sabato 14 aprile 2012

l’Unità 14.4.12
Pd, Pdl e Udc presentano il testo ma i tempi rischiano di allungarsi
Si riaffaccia Montezemolo: forze politiche senza dignità
Bilanci dei partiti: Lega e Radicali contro il sì in commissione
di Simone Collini


Depositata la proposta di legge Alfano, Bersani, Casini sui bilanci dei partiti. Montezemolo attacca le forze politiche: «Hanno perso senso del ridicolo e della dignità». Lega e Radicali contro il via libera in commissione

In attesa di vedersi martedì a Palazzo Chigi per discutere con il premier Mario Monti della riforma del mercato del lavoro e delle misure necessarie per la crescita e per far aumentare l’occupazione, Pier Luigi Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini hanno chiuso la pratica, almeno per quanto li riguarda in prima persona: la proposta di legge a loro firma sulla trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti è stata depositata alla Camera. Ora però la partita si gioca a livello di gruppi parlamentari e forse anche di singoli deputati.
Dopo che è stato dichiarato inammissibile l’emendamento (contenente le nuove norme) al decreto fiscale, Pd, Pdl e Terzo polo hanno tentato la strada della proposta di legge auspicando un iter rapido grazie alla convocazione della commissione Affari costituzionali in sede legislativa (cioè deliberante, senza dover passare per l’Aula).
I TEMPI RISCHIANO DI ALLUNGARSI
Però con il trascorrere delle ore si conferma l’ipotesi che il niet posto da Lega e Radicali impedirà di accelerare i tempi. Basta infatti che un decimo dei deputati si dica contrario alla legislativa perché questa strada non sia praticabile. E sommati, i deputati leghisti (59) e Radicali (sono 6, all’interno del gruppo del Pd) superano questa soglia. A meno che i vertici Democratici non convincano la pattuglia radicale dell’inopportunità della mossa (Maurizio Turco giustifica il no alla legislativa perché giudica «un alibi» per non riformare il finanziamento pubblico il «voler dare qualcosa in pasto ai cittadini») i tempi per approvare le nuove norme si dilateranno fino a superare le amministrative di maggio.
MONTEZEMOLO CONTRO I PARTITI
La discussione rischia poi di essere accompagnata per tutto il tempo da attacchi ai partiti. «Dopo aver dimostrato di aver perso il senso del ridicolo, ora i partiti hanno anche perso il senso della dignità», dice Luca Cordero di Montezemolo. «Nonostante questa apparente volontà di riformare il finanziamento ai partiti, non si parla del tema più importante, del vero scandalo, e cioè l’enorme quantità di denaro pubblico che va ai partiti stessi». E ora la Lega fa sapere di voler rinunciare all’ultima tranche di rimborsi elettorali, chiedendo a tutti i partiti di fare altrettanto e dicendo che in ogni caso il Carroccio darà la sua parte in beneficienza. Anche Di Pietro fa sapere che l’Idv girerà la sua quota con un assegno circolare al ministro Fornero affinché provveda alle emergenze sociali, se non verrà approvata una norma che impedisca ai partiti di incassare l’ultima tranche di rimborsi.
I TAGLI GIÀ APPROVATI
Pd, Pdl e Terzo polo hanno concordato una strategia in due tempi, puntando ad approvare le nuove norme sul controllo dei bilanci per poi chiudere sulla riforma del finanziamento pubblico, prevedendo anche una diminuzione degli importi dei rimborsi elettorali. Però tanto il Pd quanto gli altri partiti fanno notare come già siano stati effettuati dei tagli. I rimborsi sono infatti scesi dai 289 milioni del 2010 (4,53 euro per ogni abitante) a 189 milioni nel 2011 e 2012 (2,97 euro per abitante) e scenderanno ancora nei prossimi anni fino ad arrivare a 143 milioni nel 2015.
Ma ora l’urgenza è rendere più severi i controlli sui bilanci e più pesanti le sanzioni per chi non rispetta le regole. Nella proposta di legge a firma Alfano, Bersani, Casini (seguono le firme del capigruppo Pdl Cicchitto, di quello Pd Franceschini, e degli esponenti del Terzo polo Della Vedova, Pisicchio e Galletti) si prevede l’obbligo di pubblicare su web i bilanci, l’anonimato per le donazioni fino a 5 mila euro e il controllo da parte di una commissione formata dai presidenti di Corte dei conti, Cassazione e Consiglio di Stato. Rispetto alla prima bozza, nella proposta di legge depositata c’è una modifica: i presidenti di questi organismi non potranno più delegare la propria funzione ma dovranno assumere in prima persona l’incarico, al più indicando due magistrati delle rispettive magistrature che li potranno affiancare.

il Fatto 14.4.12
“I milioni di luglio ci servono sennò i partiti chiudono”
Misiani, tesoriere del Pd confessa: “Abbiamo speso tutto”
di Wanda Marra

Rinunciare all’ultima tranche dei rimborsi elettorali? Impossibile, i partiti chiuderebbero. Sarà una verità impopolare, ma qualcuno deve dirla”. Antonio Misiani, tesoriere del Pd, bilanci alla mano, rivela un dato sorprendente. Soprattutto se rapportato alle cifre incassate dai partiti negli ultimi anni: 503 milioni di euro solo per le politiche del 2008.
Onorevole Misiani, quanti soldi ha in cassa il Pd?
Abbiamo un disavanzo di 43 milioni di euro.
Quindi siete in rosso? Ma negli ultimi 4 anni avete ricevuto 200 milioni di euro.
I 5 anni di rimborsi elettorali per la legislatura del 2008 li abbiamo messi a bilancio tutti insieme, ma arrivano rateizzati. L’anno scorso ci siamo dovuti far anticipare qualche milione di euro per arrivare a luglio
Se l'ultima rata dei rimborsi non dovesse arrivare il Pd non sopravviverebbe?
Esatto. L’80-90 per cento dei nostri introiti sono i soldi pubblici. E il problema non vale solo per noi. Il Pdl i soldi dei rimborsi delle politiche del 2008 li ha tutti cartolarizzati, ovvero se li è fatti anticipare dalle banche. È notizia risaputa. Tutti i partiti hanno bisogno di quella rata per sopravvivere.
Stiamo parlando di tantissimi soldi, però.
Negli ultimi 4 anni per i rimborsi relativi alle varie elezioni abbiamo incassato 37,4 milioni di euro nel 2008, 46,3 nel 2009, 60,1 nel 2011, 58 nel 2012.
Ma come avete fatto a spenderli tutti ?
Un partito vive sempre, mica solo in campagna elettorale. Quei soldi li usiamo per pagare l’attività politica, il personale. Il nostro bilancio è certificato. E rimborsi per le amministrative li trasferiamo sul territorio. Capisco il tema della corrispondenza tra spese e rimborsi, ma in tutta Europa i rimborsi elettorali vengono calcolati con criteri forfettari.
Dipendete dallo Stato.
Noi abbiamo una quota di autofinanziamento (circa 1500 euro mensili a parlamentare), ma le donazioni da privati sono poche. I cittadini hanno molta poca propensione a donare ai partiti, anche per effetto del logoramento del rapporto con la politica.
Secondo la Gazzetta Ufficiale però nel 2010 i partiti in cassa avevano 205 milioni di euro.
È un dato legato al ciclo finanziario. I bilanci si chiudono a dicembre e a luglio quei soldi non ci sono più. Almeno per i partiti veri che fanno politica.
Qual è la somma che i partiti riceveranno il 31 luglio?
La tranche di luglio è di 180 milioni, perché si sommano – appunto – i rimborsi per le politiche, le europee e le amministrative.
Alfano, Bersani e Casini hanno promesso un rinvio. Ma poi nel testo dell'emendamento, che la proposta di legge recepisce, non ce n'era traccia.
Il rinvio è legato all'entrata in vigore delle norme sulla trasparenza e dei controlli dei bilanci. Si dovrebbe arrivare al 30 settembre.
Ma non è scritto da nessuna parte.
Era implicito nel passaggio in cui si parla del “giudizio di regolarità e conformità a legge” dei rendiconti dei partiti per il 2010 e il 2011. Certo, se poi si va molto per le lunghe, finisce che non ci sarà nessun rinvio.
Dozzo della Lega ha detto che loro rinunceranno. Dai partiti di maggioranza nessuna rinuncia in programma?
Anche Di Pietro ha detto che rinuncerà in favore degli esodati. Se può lo faccia. Noi non possiamo.
Ma anche sulla trasparenza il compromesso non è convincente. Dopo il controllo sui bilanci dei partiti da parte dell’Authority l’ultima parola sulle sanzioni spetterà ai presidenti di Camera e Senato. Il controllato controlla il controllore.
Nelle nostre intenzioni si tratta di una mera ratifica.
Ma si sa che può succedere nelle pieghe delle “mere ratifiche”...
Finirà che con tutte queste polemiche, non si farà neanche questa legge.
Dunque, lei non crede che i finanziamenti siano troppi?
Sicuramente si deve ripensare strutturalmente la questione, e noi faremo una proposta. Ma il taglio ai finanziamenti già c'è stato.
Ma dal ‘93, quando il referendum abolisce i finanziamenti pubblici, i soldi erogati dallo Stato sono cresciuti 10 volte.
È vero che c'è stata un’escalation nei primi anni 2000, con punte massime tra 2008 e 2010, col rimborso doppio dovuto al fatto che i partiti prendevano i soldi anche se la legislatura finiva prima. Cosa cancellata con un decreto legge del 2011. Ma adesso siamo in una fase di effettiva discesa. I partiti prenderanno 180 milioni di euro quest'anno, 165 nel 2013, 163 nel 2014, 153 nel 2015. Come dovrebbe essere a regime.

l’Unità 14.4.12
La proposta
Ecco la trasparenza: un euro a voto e cinque per mille
di Piero Fassino


La politica richiede costi ma è sbagliato arroccarsi nella difesa dell’esistente. È necessario darsi regole e modalità di sostentamento anche scontando una riduzione dei rimborsi

Il finanziamento della politica è uno di quei temi “sensibili” che segna il rapporto tra cittadini, partiti e istituzioni. E in tempi in cui quel rapporto è fragile e critico, le modalità con cui la politica è finanziata diventa un sensore particolarmente significativo.
Per questo credo che i partiti debbano avere la lucidità di sottrarsi alla tentazione di chiudersi a riccio, di arroccarsi in una difesa di sé che avrebbe come unica conseguenza di dare ulteriore fiato all’antipolitica, accrescendo ancora di più la distanza tra partiti e società.
Non è in discussione – almeno per me – la assoluta necessità di garantire alla attività politica risorse pulite e trasparenti per il suo esercizio. Al pari di qualsiasi attività umana anche la politica comporta costi e richiede risorse per pagarli. Ma tanto più in tempi in cui a ogni persona e ad ogni famiglia si chiedono sacrifici non irrilevanti (dall’allungamento dell’età pensionabile alla tassazione sulla casa), i partiti hanno il dovere di darsi regole e modalità di finanziamento sostenibili e compatibili, anche scontando una inevitabile riduzione delle risorse fin qui ottenute.
Per questo mi permetto di avanzare due proposte:
1. Si adotti un sistema di rimborsi elettorali che corrisponda ai partiti una somma pari ad un euro per ogni voto ottenuto.
Una dimensione sobria perché è ragionevole stimare che in una campagna elettorale un partito, o i suoi candidati, spendano almeno un euro per ogni elettore.
I rimborsi, in ogni caso, siano corrisposti solo a fronte di documentazione legale di ogni spesa, sottoposta a verifica da un organo di controllo, evitando così abusi o usi impropri di quel denaro. E il rimborso avvenga in un’unica soluzione entro tre mesi dallo svolgimento delle elezioni, superando l’attuale rateizzazione annuale dei rimborsi che fa perdere obiettivamente alla erogazione la finalità di “rimborso elettorale”.
2. Si introduca, inoltre, la possibilità per ogni cittadino di sottoscrivere volontariamente una quota millesimale – il 5 o 4 per mille – sulla propria denuncia dei redditi o, per chi non è soggetto a denuncia dei redditi, sugli oneri fiscali sulla busta paga.
Ciò permetterebbe ai partiti di disporre di risorse pulite, trasparenti e soprattutto espressione di una libera e volontaria scelta di contribuzione.
Sono proposte semplici che garantirebbero due obiettivi: i partiti disporrebbero di risorse per la propria attività; al tempo stesso l’onere a carico della collettività sarebbe sostenibile, sia perché i rimborsi elettorali avrebbero dimensione accettabile e sia perché la contribuzione volontaria sarebbe una libera scelta di ciascuno.

La Stampa 14.4.12
Castagnetti attacca “I rimborsi ai partiti vanno dimezzati”
L’ex presidente del Ppi: “Provvedimento insufficiente”
di Carlo Bertini


ROMA Pierluigi Castagnetti, ex segretario del Ppi, è stato il primo a presentare in tempi non sospetti, quando c’era il governo Prodi, una proposta di disciplina dell’articolo 49 della Costituzione sulla democrazia dei partiti. E oggi non è soddisfatto della prima risposta che i leader di maggioranza hanno dato a questa esplosione di scandali legati al finanziamento pubblico.
Lei ritiene che vadano drasticamente ridotti i rimborsi elettorali usando la legge Abc sulla trasparenza?
«Certo, è questa la sede appropriata e non c’è tempo per dilazioni. Non va sottovalutato quanto è stato deciso, cioè il controllo esterno dei bilanci dei partiti e le sanzioni a chi non è in regola, che oggi non esistono. Ma non è sufficiente. Oggi c’è un risentimento popolare nei confronti della politica, ma un Paese senza partiti non è sperimentabile. È una tentazione che in Italia c’è stata ancora prima del fascismo e ha coinvolto personalità come Croce e Salvemini: allora era tale la corruzione che si pensava di fare appello alle eccellenze del Paese. Un’illusione che persiste e che va combattuta: una democrazia senza i partiti è una democrazia senza popolo. Credo che i partiti abbiano bisogno di un riconoscimento per questo loro ruolo e quindi di un finanziamento pubblico».
Fatte queste premesse, i rimborsi vanno ridotti e quanto?
«Sì, anzi a mio avviso vanno dimezzati, perché non si può non tenere conto del momento di sacrifici che coinvolgono tutti gli italiani e del clima di estraneità alla politica che sta dilagando. Le vicende di Lusi e della Lega hanno dimostrato che al netto della spese elettorali c’è un residuo sproporzionato delle risorse disponibili per i partiti. Già quando esplose la polemica sugli stipendi dei parlamentari avremmo dovuto prevenire la polemica odierna sui finanziamenti».
Non è il caso di dire apertamente che con i rimborsi i partiti finanziano le loro strutture tutto l’anno e non solo le campagne elettorali?
«Certo, è ora di smascherare questa ipocrisia. Non siamo in America e i partiti non sono comitati elettorali che nascono e muoiono nelle elezioni. Sono strutture che si occupano della formazione dei quadri dirigenti, che organizzano la partecipazione popolare e tutto ciò ha un costo. Fermo restando la necessità del finanziamento pubblico anche per sottrarli ai condizionamenti mai disinteressati delle lobby, è necessario ripristinare il valore della militanza, cioè della gratuità e della contribuzione personale. I rimborsi dimezzati devono bastare per le campagne elettorali, le strutture vanno mantenute con contribuzioni volontarie dirette o mediate tipo il 5x1000».
Lei che ha contribuito a far nascere la Margherita non ritiene doveroso un mea culpa per non aver rinunciato ai fondi pubblici dopo che il partito si era sciolto?
«Dall’anno prossimo i partiti estinti non riceveranno più contributi. Col senno del poi le direi di sì, ma avremmo dovuto sin da subito impegnarci a restituire allo Stato le somme eccedenti la copertura delle spese sostenute. Cosa che doverosamente faremo adesso a giugno».

