato al primo marito di mia madre, rimasto ucciso durante la guerra d’indipendenza del 1948 nel tentativo di proteggere quel kibbutz e l’intera regione dagli eserciti arabi che avevano invaso Israele. Oggi pochi ricordano che quella guerra scoppiò subito dopo la risoluzione dell’Onu che decretava la partizione del Paese in due stati, Israele e Palestina. Gli israeliani accolsero quella decisione con canti e balli mentre i palestinesi credevano che con l’aiuto degli eserciti arabi questa terra sarebbe rimasta soltanto loro. Il marito di mia madre non fu l’unico a rimanere ucciso. Quasi tutti i suoi compagni di classe trovarono la morte in quel conflitto che si concluse con la disfatta araba e centinaia di migliaia di profughi palestinesi. I loro discendenti pagano ancora il prezzo di quello scontro, e lo paghiamo anche noi.
Ma non era soltanto il cuore a dolermi mentre eravamo seduti nella poca ombra. Era anche il ginocchio, spappolatosi durante un attacco terroristico nel quale sono rimasta ferita 10 anni fa poco lontano da casa mia a Gerusalemme. Avevo accompagnato a scuola mio figlio maggiore (il ragazzo che ha appena terminato il corso per istruttori). Camminavo sul marciapiede quando un autobus è esploso. Un attentatore suicida l’aveva fatto saltare uccidendo 11 persone e ferendone 60. Mio figlio, che allora aveva 8 anni, dopo un’ora era stato informato che sua madre era rimasta ferita e portato in lacrime all’ospedale. Ora è un giovane uomo in uniforme che vorrebbe andarsene via.
«Davvero te ne andresti? — ho ripetuto con dolore — perché?». «Perché qui non c’è speranza — ha risposto —. Hanno ucciso i tre ragazzi rapiti e ora estremisti della nostra parte li vendicano ammazzando un ragazzo palestinese. Quando capiranno che non importa chi ha cominciato, importa chi smette. E siamo noi a dover smettere!». «Hai assolutamente ragione — gli ho detto — ma non possiamo andarcene. Il nostro popolo deve avere uno Stato». «Certo — ha risposto lui — se io me ne vado non è detto che se ne vadano tutti. Quelli di destra rimarranno sempre». «Ma non dobbiamo lasciare il Paese in mano loro — ho ribattuto — Dobbiamo cercare di influenzare le cose dall’interno. Per questo tu e ragazzi come te diventano istruttori». «Forse — ha ammesso lui, nonostante avessi notato che non era convinto — ma non credo che si possa uscire da questo circolo vizioso. Cos’hai portare da mangiare?».
Dopo la cerimonia siamo tornati a casa, a Gerusalemme, avvolti dal fumo degli incendi scoppiati lungo la strada. Viviamo tutti in un campo di rovi, proprio come quelli che ci circondano. Un fiammifero, un falò spento male, intenzionalmente o meno, e tutto prende fuoco in un istante. Come uscire da questa spirale? Guerra e profughi, occupazione e insediamenti, terrorismo e rappresaglie. Che trama crudele, complicata. Con tanti inizi in momenti diversi e che apparentemente avrebbe avuto varie occasioni di giungere a conclusione nel corso degli ultimi 100 anni. Ma ecco che gente nata durante il conflitto è morta senza vederne la fine, per non parlare di coloro che hanno perso la vita. A volte penso di non essermi mai imbattuta in una contraddizione tanto persistente tra il desiderio dei singoli e le azioni della collettività. I singoli, come mio figlio, i suoi amici o i miei amici palestinesi, vogliono la pace delle proprie famiglie, e dunque dell’intera regione. Eppure sembra che la collettività riesca a fonderli in un desiderio contrario, fanatico e violento. In ogni generazione si può attribuire la colpa a questo o a quel personaggio ma ecco che i personaggi cambiano, nuovi colpevoli emergono e nulla cambia. Sembra che una forza potente quanto il fuoco riesca ad annullare i desideri umani e a trascinare le masse in una realtà senza speranza.
Quando siamo arrivati a casa sono corsa a leggere le ultime notizie e una piccola, inattesa luce mi ha illuminato. La madre di Neftali Frenkel, uno dei tre ragazzi rapiti e uccisi, ha condannato l’assassinio del ragazzo palestinese. «Se un ragazzo arabo è stato veramente ammazzato per motivi nazionalisti — ha detto — è una cosa orribile e scioccante. Non c’è differenza tra sangue e sangue. Non c’è giustificazione, espiazione né perdono per un omicidio». Ho pensato che se una madre che ieri ha seppellito il figlio assassinato da terroristi palestinesi può condannare un atto di ritorsione c’è ancora speranza. C’è spirito di carità, c’è grandezza. E se tutti noi, moderati di entrambe le parti, seguissimo l’esempio di questa madre e cercassimo di custodire il nostro piccolo campo, di dividerlo con equità e di allontanare coloro che vorrebbero appiccare il fuoco, infonderemmo speranza nel cuore dei nostri figli. Vorrei tanto sapere come poterlo fare.
(Traduzione di Alessandra Shomroni )

Corriere 5.7.14
Il video del rapimento del ragazzo arabo: avvicinato in strada, portato via in auto
di D. F.


GERUSALEMME — Il video in bianco e nero è stato ripreso dalle telecamere di sicurezza del negozio del padre. Il quotidiano Guardian , che l’ha diffuso, ha chiesto a Bushra, zia di Mohammed Abu Khudair, di commentarlo proprio perché le immagini sono poco chiare. La ricostruzione di Bushra è uguale a quella raccolta tra i testimoni, il filmato fa da supporto.
La dinamica
Un’auto arriva al quartiere palestinese di Shuafat dalla direzione di Pisgat Zeev, colonia israeliana poco distante. Percorre la strada che affianca le rotaie del treno leggero, si ferma e qualcuno da dentro chiede indicazioni. Riparte, compie un’inversione a «U», si avvicina a Mohammed. Due uomini scendono, gli parlano, lo trascinano nella macchina. Che riparte veloce, passa un semaforo con il rosso, corre verso la foresta attorno a Gerusalemme, dove il corpo del ragazzino viene ritrovato carbonizzato. L’autopsia ha rivelato — secondo il Canale 2 della tv israeliana — che Mohammed è morto asfissiato, potrebbe essere stato bruciato vivo.
Le accuse della famiglia
Il padre accusa gli estremisti ebrei, i coloni più violenti, dell’omicidio. Ripete che suo figlio è stato ucciso per vendicare la morte dei tre ragazzi israeliani, rapiti e subito ammazzati il 12 giugno. I loro corpi sono stati ritrovati lunedì sera, Mohammed è stato portato via martedì mattina.
Le ipotesi della polizia
Yitzhak Aaronovitch, ministro per la Sicurezza interna, ribadisce che tutte le piste restano aperte. Gli investigatori hanno provato a capire se dietro all’omicidio potesse esserci una disputa famigliare. La polizia non avrebbe trovato conferme negli interrogatori di parenti e testimoni, così si sta concentrando sull’esecuzione motivata da ragioni politiche. L’imam della moschea di Shuafat nega che si possa trattare di un omicidio per questioni d’onore e spiega che l’ultima lite tra clan risale a 2 anni fa ed è stato lui a risolverla.
I dubbi
Il quotidiano Haaretz fa notare che la modalità non corrisponde alla rivalsa per questioni tra famiglie: «In questi casi l’agguato avviene in pieno giorno, come atto dimostrativo e di solito ha come bersaglio una figura importante del gruppo, non un ragazzino». Il giornale ammette che anche per gli estremisti ebrei si tratterebbe di una escalation rispetto alle scritte anti-arabe o agli attacchi contro le moschee: «Il movente e la tempistica puntano però verso di loro».

La Stampa 5.7.14
Rivolta a Gerusalemme Est per Mohammed
Scontri ai funerali del 17enne ucciso
Niente tregua a Gaza, razzi sul Negev. Netanyahu: Hamas disarmi
di Maurizio Molinari


L’addio. Una selva di braccia accompagna la salma di Mohammed nelle strade del quartiere fra bandiere di Al Fatah e quelle della Jihad Il popolo palestinese si è compattato dietro la figura del giovane ucciso giovedì Altissima la tensione durante e dopo i funerali: scontri, lanci di pietre contro la polizia israeliana. E continui richiami alla vendetta. Una quarantina a fine giornata i feriti

Canti di guerra contro Israele, bandiere della Jihad con quelle di Al Fatah e una bara scoperta come catalizzatore della rabbia palestinese: il funerale del giovane Mohammed Abu Khdeir innesca un giorno di battaglia a Gerusalemme fra manifestanti arabi e polizia israeliana mentre a Gaza le indiscrezioni su una tregua lasciano il posto all’intensificazione delle attività militari.
Sono passate da poco le 14,30 quando un’autombulanza della Mezzaluna Rossa si ferma davanti alla moschea di Shuafat, a Gerusalemme Est, con a bordo la salma di Abu Khdeir, rapito e ucciso giovedì mattina, e il padre Hussein, visibilmente scosso, con le spalle coperte da un drappo palestinese. La salma del 17enne, posata su una barella improvvisata, viene spostata a braccia dalla folla di shabaab, i ragazzi con il volto coperto protagonisti della rivolta contro Israele. «Strilla, madre del martire, tutti i giovani sono tuoi figli» canta la folla, seguitando con «Sacrificheremo i nostri corpi ed anime per il martire» e «Riposa martire, continueremo la battaglia».
Sono motivi di battaglia, guidati da megafoni tenuti dai veterani delle rivolte anti-israeliane, rispecchiando la rabbia per un omicidio attribuito ai «coloni estremisti» residenti negli insediamenti in Cisgiordania. Dopo una sosta dentro la moschea, la salma torna in strada – questa volta dentro una bara scoperta – e viene portata a braccia fino al cimitero, dove il padre Hussein accusa la polizia: «Sanno bene che i killer di mio figlio sono ebrei, hanno le foto e sono le loro facce a confermare che si tratta di ebrei». Vicino a lui il deputato arabo-israeliano Ahmed Tibi, residente nei pressi di Shuafat, rincara la dose: «Mi dispiace dover constatare che per Israele la vita di tre coloni degli insediamenti vale più di quella di un ragazzo palestinese». Ovvero il governo non mette nella ricerca dei killer di Mohammed lo stesso impegno profuso per identificare i rapitori di Naftali Frenkel, Gilad Shaar e Eya Yifrach. Tibi è seduto vicino al carismatico deputato palestinese Mustafa Barghouti. Parlano all’unisono: «Questo omicidio è un risultato del clima di odio anti-arabo che ha accompagnato il rapimento dei tre».
Attorno a loro le bandiere palestinesi sventolano con quelle gialle e nere della Jihad. Per i circa duemila palestinesi che partecipano alle esequie vi sono «cospirazioni» e «menzogne» israeliane da smantellare. Da qui le musiche combattenti di Hamas e gli inni di guerra del Fatah che risuonano lungo il corteo funebre accompagnando gli shaabab a sfidare la polizia con sassi e cassonetti in fiamme. C’è chi grida «I fucili vivono ancora», chi inneggia alla Terza Intifada e chi invoca «vendetta contro Gilo», il quartiere ebraico a Sud di Gerusalemme oltre la linea verde del 1967, spingendosi ad auspicare l’«esplosione delle teste dei sionisti».
Il Fatah riprende il controllo della manifestazione ritmando «Allah u-Akbar» (Dio è grande) mentre scontri si moltiplicano: da Ras El-Amud a Ramallah, da Sakhnin in Galilea fino alla foresta di Ramat Rachel. La polizia israeliana schiera migliaia di ufficiali per riacquistare il possesso delle aree in mano ai dimostranti ma i palestinesi danno battaglia fino al calar della notte ed al termine della giornata sono oltre 40 i feriti ricoverati, metà agenti e metà militanti. Senza contare i danni a Shuafat, dove tutti i simboli della municipalità israeliana sono stati distrutti con rabbia.
Da Gaza a farsi sentire è Hamas, assicura di essere impegnata a siglare un cessate-il-fuoco con Israele grazie ai buoni uffici egiziani, ma Netanyahu affida la smentita militari: «Nessun cedimento, disarmino altrimenti sanno cosa li aspetta». Sono dozzine i razzi che nelle ore seguenti bersagliano il Sud e il premier affida ai jet il compito di «recapitare la risposta», chiedendo agli abitanti del Negev di passare il fine-settimana nei rifugi.

