sabato 17 settembre 2011

l’Unità 17.9.11
Crisi ed elezioni
I socialisti europei chiamati a dare un’etica all’Unione
di Valdo Spini

La XXI edizione dello Economic Forum di Krynica, la «Davos polacca», aperta il 7 settembre dal primo ministro Donald Tusk, ha voluto riservare una delle sue tavole rotonde al tema «Il futuro della socialdemocrazia in Europa». Questa è stata presieduta dall'ex ministro degli esteri tedesco Marcus Meckel (Spd), e ha visto la partecipazione di parlamentari ed esponenti politici polacchi, tedeschi, moldavi e di un italiano, appunto chi scrive. La scelta di questo tema sta a significare come oggi ci si renda conto che la Ue avrebbe bisogno di partiti che fossero realmente a scala europea. Ciò per evitare ricadute in nazionalismi e particolarismi del tutto inadeguati ad affrontare la crisi in atto. Un obiettivo irrinunciabile, cui dobbiamo dare un contributo anche dall’Italia.
Tutte le elezioni parziali che si sono svolte in questo anno in Germania hanno fatto riscontrare una netta ascesa della Spd e un arretramento della Cdu. In Francia i sondaggi, anche dopo la uscita di scena di Strauss-Kahn, danno delle possibilità di vittoria a taluni candidati del Ps francese. Ma al socialismo europeo, dopo i fasti degli anni ‘90 e la caduta d’inizio secolo, occorrono nuovi leader, nuovi programmi, ma soprattutto un’anima, cioé la capacità di far rivivere nella drammatica situazione in cui ci troviamo quei principi e valori che avevano reso forte la socialdemocrazia europea. In tal senso, la cosiddetta «terza via» ha fatto credere troppo ottimisticamente nei benefici della globalizzazione, che comporta fattori positivi ma permette anche il contagio di quelli negativi. La reazione populista contro l’immigrazione ha fatto il resto, cambiando la geografia politica di molte città e di talune regioni europee in cui i ceti popolari non si sono sentiti sufficientemente tutelati.
Alla fine degli anni ‘90 la stragrande maggioranza dei primi ministri della Ue appartenevano al partito del socialismo europeo (ben 11 su 15). Ora si contano sulle dita di una mano e si trovano nella situazione difficilissima di Papandreou o affrontano elezioni anticipate come Zapatero. Uno dei motivi di questo declino sta nel fatto che quando erano in posizione di netta predominanza, i socialisti europei non hanno avuto il coraggio di proporre una propria politica europea. Per non ripetere gli errori del passato bisogna avere un’iniziativa comune nei confronti dei partiti di due paesi fondamentali come la Germania e come la Francia che possono avere chances di successo, perché mettano al centro della loro iniziativa l’Europa. Ma parlavamo anche di un’anima. L'immoralità della crisi dei mutui «subprime» è stata evidente. Insomma, anche l’economia di mercato per funzionare, prima ancora che di regole, ha bisogno di un’etica. Chi se non i socialisti possono portarcela? Anche di questo dovremmo dibattere per costruire punti di riferimento adeguati per la ripresa e per la vittoria del centro sinistra in Italia.

l’Unità 17.9.11
La “rossa” Helle è premier Prima donna in Danimarca
La Danimarca archivia il decennio conservatore e apre ai socialdemocratici. Gli elettori hanno premiato Helle “la rossa”, primo premier donna alla guida del Paese e di una coalizione con altre due donne leader.
di Roberto Arduini

A 43 anni, Helle Thorning-Schmidt, è la prima donna alla guida della Danimarca. La sua coalizione di centrosinistra ha vinto le elezioni interrompendo un dominio conservatore che durava da un decennio. Il primo ministro designato ha annunciato che inizierà subito i colloqui per formare un nuovo governo. Il primo ministro uscente Lars Loekke Rasmussen ha presentato le dimissioni alla regina Margherita. «Ce l'abbiamo fatta, senza errori. Abbiamo scritto la storia», ha commentato la nuova premier. I media danesi hanno accolto con grande entusiasmo la notizia. «Vittoria di una donna!», «La prima», «La conquistatrice», titolavano ieri i quotidiani più diffusi. «Ci sono voluti 96 anni fra il momento in cui le danesi hanno ottenuto il diritto di voto e l'elezione di una di loro a primo ministro», scrive il giornale Information. L’elezione di Thorning-Schmidt «deve essere considerata una tappa importante per l'uguaglianza dei sessi, non solamente a titolo simbolico», aggiunge il giornale.
Quella dei socialdemocratici è stata però una vittoria meno larga del previsto. I seggi in Parlamento per il partito socialdemocratica sono stati infatti 44, uno in meno rispetto alla scorsa tornata elettorale. Mentre il partito più forte rimane quello liberale di Rasmussen, con 47 seggi, uno in più del 2007, ma indebolito dalla spaccatura a destra e dal risultato del Partito popolare danese che si è fermato a 22 seggi, 10 in meno rispetto a quattro anni fa. Bene sono andati invece tutti i partiti alleati dei socialdemocratici. I centristi social-liberali hanno guadagnato 8 seggi, arrivando a 17, mentre l'Alleanza rosso-verde, a sinistra dei socialdemocratici, ha triplicato i propri seggi, toccando quota 12. È soprattutto grazie al loro contributo che il «Blocco rosso» ha ottenuto 89 seggi nel Folketing, contro gli 86 degli avversari.
Il risultato delle elezioni mostra come il Paese non abbia tollerato le misure d’austerità introdotte da Rasmussen per la crisi economica e l’atteggiamento fortemente anti-immigrazione del suo esecutivo. Thorning-Schmidt punterà a proteggere il sistema del welfare alzando maggiormente le tasse ai ricchi.

il Riformista 17.9.11
«Noi danesi (forse) svegliamo l’Europa»
Dieci anni segnati da regole durissime sull’immigrazione. E tre vittorie di fila della destra. La prima immigrata entrata in Parlamento a Copenhagen spiega le ragioni della vittoria del “blocco rosso”. Ammette che governare sarà un incubo. E incoraggia la sinistra a rialzare alla testa per far fronte alla crisi economica
di Luigi Spinola
qui

La Stampa 17.9.11
L’opposizione, prove di alleanza
Bersani benedice il nuovo Ulivo
Alla festa Idv vertice con Vendola e Di Pietro. Ma dopo l’ovazione precisa: servono anche i moderati
di Fabio Martini

La scenetta rende l’idea. Antonio Di Pietro, che dopo mesi di «corteggiamento» alfine è riuscito ad avere lì al suo fianco sia Nichi Vendola che Pier Luigi Bersani alla festa dell’Idv, si sta producendo in uno dei suoi numeri. Dice Tonino: «Ho sentito qualcuno che ha proposto un salvacondotto per Berlusconi. Ma mica siamo alla guerra civile!». In quel momento Bersani sta bevendo un po’ d’acqua, ma appena sente la battuta sulla guerra civile, scoppia a ridere, facendo appena in tempo a levarsi il bicchiere dalla bocca, in uno sbruffo di plateale, simpatica condivisione. Scenetta che racconta un clima, un clima «cameratesco». Sembrava non si riuscisse a farlo mai questo pubblico dibattito a tre, BersaniVendola-Di Pietro, perché il leader del Pd aveva sempre trovato una scusa giusta per tirarsi indietro e sottrarsi all’ultimo momento ad una foto di gruppo che, finora, aveva ritenuto prematura. Ma ieri pomeriggio, decidendo di non dare di nuovo forfeit e di venirci alla Festa Idv, Bersani si è trovato gli altri due ben disposti ad assecondarlo, speranzosi di essere imbarcati in coalizione col Pd. E così, quando Enrico Mentana, ha provato a tirare le somme, è riuscito a «creare» la notizia. Ha chiesto ai tre: «Allora, possiamo dire che è nato il nuovo Ulivo?». A quel punto Bersani ha annuito e gli ottocento in platea si sono immediatamente alzati in piedi, in una standing ovation durata un minuto e mezzo.
Mentre la gente applaudiva, erano altamente espressive le facce dei tre. Antonio Di Pietro - in giacca ma senza cravatta sorrideva (la sua mission era riuscita); Nichi Vendola - tutto vestito di nero dalla giacca ai pantaloni, dalla t-shirt alle scarpe con i buchini - mostrava un viso moderatamente compiaciuto, probabilmente perché nella road map riassunta da Mentana ma suggerita da Bersani, a un certo punto sarebbero previste anche le Primarie. Quanto al leader del Pd era il più serio dei tre. Si è sentito «incastrato»? Quando il battimani si è quietato, Bersani non ha smentito il senso di quel che era accaduto per effetto della sottolineatura di Mentana: a Vasto, dunque, sembra davvero esser nato il nucleo di base (Pd-Sel-Idv) della coalizione che sfiderà il centrodestra alle prossime elezioni. E che Bersani immagina di poter guidare, come candidato a Palazzo Chigi.
Nel corso del dibattito, che si è svolto nel cortile del castello rinascimentale di palazzo D’Avalos, è stato grosso modo stabilito un tragitto, che era stato proposto da Bersani e che gli altri due leader hanno sembrato condividere: poiché si dovrebbe votare nella primavera del 2012, occorrerà entro la fine dell’anno, arrivare alla stesura di un programma (da mettere a punto in un «seminario di tre giorni»), definire le alleanze, celebrare le Primarie di coalizione e approntare una «squadra di combattenti». Una accelerazione nella definizione di questa alleanza a tre, sbilanciata sul fianco sinistro e rispetto alla quale proprio Bersani aveva provato a mettere qualche paletto: «Questo è il nucleo ma bisogna aprire il più possibile» la coalizione politica e sociale, «non bisogna essere settari», bisogna parlare ai ceti sociali delusi da Berlusconi» non dimenticando che sono state le «nostre divisioni che hanno aperto la strada al governo del centrodestra». E a Vendola, che l’ha invitato a parlare alla manifestazione di Sel, prevista per il primo ottobre a piazza Navona, Bersani ha dato la risposta più «riformista» del pomeriggio: «Parteciperò ad una manifestazione nella quale ci faranno una foto, non perché protestiamo, ma perché presentiamo un progetto per il Paese». Di Pietro, di nuovo sfottente con Casini: «Non si può andare a letto una volta con la bionda, una volta con la mora...». Ma Casini, dal convegno organizzato dal gruppo di Giuseppe Fioroni (minoranza Pd) ha liquidato la svolta del nuovo Ulivo: «Non credo alla politica della nostalgia, l’Ulivo è fallito». E Fioroni: «Guai a tornare alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto!».

il Fatto 17.9.11
Costituzione e prostituzione
di Antonio Padellaro

A chi ancora domanda (gli sbalorditi giornalisti stranieri e tanti comuni cittadini) come sia possibile che un tipo accusato di essere un puttaniere patentato e ricattato resti inamovibile e protervo a Palazzo Chigi, e cosa si possa fare per lavare questa vergogna nazionale non si può che rispondere: troppo tardi, bisognava pensarci prima. Chi è infatti il personaggio che, parlando di ragazze come se fossero agnelli da scuoiare, dice a Gianpi “chi mi porti stasera?” e che versa centinaia di migliaia di euro a Tarantini e ai suoi degni compari perché tengano la bocca chiusa? È lo stesso che più di tre lustri fa ribaltò, grazie a una montagna di quattrini, il già poco virtuoso tavolo della politica italiana e che ora, disponendo di un patrimonio di quasi 6 miliardi di euro, si è comprato un governo, una maggioranza e tutte le leggi di cui ha bisogno. E dunque può fare solo rabbia il fatto che ora, nell’opposizione guidata dal Pd, si levino alti i lamenti sul “Berlusconi che ci porta alla rovina” quando per ben due volte (1996 e 2006) la sinistra di lotta e di governo si guardò bene dal varare una seria norma sul conflitto d’interessi per impedire che un miliardario senza scrupoli facesse banco, come poi ha fatto. E che dire della grande stampa d’informazione? Siamo convinti che il galantuomo Ferruccio de Bortoli prima o poi darà voce sulla prima pagina del Corriere della Sera allo sdegno della grande borghesia produttiva, che quel grande giornale rappresenta, per lo spettacolo vergognoso di un premier che vuole trasformare la Costituzione in prostituzione. Mentre i giornali di Arcore si coprono di ridicolo sostenendo che il padrone non paga le ragazze, ma fa beneficenza (non sposarono festosamente anche la balla suprema di Ruby nipote di Mubarak?), ciò che resta della libera informazione, con poche eccezioni, si limita a commentare il “troiaio” con timide giaculatorie che lasciano il tempo che trovano. Del resto i loro editori, palazzinari, banchieri o industriali dell’auto, hanno un maledetto bisogno del governo di Papi e si adeguano. Una prece infine sui silenzi vaticani. Sì, quelle purpuree gerarchie che insorgono appena si osi parlare di coppie di fatto, tacciono imperturbabili di fronte allo scempio morale: decine di giovani donne vendute e comprate per il sollazzo di un vecchio. Il quale sa di non temere nulla, finché i mercanti continueranno a bivaccare nel tempio in cambio di un’esenzione Ici.

il Fatto 17.9.11
Vaticano. Chi predica e chi razzola
La benedizione in nome dell’Ici
di Marco Politi

La Chiesa non stacca la spina a Berlusconi. Nel degrado in cui l’uomo di Arcore ha gettato la credibilità del premierato e della stessa Italia a livello internazionale, le massime gerarchie ecclesiastiche continuano a fornirgli l’appoggio politico. Un sostegno vitale per lui e incomprensibile per la maggioranza dei credenti e dei cittadini. L’80% degli italiani (secondo il recente rilevamento di Mannheimer) non ha fiducia in lui. I cattolici hanno partecipato in massa al referendum che ha sconfessato clamorosamente i suoi trucchi per sottrarsi ai giudici. Cos’altro deve succedere perché dalle più alte cupole venga la semplice, evangelica dichiarazione: “Quest’uomo non pretenda di rappresentarsi come amico e difensore della Chiesa”?
Non basta la macchina del fango contro il direttore di “Avvenire” Dino Boffo, non bastano i crocifissi che ballonzolano sulle tette delle ninfette del bunga bunga, non bastano le menzogne istituzionali sulle minorenni, non bastano i commenti osceni su esponenti politici internazionali che spingono il premier a mendicare e minacciare un decreto bavaglio contro giudici e informazione. Sembra che niente sia abbastanza per smuovere le gerarchie ecclesiastiche. “Piovono guai su Berlusconi”, titola l’“Avvenire” come se si trattasse di improvvise disavventure e non dell’ennesima riprova di indegnità di un capo del governo che si circonda di lestofanti, parla come nemmeno i mitici scaricatori, consuma il tempo tacitando olgettine e consultando avvocati invece di occuparsi del Paese in maniera meno ridicola di quanto sia dimostrato dalle sue cinque manovre.
Eppure la Chiesa sa. Proprio sul giornale dei vescovi l’anno è cominciato con il monito che il presidente della conferenza episcopale cardinale Bagnasco aveva ricordato già nel 2010 che l’articolo 54 della Costituzione impone “decoro” a chi occupa le supreme cariche e che per loro risulta inammissibile scindere “ruolo e contegno”. Dunque il metro c’è. È ben presente nei palazzi ecclesiastici. Non è un’invenzione di anti-berlusconiani arrabbiati. È il semplice metro del buon senso, dell’etica civile, dell’attenzione al bene comune.
Ma quando è il momento di misurare definitivamente Silvio Berlusconi, l’istituzione ecclesiastica si rimette il metro in tasca, esprime un rimbrottino e poi volta la testa dall’altra parte e tace. Giunti al dunque, non conta l’etica civile, non conta il bene comune, non conta che questo governo nulla stia facendo contro quei mali che pure la gerarchia ecclesiastica denuncia: la corruzione, l’evasione fiscale, il precariato, la disattenzione permanente ai problemi vitali delle famiglie. Quasi si trattasse di un dogma, i vertici supremi ecclesiastici continuano a fare da sostegno a Berlusconi. Incuranti del fatto che il 70% dei vescovi la pensi diversamente. Tra i presuli, in effetti, il 40% è filo-centrista e il 30 ha una sensibilità sociale di centro-sinistra. Anche tra i vescovi Berlusconi è ormai in minoranza. E più che mai in minoranza è tra il popolo delle parrocchie indignato, arrabbiato, rattristato per i “baccanali” di Arcore e la trascuratezza con cui (non) viene seguita la situazione economica delle normali famiglie.
Oltretevere, però, ci si gingilla con l’ipotesi di rifondare un nuovo partito cattolico. Ci si accontenta dei privilegi fiscali, dei soldi alle scuole confessionali, delle leggi civili bloccate da una maggioranza prona. L’Italia va a rotoli? Sopire, troncare...

Repubblica 17.9.11
La breccia fiscale
di Alessandra Longo

Si possono chiedere, nella cornice della crisi, sacrifici a tutti e considerare «intoccabili» i «privilegi vaticani»? Continua la scomoda battaglia dei radicali per denunciare «la scandalosa insostenibilità» del trattamento di favore fiscale di cui godono gli enti ecclesiastici e il finanziamento diretto della Cei attraverso l´8 per mille. Approfittando delle tradizionali iniziative in occasione del 141esimo anniversario della Breccia di Porta Pia, oggi, alle 15.30, i radicali organizzano una «Marcia per una nuova Breccia fiscale» che partirà, appunto, da Porta Pia. Slogan contro i Patti Lateranensi e il nuovo Concordato. Gli organizzatori assicurano che non sarà un raduno rabbioso ma una manifestazione «colorata e festosa, da non perdere».

il Fatto 17.9.11
Putin difende l’amico Silvio
Le accuse sessuali? “Tutta invidia”

Qualche giorno fa sembrava che Berlusconi fosse intenzionato a volare a Mosca per sfuggire all’interrogatori dei magistrati di Napoli. Poi il viaggio è saltato, ma l’amicizia con il presidente russo è rimasta solida. Ieri Vladimir Putin ha vergato una dichiarazione di solidarietà all’amico Silvio: gli attacchi per “per il suo atteggiamento particolare sul sesso”? Tutta “invidia”. Piuttosto Berlusconi “si è rivelato un uomo di Stato responsabile nel vero senso della parola”, in grado “di prendere decisioni difficili ma necessarie” per affrontare la crisi, “io guardavo e mi rallegravo per lui” aggiunge il presidente russo. Che conclude: “È chiaro che a molti non piace, ma non c’è un’altra via d’uscita, tutti capiscono che cosa bisogna fare in questa situazione, ma non tutti hanno il coraggio per prendere queste decisioni”.

il Fatto 17.9.11
L’ultima parola della De Nicolò: “Chi lo accusa lo fa per invidia”

“Chi accusa Berlusconi e Tarantini è mosso dalla gelosia e dall’invidia”. Lo ha detto Terry De Nicolò, una delle donne coinvolte secondo la Procura di Bari nell’inchiesta sulle escort baresi dell’imprenditore pugliese Giampaolo Tarantini. “Qualunque donna – ha aggiunto la De Nicolò in un’intervista al programma di RaiDue L'ultima parola – andrebbe a piedi dal premier, anzi di corsa. La bellezza è un valore, bisogna saperla vendere. Se sei racchia e fai schifo ti devi stare a casa. Per noi Tarantini è un mito, uno che ha vissuto un giorno da leone, mentre gli altri vivono cento giorni da pecora. Io non sopporto la morale della sinistra, secondo la quale dobbiamo stare tutti a casa a guadagnare duemila euro al mese. Prevale la legge del più forte, e se sei onesto non riesci a fare un grande business”. Dopo l’intervista, scambio di battute tra il direttore del Giornale Sallusti ha accusato Paragone: “Siamo passati da Santoro e Ciancimino a Paragone e Terry”. Con un’equivalenza decisamente forzata tra Paragone e Santoro.

La Stampa 17.9.11
Invidiosi?
di Massimo Gramellini

Putin ha dichiarato a un congresso di imprenditori che chi critica le notti brave del suo amico Silvio è un invidioso. Il gerarca russo appone la sua firma d’autore all’ideologia che ha dettato legge negli ultimi decenni: il Pensiero Unico Turbomaterialista, il cui acronimo PUT richiama benevolmente il suono di una flatulenza. Secondo tale visione maschilista e totalizzante del mondo, gli esseri umani desiderano soltanto fare orge, intascare mazzette e sculettare in tv, non necessariamente in quest’ordine. È inconcepibile che qualcuno possa nutrire interessi culturali, romantici, spirituali. Quindi chi fa la morale al PUT è come la vecchietta di De Andrè, che dava buoni consigli solo perché non poteva più dare cattivo esempio.
Ora, nessuno è privo di vizi. Ma contesto l’idea che tutti desiderino quella roba lì. Io, per dire, fra una cena con Steve Jobs e una con la consigliera regionale vestita da suora, preferirei conoscere il vecchio Steve, anche vestito normalmente. Il fatto che i media (mea culpa) intervistino le squinzie invece delle ricercatrici, non significa che tutte le ricercatrici ambiscano a diventare squinzie. Esistono ricercatrici felici di esserlo (purtroppo lavorano all’estero), come esistono anziani rappacificati con se stessi che la sera vanno a letto con un buon libro e magari con una persona che amano, ricambiati. E certo non invidiano chi esibisce o ricerca corpi rifatti, volgarità e ignoranza. Vede, signor Putin, non siamo invidiosi. Solo un po’ imbarazzati per quelli, come il suo amico, che non sono più capaci di ascoltare la voce provvidenziale della vergogna.

l’Unità 17.9.11
Una prima elementare «annullata» a Milano: troppi stranieri in classe

La scuola rappresenta uno dei momenti cruciali nel percorso di crescita di una persona. È durante il tempo trascorso in quella istituzione che avvengono i processi formativi fondamentali, individuali e collettivi. È qui che ci insegnano a memorizzare nozioni ed è qui che dovrebbero insegnarci a metterle in pratica. Ottimo quindi l’utilizzo di pc ed e-book (per dirne una), ma non basta. La scuola dovrebbe analizzare partendo dall’osservazione delle persone che la frequentano il presente e formare individui in grado di vivere in questo tempo. La composizione delle classi indica quali sono le caratteristiche del quartiere in cui un istituto si trova, quali sono i comportamenti tipici di una generazione e, più in generale, quali sono i mutamenti sociali in corso.
È indicativo un dato: tra il 2000 e il 2010 gli alunni con cittadinanza non italiana sono aumentati di quasi il 400%. Quest’anno le iscrizioni (dalle elementari alla scuola media superiore) da parte di studenti stranieri sono state all’incirca settecentomila. E così l’adozione di metodi scolastici la cui forza consiste nell’accoglienza e non nel rifiuto, appare urgente. E ciò significa elaborare politiche pubbliche e strumenti amministrativi idonei ad affrontare questa nuova sfida, tra gli altri: corsi di perfezionamento o insegnamento della lingua italiana e ricorso a mediatori culturali. Ecco che allora, non far partire una prima elementare milanese perché «dove ci sono solo o quasi studenti immigrati non c’è integrazione» è un messaggio inadeguato e dannoso (oltretutto perché proviene da un’istituzione). Una risposta semplicista a un quesito complesso: quanti di quei bambini erano immigrati? E ancora: fino a che punto si può considerare straniero chi, magari, di straniero ha solo i genitori?