La Stampa 14.4.12
Lo sfogo di Lusi “Mi accollano tutto”
“Perizia sospetta della Margherita”. E chiede il sequestro dei pc
di Francesco Grignetti


Replica Dopo le rivelazioni dalla perizia degli esperti del partito l’ex tesoriere passa al contrattacco «Di quella consulenza non c’è da fidarsi» Gli avvocati hanno perciò chiesto il sequestro dei computer
Il senatore Luigi Lusi non ci sta. L’ultima ondata di rivelazioni, quelle che campeggiavano sui giornali di ieri, sembrano averlo scosso nel profondo. Non ha digerito quella relazione dei revisori dei conti incaricati dalla Margherita - e prontamente girata alla Procura - che gli addebita, oltre a tutto il resto, anche un esorbitante rimborso chilometrico per viaggi. E invece: no, i viaggi no. Perciò precisa con tono seccato: «Mai salito su una Lancia Thesis. Mai guidato una Lancia Thesis». Se non lui, allora, chi?
Dice anche di più, il senatore Lusi, in uno sfogo di risposta all’offensiva mediatico-giudiziaria di Francesco Rutelli: «Mai chiesto rimborsi chilometrici, mai ottenuto rimborsi chilometrici». E però a questo punto sorge la domanda: se non è stato Lusi a incassare i 69 mila euro per rimborsi chilometrici del gennaio 2008, solo per citare un mese qualsiasi tra quelli citati da chi ha passato al microscopio il bilancio della Margherita, chi ha effettuato questi presunti 47.000 chilometri usando la macchina presidenziale? Una risposta ironica è affidata al suo avvocato Luca Petrucci: «Gli attenti analisti potranno verificare come le autovetture a noleggio, tutte di rappresentanza, siano svariate. Probabilmente il senatore Lusi aveva l’abitudine non solo di compiere migliaia di chilometri, ma evidentemente di cambiare più autovetture nel corso della giornata». Decrittando le parole, pare di capire che tanti nella Margherita avessero in uso auto a noleggio e che però ora tutto ciò viene messo in conto al solo tesoriere.
Quanto alle altre spese pazze che saltano fuori dal bilancio, Lusi non intende sbilanciarsi. Non vuole parlare né dei viaggi, né nell’affitto di un aerotaxi, né del resto. È rimasto scottato dalla sua ultima intervista, ma allo stesso tempo non ci sta a passare per l’unico che ha affondato le mani nella cassa. Affida perciò al suo avvocato un’altra risposta sibillina: «Aspettiamo - dice Petrucci, con tono sempre più ironico che la società di revisione accerti che l’ammanco arrivi ai 220 milioni di euro, per poter attribuire l’intero uso delle risorse all’indagato ed archiviare definitivamente il caso». Si ricordi che 220 milioni è il totale dei fondi che in oltre dieci anni Lusi ha gestito per conto di Francesco Rutelli.
Lusi lascia intendere che di questa consulenza (firmata da Vincenzo Donnamaria, Salvatore Patti e Roberto Montesi) non c’è da fidarsi perché anche le spese effettuate da altri big della Margherita ora vengono accollate a lui. Di sé ripete che gli «tocca il compito di essere massacrato». Ma sospetta manipolazioni. E perciò i suoi difensori ieri hanno ufficialmente chiesto alla procura che vengano sequestrati i computer e l’archivio informatico della Margherita «e ciò al fine di evitare qualsivoglia pericolo di inquinamento probatorio. Potrebbe essere manomesso da “chiunque” e non è difficile conoscere il nome di quel “chiunque”».
Gli avvocati Petrucci e Archidiacono stanno cercando disperatamente di tirare fuori il senatore dai guai. Come prossima mossa, Lusi e famiglia lasceranno le case dello scandalo. I legali annunciano infatti che è stato troncato il contratto di affitto sia per la villa di Genzano («Sarà riconsegnato il 7 luglio prossimo») sia per il lussuoso attico di via Monserrato («Che sarà rilasciato il 4 maggio prossimo»). Entrambi sono stati acquistati distraendo milioni di euro dalle casse del partito defunto. Erano stati i pm Alberto Caperna e Stefano Pesci, esaminando i documenti, a notare che Lusi aveva preso in affitto i due immobili da se stesso con una curiosa partita di giro. Il Lusi proprietario della società Ttt srl aveva affittato al Lusi in carne e ossa i suoi immobili. Risultato: se anche le quote delle due società fossero state consegnate a un custode giudiziario o addirittura restituite alla Margherita, come propone la difesa per rimarcare la presunta natura «fiduciaria» della Ttt, Lusi avrebbe potuto restare ugualmente per anni nel villone ai Castelli romani e nell’appartamento di Roma. Per di più pagando un affitto minimo. A questo punto, però, troncati i contratti di affitto, Petrucci e Archidiacono tornano alla carica: «Siamo assolutamente d’accordo sull’opportunità di restituire ai cittadini tutto quanto posseduto fiduciariamente dal senatore Lusi, tanto che dal 2 aprile è stato chiesto ai tesorieri reggenti della Margherita di indicare il soggetto e le procedure per la cessione di tutte le quote della società che detiene gli immobili».

l’Unità 14.4.12
Chi non vuole l’alternativa
di Alfredo Reichlin


Ci risiamo? Ciò che io mi chiedo è se non stiamo chiudendo gli occhi di fronte ai rischi (o forse solo le tentazioni) di uscire dalla crisi del Paese e dal collasso dei due partiti della destra (l’asse di governo Berlusconi-Bossi) con una avventura antiparlamentare. Molte cose spingono in questa direzione.
Una crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i suicidi e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora, sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali, sta creando una miscela esplosiva. È evidente ed è sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si preoccupa un certo establishment che nuota nell’oro? Mi colpisce molto il fatto che per questa gente e per i loro giornali non va più bene nessuna riforma sul finanziamento pubblico ai partiti. Vogliono altro. Che cosa? Che vuole l’oligarchia, parola troppo vaga di cui mi scuso ma con la quale intendo non tutto ciò che esercita il potere e che continua a garantire l’ordine democratico (compreso, sia ben chiaro, il governo attuale), ma quell’intreccio di cose e di consorterie, compreso il controllo pressoché esclusivo del circuito mediatico? Io ho la spiacevole impressione che la storia italiana e della sua classe dirigente si ripeta. Parlo della storica incapacità di questa di accettare come normale un possibile ricambio democratico a fronte del collasso del suo vecchio strumento di governo. Ciò che è avvenuto in altri passaggi (ricordate l’atteggiamento del vecchio Corriere della Sera di Albertini di fronte alla crisi dello Stato liberale nel primo dopoguerra?).
Al fondo è di questo che si tratta oggi in Italia. Si tratta del crollo impressionante in un mare di vergogna dell’asse di governo Berlusconi-Bossi al quale non i cosiddetti «politici» (noi almeno no) ma l’oligarchia politica-affaristica-mediatica dominante, avevano affidato il compito di governare. Si tratta del mondo «loro», non nostro. No, cari signori, i partiti non sono tutti uguali ed è l’asse politico che ha governato il Paese che ha fatto vergognoso fallimento. No, i partiti non sono tutti uguali. È il partito della destra che ha comprato i deputati necessari alla maggioranza, ha corrotto i giudici, ha dichiarato che pagare le tasse è un furto, ha detto che col tricolore «ci si puliva il culo». Ha imposto alla maggioranza parlamentare di votare solennemente, nell’aula storica di Montecitorio, che la signorina Ruby era effettivamente la nipote di Mubarak. Hanno insomma portato l’Italia sull’orlo del baratro. È vero, perfino il Corriere della Sera ha storto il naso, ma alla fine. Per anni il sostegno fu pieno, certo con il distacco dei grandi professionisti. All’inizio di tutto resta la frase lapidaria con cui l’avv. Agnelli incoraggiò la «scesa in campo» di Berlusconi: «Vada pure, perché se perde perde lui, se vince vinciamo noi». E infatti si sono coperti di soldi. Più del Trota, più delle spese personali di Rosi Mauro. Figurarsi se io non penso che la gente ha ragione di indignarsi. È giusto. Ma c’è qualcosa che non torna. Ed è questa la questione che sollevo.
Perché la sola ipotesi che il partito di Bersani (questo pericoloso sovversivo) possa vincere le prossime elezioni sta creando tanta paura e tanta agitazione in un certo mondo? Mi permetto di ricordare a giornalisti e a persone che pure stimo che il Corriere di Albertini sparò a zero su Giolitti ma, di conseguenza, si beccò Mussolini. Io non chiedo sconti per gli errori e del debolezze del Pd. Chiedo però a un certo mondo in cui, ripeto, ci sono tanti che stimo, qual è oggi, per loro il nemico? I partiti?
Ma quali partiti? La fungaia di partiti e partitini personali che si moltiplicano di giorno in giorno, da Beppe Grillo a De Magistris, trovano simpatia. Allora è il partito che non va, cioè quello strumento reale che bene o male organizza la gente, dà anche ai poveracci una voce e una volontà collettiva, consente che anch’essi possano contare ai massimi livelli della vita statale. È questo che non va? Non va che il Pd sia ormai il solo partito che vive nella società tutti i giorni e tutto l’anno, che vota al suo interno, che ha degli organismi dirigenti e che il suo segretario sta lì, al vertice, ma pro-tempore?
Sottopongo queste mie considerazioni a tutti, anche a uomini come Rodotà e Zagrebelky, a Umberto Eco e Amato, come a Scalfari, Tronti, Claudio Magris, e tanti altri. Cioè a quelli che fanno le opinioni democratiche. Forse io esagero ma non facciamo l’errore di svegliarci troppo tardi. E poi teniamo ben presente il mondo in cui viviamo. Si è rotto un ordine europeo e mondiale. La crisi e al tempo stesso la potenza e la ferocia distruttiva della ricchezza finanziaria senza limiti che sconvolge il mondo, comprese le nude vite delle persone, è impressionante. La mente corre agli anni ’30. L’analogia è evidente. Quella crisi e quel passaggio vide una doppia soluzione: da un lato il compromesso democratico e il grande patto sociale con Roosevelt in America e le socialdemocrazie in Europa; dall’altro la stretta autoritaria, Mussolini, Hitler, la guerra.
La crisi della politica è gravissima, è reale, ma viene da qui. Stiamo attenti alla risposta che diamo.

l’Unità 14.4.12
Vendola, Parisi, Di Pietro contro la bozza Violante: «Torna al proporzionale»


Antonio Di Piero, Nichi Vendola e Arturo Parisi attaccano la proposta di modifica (la cosiddetta bozza Violante) che sta elaborando la maggioranza che sostiene il governo, Pd, Pdl e Terzo Polo. E rilanciano la loro proposta di legge di iniziativa popolare già depositata in Parlamento.
In una conferenza stampa ieri a Montecitorio il leader dell’Italia dei Valori, quello di Sinistra e Libertà e l’ulivista del Pd così definiscono la
bozza: «È un tradimento della volontà espressa da 1 milione e 200mila cittadini che hanno chiesto di eliminare il Porcellum, non di tornare alla Prima Repubblica». I tre sono tra i promotori del referendum bocciato dalla Corte Costituzionale a gennaio.
«Non ci fidiamo di quello che sta facendo questa pseudo-maggioranza», ha detto Di Pietro. Nichi Vendola sostiene che «dovrebbe essere il tempo del coraggio», contro il «trasformismo» e invece è il tempo della furbizia». Che sarebbe, secondo il leader di Sel, disegnare in sartoria una legge elettorale come «un abito Arlecchino, cucito secondo logiche di convenienza di una o dell’altra parte politica». E conclude: «Se va avanti la proposta di riforma della maggioranza vince il partito del Gattopardo».
Arturo Parisi, promotore del comitato referendario, parla di «tradimento» dei cittadini che hanno firmato per il referendum: «Bisogna cambiare il Porcellum senza fare marcia indietro».
Sulle polemiche non intende soffermarsi Pier Luigi Bersani, impegnato nella campagna elettorale in Toscana: «Il processo è avviato e cambieremo la legge elettorale o con Monti o dopo». Dal canto suo Luciano Violante contrattacca e difende la sua proposta: è sbagliato dire «che la proposta ci fa tornare indietro, al proporzionale. Non è cosi». Invece l’impianto ipotizzato per la riforma, spiega l’ex presidente della Camera, punta «a che vi siano governi stabili e di legislatura» evitando «alleanze che sono grandi ammucchiate, che vincono ma non governano».
Stessa linea sostenuta da Gaetano Quagliariello, Pdl: «Per difendere il bipolarismo serve «una competizione fra grandi partiti» con un vincitore identificabile «a cui spetta la formazione del governo del Paese.
Alle critiche dei referendari risponde anche Anna Finocchiaro: «Il sospetto che qualcuno voglia cambiar tutto per non cambiare nulla è forte», per cui il Pd cercherà di far accelerare i tempi in Senato, spiega la capogruppo, per approvare al più presto un’organica riforma istituzionale. Ma «l’urgenza assoluta è la modifica dell’attuale, antidemocratica, legge elettorale. Su questo nessuno cerchi alibi per evitare di farlo».

l’Unità 14.4.12
Il conformismo di Libertà e Giustizia
di Michele Prospero


Non sembra esserci ancora, tra le forze intellettuali e i movimenti della società civile, la piena consapevolezza dei rischi involutivi, davvero spaventosi, che corre la democrazia in Italia. Il comunicato che «Libertà e Giustizia» ha diramato l’altro giorno è un preoccupante segno dei tempi tempestosi che possono travolgere le istituzioni, senza incontrare argini efficaci. Se una delle espressioni più note della cosiddetta società civile
riflessiva non trova di meglio che parlare di un «malloppo» da sottrarre ai partiti, naturalmente tutti dipinti come potenziali ladroni, è meglio non immaginare il livello di altre metafore. E dire che, solo qualche settimana fa, l’associazione si era espressa con ben altri termini (e toni) sui problemi della crisi e della riforma della politica. Ora, al posto della pacatezza dell’analisi, affiora una repentina inversione di marcia che suggerisce di adottare uno sbrigativo linguaggio agitatorio. Il cuore del breve documento di «Libertà e giustizia» è infatti racchiuso nel brano seguente. «Tutti i partiti sono diventati delle scatole che valgono solo per la merce che contengono: i soldi dei cittadini».
Se così parlano autorevoli giornalisti e fini costituzionalisti, figuriamoci quale linguaggio coverà nel ventre più molle del Paese. Se un’antipolitica così radicale accomuna ceti intellettuali e strati marginali, non c’è da stare molto rilassati su ciò che potrebbe accadere tra breve. Lascia davvero molto riflettere che «Libertà e Giustizia» trovi così naturale accodarsi al conformistico clima distruttivo odierno. È più agevole cavalcare
la tigre dell’antipolitica che lavorare (criticamente) al fianco dei partiti più impegnati per un approdo di tipo europeo alla insidiosa transizione in corso. La minacciosa onda dell’antipolitica potrebbe sconvolgere presto ogni cosa. È inutile e ipocrita perciò concludere invocando la mano esperta di uno statista per impedire la frana. Dove pescarli gli statisti se il giochino abituale è quello per cui i partiti sono tutti uguali, complici del malaffare? L’illusione che dal cilindro dei media esca magicamente un politico di riserva, da porre alla testa di una qualche lista civica, non porta molto lontano. Per questo il comunicato ha un qualcosa di tristemente tragico.