il Fatto 5.7.14
I funerali che sotterrano la pace
Decine di feriti alla cerimonia per il 16enne palestinese ucciso


Dimah e Sumood Abu Khdair sono le cugine di Mohammed, il ragazzino di 16 anni rapito, picchiato e bruciato vivo, molto probabilmente da un gruppo di ebrei oltranzisti, come ritorsione per l'assassinio di 3 giovani coloni israeliani.
Il loro inglese è fluente, corretto e chiaro: “Tutti i giorni noi dobbiamo temere gli attacchi dei coloni, tutte le notti i nostri padri pregano affinché i loro ulivi non vengano bruciati durante le incursioni al buio di questa gente che ci odia e vorrebbe buttarci in una discarica. Voi non sapete quante volte la gente è corsa in aiuto di madri che cercano di proteggere i loro bambini dalle aggressioni dei coloni, mentre stanno andando a scuola. Ci terrorizzano tutti i giorni”. Dimah e Sumood dopo aver rilasciato queste dichiarazioni ai media, sono andate al funerale del cugino. Che si è trasformato in un enorme corteo di rabbia, di frustrazione e dolore, sfociato in violenti scontri con l'esercito, in cui sono rimasti feriti una trentina di giovani palestinesi in kefiah e una decina di agenti.
La maggior parte dei feriti si è registrata a Shufat (il quartiere dove viveva ed è stato rapito Mohammed) che è oltre la “linea verde” dove inizia l'area C dei Territori occupati, quella più vasta e con il più altro numero di colonie considerate illegali dal diritto internazionale.
NONOSTANTE QUESTO le colonie crescono, si allargano causando odio e vendette incrociate. Una marea di odio, di nuovo montante, che non si sa quali danni provocherà. Mentre si sa a cosa porterà un eventuale nuovo lancio di razzi dalla Striscia di Gaza su Sderot e sul resto delle cittadine israeliane del Negev.
Il premier conservatore israeliano Netanyahu, il cui governo pullula di ministri ultranazionalisti - tra i quali il potente ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che vive in una colonia - ha detto che l'omicidio di Mohammed è un crimine spregevole ma non ha detto una parola sulle continue violazioni delle risoluzioni Onu del suo governo. Ha invece ribadito che “se verranno lanciati nuovi razzi, Israele reagirà”.
Colonne di mezzi blindati israeliani sono infatti già arrivate sul confine con la Striscia governata da Hamas, che non vuole controllare, essendone complice, i gruppi jihadisti annidati nella breve e stretta lingua di terra chiamata Striscia di Gaza.
In tutto finora i lanci sono stati 15, nonostante una tregua concordata tra Israele e Hamas, con la mediazione egiziana, che sarebbe dovuta entrare in vigore nella giornata di ieri.
Queste notti non saranno serene, per nessuno. Anche per quegli israeliani che paiono accecati dall’odio e che hanno postato le loro foto sul web con la scritta “Israel doresh nekama”, Israele chiede vendetta, perché vendetta chiama vendetta.

Repubblica 5.7.14
Funerali di rabbia per Mohammed Scontri a Gerusalemme
Spari e sassaiole dopo le esequie del palestinese ucciso
Tensione altissima nel Paese, nuovi lanci di razzi da Gaza
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. Una cappa di rabbia e il dolore è gravata sulla parte araba della Città Santa, con la tensione ha cominciato salire fin dalle prime luci dell’alba per questo primo venerdì di Ramadan, il mese sacro dei musulmani. Ieri pomeriggio nel quartiere di Shuafat, il funerale di Mohammed Abu Khdeir, il giovane rapito e ucciso l’altro giorno in quello che appare come una vendetta per la morte tragica dei tre seminaristi ebrei ritrovati uccisi martedì scorso nei pressi di Hebron. È stato un addio tra spari, lacrime e sassaiole.
La Shuafat Road che da tre giorni è un campo di battaglia è un tappeto di sassi, copertoni bruciati, vetri, bossoli e resti di candelotti lacrimogeni, cassonetti bruciati. La famiglia di Abu Khdeir che abita sulla strada ha montato, come tradizione, una grande tenda fuori casa per coloro che vengono a porgere condoglianze. Sono parenti, conoscenti, vicini di casa, donne, anziani. Gli amici di Mohammed sono fuori, sulla strada e cantano «la nostra anima è pronta, il nostro sangue pure, siamo pronti al sacrificio per la Palestina», e gridano «Allah u Akbar!». Poi il corteo funebre si muove, con il corpo di Mohammed avvolto nella bandiera palestinese e portato a spalla da un gruppo di ragazzi con il volto coperto dalle kefieh. La processione è cominciata poco dopo le preghiere nella moschea, la stessa davanti alla quale Mohammed all’alba di mercoledì è stato rapito, poco lontano, la casa della famiglia, a cui il corpo del ragazzo è stato consegnato solo in mattinata, perché le autorità israeliane hanno detto di aver voluto compire ulteriori accertamenti.
Sventola una bandiera palestinese e si copre il volto con la kefiah Rami, 20 anni, che è venuto qui cantare e piangere il suo amico Mohammed. «Francamente, le mie emozioni non possono essere descritte. Sono felice e triste. Sono felice perché è morto da martire, ma io sono triste perché l’hanno rapito, ucciso e poi lo hanno bruciato». Il corteo si incammina mentre si alzano i fumi dei lacrimogeni, risuonano secchi i colpi di fucile, arrivano le granate stordenti; alle due estremità del viale i ragazzi lanciano pietre ai reparti dell’esercito, si sentono raffiche. A fine giornata quasi ottanta i feriti palestinesi di questa terza giornata di guerriglia urbana, in 72 ore i feriti sono più di trecento. Quindici gli agenti israeliani costretti alle cure in ospedale.
Questo primo venerdì di Ramadan era iniziato fin dal mattino con una tensione altissima. Per evitare vasti assembramenti, la polizia israeliana ha vietato a Gerusalemme l’accesso alla Spianata delle Moschee ai minori di 50 anni, una misura restrittiva che viene presa in momenti particolarmente “caldi”. Lunghe file ai check-point, interminabili controlli. Meno di ottomila fedeli sono riusciti a entrare sulla Spianata, ma migliaia - decine di migliaia - bloccati dal fitto dispositivo di sicurezza, hanno steso il tappeto da preghiera per terra invadendo buona parte delle strade attorno alla Old City. Le prime scaramucce al termine della preghiera, all’uscita della Spianata dove centinaia di agenti formavano un cordone di sicurezza per impedire il dilagare della violenza nel resto della Città vecchia che ieri si presentava deserta e spettrale. Da qui a macchia d’olio gli incidenti, le sassaiole, hanno poi contagiato i quartieri di Wadi Joz, Ras El Amudi e Beit Hanina, contenuti dalle migliaia di agenti e militari mobilitati per questa giornata.
Nonostante i propositi annunciati da Hamas, di non essere interessato a un’escalation nella Striscia e di essere disponibile a una tregua, ieri sono proseguiti i lanci dei missili da Gaza contro le cittadine israeliane circostanti. Sirene d’allarme in funzione e migliaia di abitanti nei rifugi. Una quindicina di razzi sono piovuti in territorio israeliano, due pericolosamente diretti verso centri abitati sono stati intercettati dalla batteria Iron Dome. Puntuali, sono ripresi i raid aerei israeliani di risposta. Un accordo su una possibile tregua sarebbe stato raggiunto grazie alla mediazione dell’Egitto, per questo i generali israeliani hanno dato «ulteriori 24 ore» perché l’accordo sia applicato. Diversamente il premier Netanyahu dovrà cedere ai falchi del suo governo - i ministri Bennett, Ariel, Lieberman - che invece chiedono una vasta operazione militare contro la Striscia. Due divisioni dell’Idf sono state ammassate ai confini della Striscia, basta solo l’ordine di attacco.