La Stampa TuttoLibri 17.9.11
In classe il mondo fa il girotondo
Scuola Un’altra Italia, multiculturale, sta nascendo sui banchi e sul territorio: dialogando e mescolandosi
di Luciano Genta

Vinicio Ongini, NOI DOMANI. Un viaggio nella scuola multiculturale, Laterza, pp. 171, 15

Caro amico ti scrivo, così ti distraggo un po' da quel che ti raccontano su questo nostro Paese in caduta libera tra farsa e tragedia. Te ne sei andato a cercare altrove il futuro, convinto che qui non ci fosse più nulla da fare. E invece c'è ancora speranza.
Leggiti il libro di Vinicio Ongini Noi domani e vedrai un'altra Italia: fatta di persone che sanno unire professionalità ed etica, impegnate ad accogliere, istruire e educare i cittadini di domani, compresi i «nuovi arrivati», i figli degli immigrati. E' «un viaggio nella scuola multiculturale», una cronaca in sedici tappe esemplari, attraverso dati, fatti, testimonianze, dalle Alpi alla Sicilia, tra metropoli e provincia. E non ci sono solo allievi e insegnanti, non si sta chiusi nelle aule, si esce nel «territorio», si incontrano gruppi, associazioni, singoli volontari ma anche rappresentanti delle istituzioni, che non vogliono «integrare» (o peggio annettere) culture, lingue, storie ma farle «interagire», dialogandoe mescolando.
Oggi gli scolari «con cittadinanza non italiana» sono 750 mila, l'8,5% del totale. Erano 180 mila dieci anni fa e si stima saranno un milione fra cinque anni. In prevalenza arrivano da Romania, Albania, Marocco, Cina ma si contano ben 180 Paesi d'origine: «C'è il mondo in classe». Sono un problema certo, perché sembrano quasi sempre «troppi»; ma anche un vantaggio, una risorsa: dipende da cosa si è capaci di fare con loro, che spesso si rivelano i più «bravi», motivati dal dovere e dal merito.
Ongini è un reporter, esploratore e antropologo. Funzionario (non burocrate) del Ministero dell'Istruzione, non dimentica la sua gavetta di maestro elementare, la vocazione dello studioso di fiabe, la passione pedagogica. Inizia sempre da una analisi concreta di una situazione concreta. La miglior alternativa alla «rappresentazione ansiogena» dei nostri mass media, così avidi di paure e pericoli, e così distratti, annoiati di fronte alla normale quotidianità, dove in apparenza non succede nulla di eccezionale.
Eppure c'è da far conoscereun «paese Arlecchino» con una miriade di corsi, laboratori, sperimentazioni: a Barge, in Valle Po, terra di pietra che compete con il marmo di Carrara», i figli degli scalpellini cinesi, primi in matematica, hanno anche fatto vincere alla loro scuola i campionati di scacchi; a Bordolano, nel Cremonese, dove sono gli indiani sikh i nuovi «bergamini», mungitori di mucche, si organizza la mostra «Turbanti che non turbano»; a Treviso (i libri fatti a mano per scambiarsi storie ed esperienze), a Bologna (la radio Onda Libera Infanzia), a Firenze e Prato (gemellaggi con la Cina perché «Scambiando si impara»), a Roma (partendo da Cenerentola, una mostra sulle calzature, per mettersi «nelle scarpe degli altri») e poi giù sino a Lecce e Matera, Riace e Palermo, dove tutto diventa più difficile ma per fortuna c'è la professoressa Fantasia che di nome è pure Angela.
Sono esperienze minute che vanno divulgate e «connesse»: oltre lo spontaneismo solidaristico si intravedono radici profonde e fondamenta teoriche, dal movimento di cooperazione educativa al tempo pieno oggi strangolato. Nonostante tutto, dice a Torino Silvana Mosca, i Cipputi della cattedra fanno «resilienza», non si spezzano. E il libro di Ongini, scrive Tullio De Mauro nella sua prefazione, stimola «il giusto orgoglio» della scuola pubblica.
Qualcuno obietterà che Ongini ha pescato il meglio, mettendo in sordina conflitti e insuccessi. Altri chiederanno conto del «profitto», dei «programmi» sacrificati alla «socializzazione». A loro risponde un altro libro, cristallino e commovente, Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio, pp. 262, . 14), in cui Carla Melazzini, che fu anima del «Progetto Chance» - anch’esso tagliato - nella Napoli più misera e offesa da emarginazione e illegalità, ha lasciato memoria della testarda fatica per recuperare alla scuola i ragazzi che l'avevano abbandonata (e dalla scuola erano stati rifiutati). Lì si comprende quanto sia illusoria «l'idea che basti insegnare in modo efficace e tutto si risolve», perché non funziona una scuola «concentrata sulla valutazione di prestazioni», che ignori «il substrato profondo e antico dei corpi e delle emozioni». Pur diverse e anche meno gravose, le esperienze raccontate da Ongini condividono questa priorità di «considerazione antropologica» dell'allievo. E di lì partono per insegnare poi anche «le materie».
Ecco caro amico, cosa ti scrivo e ti dico: non dobbiamo contrapporre ma armonizzare la scuola del cuore e la scuola della mente. C’è chi l'ha sempre fatto, lo sta facendo e non toglie il disturbo.
Il viaggio di Ongini in sedici tappe, 180 Paesi d’origine, dalla Romania alla Cina, all’Albania

Alle Nazioni Unite i Paesi rappresentati sono 166
La Stampa 17.9.11
In tv il leader dell’ANP incalza Obama: aveva promesso di farci entrare alle Nazioni Unite nel settembre 2011
Abu Mazen: all’Onu non ci piegheremo
“Chiederò il pieno riconoscimento della Palestina: ci sostengono più di 126 Paesi”
di Aldo Baquis

Incurante delle energiche pressioni internazionali degli ultimi giorni, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen ha ieri informato il suo popolo, con un discorso trasmesso in diretta dal quartier generale di Ramallah, di essere determinato a rivolgersi al Consiglio di sicurezza per esigere una piena ammissione all'Onu dello Stato di Palestina.
Per una volta, sono i palestinesi ad aver isolato non solo Israele ma anche gli Stati Uniti. Dopo aver ricordato di aver ormai ottenuto l'assenso di due terzi dei Paesi al mondo (126 Paesi nei conteggi del leader dell’Anp), Abu Mazen ha ricordato che era stato proprio il presidente Usa Barack Obama a fissare come obiettivo politico l'ingresso dei palestinesi all'Onu entro il settembre 2011. Adesso gli Stati Uniti si accingono a porre un veto: eppure - ha incalzato beffardo Abu Mazen - lo stesso Quartetto aveva indicato il settembre 2011 come la data di traguardo per le trattative con Israele; e la Banca Mondiale, da parte sua, ha appena pubblicato un lusinghiero documento che elogia i palestinesi per i livelli di sicurezza raggiunti in Cisgiordania, per il successo dell’economia, per la solidità delle strutture, per la gestione dei fondi pubblici. «Siamo l'unico popolo al mondo sotto occupazione - ha lamentato Abu Mazen -. Anche le isole hanno una loro bandiera da innalzare, ed un posto all'Onu; si è fatta eccezione solo per i palestinesi. Chiediamo: perché?».
Abu Mazen ha poi assicurato che il suo obiettivo non è isolare Israele, né delegittimarlo. I palestinesi vogliono semmai «delegittimare l’occupazione», mettervi fine. Una volta che i loro territori, secondo le linee in vigore nel giugno 1967, saranno stati riconosciuti come «Stato sotto occupazione» riprenderanno le trattative con Israele per definire le questioni aperte: Gerusalemme, le colonie, i profughi, la sicurezza.
Per motivi diversi, Abu Mazen è riuscito a scontentare sia Israele sia Hamas. «La pace non si raggiunge con mosse unilaterali all’Onu né stringendo alleanze con i terroristi di Hamas, bensì con trattative dirette con Israele» ha osservato Benjamin Netanyahu, che mercoledì vedrà Obama. Anche Hamas ha denunciato l’iniziativa di Abu Mazen, trovandola avventata e pericolosa per gli interessi nazionali dei palestinesi. In particolare gli islamici trovano fuori luogo il riferimento alle linee dell’armistizio del 1967 che implicitamente sembra significare una rinuncia al resto della «Palestina storica»: ossia il territorio israeliano.
Abu Mazen ha quindi lanciato un appello ai palestinesi affinché la settimana prossima non si abbandonino a violenze («per non fare il gioco di Israele») quando pronuncerà il suo storico discorso alle Nazioni Unite.
Critiche da Hamas «Mossa rischiosa, così rinuncia ad avere tutta la terra che ci spetta»

Corriere della Sera 17.9.11
La sfida palestinese: «Stato a pieno titolo all'Assemblea Onu» Abu Mazen respinge i compromessi
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — 194. Un numero del destino. 194, come la risoluzione Onu sul diritto al ritorno dei palestinesi del Quarantotto. 194, come la poltrona (già preparata: da un falegname di Jenin, in legno d'ulivo e velluto blu con la scritta oro) che la Palestina potrebbe occupare fra una settimana, se il Palazzo di Vetro dirà sì alla richiesta d'ammissione del 194° Stato membro. 194, più o meno quanti i viaggi all'estero che l'Autorità palestinese s'è sobbarcata in questi mesi, l'ultimo negli atolli del Pacifico, per convincere il mondo a votare sì. «Andremo a New York con un ramoscello d'ulivo in mano», dice Abu Mazen. Un ulivo in una mano e un dossier nell'altra, parafrasando Arafat. E sperando che il ramoscello non cada: «Vogliamo un seggio all'Onu e il pieno riconoscimento d'uno Stato entro i confini del 1967, con Gerusalemme capitale. La nostra opzione è il Consiglio di Sicurezza. Quanto alle altre opzioni, decideremo al momento opportuno».
Indietro non si torna. A parole, almeno. Tanta solennità leva l'unico dubbio rimasto, sulla procedura: i palestinesi non bypasseranno il Consiglio di Sicurezza, dove chiederanno la piena ammissione e si scontreranno col veto americano, riservandosi poi l'alternativa dell'assemblea (servono 129 Stati su 193: i favorevoli sono 122) che appaierebbe la Palestina al Vaticano — «Paese osservatore» — e le consentirebbe di trascinare Israele alla Corte dell'Aia, in un processo internazionale per le colonie. «Se ci riconoscono — avverte Abu Mazen —, il conflitto con Israele non sarebbe fra territori contesi, ma fra due Stati: un occupante e un occupato». Dietro i proclami, in realtà, si tratta: l'Autorità palestinese non ha ancora mostrato il testo della domanda d'ammissione e, chiarendo che «non vogliamo isolare Israele, ma solo il suo governo», in queste ore riceve gli europei (la baronessa Ashton), il Quartetto (Tony Blair), gli americani (Dennis Ross) che propongono vie meno drastiche. Perfino l'irremovibile Bibi Netanyahu, fuori tempo massimo, da Gerusalemme offre ai palestinesi uno status «più elevato» all'Onu, purché non sia il riconoscimento unilaterale.
«Siamo disponibili solo a proposte sensate», è netto il ministro degli Esteri di Ramallah, Al Malki. Astenersi perditempo: Abu Mazen sa che venerdì (quasi) tutto in quell'aula sarà a lui favorevole. E che calerà il gelo, quando più tardi toccherà a Netanyahu: «L'assemblea dell'Onu — replica Bibi — non è esattamente il posto in cui Israele ha buone possibilità. Ma io vado a parlare, perché ogni Paese possa sentire la verità. L'Anp ha sempre evitato colloqui diretti. La pace non s'ottiene con iniziative unilaterali». «Dobbiamo urlarlo: dall'Egitto alla Turchia, dalla Giordania alla Palestina, siamo isolati. Un disastro diplomatico», s'indigna Tzipi Livni, leader dell'opposizione israeliana. «Quel che Bibi ha perso in due anni e mezzo d'immobilità — è duro l'editorialista Nahum Barnea — non lo recupererà parlando all'Onu». L'Africa, l'Asia, il Centro e il Sudamerica hanno promesso l'appoggio ai palestinesi: molto più dei 75 Paesi che votarono per l'indipendenza del Kosovo. Siccome però i voti si pesano, va detto che i kosovari avevano dalla loro gli Usa e l'Europa, incocciando solo nel veto russo, mentre la Palestina arriva col no di Obama e la Ue spaccata: favorevoli Londra, Madrid e scandinavi, contrari Germania, Italia, Polonia...
Vincere, probabilmente Abu Mazen vincerà. Ma che cosa? «Qualche bandiera palestinese sui palazzi dell'Onu», ironizza Hamas, contraria a questa mossa «rischiosa» del rivale palestinese. Qualche dubbio, ce l'hanno anche a Ramallah. L'Anp ha commissionato a giuristi di Oxford un parere e la risposta l'ha gelata: la conquista del seggio Onu implicherebbe la perdita di quello storico dell'Olp, «osservatore permanente» che dal '64 tutela tutto il popolo palestinese, compresa la metà della diaspora. Il nuovo seggio avrebbe rappresentanza solo per Cisgiordania e Gaza. Con buona pace dei profughi in Libano, Siria e Giordania. Quelli della risoluzione 194. Che nel '48 appesero le chiavi alle porte, prima d'andarsene. E lì le lascerebbero per sempre.

Repubblica 17.9.11
Abu Mazen non cede a Obama "L'Onu riconosca lo Stato palestinese"
Scontro Anp-Israele, mediazione Usa per evitare lo strappo
Nello stato ebraico bufera contro il premier: al Palazzo di vetro un disastro diplomatico
Confermata la richiesta all´Assemblea generale: "Si torni ai confini del 1967"
di Fabio Scuto

GERUSALEMME - I palestinesi andranno a Palazzo di Vetro per ottenere un seggio all´Onu, nonostante le pressioni americane, il no di Israele e le incertezze dell´Europa sulle varie formule rispetto allo status di ingresso della Palestina. Mentre in Israele infuriano le polemiche attorno al premier Benjamin Netanyahu, bersagliato da Kadima e dalla stampa liberal, accusato di inazione, di incapacità di affrontare la più grave crisi diplomatica della storia d´Israele dopo il gelo con la Turchia e l´Egitto e la prospettiva di uscire sconfitto dal Palazzo di Vetro nonostante l´annunciato veto americano sull´indipendenza della Palestina.
Il premier israeliano in un disperato tentativo di uscire dall´immobilismo ha fatto sapere di essere disponibile a un innalzamento dello status dell´Autorità nazionale palestinese all´Onu, a patto che non sia equiparato a quello di uno Stato. Cosa che impedirebbe alla Palestina di entrare negli organismi Onu come l´Unicef, la Fao, l´Unesco, e soprattutto non darebbe accesso alla Corte penale internazionale dell´Aja, dove invece - una volta ottenuto lo status anche di osservatore - la Palestina potrebbe portare Israele, per quanto riguarda gli insediamenti colonici in Cisgiordania, giudicati illegali dalla comunità internazionale. È soprattutto per quest´ultimo punto che Israele sta facendo il possibile per evitare l´indipendenza palestinese, in quei "settlements" vivono 350 mila coloni e sono il serbatoio dei voti del Likud e dell´ultra-destra radicale che siede nel governo.
Nonostante le minacce americane di tagliare 550 milioni di dollari di aiuti l´anno, il presidente Abu Mazen sembra deciso al passo all´Onu, dove parlerà nell´ambito dell´Assemblea generale il prossimo 23 settembre. «Vogliamo un seggio all´Onu e il pieno riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con Gerusalemme est come capitale», ha detto Abu Mazen ieri sera in un messaggio televisivo. Una decisione presa per «riparare un´ingiustizia della Storia» e già 126 Paesi riconoscono la Palestina. Il presidente ha chiarito che l´Anp si rivolgerà al Consiglio di Sicurezza, unico organo del Palazzo di Vetro a potersi pronunciare sulle richieste di adesione. La richiesta - che verrà bloccata dal veto Usa - passerà all´Assemblea generale dove non ci sono veti e basta la maggioranza dei due terzi per entrare come Stato osservatore, ma con diritto di ingresso negli organismi Onu. «Noi non vogliamo isolare Israele, vogliamo isolare la politica del suo governo» e «mettere fine all´occupazione» ha detto ancora Abu Mazen.
Prosegue prima dell´appuntamento Onu di New York, una febbrile attività diplomatica ma le posizione di Stati Uniti e la maggioranza dei Paesi Ue - in maggioranza favorevoli a uno status come quello del Vaticano per la Palestina - sono distanti. L´ultima partita si giocherà nei corridoi del Palazzo di Vetro dove il presidente Usa Obama spera in un faccia a faccia Abu Mazen-Netanyahu che scongiuri il voto con l´impegno a ritornare subito al tavolo delle trattative di pace.

La Stampa 17.9.11
Londra, la metà dei genitori vuole gli scappellotti a scuola
Sondaggio, “insegnanti poco rispettati, torniamo alle punizioni corporali”
di Mattia Bernardo Bagnoli

Rigore Non solo punizioni corporali: la stragrande maggioranza dei genitori britannici è favorevole alle espulsioni dalle scuole e all’isolamento dei ragazzi indisciplinati

A saccheggiare i negozi, durante i tumulti del mese scorso, c’erano i giovani quando non i giovanissimi; nelle gang di quartiere si è «soldati» fatti e finiti già verso i 12 anni; David Cameron parla apertamente di «Gran Bretagna malata» e ripete che trovare una cura è in cima alla lista delle cose da fare. La parola disciplina, così démodé, è improvvisamente tornata in voga. E allora forse non sorprenderà che il 49% dei genitori del Regno Unito si sia detto favorevole a riportare in auge le punizioni corporali a scuola. Visti i risultati dell’innovazione, par di capire, meglio correre tra le braccia della buona vecchia tradizione di vittoriana memoria. E pazienza se in una mano tiene la verga di legno.
Il sondaggio - che ha immediatamente suscitato un feroce dibattito - è stato condotto da YouGov per il Times Educational Supplement su un campione di 2000 genitori e 530 ragazzi della scuola secondaria. Qui scatta la seconda sorpresa. Persino tra gli studenti, infatti, c’è un bel 19% favorevole al ritorno del «caning», ovvero le bacchettate. Stessa cosa per lo «smacking» (lo scappellotto). Per quasi la metà dei genitori dovrebbe essere reintrodotto come metodo per mettere in riga i più indisciplinati. Va da sé che, a questo punto, misure più soft ma sempre comunque arsenale della vecchia scuola - sospensioni, l’espulsione, l’isolamento e il metodo di far scrivere al Bart Simpson di turno righe su righe relative al suo cattivo comportamento sfondano una porta aperta: tre quarti delle mamme e dei papà del Regno Unito ne chiedono il ritorno. Il punto è che l’85% dei genitori crede che gli insegnanti non vengano rispettati abbastanza dai ragazzi e che, ai loro tempi, la disciplina nelle classi fosse molto più severa.
Il comportamento sempre più selvaggio nelle scuole è ad ogni modo un tema che sta naturalmente a cuore anche agli insegnanti. «Se manca l’ordine un insegnante giovane e senza esperienza rischia di diventare vittima dei bulli e lasciare la professione», dice al «Daily Telegraph» Sir Michael Wilshaw, preside della Mossbourne Community Academy di Hackney. «Qualcosa come un quarto dei professori abbandona nei primi anni: è una tragica perdita di talenti». «Il problema è che l’autorità degli adulti è in crisi in molte scuole», ha commentato il ministro dell’Istruzione Michael Gove. Da qui al ritorno della verga ci corre però parecchio. «Non c’è nessuna intenzione di tornare alle punizioni corporali», ha precisato un portavoce del ministero. «Stiamo rafforzando il potere d’intervento dei professori e così la loro autorità». Il che significa permettere agli insegnanti di poter immobilizzare i ragazzi violenti e perquisirli se ritengono che abbiano addosso oggetti vietati.
La verità però è che, sulle bacchettate, il Paese è sempre stato diviso a metà, incerto se guardare avanti o voltare lo sguardo. Furono infatti abolite nel 1986 quando la mozione passò alla Camera dei Comuni per un voto soltanto. Quello di Margaret Thatcher (era a pranzo con Nancy Reagan) arrivò in ritardo in aula e questo le impedì di schierarsi contro. Il bando riguardava però solo le scuole pubbliche. In realtà anche gli istituti privati come Eton - dove fino al 1970 il ragazzo punito doveva abbassarsi pantaloni e mutande si adeguarono presto (la linea Piave durò per soli tre anni). La Corte europea dei Diritti Umani era d’altra parte già intervenuta sulla questione, riducendo di molto il rigore alla Dickens di alcuni presidi. E a ragione. Una vecchia inchiesta dello Stopp - la società degli insegnanti contrari alle punizioni corporali - rivelò infatti che all’inizio degli Anni Ottanta veniva «bacchettato» un bambino ogni venti secondi.

La Stampa 17.9.11
I beati anni del castigo
di Richard Newbury

Ah, beati giorni della scuola! Io ho studiato e insegnato negli ultimi anni dei colpi di canna. Sono stato percosso per la prima volta quando avevo 11 anni per una trasgressione che non ricordo e da allora lo sono stato regolarmente finché, a 17 anni, non mi sottrassi ai colpi del direttore del collegio per il crimine di aver parlato a una ragazza. Minacciai di restituirgli ogni colpo e per questo venni espulso. Il mio amico Ian, sindaco di Cambridge e professore di matematica, ricorda di essere stato battuto a Eton per «un atteggiamento generale». Il preside di Eton negli Anni 60, Chevenix-Trench, era un famigerato «flagellatore», che faceva chinare i colpevoli sul suo letto coniugale e fu poi trasferito per ragioni poco chiare. Il poeta vittoriano Algernon Swinburne, invece, fu espulso da Eton per «aver goduto troppo» delle percosse in pubblico, andando in estasi. Effettivamente le ultime scuole ad avere queste armi nel loro arsenale educativo dovevano procurarsele nei sex shop: i colpi di canna restano popolari tra quegli adepti che ricordano con nostalgia «i migliori anni della loro vita».
Io mi sono sempre rifiutato di fare il preside proprio per non dover battere i ragazzi. Tuttavia, come insegnante nelle scuole difficili della Londra Anni 70, devo dire che l’abolizione delle pene corporali inizialmente rese la nostra vita «più stimolante». Ricordo che in una scuola le canne arrivarono con il materiale didattico e la sanzione aveva una sua forza, dato che veniva replicata a casa. In un’altra scuola ero responsabile del «controllo» e certamente i poteri di repressione fisica che avevo allora oggi mi porterebbero dritto filato davanti a un tribunale, con l’accusa di aver violato i «diritti umani» degli studenti. Il vero messaggio di questo 49 per cento di adulti che vogliono la reintroduzione del bastone è che non vogliono essere la prima generazione di genitori minacciati dai loro figli e vogliono la disciplina a scuola. Invece di studenti indisciplinati che chiedono «Ohu, rispetto!», vogliono che gli insegnanti abbiano la facoltà di comminare sanzioni e un sostegno legale che possa imporre «rispetto» sia verso gli insegnanti sia verso «i più grandi e i migliori» in generale. La violenza, canna inclusa, si ripresenta inevitabilmente come regola storica se non viene ripristinato l’equilibrio di potere.

