sabato 15 ottobre 2016

La Stampa Tuttolibri 15.10.16
Studiate il greco e non sarete più confusi
Nove ragioni per amare una lingua “geniale” non una tortura da imparare a memoria
di Alessandro D’Avenio

Ogni lingua esprime una irripetibile idea di mondo, più strana è l’idea più interessante è la lingua. È questa la sfida dell’appassionante libro di Andrea Marcolongo sui misteri del greco antico. Non fa differenza che una lingua sia viva o morta, ciò che conta è che impararla possa ampliare i gradi di percezione del mondo: i nostri sensi sono determinati dalle nostre parole. Il greco antico ha, nella sua capacità di nominare, qualcosa di speciale ed essenziale: è una lingua geniale, fatta per andare all’origine della realtà e nominarla senza fronzoli, senza però tralasciare un’infinita varietà di sfumature, proprio per raggiungere, come si fa con uno strumento di alta precisione, l’identità di ogni cosa: «è al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione; e della nostra epoca» diceva Virginia Woolf.
I Greci usavano almeno tre verbi per «fare», perché non era lo stesso fare un’azione politica, una poesia, un figlio, un delitto. I loro colori non erano i nostri, li definivano a partire dai movimenti di rifrazione della luce sulla superficie: l’omerico mare «colore del vino» indicava l’indicibile cangiante riverbero della luce sull’acqua.
Il libro della Marcolongo non è una grammatica, ma una storia d’amore con una lingua e la sua capacità di trasformare i sensi. L’autrice si lascia alle spalle le noiose anche se necessarie diatribe «greco sì greco no», «la crisi del classico»..., spesso risolte dai cattedratici con dottissime dissertazioni ridotte al «devi amarlo anche se non capisci» o al «prendi la medicina del pensiero, soprattutto oggi». Due motivazioni tutt’altro che motivanti: una parte dall’obbligo anziché dall’amore, l’altra dalla malattia anziché dalla salute. Mentre nella Lingua geniale, conosciate o no il greco antico, si parte dall’amore e dalla salute: è un vino che non avete mai bevuto, annata unica, se lo assaggiate ne vorrete ancora, come quello offerto da Ulisse al Ciclope.
Proprio la stranezza del greco antico, non ridotto ad una tortura di eccezioni da imparare a memoria, è ciò con cui Marcolongo ci affascina, trasformando nove stravaganze linguistiche in veri e propri sondaggi esistenziali: dai tre generi (maschile, femminile, neutro) ai tre numeri (singolare, plurale e duale), dal modo del desiderio (ottativo) all’anarchia ordinata dei casi...
La prosa della Lingua geniale riesce a raccontare i misteri della grammatica e della sintassi come si trattasse di un volto umano o di un’architettura: «un modo per giocare a pensare in greco antico», ma senza le gigionerie di alcuni libri di questo genere. Ha la leggerezza frutto di esperienza e riflessione, e la giusta dose di polemica: «il liceo classico così come è strutturato, sembra non avere altro scopo che mantenere i Greci e il loro greco i più inaccessibili possibile». Per i puristi che stanno già affilando le loro critiche, non si tratta di una grammatica descrittiva e normativa, «non ha alcuna pretesa accademica» ma «una forte pretesa di passione e di sfida», basate sulla convinzione che «lo studio del greco contribuisca a sviluppare il talento di vivere, di amare, di faticare, di scegliere e di assumersi la responsabilità di successi e fallimenti».
Nelle pagine di ogni lezione i momenti più smaccatamente grammaticali diventano presto veri e propri tuffi esistenziali, come quello relativo al modo «ottativo», che serve a esprimere il desiderio: «è la misura perfetta della distanza che intercorre tra la fatica che serve a fare i conti con un desiderio e la forza che occorre per esprimerlo prima di tutto a se stessi»; o quello dedicato al duale: «uno più uno uguale uno formato da due, non semplicemente due», sia che si riferisca agli occhi che guardano l’amata, a navi che combattono lo stesso nemico, a cavalli che tirano lo stesso carro, l’importante era esprimere attraverso la parola la presenza di una dualità non matematica, per dare conto di una relazione che crea qualcosa di nuovo rispetto a un semplice plurale.
Le nove ragioni offerte da questo libro sono un ottimo spunto per professori e nostalgici, e un efficace punto di partenza per studenti e curiosi, per rinnovare il modo di studiare una lingua più viva e necessaria che mai: «dire cose complesse con parole semplici, vere, oneste: ecco la potenza del greco antico».
La Stampa Tuttolibri 15.10.16
Il sogno di Kafka?
Le guide di viaggio low cost
Voleva diventare milionario scrivendo manuali turistici era alto, di bell’aspetto, gentile e divertentissimo
di Giorgio Fontana

A pochi scrittori è stato riservato un destino di stereotipo simile a quello di Kafka. Il suo nome evoca sconforto, autodistruzione e cupezza: di lui si pensa che fu unicamente un individuo infelice, oscuro in vita, e schiavo del potere paterno; e l’aggettivo che ne deriva, kafkiano, è usato altrettanto a sproposito.

Per correggere questa rappresentazione, Reiner Stach — il maggior biografo dello scrittore ceco — ha raccolto «99 reperti» che illuminano gli aspetti curiosi, ma non per questo meno caratterizzanti, della vita di Kafka: regalandoci così un testo molto ben documentato, specie per quanto riguarda l’apparato iconografico, e a tratti veramente spassoso.
Albert Camus scrisse che l’opera di Kafka obbliga il lettore a rileggere. E «l’ardente desiderio di umane spiegazioni che i suoi testi vanno di continuo suscitando si riversò, per così dire, anche sulla sua esistenza privata e sull’ambiente culturale, politico e sociale che lo circondava», annota Stach. Fino a produrre appunto «un’immagine stereotipata, che riduce Kafka a una sorta di essere alieno: […] un uomo inquietante che suscita cose inquietanti»: mortificando così non solo la sua prosa, ma anche lo scrittore stesso. Che invece fu un uomo alto, di bell’aspetto e — per quanto certamente tormentato — gentilissimo e dotato di grande vis comica.
Attraverso le numerose prove documentarie, Stach si propone dunque di «scuotere il monopolio» di un’immagine parziale con delle immagini di segno opposto: i suoi reperti “ci mostrano lo scrittore in contesti insoliti, sotto una luce insolita, e permettono di percepire tonalità registrate di rado”. Così il saggista aggiunge un salutare punto interrogativo al preconcetto. Aderendo ad esso, molti lettori pensano di sapere benissimo che «questo è Kafka»; e invece qui tocca lasciare spazio allo stupore e domandarsi — è davvero questo Kafka?
Lo è, decisamente. Certo, alcuni reperti sono abbastanza noti: il suo grande interesse per la lingua ebraica, o i testamenti che disponevano quali suoi scritti salvare e quali invece distruggere (testamenti che furono traditi da Max Brod, peraltro dopo averli pubblicati postumi). Ma altri fatti sono davvero sorprendenti: uno su tutti, il rapporto di Kafka con la medicina. Diffidente nei confronti delle terapie tradizionali, lo scrittore si affidava a vaghi principi naturalistici — vivere «secondo natura» e senza stress — anche per malattie come la sua tubercolosi. (Arrivò persino a rifiutare i vaccini prescritti per legge). Poco nota è anche l’idea commerciale elaborata da Kafka e Brod nel 1911, quando studiarono un nuovo modello di guida turistica chiamato «A buon mercato»: una sorta di manuale low-cost ante litteram. Il progetto non fu portato avanti, con grande disappunto di Kafka: secondo lui, avrebbe potuto farli diventare milionari.
Altri reperti ancora sono piccole, deliziose curiosità: l’unica lettera in nostro possesso che gli inviò un lettore; i ricordi della nipote Gerti; l’elenco degli errori geografici del romanzo America; i suoi flirt e le sue puntate nei bordelli; la canzone preferita dello scrittore (Addio piccola stradina di von Schlippenbach e Silcehr); i soldi persi con Brod giocando d’azzardo a Lucerna. È interessante anche apprendere che Kafka barò all’esame di maturità, collaborando con dei ragazzi per sottrarre al professore di greco i brani da tradurre alla prova. (Fra l’altro, il suo diploma fu assolutamente nella media).
Stach dissolve un ulteriore equivoco: certo Kafka non fu un autore di successo in vita, ma il suo nome «rispondeva a una delle talentuose promesse su cui, di tanto in tanto, si puntavano i riflettori della critica». Peraltro, l’unico riconoscimento letterario che vinse in vita accadde per procura: il premio Fontane 2015 fu assegnato a Carl Sternheim, ma solo a patto che egli ne devolvesse pubblicamente l’importo a Kafka. (Lui, com’è comprensibile, ne rimase molto ferito). Veniamo a sapere anche che Kafka — guardato con affetto e simpatia da chiunque — era profondamente odiato dal medico e scrittore Ernst Weiss a causa di una mancata recensione; e che a sua volta, caso più unico che raro, detestava la poetessa Else Lasker-Schüler.
Insomma, è davvero difficile scegliere l’aneddoto più affascinante in una collezione così varia. La descrizione della sua scrivania come se fosse un teatro, tratta dai diari? Il necrologio scritto da Milena Jesenská, che rende giustizia alla sua «coscienza tanto scrupolosa da rimanere vigile anche là dove gli altri, i sordi, già si sentivano al sicuro»? Il suo attacco incontrollabile di riso davanti al presidente dell’Istituto che gli aveva appena confermato una promozione? Ci provo: per me è la difficoltà di stabilire il colore dei suoi occhi. Per quattro conoscenti erano scuri, per altri quattro erano grigi, per tre erano azzurri e per altri tre invece castani. Il passaporto dello scrittore risolve la questione nel modo più graziosamente kafkiano possibile: indicando il loro colore come «grigio-azzurro scuro».
La Stampa Tuttolibri 15.10.16
Agguato al vecchio amico nei vicoli di Rione Sanità
Un uomo torna dalla madre a Napoli con “nostalgia”: lo aspetta una vendetta sospesa da cinquant’anni
di Sergio Pent

Napoli è un immenso abbraccio. Ora festoso ora malevolo, ma in grado di inglobare sogni, destini e memorie. Accade spesso che Napoli prenda il sopravvento anche su chi la racconta, come a Ermanno Rea, scomparso il 13 settembre, che nella sua odissea narrativa ha parlato di società, politica, lavoro, cultura e passioni parlando infine sempre della sua amata-odiata città.

Ermanno Rea era un intellettuale tutto d’un pezzo, uno che detestava i tranelli dell’antipolitica, un nostalgico del futuro, poiché le sue passeggiate narrative lasciavano sempre spazio alla speranza, alla volontà di riscatti anche improbabili, ma necessari a tenere vivi i sogni. Anche in questa metaforica «cronaca di una morte annunciata» che è il romanzo postumo Nostalgia, Rea non disdegna le interferenze d’autore, le deviazioni storico-antropologiche, le metafore che esplorano il cuore – o gli intestini – di una metropoli viva e degradata al tempo stesso.
La storia sarebbe – il condizionale è d’obbligo – quella di una vendetta «necessaria» attesa per quasi mezzo secolo. Quando Felice Lasco torna a Napoli dopo alcuni decenni trascorsi in giro per il mondo, ha sessant’anni e si esprime con un miscuglio di lingue eterogenee in cui fa capolino il vecchio dialetto del Rione Sanità, dal quale fuggì sedicenne dopo una brutta vicenda di sangue. Felice torna a Napoli per assistere l’anziana madre nei suoi ultimi passi, ma è consapevole che per lui non esiste salvezza. Oreste Spasiano – Malommo – il suo vecchio amico d’infanzia e di piccole delinquenze giovanili, lo uccide infatti con due colpi di pistola.
Quello che potrebbe sembrare un mistero napoletano – per citare lo stesso Rea – diventa invece il percorso di una memoria sociale in cui intervengono sia la vittima che l’assassino, divenuto un potente boss di quartiere, ma anche il narratore – un medico settantenne in pensione – e il parroco di Santa Maria della Sanità, don Lorenzo Rega: questi ultimi due accolgono il ritorno a Napoli di Felice come un segnale di riscossa, anche se l’uomo è solo in cerca di un perdono postumo, di una confessione in punto di morte.
Le voci del romanzo sono quindi quattro, e se in quella del prete si riflettono tante coraggiose iniziative di ribellione al sistema ramificato della malavita, in quella del medico volontario – laico e comunista – ci pare di ritrovare come sempre la voce di Ermanno Rea, con la sue acute osservazioni, gli amori e i rancori che hanno contraddistinto opere fondamentali come Mistero napoletano o La dismissione.
Il percorso narrativo risulta quindi ondulatorio e variegato, come il racconto di qualcuno a cui premono i fatti ma anche gli antefatti, le digressioni, le speculazioni ideologiche e sociali che hanno condotto a quegli accadimenti. Il lettore conosce fin da subito le reali motivazioni che hanno portato Malommo a freddare il suo amico d’infanzia – si può uccidere per amicizia? – ma come sempre prevalgono le ragioni di un cuore collettivo, quello di Napoli e, in particolare, del Rione Sanità in cui tutto è nato e tutto finisce, senza che quel senso di letale – ma anche disincantata – disperazione cambi registro, neanche dopo mezzo secolo.
Nostalgia è la storia, raccontata anche a ritroso, dell’esule Felice Lasco e della sua vita errabonda – bellissimo il rapporto d’amore nomade con Arlette, lungo una vita intera – ma è essenzialmente Napoli, se si può – e qui si può – provare nostalgia per la povertà, il degrado e i disagi di un’infanzia vissuta tra vicoli e muffe antiche. La promenade con delitto dell’ultimo Rea lascia infine prevalere – come sempre – le voci, i suoni, le risa e i pianti di Napoli, una città-romanzo che ha il dovere di provare una generosa nostalgia per il suo grande scrittore, salutandolo con affetto, ringraziandolo per esserci stato.
Repubblica 15.10.16
Amos Oz: “La letteratura vera è provinciale come Cechov”
di Francesca Bolino