Repubblica 5.7.14
Bolivia, la rivoluzione dei baby operai
La singolare battaglia combattuta dai bambini: una legge proteggerà i lavoratori già dai 10 anni d’età
La normativa scritta insieme all’Unicef: “È un modo per contrastare la povertà e offrire garanzie ai ragazzi”
di Paolo G. Brera


TUTTO legale. Il bambino di dieci anni che vende sigarette sul marciapiede di Plaza España, a La Paz, adesso è un lavoratore come tutti gli altri: la Bolivia di Evo Morales ha approvato una legge, ancora in attesa del varo ufficiale, che concede ai bimbi dai dieci anni in su la possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere, mettendosi serenamente alle spalle uno dei tabù più radicati nel mondo occidentale. Ma attenzione: i primi ad applaudire sono proprio i bambini, e la legge è stata scritta niente meno che con il supporto tecnico dell’Unicef.
La nuova normativa riduce da 14 a 10 anni l’età minima per lavorare legalmente, sotto la veste politica di confermare formalmente il limite dei 14 anni per poi concedere “eccezioni” per i bambini più piccoli. Accoglie dunque la richiesta urlata nelle piazze proprio dal sindacato dei minori, preoccupati dalle pressioni per impedire ai bambini di lavorare, pur con limiti e garanzie; un fenomeno largamente diffuso in un paese in cui i minorenni sono il 44 per cento della popolazione. La tentazione di dire che c’è comunque qualcosa di sbagliato, nel permettere di lavorare a bambini di dieci anni che in Italia non possono neppure essere lasciati un quarto d’ora in casa da soli senza meritarsi una condanna per abbandono di minore, si scontra con la realtà di un paese di dieci milioni di abitanti frastagliato in 36 differenti gruppi etnico linguistici. Il 62% degli abitanti si identifica come “indigeno” e secondo i dati dell’Udape, l’Unità di analisi delle politiche socioeconomiche boliviana, metà della popolazione indigena è in condizioni di «povertà estrema».
Le nuova legge, spiegano fonti di Unicef Bolivia che ufficialmente non rilasciano dichiarazioni prima che la normativa sia definitivamente varata, servirà piuttosto a stanare e regolamentare, a proteggere e tutelare accompagnando la Bolivia verso la definitiva abolizione del lavoro minorile «entro i prossimi due anni». Nel frattempo, autorizza i bambini dai dieci anni in su a lavorare sotto il diretto controllo dei genitori e solo in piccoli lavori autonomi. Solo i bambini dai dodici anni in su, invece, potranno lavorare anche per altri ma con alcune tutele come l’orario di lavoro ridotto.
«La nuova legge proteggerà i bambini e gli adolescenti lavoratori perché la giornata lavorativa è di sei ore, e dopo potremo studiare» dice Kevin Yucra, rappresentante del Sindacato dei bambini e bambine della Bolivia (Unatsbo) che lo scorso anno organizzò le proteste a favore del diritto di lavoro per i minori di 14 anni. Le altre due ore, quelle risparmiate, dovranno essere trascorse a scuola, dove molti baby lavoratori non hanno mai messo piede. I bambini, spiega Yucra, potranno cavarsela vendendo dolcetti, facendo la guardia a veicoli posteggiati o aiutando la gente con i sacchetti del supermercato. Intanto, il governo dovrà affrontare la partita più difficile: tutelare i bambini costretti a lavorare nelle miniere e nella raccolta delle noci amazzoniche, mestieri durissimi in condizioni di vita impossibili anche per gli adulti.

Corriere 5.7.14
Durante la 23esima sessione ordinaria dell’Unione Africana
La mossa segreta di 53 leader africani: immunità votata con un’alzata di mano Protezione reciproca da accuse di genocidio o crimini contro l’umanità
di Tomaso Clavarino


Hanno fatto uscire i giornalisti, chiuso le porte e votato. Per che cosa? Per garantirsi l’immunità da alcune delle accuse più gravi previste dalla legislazione internazionale: genocidio, ma anche crimini di guerra e contro l’umanità. L’hanno fatto in silenzio, cercando di nascondere la decisione in un lungo comunicato pieno di parole e irrilevanti informazioni. Cinquantatré capi di Stato e rappresentati dei paesi africani — solo il Botswana ha votato contro — hanno alzato la mano e, in pochi minuti, hanno fatto fare un passo indietro di decenni alla lotta contro l’impunità e le violazioni dei diritti umani in un continente lacerato da conflitti armati e violenze cavalcate con astuzia da molti governi. L’hanno fatto durante la 23esima sessione ordinaria dell’Unione Africana, svoltasi a Malabo, in Guinea Equatoriale, dove a fare gli onori di casa vi era l’eterno presidente di questa piccola ex colonia spagnola, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, in carica dal 1979 e ripetutamente accusato di reprimere nel sangue qualsiasi forma di opposizione.
«I rappresentati dei governi africani avrebbero dovuto solamente adottare un protocollo per rendere operativa finalmente dopo sei anni di stallo la nuova African Court of Justice and Human Rights, nata da una fusione tra l’ African Court of Justice e l’ African Court on Human and People’s Rights, e incaricata di indagare su crimini come il genocidio e la violazione dei diritti umani nel continente africano – spiega Netsanet Belay, direttore di Amnesty International in Africa –. Ma di nascosto, e con un emendamento del quale non si era mai avuta notizia prima, sono riusciti a garantirsi l’immunità». Un’immunità che sarà valida per i capi di Stato e di governo in carica ma anche, in maniera molto generica, per gli alti funzionari governativi. «I leader africani hanno deciso di ripararsi dietro ad uno scudo e di ridurre drasticamente i poteri della nuova corte — continua Netsanet Belay — Una decisione in contraddizione con lo stesso atto costitutivo dell’Unione Africana e con gli obblighi e gli impegni presi dagli stati membri sul tema del rispetto dei diritti umani».
Una decisione tutto sommato in linea con le forti tensioni degli ultimi mesi registrate tra i vertici della stessa Unione Africana e della Corte penale internazionale dell’Aja (Icc), dove due presidenti africani sono indagati, il sudanese Omar Hassan al-Bashir e il kenyano Uhuru Kenyatta, e uno è in custodia in attesa del processo, l’ivoriano Laurent Gbagbo. L’Unione Africana ha infatti attaccato recentemente la Corte accusandola di neocolonialismo e di accanirsi sui leader africani. Il voto andato in scena la scorsa settimana a Malabo, ma del quale non si è saputo nulla fino all’altro ieri, nonostante la sua gravità, pare tuttavia essere più simbolico che altro: se i leader africani non potranno essere indagati dalla African Court of Justice and Human Rights potranno tuttavia continuare ad esserlo da parte della Icc.
Di certo il voto è un promemoria per ricordare che nonostante i passi avanti verso la democrazia fatti da alcuni paesi, l’impunità rimane intrinseca alla cultura politica dell’Africa post-coloniale, e allo stesso tempo potrebbe spingere presidenti come Robert Mugabe in Zimbabwe, da 33 anni al potere, Paul Biya in Camerun, in carica dal 1982 o l’angolano José Eduardo Dos Santos, al vertice del paese dal 1979, a posticipare ulteriormente il loro pensionamento per evitare di incappare in possibili azioni giudiziarie al termine del loro mandato.

Corriere 5.7.14
Usa
Contraccettivi, le tre giudici donne si ribellano ai colleghi maschi
Dura presa di distanza dalla decisione della Corte Suprema
di Paolo Valentino


NEW YORK — C’è tanta scienza giuridica, ma anche una fortissima sensibilità femminile nella furiosa reazione dei tre giudici donna della Corte Suprema degli Stati Uniti davanti all’ennesima sentenza, con cui la maggioranza conservatrice del collegio ha di fatto anteposto le ragioni della fede religiosa ai diritti delle donne. In appena tre giorni, la massima magistratura americana infligge un secondo colpo alla liberta di scelta delle donne americane.
E’ di lunedì scorso infatti la decisione che ha riconosciuto il diritto di un’azienda di proprietà familiare a rifiutare alle dipendenti la copertura delle spese mediche per contraccettivi come la pillola del giorno dopo, in nome delle proprie convinzioni cristiane. Ora, la Corte ha concesso l’identico diritto, sia pure in via provvisoria, a un’università cristiana dell’Illinois, dispensandola dal dover pagare ai suoi studenti le spese per alcune pratiche contraccettive. Di più, ha anche esentato Wheaton College dall’obbligo di riempire un formulario, che di regola garantisce alle studentesse di ottenere comunque dalle assicurazioni una copertura alternativa. Le autorità universitarie avevano argomentato che anche la semplice firma del formulario costituisce una complicità in metodi anti-concezionali, che per loro equivalgono all’aborto.
Per quanto preso d’urgenza e non firmato, quindi privo di effetti giuridici di lungo periodo, l’ordine della Corte ha scatenato le ire di Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Ruth Bader Ginsburg, le justice di ispirazione progressista. E’ stata Sotomayor a farsi portavoce di un dissenso, che raramente è stato espresso in termini così duri. La giudice ha accusato i suoi colleghi di contraddirsi e di non essere affidabili, visto che nella sentenza di lunedì, quella che ha accolto le obiezioni del gruppo dell’Oklahoma Hobby Lobby, la maggioranza conservatrice aveva limitato la portata della decisione alle aziende a fini di profitto, riconfermando per quelle no profit la formula che fin qui ha permesso a università o altre istituzioni di rifiutare le coperture, per motivi religiosi, ma ha consentito agli studenti di ottenerle comunque grazie al formulario.
«Coloro che devono rispettare le nostre decisioni sanno che di regola si possono fidare della nostra parola. Oggi non è così. Questa decisione mina la fiducia delle persone nella Corte Suprema» ha detto Sotomayor, prima ispanica a sedere fra i 9 giudici costituzionali, nominata da Obama nel 2010.
Sotomayor e le sue colleghe non contestano la «sincerità delle convinzioni religiose di Wheaton College», secondo cui firmare il formulario equivale a una forma di complicità. Ma obiettano che «il semplice fatto di pensare che la propria fede sia sostanzialmente minacciata, non significa che lo sia davvero». L’ordine della Corte, così Sotomayor, «non fa altro che aggiungere inutili costi e complicazioni burocratiche» e ignora una verità molto semplice: «Il governo deve poter gestire le funzioni di base della pubblica amministrazione in un modo che rispetti il buon senso». Di fatto, osservano le giudici dissenzienti, sarà quasi impossibile per le studentesse avere l’assistenza medica gratuita perfino nel caso dell’inserimento di una spirale. Tanto più che l’ordine difficilmente si limiterà a Wheaton College, ma «spingerà centinaia di migliaia di altri obiettori a invocare le stesse esenzioni».