Giulio Tononi, professore di psichiatria all'Università del Wisconsin-Madison
La Stampa 17.9.11
Il “coscienziometro” del novello Galileo
di Chiara Beria Di Argentine

Ha già vinto lo scetticismo di molti scienziati con le sue ricerche sui moscerini della frutta. «Ho passato 13 anni a studiarli e altri 3-4 anni per riuscire a convincere i miei colleghi - era il 2000 - che anche le mosche dormono!», sorride Giulio Tononi, 50 anni, professore di psichiatria all'Università del Wisconsin-Madison. «Il sonno è uno dei grandi misteri irrisolti. Eppure ogni notte, dalla culla fino alla tomba, tutti dormiamo. In quegli anni - ricorda Tononi - sapevamo dei mammiferi ma non conoscevamo nulla degli invertebrati. Così, decidemmo di studiare i moscerini, tra gli invertebrati più piccoli: ebbene, fanno come noi; dormono una fetta della giornata! Dopo il nostro studio, vari gruppi di ricercatori hanno dimostrato che anche altri invertebrati dormono; in seguito, abbiamo scoperto anche la prima mosca mutante che dorme pochissimo».
Fu così che il neuroscienziato sviluppò una teoria sulla funzione del sonno chiamata «Ipotesi dell’omeostasi sinaptica». Semplificando il Tononi pensiero: durante il giorno incamerando sempre più informazioni le sinapsi (connessioni fra i neuroni, ovvero la parte più importante e che impiega il 75% d’energia consumata dal cervello) diventano sempre più «pesanti». Fino a saturarsi.
«È come ritrovarsi la sera con un’auto a 6 cilindri invece di quella a 4 cilindri che hai di giorno. Anche se vai in folle consumi sempre di più. Senza interruzioni il cervello esploderebbe letteralmente; occorre quindi un sistema che faccia “dimagrire” le sinapsi. E questo sistema è il sonno». Diventato un super esperto di stati alterati della coscienza («Nel sonno senza sogni l’annichilimento della coscienza è quasi completo») Giulio Tononi, novello Galileo, si è spinto a esplorare nel più lontano e affascinante dei cieli alla ricerca dell’Io. «La coscienza è il problema scientifico per eccellenza, il mistero dei misteri legato alla condizione umana. Coscienza è sinonimo d’informazione, senza coscienza non c’è niente. Ma cos’è la coscienza? Qual è il suo ruolo? Come si genera? Che relazione ha con la materia che, più o meno tutti, siamo convinti esista nell’universo?». Interrogativi che hanno inciso sulle scelte di vita di Tononi fin dai tempi del liceo. «Non riuscivo a darmi risposte dettate solo dall’etica». A differenza del padre Giorgio, per anni sindaco di Trento, e dei suoi fratelli (Massimo, il più noto, ex Goldman Sachs e sottosegretario all’Economia nel 2˚ governo Prodi, è presidente della Borsa), Giulio ha preferito la scienza a politica& affari. Laurea in Medicina e specializzazioni in psichiatria e neuroscienze alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, Tononi, è un supercervello italiano che studia il cervello all’estero.
«Nessuna fuga dall’Italia! Ho solo valutato dove potevo meglio fare ciò che m’interessava». Dagli Anni 90 è a New York, al Neurosciences Institute; poi, a San Diego; infine, dal 2001, a Madison dove dirige il Center for Sleep and Consciousness. Anni e anni di test e ricerche e - a soli 15 minuti di auto dal suo laboratorio - vivere in una baita isolata nel bosco. «Non ho neanche la tv. La mattina sono circondato da cervi e tacchini selvatici», racconta Tononi prima di partire per l’Italia. Relatore a «The Future of Science», settima conferenza mondiale della Fondazione Umberto Veronesi (Venezia, 18-20 settembre; riunisce alcuni dei maggiori protagonisti della ricerca sulla mente umana) il geniale Tononi parlerà di cos’è la coscienza secondo la sua rivoluzionaria «teoria dell’informazioneintegrata» (nell’ultimo anno ne hanno scritto, tra gli altri, «TuttoScienze» della «Stampa» e il «NewYork Times»).
La coscienza tradotta in una formula matematica che ha definito «Phi»: eresia? Se le intuizioni dello scienziato italiano si dimostreranno giuste si potrà anche arrivare a misurare (come si fa con il termometroper la febbre) il livello di coscienza nei pazienti con gravi lesioni cerebrali. Tononi lo chiama il «coscienziometro». Non è fantascienza; i primi test sono già iniziati, anche in Italia.

La Stampa TuttoLibri 17.9.11
Margherita Hack ospite a «Pordenonelegge»
“Dopo un’ora con i pesci rossi volai tra le stelle”
di Piero Bianucci

La scienziata ospite a «Pordenonelegge» racconta la sua vita tra biciclette e asteroidi: dopo una lezione di De Robertis su Cecchi, scelse l’Osservatorio di Arcetri

Fiorentina trapiantata a Trieste, campionessa italiana di salto in lungo, celebre astrofisica, divulgatrice di successo, circondata da gatti e da cani, a 89 anni Margherita Hack si batte per una «libera scienza in libero Stato» e perché i malati terminali possano scegliere il proprio destino. Ma intanto se ne esce con La mia vita in bicicletta (Ediciclo), inno alle due ruote silenziose, agli allegri sudori della giovinezza, alle campagne attraversate pedalando.
Da piccola giocava con il Meccano. «Le costruzioni mi attraevano. Una volta vidi un incrociatore a Venezia, ne feci un disegno e poi un modellino». Oggi la psicologia cognitiva ci spiega che il Meccano, con le sue viti, allena nel ragazzino i movimenti fini delle dita sviluppando sinapsi nel cervello. Cosa che non avviene con il Lego, che sollecita solo la forza bruta della compressione. Harold Kroto, Nobel per la chimica, racconta che sa distinguere tra gli ospiti della sua casa chi ha giocato con il Lego e chi con il Meccano: i primi stringono troppo il rubinetto del lavandino, danneggiando la guarnizione. Ma, subito dopo il Meccano, Margherita Hack desiderò una bicicletta, e la ottenne al primo anno del liceo.
«Quando incominciai a fare sport – pallacanestro, salto in alto, salto in lungo – mi innamorai del ciclismo. Facevo il tifo per Binda, e litigavo con Aldo, che invece teneva per Guerra. Ci eravamo conosciuti ragazzini al Bobolino, un giardino di Firenze, e mi era antipatico. Ci ritrovammo all’università, ci siamo sposati e siamo insieme da più di settant’anni. Ma in bici ero una solitaria. Ogni giorno facevo almeno 50 chilometri. L’estate del 1940 la passai in sella dal mattino alla sera, in giro per Firenze, Fiesole, mi arrampicavo sulle salite della Porrettana verso Bologna».
Le spiacerà vedere il ciclismo svilito dal doping...
«Certo preferisco l’atletica. Nel ciclismo però non girano troppi soldi, è ancora in gran parte uno sport povero. Il peggio è nel calcio».
Che libro ha sul tavolino da notte?
«Non ho libri sul tavolino da notte. Così come in casa non c’è una biblioteca, una stanza dedicata alla lettura. I libri sono dappertutto, in un gran disordine. Storia, filosofia, politica, medicina, letteratura. Tanta scienza. In ogni stanza ce n’è un mucchio, accatastati come capita. Saranno ventimila. Ma in gran parte sono di Aldo: lui è laureato in Lettere classiche, è stato un lettore accanito. Di questi ventimila libri, i miei saranno un migliaio».
Legge più narrativa o saggistica?
«Ormai soltanto saggistica. Ma negli ultimi anni ho letto sempre meno. Forse anche perché ho scritto molto. Il tempo è poco. La cosa singolare è che ora mi capita di dover leggere libri che non ho scelto io, ma per i quali mi chiedono di scrivere la prefazione…».
Che futuro immagina per il libro? Vincerà l’e-book, il libro elettronico?
«Non lo so. A me piace sfogliare un libro di carta. Certo con l’elettronica una biblioteca intera sta in un computer tascabile. E poi ci sono migliaia di libri su Internet. Ma questi vanno bene per una consultazione. Mi capita spesso di cercare un autore su Internet, ma per trovare un’informazione, un dato, una pagina».
Se deve consultare un’enciclopedia?
«Mi fido di più dell’Enciclopedia Britannica».
Abbozziamo il diario di lettura della sua vita.
«Imparai a leggere a cinque anni. Nella casa dei miei genitori c’era uno scaffale con parecchi testi ma quelli che mi colpirono furono il volumone della Divina Commedia ePinocchio . C’erano anche i libri di Camille Flammarion, il grande divulgatore dell’astronomia».
E’ stato Flammarion a rivelarle l’astronomia?
«No. Lo leggeva il babbo. Quando sfogliava quei volumi rilegati sbirciavo le incisioni che rappresentavano la Luna, le costellazioni, i pianeti, ma l’astronomia per me venne dopo. Mi iscrissi a Lettere. Ci rimasi un’ora sola, il tempo di ascoltare una lezione di De Robertis che commentava un libro di Emilio Cecchi, I pesci rossi . A me interessava la fisica. E ho studiato fisica. L’astronomia fu una conseguenza: mi diedero una tesi che riguardava una stella variabile, e all’Osservatorio di Arcetri fu l’astronomo Mario Fracastoro a insegnarmi a usare il telescopio. Era molto giovane anche lui, la mia fu la prima tesi che gli venne affidata».
Torniamo alle prime letture.
«Incominciai da Pinocchio, mi divertiva. Leggevo anche novelle di fate, tante storie di animali. E L’Avventuroso , una rivista per ragazzi piena di storie fantasiose e di eroi improbabili: Mandrake, un certo Minge, che era cinese ma anche extraterrestre. Più avanti negli anni mi piaceva Salgari: Il Corsaro Nero , Jolanda la figlia del Corsaro Nero, Sandokan. E poi I ragazzi della via Pál , dell’ungherese Ferenc Molnár».
Letture scolastiche: che ricordo ne ha?
«Mi piaceva l’ Odissea : racconta tante avventure. Detestavo l’Iliade perché è un libro di guerra. Manzoni fu una lettura obbligata. Lessi I promessi sposi svogliatamente. Ho poi ripreso Manzoni per conto mio, e l’ho apprezzato, ma la storia di Renzo e Lucia non mi ha mai trascinata. Anche Verga è rimasto un autore scolastico. Meglio Leopardi. Non quello delle Operette Morali , ma il poeta del Pastore errante».
Leopardi quindicenne compilò una storia dell’astronomia e lei ne ha scritto il seguito dall’Ottocento ai nostri giorni.
«La storia dell’astronomia di Leopardi è un lavoro nozionistico ma contiene anche notazioni interessanti. Per esempio, Leopardi fa notare che gli scienziati ottengono i risultati migliori da giovani, ed è vero. Parla dell’ipotesi che esistano creature extraterrestri, sostenendo che però non ne sapremo mai nulla perché ci separano distanze enormi. Questo è moderno, è ancora attuale».
I grandi romanzi?
«Su suggerimento di Aldo ho letto Tolstoi, Dostoevskjj, La montagna incantata di Thomas Mann. Questi sono libri che mi hanno colpita».
Da molti anni vive a Trieste, una città speciale, per la letteratura.
«Sì, la città di Italo Svevo e di Joyce».
E di autori come Fulvio Tomizza. Vi conoscevate?
«Ci siamo incontrati qualche volta. Ma non posso dire che ci si frequentasse. Non amo i salotti letterari».
E Claudio Magris?
«Ci si conosce, ci si stima. Eravamo professori nella stessa Università. Anche lui è appartato».
Aldo frequentava scrittori? Glieli ha fatti conoscere?
«E’ stato amico di Prezzolini e di Papini. Li ho conosciuti entrambi. Ma non andavo d’accordo con le loro idee».
Scorriamo qualche nome del Novecento: Moravia?
«Ho letto i racconti, credo siano la sua cosa migliore».
Bassani?
«Ho letto Il giardino dei Finzi-Contini , senza entusiasmo. Mi interessavano di più Pratolini e Pasolini».
Calvino? Primo Levi, che oltre ad aver testimoniato lo sterminio degli ebrei era un chimico e ha scritto racconti di tema scientifico?
«Ho letto un poco Primo Levi, non Calvino».
Elsa Morante, Gadda?
«No».
Poesia? Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sereni, Zanzotto?
«No, se devo scegliere un poeta le dico D’Annunzio. E, tra le sue poesie, La pioggia nel pineto ».
Lei ha lavorato negli Stati Uniti. Erano gli anni di Hemingway. Fu conquistata dalla quella letteratura americana che in Italia aveva cultori come Pavese e Fenoglio?
«Hemingway non mi piaceva. Mi piaceva Faulkner».
C’è un libro minore ma che le sia rimasto impresso?
«Un libro di Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale italiana di calcio e poi famoso giornalista sportivo. Risale a quando nel 1934 e nel 1938 l’Italia vinse il campionato del mondo. Era intitolato Da Roveda a Londra . A Roveda si svolgevano gli allenamenti. Roma ospitò le partite nel ‘34. A Londra, già campioni del mondo, giocammo contro l’Inghilterra, che allora snobbava il mondiale. Credo che ne uscimmo con un pareggio».
«In casa non c’è una biblioteca, i libri sono dappertutto, in un gran disordine, saranno ventimila» «A scuola mi piaceva l’Odissea che racconta tante avventure, detestavo l’Iliade perché è un libro di guerra» «Conobbi Papini e Prezzolini attraverso mio marito, ma non andavo d’accordo con le loro idee» «Mi è rimasto impresso un testo di Vittorio Pozzo, ct glorioso della Nazionale: Da Roveda a Londra»

Corriere della Sera 17.9.11
Sei ciocche della sposa divise con una bacchetta
Così a Roma il marito mostrava il suo potere
di Eva Cantarella

Se alcuni dei riti nuziali praticati nell'antica Roma sono ancora in uso, altri — fortunatamamte — sono da tempo scomparsi. Tra di essi, uno che a prima vista si potrebbe pensare consistesse semplicemente nell'adeguamento a una innocua moda del momento, ma che, a ben vedere, nascondeva un valore simbolico a dir poco inquietante: sto parlando della foggia nella quale, il giorno delle nozze, le spose usavano pettinare i capelli.
L'acconciatura tradizionale delle spose, infatti, voleva che la loro chioma venisse divisa in sei ciocche. Sin qui niente di preoccupante: ma quel che incomincia a ingenerare qualche perplessità sul significato del rito è il fatto che la divisione della chioma in sei ciocche venisse fatta dallo sposo, che a questo scopo si serviva di una bacchetta detta caelibaris hasta.
Che significato poteva avere un rito così singolare? A chiederselo, prospettando interpretazioni diverse erano già gli antichi. Secondo Plutarco, infatti, la caelibaris hasta ricordava che il primo matrimonio era stato il celebre ratto delle Sabine, vale a dire un atto di guerra (così nella Vita di Romolo). Ma Festo, sempre in chiave militare, propone un'altra interpretazione: il rito serviva a rendere chiaro che la sposa veniva sottoposta al potere del marito: «L'asta infatti è l'espressione massima delle armi e del potere» (Fest., s.v. caelibaris hasta). E la parola qui tradotta potere è imperium, che indicava il comando militare.

Corriere della Sera 17.9.11
«I ragazzi di oggi sono tristi»
Philippe Djian: noi beviamo per essere felici, loro per stordirsi 
di Stefano Montefiori

PARIGI — Inutile cercare Philippe Djian al solito Cafè de Flore, sprofondato nei divanetti rossi, l'aria magari corrucciata o lo sguardo immerso nel volume appena comprato alla vicina libreria La Hune. Philippe Djian lo si trova alla brasserie Faitout, nel XIX arrondissement, lontano dagli editori di Saint-Germain ma vicino al parco delle Buttes Chaumont. È arrivato in anticipo all'appuntamento e aspetta in piedi, di spalle, vestito in maglietta e giacca nera, sfogliando il Parisien sul bancone di zinco e sorseggiando il primo di molti caffè. Philippe Djian ha 62 anni, scrive da 30, ha conosciuto un successo enorme nel 1985 con uno dei suoi primi romanzi, 37°2 al mattino (portato al cinema come Betty Blue, protagonista una fantastica Beatrice Dalle), e da allora pubblica un titolo al massimo ogni 18 mesi.
«È un lavoro, mica aspetto che l'ispirazione mi piombi addosso — spiega sorridendo, adesso seduto al tavolino —. Con la letteratura ci pago la casa, gli studi dei miei figli. I romanzi sono fatica, passione, tecnica». Lo dice anche Stephen King, che sta al tavolino dalle nove alle cinque 365 giorni all'anno. È anche per questo atteggiamento che lei è perennemente definito «il più americano degli scrittori francesi»? «Ci sono tante ragioni. È vero che i miei modelli, i miei autori preferiti sono in maggioranza americani. Come Salinger, scrivo i libri che mi piacerebbe leggere. E non ho paura di una parola che in Europa, soprattutto in Francia, è giudicata quasi una bestemmia: entertainment. Hemingway faceva entertainment. Piace farlo anche a me». Il romanzo 2011 di Philippe Djian è Vendette, appena uscito in Italia come sempre per Voland. L'incipit ci dice molto di quel che Djian intende per letteratura: «I più colpiti erano di sicuro i più giovani, quelli sui vent'anni. O giù di lì. Bastava guardarli. L'avevo capito davvero durante una festicciola dai nostri vicini, pochi giorni prima di Natale. Quando Alexandre, mio figlio diciottenne, aveva lasciato di sasso poi terrorizzato gli astanti sparandosi a freddo una pallottola in testa. E crollando sul buffet». Seguono 145 pagine in cui il padre, Marc, artista cinquantenne, cerca di capire perché Alexandre abbia voluto punirlo in modo così feroce. Nella sua ricerca è aiutato dagli amici di sempre, Anne e Michel, e da Elisabeth, una ragazza raccolta in una pozza di vomito tra i sedili del metrò, che si rivelerà presto essere l'ex fidanzata di Alexandre. Marc ripercorre il suo rapporto con il figlio suicida proprio come aveva vissuto con lui: prestandogli attenzioni, ma anche pensando molto ad altro. Politica (un tempo), feste, cocaina, tanto alcol, tantissime donne. Anche quelle dei compagni. Come Anne, per esempio, da decenni moglie del suo migliore amico ma pronta a mettergli le mani addosso durante le gite in macchina.
«Negli ultimi libri parlo di noi cinquanta-sessantenni, che per la prima volta nella storia non desiderano poi cose così diverse rispetto ai figli — racconta Djian —. Il mio ragazzo quando viene a casa mi ruba spesso i vestiti. Io non mi sarei mai sognato di sottrarre il panciotto dal cassetto di mio padre. Ho vissuto con degli eccessi, naturalmente, ma sempre finalizzati a essere felice, a vivere pienamente. Bevo perché mi piace rilassarmi, stare bene con le persone e andare dietro alle mie curiosità. Oggi i ragazzi fanno binge drinking, si scolano litri di alcol in pochi minuti per andare fuori di testa il prima possibile. In questo siamo diversi, loro sono più tristi».
A Djian non piacciono neppure i giovani scrittori troppo educati, troppo perbenino. «Eravamo a una presentazione con Laurent Binet, quello di "HHhH". Un bel ragazzo, intelligente, con una bellissima compagna. Ma a parte che non si capisce questa mania di scrivere sempre della Seconda guerra mondiale invece di parlare della realtà, del mondo attorno a noi. Ma poi bisognava vederlo, così educatino, così ammodino... Come Dave Eggers, che pure mi piace... Ma mi hanno detto che a casa sua a San Francisco fa togliere subito le scarpe ai giornalisti, offrendo pantofole, per paura che si sporchi il pavimento. Gesù, anche io ho avuto figli piccoli e la mia casa è pulita, davvero. Ma le pantofole no...»
Scusi ma che c'entrano le pantofole con la letteratura? «Non so, mi sembrano tutti ancora affettati, seduti, legati al romanzo ottocentesco, che, soprattutto in Francia, vogliono ancora scrivere come Proust. Immenso, Proust, ma ci sono stati per fortuna Céline, Kerouac, e oggi le serie americane, e Bret Easton Ellis che alla fine di Lunar Park non ha paura di inventarsi una deriva horror. Io ho scritto sei volumi di "Doggy Bag" ispirandomi alle serie americane. La verità è che dovrebbero tutti guardare l'episodio pilota della serie "Breaking Bad": un paio di pantaloni che cadono dal cielo, calpestati da un furgone in corsa nel deserto, da cui esce di corsa un uomo in mutande e maschera antigas. Questa è la grande letteratura di oggi. Ma provi a farglielo entrare in testa a quelli di Saint-Germain-des-Prés».
Signor Djian, lei che mondo vuole raccontare? «Non lo so, non mi interessa. Non faccio sociologia, né politica. Per me conta solo lo stile. Trovare parole che una dopo l'altra stanno bene insieme. Questo, per me, è scrivere».