Lo scrittore ha ricevuto ad Alba il Premio Bottari Lattes Grinzane tenendo una lectio magistralis: “Gli innovatori sono quelli che tradiscono e cambiano il pensiero. Il mio italiano preferito? Tomasi di Lampedusa”
Amos Oz è uno scrittore che da sempre incrocia la grande letteratura con la riflessione sull’attualità, sulla storia. A cominciare da quella, tormentata, del suo Paese: «Israele è una buona metafora per la condizione umana. È circondata da vicini pericolosi, vive in una zona insicura. È una drammatizzazione dell’incertezza che proviamo: solitudine, vecchiaia, crisi familiari. Tutti viviamo sulle pendici di un vulcano». La sua voce risuona forte e chiara qui ad Alba, dove riceve il premio Bottari Lattes Grinzane per «la qualità umana dei suoi libri » e tiene una lectio davanti a un pubblico giovane, attentissimo. Confermandosi uomo di passioni, di contraddizioni, di corrispondenze fra arte e vita: «Mia nonna diceva: piangi tutte le tue lacrime e quando non ne avrai più per piangere allora quello è il momento di ridere. Ecco come scrivo io». Un metodo, il suo, che prevede come regola d’oro l’immedesimazione: «Le storie si creano solo mettendosi nei panni degli altri, o meglio ancora, nella pelle di un altro o di un’altra. Io scrivo perché per me è una necessità vitale. Un bisogno di ascoltare le storie degli altri e di raccontarle».
Storie di finzione, ma anche storie vere. Oz arriva ad Alba nel giorno in cui è esplosa la crisi diplomatica tra Israele e Unesco, che ha definito le alture di Gerusalemme luogo sacro solo per i musulmani. Interpellato sul tema, lo scrittore si irrigidisce: «Sicuramente è uno scherzo malsano, come sarebbe malsano affermare che non ci sono legami tra il popolo cinese e la grande muraglia». Anche su un altro argomento caldo, il Nobel a Bob Dylan, ha le idee chiare, e tutte a favore: «Una decisione sorprendente e sicuramente popolare. Ogni cosa scritta con le parole è letteratura ». Nessun “tradimento”, insomma. Anche se proprio il “tradimento”, anche nei suoi elementi positivi, è un concetto che lo appassiona: il suo ultimo libro uscito in Italia (per Feltrinelli) si chiama Giuda: «Chi cambia il mondo – insiste – sta tradendo qualcosa. Einstein quando ha coniato la sua teoria della relatività ha tradito Newton, Kafka con le sue opere letterarie ha tradito Thomas Mann. Tradire vuol dire avere un pensiero nuovo».
E poi, naturalmente, la sua idea di letteratura: «Non migliorerà il mondo, ma un buon romanzo parla di voi, del vostro vicino. Leggere un libro significa parlare con gli altri. Mi piace raccontare storie e mi piace quando gli altri le raccontano a me. Quando avevo 11 anni, stavo raccontando una storia di fantasia ad un gruppo di amici e alla fine una ragazza mi ha baciato sulla guancia. Beh quel bacio me lo ricordo ancora». Quanto ai suoi gusti, spiega che la vera letteratura è quella provinciale: Prendiamo i miei eroi: Cechov raccoglieva i pettegolezzi delle piccole cittadine e li faceva diventare universali. O Faulkner: parlava di città dimenticate in America. Ma quando lo leggete, quelle città parlano di voi, delle vostre illusioni, sofferenze, angosce. E poi il mio scrittore italiano preferito: Giuseppe Tomasi di Lampedusa parlava di universo, infelicità, tradimenti, complotti. Insomma, l’universale è provinciale».
La Stampa 15.10.16
Il maestro dipingeva la luce
i suoi seguaci le candele
Alla National Gallery di Londra una mostra con capolavori da collezioni inglesi analizza la rivoluzione del Merisi e la sua influenza sulla pittura europea
di Rocco Moliterni

Caravaggio non ha mai dipinto in tutti i suoi capolavori una candela. Eppure i suoi seguaci, ossia i caravaggeschi di tutta Europa, sembrano dar vita a una sorta di «valzer delle candele», nel senso che nelle loro tele per inseguire gli straordinari effetti luministici del maestro dipingono candele a gogò. E una delle tante curiosità legate alla mostra «Beyond Caravaggio» (Oltre Caravaggio) che si è aperta martedì scorso alla National Gallery di Londra. La mostra è curata da Letizia Treves e vede la collaborazione della National Gallery irlandese e di quella scozzese. Le opere in mostra, sia di Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi, sia dei suoi seguaci provengono da istituzioni pubbliche e private di area anglosassone.
«La National Gallery di Londra è molto fortunata »spiega la curatrice »ad avere nella sua collezione tre opere di Caravaggio significative di altrettanti momenti cruciali della sua carriera». Si tratta della Cena di Emmaus, acquisita nel 1839, di Salomè che riceve la testa di Giovanni Battista, che arriva a Londra circa un secolo più tardi grazie alla tenacia del grande critico Denis Mahon e infine il Ragazzo morso da un ramarro, opera giovanile acquisita da un collezionista americano dopo averne impedito l’esportazione nel 1986. «Solitamente - prosegue la Treves »nelle nostre gallerie non siamo in grado di mostrare queste opere in un contesto. L’ispirazione di questa mostra deriva dal voler esporre questi dipinti insieme ad altri dei seguaci di Caravaggio e di dimostrare la portata e la rilevanza della sua influenza su un’intera generazione di pittori».
Per farlo intorno a un pugno di capolavori del maestro la mostra propone oltre 40 dipinti di caravaggeschi, scanditi in sette sale. Il viaggio si apre con la sala dedicata ai primi anni romani di Caravaggio, quando a sostenerlo c’erano il cardinale Del Monte e il marchese Giustiniani. «A Roma »scrive Giovanni Pietro Bellori nel 1672 »i pittori erano totalmente attratti dalla novità e i più giovani, in particolare accorrevano per venerarlo come l’unico vero imitatore della natura, considerando le sue opere come miracoli». Abbiamo qui Il ragazzo morso da un ramarro. La rivoluzione «naturalistica» del pittore lombardo che porta la vita di tutti i giorni nei suoi quadri affascinerà in tempi a venire anche artisti come George de La Tour (due le sue opere in mostra). In questa sala ci sono giocatori di carte, giovani musicisti e zingare lestofanti ad opera di Cecco del Caravaggio, Antiveduto Gramatica e Bartolomeo Manfredi (realizzate peraltro nel 1615, quando il maestro è già morto, non ancora quarantenne, da quasi un lustro). Il pezzo forte della seconda sala, dedicata agli anni del successo romano, è la parte che accosta la Cena di Emmaus (1601) e la Cattura di Cristo (1602), dalla National Gallery di Dublino, dove Caravaggio si fa uno dei vari selfie della sua carriera, nelle sembianze del portatore di lampada. Opere come queste influenzeranno tra gli altri Bartolomeo Manfredi, che nel 1613 dipinge la sua Cattura di Cristo. Spicca in questa sala anche il Davide e Golia di Orazio Gentileschi, dove l’influenza del maestro è soprattutto nella drammaticità della situazione. Se la sala con le influenze in Italia sfodera tra l’altro un Guido Reni (Lot e le sue figlie) e un’Artemisia Gentileschi (Susanna e i vecchioni) assolutamente da non perdere è la sala «napoletana», dove oltre alla Salomè di Caravaggio ci sono dei Ribera e dei Mattia Preti. Il tutto a rendere la cupezza dell’ultima stagione del maestro. Poi c’è la sala dei caravaggeschi europei, con il valzer delle candele di autori come Adam De Coster, Willem Van der Vliet, Gerrti Van Hopntorst (Gherardo delle notti).
Ma quale è oggi l’eredità di Caravaggio, che ricordiamolo, dopo la fama e il seguito che ebbe negli anni successivi alla morte, è stato «riscoperto» da Longhi nel ’900 dopo alcuni secoli di oblio. «Quattro secoli dopo »dice Gabriele Finaldi, direttore della National Gallery »l’arte di Caravaggio mantiene il potere di ispirare, stupire e soprendere. L’esposizione mostra come i suoi dipinti rivoluzionari, lodati e criticati allo stesso tempo dai suoi contemporanei, ebbero un impatto profondo su dozzine di artisti da tutta Europa, dando luogo a un vero e proprio fenomeno internazionale». Da aggiungere, per noi italiani che Caravaggio ce l’abbiamo in casa, che la mostra londinese permette di vedere alcune opere mai viste prima.
La Stampa 15.10.16
“Il dramma di oggi come l’apartheid
L’Europa non rimanga indifferente”
Wole Soyinka, scrittore nigeriano e premio Nobel nel 1986 “Serve una mobilitazione globale per aiutare quei disperati”
di Laura Anello

I jihadisti? Bisogna sterminarli. Il fanatismo? Una malattia. I migranti? Vanno accolti, «con una chiamata alla responsabilità che coinvolge i governi dei loro Paesi». Il nigeriano Wole Soyinka, 82 anni, Nobel per la letteratura nel 1986, ospite a Palermo del Festival delle letterature migranti, parla con il coraggio e la nettezza di chi per lunghi anni ha pagato con l’esilio il suo pensiero.
Lei ha detto: «Lasciate che muoiano le nazioni e che esista l’umanità». Eppure il mondo sembra andare in direzione opposta, verso i nazionalismi, le barriere, la costruzione di nuove frontiere. Milioni di uomini e donne fuggono dal Sud del mondo, trovano muri, diffidenza, ostilità.
«La gente che arriva qui sulle barche dopo avere attraversato il mare non appartiene ad alcuna terra, solo alla razza umana. Demarcare i territori però è un atto istintivo degli uomini e non possiamo eliminarli dall’oggi al domani. È un processo lungo, ma prima o poi i confini diventeranno solo virtuali. Non è una cosa che vedrà la mia generazione, ma forse la prossima sì».
Come giudica il comportamento dell’Europa di fronte al fenomeno delle migrazioni?
«Mi pare che l’Europa si stia comportando come ha fatto per la lotta all’apartheid. All’inizio è stata indifferente e perfino ostile. Poi, gradualmente, si è innescato un cambiamento, si è fatta largo una nuova consapevolezza. I leader europei hanno cominciato a prendere in considerazione il problema, a parlarne, a chiedersi come accogliere la gente che arriva. È già qualcosa. Come per l’apartheid, ci sono segni di quella mobilitazione che ha portato al Movimento per l’indipendenza del Sud Africa. Ma quel che bisogna chiedersi è che cosa fanno anche i leader africani, non solo l’Europa, sul tema delle migrazioni».
Cioè?
«Perché tutta questa gente parte? Evidentemente non trova condizioni economiche accettabili. Che cosa fanno i leader dei loro Paesi per trattenerli, per dargli speranze? C’è una responsabilità collettiva e globale, una responsabilità che va condivisa. Qualche anno fa l’ex presidente del Senegal Abdoulaye Wade, dopo il terremoto che devastò Haiti, aprì le frontiere agli haitiani, dicendo loro: “Tornate nella vostra terra, la terra dei vostri avi che furono tratti in schiavitù e portati nelle Americhe”. Un gesto di bentornato. Sarebbe bello che questo accadesse ovunque e per tutti, anche per chi arriva la prima volta in un altro Paese».
Il mondo è spaventato, sotto la minaccia del terrorismo islamico.
«Il mondo è in uno stato di guerra psicologica, è preda del bigottismo, dell’intolleranza, del fanatismo. Si ricorda quando il presidente dell’Iran (Hassan Rohani, ndr) è venuto in Italia e sono state coperte le statue dei Musei capitolini per non offendere la sua vista al cospetto delle nudità? E quella sera è stato pure proibito di bere vino a tavola. Ecco, mi chiedo se gli italiani abbiano capito la gravità di quello che hanno fatto: subire l’imposizione da parte di un ospite. Questi sono gesti che danno spazio a tutto ciò che è fanatismo e intolleranza. Il fanatismo è una malattia che richiede cure di psicoanalisti, filosofi, sociologi. Se un tuo ospite, uno che inviti a tavola, non accetta una cosa come il vino, che è parte della tua cultura, perché la giudica peccaminosa, allora devi solo dirgli: “Torna nel tuo Paese e lasciaci in pace”. Anche Gheddafi, quando venne in Italia negli Anni Ottanta, pretese di dettare le stesse proibizioni, ma gli dissero di no».
Nella sua Nigeria il terrorismo islamico è quello di Boko Haram…
«La violenza è un abominio. Bambini presi dalle scuole e uccisi, genitori uccisi perché li mandano a scuola, insegnanti uccisi. I terroristi cercano di plasmare la mente delle persone, soprattutto quella dei bambini che sono ancora condizionabili. Quando senti che trecento studentesse vengono rapite e fatte schiave sessuali, pensi solamente che bisogna fare sparire al più presto questi fanatici. Spesso sono bambini i combattenti, riempiti di storie come quella del Paradiso con le settanta vergini in premio. Come si reagisce? Bisogna continuare a studiare e a fare studiare i bambini. E combattere, perché questa gente venga estirpata dalla faccia della terra. Sono nemici dell’umanità».
Il Sole 15.10.16
Reportage da Chongqing
Dove nasce la futura «nomenklatura» cinese
di Rita Fatiguso