La Stampa 14.4.12
Partiti, il nodo da sciogliere
Legge elettorale, ultimatum del Pd
Franceschini: “Riforme entro maggio”. La Lega rinuncia all’ultima tranche del finanziamento pubblico
di Carlo Bertini


Il pressing dei bipolaristi che temono un ritorno alla «prima Repubblica» e il sospetto diffuso che il gioco dei veti incrociati terrà in vita l’odiato Porcellum fanno breccia sui principali contendenti della partita sulle riforme. Al punto da indurre il capogruppo del Pd Dario Franceschini a lanciare un ultimatum che lascia sul terreno una scia di polemiche con il Pdl. Accusato di voler frenare il cambiamento della legge elettorale per incolpare poi tutti dello stallo. Aprendo il convegno annuale della sua corrente AreaDem a Cortona, Franceschini la mette giù senza perifrasi: «Temo che la linea non dichiarata del Pdl sia rallentare tutto per poi far diventare una responsabilità indistinta di tutti i partiti non aver fatto nulla. Il rischio che il percorso delle riforme costituzionali non arrivi in porto è altissimo». E se tutto ciò fotografasse una politica incapace di assolvere il suo compito di riformarsi restituendo ai cittadini il potere di scegliersi gli eletti e con una cura dimagrante dei propri ranghi parlamentari, sarebbe il disastro. Perché non è un mistero per nessuno che «bisogna recuperare credibilità e per farlo bisogna darsi nuove regole», ammette Franceschini toccando il tema caldo del finanziamento dei partiti. «E se non si fa questo e si lascia crescere un sentimento di rabbia non si può pensare che il vuoto della politica non sia colmato da qualcun altro». Il timore è il fiorire di liste civiche nazionali, di «partiti degli onesti», che sconvolgerebbero un quadro politico destinato comunque a scomporsi e ricomporsi dopo il governo Monti. Un timore che deve avere anche la Lega falcidiata dagli scandali, se il capogruppo Dozzo annuncia l’intenzione del Carroccio di rinunciare all’ultima tranche dei rimborsi elettorali, invitando tutti gli altri a fare lo stesso.
Il giorno dopo l’intesa raggiunta sulle riforme costituzionali, il capogruppo del Pd dunque lancia l’allarme, perché «abbiamo preso l’impegno di cambiare le regole e non può finir male. Insomma se entro maggio non saranno approvate in prima lettura al Senato, il rischio è che il percorso delle riforme non vada in porto trascinandosi con sé anche la mancata approvazione della legge elettorale».
E qui scatta l’ultimatum, anche se Franceschini non vuole definirlo tale: primo giro di boa entro maggio delle riforme condivise - riduzione dei parlamentari, più poteri al premier - altrimenti «cambiare schema». Passando subito al solo esame della nuova legge elettorale, varando una norma che assegni al Senato la funzione di Assemblea Costituente per la prossima legislatura. Dopo il fuoco di fila di reazioni indignate, con Cicchitto che attacca questo «processo alle intenzioni» ingiustificato, a dar man forte al suo capogruppo ci pensa Bersani. Confermando che i vertici del Pd nutrono il sospetto di una melina studiata ad arte e che comunque sia «un processo sulle riforme costituzionali è avviato e lo porteremo a termine con Monti o dopo Monti».
Franceschini, d’intesa con Bersani, prova anche ad ammorbidire il fronte dei bipolaristi. Scesi in campo con il tandem Parisi-Di Pietro-Vendola per difendere il referendum tradito dalla bozza di sistema proporzionale messa a punto dalla maggioranza. «Perché un milione e duecentomila cittadini hanno chiesto di eliminare il Porcellum non di tornare alla Prima Repubblica». Allora, il capogruppo Pd tira fuori dal cilindro l’idea di una correzione: assegnando un «premietto» di maggioranza ai primi due partiti - leggi Pd e Pdl - o alle prime due liste apparentate. «Così un partito sceglie se presentarsi da solo o apparentato ad altri e se il consenso non sarà sufficiente in Parlamento si cercherà di allargare la coalizione». Tradotto, il Pd potrà scegliere se presentarsi alleato con Sel e Idv e il Pdl con la Lega, tanto dopo dovranno fare tutti i conti con Casini. "L’ex segretario «Temo che la linea non dichiarata del Pdl sia rallentare tutto» Il timore è un fiorire di liste civiche nazionali, che sconvolgerebbero il quadro politico"

Corriere della Sera 14.4.12
Legge elettorale, lite Pd-Pdl Bersani: forse si farà dopo Monti
di M.Gu.


ROMA — È scontro tra Pd e Pdl sulla legge elettorale. Le parole di Dario Franceschini al convegno di Areadem, a Cortona, hanno fatto infuriare i dirigenti del partito di Berlusconi e Alfano, innescando un aspro botta e risposta su quale delle due forze politiche voglia buttare a mare la trattativa sulla legge elettorale. E Pier Luigi Bersani, da Lucca, ha svelato quel che molti temono. E cioè che i partiti non troveranno l'accordo per cambiare la legge elettorale entro la fine della legislatura: «Se non si conclude sotto Monti, vuol dire che si concluderà dopo...».
Certo, il Pd ce la metterà tutta per cambiare il Porcellum, ma la trattativa è passata da una fase di stallo a un'evidente turbolenza. Ancora Bersani: «Siamo interessati a sbaraccare la legge elettorale. Ce lo faranno fare? Spero di sì... Il processo è avviato». Ma chi mai metterebbe la mano sul fuoco sul fatto che si concluda prima del voto del 2013?
Aprendo la riunione della sua corrente, Franceschini ha spronato il Pd a «vedere le carte dei partiti». Va bene l'accordo appena siglato con Pdl e Terzo polo sulle riforme costituzionali, ma il capogruppo dei democratici alla Camera è a dir poco scettico sulla fattibilità: «È altissimo il rischio che il percorso non arrivi in porto e trascini con sé anche la mancata approvazione di una nuova legge elettorale». Un rischio che il Paese non può correre. Il timore di Franceschini è che «la linea non dichiarata del Pdl sia rallentare tutto per poi far diventare una responsabilità indistinta dei partiti il non aver fatto nulla».
La proposta dell'ex segretario del Pd ha il sapore della sfida. Se entro maggio non verrà approvata in prima lettura la riforma costituzionale al Senato, «per evitare un fallimento totale» il Pd dovrà cambiare schema. E chiedere «di approvare direttamente una nuova legge elettorale, affidando al Senato solo le funzioni di riscrittura della seconda parte della Costituzione». Nel merito della riforma Franceschini condivide l'impianto proporzionale che i tecnici dei partiti stanno dando al nuovo sistema di voto — metà collegi uninominali e metà liste, con sbarramento al 5% — ma raccogliendo la preoccupazione di chi vuole garantire il bipolarismo e costruire le alleanze prima del voto e non dopo, propone un correttivo. Prevedere cioè che il premio di maggioranza vada «non solo alle prime due liste, ma alle prime due liste o coalizioni di liste apparentate». Non un tecnicismo, ma la possibilità di liberare la politica «dalla spinta a coalizioni forzose».

l’Unità 14.4.12
Dimissioni in bianco. La riforma lascia le donne in pericolo


Pubblichiamo la lettera aperta sulle «Dimissioni in bianco» al ministro Elsa Fornero e alle commissioni Lavoro di Camera e Senato scritta dal Comitato 188, dal nome della legge.
Il disegno di legge sul mercato del lavoro dedica un intero articolo, l’articolo 55, alla normativa contro le dimissioni in bianco. Riteniamo questa scelta giusta e frutto anche dell’iniziativa di tante donne,fuori e dentro il Parlamento,che non hanno mai smesso di chiedere e proporre norme capaci di impedire le dimissioni in bianco.
Perché non era e non è possibile rassegnarsi alla pratica barbara di far firmare al momento dell’assunzione una falsa lettera di dimissioni da tirar fuori quando una lavoratrice è in gravidanza,un lavoratore è malato o non desiderato o, molto frequentemente, immigrato o immigrata.
A febbraio, noi del Comitato “188 per la 188” abbiamo incontrato il Ministro Fornero; abbiamo lanciato una giornata di mobilitazione nazionale; abbiamo scritto una lettera al Presidente del Consiglio, ai Presidenti di Camera e Senato, a tutte le parlamentari e i parlamentari; abbiamo raccolto, in un giorno e mezzo, 188 autorevolissime firme di donne di tutti i settori della società italiana ,diverse per esperienze, generazioni,culture politiche.
L’abbiamo fatto per sostenere la necessità intervenire subito in modo da porre fine al ricatto agito sulle persone, non solo al momento dell’assunzione,ma durante tutta la durata di quel rapporto di lavoro su cui pende la spada delle dimissioni conservate in un cassetto. Ormai “dimissioni in bianco “ è un modo di dire entrato nel linguaggio e l’indignazione per l’abuso è entrato nel senso comune. Per questo abbiamo salutato con piacere l’art.55 del disegno di legge e il fatto che Ministro Fornero abbia mantenuto quanto aveva dichiarato in più occasione e per questo lo ringraziamo.
E perciò, senza alcun pregiudizio, vorremmo fare alcune osservazioni e
domande di chiarimento sugli 8 commi che compongono l’articolo 55. A noi la procedura prevista pare complicata. Per le dimissioni volontarie si rimanda ad un meccanismo ancora da definire entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge o in in alternativa ad uno scambio di raccomandate incrociate tra datore di lavoro, persona coinvolta,Direzione territoriale dl lavoro. E ad un meccanismo di convalida differente nel caso della lavoratrice madre. Forse era preferibile individuare un’unica modalità:un modulo numerato e progressivo, senza costi, con il quale dare le dimissioni,utilizzando la tecnologia.
Non è chiaro il senso dell’ ”offrire entro 7 giorni dalla ricevuta della raccomandata le proprie prestazioni al datore di lavoro”come forma di contestazione delle dimissioni”. Non è chiaro perchè si utilizzi sempre la formula “datore di lavoro”.Implica che l’ambito della norma è riferita solo al rapporto di lavoro subordinato?Se fosse così sarebbe un errore. Ma soprattuto non è chiaro il comma 8,laddove si dice che “Salvo che il fatto costituisca reato, il datore di lavoro che abusi del foglio firmato in bianco al fine di simulare le dimissioni o la risoluzione consensuale è punito con la sanzione amministrativa da 5000 a 30.000 euro...».
Non è chiaro quando l’abuso diventa reato: di sicuro la firma in bianco estorta , è un abuso grave . E,come diceva il “documento policy “del Governo ,quell’atto ,quell’abuso, configura un licenziamento discriminatorio ,che semplicemente diventa nullo:questa la giusta sanzione,non la multa.
Il disegno di legge non cita più il licenziamento discriminatorio e cita al contrario la legge 689 del 1981, quella sulla depenalizzazione. Può trattarsi di una dimenticanza o di un sottinteso, la multa può essere una sanzione aggiuntiva:ma il Ministro e le Commissioni parlamentari competenti potranno ben comprendere come si tratti di un punto particolarmente rilevante, che richiede un chiarimento e nel caso un cambiamento.
Il “Comitato 188 firme per la 188”

l’Unità 14.4.12
La teologia cristiana può aiutare la sinistra
In tempo di crisi il tema è come pensare il «Noi sociale» intorno a un futuro condiviso. Il «Noi» è ben più della somma degli individui. E il bene comune è un principio che va affermato anche battendo l’individualismo di gruppo
Serena Noceti, fiorentina, è docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale. È stata allieva di Severino Dianich ed è esperta di «ecclesiologia». Dal 2003 fa parte del Consiglio di presidenza dell’Associazione teologica italiana e oggi ne è vicepresidente.
di Serena Noceti


La domenica prima di Pasqua volontari della Cgil hanno distribuito sul sagrato di centinaia di chiese italiane volantini «contro i licenziamenti facili e per la dignità del lavoro»: un gesto di forte spessore simbolico che si pone come appello ai cristiani e alla Chiesa intera, anche nelle sue strutture istituzionali. In una stagione nella quale la crisi economica e la discussione sulle forme di partecipazione politica mettono impietosamente a nudo una fragilità che è prima di tutto culturale, può venire un contributo a delinea-
re il volto di una visione progressista e «di sinistra» in Europa dalla tradizione cristiana, dal modo in cui essa pone la domanda sull’umano e sulle dinamiche del vivere sociale?
Per rispondere positivamente, un buon punto di partenza è il binomio persona-Noi (sociale), che fa da chiave di volta per il pensiero sociale cristiano. Da tale binomio discendono l’affermazione del valore delle differenze nel processo di determinazione dell’identità personale e sociale, la comprensione del soggetto a partire dalla rete di relazioni in cui è posta l’esistenza, l’attestazione che la società è intrinsecamente necessaria alla realizzazione dell’uomo, il riconoscimento dell’apporto dei singoli a costituire un Noi che è ben più della somma degli individui.
È un binomio che, riconoscendo il valore del singolo, della sua libertà, dei suoi legittimi desideri e aspirazioni, della tutela dei diritti individuali, salvaguarda dalla deriva dei totalitarismi (di natura politica o, più spesso oggi, economica) che sacrificano i singoli alla ragion di Stato; ma al tempo stesso evita forme di «individualismo di gruppo», che antepongono gli interessi di alcuni (classi sociali, comitati, o persino istituzioni religiose) alla dedizione al bene comune, che non è mai un particulare imposto a tutti. È per questo che il principio di sussidiarietà non può essere inteso come principio primo, ma è sempre inseparabile da un principio di solidarietà globale e di assunzione comune di responsabilità per l’insieme. Il documento del Concilio Vaticano II
Gaudium et spes, in particolare, declina il rapporto persona-Noi sociale facendo appello all’orizzonte ultimo della famiglia umana e alle necessità e possibilità implicate da uno scenario mondiale. Anche se la congiuntura odierna è lontana dallo scenario geo-politico ed economico degli anni ’60 del secolo scorso, e quelle visioni ottimistiche possono apparire oggi ingenue e datate, il pensiero sociale cristiano non può non rinviare a quello stesso orizzonte di valore.
Un secondo apporto può venire dalla considerazione della giustizia e della ricerca inesausta della sua realizzazione quale dinamica fondamentale che deve animare, secondo le Scritture ebraico-cristiane, il vivere sociale.
Giustizia nell’accesso ai beni primari e nella regolamentazione delle relazioni economiche, giustizia sul piano giuridico, del riconoscimento dei diritti e dell’esercizio dei doveri. Giustizia infine come modalità di impostare ogni relazione umana (nella sfera dei rapporti primari, delle comunità intermedie, delle forme istituzionalizzate del vivere sociale) nella fedeltà all’altro e insieme al senso del Noi, al pieno sviluppo di ciascuno. Non a caso per la Bibbia la realizzazione della giustizia viene verificata rispetto alla condizione di vita di alcuni gruppi umani: i poveri e gli stranieri.
Lungi dall’essere mero destinatario di un’opera assistenziale di risposta immediata al bisogno (prassi alla quale per troppi secoli la Chiesa si è limitata, mentre tutelava lo status quo e rinviava a un futuro consolatorio dopo la morte), il povero è colui che, drammaticamente, mette sotto gli occhi di tutti i bisogni fondamentali a cui una società realmente umana deve dare risposta. È colui che segnala ciò che è necessario, e che per la sua stessa condizione denuncia quanto sia falsa, fallace e incompleta la realizzazione della società a cui appartiene.
La Bibbia consegna poi un elemento di riflessione critica alle legislazioni attuali quando regolamenta la convivenza civile a partire non esclusivamente dalle esigenze degli abitanti del Paese appartenenti al popolo, ma dalla condizione dello straniero che vi soggiorna e di quello che vi sopraggiunge. Opzione per i poveri e tutela di coloro che nel contesto del tempo venivano considerati i «senza diritti» non sono solo indicazioni per una prassi individuale, ma sono orientamenti su come guardare ai soggetti sociali e su come rispondere alle esigenze di tutti a livello politico.
L’ultimo elemento caratterizzante la via della giustizia così come la intendono i cristiani è la scelta decisa per la nonviolenza. La Bibbia è ben consapevole di quanto siano inevitabili i conflitti e ferite le relazioni umane, ma le parole di Gesù e la sua stessa prassi fino alla croce attestano con chiarezza la nonviolenza come unica forma realmente praticabile con la quale affrontare tensioni e conflitti, se non si vuole negare a se stessi e all’avversario lo spazio di una umanità sempre possibile.
Le Chiese cristiane hanno indubbiamente contraddetto nel corso dei secoli molti di questi principi e la storia dell’Occidente e non solo, ne porta i segni e le ferite: il mancato riconoscimento della libertà di coscienza (a fronte del continuamente riaffermato diritto della verità), la negazione del valore dell’altro e talora la sua soppressione violenta, la giustificazione religiosa dell’intervento armato e la benedizione degli eserciti in armi, la sacralizzazione di forme di potere oppressive e alienanti, i compromessi continui davanti a poteri e ricchezze, mostrano la resistenza che i cristiani stessi hanno opposto a questa visione della giustizia, offuscando così la profezia ecclesiale. La stessa idea di laicità è maturata dall’incapacità di garantire la pace sociale su base religiosa cristiana nelle guerre di religione del XVI-XVII secolo. Ma questi principi fanno parte del dna fondativo dell’esperienza cristiana e indubbiamente costituiscono uno dei contributi determinanti per il delinearsi di quell’antropologia moderna occidentale nella quale ci riconosciamo; come tali rappresentano a un tempo una sfida per la revisione della teologia e dell’agire cristiano, ma anche un apporto specifico che può essere condiviso con quanti, pur mossi da altre motivazioni o da altro sentire, lottano per gli stessi valori umani.
La giustizia ha animato la lotta e alimentato le motivazioni ideali di tanti attraverso i secoli. In un contesto culturale che coniuga secondo l’intuizione di Lyotard crisi delle grandi istituzioni e crisi delle metanarrazioni, la teologia cristiana può in fondo costituire per la sinistra un richiamo a pensare il Noi sociale intorno a un futuro comune; senza indulgere a generici utopismi, senza rassegnarsi a un pragmatismo insensibile al confronto sul possibile «non ancora», l’antropologia cristiana richiama le istituzioni (non ultime quelle ecclesiali) a riformarsi in una logica di giustizia, che verifichi continuamente se stessa su ciò che è individuato come bene comune al di là dei particolarismi, che valuti i passi compiuti sulla base di quanto fatto nella lotta contro ogni impoverimento ed esclusione.