Repubblica 17.9.11
Il progresso è finito al futuro serve l’eco-scienza
di Zygmunt Bauman

Per la mentalità moderna tutto ciò che sta nel mondo è lungi dall´essere perfetto. Niente è tanto buono da non poter ricevere correzioni
La presunta serie infinita di battaglie vinte contro la Natura ci ha portati davanti alla prospettiva di perdere la guerra. È il punto di non ritorno

L´idea di poter migliorare il mondo ha radici antichissime. E si basa sulla convinzione che l´uomo possa "correggere" la Natura piegandola alle sue necessità. Ma quello che fino a poco tempo fa era un grande modello di sviluppo rischia adesso, per i suoi eccessi, di danneggiare la vita sul pianeta. Ecco perché è arrivato il momento di usare il potere della tecnica per altri obiettivi, più sostenibili. Una sorta di eco-scienza per tutti

Il concetto di "Natura" è entrato nel nostro vocabolario con un´aura di santità: indicava la Creazione divina e, come tutto ciò che è divino, evocava l´esperienza del «numinoso», ossia quel peculiare intreccio di terrore, paura e adorazione che, come nella celebre proposta di Rudolf Otto, costituì l´avvio dell´idea di Dio e tutt´ora ne rimane la vera essenza. Per questa ragione la "Natura" significava anche un qualcosa che torreggia al di sopra della comprensione e del potere d´agire degli uomini, e con cui pertanto essi non potevano trafficare: la Natura, proprio come il Dio che l´aveva concepita e fatta venire all´essere, doveva essere riverita e adorata. La semplice idea di interferire o di immischiarsi con la Natura era ritenuta al contempo inane, implausibile e sacrilega. In verità, come ha mostrato il grande filosofo russo Mikhail Bakhtin, le elevate catene montuose e gli sconfinati mari hanno indotto fin da tempi immemorabili un «timore cosmico» che nella prospettiva di Bakhtin costituiva l´origine di ogni fede religiosa.
L´idea di ri-produrre la Natura allo scopo di costringerla a servire meglio le comodità degli uomini (idea audace, insolente, presuntuosa e per molti blasfema) è nata assieme alla modernità. La svolta moderna nella storia umana è stata equivalente, nella sua essenza, a un progetto di ricambio manageriale, ossia l´intenzione di assumere la Natura, creata da Dio benché lasciata dopo la Creazione alle sue proprie vicende, sotto la gestione degli uomini, per assoggettarne l´attività al controllo, alla progettazione e alla programmazione da parte degli uomini.
Come ha sinteticamente affermato Francesco Bacone, uno degli araldi di maggiore spicco dello spirito moderno, per comandare alla Natura occorre obbedirle. Il presupposto implicito che rendeva questa ingiunzione tanto convincente quanto attraente era che, una volta che gli uomini di sapere, ossia i praticanti della scienza emergente, avessero stilato un inventario delle ferree regole che guidavano i processi naturali, gli uomini avrebbero imparato a volgere tali regole a proprio vantaggio: cioè a ottenere, in modo regolare e invariabile, effetti positivi per il loro benessere, impedendo e prevenendo quelli dannosi e indesiderabili. Gli uomini comanderanno alla Natura obbedendo alle sue leggi: era questo in realtà ciò che voleva dire Bacone. Voltaire portò l´ingiunzione baconiana alla sua conclusione logica dichiarando che il segreto delle arti è di correggere la Natura.
Per la mentalità moderna tutto ciò che sta nel mondo è lungi dall´essere perfetto e quindi può essere reso migliore. Niente è tanto buono da non poter beneficiare di un´ulteriore correzione: cosa ancor più importante, tutto agogna a venire corretto. Del resto non esiste niente che, in linea di principio, gli uomini non possano correggere, prima o poi, se si armano della conoscenza appropriata, degli strumenti giusti e di sufficiente determinazione. Alla fine del Settecento a questo incessante sforzo di correzione è stato dato il nome di "cultura". Esso rivendicava in questo modo come proprio archetipo le antichissime pratiche dei coltivatori e degli allevatori, sebbene esse potessero apparire limitate nelle loro ambizioni, quando le si accostava alla grandiosità mozzafiato del progetto moderno. "Natura" (cioè la condizione che non è frutto di scelta umana) e "cultura" (cioè tutto ciò che gli esseri umani erano capaci di fare per adeguarsi meglio ai propri bisogni e desideri) erano l´una contrapposta all´altra. Tuttavia la loro linea di separazione veniva considerata eminentemente flessibile e soggetta a spostarsi: si riteneva infatti che il progresso della scienza e del know-how umano fosse destinato ad ampliare il dominio della cultura, riducendo al contempo con regolarità il volume delle cose e degli eventi che opponevano resistenza all´intelligenza, all´astuzia e all´inventiva degli uomini.
Oggi, diversi secoli dopo, i tempi sono maturi per arrischiare quanto meno una valutazione provvisoria, un "bilancio di carriera" di quest´ambizione moderna di dominio della Natura. Le sensazioni che un tale bilancio susciterà saranno a dir poco contraddittorie. Da una parte è lusinghiero per l´intelligenza, l´acume e la laboriosità degli uomini, dato che la nostra capacità di sfruttare le ricchezze della Natura e volgerle a nostro vantaggio (si legga: di utilizzarle per aumentare la nostra opulenza e comodità) è cresciuta enormemente, superando di gran lunga i sogni di Bacone. Dall´altra, tuttavia, siamo ormai giunti pericolosamente vicini alla linea d´arrivo dei progressi sostenibili e plausibili. Quanto più ci avviciniamo a tale linea, tanto più diveniamo consapevoli della sua differenza radicale rispetto allo "stato ultimo" di perfezione che Bacone e Voltaire avevano immaginato. La presunta serie infinita di battaglie vinte contro la resistenza della Natura ci ha portati davanti alla prospettiva (alcuni dicono: l´imminenza) di perdere la guerra. Anzi forse, intossicati per aver vinto questa lunga striscia di battaglie, abbiamo già raggiunto il punto di non ritorno, che in questo caso significa che la sconfitta definitiva è ormai divenuta una conclusione inevitabile e irrevocabile. […]
Più o meno una dozzina di anni fa due chimici di spicco dell´atmosfera, Paul Crutzen e Eugene Stoermer, si sono resi conto che l´epoca geologica nella quale si presumeva che vivessimo, quella nota con il nome di "Olocene", era in ogni caso passata e che siamo entrati viceversa in un´epoca diversa della storia, nella quale le condizioni planetarie sono plasmate dalle attività di origine culturale della specie umana più che da qualsiasi forza naturale (per esempio, in fattorie e altri luoghi selezionati da esseri umani si piantano molti più alberi di quanti crescano nelle "foreste naturali". Negli ultimi due secoli gli uomini hanno "sciolto" e rilasciato nell´atmosfera un volume di carbon fossile che la Natura aveva impiegato centinaia di milioni di anni per legare e ammassare). Crutzen e Stoermer hanno suggerito che questa nuova epoca meriti il nome di «Antropocene», ossia «la recente epoca dell´uomo». Ci sono voluti alcuni anni perché il resto dell´establishment scientifico prestasse dapprima riluttante attenzione, e in seguito ammettesse con crescente adesione la verità dell´intuizione di Crutzen-Stoermer… «Attribuire una data precisa all´inizio dell´Antropocene», dicono Crutzen e Stoermer, «pare assai arbitrario, tuttavia proponiamo l´ultima parte del diciottesimo secolo (…). Scegliamo questa data perché, nel corso degli ultimi due secoli, gli effetti globali delle attività umane sono divenuti chiaramente notevoli. Questo è il periodo nel quale i dati recuperati dai nuclei dei ghiacciai mostrano l´inizio di una crescita nella concentrazione atmosferica di diversi "gas serra" (…). Una tale data d´inizio coincide anche con l´invenzione del motore a scoppio da parte di James Watt, nel 1784…».
Il messaggio trasmesso dagli studi di Crutzen e dei suoi collaboratori e seguaci dice che è molto tardi, ma non ancora troppo tardi, per cambiare la direzione di tendenza dell´Antropocene e del culturale-che-si-fa-naturale. La distruzione del pianeta non è (quanto meno finora) assolutamente una conclusione inevitabile. I nostri nuovi saperi e il nostro impressionante potere tecnico possono ancora venire reimpiegati per rendere il pianeta meno, non più, vulnerabile, e per innalzare, invece che per diminuire, la qualità della vita. Quel messaggio va inteso come un segnale d´allarme e una chiamata alle armi. Il punto è, tuttavia, che non si deve oltrepassare il punto in cui la chiamata alle armi si trasforma in una campana a morto…Come suggerisce il termine stesso "Antropocene", l´agire umano è divenuto una forza critica nel determinare il destino di un sempre più ampio spettro di sistemi biofisici. Una conseguenza di questo spartiacque è che qualsiasi tentativo di spiegare la condotta o di prevenire il futuro delle condizioni di vita sul pianeta deve partire rivolgendosi all´agire umano culturalmente connotato. Come sempre, quanto più grande è la vittoria (in questo caso, della cultura sulla natura), tanto più grandi sono le responsabilità che ne conseguono.
Il nostro futuro è ancora in bilico, così come le opzioni aperte a tutti noi che lo abbiamo a cuore. La giuria, come si suol dire, è ancora riunita. Ma ormai è ora di rientrare con il verdetto. Quanto più a lungo la giuria resta riunita, tanto più grande sarà la probabilità che sia costretta a scappare dalla camera di consiglio perché sono finite le bibite fresche…
Traduzione di Daniele Francesconi
© Consorzio per il festivalfilosofia

Repubblica 17.9.11
La grande lezione di Leopardi dominare la natura è un´illusione
di Roberto Esposito

L´idea di poter controllare tutto non funziona ma non si può nemmeno demonizzare la tecnica Cerchiamo un´etica globale che associ la cura dell´uomo a quella degli altri organismi viventi

Dalla metà del secolo scorso si può dire che la riflessione filosofica oscilli tra due poli opposti, senza riuscire a trovare un baricentro unitario. Il primo è quello che Ernst Bloch definì ‘principio-speranza´. Pur lontano e critico verso le filosofie del progresso, egli teneva vivo il riferimento alla freccia del futuro. La verità più profonda dell´uomo è incapsulata nel momento del ‘non-ancora´, in quella dimensione a venire destinata a proiettare il presente sempre al di là di se stesso. Benché piantato nel mondo della natura, l´essere umano è capace di trascenderlo, balzando sul carro in corsa della storia. La speranza che dà senso alla nostra vita, strappandola ai suoi limiti costitutivi, non è un´esperienza soltanto soggettiva, ma una potenza reale che piega l´essere in direzione del divenire.
Il polo contrario che, ad ondate successive, torna ad attrarre il pensiero contemporaneo è il ‘principio-disperazione´ – spinto all´estremo da Günther Anders nel suo libro sull´uomo ‘antiquato´, perché sorpassato dalla sua medesima potenza distruttiva. Preda di un ‘dislivello prometeico´ tra la misura finita della sua immaginazione e la capacità illimitata del suo potere produttivo, l´uomo si scopre esposto alla possibilità senza ritorno della propria autodistruzione. Scritto negli anni della guerra fredda, il libro di Anders si riferisce principalmente al rischio della bomba atomica, ma la sua diagnosi coinvolge l´intera esperienza dell´homo technologicus. Portando al culmine la critica del progresso elaborata dai vari Mann e Spengler, Nietzsche e Heidegger, egli individua la nostra malattia nell´inarrestabile sconfinamento della tecnica nell´orizzonte, sempre più devastato, della natura.
Come sostiene nella sua relazione Bauman, la natura non soltanto ha perso la propria aurea magica, l´antico statuto di creazione divina che ne assicurava l´intangibilità da parte dell´uomo, ma è interamente affidata al suo controllo e al suo sfruttamento intensivo. Ormai siamo al di là anche delle pretese prometeiche dell´homo faber – teorizzate da Bacone o Voltaire. Oggi la tecnica non si limita ad occupare lo spazio della natura, ma arriva al punto di volerla sostituire riproducendo in modo artificiale i suoi prodotti – compresa la stessa natura umana. Questo progetto, tuttavia, non ha fatto tutti conti con la resistenza del proprio oggetto di dominio. Non è anzi escluso che finisca per rimbalzare su di esso rovesciandosi rovinosamente su colui che l´ha messo in opera.
Rispetto a tale analisi, tutt´altro che infondata, va tuttavia osservato che la natura non è poi così fragile e indifesa. A questo proposito già James Lovelock aveva sostenuto, in quella che si è chiamata ‘ipotesi Gaia´ (dal nome della divinità greca), che la terra costituisce un sistema vivente autoregolato capace di mantenere le sue caratteristiche chimico-fisiche proprio grazie ai comportamenti degli organismi viventi che lo abitano. Ciò accadrebbe per una sorta di effetto retroattivo che ristabilisce di continuo l´equilibrio tra ciò che vive e le condizioni entro cui si sviluppa la vita. Così si spiega il fatto che il livello di ossidazione o il grado di salinità del nostro ambiente naturale restino più o meno costanti anche in presenza di mutamenti strutturali. E´ perciò che, dopo l´era glaciale, la temperatura della terra non ha subito grandi variazioni benché, nel corso del tempo, il calore del sole sia notevolmente aumentato. E´ vero che, secondo la stessa teoria, l´attività umana ha prodotto danni considerevoli a Gaia – già a partire dallo sviluppo dell´agricoltura che, sostituendo gli ecosistemi naturali delle foreste con i campi di coltivazione e l´allevamento di animali, ha modificato il metabolismo terrestre. Ma non è detto che l´equilibrio del sistema non possa essere salvato dagli stessi errori degli uomini. Al punto da ipotizzare che una successiva glaciazione potrebbe essere in qualche modo compensata dall´effetto serra che abbiamo noi stessi determinato.
Naturalmente ci muoviamo in un campo di ipotesi tutt´altro che certe – e anzi contestate da altri studiosi. Resta il fatto che la partita tra uomo e natura appare tutt´altro che chiusa. Una linea di pensiero, che ha in Giacomo Leopardi la propria punta più acuta, ha ottimi motivi per credere che il rapporto di forza tra noi e la natura rimanga largamente sbilanciato a suo vantaggio. Come ci ricordano anche recenti terremoti e tsunami, nonostante tutti i sogni faustiani, di fronte alla potenza dirompente della natura, i nostri sforzi di dominarla appaiono a volte persino patetici. E non è la morte stessa un fenomeno naturale che segna la nostra esistenza in una forma che siamo ben lontani dal poter padroneggiare?
Ciò che possiamo fare – sospesi come siamo tra il ‘principio-speranza´ e il ‘principio-disperazione´ – è attivare quell´atteggiamento che Hans Jonas ha chiamato ‘principio-responsabilità´, sforzandoci di passare da un´etica antropocentrica ad un´etica globale che associ la cura dell´uomo a quella degli altri organismi viventi e dello stesso mondo naturale. Tra la fede visionaria nella tecnica e la sua demonizzazione passa la sobria consapevolezza che la scienza può essere insieme causa e risoluzione dei nostri problemi.

Repubblica 17.9.11
Il genitore perfetto non si misura con l'età
Nessuno può sapere esattamente e a priori qual è l'interesse di un bambino di un anno e mezzo
di Michela Marzano

In teoria siamo tutti d´accordo. Ogni bambino deve essere protetto, amato, coccolato. Nessuno di loro ha chiesto di nascere. Nessuno ha avuto la possibilità di scegliere i propri genitori. È per questo che i genitori hanno il dovere di occuparsi al meglio dei propri figli.
Hanno il dovere di accoglierli per come sono, di accettarne le specificità, di aiutarli a crescere senza trattarli semplicemente come degli "oggetti" a loro disposizione. quando si viene al mondo, siamo tutti estremamente fragili e indifesi. Una volta detto questo, però, il consenso finisce. Perché il ruolo dei genitori non è affatto semplice ed esistono mille modi diversi di vivere la propria maternità o la propria paternità. Come si fa a definire un "buon" padre o una "buona" madre? Ci si può arrogare il diritto di decidere che è nell´interesse di un bambino essere dato in adozione perché i suoi genitori sono "troppo" anziani o hanno desiderato "troppo" avere un figlio?
Con una sentenza choc, il tribunale dei minori del Piemonte ha deciso che la volontà di concepire un bimbo non è legittima quando si fonda "sul desiderio di soddisfare a tutti i costi i propri bisogni". Che due persone "troppo anziane" che ricorrono a un´inseminazione eterologa non rispettano le "leggi di natura". E che, in casi come questo, l´interesse di un bambino è di essere adottato da un´altra coppia: persone più giovani, meno ossessionate dal desiderio di avere un figlio, più "normali". Peccato che nessuno possa sapere esattamente quale sia l´interesse di un bambino. Peccato che ognuno di noi sia particolare ed unico e che nessuno possa decidere a priori ciò che sia giusto o sbagliato per gli altri. Peccato che, forse, l´unica cosa di cui un bimbo non abbia bisogno sia di essere strappato ai propri genitori quando ha solo un anno e mezzo, e non ha ancora la possibilità di capire quello che succede, di elaborare il lutto della perdita, di pensare che l´abbandono dei suoi genitori non dipenda da lui…
Certo, è sempre pericoloso per un figlio essere considerato e trattato come un oggetto capace di colmare il vuoto interno di una madre. Quando si utilizza un bimbo per cicatrizzare la propria ferita narcisistica, lo si strumentalizza e non gli si permette di crescere in modo equilibrato. Se è vero, come pretendono gli esperti ascoltati dal tribunale del Piemonte, che la madre della piccola "Viola" (è così che la si chiama, per proteggerne l´anonimato) è incapace di stabilire con la figlia un contatto emotivo perché la sua "ferita narcisistica è intollerabile", la bambina avrà qualche difficoltà nella vita. Ma chi di noi non ha delle difficoltà nella vita che dipendono dal modo in cui i nostri genitori ci hanno trattato? Chi può veramente dire di essere stato desiderato per dei "buoni motivi"?
Non esistono dei "buoni desideri" e dei "cattivi desideri". Esattamente come non esistono delle persone che meritano o meno di diventare genitori. Il desiderio di avere un figlio è sempre complesso e ambivalente. Si può voler un figlio per colmare un vuoto, per avere un erede, per riparare qualcosa della propria storia familiare, per proiettarsi nel futuro, per lasciare una traccia in questo mondo… Esattamente come, nel passato, lo si poteva volere per conformismo, per abitudine, per rispettare le tradizioni. In fondo, poco importa. Se si vuole un figlio, è inutile cercare di capire le ragioni precise di questo desiderio. Non esiste un modello perfetto di genitore capace di garantire l´equilibrio e la serenità dei figli. Non potremmo allora semplicemente accontentarci di essere delle madri o dei padri "sufficientemente buoni", come diceva il famoso pedopsichiatra D.W. Winnicott che ha passato la propria vita a cercare di spiegare la difficoltà di essere genitori?

Repubblica 17.9.11
Polanski esalta la cattiveria della famiglia
A Venezia era uno dei candidati più autorevoli al Leone d'oro vinto da "Faust"
Ma il film del regista polacco resta un'opera perfetta, puro piacere cinematografico
di Natalia aspesi

Alla Mostra di Venezia Carnage ha provocato una specie di incantamento: è piaciuto a tutti, pubblico e critica, e si dava per scontato che il Leone d´oro fosse suo. Poi all´unanimità il premio è andato allo stupefacente Faust del russo Sokurov, che ha riportato al cinema il senso del capolavoro. Ma Carnage resta un film perfetto, 79 minuti di puro piacere: per la maestria assoluta del regista, Roman Polanski, la furibonda bravura dei quattro attori, la trascinante ironia della sceneggiatura quasi identica al testo teatrale "Il dio del massacro" di Yasmina Reza pubblicato da Adelphi.
Due coppie di genitori più o meno quarantenni si ritrovano in un appartamento di Brooklyn per trovare un accordo su quanto è accaduto tra i loro due figli undicenni: uno ha rotto due denti all´altro con un bastone. La casa è quella di Penelope e Michael, lei, Jodie Foster, è una donna colta, terzomondista che scrive libri sul Darfur; lui, John C. Reilly, commerciante di casalinghi, è un uomo gioviale, disponibile: hanno comprato i tulipani, in frigo ci sono gli avanzi di una torta per accogliere gli ospiti, Nancy ed Alan: lei, Kate Winslet, è una elegante consulente patrimoniale, lui, Christoph Waltz, è un importante avvocato. L´atmosfera è civile, tollerante, guai a lasciarsi sopraffare dall´emotività, o da quello che l´educazione e l´ipocrisia sanno nascondere. Si offre il caffè, si parla di bambini, di fiori, di torte, di professioni, con voci flautate che si inaspriscono, con sorrisi che si trasformano in ghigni.
Infatti a poco a poco nascono gli attriti, le provocazioni, lo sperdimento, il disprezzo, la rabbia, la violenza non solo verbale, in una specie di balletto frenetico in cui i ruoli e i bersagli cambiano continuamente. È la guerra di una coppia verso l´altra, di due modi di vivere e di pensare, del rancore delle donne verso gli uomini, del sessismo maschile contro le donne definite "impegnate": è una guerra all´interno della coppia in cui di colpo scoppiano i dissidi e i rancori da sempre taciuti, è un riconoscimento del proprio fallimento, del fallimento di un modo di vivere in cui non si è mai creduto. E´ appunto un gioco al massacro, nato dal nulla, che denuda le persone delle loro maschere, che le obbliga a rivelare la propria infelicità e incapacità a liberarsene. I litigi, le riappacificazioni, la storia di un criceto, i libri d´arte rovinati dal vomito, i pianti, le crisi isteriche, le botte, il rum, l´ubriachezza, la borsetta buttata a terra, i tulipani fracassati, sono scanditi dall´uso continuo del cellulare di Alan alle prese con un cliente nei guai, dalle telefonate della madre di Michael, che, finto bonaccione, finalmente sbotta "La coppia è la prova più terribile che Dio possa infliggerci, la coppia e la vita di famiglia".
Non era quello il tema dell´incontro, un litigio tra bambini, tema che si è perso nel perdersi delle difese dell´eleganza borghese. Quel salotto diventato un campo di battaglia del vivere pacifico benestante e civile, ne ha svelato la miseria, infelicità e solitudine.