Corriere 5.7.14
Corte suprema, il genere che conta
di Viviana Mazza


La reazione delle tre giudici donne della Corte suprema degli Stati Uniti — Ruth Bader Ginsburg, Elena Kagan e Sonia Sotomayor, affiancate da Stephen Breyer — è stata durissima, dopo che, lunedì scorso, cinque loro colleghi della massima magistratura americana hanno privilegiato la libertà di religione di alcune corporation a conduzione familiare ai diritti riproduttivi delle donne. E le tre giudici sono tornate a criticare la Corte ieri per aver dispensato un’università cristiana dell’Illinois dall’obbligo di riempire un formulario, che consente alle studentesse di ottenere i contraccettivi altrove (perché l’ateneo è stato esentato).
Si tratta di sentenze che chiaramente fotografano la spaccatura tra conservatori e progressisti nella Corte suprema. Ma non solo: hanno anche fatto emergere una posizione di genere. Sin dallo scorso marzo, quando il «caso di Hobby Lobby» (il nome di una delle tre aziende coinvolte) fu discusso per la prima volta, è stato grazie alle tre giudici donne (sui nove membri) che la Corte, che stava prendendo in considerazione soprattutto le preoccupazioni religiose dei datori di lavoro, ha iniziato a dare maggior peso alla conseguenze per le dipendenti. Alcuni commentatori, inclusa la rivista New Yorker , le hanno elogiate perché sono state loro a soffermarsi in particolare sui diritti riproduttivi delle donne.
Le tre giudici in questione sono state nominate da Bill Clinton e Barack Obama, due presidenti democratici. Da Hillary Clinton a Nancy Pelosi, molte politiche democratiche stanno ora citando le recenti decisioni della Corte suprema, contribuendo alla percezione che i diritti riproduttivi delle donne siano sotto attacco da parte dei conservatori, un tema già usato nell’ultima campagna elettorale da Obama e che ora torna in vista delle prossime elezioni di mid-term. Il Wall Street Journal l’ha chiamata una guerra «creata ad arte». Certo, sarebbe stato interessante ascoltare l’opinione di una giudice donna conservatrice nella Corte suprema: ma al momento non c’è. Questo, dunque, dovrebbe essere un invito al prossimo presidente repubblicano a nominarne una.
Non basta, infatti, quello che nei mesi scorsi ha fatto Hobby Lobby, avviando una potente campagna di pubbliche relazioni per acquisire un’immagine più «femminile», mostrando in tv non il patriarca cristiano evangelico ma le donne della famiglia. Queste immagini non cancellano il fatto che le scelte riproduttive non sembrano affatto essere al centro della sentenza della Corte: il rapporto di maggioranza, redatto dal giudice Samuel Alito, arriva alla conclusione che le aziende possano evitare di pagare per la pillola del giorno dopo e le spirali intrauterine (in quanto possono interferire dopo che l’ovulo è stato fecondato, il che per loro è una forma di aborto) — e arriva a questa conclusione sui diritti riproduttivi usando la parola «donne» solo 13 volte in 49 pagine. La parola «donne» appare invece 43 volte nell’opinione dissenziente di Ruth Bader Ginsberg, che in 35 pagine ha analizzato l’impatto della sentenza sulla loro salute, in termini di costi sociali, finanziari e familiari, citando le storiche parole di Sandra Day O’Connor, prima donna nella Corte suprema: «L’abilità delle donne di partecipare equamente nella vita economica e sociale della nazione è stata facilitata dalla loro abilità di controllare le proprie vite riproduttive».
Il fatto che si tratti di una posizione di genere non significa che non possa essere approvata da uomini, come ha fatto il giudice progressista Stephen Breyer. Né una posizione di genere e «liberal» preclude differenze di opinione al proprio interno: mentre Ginsburg mette in discussione tout court il diritto delle corporation a fare appello alla libertà religiosa (ritenendolo esclusivo degli individui), non la seguono in questo Elena Kagan e Stephen Breyer.
Né, infine, l’importanza dei diritti delle donne deve impedire di vedere le altre questioni sollevate dalla sentenza di Hobby Lobby. Sono molto preoccupati, per esempio, gli attivisti per i diritti «LGBT» (lesbiche, gay, bisessuali e transgender): dopo le nozze gay, una loro priorità è la fine delle discriminazioni sul luogo di lavoro, e temono che sulla base della libertà religiosa possano incontrare nuovi ostacoli.

Corriere 5.7.14
L’America proibizionista dall’alcool alla marijuana
risponde Sergio Romano


Ho letto che negli Stati Uniti la tradizione proibizionista sta sparendo. Si diffonde l’uso della marijuana: è stata legalizzata negli stati di Washington e del Colorado e anche in altri stati l’uso viene depenalizzato. Mi ricollego al proibizionismo delle bevande alcooliche che imperversò agli inizi del secolo scorso fino a che si ritenne opportuno demordere. Che cosa c’è alle origini del proibizionismo? Motivazioni religiose o morali? L’abbandono di esso è un segno di lassismo o di realismo?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
I pellegrini che sbarcarono sulle coste orientali dell’America del Nord nel corso del XVII secolo erano quaccheri, una variante inglese del calvinismo puritano. Ma portavano con sé, nella cambusa delle loro navi, qualche barile di vino e birra, e si dedicarono alla coltivazione della vite e alla fermentazione del luppolo sin dai loro primi insediamenti. Erano profondamente religiosi, ma non pensavano che un bicchiere di vino o di birra violasse le leggi divine. I movimenti contro le bevande alcoliche fecero la loro apparizione nell’America degli inizi dell’Ottocento e si diffusero soprattutto negli ambienti evangelici. Da allora il Cristianesimo americano è diviso in due grandi gruppi. Mentre i cattolici, i luterani, i cristiano-ortodossi e qualche setta minore predicano la moderazione, i battisti, i metodisti, i pentecostali, i presbiteriani e l’Esercito della Salvezza si battono per l’astinenza e sostengono che soltanto così i fedeli possono preparare se stessi alla seconda venuta del Cristo.
Le motivazioni dei proibizionisti furono dunque anzitutto religiose, ma anche sociali. Come il gin nell’Inghilterra del Settecento, così il whisky e la birra (le bevande preferite degli americani) divennero un veleno sociale: violenze in famiglia, risse nei bar e nelle strade, incidenti sul lavoro, operai licenziati perché spesso ubriachi. Nacquero così le potenti associazioni femminili che sono all’origine del diciottesimo emendamento con cui il Congresso, nel 1919, proibì lo spaccio e il consumo di alcol sull’intero territorio federale.
Bastarono pochi anni perché l’America s’accorgesse che la proibizione delle bevande alcoliche poteva provocare guasti sociali (contrabbando, spacci clandestini, criminalità organizzata) non meno gravi dell’alcolismo. Il diciottesimo emendamento fu revocato nel 1933 dal ventunesimo, ma il Congresso lasciò ai singoli Stati il diritto di legiferare autonomamente. Oggi esistono contee «dry» (asciutte) soprattutto in Oklahoma, Arkansas, Mississippi e Kentucky.
La legislazione americana sulla marijuana, invece, appartiene alla storia di un’altra America: quella libertaria e prevalentemente laica che non smette di battersi contro le interferenze dello Stato nella vita dei cittadini. Il Congresso ne ha preso nota e ha introdotto una legge che consente ai singoli Stati di depenalizzare la marijuana per uso terapeutico e ricreativo purché vengano adottate contemporaneamente precise regole sulla coltivazione del cannabis. Come lei ricorda, si sono valsi di questa norma, per ora, soltanto gli Stati dell’Oregon e di Washington. La California ne ha autorizzato l’uso terapeutico.

La Stampa 5.7.14
Gli ufo avvistati negli anni ’50?
La Cia ammette: “Eravamo noi”
Rivelazione dell’agenzia statunitense su Twitter: erano aerei spia U-2
A 40.000 piedi riflettevano la luce del sole e sembravano dischi volanti

qui

La Stampa 5.7.14
Usa, lascia il figlio morire in auto
Ora rischia la pena di morte
di E. St.


Parigi. Si pensava a una tragica «dimenticanza». Ma il terribile sospetto è che il piccolo Cooper, 22 mesi, morto per essere stato abbandonato per sette ore in auto sotto il sole, sia stato ucciso dal padre, arrestato e finito sotto processo. Sono gli sviluppi scioccanti delle indagini condotte in Georgia, Stati Uniti, su Justin Ross Harris, 33 anni, accusato di omicidio e di crudeltà verso minori. Un’incriminazione che potrebbe costargli molto cara, fino alla pena di morte.
Secondo l’accusa Harris è un marito infedele che voleva una vita senza figli. E dalle indagini è emerso come, mentre era al lavoro, abbia mandato messaggini a sfondo sessuale a sei donne contemporaneamente, proprio nelle ore in cui si stava consumando la tragedia del piccolo Cooper.
Secondo i dettagli rilasciati dalla polizia, a insospettire gli investigatori sono state alcune ricerche effettuate dall’uomo su Internet pochi giorni prima della morte del bimbo: Harris avrebbe visitato una pagina web chiamata «child free», senza figli, e cercato informazioni su come sopravvivere in carcere. Inoltre, sia lui che la moglie, Leanna Harris, avrebbero cercato altre informazioni sul livello di calore che deve raggiungere l’abitacolo di una vettura per provocare la morte di un bambino.

Corriere 5.7.14
Sesso, medicine e videotape: Pechino accusa i manager inglesi
di Guido Santevecchi


PECHINO — È una storia da film: «sex and drugs and videotape». Dietro ci sono affari per miliardi di sterline e la battaglia politica in corso a Pechino.
La casa farmaceutica britannica GlaxoSmithKline è sotto accusa in Cina: avrebbe pagato tangenti sotto forma di pacchetti viaggio (con accompagnamento di prostitute) a funzionari della sanità e medici locali per vendere le sue medicine. Il sistema di corruzione è grosso: la multinazionale britannica avrebbe trasferito circa mezzo miliardo di dollari a 700 agenzie di viaggio in Cina per creare i fondi neri da usare per le bustarelle.
Tutto è cominciato a marzo dell’anno scorso, quando al top management di GSK a Londra sono arrivate strane e-mail dal messaggio ricattatorio. C’era anche un video a sfondo sessuale girato in segreto nella camera da letto del capo delle operazioni in Cina, mister Mark Reilly, ripreso nel suo appartamento di Shanghai con la fidanzata cinese. Fu assunto un investigatore privato, un altro inglese con base a Shanghai, Peter Humphrey, ex giornalista con vent’anni di esperienza in Cina: dal 2003 era a capo di un’agenzia di indagini anti-frode e di risk management per aziende internazionali.
La scorsa estate Humphrey fu arrestato insieme alla moglie, cinese naturalizzata americana. Poco dopo l’investigatore comparve in un servizio televisivo, vestito con la casacca arancione dei carcerati e con le manette ai polsi: confessò di aver raccolto dossier su migliaia di persone e si scusò, in una coreografia che ricordava da vicino i sistemi di autocritica forzata diventati famosi ai tempi della Rivoluzione culturale.
Per un anno, Humphrey e la moglie sono scomparsi in una prigione cinese. Ora si è saputo che saranno processati ad agosto in segreto «per motivi di privacy».
Ma dalla cella il detective ha lanciato un messaggio inquietante: «Quelli della Glaxo mi hanno ingannato, mi dissero solo di scoprire chi avesse fatto piazzare la telecamera nella camera da letto del loro top manager, non mi parlarono dell’inchiesta per corruzione a loro carico. Quando finalmente ho visto tutte le e-mail, ho capito che le accuse di corruzione erano credibili».
La sensazione è che l’investigatore sia finito in mezzo a una guerra commerciale e politica. Il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato una crociata anti-corruzione che ha spedito in carcere migliaia di funzionari governativi e del partito. Una campagna di moralizzazione che secondo i politologi serve anche a liberarsi degli avversari e a consolidare il potere assoluto. La GlaxoSmithKline, che probabilmente ha pagato tangenti per vendere i suoi prodotti, è finita sotto inchiesta.
Ora da Londra dicono che al vertice non sapevano: in Cina Mark Reilly (ora sospeso) era a capo di un’organizzazione con ottomila dipendenti locali ma non parlava cinese. Ed era «sotto pressione per raggiungere obiettivi di vendita stellari». Ma chi lo ha incastrato con quel video?