Chongqing L’ultimo incubatore della nuova classe dirigente cinese è la municipalità-monstre di Chongqing. Sorta dal nulla 20 fa, oggi ha 33 milioni di abitanti, è l’emblema del miracolo economico cinese e l’ex fortino del segretario del partito locale, Bo Xilai, la prima testa rotolata tre anni fa nel cesto del neopresidente del partito Xi Jinping. Un plot degno di Shakespeare, con la moglie Gu Kailai condannata all’ergastolo per l’avvelenamento del businessman inglese Neil Heywood e il sodale capo della polizia, il mongolo Wang Lijun, reo di aver scoperchiato il vaso di Pandora degli intrallazzi chiedendo asilo al consolato Usa a Chengdu. Storie archiviate, apparentemente dimenticate.
Nel 2017, anno del gallo nell’oroscopo cinese, scocca l’ora del grande rinnovamento.
Cinque dei sette uomini d’oro del Comitato permanente del Politburo (tranne il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang) lasciano per raggiunti limiti di età, al pari di molti papaveri dell’Ufficio politico del Politburo. Il processo di cooptazione è partito: anche Chongqing, terra di scandali e corruzione, può diventare il fiore all’occhiello del futuro della Cina. Xi Jinping, del resto, ha lavorato senza sosta al consolidamento della sua leadership – a partire dal 18° Congresso nazionale del partito che l’ha nominato nel 2012, una decina di componenti del Comitato centrale sono finiti sotto inchiesta e, di questi, sei sono stati condannati – ora deve rifondare il gruppo dirigente e le province amiche nella sua carriera politica si stanno rivelando importanti alleate. Tibet e Xinjiang hanno accolto, rispettivamente, Wu Yingjie e Chen Quanguo, mentre Du Jiahao è stato spedito nell’Hunan.
Chongqing, l’ultima nata tra le quattro municipalità autonome (le altre sono Pechino, Shanghai, Tianjn) si sta dimostrando non solo un hub economico esemplare in una fase di rallentamento dell’economia cinese, ma anche l’alleata più preziosa, un serbatoio di idee e di leader. Sì, proprio la città marchiata dallo scandalo di Bo Xilai, sta diventando, di questi tempi, il capolavoro politico di Xi.
Dal 24 al 28 ottobre Pechino ospita il Plenum dei 200 membri del Comitato centrale comunista, la sessione che deve preparare il terreno del XIX Congresso che a fine 2017 formalizzerà il post era-Xi Jinping. Ebbene, «The CPC in Dialogue with the World» 2016, lo strumento di dialogo tra Partito comunista cinese e resto del mondo, un evento super blindato per pochi intimi, dedicato – quest’anno – alla governance globale, è stato organizzato proprio a Chongqing, la megalopoli che si snoda tra il fiume Yangze e il fiume Giallo e che continua a crescere a doppia cifra (11% nel 2015). Incontro al quale il Sole 24 Ore è stato invitato a partecipare, insieme a pochissimi altri media occidentali, osservatorio privilegiato di vecchi e nuovi leader, stelle cadenti e stelle nascenti del partito comunista cinese. Cartina di tornasole dei cambiamenti in corsa e della Cina che verrà.
Nella Diaoyutai di Yashou (il vecchio nome di Chongqing) si intuiscono movimenti che entro l’anno si concretizzeranno in nuove posizioni. Una pedina estremamente importante, intanto, per la nomenklatura cinese e la mappa personale di Xi, è quella della propaganda. Liu Yunshan, che ha ceduto la carica a Liu Qibao, diventando il quinto uomo più importante della Cina, l’anno prossimo lascerà e il suo discorso a Chongqing ha lasciato trapelare una sorta di stanchezza di fondo. Huang Kunming, al contrario, classe 1956, dall’ottobre 2013 vice capo del Dipartimento della Propaganda del Partito Comunista Cinese, fidatissimo di Xi, avendolo seguito per tutto il Fujian e lo Zhejiang durante i suoi vari incarichi, è considerato un associato del New Zhejiang Army, la cordata di Xi. Potrebbe prendere il posto di Liu Qibao, pronto per la pensione. Huang è il teorico dei cinque concetti di sviluppo della Cina e, anche per questo, ha avuto l'onore di aprire la seduta plenaria dell'evento di Chongqing con un discorso estremamente rigoroso sull'apporto della Cina allo sviluppo della governance del Pianeta.
Un altro Huang, Huang Qifan, classe 1952, è l’attuale sindaco di Chongqing, dal lontano 2010. Anche lui è di Zhuji, provincia dello Zhejiang. Si è fatto le ossa nella Pudong New Area di Shanghai nel 1993. Tra un incarico e l’altro a Shanghai Huang ha conseguito un Mba alla China Europe International Business School (Ceibs). Huang è un sopravvissuto, è stato sindaco con quattro segretari/imperatori: Guoqiang, Wang Yang, Bo Xilai e Zhang Dejiang, ma è stato anche l’ideatore e propugnatore del modello economico Chongqing. Orgoglioso di tutto ciò, ha ribadito nel suo intervento la valenza del modello sperimentato nella sua municipalità. Nonostante l’età anagrafica, si dice che Xi voglia farlo Governatore della Banca Centrale al posto di Zhou Xiaochuan.
Infine, la “perla” Sun Zhengcai, dal novembre 2012 segretario del Partito Comunista di Chongqing. Sun è il più giovane tra i 18 componenti del Politburo del Partito comunista cinese, e uno degli unici due nati dopo il 1960, l’altro è Hu Chunhua, capo del partito del GuangDong, oggi meno lanciato ma non certo fuorigioco.
Sun ieri ha aperto l’evento di Chongqing con un discorso da vero leader in cui ha propugnato il concetto dell'apertura della Cina al mondo come elemento innovativo. È un candidato promettente per i leader di sesta generazione del Partito Comunista, se andrà al potere nel 2022 dovrà reggere per un altro decennio. Dalla Scuola del Partito del Comitato centrale di Chongqing arriva anche il monito di Sun Wei contro la presunta “resistenza passiva” di alcuni funzionari, la sesta Sessione plenaria del Partito comunista istituzionalizzerà la lotta alla corruzione ma anche presenterà un report all’ufficio politico, sul tema. E su un altro lotto di corrotti del Comitato Centrale »Su Shulin, ex governatore del Fujian, il capo del partito del Liaoning Wang Min, l’ex commissario politico dell’aeronautica Tian Xiusi e l’ex sindaco di Tianjin Huang Xingguo – calerà la scure dell’anticorruzione.
Corriere 15.10.16
Se l’Unesco toglie a Israele il Monte del Tempio
di Davide Frattini

S ul marmo dell’arco di Tito i romani incisero ed esaltarono il saccheggio di Gerusalemme, il bottino di guerra che comprendeva anche la menorah a sette bracci. Dopo duemila anni il candelabro a olio che illuminava il Secondo Tempio è ancora il simbolo di Israele e le pietre sopravvissute alla distruzione sono le più sacre per gli ebrei tra le sacre pietre della città. Che resta una metropoli unica per le tre religioni monoteiste. Eppure l’Unesco ha scelto di ridurre il passato alle dispute politiche del presente. Presentata dai palestinesi e dai Paesi arabi, la bozza di mozione per ora è stata approvata in una commissione: «sbianchetta» il legame dell’ebraismo con il monte del Tempio, ne scrive solo il nome arabo al-Haram al-Sharif (il Nobile santuario) e nomina unicamente la moschea Al Aqsa. Sei nazioni si sono opposte (tra gli europei la Germania, l’Olanda e la Gran Bretagna) mentre l’Italia si è astenuta e l’invito sarcastico del premier israeliano a visitare l’arco di Tito a Roma sembra rivolto al governo che risiede più vicino al monumento. Benjamin Netanyahu ha deciso di sospendere la cooperazione con l’Unesco dopo «l’ennesimo spettacolo da teatro dell’assurdo». Il destino della Città Vecchia, delle parti di Gerusalemme catturate dagli israeliani con la guerra del 1967, rappresenta l’elemento più complesso delle trattative di pace ormai ibernate. Netanyahu e i suoi ministri soffocano la mediazione quando ribadiscono che Gerusalemme resterà per sempre «la nostra capitale unica e indivisibile» (come votato dal parlamento israeliano nel 1987) e così negano ai palestinesi la speranza di ottenerne una loro nelle aree orientali. L’Unesco tradisce il suo mandato quando trasforma le pietre patrimonio mondiale dell’umanità – che dovrebbe proteggere – in pietre da scagliare. Lo ha già riconosciuto Irina Bokova, che guida l’organismo delle Nazioni Unite: «Voler cancellare l’una o l’alla delle tradizioni – ebraica, musulmana, cristiana – significa mettere in pericolo l’integrità del luogo».
La Stampa 15.10.16
L’Unesco: “Il Muro del Pianto? È arabo”
E Israele sospende tutti i rapporti
Netanyahu: così l’agenzia Onu sostiene il terrorismo
di Giordano Stabile

Un voto all’Unesco rischia di riaccendere lo scontro fra arabi ed israeliani attorno alla Spianata delle Moschee . Ad aprire le ostilità è una risoluzione al Comitato esecutivo dell’agenzia Onu, approvata a maggioranza, che di fatto nega i legami storici e culturali dell’ebraismo con il suo luogo più sacro di Gerusalemme. L’Unesco ha responsabilità importanti sulla Spianata, che rientra nel patrimonio dell’umanità, ma con questa decisione, presa giovedì, ha spaccato ancora di più una città lacerata dal conflitto israelo-palestinese.
La reazione in Israele, ma anche in Europa e negli Stati Uniti, è stata di sconcerto. Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha parlato di «sostegno al terrorismo» e ha annunciato la sospensione di «tutte le operazioni con l’Unesco». Ieri è dovuta intervenire la direttrice generale dell’agenzia Irina Bokova per prendere le distanze dalla risoluzione. Il patrimonio di Gerusalemme «è indivisibile e ognuna delle sue comunità ha diritto all’esplicito riconoscimento della sua storia» ha ribadito.
La Spianata delle Moschee è per gli ebrei il Monte del Tempio, Har HaBayit in ebraico, dove sorgeva il Tempio di Salomone distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. Il Muro del Pianto è considerato l’unica parte sopravvissuta ed è, come ha sottolineato la stessa Bokova, «il luogo più sacro per l’ebraismo». Per i musulmani invece la Moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia compongono l’Haram al-Sharif, da dove Maometto è assunto in cielo, il terzo luogo sacro per gli islamici dopo La Mecca e Medina. Giovedì il Comitato esecutivo, una sorta di Consiglio di Sicurezza dell’Unesco, ha approvato la risoluzione che adopera solo la definizione islamica per la Spianata e, inoltre, si riferisce al Muro del Pianto usando solo la dizione araba di «Buraq Plaza». Il Buraq è il cavallo mitologico che portò Maometto dalla Mecca a Gerusalemme. Il testo si limita a riconoscere «l’importanza della città vecchia di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste» con 24 voti a favore, 6 contrari, 26 astensioni, due assenti. Fra i Paesi europei Gran Bretagna, Germania, Olanda, Lituania ed Estonia, hanno votato contro. La Francia è stata convinta ad astenersi da una forte pressione diplomatica israeliana assieme ad altri Paesi europei »Italia inclusa »e all’India. Nazioni arabe e africane hanno invece votato a favore.
Il testo è la prima azione dirompente nell’agenzia da parte dell’Autorità nazionale palestinese, ammessa a pieno titolo all’Unesco il 31 ottobre 2011, mentre all’Onu ha solo uno status di Paese osservatore. La reazione del governo di Benjamin Netanyahu è stata durissima. Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha inviato una lettera alla stessa Bokova, accusando l’organizzazione di «fornire supporto al terrorismo» e annunciando la sospensione, da subito, di «tutte le operazioni con l’Unesco». La decisione dell’agenzia Onu, in teoria un organismo che dovrebbe cercare di costruire ponti fra le diverse culture «senza negare quella degli altri», come ha sottolineato l’arcivescovo del Patriarcato di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, rischia di scatenare un conflitto aperto. E questo in una città già provata dalla «Intifada dei coltelli» che da ottobre ha causato oltre trenta vittime israeliane e duecento palestinesi.
La Stampa 15.10.16
Hillary: “Circonderemo la Cina con le difese missilistiche”
Le ultime rivelazioni contenute nelle mail pubblicate da WikiLeaks “Pechino controlli la Corea del Nord oppure ci difenderemo da soli”
di Paolo Mastrolilli