L’Osservatore Romano 17.9.11
Chi decide  se un'esistenza è "indegna"
di Ferdinando Cancelli


Il recente caso di un medico, accusato di avere praticato l'eutanasia su sette dei suoi pazienti uccidendoli allo scopo "di abbreviarne le sofferenze", ha riacceso il dibattito sull'applicazione della legge sul fine vita in Francia. Al di là della gravità di quanto accaduto e dopo alcuni interventi di medici e giornalisti pubblicati in questi giorni dalla stampa francese, il fatto offre la possibilità di una riflessione dall'esterno.
Dalle parole dette e scritte emergono con chiarezza almeno due evidenze: la scarsa conoscenza dei principi della medicina palliativa e la tentazione di considerare la vita più o meno degna di essere vissuta a seconda delle caratteristiche e delle capacità che si rendono visibili in una persona malata o disabile. Da un reparto di emergenza di una città francese, un medico, in un'intervista pubblicata l'8 settembre da "Le Monde", afferma che sovente in urgenza si presenta il dilemma se applicare o no i mezzi di sostegno vitale a pazienti in pericolo di vita e aggiunge che "si somministra frequentemente della morfina per alleviare le sofferenze del paziente". Questo - continua - "probabilmente abbrevia la vita ma almeno il malato morirà nella dignità".
Una tale affermazione può essere fuorviante perché induce a pensare che il malato in questione muoia per la somministrazione di morfina e non per la mancata applicazione dei mezzi di sostegno vitale. Tale confusione può nascere solo se non si tengono presenti i progressi della medicina palliativa: se somministrati a dosi opportune con l'intenzione di alleviare la sofferenza e non di uccidere una persona, i farmaci oppioidi non solo non abbreviano la vita ma possono anche allungarla eliminando lo stress fisico e psichico che deriva dalla sofferenza.
La morte dignitosa non è perciò quella provocata da un medico che vuole abbreviare l'esistenza del malato ma quella alla quale il malato stesso va incontro accompagnato da chi, nel curarlo, ha il solo obiettivo di alleviarne le sofferenze, anche con l'uso della morfina, secondo i principi etici e scientifici della medicina palliativa.
Sempre dalle colonne del quotidiano francese e sempre dalla bocca di un medico, questa volta una neurologa di un grande ospedale parigino, si raccoglie la seguente frase, riferita alla decisione di non rianimare pazienti colpiti da attacchi vascolari cerebrali acuti e destinati magari a vivere con importanti deficit fisici o mentali: "Si è coscienti di decidere della vita o della morte. Ci si domanda se la vita con un tale handicap merita di essere vissuta, se la morte non sia preferibile".
Consci dell'estrema delicatezza della situazione e del corteo di sofferenze che un tale evento può scatenare nel malato e nei familiari, ci si deve però interrogare a fondo sulla gravità di affermazioni come queste che fanno della "qualità della vita" il supremo criterio di giudizio.
Il primo pensiero va a tutte quelle famiglie la cui vita e dedizione - come ha affermato Benedetto XVI lo scorso 20 agosto durante la visita all'istituto della Fondazione San José di Madrid - "proclamano la grandezza alla quale è chiamato l'uomo: accompagnare per amore chi soffre, come ha fatto Dio".
Sono davvero tante le persone che seguono ogni giorno - al prezzo di indicibili fatiche e districandosi in una complicatissima giungla di ostacoli anche burocratici - i loro cari, i quali, sopravvissuti a crisi di questo tipo, non sono più come prima e sarebbero ormai divenuti "vite non degne di essere vissute". Bisogna invece prestare molta attenzione ad affibbiare l'etichetta di "indegno" a chi, sopravvissuto con la propria debolezza, può ancora insegnare a pensare e magari anche a vivere.

venerdì 16 settembre 2011

l’Unità 16.9.11
Bersani a Berlino incontra Gabriel: «Lavoriamo a una piattaforma comune su economia e lavoro»
Governo battuto alla Camera. Il leader dei Democratici: «Siamo nei guai, serve una cesura politica»
Obiettivi comuni per la sinistra Ue. Il leader Spd in piazza col Pd
Bersani a Berlino discute con il leader della Spd Gabriel di una «piattaforma comune dei progressisti europei». Per il segretario del Pd serve «una cesura politica». Non esclusa la sua presenza alla festa Idv di Vasto
di Simone Collini


«Nei prossimi dodici mesi si svolgeranno elezioni nei principali paesi europei. È evidente che la situazione economica apre gli spazi anche ad un cambiamento politico. Tocca a noi progressisti indicare la direzione». Pier Luigi Bersani incontra il leader dell’Spd Sigmar Gabriel nella sede del Parlamento tedesco. Il segretario del Pd, che già a inizio estate ha incontrato il leader dei laburisti britannici Ed Milliband e la socialista francese Martine Aubry, vuole costruire insieme alle altre forze progressiste europee una «piattaforma comune» sui temi del lavoro, dell’economia, della finanza. Obiettivo, «rilanciare il sogno europeo» e contribuire a formare un’onda che cambi di segno (attualmente di destra) la maggioranza dei governi europei. Dopo che ieri si è votato in Danimarca (col trionfo del centrosinistra), a breve si andrà infatti alle urne in Francia, Polonia, Romania, Spagna e, nelle intenzioni di Bersani, in Italia.
Il leader del Pd e quello della Spd concordano sul fatto che una «prospettiva di cambio politico», dopo un decennio che ha visto le forze conservatrici ottenere consensi nel vecchio continente, è a portata di mano se le forze progressiste sapranno giocare bene la partita. «Le opinioni pubbliche cominciano ad essere consapevoli che il tema europeo è di casa e che la ricetta dalla destra è stata quella del ripiegamento delle potenzialità dell’Europa», dice il leader del Pd. «Tocca quindi ai progressisti lanciare una piattaforma comune in ogni luogo d’Europa, dire le stesse cose in Portogallo, Germania, Francia ed Italia». Bersani e Gabriel discutono dell’ipotesi di introdurre «strumenti nuovi dell’integrazione europea» nelle politiche economiche e finanziarie, sugli squilibri di crescita e sugli investimenti in scala europea. Una strada che per il leader Pd risulterebbe utile sia ai paesi più in difficoltà che a quelli con tassi di crescita più alti. E l’Italia può fare la sua parte assicurando «quel rigore e quello sviluppo già garantiti dai governi Ciampi, Prodi e Amato, perché solo garantendo credibilità possiamo dire ai paesi forti che anche loro hanno guadagnato dall’euro».
È proprio l’Italia il tema dolente. Il segretario del Pd atterra a Berlino negli stessi minuti in cui alla Camera il governo Berlusconi viene battuto (è la 83esima volta dall’inizio della legislatura) su un emendamento in materia energetica presentato dal suo partito. L’approvazione della manovra per Bersani non ha messo al sicuro il nostro Paese. «Siamo ancora larghissimamente nei guai», dice guardando all’allarme lanciato dalla Bce ma anche ai dati diffusi dall’Istat. «Ci vuole una reazione politica bisogna trovare un modo di dire al mondo che c’è una cesura», insiste Bersani. «Berlusconi non continui a dire che va avanti fino al 2013. C’è ormai un clima psicologico su di noi impressionante. Si deve dare vita ad una transizione per imboccare una strada nuova, altrimenti non riusciamo ad avere una linea di credito in fiducia e riconquistare credibilità interna e internazionale».
Un ragionamento che ribadisce dopo un breve colloquio con l’ex ministro degli Esteri del precedente governo Merkel, Frank Walter Steinmeier (ora capogruppo della Spd al Bundestag) e dopo l’incontro con il leader dell’Spd. Gabriel ha anche accettato l’invito di Bersani ad essere a Roma il 5 novembre, a una manifestazione
che nelle intenzioni del leader Pd dovrà servire a ridare fiducia all’Italia, a lanciare una piattaforma programmatica per l’alternativa e a dare il senso di una ripartenza. «Non intendo fare l’ennesima protesta spiega Bersani il 5 novembre dirò cosa si fa, lancerò un progetto, e lo voglio fare in compagnia dei leader europei» (l’invito per Roma arriverà anche al vincitore delle primarie francesi, in calendario per il 9 ottobre, e stando agli attuali sondaggi sarà Francois Hollande). Per questa mattina sono previsti altri incontri con i vertici della Spd, ma se i tempi lo permetteranno Bersani alla fine potrebbe anche essere alla festa dell’Idv di Vasto e partecipare al confronto con Di Pietro e Vendola.

l’Unità 16.9.11
Intervista a Debora Serracchiani
«Primarie per tutto e leggi per i nuovi diritti»
L’europarlamentare: «Conquistiamoci il nostro spazio, è il momento dei quarantenni. Siamo più credibili quando si parla dei tagli ai costi della politica»
di Jolanda Bufalini


Debora Serracchiani ha anche lei raggiunto i 40 anni, «Siamo in un paese dove si è giovani a 50», commenta con amarezza, ma è un «momento epocale e dobbiamo prenderci lo spazio che ci spetta». A Pesaro ha partecipato all’iniziativa “Rifare l’Italia, rinnovare il Pd” ma sottoline subito che non è finita con la festa, «Il 22 e 23 ottobre con Civati ci incontreremo per una due giorni a Bologna». Dire quarantenni significa poco, quale è, per esempio, il collante fra Civati, Zingaretti, Renzi, Serracchiani?.
«Il collante non è l’età, anche se l’età facilita i rapporti politici, visto che siamo figli del tempo che vogliamo contribuire a governare».
Su cosa vi siete trovati d’accordo a Pesaro?
«Sulle primarie per la scelta dei parlamentari, sul referendum elettorale, sui diritti civili, ovvero su nuove regole per le unioni civili. Per quanto riguarda le questioni economiche, sulla necessità di fare nostro il tema della patrimoniale che in primo tempo aveva incontrato qualche freno nel partito».
Sulla patrimoniale il Pd si è fatto scavalcare a “sinistra” da Profumo, da Abete, da Tabacci?
«Il Pd ha sostenuto con molta forza, anche nella contromanovra, una patrimoniale con aliquota bassa ma permanente, non una tantum. È importante la concordanza di tutti su questo tema. Altro punto di convergenza sono le liberalizzazioni».
Sette quarantenni si sono pronunciati contro lo sciopero della Cgil
«Anche a Pesaro sono state espresse opinioni diverse sullo sciopero contro la manovra, non c’è nulla di strano in questo. Invece è stato un errore volere un pronunciamento, perché un partito non deve pronunciarsi sulla decisione di un sindacato di fare sciopero. Io ho partecipato al corteo perché considero l’articolo 8 una schifezza, anche come avvocato del lavoro».
Però è chiaro che posizioni differenti hanno a che fare con la pluralità delle anime del Pd da una parte e, dall’altra, con il tema delle alleanze. Come nel caso delle dichiarazioni di D’Alema sui matrimoni gay.
«Nel partito i giovani possono dare un contributo importante di sintesi. Da questo punto di vista avere meno storia alle spalle è un vantaggio, aiuta il formarsi di maggioranze, che non necessariamente sono sempre le stesse, senza il peso di appartenenze legate alla storia».
E le alleanze?
«Io credo nella necessità di guardareaIdveSelediavereanchelacredibilità per parlare ai moderati, al centro che deve decidere da che parte stare. Non mi risulta che Casini sia di centro sinistra».
Bersani avrebbe fatto bene ad andare a Vasto, con Di Pietro e Vendola? «Di Pietro avrebbe fatto bene a evitare di mettere provocatoriamente la pregiudiziale di costituzionalità sulla manovra alla Camera. È stata una posizione strumentale, che al Senato non è stata assunta. È sbagliato alzare il tiro, amzichè fare un’opposizione costruttiva, per guadagnare uno zero virgola, fare gli avvoltoi sugli altri partiti di centro sinistra». Elezioni anticipate o governo di transizione?
«L’ esperienza di parlamentare europeo mi fa dire che in Europa si aspettano una svolta politica chiara. Meglio, quindi, una campagna elettorale, in tempi congruenti con la drammaticità della crisi, piuttosto che continuare a navigare a vista. Tuttavia, per la serietà della situazione, se ci sono le condizioni, anche un governo di transizione per fare alcune riforme chiare e poi tornare a votare, può essere una soluzione. Ma senza membri dell’attuale governo Berlusconi. È una questione di credibilità».
Zapatero ha annunciato le elezioni anticipate, ma dalle elezioni in Spagna molto probabilmente uscirà una maggioranza netta. In Italia le elezioni avrebbero lo stesso effetto chiarificatore?
«Il sistema elettorale è un problema, per questo mi sono impegnata al cento per cento per il referendum. Sono contenta che ora ci sia l’indicazione a firmare dell’intero partito, servirà di stimolo alla discussione in Parlamento su una nuova legge».
C’è un’alternativa politica in Italia?
«Ne sono convinta, anche se l’ondata dell’antipolitica crea delle difficoltà. Ma bisogna rispondere con i fatti, come è stato sulla patrimoniale, come è stato nel breve governo Prodi con il taglio al cuneo fiscale e con la credibilità della lotta all’evasione. Il nuovo Ulivo di Bersani non assomiglia al vecchio, è una coalizione per governare, con Idv, Sel più l’apertura a l’Udc. Il centrodestra ha portato il paese allo scontro e questo accresce il problema della credibilità del paese. A Bruxelles, la battuta che circolava era: “Berlusconi non è venuto a spiegare la manovra ma a farsela spiegare”». Torniamo a voi, ai quarantenni. Non siete parte di un sistema che si basa sulla cooptazione? «Nonèilmiocaso,nonèilcasodi Pippo Civati. Può darsi che ci sia chi è stato cooptato ma molti di noi sono cresciuti senza gridare ma assumendosi le proprie responsabilità, contribuendo al dibattito politico, ciascuno nel proprio ruolo, anche su temi come la riduzione dei costi della politica». Perché?
«Una generazione meno legata al passato è più credibile sull’abolizione dei vitalizi, sulla revisione di condizioni di privilegio, sul parametro delle pensioni agganciato all’Inps, sulla restituzione agli elettori della scelta dei candidati» Dove sono gli ostacoli più grandi per i giovani in politica?
«È un problema che riguarda tutta la società, dovrebbe essere normale preparare il “dopo”, favorendo per esempio dopo una sconfitta il ricambio. Da noi questa capacità si è persa ma siamo in un momento epocale e noi dobbiamo prenderci questo spazio».
E l’esperienza dei vecchi non serve? «Non diciamo tutti a casa, la nostra non è una lotta fra generazioni, piuttosto è un patto fra generazioni, perché in politica non basta l’esperienza, deve rappresentare anche le novità».

Corriere della Sera 16.9.11
«Non insegnare storia dell'arte mette a rischio il nostro futuro»
Giulia Maria Crespi: l'ambiente si difende con la cultura
di Paolo Conti


ROMA — «Il ministro Mariastella Gelmini cosa sa della storia dell'arte italiana, del nostro Paese, della Nazione che lei governa? Sarei felice di incontrarla e di rivolgerle alcune domande...». Giulia Maria Crespi, Presidente Onorario nonché fondatrice del Fai, il Fondo Ambiente Italiano, gioca con il suo personaggio («ormai sono vecchia, dico senza paura ciò di cui sono convinta») sfoderando l'arma dell'autoironia. Ma i suoi argomenti, e i ragionamenti che propone, sono seri e solidissimi: «Ho letto con sgomento giorni fa proprio sul Corriere della Sera della misera condizione in cui si trova l'insegnamento della storia dell'arte nel nostro Paese. Cancellato, sparito. L'Anisa, l'associazione degli insegnanti di storia dell'arte, possiede un prospetto che fa paura. Storia dell'arte scomparsa nel biennio dell'Istituto tecnico per il Turismo. Lo stesso avviene nell'Istituto Professionale Turistico, Istituto Professionale per la Grafica, Istituto professionale per la Moda. Niente insegnamento nel primo biennio dei licei classico e scientifico. Dico: nel classico! Ma come è mai possibile?»
Le due grandi passioni di Giulia Maria Crespi sono il Paesaggio italiano, quindi l'ambiente e la stessa tradizione agricola come parte integrante del contesto, e la storia della vicenda artistica del nostro Paese. Due capitoli che, ai suoi occhi, rappresentano un unicum: «I due temi sono strettamente collegati. Mi spiego. Non insegnare la storia dell'arte significa togliere una indispensabile conoscenza a intere, future generazioni di geometri, architetti, sindaci che dovrebbero rispettivamente studiare e governare il territorio. Ma come potranno farlo se ignoreranno l'arte italiana, così impregnata di Paesaggio culturale? Significa anche allevare nuove leve di funzionari statali, e quindi soprintendenti, che non avranno appreso da ragazzi i fondamenti della nostra storia artistica. Come faranno questi giovani soprintendenti a muoversi con conoscenza e responsabilità se non sapranno ciò che dovrebbero sapere?» Ma non è solo la macchina dei Beni culturali ad allarmare Giulia Maria Crespi: «Io mi domando e poi domando al ministro Gelmini. L'Italia è un paese che vivrà in futuro soprattutto di turismo legato alla cultura, al nostro patrimonio. Come è immaginabile educare i futuri operatori turistici privandoli di una disciplina fondamentale per il loro lavoro? Ridicolo! L'Italia è ricca solo di questo: di arte, di tesori, di musei, di passato.... Ha ragione lo storico e saggista inglese Paul Kennedy quando dice che l'Europa può ancora contare, per il suo futuro, sull'arte e la cultura. L'Italia più di tutti, aggiungo io, e quindi dobbiamo studiare e prepararci proprio per costruire quel futuro».
Giulia Maria Crespi si concede un piccolo tuffo nella memoria: «Da ragazza ho studiato bene la storia dell'arte, nel triennio finale ci si applicava sui testi di Paolo D'Ancona, Fernanda Wittgens e Irene Cattaneo. Ma davvero non capisco come si possa abolire l'arte nel primo biennio...» Un sospiro, di quelli tipici del Presidente Onorario del Fai: «Stiamo svendendo tutto ai cinesi, lo sappiamo bene. Ma i cinesi non potranno mai comprarci i Templi d'Agrigento o il Duomo di Milano. Quindi dobbiamo imparare a conoscerli e ad amarli perché rappresentano il nostro futuro».
Che fare, signora Crespi? «Dobbiamo protestare. Far sentire la nostra voce alla Politica. Ho saputo che il ministro Gelmini starebbe preparando un tavolo tecnico per esaminare il problema. E io vorrei sapere: chi siederà a quel tavolo tecnico? Quale conoscenza ha della storia dell'arte? Aggiungo che bisognerà quanto prima occuparsi anche della fine dell'insegnamento della musica. Nel resto d'Europa se ne apprende molta, di musica. Qui, nella patria del Melodramma, no. Tutto questo è grave, gravissimo, da irresponsabili...»

l’Unità 16.9.11
Il ministro “compiacente” al convegno di Confindustria: troveremo il modo
Opposizioni e comitati in rivolta: «Rispetti le urne, così attenta la Costituzione»
L’assalto di Sacconi
«Referendum sull’acqua ridiscutiamo l’esito...»
di Andrea Carugati


A soli tre mesi dalla consultazione, a un convegno di Confindustria il ministro annuncia di voler rimettere in discussione la questione, contro la volontà espressa da 27 milioni di cittadini. E si scatena la bufera.

«Altro che sorella acqua, mi auguro che troveremo il modo per rimettere in discussione il referendum». Così parlò ieri Maurizio Sacconi a un convegno del Centro studi di Confindustria. Un “coming out” assai improvvido, a soli tre mesi dal referendum con cui 27 milioni di italiani si sono chiaramente espressi per l’acqua pubblica. Ma il ministro si deve essere sentito autorizzato, in qualche modo, dalla crisi a travolgere i fastidiosi laccioli del voto popolare. E infatti le sue parole sono arrivate pochi minuti dopo un summit con industriali e banchieri, insieme a Giulio Tremonti, tutto dedicato alle misure per far ripartire la crescita e alle liberalizzazioni. A partire proprio dal settore dei servizi pubblici locali. Insomma, l’ineffabile Sacconi, già autore della proposta, poi cancellata a furor di popolo, di eliminare il riscatto degli studi e della naja ai fini della pensione e della terribile barzelletta sulle suore stuprate, stavolta voleva fare bella figura davanti ai rappresentanti di Abi e di Confindustria. E così ha pensato bene di aggirare il responso referendario, dopo aver «giurato sul figlio», abitudine appresa direttamente dal Cavaliere, a proposito della genesi del famigerato articolo 8 della manovra sui licenziamenti. «Giuro che ho letto la lettera della Bce e ho letto delle cose che mi hanno indotto a presentare certe norme...».
Non è la prima volta che il governo cerca di boicottare il referendum. Ci avevano già provato prima che gli italiani andassero alle urne, in particolare col nucleare, con una norma inserita per congelare il programma nucleare inserita in fretta e furia nel decreto milleproroghe. Ma l’intervento della Cassazione aveva sterilizzato la furbata del governo, consentendo agli italiani di votare. Anche sull’acqua c’era stato un timido tentativo di “sabotaggio” con il varo unmese prima del voto di una Authority. Che però non ha mai rischiato realmente di far saltare l’appuntamento referendario.
OPPOSIZIONI IN RIVOLTA
Le parole di Sacconi hanno scatenato una bufera. Un «golpe» contro la volontà dei cittadini, attacca il Comitato referendario per l’acqua, che chiede le dimissioni del ministro. Durissimo Nichi Vendola: «Ma quale idea della democrazia ha uno dei massimi esponenti del governo italiano quando in modo sprezzante si augura di trovare il modo per superare l'esito referendario di qualche mese fa? Tentare di sabotare il significato di un responso popolare così ampio è gravissimo. Il ministro Sacconi non ha la sensazione che le sue parole siano eversive?». Molto netti anche Pd e Idv. «È tempo che Sacconi, insieme all’intero esecutivo, rimetta in discussione se stesso, altro che il referendum dell'acqua», dice Stella Bianchi, responsabile Ambiente dei democratici. «Come dovrebbe essere chiaro a chiunque il voto di 27 milioni di italiani semplicemente si rispetta e un governo degno di questo nome lavorerebbe per dare migliore tutela alla risorsa acqua, aumentare il controllo pubblico e sostenere un grande piano di investimenti. Ma il problema dell'Italia è appunto che non abbiamo un governo degno di questo nome». «Giù le mani dal referendum. L’Italia dei valori non permetterà che si calpesti la volontà degli italiani», attacca il portavoce Leoluca Orlando. «Le parole del ministro Sacconi sono gravissime e sono la dimostrazione di come questo governo continui a non rispettare le regole della democrazia e le scelte dei cittadini. Porteremo la questione in parlamento e alzeremo le barricate contro questo ennesimo atto di arroganza».
Il leader dei Verdi Angelo Bonelli parla di «attentato alla Costituzione» e di «volontà golpistica», di un «attacco senza precedenti alla volontà popolare». «Noi Verdi siamo pronti alla mobilitazione per difendere i referendum di giugno». E Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: «Voglio sperare che il Presidente della Repubblica faccia sentire chiaramente la sua voce contro questo proposito eversivo e tuteli la volontà popolare».

il Fatto 16.9.11
Precari, Europa aiutaci tu
La Commissione di Bruxelles deve decidere se la separazione tra garantiti e senza diritti è legittima
di Stefano Feltri


Il governo si disinteressa dei precari e l’unica riforma del lavoro è l’articolo 8 della manovra sui licenziamenti facili? Chiediamo a Bruxelles di multare l’Italia e costringerla ad affrontare il tema. “Alle imprese serve flessibilità per competere, è inaccettabile che il peso sia scaricato tutto sui precari”, dice Giulia Innocenzi, 27 anni, responsabile italiana di Avaaz (movimento internazionale di lobby dal basso), e volto delle trasmissioni di Michele Santoro, ieri Annozero, tra poco Comizi d’amore. É parte del gruppo di parlamentari e attivisti – tra loro Emma Bonino (Radicali), Nicola Rossi (Italia Futura) e Pietro Ichino (Pd) – che ha chiesto alla Commissione Ue di stabilire se il precariato all’italiana è compatibile con la normativa comunitaria. E se non lo è di aprire una procedura di infrazione che costringerebbe il governo a una riforma. Avaaz ha già raccolto 87 mila firme di cittadini italiani su una petizione che sollecita la Commissione a sanzionare l’Italia. Giulia Innocenzi spiega: “È evidente che il governo non ha alcuna intenzione di risolvere l’emergenza costante dei precari, 4 milioni di persone, in gran parte giovani. Una fascia debole destinata ad aumentare perché la flessibilità di cui ha bisogno il sistema produttivo viene scaricata tutta sui precari. L’unica soluzione è rivolgerci alla Commissione europea”.
LA BASE GIURIDICA ce l’ha messa il giuslavorista e senatore Pietro Ichino, con un elenco di casi concreti che dimostrano quello che lui chiama “l’apartheid” del mercato del lavoro italiano: la discriminazione dei precari rispetto agli assunti a tempo indeterminato. Da quelli con contratti a tempo determinato alle finte partite Iva. Il gruppo che ha portato il caso a Bruxelles vuole denunciare la situazione di quegli ‘autonomi’ e che in realtà sono dipendenti come gli altri, ma non hanno gli stessi diritti, a cominciare da malattia, maternità e ferie. Ora si attende la risposta di Bruxelles. “La Commissione ha un mese di tempo, poi deve rispondere – dice Giulia Innocenzi – poi può poi chiedere ulteriori informazioni all’Italia e, se lo decide, aprire una procedura di infrazione. Che è quello che noi auspichiamo”. Secondo Ichino, la violazione della normativa europea è manifesta: “Il dualismo del nostro mercato del lavoro – fra protetti e non protetti – costituisce evidente violazione della direttiva n. 1999/70/CE, che vieta l’utilizzazione di forme di lavoro a termine come forma ordinaria di ingaggio del personale e impone comunque ogni disparità di trattamento fra i lavoratori assunti a termine e quelli assunti a tempo indeterminato”.
TRA UN MESE, quindi, arriverà il responso da Bruxelles. Se accoglie l’istanza di Bonino, Ichino, Innocenzi Rossi ecc. la Commissione può chiedere ulteriori informazioni all’Italia e alla fine aprire una procedura di infrazione, come quella di cui siamo stati vittima negli anni scorsi per aver sforato i parametri di finanza pubblica su debito e deficit. La speranza della Innocenzi è questa: “A quel punto l’Italia sarà obbligata ad agire, riformando il mercato del lavoro. Riforme serie, non come l’articolo 8 della manovra, che si limita ad aumentare la flessibilità in uscita, ma non offre nulla a chi entra nel mercato del lavoro”. Perché i promotori dell’iniziativa non sono difensori del posto fisso, ma di quella flexsecurity nordeuropea che prevede assunzioni facili, licenziamenti altrettanto facili e un sistema di welfare che assiste nel passaggio da un lavoro all’altro e permette di riqualificarsi. Un approccio riassunto dalla formula “tempo indeterminato per tutti, ma nessuno inamovibile”, e nella proposta di legge di Ichino di un “contratto unico” per i lavoratori dipendenti che prevede tutele crescenti per i nuovi assunti (proposta analoga a quella dell’economista Tito Boeri, entrambe osteggiate dai sindacati che vedono a rischio i diritti acquisiti, come l’articolo 18 sui licenziamenti).
SE ARRIVERÀ la procedura di infrazione, si dovrà cambiare, ma non sarà indolore. Giulia Innocenzi la vede così: “Al momento pur di non toccare l’articolo 18 si scarica tutta la flessibilità sui precari che, oltre a non avere i diritti degli altri non hanno neppure gli stessi livelli retributivi, e si ritrovano con prospettive pensionistiche disastrose. Non ha senso difendere l’esistente se l’esistente non funziona”.