Corriere della Sera 14.4.12
«Osservatore Romano»: la cultura come umanità
di Paolo Foschini


Non solo «divulgazione» ma soprattutto «produzione» di «cultura come esperienza» e come «espressione dell'humanum». Questo, ha sintetizzato il cardinale Angelo Scola citando una celebre definizione di Giovanni Paolo II, il compito che l'«Osservatore Romano» «svolge ogni giorno» sulle sue pagine: «Strumento prezioso — ha sottolineato — del necessario narrarsi e lasciarsi narrare di cui ha inevitabilmente bisogno una società plurale per tendere al massimo riconoscimento reciproco».
È uno dei passaggi dell'incontro a più voci durante il quale ieri, nella Sala Buzzati del «Corriere della Sera», è stato presentato Uno sguardo cattolico (Vita e Pensiero, pp. 270, 16): raccolta di cento editoriali pubblicati dal quotidiano della Santa Sede, fondato nel 1861, negli ultimi quattro anni che poi sono quelli del suo rinnovamento affidato alla direzione di Giovanni Maria Vian.
Ed è stato proprio il tema del «pluralismo», inteso come presenza di diverse prospettive volte a una comune «ricerca di verità», a rappresentare forse il principale filo conduttore della serata. Così, ricordando ad esempio che il primo a introdurre il termine «relativismo» contro il quale sempre mette in guardia Benedetto XVI fu in realtà un economista e sociologo come Max Weber, il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi ha riassunto quello che a suo avviso è l'approccio dell'«Osservatore Romano» al mondo in questa formula: una «ricerca della verità — appunto — non tramite l'arroccamento su posizioni predefinite, per quanto esse siano note, bensì attraverso la continua proposta di interrogativi. «Niente sarebbe più riduttivo — ha sorriso — che considerare "L'Osservatore" come una sorta di "Pravda" del Vaticano».
Del resto, aveva anticipato il presidente della Fondazione Corriere della Sera, Piergaetano Marchetti, per averne conferma basta scorrere i nomi dei collaboratori del quotidiano: «Da Tony Blair al rabbino Riccardo Di Segni, da Gordon Brown a Sergio Chiamparino... Senza dimenticare che anche durante il fascismo "L'Osservatore" è stato per molti, tanto cattolici quanto comunisti, l'unica fonte di conoscenza della realtà delle cose». Una eredità che l'attuale direttore Vian ha rivendicato con fierezza: «Rinnovamento nella continuità».
Ancora Scola, a questo proposito, ha voluto riprendere un articolo che il futuro Paolo VI e allora monsignor Giovanni Battista Montini aveva scritto nel 1946 sulla «impossibilità di restare indifferenti». E questo più che mai nella «società plurale» di oggi: «Se la cultura è espressione dell'umano allora anche la fede è cultura, ma allo stesso tempo la cultura interpreta la fede. Il pregio degli editoriali dell'"Osservatore Romano" e dei temi in essi trattati, dall'internazionalità all'ecumenismo, dal dialogo interreligioso alla bioetica, dalla scienza all'economia, sta proprio nel situarsi dentro la sfida di questo circolo ermeneutico».
Sfida che il direttore del «Corriere» Ferruccio de Bortoli ha invitato a raccogliere sempre: «Uno sguardo cattolico definisce un concetto importante. Ed è importante che non si fermi alle mura del Vaticano».

l’Unità 14.4.12
Vendola, i dubbi sull’indagine
di Giovanni Pellegrino


Una vicenda che deve far riflettere per il modo con cui la magistratura inquirente interviene su fatti che appaiono di dubbia rilevanza penale. Sarebbe utile una autolimitazione delle toghe

Nichi Vendola è indagato dalla Procura di Bari per peculato, falso e abuso di ufficio in concorso con altri, tra cui l’assessore regionale alla sanità Tommaso Fiore. La notizia suscita clamore, ma anche forti perplessità per la specificità della vicenda oggetto di indagine. Un ospedale ecclesiastico ha preteso dalla Regione Puglia il pagamento di circa 150 milioni di euro e si è rivolto al Tar di Bari per ottenere tutela. La Regione ha deliberato di comporre il contenzioso, impegnandosi a versare 45 milioni. Dubbi successivamente sorti sulla copertura finanziaria della spesa hanno indotto la giunta a revocare la deliberazione transattiva. Il Tar ha condannato la Regione al pagamento di 145 milioni di euro e quindi ad oltre il triplo della somma prevista in transazione. La Regione ha appellato al Consiglio di Stato, che ancora non ha definitivamente deciso.
Se questi sono i fatti, limitarsi a invocare la presunzione di innocenza in una generica professione di garantismo è opportuno, ma non sufficiente. La vicenda è tale da indurre a riflessioni ben più approfondite sul modo con cui nel nostro Paese la magistratura inquirente determina l’attivazione di indagini funzionali all’esercizio dell’azione penale, assai spesso con riferimento a fatti, di cui appare da subito estremamente dubbia la rilevanza penale. Pure la situazione di ingolfamento della giustizia italiana è nota; i richiami e le sanzioni, di cui siamo oggetto in sede europea si accrescono di giorno in giorno.
E se per la deflazione dei contenziosi civili e amministrativi appare necessaria la previsione di filtri, che consentano l’approdo alla giustizia togata di un contenzioso opportunamente scremato, il superamento dell’ingolfamento della giustizia penale non può che affidarsi ad un self restraint della magistratura inquirente. Che induca ad utilizzare energie umane appena sufficienti e risorse economiche indubbiamente scarse soltanto per casi, in cui sia ragionevolmente prospettabile la possibilità di pervenire ad un giudicato penale di condanna.
Ciò escluderebbe tra l’altro che la prescrizione venga a coprire, se mai nell’ultimo grado di giudizio, fatti la cui rilevanza penale è stata già accertata con conseguente spreco di energie umane e risorse economiche. L’indirizzo seguito da alcuni uffici di Procura e all’interno di questi da singoli magistrati risulta nell’oggettività della cronaca quotidiana esattamente l’opposto. Il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale fa da scudo al protagonismo del singolo magistrato, giustificando l’attivazione di indagini anche su fatti, di cui è estremamente dubbia la rilevanza penale. L’assessore Fiore ha acutamente osservato che assai spesso per la magistratura inquirente i pubblici amministratori sono in linea di principio delinquenti... sino a prova contraria!
Nel caso infatti non riesce a comprendersi nemmeno se a Vendola si addebiti di aver deliberato la transazione o di averne in seguito disposto la revoca. Parrebbe che alcune delle
ipotesi di reato riguarderebbero la prima fase, altre la seconda. La stampa locale ha dato peraltro notizia di perplessità sollevate sulla apertura della indagine anche da parte di magistrati interni alla Procura barese. Ciò non ha escluso che la indagine sia stata avviata e che se ne sia chiesta una proroga, così rendendone nota la pendenza. La notizia ha avuto sulla stampa nazionale un risalto appena minore di altre, il cui rilievo penale è indubbio, come quelle che stanno riguardando la utilizzazione a fini privatissimi di fondi pubblici di partiti (Lega e Margherita).
Inviti alla magistratura inquirente di autolimitarsi già nelle fasi iniziali della prosecution sono venuti di recente anche da fonti autorevoli, come nell’ultimo libro di Luciano Violante; ma indagini quali quella barese attestano che l’invito non è stato accolto.
Non resta quindi che prospettare una riforma del modulo organizzatorio delle Procure, che limiti fortemente l’iniziativa dei singoli sostituti. Una estensione della competenza delle Direzioni distrettuali e della procura nazionale antimafia anche ai reati contro la pubblica amministrazione potrebbe risultare un primo passo opportuno.

il Fatto 14.4.12
Vendola: “Per qualche pm sono un buon boccone”
di Luca Telese


Vendola, due inchieste in due giorni, sente di aver sbagliato qualcosa?
Al contrario. Sono sereno perché ho operato nel migliore dei modi. Chi ha costruito queste ipotesi accusatorie ha preso un abbaglio.
Quindi sta dicendo che c'è un complotto dei magistrati?
(Sorride) Un punto fermo della mia educazione politica è non gridare mai al complotto. Però non posso che rilevare un paradosso: le due inchieste sollevano dubbi su azioni che ho messo in atto per tutelare gli interessi della Regione e migliorare la qualità della sanità.
Presidente, non è preoccupante che si riaprano continuamente filoni di indagine?
Mi angoscia che ci siano inchieste, ovviamente. Una persona che sa di essere onesta e non ha mai fatto favoritismi soffre due volte. Ma studio le carte e non vedo alcun fondamento. Cosa posso dire per non minimizzare né avvalorare dei sospetti che ritengo ingiusti?
La sanità pugliese è un colabrodo?
Ci sono tante criticità ma anche straordinarie eccellenze. Quando le inchieste hanno rivelato un diffuso malcostume non ho esitato ad azzerare la Giunta.
È accaduto tre anni fa...
Attento! Dopo tre anni, la persona che io ho allontanato, l’ex dirigente Lea Cosentino, è diventata la mia accusatrice. L’abuso d’ufficio di cui parla consisterebbe nell’aver favorito il professor Sardelli, un primario che ha assunto lei e di cui la stessa Cosentino dice: con quei titoli non poteva che vincere lui.
Ma lei ha chiesto di riaprire il bando o no?
Non sono mai intervenuto su singoli casi. Il mio unico interesse era ed è migliorare il servizio sanitario pugliese estendendo le opportunità di ricerca e di eccellenze. Rivendico tutti gli sforzi fatti in questa direzione.
Quindi la riapertura del bando era legittima?
Certo. Fra l’altro nel primo caso erano esaminate due persone. Nel secondo ne sono state vagliate sei! E a detta di tutti Sardelli vantava un curriculum stellare. E poi era già primario, a Foggia. Ha lasciato un reparto che esisteva per andare a inventarne uno che non c’era.
Magari più prestigioso?
Lei non ha capito. Ha preso in mano un rudere. Ha speso pochissimo per attrezzarlo. Con poco più di 500 mila euro ha costruito un gioiello. IlCorriere della Sera ha scritto, prima di queste inchieste: “È uno dei tre migliori reparti di chirurgia toracica d’Italia”.
Però Sardelli potrebbe essere bravissimo ma anche essere stato favorito...
Conoscevo Sardelli? No, Conoscevo solo il suo curriculum. L’ho forse favorito perché apparteneva al mio schieramento? Macché, era vicino al centrodestra. Io ho chiesto di far concorrere un medico che tutti reputano un’eccellenza.
Però lei e Sardelli vi siete sentiti anche dopo la nomina.
Oh certo! Perché durante la costruzione del reparto mancavano i bidet o le zanzariere. Mi ha chiamato per lamentarsene.
E lei che ha fatto?
Visto che aveva ragione, mi sono attaccato al telefono perché queste cose arrivassero. Lo ritengo un mio dovere, l’ho fatto altre centomila volte.
È suo compito?
Secondo me sì: creare le condizioni per scegliere il meglio e fare in modo che le eccellenze abbiano gli strumenti per lavorare. E se qualcosa nell’ingranaggio si inceppa, fare di tutto, entro i confini della legalità, per rimettere in moto la macchina.
Parliamo delle altre accuse, quelle sull’ospedale Miulli. I capi di imputazione fanno tremare i polsi: “Falso e peculato”. Sempre sereno?
Sì, e per due motivi. L’accusa è aver favorito il Miulli nella sua richiesta di risarcimento per 45 milioni di euro alla Regione. Magari, se fosse così almeno sarebbe chiaro, anche se del tutto illogico. La verità è che abbiamo letto dieci volte quel testo e non si capisce. C’è addirittura un passaggio in cui la pm dice che dovrebbe esserci un supplemento di indagine dopo che il Consiglio di Stato si sarà pronunciato. È il primo caso di reato eventuale che mi capita.
E il falso?
Leggo nella scarna paginetta dell’informazione giudiziaria che il falso sarebbe una delibera preparata dalla Giunta per chiudere la vertenza con l’ente religioso che gestisce l’ospedale.
E si sente di difenderla?
Il paradosso è che noi cercavamo di chiudere al meglio un contenzioso nato prima della mia Giunta. Avevamo ipotizzato una delibera per la transazione, ma l’abbiamo revocata in autotutela. lnsomma quella delibera non ha avuto nessun effetto. In seguito alla revoca della delibera si è aperto il contenzioso oggi al Consiglio di Stato.
Resta l’accusa di peculato.
Aver favorito proprio quell’ente religioso...
E posso dire che questo è un controsenso. Ma come? Leggo sui giornali che sarei indagato “insieme” al vescovo di Acquaviva Mario Paciello. Titola, ad esempio, il Corriere: “Vendola ha favorito la clinica della Chiesa”.
Cosa sta cercando di dire?
Che il vescovo è la mia controparte! Siamo accusati di aver favorito quelli con cui siamo andati in contenzioso.
Per la pm potrebbe essere un sofisticato meccanismo amministrativo.
Quindi la Regione avrebbe scelto di andare in contenzioso nella speranza di perdere e di favorire in questo modo l’ospedale con il risarcimento che otterrebbe? Suvvia, non ha senso!
Allora lei vuole dire che la pm la sta perseguitando? È un’accusa molto seria.
Veramente io non ho nessuna certezza, ma qualche dubbio legittimo che va chiarito.
E cioè?
Ho letto sui quotidiani locali pugliesi resoconti stenografi su liti che si sono svolte tra magistrati nel 2010. I motivi del diverbio riguardavano il che cosa fare nei miei confronti, proprio sul caso dell’ospedale Miulli.
E se anche fosse?
Peccato che invece scopro di essere indagato da solo sei mesi!
Vuole dire che la stanno mettendo sotto inchiesta a rate?
Dico solo che ho chiesto al vicepresidente del Csm, Michele Vietti, di accedere agli atti della sezione disciplinare del Csm. In quegli atti si parla di quelle liti tra magistrati relativamente a cosa fare nei miei confronti. Sono sempre gli stessi accusatori e gli stessi addebiti. Per l’inchiesta di tre anni fa sono stato prosciolto da ogni accusa, il che mi fa sperare di esserlo ancora. Evidentemente, però, sono un buon boccone, una preda appetibile. Forse anche un buon bersaglio.
Quindi il complotto c’è?
Il contrario: c’è qualcuno che mi voleva processare, partendo dai presupposti fragili che abbiamo detto, ma che, evidentemente, non ha convinto nemmeno i suoi colleghi.