«Circonderemo la Cina con le difese missilistiche», se non fermerà il programma nucleare della Corea del Nord. Quanto alle pretese di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, non hanno alcun senso geografico e storico: «Secondo questa logica, potremmo rivendicare l’intero Oceano pacifico. Noi l’abbiamo liberato, noi l’abbiamo difeso. Avremmo così tanti diritti. Potremmo chiamarlo Mare Americano, ed estenderlo dalla California alle Filippine».
Queste dichiarazioni le avrebbe fatte Hillary Clinton nel giugno del 2013, durante una conferenza organizzata dalla banca di investimenti Goldman Sachs, secondo le ultime mail segrete pubblicate da WikiLeaks. Sono documenti che non contengono ancora le rivelazioni disastrose auspicate da Donald Trump, per affossare la campagna presidenziale della candidata democratica, però aiutano a capire quale potrebbe essere il suo approccio alla politica estera. Una linea decisamente più muscolare di quella seguita da Barack Obama, dalla Cina alla Russia, passando anche dalla Siria alla Corea del Nord.
Secondo le mail, Hillary si era rivolta così a chi la ascoltava: «Vedete, noi abbiamo detto ai cinesi che se la Corea del Nord continua a sviluppare il programma missilistico, e riesce ad ottenere un Intercontinental Ballistic Missile che ha la capacità di trasportare una testata nucleare, che poi è il loro obiettivo, noi non potremmo accettarlo». Quindi l’ex segretaria di Stato aveva proseguito: «Non potremmo accettarlo perché farebbero danni non solo ai nostri alleati a cui siamo legati dai trattati, come Giappone e Corea del Sud, ma avrebbero anche teoricamente la capacità di raggiungere le Hawaii e la costa occidentale degli Stati Uniti. Quindi dovremmo circondare la Cina con le difese missilistiche, e dispiegare più mezzi della nostra flotta nella regione. Perciò Cina, forza. O tu controlli i coreani, oppure noi dovremo difenderci da loro». Questo perché Hillary non ha dubbi su chi abbia la responsabilità della crisi: «Il più grande sostenitore di una Corea del Nord che provoca è il People Liberation Army», cioè le forze armate della Repubblica popolare. Quanto alle pretese di Pechino sul Mar Cinese Meridionale, «sono basate sui cocci di qualche nave, finita insabbiata sopra un atollo».
Questi sono discorsi riservati che Clinton non ha voluto pubblicare, e certamente una volta alla Casa Bianca non si esprimerebbe così. Però sono indicativi del suo approccio. Su Mosca, ha già detto nei dibattiti che in Siria sta commettendo crimini di guerra, e ha proposto no fly zone per gli aerei e safe zone per i rifugiati, per fermare l’offensiva di Putin e Assad. Quindi ha aggiunto che «qui in generale sono in gioco le ambizioni e l’aggressività della Russia». Non a caso, la campagna di Hillary ha accusato l’intelligence del Cremlino di aver fornito le mail segrete a Wikileaks, per favorire l’elezione di Trump, considerato più amichevole verso Putin.
Il candidato repubblicano ha detto che questa commistione fra Clinton e le grandi banche dimostra l’esistenza di un complotto globale ordito da finanzieri, imprenditori e media per abbatterlo. Qui però ha ricevuto subito una bacchettata dall’Anti Defamation League, che lo ha sollecitato a «evitare una retorica storicamente usata contro gli ebrei, che ancora oggi fomenta l’antisemitismo».
Repubblica 15.10.16
La scrittrice Catherine Dunne: “Paura che tornino le vecchie barriere”

ROMA. «Alcuni lo fanno per amore, per desiderio, per il bisogno di sapere che un muro non li fermerà. Altri, tanti, lo fanno per paura. Per noi le barriere sono un ricordo terribile». Dalla sua casa di Dublino, Catherine Dunne confeziona romanzi di successo da almeno vent’anni: cominciò nel ‘97 con La metà di niente, ora in libreria c’è Un terribile amore (Guanda).
Perché questa corsa al passaporto irlandese dopo Brexit?
«Ogni scrittore lo sa: dietro ogni azione possono esserci due forze ugualmente intense, ma opposte. Amore o paura. Certo, tanti giovani sono mossi da un desiderio: poter avere la certezza di muoversi liberamente nell’Unione. Poter avere tante possibilità. Ma per molte persone di origine irlandese, questa corsa al passaporto è dettata anche dalla paura ».
Paura di cosa?
«Paura dell’incertezza, economica e non solo. Paura di discriminazio-ni. La vittoria del Leave è stata anche frutto dell’odio contro gli immigrati. Il giorno dopo il voto, le comunità come quella polacca e irlandese si sono sentite sotto scacco. Temevano di rimanere vittime di quel clima, nonostante i britannici di origini irlandesi siano davvero tanti e integrati da decenni. Poi c’è la terza paura, che è arrivata fin qui, fino a Dublino: il terrore che tornino vecchie barriere».
Tra chi è dentro e chi è fuori dall’Unione? Tra Nord e Sud Irlanda?
«Esatto. Ricordo i tempi delle uniformi britanniche al checkpoint di Belfast. Sembrava essere Storia ormai. Il confine, nelle nostre anime, era diventato invisibile. Dopo decenni di processo di pace, ora, con Brexit, si risollevano nuove distanze: chi fuori, chi dentro l’Ue. Da questi muri dell’anima, non si può che voler fuggire». ( f. d. b.)
Repubblica 15.10.16
“Brexit, no grazie” Ecco gli inglesi in coda per scegliere l’Irlanda
In risposta al referendum che ha sancito il divorzio Londra-Ue cresce il numero di chi chiede il passaporto di Dublino
Da giugno sono più di 37mila i britannici che hanno rivendicato il diritto alla doppia cittadinanza
Il documento è garanzia per poter viaggiare e lavorare nei Paesi dell’Unione
di Francesca De Benedetti

ROMA. «Basta, è ora di farlo». Niall Flynn ricorda il momento esatto in cui l’ha pensato e scritto: nel Somerset, al Glastonbury Festival, con più di duecentomila persone radunate per uno dei più grandi appuntamenti musicali di ogni estate inglese dal 1970 a oggi. «Il 24 giugno mi sveglio ancora mezzo ubriaco e arriva la doccia fredda: ”Ce ne andiamo dall’Europa, la vittoria di Leave è certa”, dice mio padre via sms. È allora che rispondo: “È ora di farlo. Papà, divento irlandese anch’io”». Il padre, che è nato in Irlanda, lo invita a mantenere la calma. « Let the dust settle first », aspetta che le cose si sistemino.
A quattro mesi di distanza, Niall ha compiuto 22 anni, si è laureato a Birmingham, pensa al futuro e la sbornia è passata. Ma non la determinazione: se l’Inghilterra lascia l’Europa, allora lui va dall’Irlanda.
Ci dev’essere anche Niall in quella sfilza di numeri che impressiona. Da Brexit in poi, più di 37mila britannici hanno chiesto il passaporto irlandese, rivendicando il loro diritto alla doppia cittadinanza. A settembre, dalla Gran Bretagna sono arrivate 7.500 domande per il passaporto di Dublino; più del doppio dello stesso mese nel 2015, quando erano 3.400. Non è un caso, ma una curva che cresce dal 23 giugno di Brexit sotto gli occhi di ambasciate, uffici, ministeri: a luglio +70% di richieste rispetto al 2015, ad agosto +104%. Settembre è boom: +120%. Stesso trend dall’Irlanda del Nord: qui le domande per il passaporto “del Sud” crescono di due terzi.
È l’altro “ Remain”: la corsa a una doppia cittadinanza, il modo che tanti britannici con radici irlandesi hanno trovato per mantenere un piede nella scarpa d’Europa. «Questo è solo l’inizio: lei pensi che con le varie migrazioni circa un terzo degli abitanti del Regno Unito può vantare una qualche discendenza irlandese», commenta dall’isola dei trifogli David D’Arcy. Lui ha fondato la costola irlandese della campagna per “restare”, Irish4Europe. Prima del voto ha chiamato all’appello tutti i discendenti di Dublino in Gran Bretagna: «Passate parola, dite agli amici di restare con noi nell’Unione».
Ma non è bastato. «Il disastro è avvenuto, siamo stati vittime di politici cinici», dice il grande romanziere irlandese John Banville. «Capisco chi fa di tutto per mantenere i legami con l’Ue». E allora eccoli, inglesi, scozzesi, gallesi, nord irlandesi, che affollano le comunità irlandesi delle loro città. «Vengono anche da noi a Camden. Tra una birra e un concerto si informano su come fare. Molti sono irlandesi di seconda generazione», spiegano dal London Irish Centre. L’ambasciata irlandese, anche in Italia, assiste al fenomeno e snocciola regole: «Se sei nato in Irlanda entro il 2005, se genitori o nonni sono irlandesi, puoi avere diritto alla cittadinanza e al passaporto». Una sfilza di discendenti d’Irlanda ha deciso di non aspettare che i politici sbrighino i negoziati di addio, lunghi almeno due anni. Meglio mettere subito in tasca la garanzia di poter viaggiare o lavorare in Europa. «Pensano davvero che noi, cresciuti con l’Erasmus in tasca, accettiamo di rimanere isolati?», si infervora Niall. «Io già prima mi sentivo un po’ irlandese, come papà. Anzi, come tanti della mia età, mi sento libero di essere del mondo, un “bastardo”. Ora, ad ascoltare questi politici che attaccano migranti e lavoratori stranieri, mi viene la nausea. Io mi tengo ben stretto alla Ue».
Strano scherzo della Storia, la piccola grande Irlanda diventa ora l’isola felice dei filo-Unione. Lei, che finì dentro quell’acronimo impietoso, “PIIGS”, “maialino d’Europa” con Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, ultime ruote nel carro di crescita e sviluppo. Poi è tornata a crescere, ora è l’approdo sicuro dei Remain. Eppure anche l’Irlanda disse in passato i suoi “no” all’Ue. Nel 2001 un referendum sancì il “no” al trattato di Nizza. Otto anni fa gli elettori dissero “no” allo stesso trattato di Lisbona che ora, con l’articolo 50, disciplina l’addio britannico. «Siamo solo pragmatici, non euroscettici », spiega l’ambasciatore d’Irlanda in Italia Bobby Mc-Donagh. «Anzi l’87% è euro-ottimista. Da noi non esistono partiti xenofobi anti Ue. Dopo una storia di conflitti, negli ultimi trent’anni un delicato percorso di pace aveva risanato le ferite». McDonagh allude alla sorella Nord Irlanda, che ora con Brexit sembra più lontana; eppure Belfast avrebbe preferito il “Remain”, tuttora si discute di “confini morbidi” per attenuare le fratture di Brexit. «Basta con le barriere! », dice Niall. «Un mio amico di origini francesi ha chiesto il passaporto di Parigi, come tanti coetanei: non vogliamo esser isolati. Nessun Paese può rimanere un’isola, neppure l’Inghilterra».
il manifesto 15.10.16
«Dopo Hollande il duello finale sarà tutto a destra, questo è il rischio»
Intervista a Daniel Cirera. «Rassegnati a Marine Le Pen al secondo turno», mentre i socialdemocratici, in crisi, ancora non hanno il candidato per l'Eliseo
di Anna Maria Merlo