il Fatto 16.9.11
Economia sommersa
Volete stanare l’evasore? Basta usare la carta di credito, come a Londra
di Caterina Soffici


Londra. Certe volte a leggere i giornali italiani sembra che per stanare i furbi e sconfiggere l’evasione fiscale ci vogliano chissà quali avveniristici marchingegni. Così uno si immagina che lo “Stato di polizia tributaria” (copyright Berlusconi) dovrebbe mettere in moto costose apparecchiature capaci di tracciare i vostri spostamenti, controlli incrociati con le banche dati segrete.
Tutte balle. La pratica quotidiana in una città come Londra (ma lo si fa in tutto il mondo civilizzato) insegna che per abbassare drasticamente l’evasione, basta un semplice talloncino di plastica della misura di 8,5 x 5,5 cm il cui uso è quasi elementare. Si chiama carta di credito, ovvero di debito, ovvero bancomat. Con questi avveniristici strumenti per pagare è sufficiente che l’utente inserisca il cartoncino di plastica nell’apposita macchina, poi digiti un codice o metta la sua firma su un piccolo pezzo di carta e il gioco è fatto. La transazione verrà registrata, senza alcuno sforzo o spesa aggiuntiva per il singolo e per la comunità. Con l’indubbio vantaggio che il commerciante non potrà intascare quei soldi a nero e sarà costretto a fare lo scontrino fiscale.
Sarà per questo che le carte di credito sono tanto odiate in Italia. Ci sono addirittura negozi che fanno lo sconto se paghi in contanti (la scusa è sempre la stessa: “Sa com’è, con la carta la banca me li accredita tre mesi, ci perdo un sacco di interessi”). In molti bar non puoi pagare un caffè con il bancomat perché non hanno neppure la macchinetta e in altri sono affissi odiosi (e forse anche illegali) cartelli che avvertono: “Non sono ammessi pagamenti per importi inferiori alla tot cifra”. Generalmente molto bassa, cinque o dieci euro. Non è chiaro se si tratta di microevasione legalizzata o cosa, ma tant’è che non ho mai visto qualcuno protestare. Quando uno passa del tempo in Italia dopo un po’ non se ne accorge più. Sembra tutto così normale che il paradosso diventa lo stupore. Una volta ho provato a recriminare, mi è stato risposto che se non mi andava bene potevo andare a fare colazione in un altro bar.
A Londra tutto è comprabile con una carta. Un caffè da 1,5 sterlina; un giornale da 1 sterlina, un pacchetto di gomme da masticare da 60 centesimi, una pinta di birra al pub da 3,50. È più facile arrivare in fondo a un giornata scalzi che senza una carta di credito. Anzi, spesso vi guardano male quando consegnate banconote di taglio superiore alle 20 sterline (24 euro). Ce ne sono anche da 50 sterline (60 euro), ma se ne vedono in giro raramente e sarebbe sconveniente fare un acquisto in contanti per una grossa cifra. Soprattutto in un grande magazzino si rischia che chiamino la sicurezza. Non è un Paese per carta straccia, questo. L’unico posto dove accettano il bancomat sono alcuni banchi al Farmer Market, quei mercati ambulanti dove i contadini vendono frutta e verdura. Al contrario capita di snervarsi per l’eccessiva richiesta nell’uso della carta di credito. Senza il famigerato cartoncino non potete neppure prenotare un cinema, perché a identificarvi non è il vostro nome e cognome, ma il numero e la data di scadenza della vostra carta. E quando andate a ritirare i biglietti non dovete presentare un documento d’identità, ma la carta di credito con la quale sono stati pagati.
Con le buste di contanti ci fate ben poco a Londra. Non potete pagare un affitto in nero. Non potete neppure pagare voli e vacanze in un’agenzia di viaggio. Niente di niente. Andatelo a spiegare a Tremonti. Lui pensa ancora che “limitare l’uso dei contanti non riduce l’evasione. Complica la vita dei cittadini onesti e rende odioso lo Stato”. Odioso sì, soprattutto per quei cittadini come lui che devono pagare un affitto da 4 mila euro a nero.

Repubblica 16.9.11
Così la scuola scoppia
La classe pollaio
di Vera Schiavazzi


Viaggio nella elementare Gabelli di Torino, 27 bambini in ogni aula, il 70 per cento dei quali immigrati Tra sovraffollamento, banchi che mancano, spazi ridotti, personale insufficiente. Emblema perfetto dell´ultima emergenza del sistema di istruzione italiano: le classi pollaio
Si staccano le porte e le si rimonta al contrario. Una porta che si apre all´esterno lascia più spazio dentro per chi studia
A rischio la sicurezza dei bambini: se scoppiasse un incendio sarebbe difficile farli sfollare

Rumore. Un fiume di bambini fa molto rumore, e anche un po´ di paura (per loro) quando si riversa tra grida e spintoni nel corridoio. È questa la prima sensazione quando ci si affaccia nella classi sovraffollate dove anche la - criticatissima - ultima circolare ministeriale che autorizza classi di 26 alunni diventa lettera morta di fronte a una necessità: accogliere tutte le famiglie che bussano alle porte di una scuola pubblica calpestata e dimenticata. I bidelli si fanno segnali da una parte all´altra del corridoio, "ferma quello, guarda quell´altro", sembrano dire, disincantati e impotenti, e certo non resta loro tempo per fare le pulizie.
Subito dopo, arriva la seconda domanda: come si può insegnare a leggere, scrivere e fare di conto a bambini che siedono stipati in aule simili a pollai? Ventisette piccoli di sei anni, prima elementare (tanti ce ne sono alla "Aristide Gabelli", una scuola di Barriera di Milano, subito al di là di Porta Palazzo nella periferia orientale di Torino) sono difficili da controllare. C´è chi non sta fermo un secondo, chi lancia oggetti ai compagni, chi grida, chi piange e chi ride, chi, come Benjamin, non sa parlare e avrebbe bisogno di un insegnante di sostegno che non c´è. Alle otto del mattino suona la campanella di questa scuola costruita cento anni fa. Un fiume di bambini (in tutto sono 750), jeans, magliette e scarpe colorate, scorre lungo i corridoi e le scale, che, per fortuna, sono state costruite quando lo spazio non era un problema e le città potevano essere disegnate pensando al futuro. C´è di peggio, in giro per l´Italia dei tagli alla scuola, dove qualche volta anche alle elementari si arriva a 30 o 31 bambini per classe. Alla Gabelli una vigorosa dirigente scolastica, Nunzia Del Vento, continua a scrivere e cancellare e spostare nomi su dei tabulati, chiede ai bidelli di portar su qualche altro banco dalle cantine, decide se e quali porte rimontare perché si aprano nell´altro senso. Una porta cambiata può rivelarsi decisiva: se si apre verso l´esterno la classe diventa più grande e invece di due banchi per fila se ne possono mettere tre, un po´ come su un aereo low cost. E siccome un funzionario pubblico, anche se è arrabbiato, dovrebbe far funzionare le cose, la direttrice cerca, anche, di far quadrare i conti: «Abbiamo 58 insegnanti e pochissime unità di personale non docente, così avevamo già chiamato le cooperative per l´assistenza e gli altri servizi. Quest´anno i fondi a disposizione sono stati ridotti del 26 per cento. La coperta è corta, sorvegliare che i bambini non si facciano male durante l´intervallo è la cosa più importante di tutte, vorrà dire che taglieremo sulle pulizie…».
«Così, però, stiamo buttando via la qualità di una scuola pubblica che era tra le migliori d´Italia - commenta Silvia Bodoardo, mamma e rappresentante del Coordinamento dei genitori - e, cosa ancora più grave, produciamo ingiustizie: chi è seguito a casa ce la farà comunque, chi non ha mezzi si fermerà alla fine dell´obbligo, anche se ha talento e bravura». Ma alla Gabelli molti genitori non hanno tempo per queste cose. «Abbiamo il 70 per cento di bambini di nazionalità non italiana, in gran parte nati qui, ma molti appena arrivati - spiega Del Vento - Queste famiglie sono soggette a una mobilità altissima, si spostano, vanno dove c´è lavoro o dove trovano una casa, e non è possibile prevedere in marzo quanti bambini ci saranno in settembre, come vorrebbero i regolamenti. A luglio mi sono resa conto che erano già troppi e ho scritto alle scuole vicine per chiedere aiuto. Nessuna risposta, ma non mi stupisce, sono piene anche loro. Gli ultimi sono arrivati in settembre, tre fratellini, alla famiglia era appena stata assegnata una casa popolare proprio qui dietro... Giustamente, la legge prevede che non si possa respingere nessuna domanda, giustamente i genitori vogliono una scuola sotto casa, comoda, dove i meno piccoli possano andare e venire anche da soli… Ed eccoci qui». Nel caos, allegro ma faticoso, della 1 A l´appello del mattino non esiste più, e del resto chi riuscirebbe a leggere tutti quei nomi e quei cognomi e a sentire le risposte? Meglio contare, e controllare un po´ per volta col registro alla mano, e abituarsi un giorno dopo l´altro alle nuove facce e a nuovi nomi che arrivano da tutto il mondo. Perfino la Somalia con la sua carestia contribuisce a riempire i corridoi della scuola intitolata a un filosofo semi-dimenticato, perché da un anno a questa parte i bambini che arrivano dal cuore dell´Africa sono sempre di più e stanno per raggiungere altri gruppi, i piccoli cinesi (molte delle loro famiglie, intanto, si stanno spostando in nuovi quartieri), i rumeni, i marocchini. La maestra Antonietta spiega: «Facciamo incontri con diversi gruppi di genitori, i bambini sono molto bravi nell´aiutarci a tradurre quando manca il mediatore, i moduli per l´iscrizione li abbiamo fatti nelle diverse lingue anche grazie a loro». Alle pareti ci sono ancora i disegni dell´anno scorso, domina il tricolore e l´idea di Italia e di Risorgimento pare popolarissima in questa scuola di periferia, dove tutti sanno fare tutto e le maestre sono diventate bravissime ad appendere ai fili tesi di traverso ai corridoi disegni e piccoli oggetti fatti dai bambini. Ma non potrà andare avanti a lungo: «Banchi e arredi non ci sono ancora mancati perché ce li aveva comprati il Comune, che ora non potrà più farlo. Quest´anno per la prima volta abbiamo tagliato un pomeriggio di scuola alla settimana, prima si usciva sempre alle 16,30, ora al venerdì si va a casa, anche se mamma e papà lavorano. Gli alunni sono tanti, non posso obbligare tutti a lavorare più del dovuto o a fare straordinari non pagati». Se le si chiede come va con la didattica, che cosa si riesce a insegnare a una classe di 27 piccoli urlanti, la direttrice sorride: «Abbiamo insegnanti bravissimi e motivati, anche chi arriva da lontano impara l´italiano rapidamente. Semmai i problemi sono altri: i bambini disabili che non hanno abbastanza sostegno, la crisi che rende difficile per le famiglie pagare di tasca propria materiali o attività. La legge dice che la scuola dell´obbligo deve essere quella più vicina a casa, a meno che i genitori non ne scelgano un´altra sulla base dei "principi educativi". Beh, qui non capita mai…». In compenso, Nunzia Del Vento è preoccupata per i Vigili del Fuoco. Già, perché i certificati antincendio non si aggiornano con la stessa velocità del fiume di bambini che preme alle porte della scuola, e se su un certificato c´è scritto che in quell´aula ci sono 24 o 25 persone, maestra compresa, non dovrebbe essercene neppure una di più. «Alcuni di noi - spiega la direttrice, che è anche un´esponente dell´associazione sindacale dei dirigenti scolastici - non ci dormono la notte, la responsabilità civile e penale è tutta sulle nostre spalle». Chi ha tagliato con l´accetta i conti delle scuole, poi, non ha pensato che nel frattempo anche i bilanci dei Comuni precipitavano verso il basso. A Torino, dove dalle mense ai banchi, dagli scaffali alle palestre, anche nelle scuole statali, molto è stato spesso speso dalla città perché ministri e ministeri erano troppo lontani e quelle cose altrimenti non sarebbero mai arrivate, ora il problema è tangibile, e al Comune non si può più chiedere neppure un tavolino. Così, ci si arrangia: il Comune manda ancora i suoi tecnici a cambiare il senso alle porte senza spedire il conto al ministero, e continua (con fatica) a fare appalti per il servizio di mensa, ma tutti sanno che i tempi della generosità tra istituzioni sono finiti. Come una madre che ha fatto provviste, Nunzia Del Vento pensa a voce alta: «Per fortuna, due anni fa avevamo pensato di chiedere qualche tavolo in più e gli armadi chiusi dove i libri non prendono la polvere. Mi ricordo che mi ero detta ‘così ci resta un po´ di scorta´…». Per fortuna, quasi per miracolo, i portoni della Gabelli, una scuola grande come un isolato, si spalancano ogni mattina alle sette e si richiudono la sera alle sei, quando anche chi lavora fino a tardi si decide a andare a casa, quando anche l´ultimo bambino è stato preso dall´ultima mamma trafelata. E quando alle 9.55 suona la campanella del primo intervallo, fa un po´ di paura vedere quel groviglio di bambini che si precipita in corridoio, corre, spinge. È solo il 15 settembre, bisogna arrivare fino a giugno. Ma i miracoli, si sa, non si ripetono all´infinito.

Repubblica 16.9.11
Sono soprattutto le superiori a vivere l´assedio. Un fenomeno che riguarda tutto il Paese
E sui numeri è battaglia "Massimo 25". "No, 30"
Ministero e Consiglio di Stato utilizzano parametri diversi. Per Gelmini solo lo 0,6 per cento delle aule è oltre i limiti
di Corrado Zunino


Sulle classi pollaio e i ragazzi in batteria c´è un problema di cifre, e di interpretazione delle cifre. Basandosi su un dato della stagione scorsa rimodulato sulle tendenze in corso, il ministero dell´Istruzione ha detto che dalla prima elementare alla quinta liceo in Italia ci sono solo 2.108 classi (su 350 mila) con oltre trenta studenti stipati. Rappresentano lo 0,6 per cento e coinvolgono 63.240 ragazze e ragazzi. Insiste la Gelmini: abbiamo una media di ventidue alunni per aula, un punto sotto i paesi economicamente sviluppati. E i suoi dirigenti precisano: la soglia dei trenta è artificiosa, in alcuni casi in ventisette si sta stretti e in trentadue larghi.
Ci sono diversi problemi rispetto alle cifre pubbliche. Il ministero continua a considerare "aule sovraffollate" quelle con almeno 31 studenti. C´è una sentenza del Consiglio di Stato del 15 giugno 2011 che fissa il tetto, invece, a quota 25. Da ventisei in su, dice, è pollaio. E ci sono tre sentenze del Tar del Molise firmate a ridosso dell´anno scolastico che confermano: in aula non più di venticinque. «Non si può pregiudicare il rispetto di norme igieniche e di sicurezza». E la possibilità di ascolto della lezione. Sono 1,96 i metri quadrati necessari per ogni alunno, ma a Larino, provincia di Campobasso, c´era mezzo metro in meno. Al ministero, segnalando che sette scuole in difficoltà su dieci sono superiori, fanno sapere che per loro il numero massimo resta trenta e che della sentenza del Consiglio di Stato hanno fatto propria solo la seconda parte: «Abbiamo redatto un piano programmatico per l´edilizia scolastica, la prossima settimana distribuiremo 400 milioni alle Regioni». Per rimettere a posto le nostre scuole - una su due sono da rifare - servirebbero venti miliardi.
È probabile che un ricalcolo delle classi pollaio con la "quota 26" come riferimento offrirebbe alla Gelmini percentuali imbarazzanti. Inoltre, lo "0,6%" indicato non può essere motivo di vanto: nel 2009 le aule sovraffollate erano lo 0,4%, le cose peggiorano. E la fotografia della stagione 2011-2012 illustrerà una situazione che precipita.
Già, le indicazioni provenienti da tutta Italia sono pesanti. A Bologna, il coordinamento dei presidenti di istituto segnala che nel novanta per cento delle scuole ci sono classi con uno o due portatori di handicap e più di venti alunni. Vietato per legge. Al liceo scientifico Scacchi le aule sono tutte sopra i trenta. A Roma accorpamenti e tagli agli organici regalano "over 30" alle superiori Talete, Tacito, Kant, Virgilio. Lo scientifico D´Assisi è arrivato a quota 42, fino a quando gli studenti hanno piantato le tende e il ministero è intervenuto. Intorno ai trenta sono quasi tutte le prime. Il preside del classico Kant: «L´alternativa al pollaio era il sorteggio per mandare via alcuni ragazzi, non me la sono sentita». La dirigente del Giulio Cesare: «Con questi numeri i più deboli restano indietro e aumentano le bocciature». A Colleferro, hinterland della capitale, Istituto tecnico Cannizzaro, si gioca con la decenza: 37 alunni di cui due disabili. Molti genitori romani si sono già rivolti al Tribunale amministrativo, quattro istituti hanno ottenuto dai giudici la sospensiva.
"Over trenta" si segnalano nella provincia di Pavia e in Toscana (tutta la Valdarno, il Grossetano). A Fucecchio, un´altra malandata ragioneria, sono rientrati nell´aula (ampia peraltro) i quarantuno che avevano scioperato. Non c´erano pc per tutti, né spazio in palestra: la classe è stata spezzata in due. I 27-28 alunni per classe sono il criterio di partenza in Piemonte. Se si apre il capitolo "serali" si arriva alla quota infernale di 56: Istituto professionale Bertarelli, Milano. A Ozieri, Sassari, sono in rivolta docenti e discenti. Senza spazi sufficienti per ristrutturazioni in corso, cinque classi delle medie di Trenta, Cosenza, sono state sistemate nella sala del Consiglio comunale, nella sala degli assessori, nella sede dei vigili urbani, nella biblioteca comunale.

Repubblica 16.9.11
L´Istat: in crisi la famiglia tradizionale meno parti e matrimoni, più convivenze


ROMA - La famiglia tradizionale, composta da marito, moglie e figli, è in crisi. Nel 2009 corrispondeva al 36,4% delle famiglie, quando solo pochi anni prima (nel 1998) arrivava a quota 46,2%. Al contempo sono sempre più numerosi invece gli italiani che scelgono di vivere da single (non vedovi) o che decidono di convivere senza sposarsi. Lo rivela l´Istat nel report diffuso ieri sul cambiamento delle forme familiari in Italia. Un «cambiamento» che abbraccia 6 milioni e 866 mila famiglie, il 20% della popolazione totale. Le coppie che convivono sono soprattutto giovani e abitano per lo più in una casa in affitto.