Repubblica 14.4.12
Stupro di Montalto, via al processo e il paese difende ancora il branco
di Federica Angeli


MONTALTO DI CASTRO (Viterbo) - Lei in aula non c'era. Ad ascoltare per la prima volta davanti a un giudice il dramma che ha cambiato la vita di una ragazza di quindici anni c'era la madre, gli occhi accecati dal dolore, le mani chiuse sullo stomaco. «Non dovrei dirlo, lo so, ma auguro la morte a quei ragazzi».
Dopo quattro rinvii per legittimo impedimento, ieri mattina, è cominciato il processo contro gli otto giovani di Montalto di Castro accusati di aver stuprato, a turno e per tre ore, la notte del 31 marzo del 2007, una studentessa.
L'udienza è iniziata alle nove e trenta del mattino: prima testimone, la sorella gemella della vittima. È stata lei a raccogliere, per prima, il racconto della sorella, rientrata a casa, a Tarquinia, dopo quella notte di follia. «Mia sorella da quel giorno è diventata un'altra. Era la migliore della classe e non ne ha più voluto sapere di andare a scuola - ha raccontato al magistrato la ragazza - rideva sempre e ora è scattosa, nervosa, irascibile. Quella notte ha cambiato la sua vita, quando mi ha raccontato cosa le avevano fatto non ho saputo aiutarla a dovere, ero giovane. Ma lei era sconvolta e, dopo averla ascoltata, io lo ero più di lei».
«Non c'è pace senza giustizia», recita uno striscione nero srotolato da un presidio dell'Unione donne italiane davanti al Tribunale dei Minori di Roma mentre, in aula, sfilano uno dopo l'altro i testimoni dell'accusa: il fratello della vittima, il medico di base della famiglia, il preside della scuola frequentata allora dalla ragazza, uno psicologo della Asl che l'ha avuta in cura per mesi.
Ma la giustiziae la pace, in questa terribile vicenda accaduta cinque anni fa nella pineta che costeggia il litorale di Montalto di Castro, al termine di una festa di compleanno, sembrano essere rimaste appese a un tempo mai trascorso. Tutto è ancora fermo a quella maledetta notte del 2007 e ai giorni che seguirono, e che furono un rincorrersi di veleni, accuse e maldicenze. «È tutta colpa della ragazza, lei c'è stata», dicevano cinque anni fa nel paesotto dell'alto Lazio, tra la Tuscia e la Toscana. E ieri Montalto di Castro, mentre al tribunale di Roma si ripercorrevano le tappe della violenza del branco, era ancora trincerato dietro la strenua difesa dei suoi otto compaesani. «Le dico che quella ragazza c'è stata - si scalda un anziano seduto a un tavolino del "Bar del Corso"- era una poco di buono, l'aveva già fatto con un altro gruppo di ragazzi a Tarquinia. Li ha sedotti e quelli poverini a sedici anni avevano gli ormoni a mille».
In quel paese di settemila anime, giovani, donne, anziani, la pensano ancora tutti, o quasi, così. «Se è vero quello che è accaduto, è sicuramente una cosa deplorevole - dice Daniela Iezza, barista - ma certo è che se sei invitato, a quell'età, a un banchetto del genere, è chiaro che partecipi. Perché quei ragazzi avrebbero dovuto sottrarsi? ». Un banchetto? «Beh, se quella ragazza, come ho sentito da alcuni filmati su Canale 5, li invitava uno dopo l'altro ad andare con lei.... credo sia difficile a quindici anni dire di no». «Lo volete capire o no che sono ragazzi e che hanno fatto una bravata? - interviene Riccardo Mencaroni, titolare di una pizzeria - Io loro li conosco bene, lei no. Perché dovrei credere a lei? ».
Ecco: i rancori, i giudizi spietati, i pregiudizi sono ancora tutti lì, congelati per cinque anni e, riaperti ieri, sono tornati vivi, accesi, partecipati come se fosse trascorsa appena una settimana.
«Io penso che la lentezza della giustizia - sentenzia Giorgio Sorci- in questo caso abbia avuto una grossa responsabilità: allungare i tempi ha comportato un inasprimento delle proprie posizioni. E il processo è già fatto.
Quegli otto ragazzi hanno un marchio appiccicato così come lo ha la ragazza e, senza una sentenza del tribunale, non se ne esce». Come a dire che la sentenza è già stata scritta e quello che deciderà la magistratura non inciderà sull'esito del processo.
«Se avessi saputo tutto questo, se avessi minimamente sospettato di subire un giudizio così duro, lo giuro, non avrei mai denunciato quanto ho subito», confida la giovane vittima, all'ex consigliere di Parità alla Provincia di Viterbo Daniela Bizzarri che le è stata accanto in tutti questi anni. Ma, accanto alla rassegnazione, una debole speranza si è riaccesa con l'inizio di un processo cominciato troppo tardi.
Ad allungare i tempi del giudizio ha contribuito anche la "messa in prova" concessa agli otto giovani: un beneficio che, se avesse avuto esito positivo, avrebbe portato all'estinzione del reato.
Ma fu revocato perché la solidarietà espressa pubblicamente nei loro confronti fece ritenere ai giudici che nel paese non ci fossero le condizioni necessarie al loro ravvedimento.

l’Unità 14.4.12
Ma si può criticare governo e Stato di Israele?
di Moni Ovadia


La querelle che contrappone lo scrittore tedesco Guenter Grass, Premio Nobel per la letteratura e il governo israeliano continua. Dopo che il poemetto dello scandalo "quel che deve essere detto" ha provocato la rappresaglia del ministro degli Interni di Israele nei confronti di Grass interdetto dai confini nel Paese come persona non grata, lo scrittore, amareggiato ma per nulla intimorito, ha risposto al bando per le rime dicendo che un simile trattamento gli era già stato già riservato ma solo da regimi dittatoriali come la Ddr e la Birmania, lasciando intendere che il governo dello Stato di Israele ha comportamenti degni di sistemi totalitari.
Ora, a margine di questa vicenda c'è una domanda che mi sembra utile porre.
Il governo di Israele e lo Stato che rappresenta possono essere criticati come qualsiasi altro governo e Stato? Devono anch'essi sottostare a tutte le convenzioni internazionali incluse quelle sugli armamenti atomici? Devono rispettare come tutti le risoluzioni dell'Onu? I critici severi delle politiche del governo Nethanyahu-Lieberman possono esprimere le loro opinioni senza essere dichiarati dei criminali antisemiti?
Ebbene secondo l'attuale esecutivo israeliano, secondo la maggioranza della coalizione che lo sostiene, secondo molti esponenti delle comunità ebraiche della diaspora e secondo gli ultras filosionisti "laici" la risposta è no e poi no! Mai! In nessun caso!
Questa anomalia, giustificata con ragioni del credo sicuritario che non accetta il confronto con le opinioni, soprattutto quelle dure e sgradevoli, è un problema. Non per i critici, per il futuro della democrazia israeliana.

Corriere della Sera 14.4.12
La difficile scelta di Israele
Israele e le minacce dell'Iran I troppi imprevisti della scelta nucleare
di Arrigo Levi


È probabile un attacco nucleare iraniano a Israele? O dobbiamo invece aspettarci un attacco preventivo di Israele all'Iran?
Il mondo intero se lo domanda.
Quanto è probabile un attacco nucleare iraniano a Israele per «eliminare dalla faccia della terra» lo Stato ebraico? O dobbiamo invece aspettarci un attacco preventivo di Israele all'Iran? E quanto è reale il pericolo che l'uno o l'altro di questi possibili eventi coinvolga tutto il Medio Oriente, o addirittura provochi un più vasto conflitto?
Il mondo intero si sta ponendo con grande senso d'urgenza questi interrogativi. Ed è giusto porseli alla vigilia della ripresa a Istanbul questo weekend, dopo una pausa di 15 mesi, dei negoziati con l'Iran dei cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania: il cui obiettivo minimo è di rinviare la possibile acquisizione da parte dell'Iran di un «potenziale nucleare», e di ottenere che cessi l'accumulazione di uranio arricchito nell'impianto sotterraneo di Fordo, situato presso la città santa di Qom. Saeed Jalili, responsabile per Teheran dei negoziati nucleari, ha annunciato che presenterà «nuove iniziative» e ha affermato che «è la strategia del dialogo e della cooperazione che può avere successo con l'Iran». Le dure sanzioni economiche, le apparenti contraddizioni sulle reali intenzioni dell'Iran, a partire dalla Guida suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei, (che definisce «contrario all'Islam» il possesso di armi nucleari, ma difende duramente i programmi nucleari iraniani), fanno sì che da parte occidentale vi sia, accanto a un ragionato scetticismo, anche qualche speranza sull'esito di questi negoziati.
Ma prevale anche un grande senso d'urgenza, per i segnali che vengono da Gerusalemme, che fanno ritenere «possibile» un'azione militare d'Israele prima dell'autunno. Netanyahu chiede che l'Iran ponga fine all'arricchimento dell'uranio, sia al 20% (subito sotto la soglia del bomb grade) che al 3%; che tutto il materiale nucleare già arricchito sia portato fuori dall'Iran; che l'impianto di Fordo sia smantellato. Le affermazioni iraniane che i loro piani nucleari «hanno soltanto scopi pacifici» non godono di molto credito. Certo non ci crede Israele: non soltanto il governo di Netanyahu ma la grande maggioranza dell'opinione pubblica israeliana.
Sullo sfondo di questa grave crisi ci si trova di fronte a un interrogativo, che riguarda la minaccia iraniana ma ha una più vasta portata, ed è questo: fino a che punto la teoria della Mutual assured destruction (o Mad, «Distruzione Reciproca Assicurata»), sulla quale si è basata la pace nucleare fra le superpotenze, rimane valida, in vista del possibile possesso di armi nucleari da parte di nuovi Paesi, a cominciare dall'Iran (a cui certo seguirebbero altri Stati della regione)? Kissinger ha profetizzato che «quando ci saranno venti potenze nucleari un conflitto atomico sarà certo». Da questo numero siamo ancora abbastanza lontani; e la corsa al nucleare sembrava interrotta. Ma l'arma nucleare iraniana potrebbe rompere l'incantesimo.
E ancora: Israele possiede armi nucleari, in parte presumibilmente collocate su sottomarini o comunque indistruttibili. Ma ciò può funzionare da deterrente, nel caso della minaccia iraniana? Un «primo colpo» contro un Paese così piccolo potrebbe bastare (nelle speranze di un ipotetico aggressore) per metterlo fuori combattimento o distruggerlo? E poi, perché non immaginare che una o più bombe atomiche vengano cedute a gruppi terroristici, come Al Qaeda, prive di territorio, non esposte quindi a Mad?
Attenzione, perché queste non sono ipotesi fantascientifiche. Sono gli interrogativi che debbono necessariamente porsi i responsabili della sicurezza, anzi della sopravvivenza, di uno Stato del quale si minaccia l'annientamento. Quale è appunto Israele. Istintivamente, la lunga esperienza fatta con Mad induce a pensare che la minaccia di rappresaglia nucleare basti per rendere inimmaginabile un attacco nucleare contro un Paese nucleare. Ma la storia è piena di imprevisti, di sorprese, di svolte irrazionali. Ecco perché, di fronte al pericolo dell'arma nucleare iraniana, Israele si trova di fronte a scelte terribili.

Repubblica 14.4.12
Flottiglia, Lufthansa annulla i biglietti degli attivisti filo-palestinesi


TEL AVIV - Lufthansa ha cancellato i biglietti aerei di decine di attivisti filo-palestinesi intenzionati ad arrivare a Tel Aviv per la protesta anti-israeliana prevista domenica in Cisgiordania e ribattezzata "flyttilla". La cancellazione è avvenuta dopo che la compagnia ha ricevuto dalle autorità israeliane la lista dei passeggeri a cui non sarebbe stato consentito l'ingresso nel Paese. Anche la società di voli low cost EasyJet ha ricevuto una simile lista.

il Fatto 14.4.12
Videla e la “strage necessaria” dei desapareciidos
Il leader della dittatura per la prima volta ammette: “7-8mila morti nascosti al mondo”


Finora, si era sempre limitato a una strenua difesa della “necessaria crudeltà” con la quale i militari avevano condotto la loro “giusta guerra” contro la “sovversione”. Ma ora, a 86 anni compiuti, e con due condanne all’ergastolo, il generale Jorge Rafael Videla va ancora più in là e riconosce per la prima volta che la dittatura assassinò “sette o ottomila persone” (una cifra comunque molto lontana dai 30 mila desaparecidos ipotizza-ti dal rapporto Nunca Mas della commissione presieduta dallo scrittore Ernesto Sábato). I loro corpi, spiega l’“Hitler della Pampa”, vennero fatti sparire “per non provocare proteste dentro e fuori del paese”. Parole agghiaccianti che tornano a far sanguinare una ferita mai rimarginata, a quasi trent’anni dal ritorno dell’Argentina alla democrazia. Le ha raccolte il giornalista Ceferino Reato, editore della rivista Fortuna (in passato addetto stampa dell’ambasciata argentina presso la Santa Sede, poi all’agenzia Ansa di Buenos Aires) in una lunghissima intervista – 20 ore di registrazione – contenuta nel libro Disposición final, edito da Random House Mondadori, che esce oggi in Argentina.
“NON C’ERA altra soluzione; eravamo d’accordo sul fatto che era il prezzo da pagare per vincere la guerra contro la sovversione e avevamo bisogno che non fosse evidente, perché la società non se ne rendesse conto – ragiona con freddezza il capo della giunta militare che nel marzo del 1976 rovesciò il governo costituzionale di Isabelita Perón – Bisognava eliminare un insieme di persone che non potevano essere portate davanti alla giustizia e nemmeno fucilate”. Per Videla, intervistato fra il mese di ottobre 2011 e il marzo scorso nel carcere miliare di Campo de Mayo, a Buenos Aires, “ogni scomparsa di una persona può essere intesa certamente come l’occultamento, o la dissimulazione, di una morte”. Tra i casi di desaparecidos, l’ex tiranno ricorda quello del leader dell’Ejercito revolucionario del pueblo (Erp), Mario Santucho: era “una persona che generava aspettative”, e il ritrovamento del suo corpo “avrebbe dato luogo a omaggi, a celebrazioni”. I militanti dell’Erp erano i peggiori nemici del regime, “per la loro preparazione militare e ideologica”. Videla mostra più odio nei loro confronti che verso i montoneros, che invece “conservavano qualcosa del nazionalismo, del cattolicesimo, del peronismo con il quale erano nati”.
NON MANCA, nel discorso del generale, un po’ di ideologia della repressione: “Il nostro obiettivo era disciplinare una società anarchizzata. Rispetto al peronismo, uscire da una visione populistica, demagogica. Per quanto riguarda l’economia, andare verso un’economia di mercato, liberale. Volevamo anche disciplinare il sindacalismo e il capitalismo delle prebende”. Insomma, pillole di “saggezza” totalitaria, a cui Videla aggiunge il termine che dà il titolo al libro-intervista di Reato: “La frase “soluzione finale” non venne mai usata. “Disposición final” fu il concetto più utilizzato: sono due parole molto militari e significano eliminare qualcosa perché inservibile. Quando, ad esempio, si parla di un capo di abbigliamento che non si usa più perché è consumato, passa a disposizione finale”. Ecco, migliaia di persone “buttate via”, perché “non servivano più”. Di fronte al cinismo di un linguaggio come questo, Hebe de Bonafini, presidente delle Madres de Plaza de Mayo, emblema della lotta della giustizia dei familiari dei desaparecidos, inorridisce e preferisce tacere: “Non è mai stata nostra intenzione polemizzare con gli assassini, non cominceremo ora”. (A. O.)

La Stampa 14.4.12
Stati Uniti. La causa degli Indiani
Stavolta vincono i pellerossa Risarcimenti per un miliardo
Il governo riconosce di averli sfruttati nelle riserve. Obama: promessa mantenuta
di Maurizio Molinari


4 milioni di nativi Gli indiani d’America sono suddivisi in tribù. I più numerosi sono i Cherokee ( 310 mila). Seguono i Navajo (294 mila) i Sioux (120 mila) e gli Ojibwe (115 mila) 14 anni di lotta L’accordo di transazione, raggiunto nel dicembre 2009 dopo 14 anni di battaglie legali tra le corti del Montana e quelle federali, è stato trasformato in legge da Obama alla fine del 2010 22,6 milioni di ettari Tante sono le terre appartenenti alle tribù pellerossa gestite e sfruttate dal governo di Washington senza tener sufficientemente conto dei diritti dei legittimi proprietari
Nella sede del Dipartimento di Giustizia di Washington sono il ministro Eric Holder assieme a Ken Salazar, titolare degli Interni, ad annunciare davanti ai rappresentanti delle tribù degli indiani nativi del Nordamerica la fine di un secolo di diatribe legali e 22 mesi di serrati negoziati grazie al passo indietro deciso dall’amministrazione democratica. «L’intento del governo è la giusta composizione dei contenziosi pendenti e la risoluzione onorevole delle storiche rimostranze sulla gestione dei fondi tribali indiani, le terre e altre risorse non monetarie che per troppo tempo sono state oggetto di conflitti fra le tribù indiane e gli Stati Uniti», afferma Holder, leggendo un testochesibasasullavolontà di «consentire alle tribù indiane di perseguire i propri obiettivi nel comune futuro nazionale».
In concreto ciò significa ammettere che negli ultimi cento anni 22,6 milioni di ettari di terre appartenenti alle tribù pellerossa sono stati gestiti e sfruttati dal governo di Washington senza tener sufficientemente conto dei diritti dei legittimi proprietari. Tali «fondi» vennero creati al termine delle guerre con cui le truppe federali piegarono e sconfissero gli abitanti originari del Nordamerica, impegnandosi a gestirli per farne condividere i frutti economici alle nuove generazioni di indiani nativi oramai divenuti cittadini degli Stati Uniti. Ma tale promessa è stata sistematicamente mancata, violata e ignorata da molteplici inquilini della Casa Bianca. Il risultato è stato che gli oltre 100 mila accordi siglati fra Washington e le tribù hanno portato a sfruttare terreni e risorse per progetti immobiliari, agricoli, commerciali, di coltivazione del legame e dell’olio come dell’estrazione del petrolio che molto spesso hanno finito per ignorare i diritti legali dei proprietari originari. Per avere un’idea delle dimensioni di tali accordi basti pensare che il ministero degli Interni gestisce circa 2500 trust di proprietà di 250 tribù i cui territori si estendono sull’intera nazione.
Barack Obama aveva promesso di sanare questa ferita nazionale durante la campagna elettorale del 2008, individuandovi la genesi delle piaghe sociali che ancora oggi affliggono circa 4 milioni indiani nativi: disoccupazione, povertà, alcolismo, scarsa alfabetizzazione e traffici illegali. La tesi del presidente, evidenziata nel discorso pronunciato lo scorso 2 dicembre alla Tribal National Conference riunita alla Casa Bianca, è che il mancato godimento dei diritti economici ha condannato gli indiani americani a difficoltà economiche e sociali di cui adesso il governo federale deve farsi carico al fine di sanare piaghe come gli indici record di abbandono delle scuole. Per questi motivi sin dall’indomani dell’insediamento alla Casa Bianca, Obama compie passi a ripetizione: all’inizio del 2009 decide di aprire i negoziati sui risarcimenti, nel 2010 spinge il ministero dell’Agricoltura a versare 760 milioni di risarcimenti agli agricoltori e firma il Claims Resolution Act - 3,4 miliardi di dollari per 300 mila indiani nativi -, nel 2011 versa 380 milioni di dollari rivendicati dalla Nazione Osage e quindi accelera le trattative che si concludono ora e sono, per il numero di tribù interessate, le più vaste finora condotte sul tema delle compensazioni governative.
A ringraziare l’amministrazione è stato Gary Hayes, presidente della tribù della Montagna Ute, parlando di «semi gettati per segnare un nuovo momento di inizio, che si distingue per la giusta riconciliazione, la migliore comunicazione e una cooperazione più forte» rispetto a quanto avvenuto nel secolo trascorso da quando nello Studio Ovale sedeva Teodoro Roosevelt. L’emozione fra i capi tribù è stata palpabile. «Obama non ha firmato trattati ma ha risolto i problemi, la sua parola si è rivelata d’oro», ha commentato il capo indiano James Allan, riconoscendo al presidente di«aver fatto di più per noi dei suoi ultimi cinque predecessori messi assieme».
L’accordo è stato possibile grazie alla decisione della Casa Bianca di prelevare il miliardo di dollari dal fondo governativo per il pagamento delle cause legali, evitando il passaggio al Congresso che avrebbe allungato i tempi se non addirittura portato a una bocciatura del testo. I leader repubblicani infatti ritengono che dietro lo slancio di Obama verso le tribù vi siano motivi assai prosaici, ovvero garantirsi il loro massiccio sostegno in Stati in bilico come New Mexico, Nevada e Colorado che potrebbero rivelarsi decisivi nella battaglia per la rielezione contro Mitt Romney. Se comunque Obama dovesse rimanere alla Casa Bianca, le stesse tribù che gli sono adesso grate potrebbero trasformarsi in una spina nel fianco perché fra le loro nuove battaglie c’è l’opposizione all’oleodotto Oklahoma-Golfo del Messico a cui la presidenza lega la possibilità di ridurre la dipendenza dalle importazioni di greggio. Il motivo è che per i Sac e i Fox il tracciato passa sui cimiteri degli antenati.