PARIGI La socialdemocrazia è in crisi in Europa. L’idea stessa sembra inadeguata a rispondere alle domande dei cittadini in questo periodo di transizione. È ancora peggio quando una sua versione, rivista e corretta, è al potere, come in Francia. A pochi mesi dalle elezioni presidenziali, mentre le candidature si moltiplicano, manca in effetti per il momento quella «socialdemocratica».
Per cercare di capire questa situazione di stallo, discutiamo con Daniel Cirera, specialista di questioni europee, segretario del consiglio scientifico della Fondation Gabriel Péri, che ha scritto un saggio su Socialdemocrazia, fallimento e fine di un ciclo (2009).
Dopo 5 anni di presidenza di un socialista, la sinistra rischia di non essere presente al ballottaggio a maggio?
C’è una crisi e il rischio di arrivare a un duello tra una destra radicalizzata e l’estrema destra. Per la sinistra tradizionale e per quella erede del comunismo sembra che ci sia un’assenza di soluzione politica a questo dilemma. Questa situazione riflette l’angoscia profonda del paese reale, che si traduce nella ripetizione di affermazioni del tipo «non so per chi votare», «tutti ladri», riduzione dell’alternativa tra Macron (ex ministro dell’Economia, che ha fondato il movimento En Marche!) e Juppé (ex primo ministro di Chirac). È una situazione schizofrenica. Anche perché al momento non sappiamo cosa accadrà: chi sarà candidato a destra? Mélenchon è candidato, ma chi per il Ps e per i Verdi? Quale sarà il risultato del primo turno? In Francia non si è mai vissuta una situazione del genere. Si deve riflettere, ma mancano gli elementi su cui farlo. In un paese dalla cultura politica stabile è una situazione che aumenta l’angoscia.
Come è possibile l’evaporazione della proposta socialdemocratica?
C’è in effetti un problema di offerta politica. C’è a destra, dove i temi prescelti sono la sicurezza, l’islam, il matrimonio per tutti. Con gli industriali che hanno bisogno di un certo consenso per far passare le ricette neo-liberiste, mentre nel paese c’è una resistenza alle riforme del mercato del lavoro e alla diminuzione della spesa pubblica. Tra i cittadini c’è confusione, un misto tra collera e attesa, delusione e bisogno di cambiamento: su idee, persone, pratiche. Macron, per esempio, lavora per occupare questo spazio e gioca sull’attenuazione della differenza destra-sinistra. Ma questa permane in Francia, dove non c’è la grande coalizione. C’è invece uno spazio per il centro-sinistra. Per questo, il primo ministro Manuel Valls guarda a Renzi, Hollande prende esempio da Schröeder e, nei fatti, il presidente cerca una posizione comune con l’Spd sul Ttip, per esempio. La mancata risposta europea, in termini di progresso economico, di solidarietà sulla crisi dei profughi, sulla Siria, non fa che aumentare il malcontento. E i cittadini non vedono quale forza politica risolverà i problemi. Per la destra è più facile, perché non è al governo, ma la radicalizzazione di questa parte politica rende la prospettiva del 2017 molto pericolosa. La destra ha già conquistato 8 regioni su 13, più molte grandi città.
La sinistra si sta chiudendo in un’impasse, trascinando il bilancio della presidenza Hollande come una palla al piede?
Il discorso è focalizzato sulla situazione attuale. È in ritardo. Si concentra sulla lotta per la presidenza, trascurando il dopo: ci sono le legislative e, nel caso di vittoria di un candidato di destra, qualunque sia il risultato della presidenziale, ci vorrebbe una forte presenza di sinistra e sinistra della sinistra in Parlamento. Il futuro non è scritto. Quello che è scritto è la delusione, la rassegnazione di Marine Le Pen al secondo turno, la vittoria della destra. Per la sinistra è un momento catartico. C’è una passività, un’incapacità a costruire delle risposte, a reagire alla sfida politica e intellettuale. Bisogna pensare al dopo-elezioni. C’è un malinteso d’origine: Hollande aveva detto quello che avrebbe fatto, aveva difeso una visione social-democratica che, nel contesto di crisi, si è tradotta in una politica social-liberista. L’altra sinistra vuole un’altra strada, ma guarda più al prima che al dopo. Quale risposta nel contesto di crisi europea? Il dibattito sull’alternativa è ridotto: o continuare una maggiore integrazione oppure uscire. Si tratta di una sfida di grande importanza. L’alternativa pare solo tra una risposta social-liberista soft oppure un populismo che incarna un ripiego.
Non ci sono grandi idee neppure a sinistra della sinistra.
La questione è trovare una risposta di trasformazione che utilizzi la crisi per instaurare un rapporto di forze che metta in scacco il liberismo. Jean-Luc Mélenchon vuole prendere una scorciatoia, o cambiamo l’Europa o usciamo. Ma per me è una falsa alternativa. Certo, cambiare l’Europa è difficile, ma è il momento per farlo.
il manifesto 15.10.16
Hollande sull’orlo di un suicidio politico
Il presidente parla a ruota libera in un libro-conversazione. La magistratura insorge, il Ps in preda al panico. I 7 candidati di destra in tv, con un punto comune: un giro di vite ultra-liberista
di Anna Maria Merlo

PARIGI François Hollande si è suicidato politicamente, con l’uscita del libro-confessione scritto da due giornalisti di Le Monde, come aveva fatto Dominique Strauss-Kahn in una camera d’albergo a New York nel 2011? Il caso è costernante: in Un président ne devrait pas dire ça… (ed.Stock), i due giornalisti di inchiesta Gérard Davet e Fabrice Lhomme riportano una serie di affermazioni a ruota libera del presidente che ribaltano l’immagine che Hollande si era costruito finora. Come in un’esplosione del rimosso, il finora “normale” Hollande passa dalle accuse ai magistrati “vigliacchi”, che “si nascondono”, a giudizi maleducati sulle sue donne (Trierweiler “donna infelice”, Julie Gayet descritta come smaniosa a fare la première dame, solo Ségolène Royal si salva), passando per posizioni molto lontane dalla tradizione del Ps, a cominciare dall’immigrazione, “troppi arrivi” o sui calciatori che dovrebbero “fare la muscolazione del cervello”. Nel Ps, tra i pochi sostenitori che gli restano, è il panico generale. Claude Bartolone, presidente dell’Assemblée nationale, si dice “stupefatto” e si interroga “se vuole davvero essere candidato”. Per il segretario Ps, Jean-Christophe Cambadelis, presentarsi “sarà più difficile”. L’ex ministro Emmanuel Macron, che aspetta il suo momento, ha precisato ieri che dirà a dicembre o a gennaio, se sarà candidato, per occupare lo spazio della socialdemocrazia, disperatamente vuoto a sei mesi dalle presidenziali. L’ex ministro Arnaud Montebourg, già candidato (che parteciperà alle eventuali primarie Ps a gennaio) ringrazia: “Sarkozy aveva screditato la funzione presidenziale, Hollande la abbassa, per noi è grasso che cola, grazie per il regalo!”.
Hollande ieri, di fronte all’indignazione del mondo giudiziario che si è sentito “umiliato”, ha affermato di “essere profondamente dispiaciuto”. Solo il giorno prima, con una mossa inabituale, i vescovi francesi si erano rivolti ai candidati all’Eliseo chiedendo loro di “ritrovare il senso della politica” di cui ha bisogno una società divisa, che soffre dell’”assenza di progetto o di visione a lungo termine”.
Grandi idee non sono uscite neppure dal primo dibattito in tv tra i sette candidati alle primarie della destra e del centro, che si svolgeranno il 20 e 27 novembre prossimi. Almeno, è stata rispettato un tono cortese tra i sette rivali, Sarkozy, Juppé, Copé, Kosciusko-Morizet, Fillon, Le Maire e Poisson. La Francia avrà probabilmente un presidente di destra, sperando che non sia di estrema destra, c’è ormai rassegnazione per la presenza di Marine Le Pen al ballottaggio. Sui temi economico-sociali, tutti i sei sfidanti Républicains (più Poisson, democristiano), condividono una svolta chiaramente a destra, facendo riferimento alle riforme di tipo thatcheriano con meno tasse e meno stato, divisi soltanto sull’intensità della medicina, tra chi si appoggia sul rilancio dei consumi e chi insiste sulla necessità di aumentare la competitività. E Juppé, che parte degli elettori di sinistra andrà a votare alle primarie per evitare Sarkozy, è tra i più thatcheriani.
Corriere 15.10.16
Le famiglie (e i giovani) invisibili
di Maurizio Ferrera

Sulle questioni di principio (come il matrimonio o le scelte riproduttive) il tema della famiglia suscita scontri ideologici da cappa e spada. Sul piano pratico è invece un non-tema, l’invisibile Cenerentola del welfare. L’Unione Europea colloca il modello d’intervento dell’Italia nel cosiddetto Gruppo 4 (su quattro: il più arretrato), insieme a Bulgaria, Estonia, Croazia, Grecia e Spagna. Nel Gruppo 1 sta la Scandinavia, con il Belgio e il Regno Unito. Questi Paesi sono caratterizzati da una politica familiare «capacitante», che aiuta i giovani a formare unioni autonome e stabili, a fare figli, a partecipare al mercato del lavoro e ad avere un reddito adeguato. Nel Gruppo 4 tutte queste cose sono difficili, per molte fasce sociali enormemente difficili. La Ue definisce la politica familiare di questo insieme di Paesi «limitata». Sarebbe più appropriato chiamarla «limitante». Le sue debolezze pesano infatti come un macigno sulle opportunità dei giovani, dei genitori e in particolare delle madri italiane. Sul ritardo anagrafico con cui da noi si comincia un’autonoma vita di coppia e sul tasso di fertilità stendiamo un velo pietoso. Una anomalia meno dibattuta riguarda il lavoro. Il 42% delle famiglie con figli è monoreddito: ad essere occupato è solo il padre. Nel Gruppo 1 la percentuale è sotto il 30%, la norma è il doppio reddito, con o senza part-time. Siccome anche in Italia sta crescendo il numero di working poor (occupati che pur lavorando restano in condizioni di indigenza) non possiamo certo stupirci se abbiamo il tasso di povertà minorile più alto della Ue.
Nel modello capacitante lo Stato assicura che la presenza dei figli non generi impoverimento. Gli assegni familiari sono universali e il Fisco agevola, soprattutto se la madre lavora (in Italia il 25% delle madri lascia o perde il lavoro dopo la gravidanza). Per i redditi più bassi sono previsti crediti d’imposta: denaro che si aggiunge alla retribuzione. Le capacità non dipendono però solo dai soldi, conta anche la disponibilità di servizi, a cominciare dai nidi. Su questo fronte l’Italia ha fatto recentemente qualche progresso, ma unicamente al Centro-Nord. Nel Mezzogiorno siamo addirittura fuori dal perimetro del Gruppo 4.
La conciliazione resta un dramma: lo confermano le lettere e i dibattiti pubblicati sul sito «La 27ma ora». L’organizzazione del lavoro è troppo rigida, mancano i servizi (o costano troppo), i carichi domestici gravano ancora principalmente sulle donne: il 63% delle occupate dichiara di non ricevere nessun aiuto dal partner.
Per uscire dal modello limitante dobbiamo metterci a correre. Dopo un inizio promettente, il governo Renzi è tornato alla cattiva abitudine dei provvedimenti frammentati e temporanei: bonus, sconti, micro-agevolazioni, detrazioni. Senza una logica riconoscibile che non sia quella del consenso (con vantaggi, peraltro, tutti da verificare). Alle politiche capacitanti non si arriva improvvisando, mettendo e togliendo. Servono interventi coordinati sul fronte dei trasferimenti, del Fisco, dei servizi, dei congedi parentali, dell’abitazione, dell’accesso al credito. E naturalmente occorrono risorse. Per la famiglia il nostro Paese spende meno di 310 euro pro capite all’anno, la metà della media Ue, un terzo rispetto a Francia e Germania (dati 2012). Per le pensioni di vecchiaia spendiamo invece più di 3.700 euro, il valore più alto di tutta la Ue, Paesi scandinavi inclusi.
Il governo si è impegnato (anche con Bruxelles) a redigere un Piano nazionale contro la povertà. Il piatto forte dovrebbe essere l’introduzione di una misura nazionale di garanzia del reddito, pilastro fondamentale del modello capacitante. Sarebbe stato auspicabile concentrare su questo fronte le risorse «sociali» della legge di Stabilità. Invece si è scelto di dare la priorità alle pensioni. Di nuovo un’occasione sprecata, l’ultima di una interminabile serie.
Corriere 15.10.16
Il Verdini di governo: alleanza con Alfano e in prima linea per il referendum
Tra sfide e segreti
di Francesco Verderami