Repubblica 5.7.14
L’insostenibile pesantezza della solitudine
meglio l’elettroshock che meditare
di Enrico Franceschini


LONDRA. Meglio soli che male accompagnati, recita il noto detto. Ma un esperimento scientifico rivela che l’uomo (o la donna) non sa stare da solo con se stesso: privati di lavoro, passatempi, attività domestiche o ludiche, distrazioni tecnologiche e digitali, oltre che della compagnia dei nostri simili, non sappiamo come passare il tempo. Anzi, siamo talmente terrorizzati dal cosiddetto dolce far niente, dall’idea di doverci ritrovare soli con i nostri pensieri, che piuttosto preferiamo sottoporci a piccole torture, come per esempio autoinfliggerci scariche elettriche, tanto per ingannare la noia e il tedio esistenziale. L’insostenibile pesantezza della solitudine, parafrasando il titolo del celebre romanzo di Kundera, sarebbe dunque l’autentico male della nostra era. E forse, insinua la ricerca, di qualunque epoca - della natura umana attraverso i secoli.
Quando gli scienziati dell’University of Virginia hanno lanciato il loro test, si aspettavano risultati diversi se non opposti: nella frenesia della vita moderna non era forse logico attendersi che ognuno di noi morisse dalla voglia di una pausa, un momento per godere di se stessi, per riflettere, fantasticare, al limite riposare? A quanto sembra la risposta è no. Un gruppo di volontari, privati di telefonini e altre apparecchiature, sono stati lasciati soli in una stanza scarsamente arredata per un periodo neanche troppo lungo, da 6 a 15 minuti, con la consegna di intrattenersi da sé, magari provando a immaginare un’attività piacevole, tipo passeggiare. Richiesti di esprimere un voto sull’esperienza, la media ha risposto “così così” (un giudizio di 4,5 su una scala da 1 a 9) e metà hanno valutato la prova in modo decisamente negativo. Il medesimo esperimento, ripetuto a casa da persone di età variabile, ha dato in pratica gli stessi risultati, con la differenza che metà dei partecipanti hanno ammesso di avere sgarrato, facendo cose come controllare i messaggi sul cellulare, scrivere o almeno scarabocchiare. E il risultato più sorprendente è stato che, in una stanza dove l’unica distrazione era sottoporsi a una modesta scarica elettrica, un numero considerevole (12 uomini su 18 e 6 donne su 24) ha preferito lo shock elettrico. Spingendo i ricercatori a ipotizzare che anche prendere la scossa era meglio che annoiarsi a far nulla.
«Penso che molti di loro abbiano scelto la scarica elettrica tanto per fare qualcosa, per scuotersi dal tedio», commenta Timothy Wilson, docente di psicologia e curatore dell’esperimento pubblicato su Science. «È il segno di quanto sia difficile restare soli con i propri pensieri. Non è una cosa che molta gente considera piacevole». È strano, osserva lo scienziato, perché non dovrebbe essere così arduo intrattenere se stessi con l’immaginazione: «Tutti abbiamo fantasie che ci attirano e bei ricordi. Ma probabilmente è questione di controllo del pensiero. La mente umana è fatta per essere coinvolta e impegnata dal mondo esterno e se non le dai niente è faticoso organizzare a lungo i propri pensieri». Il flusso di coscienza magari ci prende mentre stiamo lavorando o facendo jogging o prendendo l’autobus, ma quando siamo soli e non abbiamo stimoli si blocca. Potrebbe apparire un fenomeno tipico della rivoluzione digitale, in cui fra email, sms e social network, tra telefonini, computer e tablet, non siamo mai veramente soli con noi stessi. Tuttavia, affermano gli studiosi, ci sono testimonianze storiche che anche nell’antichità, dall’era romana al medio evo, esistevano lamentele che l’uomo non dedicava abbastanza tempo alla contemplazione. «È una scoperta deludente sulla natura umana», commenta Jonathan Schooler, uno psicologo della University of California. Morale della storia: meditate, gente, meditate. Ovvero imparate l’orientale arte della meditazione e scoprite che la solitudine può non essere un peso insostenibile, bensì una necessità della vita.

Repubblica 5.7.14
Luigi Cancrini
Lo psichiatra “È la fragilità a far scegliere la sofferenza”
intervista di Alessandra Baduel


«SE metti una persona in una stanza a provare un’esperienza inusuale che non ha deciso lei, mi sembra normale che non la trovi piacevole». Lo psichiatra Luigi Cancrini non si sorprende dei risultati dell’esperimento sulla solitudine. Si limita a valutare come «persone con una soglia bassa dell’inquietudine, che mostrano una fragilità» tutti coloro che hanno preferito spingere il bottone della lieve scossa elettrica. Ma per prima cosa pensa a Gogol.
Professore, gli sperimentatori si dicono sconcertati dei risultati.
«Nelle Anime morte di Gogol il protagonista, il Consigliere di Collegio Pavel Ivanovic Cicikov, a un certo punto si trova nella sua camera d’albergo con le valigie chiuse e nulla da fare. Deve aspettare. Poco, ma deve. E si sente preso da un grande disagio: perso. I volontari di questi esperimenti mi sembrano essere stati messi nelle stesse condizioni».
L’ipotesi invece era che in una vita piena di cose da fare una pausa fosse vissuta come positiva.
«Ciò che disorienta le persone è la discontinuità dell’esperienza. Dopo i suoni, il silenzio. Dopo il caldo, il freddo. Nella vita attuale, l’assenza di attività e contatti è un’importante discontinuità. Potrebbe diventare attraente solo provandola più volte, solo quando sarà un’abitudine. Allora ci si potrà affidare e provare anche piacere».
Ma la meditazione, la contemplazione, non hanno un loro spazio anche nel mondo attuale?
«Certo che lo hanno, ma quella è prima di tutto una scelta, non una richiesta esterna. Poi sappiamo che chi medita fa qualcosa di molto intenso, consuma persino glucosio. Infine, ha uno scopo da raggiungere: provare certe percezioni interne. Nulla a che vedere con questi esperimenti».

Corriere 5.7.14
Le atmosfere di Conrad
Il carisma del capitano nella «casa» che nasconde il bene e il male
di Giorgio Montefoschi


Il mare, secondo Conrad, comincia alla foce del Tamigi. «Nulla di più facile – scrive all’inizio di Cuore di tenebra — per un uomo che abbia, come suol dirsi, seguito il mare con reverenza e affetto, che rievocare il grande spirito del passato nel corso inferiore del Tamigi. «È dal suo vasto estuario che sono partiti Sir Francis Drake e Sir John Franklin: i grandi cavalieri erranti del mare». È da lì, da quelle acque ferme che sono salpate le grandi navi che avrebbero doppiato il Capo di Buona Speranza e raggiunto l’Oriente, i cui nomi, famosi, «sono come gemme sfolgoranti nella notte dei tempi», trasportando avventurieri e coloni, uomini di spada e cacciatori d’oro. È nella corrente silenziosa di quella marea che sale e scende che, dopo anni, tornano gli ammiragli coperti di gloria, i capitani, i marinai bruciati dal sole e dal vento che hanno resistito alle tempeste.
Quando il veliero è fermo, la sua stiva carica di merci è vuota, l’equipaggio si è disperso, l’oscurità è rotta dalle luci lontane della città e da quella delle candele, è il momento del racconto e, nella sala centrale della nave ben ancorata alla terra, irrompe l’inquieta nostalgia del mare. Attorno a un tavolo di mogano così lucido da riflettere la bottiglia del chiaretto (lucido come tutti i legni della barca, i vetri, l’ottone), siedono, con i visi appoggiati ai gomiti, il direttore della compagnia di navigazione, il ragioniere che ha dato l’ultima paga ai marinai, un capitano che ha avuto molte avventure, ha conosciuto la violenza dei tifoni e la calma mortale delle bonacce, ha domato le ribellioni della ciurma.
La nave è un lembo di terra sperduto nella immensità della Creazione, un rifugio accogliente e sicuro, una trappola. Custodisce, nella profondità suoi meandri, il bene e il male. Di notte, l’unico punto luminoso è dato dalle luci della chiesuola che illuminano da sotto in su le facce degli uomini che si alternano al timone. Gli uomini sono sfiniti dalla fatica e dai turni di guardia. Nella sua cabina, il capitano si riempie la pipa; sale in coperta; raggiunge gli uomini che sono al timone; su una carta nautica fissata a un tavolino con delle puntine controlla la rotta; quindi comanda il nuovo turno. Finché, verso le quattro del mattino, comincia a brillare il fuoco nella cucina. È il cuoco che sta preparando il caffè per l’equipaggio. Allora il capitano beve il caffè e si concede un paio d’ore di sonno.
Il capitano, durante la navigazione, è il padrone della nave. Un padrone assoluto, onnipotente. I suoi ufficiali possono odiarlo o amarlo, ma tutti conoscono la fragilità di questo potere, il rischio che si assume. Quando nella sala da pranzo attendono di essere serviti, tutti i loro occhi intenti si fissano sul coltello del vecchio capitano taciturno e scontroso mentre taglia il suo pezzo di carne nel piatto grande. Poi il capitano serve il primo ufficiale, il secondo, l’ultimo ufficiale. E ciascuno, nella sala da pranzo simile a una sala da pranzo cittadina, riceve la sua porzione di carne come una elemosina o un dono.