La Stampa 14.4.12
Per la Cina la crescita è l’ultima delle tre grandi preoccupazioni
di John Foley


L’attuale condizione della Cina non può essere riassunta in pochi decimi di punto percentuale. È vero, sulla base dei titoli di prima pagina la crescita del Pil dell’8,1% nel primo trimestre del 2012 è stata un insuccesso. Gli economisti intervistati da Reuters avevano previsto un aumento dell’8,3%. Gli investitori non dovrebbero pensarci troppo: la crescita è l’ultima delle tre grandi preoccupazioni della Cina. Il rallentamento è reale, ma ben controllato. Il premier Wen Jiabao ha fissato un obiettivo del 7,5% di crescita del Pil per il 2012, rispetto all’aumento del 9,2% realizzato l’anno scorso. In ogni caso, l’attuale previsione non è certo modesta e potrebbe migliorare. Imporre alle banche di aumentare i prestiti è una misura già adottata: a marzo i prestiti hanno raggiunto 1 trilione di yuan. Ci sono segnali che le cose stanno già migliorando - come il graduale aumento della produzione elettrica a marzo, spesso considerata come una misura “più affidabile” di crescita rispetto al Pil.
Se gli investitori vogliono preoccuparsi per qualcosa, dovrebbero cominciare dalla politica. La misteriosa espulsione del leader di partito di Chongqinq, Bo Xilai, e l’arresto di sua moglie con l’accusa di omicidio, segnala un aumento del premioperilrischiopolitico,poichélaCinasiavvicinaalcambiodi leadership del 2013. Non ci sono segnali di un crollo politico ma una maggiore inquietudine ai vertici potrebbe rallentare le grandi riforme, come l’apertura dei settori d’investimento soggetti a restrizioni oppure la liberalizzazione dei tassi di interesse. Gli investitori preoccupati dovrebbero anche non perdere di vista il sistema finanziario. Come per il Pil, i numeri ingannano. Nel 2011, le banche cinesi hanno dichiarato prestiti in sofferenza di poco superiori all’1% dei loro libri contabili totali. Ma questo è insostenibile, anche se accurato. Il sistema bancario è basato su distorsioni che incoraggiano un’errata allocazione del capitale, con l’attività creditizia guidata più dalla politica che da considerazioni di rischio e rendimento.

Repubblica 14.4.12
Darnton, storico di Harvard, e il suo saggio sulla fortuna dell'opera di Diderot e d'Alembert presso i contemporanei
Illuminismo per tutti
Perché l’Enciclopedia fu il bestseller del '700"
di Benedetta Craveri


Ritorna in libreria Il Grande Affare dei Lumi (Adelphi), la grande inchiesta sulla Storia editoriale dell'Encylopédie 1775-1800, apparsa nel 1979 presso la Harvard University Press, che ha dato fama internazionale a Robert Darnton insegnandoci a guardare la Francia del Settecento con occhi nuovi. Lo storico americano vi realizza l'ambizione di una storia "totale", scegliendo come campo d'indagine l'opera simbolo del XVIII secolo, l' Encylopédie di Diderot e d'Alembert e studiandola come "oggetto fisico e veicolo delle idee", come "anima e corpo" dell'Illuminismo. A fare del celebre Dictionnaire raisonné des sciences, des art set des métiers - i cui 17 volumi si susseguirono tra il 1751 e il 1766 - "una delle grandi vittorie dello spirito umano e della carta stampata" non furono solo i grandi intellettuali dei Lumi e l'editore Lebreton, ma una miriade di personaggi secondari e per lo più sconosciuti di cui Darnton ha saputo ricostruire psicologia e comportamenti con una straordinaria verve di ritrattista. Nell'affrontare un campo di ricerca vasto e complesso come quello dell' Encylopédie, Darnton si è avvalso di due atout formidabili: una fonte settecentesca eccezionale - gli archivi di una società tipografica svizzera specializzata in edizioni pirata di libri francesi - e un autentico talento narrativo che conquista immediatamente il lettore.
Professor Darnton, studiando l' Encyclopédie come manufatto librario e come veicolo delle idee, lei prende le distanze dalla storiografia a dominante politica. «L' Encyclopédie viene spesso definita come la "bibbia" dell'Illuminismo, tuttavia per me la sua storia è anche quella di un'autentica "comédie humaine". Nel raccontare come essa ha preso forma ed ha raggiunto lettori di tutta Europa, ho cercato di rendere giustizia alla sua dimensione balzacchiana: ai personaggi pittoreschi che hanno prodotto il libro, intrigato perché venisse autorizzato in Francia e che si sono accapigliati e dilaniati per ricavare il massimo dalle sue spettacolari vendite. E se da un lato la mia ricerca ha assunto il carattere di una detective story, dall'altro mi ha dato l'opportunità di affrontare gli interrogativi classici sul carattere dell'Illuminismo e sul suo rapporto con la Rivoluzione francese.
Spiegando quante erano le copie dell' Encyclopédie, dove venivano vendute e chi erano i suoi acquirenti, ritengo che sia possibile dimostrare come l'Illuminismo fosse penetrato in profondità nella società francese. Lungi dall'essere appannaggio di una élite sofisticata, raggiunse un vasto pubblico di lettori».
Chi erano questi lettori? «Non appartenevano alla borghesia del commercio e dell'industria, erano funzionari statali, ufficiali dell'esercito, giudici, avvocatie persino preti- insomma lo stesso genere di "notabili" che parteciparono agli Stati Generali del 1789 e che, dopo la parentesi del Terrore, dominarono la società francese fino a tutta la prima metà dell'Ottocento. Lo studio degli autori che avevano redatto le voci, sia dell' Encyclopédie di Diderot che di quella successiva, l' Encyclopédie méthodique, pubblicata dal 1782 al 1832, ha dato gli stessi risultati. Gli enciclopedisti hanno avuto poco a che vedere con le forze del capitalismo. Erano per lo più professionisti e la storia del loro lavoro - che attraversa tutta la Rivoluzione - non appare in alcun modo connessa al giacobinismo.
Illustra il modo in cui, tra Sette e Ottocento, il professionismo si affermò come un modo di organizzare il mondo del sapere». Lei sostiene che il carattere radicale del progetto dell' Encyclopédie stava nella sfida di Diderot e dei suoi collaboratori di spiegare il mondo a partire dalla sola ragione. Ma era davvero una novità? «Convengo che le idee dell'Illuminismo si trovavano già in massima parte nelle opere dei filosofi del secolo precedente. Ma quello che a mio avviso contraddistingue l'Illuminismoè il suo carattere di movimento, di tentativo perseguito da tutto un gruppo di intellettuali di cambiare il modo di pensare e di modificare le istituzioni alla luce di valori laici, razionali e umani. Per questo considero la storia dei libri fondamentale per la sua comprensione. Come libro più importante del movimento, l' Encyclopédie riconfigurò il paesaggio mentale dei lettori. Fornì il compendio dell'intero sapere organizzato in accordo a principi epistemologici che prescindevano dalla religione rivelata. Nel servire un'informazione che copriva lo scibile umano dalla A alla Z, essa infuse nelle sue 71818 voci una visione profondamente laica del mondo.
Naturalmente aveva bisogno di nascondere questa tendenza per evitare le persecuzioni da parte delle autorità - e in effetti fu perseguitata, ma solo quanto bastò a farne un successo di scandalo, senza metterne a repentaglio l'aspetto commerciale. Ragion per cui bisognava leggerla fra le righe e rendeva i lettori complici del suo messaggio desacralizzante con tutta una serie di espedienti retorici».
Voltaire - a cui non si può disconoscere il genio della propaganda - era però dell'idea che "se i Vangeli non fossero stato un piccolo libro da due soldi, il cristianesimo non si sarebbe mai diffuso". Il successo dell' Encyclopédie non dimostra allora il contrario? «Voltaire poteva avere ragione quando diceva che le pubblicazioni coincise e brillanti erano più efficaci dei trattati in molti volumi, ma la sua ultima grande opera, Questions sur l'Encyclopédie, è un'enciclopedia in otto volumi. Nella sua strategia di conquista dei lettori l'Illuminismo fece ricorso a generi diversi, dal pamphlet volterriano al trattato enciclopedico». In che modo veniva letta l' Encyclopédie? «Devo confessare che non sono riuscito a farmi un'idea sufficientemente chiara di come l' Encyclopédie venisse letta.
Era un'opera così vasta che poteva esserlo in molti modi, non solo fra le righe per un brivido scandaloso, ma anche per condividerne l'informazione, trattandola come un testo di referenza. Alcuni librai riferivano che i loro clienti la mettevano in bella mostra sugli scaffali senza mai aprirla. Così ci doveva anche essere un fattore di snobismo intellettuale. I notabili di provincia volevano dimostrare di essere al corrente delle novità à la page.
Una cosa però è chiara: la richiesta del libro. Librai d'ogni dove scrivevano di non avere mai visto una ressa simile per comprare un'opera, malgrado il costo relativamente elevato».
Lei spiega chiaramente le ragioni per cui, a partire da Luigi XVI, lo Stato, pur ammantandosi di rigore, ebbe interesse a lasciare prosperare "il grande affare".
Ma perché la Chiesa non riuscì ad armare una contro-propaganda? «In realtà la Chiesa fece un tentativo possente di distruggere l' Encyclopédie.
L'opera venne condannata da papa, clero francese, giansenisti, gesuiti, corte di giustizia di Parigi, consiglio del re. Nel 1752 un editto reale ne bollò i primi due volumi con termini feroci e il movimento anti-enciclopedista degli anni 1750 si avvalse di una propaganda altamente offensiva affidata a polemisti estremamente abili. L' Encyclopédie fu associata a De l'Esprit, il trattato radicalmente materialista di Helvétius che nel 1758 scatenò uno scandalo ancora più grande. Fu allora che un editto reale soppresse il "privilegio" (l'autorizzazione della censura, ndr) dell' Encyclopédie, proibendone la continuazione. Intanto l'opera era stata messa all'indice e papa Clemente XII aveva ordinato a tutti i cattolici che ne detenevano una copia di darla alle fiamme, pena la scomunica. Ragion per cui l' Encyclopédie entrò in clandestinità. Si salvò grazie alla protezione di Malesherbes, responsabile della censura libraria, che simpatizzava con i philosophes, ma i suoi ultimi 10 volumi apparvero solo nel 1765, passata la bufera. Una bufera violentissima che aveva quasi distrutto l'impresa e che avrebbe potuto danneggiare gravemente il movimento stesso dei Lumi.
Dalle nostre relative condizioni di sicurezza in regimi relativamente liberali, abbiamo la tendenza a dimenticare il pericolo reale a cui i philosophes dovettero far fronte. Ho provato a scrivere la storia di come l'Illuminismo sopravvisse, diventando una forza di liberazione, tolleranza ed integrità intellettuale nel mondo moderno».

Repubblica 14.4.12
Un convegno
L’enigma del “Libro Rosso” di Jung
Ne parla il curatore Shamdasani


ROMA - "Sognando ad occhi aperti" è il titolo della lectio magistralis che Sonu Shamdasani terrà questa mattina, alle 9.45, presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma (viale Castro Pretorio, 105). Tra i massimi esperti dello junghismo, docente presso il Centro per la storia delle discipline psicologiche dell'University College di Londra, Shamdasani è il curatore del Libro Rosso di Jung, l'opera scritta e illustrata dallo psichiatra svizzero rimasta inedita fino al 2009 (da noi è uscita di recente da Bollati Boringhieri). Nella "lezione" di oggi Shamdasani illustrerà i cambiamenti nella pratica psicoterapeutica di Jung a seguito della sua attività di auto-sperimentazione dell'inconscio - dal 1913 in poi - e la nascita dell'immaginazione attiva come metodo clinico.
Dopo la sua relazione, seguirà una tavola rotonda moderata da Carlo de Blasio con gli interventi di Alessandra De Coro ("Dalle emozioni al linguaggio nel processo di simbolizzazione") e di Paolo Cruciani ("L'immaginazione per l'uomo di oggi").

venerdì 13 aprile 2012

l’Unità 13.4.12
Pensioni, una piazza unitaria


Il dramma degli esodati e delle ricongiunzioni onerose per le pensioni è così forte da ricomporre qualsiasi distinguo sindacale. Oggi dalle 9,30 a piazza della Repubblica parte il corteo che si chiuderà a piazza Santi Apostoli. La prima grande manifestazione unitaria da anni. Cgil, Cisl e Uil, più l’Ugl con i loro leader, sullo stesso palco. Per chiedere conto al governo dei ritardi e dello scandalo. Si legge nel volantino unitario: «Basta promesse! Insieme per ottenere soluzioni immediate per chi è rimasto senza lavoro, senza reddito, senza pensione e per cancella-
re l’ingiustizia delle ricongiunzioni onerose. Il percorso del corteo passa da via delle Terme di Diocleziano, via Amendola, via Cavour, largo Corrado Ricci, via dei Fori Imperiali, piazza Venezia, via Battisti.
Alla manifestazione ieri hanno aderito anche le Acli. Le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani saranno presenti in piazza della Repubblica a Roma, con una delegazione guidata dal presidente Andrea Olivero. Le Acli informa una nota imputano al governo una «sottovalutazione del problema» e suggeriscono l’adozione di «soluzioni diversificate».

l’Unità 13.4.12
Finanziamenti pubblici
L’articolo 49 della Costituzione
I controlli di bilancio sono la prima tappa. Bisogna rendere effettiva la democrazia interna
di Vincenzo Cerulli Irelli