Repubblica 16.9.11
Mr WikiLeaks: "Continuiamo le nostre ricerche L´obiettivo: i segreti del Vaticano e degli Anni di piombo"
"Così sveleremo l’Assurdistan-Italia”
"Chi non vorrebbe mettere le mani sugli archivi della Chiesa? Le gerarchie ecclesiastiche sopravviverebbero?"
di Julian Assange


"Se ci accadesse qualcosa, diffonderemmo una serie di documenti criptati"
"Non abbiamo la bacchetta magica ma lavoriamo per concretizzare un sogno"

Il testo che segue è tratto dalla prefazione al libro "Dossier WikiLeaks. Segreti italiani" di Stefania Maurizi, giornalista del settimanale "L´Espresso"

Niente sembrava poter scalfire il muro di segreti che nasconde gli affaracci di banche e multinazionali, i crimini di eserciti che uccidono senza rendere conto a nessuno, il potere di sette religiose capaci di plagiare milioni di persone.
Molti pensano a noi come al prodotto di una rivoluzione tecnologica. È vero. Senza Internet, non esisteremmo neppure. Ma l´essenza di WikiLeaks è qualcosa di profondamente connaturato nell´uomo: è il desiderio di arrivare a scoprire la verità e di obbligare chi ha il potere a risponderne, senza potersi nascondere dietro il segreto. Noi siamo convinti che non ci sia democrazia laddove ci sono archivi pieni di verità inconfessabili.
Negli ultimi cinque anni abbiamo subito attacchi micidiali. Per proteggere il nostro staff e le nostre infrastrutture, abbiamo rilasciato una serie di file criptati che sono la nostra assicurazione. Se dovesse accaderci qualcosa di veramente grave, tale da compromettere la capacità di pubblicare i documenti che abbiamo in mano, diffonderemo le password necessarie per aprire quei file. Abbiamo sentito opinionisti di destra della Fox di Rupert Murdoch invitare gli ascoltatori dal grilletto facile - che, purtroppo, in America non mancano - «a sparare a quel figlio di puttana [di Assange]», ma abbiamo anche sentito intellettuali liberal liquidarci come degli estremisti irresponsabili. Quella che ad oggi risulta non pervenuta è una forte presa di posizione da parte dei media e delle élite colte contro la dilagante segretezza in cui stanno affondando le democrazie occidentali. Secondo l´Information Security Oversight Office, che supervisiona le politiche di secretazione e desecretazione nel governo e nell´industria Usa, nel 2010 i costi del segreto di stato in America hanno raggiunto i 10,17 miliardi di dollari, una cifra che non include le spese per le agenzie di intelligence (Cia, Nsa, Nga, ecc.), che nessuno conosce perché sono riservate.
Neppure la pubblicazione di Collateral Murder è stata una sveglia per quei liberal che ci accusano di avere un´agenda irresponsabile. In quel video si vedeva un elicottero americano Apache che a Bagdad sterminava civili innocenti, tra cui due giornalisti dell´agenzia internazionale Reuters. Fin dal giorno dell´attacco, Reuters aveva cercato di ottenere una copia di quel documento, ma, nonostante tutti i mezzi e i contatti, non c´era riuscita. Non è un´esagerazione dire che, senza il coraggio della fonte che ci ha fatto filtrare quel video, sarebbe stato impossibile scoprire la verità su quella strage in tempi ragionevoli.
Oggi la nostra lista dei desideri continua a essere lunghissima. E c´è anche l´Italia. Chi non vorrebbe mettere le mani sugli archivi del Vaticano? Duemila anni di segreti di una monarchia assoluta di ottocento abitanti, che influenza le vite di un miliardo e trecento milioni di persone nel mondo. Immaginiamo di poter riversare l´intero archivio in un database elettronico ricercabile per parole chiave: le gerarchie ecclesiastiche sopravviverebbero a questo "megaleak"?
Sull´Italia, una delle prime "soffiate" che abbiamo ricevuto è stato un file audio che ricostruiva il presunto ruolo dei servizi segreti nella crisi dei rifiuti di Napoli. Era un documento che rivelava dettagli inquietanti su uno scandalo che aveva fatto il giro del mondo. Per questo nell´agosto del 2009 lo consegnammo a Stefania Maurizi de l´Espresso, che alcuni mesi prima aveva iniziato a interessarsi al nostro lavoro. Poi la collaborazione è andata avanti e anche i cablo della diplomazia americana hanno fatto emergere storie importanti. In uno dei cablogrammi, l´ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, mette nero su bianco il suo giudizio sul controverso premier, Silvio Berlusconi. «Ha danneggiato la reputazione dell´Italia in Europa», scrive il diplomatico al Segretario di Stato, Hillary Clinton, «e ha dato un tono disgraziatamente comico alla reputazione del Paese in molti settori del governo americano». Eppure Washington continua a supportarlo, perché l´Italia di Berlusconi «rimane un posto eccellente per fare i nostri affari politici e militari», mentre all´estero è sempre più percepita come un Assurdistan.
Negli ultimi mesi ci siamo resi conto di avere un forte supporto anche in Italia, dove il Quarto Potere sembra essere messo molto male. Secondo la classifica della Freedom House, nel 2011 perfino la Serbia e il Benin hanno superato Roma in materia di libertà di stampa e, insieme con la Bulgaria e la Romania, l´Italia rimane l´unica nazione europea ad avere una stampa solo "parzialmente libera".
Lavorando con Stefania Maurizi, abbiamo saputo che tra gli Anni ´60 e ´90 il paese si è ritrovato al centro di trame oscure, che hanno ordinato stragi in cui hanno perso la vita centinaia di cittadini italiani. Quaranta anni dopo, quei massacri restano avvolti nel mistero, perché i documenti segreti sono ancora off limits. Non è difficile immaginare i ricatti e gli scambi inconfessabili fioriti all´ombra di quegli archivi, che hanno seriamente minato la democrazia italiana.
Molti dei nostri sostenitori guardano a WikiLeaks come a una sorta di deus ex machina, che può far piazza pulita della segretezza che minaccia le democrazie e ingrassa i regimi. Non abbiamo la bacchetta magica. Ma lavoriamo per concretizzare un sogno. E quando si fa quello che si predica, altre persone si aggregano e supportano la lotta. Molti condividono i nostri valori e ci hanno aiutato. Il coraggio è contagioso. Anche nell´Assurdistan.

l’Unità 16.9.11
«A Israele dico: accetti uno Stato palestinese sulle frontiere del ’67»
Per il Premio Nobel per la Pace «C’è ancora tempo prima del voto
al Palazzo di Vetro per ridare spazio al negoziato, investendo sul futuro»
di Umberto De Giovannangeli


Resto convinto che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare con convinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese. La non nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele». Il suo contributo risultò decisivo per giungere agli accordi di Camp David (1979) che sancirono la pace fra Israele e l’Egitto. Nel 2002 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Jimmy Carter per le sue posizioni critiche rispetto all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi è stato tacciato di «simpatie pro-Hamas». Perchè ha osato scrivere che la politica di Israele nei Territori è «un sistema di apartheid, con due popoli che occupano lo stesso Paese ma che sono completamente separati l’uno dall’altro, con gli israeliani che dominano, opprimono e privano i palestinesi dei loro diritti umani basilari». Nel recente passato, Carter Usa ha cercato di svolgere un ruolo di «pacificatore» nella martoriata Terrasanta. Ora gli occhi del mondo sono puntati sull’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si aprirà il prossimo 20 settembre a New York: in quella sede, il 23 settembre, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) presenterà la richiesta per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro i confini del 1967.
Presidente, qual è la sua posizione in merito a questo passaggio cruciale nell’eterno conflitto israelo-palestinese?
«Non è una decisione facile da prendere. Per quanto mi riguarda, resto convinto di due cose: la prima, è che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare con convinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese; la seconda convinzione, strettamente legata alla prima, è che la non nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele».
Come calare queste considerazioni nel dibattito che avrà una sua concretizzazione al Palazzo di Vetro? «In alternativa alla situazione di stallo attuale, a malincuore penso che si debba sostenere la mossa palestinese per ottenere il riconoscimento del proprio Stato alle Nazioni Unite. La speranza è che in questi giorni che ci separano dal 23 settembre possano determinarsi fatti sostanziali che permettano la ripresa del negoziato: la dirigenza palestinese ha lasciato aperto uno spiraglio su cui la diplomazia internazionale dovrebbe agire. Il tempo ci sarebbe ancora...».
Riconoscere lo Stato palestinese è una scelta che va fatta anche se a “malincuore”. Perché?
«Perché è la registrazione di un gravissimo stallo negoziale, di cui francamente è difficile sostenere che le responsabilità maggiori siano della dirigenza palestinese. Certo, meglio sarebbe portare avanti una proposta di pace globale e dettagliata dell’amministrazione Obama, ma in questo momento occorre riconoscere che i palestinesi hanno poche opzioni alternative. Resto convinto che l’opzione dei due Stati sia ancora la migliore, quella su cui concentrare tutti gli sforzi diplomatici. Ciò implica un "dare e avere" da parte di tutti. Di Israele, che dovrà riconoscere una Palestina indipendente su gran parte dei territori occupati nel 1967. Dei palestinesi, che dovranno accettare un ragionevole compromesso sul diritto al ritorno dei profughi del ’48. E da parte dei vicini arabi, che dovranno riconoscere il diritto di Israele a esistere in pace. Per nessuno dei soggetti in questione la pace può essere a costo zero. E questo discorso mantiene la sua validità qualunque sarà la decisione che verrà assunta al Palazzo di Vetro. Per quanto riguarda il mio Paese, avrei preferito un voto favorevole, ma non credo proprio che ciò accadrà».
Signor Presidente, perché la non nascita di uno Stato palestinese sarebbe la vera catastrofe per Israele. Su cosa fonda questa considerazione?
«Sulle tre opzioni alternative conseguenti alla soluzione di un solo Stato. Ognunadiquesteopzioniavrebbericadute catastrofiche sul futuro di Israele e sulla stabilità dell’intero Medio Oriente.La prima opzione sarebbe quella di espellere forzatamente centinaia di migliaia di palestinesi dalla Cisgiordania, il che significherebbe attuare una vera e propria pulizia etnica. La seconda opzione è quella di negare ai palestinesi la parità dei diritti di cittadinanza, a partire dal diritto di voto. Ciò significherebbe imporre un vero e proprio regime di apartheid. La terza opzione: quella di riconoscere ai palestinesi parità di cittadinanza e dunque il diritto di voto».
Cosa c’è di catastrofico per Israele in questa opzione?
«La fine di Israele come Stato ebraico, ovvero l’autocancellazione di uno dei pilastri che sono a fondamento della nascita dello Stato d’Israele: il suo essere focolaio nazionale del popolo ebraico. Mi sembrano considerazioni realistiche, mosse da una sincera amicizia verso il popolo d’Israele. La politica sarebbe con ogni probabilità orientata dai palestinesi, più compatti rispetto agli israeliani che appaiono al proprio interno maggiormente divisi, e grazie alla crescita demografica maggioritari sul piano numerico in un futuro non lontano E contro la "bomba demografica" Non c’è Barriera di sicurezza e potenza militare che tengano. La nascita di uno Stato di Palestina in un quadro di garanzie negoziate è un investimento d’Israele sul proprio futuro».
Molto si discute sulla “Primavera araba”. C’è chi sostiene che siamo già entrati in una fase involutiva, di controrivoluzione. Un sogno si è infranto? «La Primavera araba ha portato la speranza per la democrazia e la libertà nella Regione. E’ stata questa, la richiesta di diritti, di libertà, la leva delle rivolte in Tunisia come in Egitto. Quelle piazze hanno dimostrato che esistono dei valori universali che vanno poi calati nelle rispettive realtà. Siamo entrati nella fase della transizione e vedo anch’io i rischi di un arretramento. Ma quella speranza non è venuta meno. Molto dipenderà dalla convinzione con cui la Comunità internazionale, in particolare Usa ed Europa, sosterranno le forze del cambiamento in Medio Oriente e nel Nord Africa».
C’è il rischio che l’irrisolta “questione palestinese” possa essere usata dagli integralisti islamici per rilanciare lo scontro con Israele e assumere la guida della “Primavera araba”?
«Il rischio esiste ma continuo a credere che la “Primavera araba” possa ancora innescare un processo positivo che possa favorire il cambiamento anche nella prospettiva di un accordo di pace fra Israeliani e Palestinesi. Vedo un legame tra la soluzione della “questione palestinese” e lo sviluppo del processo democratico nel mondo arabo. Ma questa prospettiva sarebbe più concreta e ravvicinata se Israele si ritirasse dai territori occupati. Sarebbe un atto di coraggio e di lungimiranza e non certo una “resa al nemico».

La Stampa 16.9.11
Intervista a Dan Meridor, ministro per l’Intelligence e tra i più stretti consiglieri di Netanyahu
“Sì allo Stato palestinese ma solo con i negoziati”
“Un errore l’azione all’Onu”
di Francesca Paci


In questi giorni la Knesset sembra un fortino inaccessibile che controlla la regione dalle alture di Gerusalemme. «Non è un momento semplice», ammette il ministro dei Servizi segreti Dan Meridor, consigliere strategico di Bibi Netanyahu e parte del fidatissimo gruppo degli otto cui il premier israeliano ricorre per ragionare sugli sviluppi della crisi con la Turchia.

Il premier turco Erdogan ha affermato che riconoscere lo Stato di Palestina è un dovere. Cosa significa per Israele, a pochi giorni dall’appello di Abu Mazen all’Onu?

«Uno Stato Palestinese dev’essere stabilito, ma la via è il negoziato e non il riconoscimento di uno Stato che non esiste. È necessario sedersi, discutere i confini, concordare la sicurezza. Nessun attore esterno può imporre nulla, neppure l’Onu».
Il problema è il negoziato, bloccatosi con l’uscita di scena del premier Olmert. Non è così?
«Sfortunatamente negli ultimi tre anni i palestinesi hanno sempre rifiutato la mano che Israele ha teso loro. Con Olmert potevano ottenere il 100% di quanto chiedevano e invece rilanciavano, dicevano che sarebbero tornati al tavolo delle trattative e non sono tornati. Eravamo d’accordo sui due Stati ma loro non erano d’accordo sul chiuderla lì, non volevano smettere di reclamare, insistevano su quello che chiamano il diritto al ritorno ed è assurdo. Che l’Onu possa riconoscere lo Stato di Palestina senza chiedere conto di cosa avverrà in seguito è un grave errore. Il giorno dopo che Israele acconsentisse alla nascita dello Stato palestinese ricomincerebbero a chiedere».
Lo stallo negoziale sta diventando un problema regionale. Le compagnie low cost hanno interrotto i voli tra Tel Aviv e la Turchia. Come finirà?
«I charter Tel Aviv-Antalya sono stati sospesi perché la gente non partiva più. Con Ankara abbiamo difficoltà commerciali, che credo riusciremo a recuperare, e difficoltà politiche. Erdogan corre la sua corsa personale indipendente dai palestinesi. Il rapporto della Commissione Palmer funzionava tutto sommato sia per Israele che per la Turchia: criticava lo spiegamento “eccessivo” delle nostre forze ma concludeva che il blocco di Gaza era legittimo. Era un inizio per parlare e invece Erdogan ha voluto attaccarci. Confido nel disgelo perché è nell’interesse di entrambi».
La Commissione Palmer consigliava anche a Israele «un’adeguata manifestazione di rammarico». Molti si domandano cosa costasse chiedere scusa, se poteva salvaguardare la stabilità regionale.
«Ho un punto di vista diverso, ma mi limito ai fatti. Israele si è scusato. Insisto, però: il rapporto Palmer ha anche riconosciuto la legittimità del blocco. La storia doveva finire lì».
Invece i rapporti con Ankara sono pessimi, l’Egitto ringhia, l’ex direttore dell’intelligence saudita «consiglia» agli Usa di non bloccare la richiesta di Abu Mazen all’Onu, la Giordania trema al punto che re Adbullah ha ribadito l’esistenza di uno Stato palestinese fuori dei propri confini e Israele ha evacuato l’ambasciata ad Amman. Come uscirete dall’isolamento?
«Il Medio Oriente sta andando verso un grande terremoto regionale e nessuno ne conosce l’esito. Egitto, Siria, Libia, tutti evocano lo Stato palestinese ma il vero problema è il cambio dei loro regimi, un’incognita. L’Arabia Saudita parla, ma dovrebbe condividere con Israele la preoccupazione per la nuclearizzazione dell’Iran...».
Non crede che la nascita dello Stato palestinese aiuterebbe?
«Non lo so, ma noi siamo pronti al negoziato, purtroppo non abbiamo un partner. Capisco che Abu Mazen abbia problemi di leadership con Hamas, ma è il nostro unico interlocutore».
Cosa farete quando i palestinesi si presenteranno all’Onu?
«Vedremo cosa decideranno le Nazioni Unite. Non sarà un momento semplice. La pressione internazionale non aiuta, anzi. Noi e i palestinesi dobbiamo sederci e parlare».
Eppure basta guidare per le strade della Cisgiordania per notare che le colonie ebraiche sono in aumento. Non è così?
«Noi ci siamo fermati per dieci mesi, ricorda la moratoria? Ma i palestinesi non hanno voluto chiudere il conflitto e i negoziati si sono arenati. Ora Israele non può impedire a nessuno di comprare una casa solo perché è ebreo: questo è irrealistico».

La Stampa 16.9.11
Intervista
Yehoshua: si fa presto a dire letteratura ebraica
“Oggi i problemi di noi israeliani sono altri: il nostro Paese, la pace, la sicurezza, la giustizia, i rapporti con i palestinesi”
di Mario Baudino


Festival al Vecchio Ghetto di Roma Abraham Yehoshua (qui in un disegno di Paolo Galetto) inaugura domani (ore 21, Tempio di Adriano) il IV Festival internazionale di letteratura ebraica, in scena fino al 21 settembre al Vecchio Ghetto di Roma (programma completo su www.festivaletteraturaebraica.it). Il nuovo libro di Yehoshua, La scena perduta , uscirà da Einaudi a fine novembre

La letteratura ebraica non è quel che in genere si immagina: non è tutta la letteratura scritta da ebrei, ma quella scritta da ebrei e che riguarda temi ebraici. Kafka non fa parte di quest’ambito, e tanto meno Proust. Giorgio Bassani, invece, sì. Abraham Yehoshua, domani, ne parlerà a Roma, nel fine settimana dedicato al festival della cultura ebraica. Ma questa distinzione che fa il grande scrittore israeliano non è solo tecnica, va al di là di un ragionamento di critica o storia letteraria. È noto che varie volte Yehoshua ha espresso la propria ferma opinione che per gli scrittori ebrei di tutto il mondo sarebbe importante familiarizzarsi con l’ebraico, proprio come ogni intellettuale, nel Medioevo, conosceva il latino. Anche per superare una certa disattenzione reciproca fra gli ebrei di Israele e quelli della diaspora.
Intende dire che la letteratura ebraica, che è stata così importante per la nostra cultura, dà segni di stanchezza?
«Per me come israeliano la letteratura ebraica non è così fondamentale, anche se ovviamente quella israeliana è parte di essa. O almeno, non lo è in Israele, dove i problemi sono diversi, e magari si guarda con maggiore interesse, che so, a Dostoevskij o Faulkner. La letteratura della diaspora nasce da scrittori ebrei che agivano in un ambiente non ebreo, appunto, isolati in un mondo ostile, e quindi con un forte problema legato all’identità. Dovevano confrontarsi soprattutto con l’antisemitismo. Per noi israeliani c’è semmai il rapporto con la situazione delle minoranze che vivono nel nostro Stato, coi palestinesi per esempio. Con le minacce alla sicurezza, i problemi della pace e della giustizia. L’antisemitismo, almeno per gli scrittori, non è più il tema fondamentale».
Lo scrittore ebreo esiste ancora, in quanto tale, al di fuori di Israele?
«Sì certo. Però le voglio raccontare un aneddoto. Saul Bellow era mio amico. E si chiacchierava del fatto che si sentiva sempre più infastidito al sentirsi chiamare scrittore ebreo. Lui era americano. Questo dà luogo a molte riflessioni».
In che senso?
«Nel senso che io sono indubbiamente uno scrittore ebreo. Scrivo in ebraico, mi rifaccio una tradizione che per me è importantissima, anche se non più delle altre, non più per esempio di Dante Alighieri, ma è la mia, quella della mia lingua. La letteratura ebraica in senso lato resta significativa, ma non come è stata fino alla seconda guerra mondiale, o subito dopo, basti pensare alla riflessione sull’Olocausto. Ora il problema esistenziale, dico dell’esistenza stessa degli ebrei e della loro cultura, è sentito in maniera diversa. È Israele il nodo centrale».
È questo secondo lei il motivo della straordinaria fioritura della letteratura israeliana?
«È ciò che si impone, e attrae l’attenzione di tutto il mondo. Siamo un piccolo Paese con 6 milioni di abitanti, ma la nostra letteratura interessa a tutti».
Come lo spiega?
«Perché questa letteratura parla di una società moderna e democratica che combatte per la sua vita e la sua legittimazione».
E questo è uno di quei problemi che riguardano appunto tutti?
«Le faccio un esempio italiano, di un autore a me molto caro. Leonardo Sciascia affronta il tema della mafia. Ora per questo è molto interessante, perché la mafia non riguarda solo la Sicilia, ma tutta l’Italia. E non solo l’Italia, anche Israele».
Lei si è espresso varie volte per una letteratura «impegnata», dove l’impegno consiste nell’affrontare temi sostanzialmente etici attraverso la narrazione. Ritiene che il successo degli scrittori israeliani nasca da questa forma di impegno?
«Per molti aspetti sì. La situazione del Medio Oriente pone domande cruciali, cui bisogna rispondere».
Sembra quasi che valga la formula: più problemi, più letteratura. Non è del tutto confortante.
«Se guardiamo all’Europa, vediamo una grandissima letteratura proprio al tempo dei totalitarismi. Fra il 1918 e il 1939 c’è stata una eccezionale creatività. Scrittori giganteschi, da Thomas Mann a Kafka, a Pirandello. L’Europa bruciava e la creazione diventava sempre più importante».
Una società calma, stabile, ordinata, esprime una cultura mediocre? Lei darebbe la grande letteratura israeliana in cambio della pace?
«A me basterebbe che per qualche mese almeno non si dovesse menzionare Israele sui giornali di tutto il mondo».