«Primum vincere» è un altro modo per dire primum vivere, serve a Verdini per far capire al suo gruppo dirigente che non ha senso discettare del domani.
Perché il discrimine è oggi, è il referendum, da cui dipenderanno gli equilibri politici futuri. Tanto il presente è sotto gli occhi di tutti, «solo gli ipocriti fanno finta di non vedere che il gruppo parlamentare di Ala è già parte della maggioranza», aveva detto Alfano a Corriere Tv alcune settimane fa. La fusione con Scelta civica ha garantito in questi giorni un ulteriore up-grading ai verdiniani, «ora — sorride loro il capo — siamo persino rappresentati al governo da un vice ministro all’Economia», che è Zanetti.
È una battuta che sa di incoraggiamento alla battaglia, perché la lunga marcia non è finita, è appena iniziata. Passa attraverso l’impegno per far vincere il Sì, sebbene «mai come stavolta il risultato sarà frutto del personale convincimento degli elettori, su cui i partiti non sembrano incidere». Verdini porta i numeri a sostegno della tesi: «I sondaggi danno un testa a testa. Ma se valutiamo tutte le forze che si oppongono alla riforma, il No dovrebbe essere accreditato almeno del 65%. Se non è così, è perché nel merito la stragrande maggioranza dei cittadini è favorevole al cambiamento. E quanti lo avversano, compresi insigni costituzionalisti, sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi. Tranne essere poi battuti in tv da un giovanotto che ha studiato sui loro testi».
Il «giovanotto» è Renzi, che «a mio avviso non ha sbagliato campagna elettorale». Scorgendo sul voto di molti dei suoi una forma di dissenso, il leader di Ala prende cappello: «Ma che doveva fare? Vi siete dimenticati il referendum sulle trivelle? Non è passato perché non ha raggiunto il quorum. Stavolta il quorum non c’è e lui doveva chiamare alla mobilitazione. Ha fatto bene, lo vedrete. Secondo me il fronte del No ha raggiunto il suo picco massimo. Anche sotto il profilo mediatico ha detto tutto quello che poteva dire, cioè “mandiamo Renzi a casa”. Mentre il fronte del Sì non può che crescere, perciò date una mano a Pera e Urbani con i comitati».
Nelle file di Ala una mano alle riforme se l’aspettano anche da Berlusconi. Ma invece di assecondare l’argomento, Verdini interviene per stopparlo: «Lasciate stare Silvio, sbagliereste a dare una rappresentazione meschina del suo atteggiamento, che potrebbe apparire opportunistico. Lui è una rockstar che si porta appresso il suo elettorato. Lui fiuta l’aria e decide. È un’altra cosa. Piuttosto, penso che la vittoria del Sì risolverebbe i problemi anche di chi vota No. Questa storia che si legge, che il referendum sarebbe appoggiato dai poteri forti, è una boiata pazzesca. Certo, le riforme le vuole l’Europa, le appoggia Confindustria. Ma il vero potere forte, la finanza internazionale, è pronto a fare il suo mestiere. E se l’Italia finisse in una tempesta speculativa, ditemi: chi ci rimetterebbe?».
Insieme alle manovre di Renzi, l’atteggiamento di Berlusconi è il tema più ricorrente della riunione, evoca ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, specie quando il suo ex braccio destro parla della «crisi dell’Occidente»: «Siamo immersi in una lunghissima fase di difficoltà economica, abbiamo un sistema di welfare che entro venti anni così com’è sarà insostenibile, c’è l’emergenza terrorismo e un fenomeno migratorio senza precedenti, in questo contesto spuntano i Grillo, i Farage, gli Orban, quelli di Podemos... E allora, non dico che destra e sinistra non esistano più, figurarsi. Ma di fronte a questi problemi bisogna trovare una forma di unità delle forze di sistema. Non chiamiamole larghe intese, è una definizione politica che appartiene al Novecento. Parliamo di un’alleanza tra pragmatici».
Se così fosse, servirebbe in Italia una legge elettorale che aiutasse questa prospettiva, certo non l’Italicum. «Renzi si è reso disponibile a cambiarlo», dice Verdini: «Ma è inutile affannarsi a proporre un testo adesso, semplicemente perché in una trattativa — che ci sarà — la prima cosa che si fa è bocciare il testo altrui». «Come Denis», gli viene chiesto: «Ma se tu ci stai lavorando...». «A declinare i principi. Il resto viene con il progressivo avanzamento degli accordi».
Resosi conto di aver messo un piede nel futuro, il capo di Ala torna nel presente: «Primum vincere». E nel frattempo «lavoriamo alla nascita di una Federazione di centro. L’ho detto ad Alfano: tutti insieme e ognuno a casa propria inizialmente, così non ci sono problemi. Ma bisogna unirsi per costruire una forza autonoma moderata che dia risposta a quanti non vogliono accettare il primato dei populisti». Il pressing Verdini sul leader di Ncd è quotidiano: «Bisogna fare in fretta». La fretta prima del giudizio universale. «Ma no. Non credo che Renzi sarebbe bruciato, se vincesse il No. Così come non credo che si andrebbe al voto nel 2017, se vincesse il Sì. Sono cose che accreditano quelli che nella campagna per il referendum non hanno argomenti per opporsi alla riforma ».
Repubblica 15.10.16
Vertice con Lupi e Zanetti
Verdini: il 5 dicembre io entro nel governo
di Tommaso Ciriaco

ROMA. Denis Verdini raddoppia. E dopo l’ingresso in maggioranza, vuole mettere piede anche nel governo. «Dal 5 dicembre cambierà tutto »ha confidato giovedì, durante un summit riservato con Maurizio Lupi ed Enrico Zanetti »e se vincerà il Sì noi di Ala entreremo nell’esecutivo». Ecco l’obiettivo del leader, di nuovo in campo e pronto a far pesare in Parlamento la nutrita pattuglia centrista un minuto dopo il referendum. Per il quale infuria la battaglia, anche per il voto degli italiani all’estero. Maria Elena Boschi ha in programma nuove missioni internazionali. Sul fronte opposto, Luigi Di Maio pianifica incontri per il No con i connazionali impiegati nella City e in altre realtà finanziarie continentali.
Il piano di Verdini è già pronto. Primo: riunire nello stesso contenitore Ala, Ncd e Scelta civica. Secondo: accogliere i delusi dal centrodestra a trazione lepenista. Terzo: presentare una proposta centrista unitaria di riforma elettorale, prevedendo un premio di maggioranza alla coalizione, piccoli collegi uninominali e una quota proporzionale. Ma non c’è solo l’Italicum, nei pensieri del ras toscano. Lo si è intuito mercoledì scorso, durante il brindisi per il nuovo gruppo parlamentare costituito assieme ai sodali di Scelta civica. Con alle spalle il logo, Verdini ha improvvisato un discorso che suonava così: «Altro che Pd, Berlusconi farebbe bene a capire che se vince il No si torna al Pci. E poi è chiaro che se dovesse prevalere il fronte contrario alla riforma, il merito della vittoria andrebbe ai Cinquestelle ». Proprio per attirare la galassia berlusconiana, il leader di Ala preme per lanciare a gennaio anche una federazione centrista. Sul progetto, però, pesano ancora i dubbi di Angelino Alfano.
Continua intanto il duello sul referendum. Per il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky la riforma «è sostenuta dai grandi gruppi finanziari e oligarchici, ed avversata dai poteri democratici. Dopo il ricorso Onida sui quesiti si rischia il rinvio del voto». Non la pensano così i renziani, impegnati a conquistare anche il voto degli italiani all’estero. Dopo il Sud America la ministra Boschi ha in cantiere nuove tappe in Svizzera e in Germania. E anche i cinquestelle non sono da meno. Toccherà a Di Maio scardinare il fronte del Sì con tre missioni nel cuore della finanza europea: sono previste tappe a Francoforte, Londra e Berlino.
Il Partito socialista europeo, intanto, batte un colpo a favore della riforma, approvando all’unanimità una dichiarazione a sostegno del Sì. Una presa di posizione che non farà piacere a Massimo D’Alema, da poco rieletto alla guida della Fondazione per gli studi progressisti europei, assai vicina ai socialisti continentali.
La Stampa 15.10.16
Renzi guarda già al dopo voto
tentato di restare anche se perde
“La vera battaglia è quella che combatteremo a Bruxelles” E Zagrebelsky avverte: la consultazione potrebbe slittare
di Carlo Bertini

Un Renzi piuttosto cool, sicuro di sè e apparentemente sereno anche rispetto al referendum con lo sguardo proiettato al dopo voto. Questa l’impressione che il premier ha lasciato ad alcuni dei suoi commensali riuniti al Colle per il tradizionale pranzo con il capo dello Stato che precede ogni vertice europeo.
Certo, il sentimento dominante di Matteo Renzi è la fiducia nella vittoria, complici anche i sondaggi riservati che danno un’inversione di tendenza del Sì dopo mesi di ripiegamento. Ma in una partita apertissima come questa tutti si esercitano in scenari scommettendo sulle intenzioni del premier. Il quale, martedì sera a «Politics», ha ripetuto per l’ennesima volta che in caso di sconfitta al referendum sa bene cosa farà, dando la sensazione di non esser disposto a far finta di nulla come gli chiedono Bersani e compagni. Ma nello stesso tempo, come ammettono alcuni suoi interlocutori, «il problema della responsabilità della guida del paese se lo pone eccome».
Posto che molti nel Pd danno per scontato che il segretario porterà il partito al congresso del 2017 senza dimettersi da leader qualunque cosa accada, su ciò che succederà al governo in caso di sconfitta nessuno è disposto a scommettere. Da qualche giorno però si susseguono segnali indicativi. Nel proscenio del Colle, circondato dai suoi ministri, è andato in scena un premier che non ha dato la sensazione di un mondo che si ferma in attesa del voto: anzi Renzi ha proiettato lo sguardo al dopo. Certo, ha posto l’accento sul fatto che l’Italia sarà più forte e influente con la vittoria del sì, necessaria per vincere le partite europee. Battaglie che andranno combattute comunque: insieme a quella referendaria, la vera sfida che attende l’Italia sarà in Europa. Dove non solo vanno stabiliti i margini di flessibilità per i nostri conti pubblici; ma dove a cavallo di fine anno verranno a scadenza posizioni di vertice dell’Unione. Quella del presidente del Parlamento europeo e l’altra del Consiglio europeo. Ed è noto che l’Italia sia molto interessata a questa partita, ancora piuttosto confusa. Proiettando dunque lo sguardo oltre il 4 dicembre (nei suoi discorsi ricorre spesso il richiamo al all’appuntamento del marzo 2017 per la celebrazione dei trattati di Roma) il segretario Pd sembra darsi un orizzonte più disteso in avanti: ieri nella sala ovattata del Quirinale non ha trasmesso l’impressione di voler far saltare il banco quale sia l’esito, anche negativo, del referendum.
Ad accentuare quest’impressione hanno contribuito le parole pronunciate a Bari di fronte ai sindaci dell’Anci: l’indice rivolto alle scadenze del prossimo anno, perché «il Patto dell’agenda urbana siamo pronti a firmarlo a partire da gennaio». Frase che non è passata inosservata ai sindaci cui è stato chiesto di «dare una mano, comunque vada il referendum». Ma al di là degli auspici di stabilità delle élites economiche, finanziarie e istituzionali, certo è che a detta di chi gli sta vicino, in questi giorni Renzi ha cambiato umore ed è più tranquillo: sta ragionando sul da farsi, quale che sia l’epilogo, ma ha capito che deve rassicurare il paese che non c’è il capitombolo. Poi cosa deciderà di fare se dovesse perdere si vedrà.
E a sentire cosa dice Gustavo Zagrebelsky anche lo scenario italiano è incerto. Con i ricorsi contro la formulazione del quesito referendario presentati dal presidente emerito della Consulta Valerio Onida «ci può essere il rischio di un rinvio del voto sul referendum». Perché uno «è volto a sollevare una questione di costituzionalità sulla legge che regola questo tipo di referendum. E se si solleva una questione di questo tipo, le cose vanno poi alla primavera, conoscendo un po’ i tempi della Corte».
Repubblica 15.10.16
Processo penale sul binario morto rinvio a dopo il voto
Ma l’Ocse striglia il governo: basta perdere tempo la riforma della prescrizione è necessaria
di Liana Milella