il Fatto 5.7.14
Nota di merito
Il Piano che salva il Paesaggio
Non solo vincoli. La Regione Toscana ha “fotografato” l’intero territorio, producendo carte dettagliate, schede, elenchi di beni naturali e archeologici
di Tomaso Montanari


Nel 2010 il libro Paesaggio, Costituzione, cemento di Salvatore Settis si chiudeva arrischiando una profezia: “I segnali molto positivi che vengono dalla nuova amministrazione regionale toscana, per bocca del presidente Enrico Rossi e dell’assessore Anna Marson, sono molto incoraggianti: forse questa regione così ricca di civiltà e di meriti potrà segnare una svolta”. Quattro anni dopo si può dire che Rossi e Marson non hanno tradito questa aspettativa: da martedì scorso la Toscana ha un Piano Paesaggistico Regionale, il primo redatto insieme al ministero per i Beni culturali.
MA CHE COS’È un Piano Paesaggistico? È un lavoro enorme (a quello toscano ha lavorato un centinaio di tecnici) che innanzitutto “fotografa” l’intero territorio regionale, in tutta la sua complessità di geomorfologia ed ecosistemi, sistemi agrari, produttivi e urbanistici. Dopo il Piano, l’evanescente definizione di “paesaggio toscano” non coincide più con la collinetta coronata da cipressi, ma si traduce in una montagna di carte dettagliate, schede, elenchi di beni naturali, paesaggistici, archeologici. Ora sappiamo esattamente cosa vogliamo difendere, e cosa, e come, possiamo usare. Già, perché un Piano è esattamente il contrario di un vincolo: quest’ultimo strumento (prezioso, ma limitato) mi dice quello che non posso fare in un certo posto, mentre il Piano dice come, dove e quanto la Toscana vuole continuare a crescere.
A crescere in modo uniforme e (appunto) pianificato: evitando la balcanizzazione del territorio dovuta al moltiplicarsi e all’intrecciarsi delle competenze. E, soprattutto, a crescere in modo sostenibile: tenendo ben presente che “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi, deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie” (così una sentenza del Consiglio di Stato del 29 aprile scorso).
L’approvazione del Piano toscano ha una forte valenza politica nazionale. In un momento in cui Matteo Renzi dice che le regole e le soprintendenze sono un intralcio allo sviluppo (leggi: al cemento), è fondamentale far capire che dall’altra parte non ci sono solo i “no” dei vincoli: ma c’è anche la capacità di una comunità di decidere come trasformare il proprio territorio in modo responsabile e unitario. Come dire: non ci sono solo gangster e sceriffi, c’è spazio anche per un progetto di crescita condivisa. Come ha scritto Enrico Rossi (nel suo Viaggio in Toscana, in uscita presso Donzelli) “il Piano offre una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui esso è continuamente oggetto”.
Certo, nel Piano ci sono anche rigorose prescrizioni: come, per esempio, quelle che dicono dove non si potranno collocare impianti eolici o centrali elettriche a biomasse. Per capirsi: se il Molise si fosse dato un simile Piano, il suo territorio e la sua archeologia non sarebbero state massacrate da un eolico selvaggio che solo gli sforzi eroici del Direttore regionale del Mibac Gino Famiglietti stanno ora arginando. E se lo avesse fatto l’Emilia Romagna, non rischieremmo di perdere definitivamente il Palazzo San Giacomo a Russi, minacciato da una centrale a biomasse.
NEI GIORNI precedenti all’approvazione la discussione si è accesa soprattutto sul futuro delle cave delle Apuane. Ma nonostante le minacce e gli insulti della lobby del marmo, la Giunta ha sostanzialmente tenuto. Le associazioni ambientaliste hanno ragione a lamentare alcuni gravi cedimenti, ma ora le vette sopra i 1200 metri saranno finalmente salve, alcune cave saranno chiuse, e non sarà più possibile aprirne nei territori vergini del Parco delle Apuane. E soprattutto ogni futura decisione sull’apertura di nuove cave dovrà passare attraverso un percorso decisionale aperto ai cittadini: insomma, il Piano dà ottimi strumenti alla resistenza di chi si oppone al genocidio delle montagne del marmo.
Il merito principale va alla competenza e alla tenacia della mite e preparatissima Anna Marson, ordinaria di Pianificazione territoriale allo Iuav di Venezia e assessore alla Pianificazione: il suo lavoro dimostra che il rapporto tra sapere scientifico e amministrazione pubblica non deve per forza ridursi alle complici consulenze del Mose o dell’Expo. Il successo politico, invece, è di Enrico Rossi: se troverà il coraggio di riunire e rappresentare l'anima di sinistra che ancora sopravvive nel Partito democratico, avrà nel Piano Paesaggistico il suo miglior biglietto da visita.

Corriere 5.7.14
Housing sociale
Il condominio diffuso e una casa vera per mettere su famiglia
di Stefano Landi


Ragazzi di ogni età giocano in cortile con un pallone spelacchiato. Tutt’intorno, come fossero gradinate di uno stadio popolare, otto palazzine grigio Berlino Est sono solo un contorno architettonico. Dentro erano vuote, tristi: abbandonate. Ex case Aler di un’ottantina di metri quadri.
Sogno proibito di giovani coppie cresciute, murate in un limbo anonimo, sentendosi ripetere che erano troppo ricchi per aver diritto a una casa popolare e troppo poveri per averne una in edilizia privata. E intanto sono diventati grandi, senza riuscire a scappare da quella stanza nella casa dei genitori. Chi ce l’ha fatta ha rimandato l’idea di famiglia dopo una guerra persa per ottenere il mutuo. Per questo la prima volta che hanno sentito parlare di abit@giovani (abitagiovani.it) hanno pensato a uno scherzo. Poi però si sono presentati in massa, come a un grande raduno rock generazionale, nelle stanze del palazzo della Regione Lombardia dove si presentava il progetto. Sembrava un corteo: sono serviti quattro turni per raccontare a tutti l’opportunità. Oggi sono 100 i contratti firmati e gli appartamenti consegnati, altri 50 lo saranno entro fine anno.
L’idea di un condominio diffuso abitato da single e coppie che hanno massimo 70 anni in due. Per ritrovare antichi gesti come dare un colpo di campanello al vicino di casa senza considerarlo un nemico o, nell’ipotesi migliore, uno sconosciuto. L’idea è venuta a don Gino Rigoldi, due anni fa, quando Benedetto XVI passò a Milano per la giornata della famiglia. «Potevo preparare grandi discorsi, ma qualunque concetto di famiglia senza una casa sarebbe stato una chiacchiera. Una società non può accettare che una coppia rinunci a sposarsi o ad avere figli» racconta. La soluzione è stata l’housing sociale: Aler risparmia un costo dando un futuro a chi pensava di essere condannato a non meritarselo. Al bando si accede con un clic, dimostrando un reddito minimo, ma anche un massimo per garantire di poterla mantenere nel tempo. Le prime case hanno iniziato ad essere abitate a Natale. Con la formula dell’affitto con patto di futura vendita, giovani coppie con meno di 500 euro al mese stanno costruendo il futuro acquisto con una cifra con cui a Milano di solito si paga un posto macchina. A molti è bastato il passaparola.
«A 28 anni temevo non avrei mai potuto avere una casa» racconta Andrea Menchicchi, che con la compagna Susi Zampone e la piccola bambina vive già il cortile come fosse un parco giochi. I più felici sono gli anziani residenti, quasi frastornati dall’improvviso ricambio generazionale, dopo anni di immobilismo condominiale. I ragazzi vengono accolti in maniera trionfale, per questa ventata di ottimismo ritrovato. Ha due bambini Caterina Posterino, 36 anni, che ha trovato la sua casa formato famiglia in zona San Siro, con il compagno Naby, che suona lo xilofono africano. «Tra bambini e strumenti musicali avevamo disperato bisogno di spazi» racconta lei che insegna matematica in una scuola elementare. All’ordine del giorno del colloquio per l’assegnazione della casa c’è il tema della partecipazione. Non si tratta di andare a convivere con sconosciuti, ma di condividere un futuro fatto di spazi comuni, spese, responsabilità. «Noi semi- niamo in modo che questa rete sia sempre più fitta e tutti ne possano beneficiare» spiega Marco Gerevini di Fondazione Housing Sociale. Così è nata una grande convivenza a distanza. «Per comprare gli arredi abbiamo formato un gruppo d’acquisto per ottenere prezzi più vantaggiosi. Dopo aver fatto mulinare idee sui social network ci siamo trovati, l’esperimento ha funzionato» racconta Marco Neri che ha 34 anni e con la compagna Ilaria Biamonti ha sistemato la sua nuova casa con tanto di orto sul terrazzo. Felice di poter incrociare la sua esperienza di architetto con quella del team di Polaris che cura le ristrutturazioni. Perché alla base del progetto c’è l’opportunità di decidere insieme come abitarle. In tre incontri con architetti che sfogliando il catalogo delle soluzioni decidono con i ragazzi forme e materiali. Poi ci si ritrova, per pranzi e aperitivi, per costruire una comunità che vada oltre il cielo di quelle stanze. La casa non è solo una planimetria ma un percorso. Un quartiere alla volta, il progetto si sta mangiando la città che si stava bevendo una generazione. La fame di case ha portato a riqualificare senza aggiungere cemento. In futuro c’è la volontà di crescere prendendosi interi condomini, in modo da valorizzarne al massimo i cortili, gli spazi comuni.
«Sembrava impossibile, invece sta succedendo» scherza don Rigoldi.