Le notizie che provengono in questi giorni da fatti di malfunzionamento della finanza dei partiti, sprechi, assenza di controlli, spesso distorsioni delle spese da quelle attinenti l’attività politica, hanno messo in allarme l’opinione pubblica e rendono necessario da parte delle forze politiche un rapido e incisivo intervento di riforma.
Si deve aver chiaro che la legge attualmente vigente, adottata nel 1999 e modificata nel 2006, è diretta a disciplinare il rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie, non a finanziare i partiti politici nel loro funzionamento. La precedente legge di finanziamento dei partiti (n. 195/74) fu abrogata, come è noto, dal referendum del 1993.
Il legislatore trovò attraverso il rimborso per le spese elettorali un modo per arrivare a un risultato simile a quello cui direttamente non si poteva più arrivare, cioè appunto il finanziamento dei partiti. A questo fine il meccanismo di rimborso delle spese elettorali è stato tenuto negli anni a livelli assai più alti di quelli che il suo oggetto, cioè le spese elettorali effettivamente sostenute, richiederebbe. L’ancoraggio del rimborso, nell’ultima versione, alla moltiplicazione di un euro per il numero dei cittadini iscritti nelle liste per le elezioni della Camera, da corrispondersi in rate annuali, ha prodotto negli anni un surplus di risorse finanziarie nelle mani dei partiti. Il dato emerso dall’ultima relazione della Corte dei conti, che i giornali hanno ampiamente diffuso, che in termini globali evidenzia un divario tra le spese effettivamente sostenute (circa 500 milioni di euro dal 1994 al 2008) e i contributi statali erogati (oltre 2 milioni e 200 mila euro), ha impressionato l’opinione pubblica. Ciò al di là del fatto che queste somme siano state spese correttamente, cioè per il funzionamento dell’attività politica come probabilmente è avvenuto nella gran parte dei casi, ovvero per scopi personali, addirittura per appropriazioni a carattere delittuoso, come è avvenuto in determinati casi.
È emerso anche il fatto, in gran parte non conosciuto dalla opinione pubblica, che la spendita dei finanziamenti erogati dallo Stato a titolo di rimborso per le spese elettorali ma in verità per il finanziamento dei partiti, avviene sostanzialmente in assenza di controlli, se non il controllo generico sui rendiconti, dietro ai quali tuttavia si celano molteplici atti di spesa non soggetti a controllo. E sul punto emerge prepotente il rilievo, che ha anche un evidente valore giuridico e costituzionale, che queste somme erogate ai partiti sono denaro pubblico, così come tutte le altre somme destinate al funzionamento della pubblica amministrazione. E il denaro pubblico, come patrimonio della collettività, non può essere per principio sperperato; e al controllo che questo sperpero non avvenga presiedono apposite istituzioni, come la Ragioneria dello Stato o la Corte di conti, che viceversa in questa materia sono assenti.
Però, dietro questi fatti e l’esigenza che indubbiamente essi suscitano di una rapida riforma, si nasconde un tema assai serio, la cui serietà rischia di venire stravolta dalle polemiche e dagli scandali. I partiti politici, anche sulla base della Costituzione, sono istituzioni alle quali tutti i cittadini hanno diritto di partecipare, che svolgono la funzione pubblica fondamentale di elaborare gli indirizzi dell’azione di governo, di partecipare attraverso le competizioni elettorali all’individuazione dei titolari delle cariche di governo; di determinare la politica nazionale, afferma incisivamente l’articolo 49. Sarebbe affermazione troppo ovvia, che senza partiti politici, plurimi e in lotta tra loro per la conquista del potere e per l’affermazione dei rispettivi programmi di governo, la democrazia non esisterebbe. E perciò ritenere che alla vita dei partiti, al loro corretto funzionamento, al fine di assicurarne gli obiettivi nell’interesse generale della società, la finanza pubblica non debba contribuire, è cosa non facilmente accettabile.
Lo Stato finanzia molteplici istituzioni, pubbliche e anche private, nell’economia, nel sociale, nella cultura, nello sport. Non si vede perché lo Stato non possa finanziare i partiti che ne costituiscono l’ossatura fondamentale. Ma a tal fine occorre che la legge dello Stato a sua volta garantisca l’assetto organizzativo dei partiti secondo i chiari principi posti dalla Costituzione. Una volta che la norma costituzionale venisse attuata, sarebbe del tutto agevole reintrodurre in forme corrette e ovviamente in termini contenuti, un finanziamento ai partiti chiaro e trasparente per il loro funzionamento, del quale ovviamente i partiti stessi sarebbero chiamati a rendere conto.
Mentre tutt’altra cosa è il rimborso delle spese elettorali, che in quanto tale non può che essere rapportato a fatti concreti e documentati, cioè alle spese effettivamente sostenute dai partiti (a parte quelle che i singoli candidati o i partiti stessi si procurino da fonti private) nelle singole consultazioni elettorali.
A fronte di questo quadro, occorre procedere per successivi passaggi. Il primo è quello che pare sia stato avviato nel vertice di ieri tra i partiti della maggioranza che sostiene il governo; cioè, nella sostanza, introdurre con efficacia immediata un sistema di controlli credibile circa tutti gli andamenti della spesa interna dei partiti, disciplinare le regole per il finanziamento da fonti esterne, e così via. Ma il secondo passaggio è quello più delicato perché riguarda la legge sui partiti, attuativa della Costituzione, quella che ne garantisca l’organizzazione interna e il funzionamento secondo regole democratiche e trasparenti, che potrebbe consentire la reintroduzione di forme palesi di finanziamento, senza incontrare le difficoltà poste dal vecchio referendum. Il terzo passaggio è quello della nuova disciplina dei rimborsi che non potrebbe che rispondere al criterio ovvio della corrispondenza tra spese effettuate e contributi erogati.
Io non credo nella propaganda circa la non fiducia dei cittadini nei partiti (o come anche si dice, nella politica). I cittadini sono arrabbiati proprio perché hanno bisogno dei partiti e ne vorrebbero di migliori al fine di partecipare alle scelte della politica nazionale. Ma occorre che i partiti facciano chiarezza su sé medesimi e assicurino che le loro scelte interne, particolarmente quelle che toccano la tasca dei cittadini, siano pubbliche e trasparenti.

il Fatto 13.4.12
Il pasticciaccio di ABC per tenersi i finanziamenti
Inammissibile l’emendamento, arriva un ddl: ma di tagli neanche l’ombra
di Wanda Marra


L’emendamento sulla trasparenza dei partiti che doveva inserire l’accordo raggiunto da Alfano, Bersani e Casini nel decreto fiscale? Dichiarato inammissibile. Il disegno di legge presentato subito dopo dai medesimi 3 e per la quale si richiede l’approvazione lampo in sede legislativa in Commissione Affari costituzionali, senza il passaggio in Aula? Appesa al filo di una maggioranza schiacciante, che appare quanto meno improbabile. E soprattutto, il rinvio dell’ultima rata dei rimborsi elettorali ai partiti, quei 100 milioni in arrivo il 31 luglio? Una promessa orale, di cui non si trova una traccia scritta.
NON È durato nemmeno 24 ore l’accordo trovato nel vertice dell’altro ieri tra i segretari dei tre partiti di maggioranza. L’emendamento a firma di Gianfranco Conte (Pdl) presentato nella Commissione Finanze di Montecitorio sulla cui ammissibilità persino lo stesso relatore aveva immediatamente espresso seri dubbi, viene dichiarato inammissibile dalla presidenza della Camera. Perché “estraneo” al decreto fiscale. Ammetterlo sarebbe stato una forzatura, che Gianfranco Fini non si è sentito di fare visto che Idv e Lega avevano espresso parere contrario. E avrebbe pesato la contrarietà del Quirinale, riespressa ieri, a trasformare i decreti in “leggi omnibus” Ma non era una questione prevedibile? “Si è fatto un ennesimo gran pasticcio”, ammette il centrista Roberto Rao, vero braccio destro di Casini a Montecitorio. Un’ennesima impasse. A un certo punto della giornata Pier Luigi Bersani ieri aveva cominciato a dichiarare che si farà “un decreto ” in materia. Non sarebbe stato male, evidentemente, dare la patata bollente nelle mani del governo. Quello che invece viene presentato, di nuovo dai tre partiti della maggioranza, è una proposta di legge che ricalca l’emendamento. E dunque affronta solo la questione trasparenza. Prevedendo tra l’altro che i partiti si affidino a società di revisione esterne per la valutazione dei bilanci; che venga istituita una Commissione composta dal presidente della Corte dei Conti, dal presidente del Consiglio di Stato e dal primo presidente di Corte di Cassazione per vigilare su eventuali irregolarità (ma se queste emergeranno starà ai Presidenti di Camera e Senato applicare le sanzioni) ; che i i partiti debbano rendere pubbliche le donazioni da parte di privati superiori a 5000 euro. Per il pdl si richiede l’approvazione “in legislativa” in Commissione Affari costituzionali. Un iter lampo, sulla carta. Un percorso più che a ostacoli nella realtà. Per dare il via in legislativa a una legge, infatti, serve o l’approvazione all’unanimità da parte dei capigruppo, o quella dei quattro quinti dei suoi componenti. La prima non c’è, visto che l’Idv ha già dichiarato che si tratta di “una riformicchia” e che la Lega nicchia. Anche perché a dover essere esaminati saranno anche i bilanci del 2011. Per il Carroccio le irregolarità evidentemente sono più di un rischio. E dunque, le sanzioni pure. A bloccare la norma, poi, bastano 9 deputati della Commissione: Idv e Lega ne contano 7, 8 col Radicale Maurizio Turco (il quale ha già dichiarato “voterò contro”). Ne basta solo un altro. E ieri, per esempio, il democratico Salvatore Vassallo ha criticato nel merito il fatto che venga prevista una “simil - Autorità” presieduta da tre personalità “che non avranno tempo per svolgere anche quel compito". Rao assicura che a questo punto, venuto meno l’”alibi” di inserire la norma nel decreto fiscale, si parlerà anche di tagli ai rimborsi e si correggeranno le norme non troppo convincenti. Ma siamo sempre al tempo futuro. Al tempo presente, di rinuncia a un euro neanche si parla. E nero su bianco non è scritto da nessuna parte quello che ABC avevano assicurato l’altroieri: ovvero che ci sarebbe stato il “rinvio” dell’ultima tranche del rimborso elettorale.
DI PIETRO torna a chiedere che l'ultima rata dei rimborsi 2008 sia restituita al governo e denuncia: “La proposta di questa pseudomaggioranza va in tutt'altra direzione”. E la Bindi dice che il re è nudo: “Senza l’ultima rata, a rischio campagna elettorale”.

Corriere della Sera 13.4.12
Draghi avverte: la disoccupazione salirà
Allarme Bce: la crescita delude, segnali negativi già nel primo trimestre
di Marika de Feo


FRANCOFORTE — La Banca centrale europea ha lanciato ieri un allarme per «l'ulteriore peggioramento» a breve, nel mercato del lavoro europeo, anche in vista di timori per le prospettive congiunturali della crescita «moderata» attesa per quest'anno.
Mentre sulla «graduale ripresa dell'economia dell'area euro» prevista dalla Bce per quest'anno, gravano «rischi al ribasso», riconducibili alle rinnovate tensioni per la crisi del debito europeo, al processo di risanamento dei bilanci, all'elevata disoccupazione, ma anche agli incrementi delle materie prime, l'inflazione rimarrà sopra il 2% nel 2012, per calare sotto il 2% nel 2013.
Nel nuovo bollettino di aprile, i banchieri centrali di Francoforte sembrano avere un tono leggermente più pessimista di quello usato dal presidente della Bce Mario Draghi all'inizio di aprile, soprattutto riguardo alle «condizioni nei mercati del lavoro», le quali «continuano a peggiorare». E hanno toccato un nuovo massimo a febbraio, con un tasso di disoccupazione medio pari al 10,8%, che è «andato aumentando fin dall'aprile del 2011», e risulta superiore dello 0,6%, rispetto al massimo raggiunto nel maggio del 2010. Recenti indagini segnalano, secondo la Bce, «una probabile ulteriore contrazione dell'occupazione nel primo trimestre del 2012». Uno sviluppo negativo, dopo un calo dell'occupazione dello 0,2% nel quarto trimestre del 2011, rispetto ai tre mesi precedenti. In franata anche gli indicatori della produttività del lavoro, dall'1,1% del terzo trimestre allo 0,9 nel quarto trimestre del 2011.
In conclusione le economie europee, ad eccezione della Germania, non sono sostenute dal consumo. E per questo, in un capitolo dell'ultimo bollettino mensile dedicato all'analisi della disoccupazione, i banchieri centrali di Francoforte concludono esortando i governi «che hanno subito perdite di competitività» — un'allusione all'Italia, pur senza nominarla — ad attuare riforme strutturali, volte a rafforzare le capacità di crescita dell'economia. La Bce aggiunge che occorre «assicurare un aggiustamento salariale sufficiente e promuovere la crescita della produttività».
Ieri le Borse hanno premiato il migliore andamento dell'economia americana, e gli spread fra i Btp e i Bund erano in calo, ma nei giorni scorsi erano emersi nuovi timori per la crisi del debito. Al punto che il membro francese del board della Bce Benoît Coeuré ha ventilato la possibilità di un ritorno agli acquisti di bond sovrani (avversati dalla Bundesbank) per allentare le tensioni. Nel frattempo, il bollettino torna a esortare i governi europei a «dar prova della massima responsabilità» e a «ripristinare posizioni di bilancio solide», rispettando il fiscal compact e il Patto di stabilità, per «promuovere la fiducia, la crescita sostenibile e l'occupazione».
Provvedimenti necessari, anche perché i Paesi con una quota rilevante di debito in scadenza nel breve termine, come l'Italia, la Francia e la Spagna e i rimanenti Paesi del Sud Europa, pari o superiore al 20% del Pil, sono particolarmente vulnerabili, per la liquidità a breve termine, a improvvise variazioni dei tassi di interesse e del clima di mercato. Come fatto positivo, nel frattempo, grazie ai maxi-prestiti da 1.000 miliardi della Bce, il bollettino conferma che sono migliorate le condizioni di finanziamento per le banche, scongiurando così una correzione brusca e disordinata dei bilanci.

Corriere della Sera 13.4.12
Pesano i veti della politica
Corruzione, nuovi reati ma a rischio prescrizione
di Giovanni Bianconi


Le proposte di riforma elaborate dal ministro della Giustizia Paola Severino in materia di contrasto alla corruzione sembrano un catalogo di buone intenzioni. I temi sui quali intervenire ci sono più o meno tutti: dalla riscrittura della concussione all'introduzione di nuovi reati come il traffico d'influenze illecite o la corruzione tra privati, passando per un aumento delle pene che dovrebbe tornare utile ad un allungamento della prescrizione.
Nel merito però, la bozza predisposta dal Guardasigilli per dare un senso alla repressione del malaffare economico mostra delle debolezze che sarebbe meglio correggere prima che sia trasformata in legge. Non sarà facile, visto il clima politico che s'è creato intorno all'argomento, ma provarci è indispensabile.
Il nodo principale resta quello della prescrizione nei processi per corruzione, più volte segnalato dagli organismi europei. Attualmente è di sette anni e mezzo, un periodo troppo breve per procedimenti complessi che molto spesso vengono avviati a diversi anni di distanza dai fatti, quando il conto alla rovescia dei tempi della giustizia è già un bel pezzo avanti. Con l'aumento del massimo della pena previsto dalla bozza Severino, portato da cinque a sette anni, il termine della prescrizione si sposta in avanti di un anno e poco più, arrivando a 8 anni e nove mesi. Troppo poco, sostengono gli addetti ai lavori che hanno a che fare con questo genere di processi.
La realtà è che per incidere davvero sulla prescrizione bisognerebbe intervenire sui meccanismi con cui se ne calcolano le scadenze, e non attraverso la scorciatoia dell'aumento della pena massima, che comunque non potrà mai arrivare oltre certi limiti. Quello è un escamotage col quale non si può pensare di raggiungere i risultati che servirebbero per non rendere inutili i giudizi sulla corruzione. Sarebbe necessario superare i veti che su questo punto arrivano soprattutto dal centrodestra, ma è probabile che si riveleranno insormontabili, depotenziando alla radice i tentativi di soluzione del problema.
Dal reato di concussione viene eliminata l'ipotesi dell'induzione, che è attualmente presente nel codice penale ed è stata contestata a Silvio Berlusconi nel processo milanese sul «caso Ruby»; al suo posto viene introdotta una nuova fattispecie, l'«indebita induzione a dare o promettere utilità», con pena massima (e conseguente prescrizione) un po' più bassa. Difficilmente, però, l'ex presidente del Consiglio può pensare di beneficiarne evitando di arrivare alla sentenza.
I nuovi reati per colpire i mediatori degli affari illeciti e la cosiddetta «corruzione privata» sono significativi, sebbene prevedano pene poco più che simboliche, e l'insieme della bozza dà l'idea della ricerca del compromesso tra le posizioni del centrodestra e del centrosinistra. È una necessità, e nei testi prodotti finora se ne sente il peso. Il tentativo auspicabile, di qui alla formalizzazione delle modifiche da proporre e poi in Parlamento durante l'iter di approvazione, sarebbe evitare che il compromesso partorisca una riforma solo di facciata, che non incida sulla possibilità di reprimere in maniera adeguata un fenomeno da tutti considerato al pari di una piaga nazionale.
Anche la nuove norme pensate dal ministro sulla responsabilità civile dei magistrati paiono frutto di un compromesso. Ma in quel caso l'esclusione dell'azione diretta contro i giudici da parte dei cittadini che si lamentano delle loro decisioni (introdotta dal famoso emendamento leghista approvato dalla Camera qualche mese fa), sembra un obiettivo raggiunto. E le contropartite concesse al centrodestra potrebbero risultare accettabili dagli stessi magistrati e dalle forze politiche che più ne sostengono le ragioni.
Sarebbe un passo avanti significativo se su questi temi che riguardano la materia incandescente della giustizia — foriera di divisioni e scontri dall'inizio della legislatura — non si riaccendessero le contrapposizioni del passato, e se i veti incrociati non bloccassero l'opportunità di intervenire per arrivare a soluzioni efficaci. Forse è un'illusione, anche perché c'è in agguato il terzo capitolo dell'ipotetico «pacchetto», quello delle intercettazioni, sul quale l'accordo non pare semplice; e qualora ci si arrivasse bisognerebbe sorvegliare che a rimetterci non fosse la libertà d'informazione e il diritto a essere informati. Tuttavia, a vent'anni da Mani Pulite, sarebbe importante non perdere l'occasione offerta dalla buona volontà mostrata dal ministro della Giustizia.