ROMA. S’inabissa la riforma del processo penale. Quella che contiene la famosa riforma della prescrizione. Al Senato scompare dal calendario. Rinviata a un imprecisato futuro per via dell’incontro Renzi-Orlando-Davigo del 24 ottobre. L’eco di una sorte incerta della legge arriva perfino a Parigi e all’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che in una lettera al presidente del Senato Piero Grasso e al Guardasigilli Andrea Orlando sollecita, all’opposto, un’approvazione rapida per evitare la pesante moria di processi – un milione e mezzo negli ultimi dieci anni – e l’inevitabile danno alle inchieste sulla corruzione, che da sempre preoccupa l’Ocse.
Si arena definitivamente la riforma del processo penale, ddl monstre in ballo ormai dal 30 agosto 2014, quando fu approvato dal consiglio dei ministri. Un pacchetto molto ampio, e anche molto controverso: prescrizione sospesa dopo il primo grado con un bonus di 36 mesi tra appello e Cassazione, stretta sull’uso delle intercettazioni nei documenti delle toghe, pene più dure per furti e scippi, obbligo draconiano per i pm nella chiusura delle indagini pena l’avocazione, modifiche all’ordinamento penitenziario con più possibilità, anche per i mafiosi, di ottenere benefici. La stessa sorte – un rinvio a un futuro parlamentare altrettanto incerto – potrebbero subire, questa settimana, anche le nuove norme sul caporalato, appena licenziate a Montecitorio dalle commissioni Giustizia e Lavoro.
La ragione dello stop è semplice: il premier Renzi teme improvvise frenate e brutte figure in Parlamento che avrebbero come conseguenza un grave danno d’immagine per il governo in vista del referendum del 4 dicembre. Per questa ragione il premier è stato freddissimo con la richiesta di autorizzare, in consiglio dei ministri, la fiducia al Senato per il ddl penale, concedendola alla fine, ma solo quando l’incastro parlamentare consentiva di fatto di rinviare sine die il provvedimento. Non solo: Renzi ha fissato solo al 24 ottobre l’incontro con i magistrati dell’Anm, che criticano fortemente ampie parti della riforma, nonostante l’appuntamento fosse stato richiesto da due settimane.
Sul destino del ddl penale l’imbarazzo è palpabile sia in via Arenula che al Senato. Il ministro Orlando ha mediato con il collega Angelino Alfano e il suo partito per raggiungere un compromesso che lascia del tutto insoddisfatti i magistrati. Il presidente dell’Anm Pier Camillo Davigo spende ampie critiche su misure «inutili e dannose», come la prescrizione solo sospesa e non bloccata in primo grado, e soprattutto sulla norma che costringe i pm a accelerare le richieste per gli indagati dopo la scadenza delle indagini preliminari. In realtà il compromesso di Orlando non rende sicuro il testo da imboscate in aula sui quasi 200 voti segreti. Lo stesso relatore – il dem Felice Casson – spinge per il suo emendamento che blocca la prescrizione e che, se passasse, metterebbe in crisi il governo.
Al contrario della legge che aumentava la pene per la corruzione, Orlando non può nemmeno contare su una spinta del presidente del Senato Piero Grasso che criticando i tempi troppo lunghi di quel provvedimento – ironizzò più volte copn un «Aspettando Godot» – aveva di fatto accelerato il voto. Ma Grasso stavolta è perplesso sulla via scelta per la prescrizione (ben diversa da quella che lui aveva presentato nel primo e unico ddl della sua vita da senatore, con lo stop in primo grado), che si risolve in una sorta di “vorrei ma non posso”. Quindi è uno spettatore muto. Se ne riparlerà dopo il 4 dicembre, con tutti gli interrogativi che questo comporta.
Repubblica 15.10.16
Come salvarsi dal veleno
di Michele Ainis
INCIUCI no, un referendum non si presta a compromessi. Rinvii nemmeno, ormai il 4 dicembre è segnato in rosso sul nostro calendario. Tregue niet, per vincere non devi dare tregua ai tuoi avversari.
PERÒ un’iniziativa, una mossa per svelenire il clima bisognerà pur concepirla. Non tanto per l’oggi, quanto per il domani: di questo passo, chiunque prevalga al referendum sulla Costituzione, ci troveremo senza Costituzione. Giacché nessuna Carta costituzionale può farsi rispettare se non appare rispettabile, se non viene accettata nei suoi principi fondativi. Ed è invece questo il rischio che corriamo: una frattura sulle regole, che delegittimi al contempo sia la Costituzione vecchia che la nuova.
Eppure non sarebbe poi così difficile metterci rimedio. Basta prendere sul serio le accuse (e soprattutto le difese) rilanciate dai due accampamenti. Dicono gli uni: questa riforma — in sé e in combinazione con la legge elettorale — rende più fragile la democrazia italiana, ne abbassa le garanzie, v’imprime una curvatura autoritaria. Ribattono gli altri: non è vero, semmai è il vostro atteggiamento che inocula un veleno, trasformando la Costituzione in una salma, anziché in un corpo vivo. Rifiutare le riforme è come privare di medicine un ammalato; ma i vivi prima o poi s’ammalano, soltanto i morti non hanno più malanni.
In questo contenzioso ciascuno indossa a turno i panni dell’imputato e del pubblico ministero, sicché ogni arringa difensiva si trasforma in un capo d’imputazione. Di conseguenza le parole si moltiplicano, rimbombano in tv, diventano rumore, suono incomprensibile. Servirebbero piuttosto fatti, comportamenti concludenti. Dal fronte del No, anzitutto: nega d’essere inchiodato a una visione immobile, conservatrice. E aggiunge che accetterebbe altre riforme, diverse dal menu cucinato dal governo Renzi. Quali, di grazia? Mantenendo il bicameralismo paritario oppure superandolo? E se del caso, mantenendo pure il Cnel? Nonché l’abuso dei decreti, che la riforma cerca d’arginare? Quanto alla legge elettorale, quale sistema in luogo dell’Italicum?
Vattelappesca: le idee dei partiti d’opposizione sono in opposizione l’una all’altra. Sarebbe bello, viceversa, leggere un progetto congiunto di riforma, con le firme in calce di D’Alema e di Brunetta, di Grillo e di Salvini. Oppure tanti progetti per interventi chirurgici, puntuali, magari recuperando qualche capitolo della riforma Renzi. L’opposizione dimostrerebbe, così, di non avere in testa una folla di pensieri spettinati. E che il 5 dicembre la vita costituzionale ricomincia, anche se vince il No.
A loro volta, i partiti del Sì hanno una responsabilità ben superiore. Perché sono maggioranza in Parlamento, perché se ne presume la coesione (altrimenti non avrebbero approvato la riforma), perché dunque sono in grado di dispensarci qualche concreta iniziativa. La revisione dell’Italicum, tanto per cominciare. Sgombrerebbe il campo dai sospetti d’autoritarismo, dal «combinato disposto» che fin qui ha combinato un’indisposizione collettiva. Infatti se ne sta parlando, ma ancora una volta non c’è un testo, c’è solo un pretesto, un’ammuina. In secondo luogo, la legge elettorale del nuovo Senato: un mistero gaudioso, da cui però dipenderà la sua qualità democratica, quindi la sua auctoritas, il suo peso complessivo. Sarebbe troppo chiedere alla maggioranza un’anticipazione o un’intenzione, invece di farci giocare a indovina indovinello?
E c’è infine lo statuto delle opposizioni, tanto più urgente in quanto dovrà compensare, con una garanzia ulteriore, la garanzia perduta del bicameralismo paritario. Sennonché la riforma rinvia a un’altra riforma, quella dei regolamenti parlamentari. Peraltro già avviata alla Camera nel 2013, abortita nel 2015. Ma se non altro quest’ultima vicenda ci impartisce una lezione: se rinvii troppo il parto, rischi d’uccidere il bambino.
il manifesto 15.10.16
Machiavelli e Tocqueville votano No
di Michele Prospero

Le bocche di fuoco dell’economia, della finanza, dell’impresa, delle tecnocrazie europee, persino i vertici dell’Inps, hanno enfatizzato il significato distruttivo che avrebbe il trionfo del no. Neppure la riesumazione del fantasma della repubblica dei soviet avrebbe ricevuto una delegittimazione così definitiva dalle agenzie del capitale.
Il bello è che i populisti al potere si sbracciano per dire che «con il no nulla cambia». E poi però, proprio alla vittoria dei gufi, attribuiscono dei mutamenti radicali di sistema che abbracciano la politica e l’economia. Gli elettori potrebbero sentirsi tentati dalla liberatoria opportunità di far saltare i brutti giochi dominanti.
A prendere in parola i poteri forti basta un No per dare l’assalto alle oligarchie e sconfiggere i registi dell’esclusione sociale, della contrazione della democrazia. Assaporando il colpo amaro della batosta, Renzi recupera una fissazione di Berlusconi e dice che chi è contro le sue riforme è spinto dal puro sentimento di odio (dovrebbe sapere che «farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe»). C’è spazio per l’odio in politica?
Una delle coppie centrali nella analisi politica di Machiavelli è proprio lo scontro tra l’ambizione e l’odio. Alla volontà di potenza dei capi, che cercano di accumulare il dominio saltando ogni resistenza degli ordini e sfidando l’apertura al consenso, corrisponde una reazione dei molti, che cercano di preservare gli spazi di libertà e le occasioni di iniziativa popolare.
In questo scontro di civiltà politica che oggi si verifica tra la volontà di potenza di una cricca di provincia e le appannate risorse della partecipazione di una moltitudine, che si attiva per preservare la fondazione democratica degli istituti parlamentari, si è creato una eterogenea coalizione che i governanti chiamano «l’armata brancaleone».
Contro l’arroganza del comitato d’affari toscano si è realizzata una regola della politica. Tocqueville così la precisava: «In politica la comunanza degli odi costituisce quasi sempre la base delle amicizie». E la rottamazione, brandita da Renzi come una ideologia mistificante per estirpare la vecchia guardia, ha coagulato una infinità di odi che non aspettano altro che la dolce vendetta di dicembre.
Non basta però il giusto sentimento di odio coltivato dai ceti politici più responsabili, quelli decapitati dall’ignoranza sovrana oggi chiusa nel palazzo, per abbattere un pernicioso sistema di potere che cerca nel plebiscito la via del consolidamento. Per vincere bisogna tradurre il sapere tecnico dei costituzionalisti in un linguaggio diffuso, con slogan che orientano la massa. A questo servono i sindacati, i politici, le firme dei pochi giornali non piegati, gli artisti non conformisti.
Diceva Lenin che «la politica comincia laddove ci sono milioni di uomini che controllano le questioni con l’esperienza, la pratica, e non si fanno mai sedurre dai facili discorsi, non si lasciano mai deviare dal corso obbiettivo degli avvenimenti». Il governo populista di Renzi sta mobilitando ogni risorsa lecita e illecita per sopravvivere e con alluvionali spot nelle tv manipola i quesiti, falsifica le questioni e invita ad andare a votare come si conviene ad un plebiscito di regime.
Negli scontri politici non bisogna farsi deviare dai sondaggi che annunciano la vittoria e inducono a sottovalutare la forza dell’avversario. Machiavelli suggeriva un precetto: «A volerti ingannare meno, ed a volere portare meno pericolo, quanto è più debole, quanto è meno cauto il nimico, tanto più dei stimarlo». Con minacce, promesse di bonus, scambi e manipolazioni Renzi può ancora risalire e inseguire un sogno di potere. Lo scontro perciò si radicalizza e produce sentimenti che lui chiama odio.
L’odio contro un potere degenerato può vincere solo se lo sostiene la volontà di assestare un colpo al governo che ha strappato i diritti del lavoro, impoverito il pubblico impiego, condannato i giovani all’emarginazione, aziendalizzato la scuola e privatizzato la sanità. Grandi riforme che piacciono ai poteri forti oggi in angoscia per il duello sotto la neve.
il manifesto 15.10.16
Machiavelli e Tocqueville votano No
di Michele Prospero