Corriere 5.7.14
Le donne classe «Alfa» preferiscono i maschi Beta


Voglio un maschio Beta. Sensibile, collaborativo, responsabile. Uno che non si senta minacciato se la compagna guadagna 50 euro più di lui, che non veda la propria virilità rimpicciolita se gli metti in mano un Mocio. Il maschio Beta è il Paradiso, la risposta a (quasi) ogni domanda. È la tesi di The Alpha Woman Meets Her Match (La donna Alfa trova l’anima gemella — dove «match» è anche «uno alla sua altezza», in grado di tenerle testa), della psicoterapeuta Sonya Rhodes, che, da poco uscito negli States, fa vendite record con un messaggio semplice ma rivoluzionario. Non è vero che la donna Alfa — in carriera, autoassertiva — in amore sia sfigata: è che insegue il partner sbagliato. Abbasso i maschi Alfa: per la femmina moderna, l’uomo ideale è il Beta. Manuale d’amore ai tempi di Lean In. Che inizia sradicando gli stereotipi. Perché come le donne Alfa non sono «feminazi», i maschi Beta sono tutt’altro che invertebrati lavativi. E il maschio Alfa, il capobranco, testosteronico, ipercompetitivo e carismatico, è in realtà il grande insicuro. Di più: quasi nessuno, e neanche noi, è solo Alfa o solo Beta. Perché fa figo, oggi, finalmente, dirsi femministe, ma a volte mandiamo messaggi contrastanti: vogliamo guidare noi nel tango, lo massacriamo se non ci offre la cena. Ovvio che il poveretto non ci capisca più. Tanto vede minacciato il proprio mito l’uomo Alfa, che, fateci caso, appena scrivi che il maschio Beta è sexy fioccano studi genere, «Se lui stira, niente sesso», la parità ammazza il desiderio. Fantasie, avverte Rhodes. Create ad arte da una cultura superata che le donne le vorrebbe in cucina e in babydoll. Perché come lo chiami, oggi, un uomo che non muove un dito in casa? Single.

Corriere 5.7.14
La disillusione dei piccoli editori: serve un premio per noi e i medi
di Paolo Fallai

«Lo Strega non è un premio per editori indipendenti, nessuno di noi lo vincerà mai e mi sto seriamente chiedendo che senso abbia partecipare ancora». Parla con tono pacato ma molto deciso Ginevra Bompiani, una delle signore dell’editoria italiana. Con la sua Nottetempo ha presentato quest’anno il bel romanzo di Elisa Ruotolo, Ovunque proteggici, che ha mancato l’ingresso nella cinquina per soli tre voti. «Io lo sapevo, l’avevo anche detto in casa editrice che non ci sarebbe stato spazio — racconta Ginevra Bompiani — ma poi l’ottima accoglienza ricevuta dal romanzo e tante rassicurazioni ricevute dai votanti ci hanno convinto a provare. È stato inutile, non possiamo competere coi grandi gruppi». Lo dice sull’onda della delusione? «Lo dico perché ne sono convinta. Vede, per un editore indipendente lo Strega comporta una spesa importante, abbiamo inviato oltre 600 libri, e un grande lavoro di convincimento con i votanti che vanno cercati uno per uno. Noi non abbiamo pacchetti di voti». Eppure ci si prova. «Sì, lo abbiamo fatto e per tre volte siamo entrati in cinquina. Ma posso dire che la visibilità che assicura dura al massimo quindici giorni. Per un editore indipendente il gioco non vale la candela». Peppe Russo, direttore editoriale di Neri Pozza ha proposto un accordo per individuare un candidato unico dell’editoria indipendente. Aumenterebbe le chance di vittoria? «Non credo. La proposta di Russo è bella ma poco realizzabile. Anche se ci mettessimo d’accordo in dieci o quindici potremmo arrivare al massimo a 50/60 voti. Non basteranno mai. E poi significherebbe concedersi una possibilità teorica di vittoria solo ogni quindici anni». Resta solo la rinuncia? «Possiamo fare molto di più. Se i medi e piccoli editori abbandonassero lo Strega, potrebbero dare vita a un Premio dell’editoria indipendente». È un auspicio o un progetto? «È qualcosa di cui stiamo parlando, con gli amici de “I Mulini a vento” (un blog condiviso da Donzelli, Instar libri, Iperborea, La Nuova Frontiera, minimum fax, Nottetempo, Voland, ndr), ci stiamo riflettendo seriamente» .

Corriere 5.7.14
Dora Maar, il talento nonostante Picasso
di Sebastiano Grasso


Il suo primo amante (a 24 anni) è il cineasta Louis Chavance. Il secondo (a 26), lo scrittore e filosofo Georges Bataille. Poi (a 29) viene Pablo Picasso. E con Picasso, comincia la sua rovina. Stiamo parlando di Dora Maar (nome vero: Henriette Markovitch), figlia di un architetto croato e di una francese, nata a Parigi nel 1907, vissuta dal 1915 al 1920 in Argentina prima di rientrare in Francia.
Pittrice ma, soprattutto, fotografa di grande talento, cui Palazzo Fortuny di Venezia dedica una mostra di un centinaio di immagini. Alcune inedite (sino al 14 luglio).
L’ultima rassegna risale al 2006 al Museo Picasso di Parigi; e, naturalmente, il genio spagnolo ha fatto la parte del leone. Stavolta, invece, viene analizzata la sua opera di fotografa, nonostante Picasso (sottotitolo dell’esposizione). E bisogna dare atto alla curatrice Victoria Combalia (che alla Maar ha dedicato vent’anni di ricerche), a Daniela Ferretti e Gabriella Belli — che, in un modo o nell’altro, l’hanno affiancata —, di avere ottenuto un risultato davvero sorprendente.
Che cosa vuol dire Nonostante Picasso ? La domanda è legittima. Dopo la visita alla mostra, però, la risposta è scontata. Dora è un’eccellente artista, anche senza Picasso. Probabilmente se ne parlerebbe meno, ma solo in relazione alla biografia. Dalla quale emerge una donna tormentata e infelice, una volta che viene abbandonata dal Minotauro catalano. Come avviene per quasi tutte le altre amanti. Due non retto: Marie-Thérèse Walter, madre di Maya, si impicca e Jacqueline Roque si spara un colpo in testa. Forse, a salvare Dora dal suicidio è il suo ritorno alla fede cattolica, dopo il ricovero in clinica psichiatrica.
Anche se, da una certa data, la Maar vive all’ombra di Picasso, egli non l’ha certo trovata sotto un ponte. Quando l’incontra, Dora è già una fotografa affermata nella Parigi intellettuale. Fra l’altro, fa parte del gruppo di André Breton. Partecipa alle esposizioni internazionali del Surrealismo, firma il manifesto Du temps que le surréalistes avaient raison , entra nel gruppo di estrema sinistra Contre-attaque di Bataille e Breton. Altri amici? Jean Renoir ed Éluard, Cartier-Bresson e Buñuel, Man Ray (che le dedica una serie di ritratti) e Brassaï, Max Ernst e Prévert.
All’inizio, Dora studia pittura all’Accademia Lhote, ma poi opta per l’obbiettivo (École de photografie de la Ville de Paris). Foto commerciali (petrolio Hahn) e sperimentali: moda, libri (Le mont Saint-Michel di Germaine Bazin), teatro, nudi. Apre uno studio assieme a Pierre Kéfer. Viaggi a Barcellona (Sagrada familia, Parco Güeli, Ramblas, Boquería), Londra (foto di strada, fra cui quella di un uomo, ben vestito, col cartello «Niente elemosina, voglio un lavoro»), Alpe d’Huez (minatori). Il Surrealismo entra a pieno titolo nelle sue immagini più celebri (Mano e conchiglia , per esempio).
Il 7 gennaio 1936, Paul Éluard le presenta Picasso («Occhi verdi, profondi e intriganti, sguardo magnetico, affascinante e seduttiva, naturalmente elegante», scrive la Ferretti). Sboccia la grande passione. L’anno dopo, Dora fotografa i vari stadi (in mostra a Venezia) di Guernica , il celebre dipinto la cui struttura e buona parte dei personaggi Picasso copia dal Trionfo della morte , affresco del XV secolo, di anonimo catalano, conservato a Palermo, da lui visto, durante un viaggio in Italia, nelle foto dei fratelli Alinari.
Picasso dedica all’amante dipinti e sculture. Sette anni dopo, nel 1943, appare la ventiduenne François Gilot.
Depressa, Dora viene ricoverata e affidata alle cure psichiatriche di Jacques Lacan. Il tormento non la lascerà mai, nonostante il cattolicesimo ritrovato, la guida spirituale del priore dell’abbazia di Sainte-Marie, il desiderio di entrare nell’ordine delle Benedettine. Un’agonia lunghissima. La fine verrà il 16 luglio 1997, ventiquattro anni dopo quella di Picasso. Al suo funerale partecipano solo sette persone.

Corriere 5.7.14
L’architettura è arte, non un testo
Senza porsi obiettivi e cercare significati progettare non ha senso
di Vittorio Gregotti