Manconi: «considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea»
l’Unità 16.9.11
Sorpresa, il personalismo può rifondare la sinistra
di Luigi Manconi


Due decenni fa questo termine sarebbe stato guardato con sospetto. Oggi, per fortuna, è tornato ad essere il perno delle iniziative sociali e legislative in tema di diritti e di libertà individuali

Grazie al cielo non c’è stato bisogno di alcuna cruenta guerra culturale o di una feroce controversia ideologica per far sì che nel vocabolario politico e nel discorso pubblico il termine persona venisse accolto a pieno titolo. Questo va ricordato perché, appena due decenni fa, quella stessa parola sarebbe stata guardata con perplessità.
Non dico osteggiata, ma certo vista con sospetto, in quanto troppo profondamente denotata sotto il profilo storico e culturale-religioso. Questa acquisita maggiore elasticità mentale è un positivo segno dei tempi, che ci consente di abbandonare alcuni tabù linguistici e di conseguenza (si spera) gli stereotipi costruitivi sopra.
Persona, va da sé, richiama irresistibilmente il personalismo ovvero lo dico in estrema sintesi quella corrente di pensiero che pone al centro dell’universo dei valori e dell’azione la persona umana. Il personalismo una filosofia non un sistema, sottolineava Jacque Maritain ha una sua origine, una sua prima definizione (con Charles Renouvier) e un certo numero di autorevoli pensatori (dallo stesso Maritain a Paul-Ludwing, Max Scheler, Romano Guardini e, in particolare, a Emmanuel Mounier), ma qui il personalismo interessa meno in quanto orientamento filosofico e molto più in quanto ispirazione culturale e politica. Sotto questo profilo, il personalismo come centralità assoluta della persona umana ha una storia millenaria che va ricordato lo connette strettamente alla categoria di eguaglianza. Più di recente, si ritrova una significativa ascendenza, anche quando non dichiarata, nel pensiero di Antonio Rosmini, nonostante le molte differenze e persino gli aperti conflitti rintracciabili nelle due elaborazioni. Ma è proprio la complessità e anche contraddittorietà della traccia che tiene insieme la categoria di persona, come elaborata dall’asse Maritain-Mounier e come elaborata da Rosmini e da molti altri ancora, che consente oggi di considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea. Insomma, proprio il fatto che la riflessione cristiana e cattolica sulla persona non è un sistema compatto, ne incrementa la diffusione e ne accentua la fertilità. Cosicché oggi quella stessa riflessione, esplicitata o meno, costituisce una componente ormai acquisita dell’identità culturale della sinistra più matura: e non c’è dubbio che abbia rappresentato uno dei motivi ispiratori dei programmi sociali del riformismo europeo, a partire dalle prime politiche di Welfare.
Ma torniamo a Rosmini: si deve ancora a lui (certo non solo a lui) la modernissima concettualizzazione del nesso profondo tra corpo/soggettività, persona e diritto: «il diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente». Ciò a dire che la persona nella sua prima costituzione, fondata su corpo e psiche, è la fonte e la sede dei diritti inalienabili dell’uomo e la radice stessa della libertà umana. Ecco, se partiamo da tali indicazioni e da ciò che il personalismo novecentesco ha successivamente elaborato con una particolare valorizzazione della corporeità si può giungere ad accogliere il concetto di persona come quello decisivo per una ridefinizione dell’agire sociale e dell’azione politica nelle società contemporanee. Tutto questo a prescindere dalle altre implicazioni proprie del personalismo come filosofia dotata di una profonda matrice religiosa; e a prescindere, soprattutto, dalla dimensione conflittuale dello scontro ideologico che, nella seconda metà del Novecento, ha portato quella filosofia alla contrapposizione, spesso assai aspra, nei confronti del marxismo.
Ciò che conta oggi, per chi ha ancora fiducia nella politica, e vuole sottrarsi sia alle tentazioni sincretistiche che alle dispute filologiche (saranno i filosofi a dedicarsi a queste ultime), è il ruolo della persona umana. E il nesso indissolubile tra coscienza e responsabilità sociale. Non è questione oziosa: la politica contemporanea va in tutt’altra direzione e si manifesta o come rappresentanza di “solidarietà corte” e interessi organizzati (lobbies e corporazioni, sindacati e ordini) o come residuale espressione di gruppi sociali (movimenti collettivi e lavoro precario, segmenti di territorio e fasce generazionali). Questi soggetti che chiedono e talvolta ottengono rappresentanza sono spesso meritevoli di tutela e, pertanto, l’errore non consiste nel volerne proiettare le domande sulla sfera politica. L’errore risiede, piuttosto, nell’incapacità pressoché generalizzata di partire proprio dal nucleo essenziale della loro costituzione materiale. E dalla politica che lì si può fondare. Ovvero la politica come proiezione nella sfera pubblica delle domande di diritto e di libertà che nascono dalla persona. I bisogni umani che trovano, appunto, nella persona la loro fondazione e la loro legittimazione come diritto richiedono una tutela che solo la politica può garantire. Oggi più che mai.
Dunque, la centralità della persona è la qualità possibile della politica contemporanea, nell’epoca dell’individualismo e nelle società liquide. Inutile inseguire rappresentanze di classe, pericoloso assecondare tutele di corporazione. È la persona umana che fonda la politica e la sua ricostruzione e ridefinizione a partire dall’individuo come premessa di una identità condivisa che, a questo punto, può anche essere di gruppo sociale e persino “di classe”, nella sua antica accezione. Che quanto fin qui detto sia tutt’altro che astrazione, è agevolmente dimostrabile. Due questioni cruciali della politica contemporanea, non solo in Italia, rimandano puntualmente a quel rapporto prima indicato tra corpo/soggettività, persona e diritto. Le tematiche di “fine vita” e, dunque, il Testamento biologico, l’autodeterminazione del paziente, la libertà di cura, la “sovranità su di sé e sul proprio corpo” da lì discendono; ma anche l’habeas corpus, le garanzie individuali, l’immunità del recluso e l’irriducibilità dei suoi diritti fondamentali, a quel rapporto rimandano. E lo rendono più che mai attuale e urgente.

l’Unità 16.9.11
Le nostre città? Sono nate per nostalgia
Da Caino e Abele alle metropoli Al FestivalFilosofia lo studioso spagnolo affronterà il tema dell’abitare citando i miti della creazione: l’umanità ha innalzato edifici, violando la Terra, in segno di sfida al Paradiso perduto
di Felix Duque


Ogni ordine sociale espelle la natura nella quale esso stesso si è costituito. E tuttavia, sono forse lo stesso «terra» e «natura»? Il trionfo dell’artefatto, che coincide con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata o della macchina intelligente sugli esseri intramondani, può cedere il posto all’abitare? (...) Non sarà necessario, per cominciare, concepire in altro modo l’industria edilizia, un tempo chiamata «architettura» (con la sua estensione civica: l’«urbanistica»)? Un compito difficile, questo, e forse dissennato. Ma per tentare di portarlo a termine, può essere conveniente retrocedere all’origine mitica della città, esposta nei grandi racconti cosmogonici e antropogonici fondatori della nostra cultura. In essi ci si imbatte, frontalmente, non senza stupore, in un’assenza: in essi non si fa menzione, infatti, dell’abitazione dell’uomo come donazione divina. Questa compare in ogni caso solo dopo, come risultato o anticipazione di un crimine. Così, nell’origine stessa della Città, secondo quanto ci è stato trasmesso miticamente, brilla l’opposizione al Théos e, al contempo, si mette in rilievo il suo debito verso la Tecnica. Una cosa è perciò chiara fin dall’inizio: la città degli uomini non è una donazione del dio, bensì un atto di ribellione contro di esso (come se dicessimo: un rifiuto di seguire istruzioni già scritte e prescritte in un codice genetico); un atto tecnico, che ha bisogno della connivenza segreta della forza sostenitrice della terra (disprezzata giustamente nei frutti e nei doni da parte del Signore). La Città non prolunga il Giardino: si erge contro di esso. Per verificarlo, basta aprire dall’inizio il libro nel quale, secondo l’Occidente, sono radunati tutti i libri.
Nel Genesi si dice: «Piantò poi Iahvé Dio un giardino nell’Eden, verso oriente, e lì pose l’uomo che aveva formato». Il giardino, l’oasi, è limitato orizzontalmente dal deserto (o meglio, il deserto Eden solo quando viene piantato al suo centro il giardino appare come tale per la prima volta: viene così determinato, definito) e verticalmente è coperto dalla volta celeste. Solo dopo la cacciata dal paradiso e il posteriore assassinio del nomade Abele troviamo il primo riferimento ad una città, legata non solo a quel fratricidio, ma soprattutto ad un’arguzia tecnica per evitare la maledizione di Iahvé, per evitare il destino.
Dio aveva infatti deciso di rinnegare il tratto distintivo di Caino: la vita sedentaria del contadino. Lo avverte infatti che quando coltiverà la terra, essa gli negherà i suoi frutti e aggiunge: «vagherai per essa fuggiasco ed errante». E tuttavia, contro l’esplicita volontà divina, il contadino Caino non solo non si «riconverte» alla vita nomade del pastore (nomade e pastore sarà invece il nuovo Abele: Abramo, fondatore del Popolo Eletto), bensì «lontano dalla presenza del Signore» mette le radici nel doppio senso della parola: fa un figlio e fonda una città (la prima): «Esso (Caino) si mise a costruire una città, alla quale diede il nome di Enoc, suo figlio».
E così, l’uomo Caino (l’uomo di città, «civilizzato») stabilisce la sua dimora sub contrario: contro la terra che secondo la maledizione divina gli avrebbe negato i frutti -, e contro il cielo ostile e minaccioso. Letteralmente, l’abitazione umana si erge da allora, sfidante, in mezzo all’inospite (lo spaesante: ciò che rinnega ogni paese e ogni paesaggio). Per un verso, la prima città è stata edificata proprio per separarsi verticalmente dal cielo, attraverso la costruzione e la copertura delle case, come difesa contro un cielo che non sarà mai più protettore. Per altro verso, la città si espande orizzontalmente, separandosi dall’altro, dalla terra che da allora sarà sfruttata e allontanata, attraverso una cerchia divisoria, con delle mura difensive (si noti che, in inglese, town, «città», ha la stessa origine del termine tedesco zaun, «cerchia»).
Orbene, da questo asse derivano tre riflessioni. La prima riguarda la terra, che viene obbligata a ripiegarsi su se stessa e contro se stessa, per così dire, creando in questo modo una differenza tra città e campagna. Nasce così la «natura», contrapposta al mondo degli uomini, cioè la «cultura» e la «storia». Una volta proiettata questa distinzione sul mondo delle cose, ne segue un’altra, che rimanda alla mano e allo sguardo dell’uomo, ovvero la distinzione tra il naturale (che conterrebbe in sé il principio del proprio movimento) e l’artificiale (ciò che è creato, modificato e messo in moto dalla violenza tecnica).
La seconda riflessione implica l’arguzia del postporre: se ogni individuo naturale deve morire, le stirpi invece si vorranno immortali come la città che costruiscono (per il greco, la pólis è lo zoôn megistón, l’«essere vivente» più alto, presumibilmente perché non morirà). Ma l’assoggettamento continuo della natura da parte della cultura e della storia umana (ovvero, il predominio della linea evolutiva della perfezione contro il tempo ciclico delle stagioni), porterà al sogno della congiunzione della Città cosmica (Cosmópolis), abitata da un’Umanità unificata.
La terza riflessione riguarda immediatamente il nostro argomento: l’abitante della città non abita la terra. Anzi, al contrario, crede di rinnegarla. Infatti, aprire un luogo implica una divisione, un’incrinatura nel continuum della chôra, della mobile nutrice del territorio, trasformata dall’azione dell’urbanizzazione. Da allora, sia nell’interno rinnegato che nella campagna asservita (i contadini) si procede alla deforestazione, all’incendio e alla distruzione di antichi luoghi fisici e spirituali (e, spesso, alla distruzione e alla sottomissione delle genti che lì vivevano). Quindi, sarà sempre troppo tardi tranne per la cattiva coscienza e il pentimento, tardivo per definizione abitare la terra come se fosse la prima volta. Abitare nella città implica violentare la terra.
È forse allora impossibile abitare la terra a meno che non si torni ad una presunta natura vergine? Oppure al cielo promesso? Ma si noti ciò che ho detto: come se fosse la prima volta. Non sarà questo sogno di tornare all’origine, questo sogno di purezza, ciò che ci impedisce anche solo di immaginare come andrebbe abitata la terra? (...)
APERTO-CHIUSO
Che cosa brama, infatti, l’uomo di città, cioè tendenzialmente ognuno di noi? Ovviamente, brama il contrario dell’Aperto senza limite: brama la negazione e la lottizzazione, la determinazione e la distribuzione. Perché solo in questa primigenia agrometria si può dare la luce del giorno, la vita sociale, il tempo della storia. Perciò, prendendone le misure, aspira a trasformare la natura in paese, il territorio in paesaggio: ciò che lo circonda, insomma, in medio ambiente. Ma proprio per questo deve riconoscere che l’abitazione umana si erge in mezzo all’Unheimlich, in mezzo allo spaesante (ciò che è fuori da ogni paese e da ogni paesaggio; in tedesco: Wildnis, il selvaggio). E tuttavia, essendo animale di terra (Adamo di Eden), l’uomo cela dentro di sé la nostalgia animale: la nostalgia di qualcosa di perduto già da sempre: l’affermazione pura. (...)Solo che oggi, e in modo certamente patetico e perfino comico (sensu hegeliano), questa nostalgia si è scissa nei due ambiti cosmici: l’una si dirige verso la costruzione di una città legata ad una natura ben disposta, nel senso volgare dell’Eden; l’altra tende verso la città che, come Babele, possa raggiungere il cielo. Da una parte, la città inserita in una natura-pastiche, trasformata artificialmente in «vergine», come nel caso dei villaggi-vacanze in paesi esotici. Dall’altra, la città-movimento: Metropoli. Entrambi i movimenti convergono nelle megalopoli attuali.
©Consorzio per il festivalfilosofia (Traduzione di Valerio Rocco)

il Fatto Saturno 16.9.11
Caravaggio Export
di Tomaso Montanari


«WE SHIP worldwide»: spetta al ministro Giancarlo Galan decidere se de-v’essere questo il motto di un Ministero per i Beniculturaliridottoaunadittadimaldestri spedizionieri. L’ennesimo caso di strumentalizzazione politica del nostro martoriato patrimonio artistico riguarda l’incredibile Caravaggio en Cuba, un’improbabile mostra prevista per il 25 settembre all’Avana.
La mostra non si basa su un progetto scientifico serio, ma è frutto del marketing del Direttore generale per la Valorizzazione del Mi-BAC, Mario Resca (ex Mac Donald’s), convinto che non si debbano portare le persone davanti alle opere, ma che siano i “capolavori” a dover stare in moto perpetuo. Così, dopo la Velatadi Raffaello a Milwaukee, la Tempesta di Giorgione a San Pietroburgo e proprio mentre l’arcivescovo di Firenze cerca di spedire Giotto a Mosca, siamo arrivati a Caravaggio en Cuba. Di questo passo vedremo presto i Bronzi di Riace a Singapore, Cimabue in Bolivia e Canova in Somalia.
Nel frattempo, la trappola cubana rivela il caos in cui questo turbinio di spedizioni ha precipitato il MiBAC. Siamo di fronte al primo caso in cui la mostra viene presentata alla stampa prima che l’iter delle autorizzazioni sia compiuto: e tutto questo a pochi giorni dall’imballaggio dei quadri. Mercoledì scorso, poco dopo che i sottosegretari Vincenzo Scotti (Esteri) e Riccardo Villari (Mibac) avevano concluso una trionfante conferenza stampa, il Comitato tecnico scientifico ha espresso un parere negativo sui prestiti: e non solo per il clamoroso ritardo con cui la pratica è arrivata (un ritardo che impedisce ripensamenti e aggiustamenti), ma soprattutto perché la mostra svuoterebbe indecente-mente le sale appena riaperte di Palazzo Barberini, portando via il meraviglioso Narciso attribuito a Caravaggio, oltre a quadri di Artemisia Gentileschi, Cagnacci, Manfredi, Saraceni, Borgianni e altri ancora.La parola è dunque al ministro, il quale disse, insediandosi, che i musei e i monumenti avrebbero contato più degli eventi. Ora tutti coloro che hanno a cuore la tutela del patrimonio e il rispetto delle regole sperano che Galan avrà la forza di mettere in pratica quegli ottimi principi: bloccando Caravaggio en Cuba.

Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri)
il Fatto Saturno 16.9.11
Globalmente fuori di testa
di Andrea Tagliapietra


PARANOIA, PRIMA DI ESSERE un termine della psichiatria moderna dal significato tanto ampio quanto scientificamente controverso, è una parola greca, composta dalla preposizione parà, che può essere resa con il nostro “oltre”, e dal nome del pensiero, il nous dei filosofi. Così nella paranoia risuonerebbe la metafora di quell’andar fuori di testa che traduce, nel gergo quotidiano, l’evento della pazzia. Tuttavia parà in greco significa anche “presso”, “accanto”, sicché il termine paranoia ci suggerisce una più sottile e inquietante etimologia: quella di una follia che, lungi dall’appariscenza iperbolica dell’eccesso furioso o dalla lunatica lontananza della demenza, sta “a fianco” della ragione, ne segue i passi come un’ombra, finanche adottandone l’ordine, la struttura sistematica e l’arrogante pretesa di poter fornire sempre una risposta. Come avviene, per esempio, nel lucido delirio dell’Otello di Shakespeare, là dove, suggeriva il filosofo Stanley Cavell, cogliamo la personificazione della ragione alle prese con il problema dell’altro. La razionalità al quadrato dello scetticismo, allora, sarebbe una specie di paranoia della ragione, che rifiuta la propria imperfezione, i limiti interni ed esterni che la istituiscono, conseguendo un’amara vittoria di Pirro: il ripudio stesso del sapere. Ritroviamo il Moro di Venezia in chiusura del volume di Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri). Otello è la vittima tormentata di quel sospetto radicale – il sussurro di Iago – che nega che gli altri siano quello che sembrano. La sua gelosia descrive la scena moderna della paranoia come un delirio metodico e coerente, che si evolve lasciando integre le restanti funzioni mentali. Così la paranoia ci appare quasi una «continuazione del nostro pensare normale, più precisamente del nostro bisogno di spiegazioni». All’inizio del ’700 il Robinson di Defoe afferma di essersi sentito più solo per le vie di Londra che nella sua isola deserta, rivelandoci la radice moderna della paranoia. Quando le solitudini impaurite e sospettose dei singoli fanno gruppo e si appellano ad ataviche identità rassicuranti, alle comunità immaginarie del sangue e del suolo, ecco che la paranoia passa dal piano individuale e clinico a quello culturale e collettivo. Essa è quella banalità del male che ha scritto le pagine più sanguinose della storia del XX secolo, tragicamente segnato dalle personalità paranoidi di Hitler e di Stalin, e dominato dai grandi dispositivi paranoici della massificazione e della mercificazione consumistica. La paranoia collettiva ha, per Zoja, la caratteristica virale di un’“infezione psichica” per cui una società o un gruppo rinuncia alle proprie responsabilità, trasferendo con una “proiezione persecutoria” ogni colpa sui “nemici”. Essa attraversa le guerre calde e fredde, i nazionalismi, i populismi, i fascismi e i comunismi. Giunge fino a quell’11 settembre 2001 in cui alla paranoia dei kamikaze islamici si è contrapposta quella della “guerra al terrore” di G.W. Bush, puntellata da un tipico castello di bugie paranoiche, ossia resistenti a ogni smentita, come quella delle famigerate armi di distruzione di massa. Una volta decisa l’azione, a lungo bloccata dall’esitazione del dubbio, la paranoia scatta come la molla di un meccanismo automatico, scoprendosi in preda a una fretta inarrestabile, a un’accelerazione che travolge tutto e, quindi, anche se stessa. Come sembra accadere nella catastrofe finanziaria che stiamo vivendo.
Qui è forse possibile, portando il nostro discorso oltre il libro di Zoja, intravvedere uno sviluppo esponenziale della paranoia collettiva connesso con l’indifferenza emotiva della ragione calcolatrice e con il fenomeno spettrale della globalizzazione, che rende gli altri esseri viventi tutt’altro che “prossimi”, ma anzi piuttosto simili a quel mandarino cinese profetizzato da Balzac, di cui possiamo provocare impunemente la morte lontana, traendone in cambio lucrosi vantaggi. Così, in nome di un sistema economico che confligge con la natura finita delle risorse del pianeta, dell’umanità stessa e delle sue differenze concrete, si inventano “nemici della crescita” o fantomatici “speculatori” per spiegare la violenza di una crisi di cui, in ultima analisi, gli unici responsabili sono i medesimi attori umani divenuti, come diceva quel Marx che sopravvive a ogni marxismo, inconsapevoli maschere del capitale.

Corriere della Sera 16.9.11
Postmoderno
Addio alla storia, relativismo, dubbio: tutte facce del progresso
di Giuseppe Galasso


Sorte infelice, quella del postmoderno. Sorto come posizione settoriale, fra artisti e architetti, si era presto allargato ad altri campi, facendo molto rumore specie in filosofia, dove sembrava, una ventina di anni fa, che dovesse segnare chissà quale svolta. Poi, in filosofia quasi non se ne parla più, e ora si dice spesso che è finito. La causa del decesso? Inghiottito dal moderno, di cui predicava il superamento, dicono gli esperti del tema, e, sembra, senza eredità rilevanti.
La vicenda appare più interessante per la modernità che per il postmoderno. Questo è stato, in fondo, solo uno dei tanti attacchi alla modernità susseguitisi non si sa più da quando, e neppure il più velenoso. Nel '900 si giunse a rimpiangere «il mondo che abbiamo perduto». C'era una volta il mondo premoderno fatto di forti certezze di antica sedimentazione quanto a valori morali e comunitari, a relazioni umane e sociali, a scansioni del tempo e delle stagioni, a pratiche produttive e mercantili, a senso della vita e della morte, e a tanti altri fisici e metafisici connotati della realtà e della vita. Eccoci, invece, col moderno, in un mondo dai connotati opposti: relativismo, incertezze, insicurezze e simile compagnia cantante di un vissuto oscillante per lo più tra alienazione e angoscia, ma anche tra altri dilemmi non meno laceranti, senza regole condivise nell'atteggiarsi e comportarsi, e quindi forzatamente portato o alla latitanza morale e sociale o all'esaltazione sfrenata che distrugge se stessa.
Il vecchio mondo ce lo aveva fatto perdere la modernità. La quale, però, già da tempo, mentre veniva esaltata per innumeri ragioni, e soprattutto in nome del progresso, ossia del mito forse più modernizzante d'ogni altro, era stata posta in dubbio e guardata con crescente diffidenza, fino ad apparire tanto equivoca e dannosa da essere spesso condannata e ripudiata.
Fu un seguito impressionante. La crisi dell'idea di progresso incubò e partorì la crisi dell'idea e del valore della storia. Il vecchio «tutto scorre», tutto cambia, si era mutato in un convinto «tutto avanza», progredisce e migliora. Ma ben presto cominciò il cammino inverso: il mondo va avanti e peggiora. Dall'idea dello stato di natura come condizione perfetta e felice dell'uomo e delle cose si è giunti all'integralismo ecologico e animalista (ora è superato anche lo stadio vegetariano: si predica quello vegetaliano). Il progresso tecnico e scientifico appare letale e inaccettabile per poco che ci allontani dalla naturalità non solo per l'uomo, ma per tutta la realtà.
Questi termini sono volutamente forzati per rendere più evidente e più netto un aspetto eminente del problema, anche se non si può certo dire che tutto da cinque secoli a questa parte si giochi sull'antitesi fra moderno e antimoderno. Tuttavia, in quei termini è senz'altro il nocciolo dei dilemmi che hanno agitato e agitano l'essere e l'esistere dell'uomo nei tempi moderni, pur se molte esperienze dimostrano che la modernità non ha alternative nel suo tempo. E ciò a prescindere da ogni discorso sui valori, sui problemi di biologia e di genetica o di manipolazione estetica o funzionale e sui tanti altri problemi sorti nel frattempo, nonché dalle contraddizioni frequenti e gravi di modernisti e antimodernisti.
È un male? Per nulla. Del resto, ha pure un suo significato quello che si potrebbe definire l'antimodernismo modernizzante, che evoca l'atomo pulito, le pale eoliche (discutibili e discusse per il paesaggio e per altre forme di danno ecologico) e le energie alternative perché solo naturali, e così via. È l'antimodernismo, si può anche dire, di un «progresso senza avventure», come una volta si diceva di certe idee e strategie politiche. Vuol dire, crediamo, che modernità e progresso non si possono facilmente esorcizzare, ma anche che nell'antimoderno può esservi qualcosa che neppure il moderno può rifiutare. E allora: la logica del progresso (modernità) è limitabile o condizionabile a nostro avviso e facoltà? La via della modernità, una volta intrapresa, può essere altrimenti orientata?
Sono interrogativi moderni. E bisogna convincersi che solo la modernità, che li ha posti, può dare ad essi risposte, se non persuasive e definitive, almeno plausibili, praticabili e accettabili sia ai fini dell'enorme e irrinunciabile progresso non solo materiale (anche in qualità e gioia del vivere) datoci dalla modernità, sia ai fini del «vivere bene» nell'alto senso morale e civile di questo vivere nel pensiero antico e nel moderno umanesimo.

Repubblica 16.9.11
Il Festival della filosofia nel segno della natura


MODENA - È "Natura" il tema dell´edizione 2011 dell´undicesimo Festival Filosofia diretto da Michelina Borsari, che si svolge a Modena, Carpi e Sassuolo da oggi a domenica. Lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche: gli appuntamenti sono quasi 200 e tutti gratuiti. La manifestazione lo scorso anno ha registrato oltre 170 mila presenze. Piazze, chiese e cortili ospitano le oltre 50 lezioni magistrali del festival, che vede quest´anno tra i protagonisti Marc Augé, Zygmunt Bauman, Enzo Bianchi, Edoardo Boncinelli, Massimo Cacciari, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Carlo Galli, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Emanuele Severino, Vandana Shiva e Remo Bodei, presidente del Comitato scientifico del Consorzio che promuove il festival. Il programma completo è su www.festivalfilosofia.it.