Le bocche di fuoco dell’economia, della finanza, dell’impresa, delle tecnocrazie europee, persino i vertici dell’Inps, hanno enfatizzato il significato distruttivo che avrebbe il trionfo del no. Neppure la riesumazione del fantasma della repubblica dei soviet avrebbe ricevuto una delegittimazione così definitiva dalle agenzie del capitale.
Il bello è che i populisti al potere si sbracciano per dire che «con il no nulla cambia». E poi però, proprio alla vittoria dei gufi, attribuiscono dei mutamenti radicali di sistema che abbracciano la politica e l’economia. Gli elettori potrebbero sentirsi tentati dalla liberatoria opportunità di far saltare i brutti giochi dominanti.
A prendere in parola i poteri forti basta un No per dare l’assalto alle oligarchie e sconfiggere i registi dell’esclusione sociale, della contrazione della democrazia. Assaporando il colpo amaro della batosta, Renzi recupera una fissazione di Berlusconi e dice che chi è contro le sue riforme è spinto dal puro sentimento di odio (dovrebbe sapere che «farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe»). C’è spazio per l’odio in politica?
Una delle coppie centrali nella analisi politica di Machiavelli è proprio lo scontro tra l’ambizione e l’odio. Alla volontà di potenza dei capi, che cercano di accumulare il dominio saltando ogni resistenza degli ordini e sfidando l’apertura al consenso, corrisponde una reazione dei molti, che cercano di preservare gli spazi di libertà e le occasioni di iniziativa popolare.
In questo scontro di civiltà politica che oggi si verifica tra la volontà di potenza di una cricca di provincia e le appannate risorse della partecipazione di una moltitudine, che si attiva per preservare la fondazione democratica degli istituti parlamentari, si è creato una eterogenea coalizione che i governanti chiamano «l’armata brancaleone».
Contro l’arroganza del comitato d’affari toscano si è realizzata una regola della politica. Tocqueville così la precisava: «In politica la comunanza degli odi costituisce quasi sempre la base delle amicizie». E la rottamazione, brandita da Renzi come una ideologia mistificante per estirpare la vecchia guardia, ha coagulato una infinità di odi che non aspettano altro che la dolce vendetta di dicembre.
Non basta però il giusto sentimento di odio coltivato dai ceti politici più responsabili, quelli decapitati dall’ignoranza sovrana oggi chiusa nel palazzo, per abbattere un pernicioso sistema di potere che cerca nel plebiscito la via del consolidamento. Per vincere bisogna tradurre il sapere tecnico dei costituzionalisti in un linguaggio diffuso, con slogan che orientano la massa. A questo servono i sindacati, i politici, le firme dei pochi giornali non piegati, gli artisti non conformisti.
Diceva Lenin che «la politica comincia laddove ci sono milioni di uomini che controllano le questioni con l’esperienza, la pratica, e non si fanno mai sedurre dai facili discorsi, non si lasciano mai deviare dal corso obbiettivo degli avvenimenti». Il governo populista di Renzi sta mobilitando ogni risorsa lecita e illecita per sopravvivere e con alluvionali spot nelle tv manipola i quesiti, falsifica le questioni e invita ad andare a votare come si conviene ad un plebiscito di regime.
Negli scontri politici non bisogna farsi deviare dai sondaggi che annunciano la vittoria e inducono a sottovalutare la forza dell’avversario. Machiavelli suggeriva un precetto: «A volerti ingannare meno, ed a volere portare meno pericolo, quanto è più debole, quanto è meno cauto il nimico, tanto più dei stimarlo». Con minacce, promesse di bonus, scambi e manipolazioni Renzi può ancora risalire e inseguire un sogno di potere. Lo scontro perciò si radicalizza e produce sentimenti che lui chiama odio.
L’odio contro un potere degenerato può vincere solo se lo sostiene la volontà di assestare un colpo al governo che ha strappato i diritti del lavoro, impoverito il pubblico impiego, condannato i giovani all’emarginazione, aziendalizzato la scuola e privatizzato la sanità. Grandi riforme che piacciono ai poteri forti oggi in angoscia per il duello sotto la neve.
il manifesto 15.10.16
I giochi di prestigio con la coperta corta
Oggi il consiglio dei ministri sulla manovra. Ma per la versione definitiva bisognerà attendere ancora. La stroncatura dell’ex ministro Visco: «Solo propaganda e interventi a pioggia inutili»
di Andrea Colombo

ROMA Il consiglio dei ministri è convocato per le 15. Ieri il ministro dell’Economia Padoan, prima da solo, poi in con Matteo Renzi, ha limato e stirato la coperta sino all’ultimo. E’ probabile che il defatigante sforzo non sia bastato e che la manovra non verrà licenziata nella sua versione definitiva neppure oggi. Bisognerà attendere il 20 ottobre, ultima data valida per inviare il testo al Parlamento. Ma anche quello, si sa, è un termine ultimo per modo di dire. La manovra definitiva arriverà, come sempre, poco prima del voto finale.
Il grosso però va fatto subito e deve essere immediatamente chiaro che il governo intende distribuire a pioggia. Il referendum incombe. I voti costano. Il debito arriverà al 2,3%, o forse al 2,4%. E’ necessario per gli investimenti, informa sussiegoso il ministro per le Attività produttive Calenda. Le opposizioni da destra come da sinistra, la vedono in altro modo. «Regali di Natale», per la forzista Gardini. «Più che un referendum sembra la befana», concorda la capogruppo di Si al Senato Loredana De Petris, secondo la quale però i pacchetti di Renzi si riveleranno pieni solo di carbone: «Finti regali per spingere a votare Sì». La bocciatura più feroce viene dall’interno del Pd, dall’ex ministro dell’Economia Vincenzo Visco: «Solo propaganda e interventi a pioggia inutili».
Inutili? Dipende dai punti di vista. Quello di Renzi è il punto di vista di chi deve vincere il referendum, spera di riuscirci dando agli italiani un’illusione di miglioramento, è pronto a sfidare tutto il mondo – a partire dall’Ufficio parlamentare di bilancio che non ha validato la manovra – pur di farlo, e tuttavia deve comunque fare i conti con una coperta cortissima e dunque ricorrere a un bel po’ d’illusionismo.
L’intervento sulle pensioni è l’esempio perfetto. La platea che accederà all’Ape, l’anticipo pensionistico, è stata ridotta al massimo, e rischia anche di essere punta: per ogni anno di anticipo un taglio del 5%. La riforma Fornero non verrà neppure scalfita ma poco male, quel che conta è l’effetto annuncio. Ma in materia di effettacci nulla compete con la promessa di chiudere l’odiatissima Equitalia, per sostituirla con una non meglio specificata «agenzia». La materia non c’azzecca col bilancio e dunque dovrà essere rinviata a un collegato o a legge da destinarsi. Ma il vero limite è un altro e lo denuncia l’ex ministro Visco: «Con Equitalia o con un’altra agenzia non cambia niente». La misura fiscale più concreta sarà l’abolizione dell’Irpef sulla produzione agricola, promessa anche ieri da Renzi. Il gettito incide poco, quindi dovrebbe essere a portata di mano. Però quando il presidente della Coldiretti, alla presenza di Renzi, ha onorato la sua parte del contratto invitando a votare Sì al referendum, la platea, Irpef o non Irpef, lo ha sonoramente fischiato.
Il pezzo forte sono le 10mila assunzioni promesse dal premier nella pubblica amministrazione, tra poliziotti, infermieri e forse medici. Sarebbe comunque una buona notizia se non fosse più che controbilanciata dal taglio alla Sanità che servirà a finanziarla. Il governo lo presenta come un «minor aumento» e non come un taglio, ma è solo un gioco di prestigio. Non solo entreranno in azione le forbici, ma lavoreranno a fondo asportando il 50% delle risorse già annunciate: da 2 miliardi a uno solo. Dopo il saccheggio della medicina preventiva degli anni scorsi in nome della «lotta agli sprechi» se non sarà proprio il colpo di grazia ci andrà vicino.
Il capitolo famiglie è ancora da definirsi, ma sarà folto sia perché è il cavallo di battaglia dei soci centristi di maggioranza sia perché le teste d’uovo capitanate dal guru Jim Messina hanno concluso che puntare sui «ragazzi» è il modo migliore per attrarre verso il Sì genitori o aspiranti tali: sgravi per le famiglie disagiate ma non povere, assegni per gli asili nido slegati dalla rinuncia delle madri al congedo parentale, bonus bebè e, naturalmente, conferma del bonus spese culturali per i 18enni, nonostante sia di comprovata inutilità.
In conclusione, una manovra che è esattamente quello che ci si aspettava: finalizzata al referendum e a null’altro. L’Europa la approverà a bocca storta perché altro non può fare. Ma che gli elettori ci caschino è tutto da vedersi.
Il Fatto 15.10.16
Mancano le coperture
Oggi il sì alla manovra. Alla Sanità tagliato almeno 1 miliardo
ALMENO un miliardo in meno al fondo sanitario. Il Consiglio dei ministri si riunirà oggi pomeriggio per dare il via libera alla manovra finanziaria per il 2017. I punti chiave, però, sono ancora in discussione, ma una cosa è certa: il fondo sanitario passerà da 113 a 112 miliardi, se non meno. Il rapporto deficit/Pil, salirà al 2,2 o al 2,3%, contro il 2% annunciato dal governo. Fra le misure annunciate: il superamento di Equitalia, anche se non è ancora chiaro quali saranno i nuovi meccanismi di recupero dell’evasione; un bonus da 800 euro per le future mamme; l‘Ape, l’anticipo pensioni»stico che dovrebbe partire a maggio 2017; la conferma dell’Ecobonus, per le ristrutturazioni e l’efficientamento energetico, e del “Sismabonus” per l’adeguamento antisismico delle abitazioni. La nota dolente della manovra, però, sono le coperture, ancora in definizione. Dai 3,5 ai 5 miliardi dovrebbero arrivare dall’aumento del deficit. Un miliardo verrà sforbiciato dal rifinanziamento del fondo sanitario. La spending review da 2,6 miliardi è destinata a salire. Poco meno di 2 miliardi dovrebbero arrivare dalla ri-edizione della voluntary disclosure.
il manifesto 15.10.16
La strategia del vedo-e-non vedo sui tagli alla Sanità pubblica
Legge di Bilancio. Preoccupate le regioni: "Se il governo decide di rimangiarsi la “sua” parola è una scelta dell’esecutivo". Il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd) sui tagli da un miliardo e mezzo alla Sanità e l'annuncio di assumere 10 mila statali: "Uno come Renzi che spara queste cifre è in una situazione politica di grande difficoltà"
di Roberto Ciccarelli

Tagli alla sanità spacciati come un aumento. La logica è solo apparentemente paradossale. È il gioco del vedo-non-vedo che il Sistema Sanitario Nazionale subisce da quando è iniziata l’austerità, ogni fine d’anno, in coincidenza con le manovre finanziarie. Nella stessa direzione vanno le indiscrezioni, smentite con poca convinzione dal ministero della Salute, nelle ore che ci separano dalla presentazione della legge di bilancio 2017 che dovrebbe essere licenziata oggi dal Consiglio dei Ministri. Li temono le Regioni che ieri si sono incontrare a Roma per una conferenza straordinaria. Cercano di ammorbidire una manovra che si preannuncia pesante per gli enti locali. Si discute ancora al buio, il governo ha tutte le carte in mano. Gli obiettivi da colpire sono noti: sono a rischio vaccini, esenzioni dai ticket, farmaci innovativi, le assunzioni dei medici e degli infermieri e non sarebbero applicati i nuovi Lea, i livelli essenziali di assistenza, approvati dal governo e ora in Parlamento per un parere non vincolante. «Chiediamo che sulla parte sanitaria il Fondo rimanga quello scritto nel Def e nell’intesa Stato-Regioni di febbraio (113,063 miliardi di euro per l’anno 2017 e 114,998 miliardi di euro per il 2018, e di non fare un taglio su quanto promesso. Se poi il governo decide di rimangiarsi la “sua” parola è una scelta dell’esecutivo» afferma Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori all’Economia delle Regioni.
Nelle ore decisive, e sulla base di indiscrezioni, tutti temono che il governo non rispetti gli impegni presi, anche a livello istituzionale, non solo con gli annunci. Il balletto sulle cifre non è un gioco singolare: incide sulla qualità dei servizi ai cittadini che non è esattamente il migliore, per usare un eufemismo. In ballo c’è anche la spending review che non è solo un mantra recitato in ossequio alla prassi autunnale del Bilancio. Quasi sempre va a intaccare la sanità. Al netto del tira e molla sulle cifre alla Sanità andrebbero 112 miliardi. «Rispetto al 2016 – spiega Stefano Cecconi, responsabile politiche della salute della Cgil – sarebbe dimezzato l’aumento del Fondo che aumenterebbe solo dello 0,9%. Verrebbe così meno il finanziamento minimo previsto dall’Intesa Stato-Regioni del 7 settembre scorso, fissato dalla legge, per l’adozione dei nuovi Lea. Non possiamo accontentarci del “meglio poco che niente” come fa qualcuno».
La malinconica certezza che la manovra non basterà alligna anche nel campo del Pd. Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha colto una delle contraddizioni di Renzi. Prendiamo ad esempio l’annuncio che ieri ha riempito le colonne dei giornali: l’assunzione di 10 mila statali.
Un colpo di teatro in uno scenario allarmato dalle voci sul taglio di un miliardo e mezzo sulla sanità. «Uno che spara queste cifre – ha detto Emiliano – è in una situazione politica di grande difficoltà». Può darsi. Come sempre nel caso di Renzi i numeri vengono sparati per sollevare cortine fumogene, inviare messaggi contradditori per rendere illeggibile la situazione e truccare alla prossima mano di poker. Tutto viene ricondotto all’armageddon del 4 dicembre, giorno del referendum sulla riforma costituzionale: «Non funzionerà l’idea di fare una manovra finanziaria generosa per avere un risultato elettorale positivo». Una chiosa, quella di Emiliano, che la dice lunga sul morale delle truppe nel Pd.