L’avvenire non può anticiparsi che nella forma del pericolo assoluto scrive Jacques Derrida in De la grammatologie . Infatti non sempre, quando si legge un libro, si è nel momento criticamente adatto per riceverlo. Il libro di cui voglio scrivere è: Jacques Derrida e la scrittura dello spazio di Francesco Vitale, pubblicato da Mimesis (pp. 98, e 13), di cui rileggo qui la parte che riguarda l’architettura.
Sono passati un numero sufficiente di anni per poter scrivere con calma, da architetto, intorno al tema del pensiero di Derrida, dei suoi interpreti, delle influenze ma anche dei malintesi prodotti nell’architettura degli ultimi vent’anni, cioè la rimozione (o destrutturazione possibile) «del condizionamento presentato dalla scrittura fonetico alfabetica» (Vitale) nei confronti della spazializzazione (cioè della scrittura dello spazio) come autentica esperienza del vivente.
Purtroppo a queste interessanti riflessioni si è sovrapposto negli ultimi trent’anni il pensiero postmodernista e soprattutto i malintesi che hanno fatto di esso, proprio contro la faticosa conquista del terreno della storia e delle sue forme in termini di contesto da parte del Movimento Moderno, una moda anziché un avvertimento intorno ad una condizione critica della cultura, quale era nelle intenzioni di François Lyotard. Quindi non una nostalgia stilistica, ma una coscienza di come la sua esistenza ci lasci liberi e responsabili della direzione da prendere pur camminando su di essa.
Anche la moda del postmodernismo e la sua superficiale concezione stilistica di ogni passato, divenuta accademia, è oggi al tramonto (anche se i danni si prolungheranno ancora per lungo tempo) e questo sgombra il complicato orizzonte della nostra disciplina da qualche difficoltà, pur lasciandone altre assai complicate come la relazione con la politica o il suo ripudio in nome di un’autonomia linguistica (in particolare puramente sintattica), la questione dell’interdisciplinarietà o quella del futuro tecno-economico come unica possibilità di contenuto futuro. Tutto questo in una falsificata alleanza con il decostruzionismo che aveva ben diversi obiettivi. E tutto questo ha reso ancor più complicato l’orizzonte della cultura architettonica.
Vi sono anzitutto nel libro molti termini come narrazione, scrittura, linguaggio, critica e poi disegno, programma, forma, simbolo, significato, verità, e persino l’atto di abitare, che andrebbero meglio specificati quando si utilizzano sovente con diverso senso nel fare della pratica artistica dell’architettura. E poi, si può tornare dopo millenni a sospendere nuovamente, pur sulla spinta delle liquefazioni mediatiche, la distinzione tra scrittura e arti visuali? Si può immaginare di proporre architetture che neghino ogni dialettica critica tra autonomia ed eteronomia come materiali della sua costituzione? Si può accettare l’attuale stato delle cose, che fa dell’illustrazione anziché del progetto l’attuale condizione del fare architettonico, e rinunciare così a proporre l’autentico nuovo come il possibile necessario?
E come dovrebbe essere oggi questa architettura, erroneamente individuata trent’anni or sono nell’opera di qualche architetto come deformazioni dell’immaginazione spaziale delle avanguardie e negazione di ogni impeto rivoluzionario proposto dal movimento moderno?
So che sono interrogativi privi di risposte convincenti, ma convincente ed inevitabile resta proprio l’interrogativo.
Derrida definiva l’architettura come «la scrittura dello spazio» (cioè «la spazializzazione del senso come condizione dell’esperienza») come quella del disegno, che è in architettura ovviamente uno strumento di ricerca del senso complessivo del progetto. Scrive Derrida (Talking about writing , 1993) che è oggi necessario «cercare una scrittura in grado di sfuggire all’analogia della scrittura del libro», poi scopre che il progetto «è scrivere l’architettura disegnando», fissando cioè una modalità della spaziatura, che è ciò che da sempre si fa procedendo nel disegno di progetto, dai primi segni alla loro organizzazione complessiva.
Certamente il linguaggio cinematografico, già dai tempi delle avanguardie del primo trentennio del XX secolo, e molto di più nei nostri anni con i sistemi di comunicazioni immateriali, intersoggettive e di massa, avvicinavano il linguaggio derridiano della decostruzione a quello dell’architettura, con vantaggi interessanti come la continua apertura a possibilità spaziali altre. Oggi però anche con danni quasi irreparabili come quello della perdita del disegno come strumento di indagine di progetto.
Ciò che Derrida (e Francesco Vitale come suo interprete) rifiuta è che l’architettura sia rappresentazione di un significato. Ma anche questo si presta a una doppia interpretazione. Significato, fondamenti, principi, sono materiali, insieme a molti altri, con cui muove criticamente il progetto; essi assumono una forma che costruisce le proprie regole strutturali il cui significato (non descrittivo come quello della grande musica) sarà interpretato nel tempo attribuendo a esso nuovi sensi, senza però che la sua struttura significante possa essere violata.
Derrida scrive che «l’architettura è l’ultima fortezza della metafisica», e proprio anche da qui forse nasce la necessità di una sua conservazione, che non impedisce in alcun modo le modificazioni interpretative di quella «fortezza metafisica» proposte continuamente dall’esperienza della storia: anche con una sua decostruzione interpretativa. Senza di questo infatti ridurre l’architettura a un elemento transitorio (la trans architettura) in grado di provocare eventi, testimoniare reazioni, divenendo deposito è solo garanzia dell’evento stesso.
Ma l’architettura in quanto pratica artistica (al di là «dell’abitare come essere dell’uomo sulla terra» heideggeriano) ha in questo modo ancora un senso o è proprio il suo senso che è necessario decostruire?

Corriere 5.7.14
Stazioni ferroviarie
Opere d’arte trasformate in centri commerciali
di Ernesto Galli della Loggia


Come molti, anche io, a suo tempo, ho salutato con favore il nuovo corso delle Ferrovie inaugurato dall’ingegner Moretti e simboleggiato dall’Alta Velocità. Mi pare però, che alla lunga l’ansia sacrosanta di stare sul mercato, di avere bilanci in ordine e di ottenere utili, stia facendo perdere di vista alle Ferrovie medesime altri obiettivi non meno importanti. Per esempio quello di non deturpare parti importanti del patrimonio artistico-culturale del Paese: e cioè le stazioni, alcune stazioni ferroviarie.
Il desiderio di fare soldi comunque, a qualunque costo, infatti, sta inducendo da tempo la società di Fs che si occupa di tale settore a trasformare in altrettanti centri commerciali intasati di box e chioschi orribili, dediti alla vendita di ogni cosa, stazioni come quella di Roma, di Milano, di Firenze, che costituiscono pezzi importanti della storia dell’architettura italiana. Con l’inspiegabile beneplacito degli organi statali di vigilanza, opere di pregio — talora di altissimo pregio come la stazione di Michelucci a Firenze — vengono trasformate in squallide caricature di shopping center di periferia.
Un solo esempio macroscopico che dura da anni: nell’atrio d’ingresso della stazione Termini di Roma la possibilità voluta dal progettista che da una grande parete a vetri laterale si vedesse uno dei pochi tratti sopravvissuti della più antica cerchia di mura della città (le mura serviane) è stata brutalmente cancellata. Tutto quel lato, infatti, oggi è oscurato da un grande magazzino. E più o meno è così in molti altri posti. Infischiandosi di tutto quanto non sia il loro guadagno le Ferrovie che ancora si dicono (e sono) dello Stato stanno alterando gli equilibri volumetrici, i rapporti spaziali, il disegno, le prospettive visive, di manufatti spesso insigni della nostra vicenda culturale. Cioè in pratica li stanno distruggendo. E in questo modo stanno anche rendendo impossibile in molte stazioni l’attesa dei passeggeri, costretti per la presenza di box e chioschi commerciali in spazi comuni sempre più piccoli, privi della possibilità di accomodarsi nei pochi sedili a disposizione, costretti in piedi per decine di minuti, stipati come un gregge.

Corriere 5.7.14
Paolo Veronese
Oltre 100 opere nella monografica che la sua città gli dedica dopo quella di Londra
E fu così che Paolo il prudente evitò il torchio dell’Inquisizione
di Francesca Bonazzoli


Quando nel 1553, a venticinque anni, Paolo Caliari lasciò la natia Verona per recarsi a Venezia, entrò direttamente nel secondo atto di una tragedia shakespeariana, fra odi, lotte per il potere, calunnie e avvelenamenti. La parte del Riccardo III toccava a Tiziano che, negli antefatti del «primo atto», si era liberato del Pordenone con il veleno, si sussurrava; aveva cacciato il giovane Tintoretto dalla bottega per gelosia della sua bravura; aveva svergognato Lorenzo Lotto costringendolo a cercare fortuna nelle Marche; aveva ricacciato in provincia il mite e onesto Paris Bordon, incapace di reggere tale guerra. Persino Michelangelo, nel 1529, capendo al volo la situazione, si fermò solo qualche settimana ed evitò qualsiasi contatto.
Ormai, però, Tiziano era vecchio; aveva bisogno di un giovane alleato contro il rampante Tintoretto e lo individuò nel provinciale appena arrivato. Manovrò in modo da far assegnare al Veronese molti lavori, ma Tintoretto non era tipo da lasciarsi intimorire: i due giovani divennero a pari merito i «pittori di Stato» della Serenissima: Tintoretto combatteva a suon di tinte fosche, diagonali, torsioni, violenti contrasti di luce. Veronese rispondeva con ritmi ampi, colori luminosi, architetture frontali ricche di figure e dettagli.
Ma più che il talento fu soprattutto il buon carattere a consentire al Veronese la convivenza con Tiziano e Tintoretto. Il prudente Paolo condusse sempre una vita tranquilla senza mettersi in mostra nella società elegante; sposò la figlia del suo primo maestro a Verona, ligio all’adagio popolare «moglie e buoi dei paesi tuoi» e giocò la carta della prudenza anche nell’unico momento fastidioso della sua vita: il processo istruito dall’Inquisizione sull’Ultima Cena dipinta per la chiesa dei santi Giovanni e Paolo (oggi all’Accademia e appena restaurata). Non sappiamo chi inoltrò la denuncia ma, grazie al verbale della seduta, conosciamo fino all’ultima parola dell’interrogatorio. Il 18 luglio 1573 al Veronese fu chiesto conto su alcuni precisi dettagli della tela, per esempio «Cosa significa la figura che perde sangue dal naso?» oppure «Cosa significano queste persone armate e vestite secondo la moda tedesca, con un’alabarda in mano?», «Qualcuno vi ha ordinato di dipingere nel vostro quadro dei Tedeschi, dei buffoni ed altre figure del genere?». Apparentemente si voleva verificare che nel dipinto non ci fosse alcuna propaganda anticattolica (il sangue dal naso come satira dell’eucarestia) di matrice protestante. Veronese si limitò a risposte brevi e accomodanti «Noi altri pittori ci prendiamo la licenza che si prendono i poeti e i matti»; oppure «La commissione fu di ornare il quadro come pensavo meglio; esso è grande e può contenere numerose figure». Non ingaggiò alcuna battaglia ideologica o dottrinaria. A lui, a differenza di Michelangelo, la riforma di Lutero non interessava. Intuì che quell’interrogatorio andava gestito con la massima calma perché la Chiesa stessa non aveva interesse a giungere allo scontro. La Serenissima Repubblica, infatti, aveva sempre fatto valere i propri privilegi in materia di giurisdizione ecclesiastica e non aveva mai consentito all’Inquisizione di agire liberamente sul proprio territorio. La chiesa di Roma, però, doveva salvare la faccia e approfittò dell’occasione per ribadire che anche a Venezia dovevano valere i precetti appena stabiliti dal concilio di Trento per l’arte sacra: in primis quello della «convenienza». Se da un lato il Concilio aveva ammesso la liceità delle pitture nelle chiese, bandite invece dall’intransigenza protestante, esse dovevano però essere prive di eccessi narrativi, dettagli pagani, aneddoti d’invenzione. L’arte doveva mandare ai fedeli un messaggio chiaro e semplice .
Così mentre a Roma l’Inquisizione era appena riuscita a far coprire le nudità del Giudizio Universale di Michelangelo, a Venezia si limitò a chiedere al Veronese di cambiare il titolo del dipinto. Da «Ultima cena» diventò «La cena in casa di Levi» giustificando così il lusso e le stravaganze di quel convito, fra alabardieri, argenterie e servitori di colore. Insinua André Chastel che, due anni dopo, il Veronese si ricordò di quel compromesso quando dipinse nel Palazzo Ducale l’allegoria della Dialettica come una donna — Venezia — che tesse una ragnatela, celebrando così le capacità di sottigliezze diplomatiche della città .

Corriere 5.7.14
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