l’Unità 13.4.12
Carceri e Cie: «Così l’Italia non rispetta i diritti umani»
Nelle carceri e nei centri di identificazione dei migranti non si rispettano i diritti umani. L’Italia viola la legge. Lo denuncia il senatore Marcenaro che ha presentato il Rapporto sullo stato dei diritti umani nelle carceri e nei Cie
di Roberto Monteforte


Un Paese fuorilegge. Che non rispetta la legalità e che «viola i diritti umani». Lo denuncia il presidente della Commissione parlamentare per la tutela e la promozione dei diritti umani senatore Pietro Marcenaro che ieri, con il coordinatore dei Garanti dei diritti dei detenuti, senatore Salvo Fleres (Pdl), ha presentato il «Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia».
È drammatica la situazione fotografata dallo studio. «Nel 2011 su un totale di 186 persone decedute nei penitenziari italiani 63 sono stati suicidi. Un numero elevato dovuto anche al fatto che l'Italia è agli ulti-
mi posti in Europa nel rapporto fra detenuti e posti in carcere. A fine febbraio, su una capienza complessiva di 45.742 posti, nelle carceri italiane i detenuti erano 66.632, di cui solo 38.195 con condanna definitiva». Questo «sovraffollamento» per Marcenaro è la conseguenza «di una visione della pena, che ha dimenticato la priorità di recuperare le persone, di offrire alle persone una nuova possibilità, una visione nella quale la parola “pena” è ormai identificata con la parola “carcere”». Occorre, invece, pensare a forme alternative alla reclusione. Quello che è certo per il presidente la commissione è che «ogni violazione dei diritti umani non è solo un fatto eticamente riprovevole, ma una vera e propria violazione della legalità». Una «illegalità» denunciata a chiare lettere dal «Rapporto» che è stato approvato all’unanimità dai senatori della commissione.
L’altra emergenza eclatante è quella rappresentata dai migranti rinchiusi per 18 mesi, praticamente senza diritti, nei Cie dove osserva Marcenaro «le persone vengono private delle libertà personali, dove ragazzini spauriti vivono fianco a fianco con delinquenti incalliti, dove i migranti vengono tenuti in gabbie come animali, dove il tempo di totale inattività viene riempito solo dalla totale insicurezza». «Non è con i Cie conclude che si risolve il problema dell’immigrazione».
Nel corso dell’incontro tenutosi alla Fnsi è emersa un’altra emergenza. Mentre il presidente della Fnsi, Roberto Natale sottolineava positivamente la riapertura dei Cie alla stampa, si è riscontrato come nei fatti, questo accesso sia negato. Quasi tutti i «centri» sarebbero «in ristrutturazione» e quindi chiusi ai giornalisti. Marcenaro ha annunciato un’interrogazione al ministro degli Interni.

Corriere della Sera 13.4.12
Monasterace. Il sindaco resiste alla 'ndrangheta «Non mi dimetto»
«Ma ho paura». L'appoggio di Bersani
di Fabrizio Caccia


MONASTERACE (Reggio Calabria) — Sono tutti lì ad applaudirla, in sala consiliare, le due del pomeriggio di ieri: lei ha appena ritirato le dimissioni da sindaco. Maria Carmela Lanzetta, dopo due settimane di puro travaglio, ha così scelto di restare in trincea, a Monasterace, terra di 'ndrangheta, cosche pericolose, i Ruga, i Metastasio e i Gallace di Guardavalle. L'ha appena detto al segretario Pierluigi Bersani, il leader del Pd, arrivato apposta in Calabria per farle sentire il suo appoggio pieno e incondizionato. Si congratula da Roma pure il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri: lo Stato c'è, lo Stato non si piega. La storia sembra avere un lieto fine. Sembra...
Perché poi basta avvicinarsi alla signora, che adesso vive con tre carabinieri di scorta 24 ore su 24 — dopo che le hanno incendiato la farmacia di famiglia e sparato tre pallettoni sulla Panda parcheggiata sotto casa — ed in quel momento t'accorgi del terrore che conserva negli occhi. Le chiedi: allora, sindaco, a quando il prossimo consiglio comunale? E lei: «Tra 5 giorni, parleremo di urbanistica». Poi fa una pausa. Lunga. Che chiude con un sospiro raggelante: «Speriamo di arrivarci, al prossimo consiglio». Maria Carmela in fondo non chiede la luna: pretende solo che in paese tutti paghino le bollette dell'acqua o che le operaie del polo florovivaistico vengano retribuite in modo regolare. E invece qui c'è chi neppure le bollette dell'acqua vuole pagare. Chi pensava che gli fosse sempre tutto dovuto. E allora adesso s'innervosisce e spara. La prima cosa che Maria Carmela Lanzetta ha fatto, ieri pomeriggio, salutato Bersani ripartito per Roma, è stato salire su fino a Mammola, al santuario di San Nicodemo, per chiedergli la grazia di proteggere la sua famiglia — marito e figli — e darle la forza di continuare. Una preghiera contro la 'ndrangheta.
In sala, comunque, c'è una bell'atmosfera: Bersani con gli occhi lucidi davanti a tanti uomini e donne coraggiose del centrosinistra, amministratori locali di Locri, Roccella, Ardore, Gerace, Caulonia, che sono venuti a fare il tifo per Maria Carmela. Le hanno anche regalato una maglietta con un proverbio: «Na nuci 'nto saccu non faci scrusciu». Una noce sola in un sacco non fa rumore. «Significa che da soli non si va da nessuna parte — chiosa la Lanzetta, commossa, a beneficio dei forestieri — E allora va bene, andiamo avanti insieme».
Applausi, evviva, ma il sindaco spiazza tutti di nuovo. «Ritiro le dimissioni», annuncia. E fa un'altra lunga pausa teatrale. Poi aggiunge: «Le ritiro ma con riserva. Vorrei che tra 3 mesi si facesse qui una verifica di quello che è stato detto e stato fatto. Non è un ricatto, ma una necessità per poter continuare a lavorare bene». Chiaro il messaggio: una volta spenti i riflettori — il municipio straborda di telecamere e giornalisti venuti da fuori — la mafia e la paura non dovranno riprendere il sopravvento.
Si ascoltano storie tragiche e bellissime. Quella di Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto, a cui hanno incendiato il portone del municipio e al microfono ora grida «ma noi siamo mamme e non vogliamo fermarci». E quella di Maria Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno, a cui un giorno appena insediata arrivò una lettera da un ergastolano del clan Pesce. La lettera era chiusa in un busta intestata del Comune. Come a dire: il sindaco qua sono io.
I sindaci della Locride hanno scritto a Napolitano, il 25 aprile listeranno a lutto il tricolore: «La Calabria ha bisogno di legalità e di lavoro - dice Bersani — La criminalità non deve vincere». Pasquale Miriello, ex assessore comunale all'Ambiente, socialista, applaude al discorso del segretario ma sembra molto scettico: «Voi cercate la 'ndrangheta qui. Attenti. Ormai siamo nel villaggio globale, non ha più molto senso distinguere tra Monasterace e il Cafè de Paris...».

Corriere della Sera 13.4.12
La lezione di chi sceglie i cittadini
di Goffredo Buccini


Si sa, talvolta la verità ha due facce. E sarà bene guardare molto da vicino la tormentata vicenda di Monasterace, il paesino calabrese dove il sindaco pd Maria Carmela Lanzetta aveva deciso di dare le dimissioni all'ennesima intimidazione della 'ndrangheta. Dopo anni di oblio, ieri politica e istituzioni hanno fatto sentire la loro presenza attorno alla mite farmacista che, solo giocando secondo le regole, ha rivoluzionato gli affari del paese a tal punto da attirarsi addosso due attentati mafiosi in nove mesi. La signora Lanzetta ha ricevuto la visita del segretario del suo partito, Pierluigi Bersani, ottenuto la solidarietà della Camusso (da Catanzaro) e l'attenzione della Commissione Antimafia; ha potuto dialogare col nuovo prefetto di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli, al quale ha annunciato il ritiro delle dimissioni, anche se con riserva: «Fra tre mesi dobbiamo fare una verifica, perché qui non si vive più», ha ammonito. Sano pragmatismo in una terra dove anche altri primi cittadini sono stati minacciati nell'indifferenza del resto d'Italia. «Mio figlio era molto contrario: "Mamma, non pensarci nemmeno a restare sindaco", m'ha detto. Io lo faccio per quelli che si sono mobilitati», ci ha spiegato Maria Carmela in una giornata piena di abbracci e riconoscimenti. Attendiamo, e presto, una risposta dello Stato non solo formale. Intanto, va dato a Bersani il merito di metterci la faccia, ripartendo da una sfida difficilissima in un momento di generale discredito dei partiti: «Non tutta la politica è sporca», ha detto il segretario del Pd. E ha ragione. Ma qui si svela l'altra mezza verità della storia: la politica, mobilitandosi, aiuta la Lanzetta, certo; ma la Lanzetta e i sindaci come lei — non importa di quale partito — aiutano e molto la politica, sgobbando sul territorio sotto gli occhi dei concittadini. Una nuova legittimazione può trovarsi solo fuori dai Palazzi e lontano dai privilegi, in mezzo al popolo italiano. La lezione di Monasterace serve davvero a tutti.

l’Unità 13.4.12
Nuova indagine su Vendola: «Favorì l’ospedale religioso»
di Ivan Cimarrusti


Una nuova inchiesta si abbatte sul presidente della giunta regionale pugliese Nichi Vendola. Questa volta il suo nome risulta nel registro degli indagati in concorso con gli ex assessori alla Salute Alberto Tedesco e Tommaso Fiore, accusati a vario titolo di falso, abuso d’ufficio e peculato.
L’indagine, dei sostituti procuratori Francesco Bretone, Marcello Quercia e Desirèe Digeronimo, riguarda la transazione da 45 milioni di euro che la Regione Puglia fece col nosocomio ecclesiastico Miulli di Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, per il pagamento di differenze tariffarie dovute per le prestazioni. Un’operazione avviata da Tedesco nel 2008 per evitare il pagamento di 150 milioni di euro che erano stati chiesti dal Miulli, firmata poi dal successivo assessore Fiore l’11 marzo 2009 e infine revocata senza un plausibile motivo da Vendola il 5 luglio 2010. Tutta questa operazione è finita nel mirino degli investigatori che, indagando nel primo grande procedimento su Tedesco, divenuto intanto senatore del gruppo Misto, si sono imbattuti nelle operazioni finanziarie tra Regione e Miulli. La vicenda, però, non si conclude con la revoca di Vendola, ma va avanti, in quanto lo stesso nosocomio dopo aver presentato ricorso al Tribunale amministrativo regionale di Bari, ha ottenuto con sentenza la liquidazione di 175 milioni di euro. Secondo quanto avrebbero accertato gli investigatori dei carabinieri, il sospetto dietrofront della giunta regionale potrebbe essere stato calcolato, in quanto la stessa Regione era al corrente che la revoca avrebbe comunque portato il Tar a condannarlo.
Agli atti dell’indagine risultano carteggi regionali composti in due anni di attività della giunta, tra i quali ci sono la delibera con la transazione fatta in principio da Tedesco, il parere contrario dell’Agenzia regionale sanitaria (Ares) e dell’assessorato alla Salute, e il parere favorevole dell’avvocatura regionale, che ha permesso di superare i problemi. Nell’incartamento, inoltre, risulta esserci anche la delibera con la quale fu disposto l’annullamento della transazione e il provvedimento con il quale il Tar di Bari ha condannato la Regione a pagare al Miulli i 175 milioni, 45 dei quali (lo stesso valore della transazione iniziale) già pagati.
I FONDI PER L’EDILIZIA OSPEDALIERA
Secondo la ricostruzione dei fatti, l’ospedale ecclesiastico aveva lamentato indebitamenti per la realizzazione di nuove strutture, dovuti al fatto che la Regione ha aveva concesso i fondi per l’edilizia ospedaliera. Inoltre, il nosocomio aveva lamentato il mancato rimborso da parte della Regione di numerose prestazioni sanitarie, che invece erano state pagate ad altri ospedali. Fu Tedesco, così, ha cercare di trovare un accordo, riuscendo a stringere una transazione che non superasse i 45 milioni di euro spalmati in tre anni. Nel 2008, però, l’ex assessore fu iscritto nel registro degli indagati e diede le dimissioni. Così fu il successore Tommaso Fiore a portare in giunta la transazione e, successivamente, a revocarla su disposizione di altri uffici regionali.
Intanto la Procura di Bari ha notificato un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari a Tedesco, stavolta sotto accusa nell’ambito di un’ampia inchiesta sugli accreditamenti delle cliniche private con la Regione Puglia. In sostanza, si tratta di permessi concessi per ricoverare, ricevendo in cambio rimborsi dalla Regione. In questo filone risultano indagati con Tedesco e Mario Morlacco, ex direttore dell’Ares, altre 45 persone tra le quali funzionari regionali e imprenditori della sanità. Nei loro confronti si ipotizzano i reati di corruzione, concussione, truffa, abuso d'ufficio, falso, peculato, estorsione e rivelazione del segreto d'ufficio. In serata il commento del governatore Vendola: «Qualche ora fa ho ricevuto la notifica di una richiesta di proroga di indagini da parte del Gip di Bari. Si tratta di un procedimento penale del quale non avevo mai avuto alcuna notizia. Ribadisco la mia totale assoluta estraneità a fatti che sono al di là di ogni mia immaginazione».

il Fatto 13.4.12
Malasanità. Indagato anche il vescovo di Altamura
Altra inchiesta su Vendola I pm: “Peculato, falso e abuso”
di Antonio Massari


Due avvisi di garanzia in due giorni: è la settimana più nera, per Vendola, governatore della Puglia, che ieri ha scoperto di essere indagato per abuso d’ufficio, falso e peculato, in un altro filone dell’inchiesta barese sulla Sanità.
Due avvisi di garanzia in due giorni: è la settimana più nera per Nichi Vendola, governatore della Puglia e leader di Sel, che ieri ha scoperto di essere indagato per abuso d'ufficio, falso e peculato, in un altro filone dell'inchiesta barese sulla Sanità. E tra gli indagati ci sono anche anche il vescovo della diocesi di Altamura, mons. Mario Paciello e don Mimmo Laddaga, direttore dell’ospedale ecclesiastico Miulli di Acquaviva. La Procura di Bari indaga su un maxi-risarcimento, pagato dalla Regione Puglia, all'ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti. Valore: 175 milioni di euro. In primo tempo, come vedremo, il Miulli - che si riteneva creditore per 145 milioni - aveva accettato una transazione per 45 milioni. La Regione revocò il provvedimento, il Miulli riattivò il contenzioso, e la Regione fu condannata a pagare ben 30 milioni in più, rispetto ai 145 richiesti inizialmente. A differenza di mercoledì, Vendola ieri non ha convocato una conferenza stampa per difendersi dalle accuse, anche perché non immaginava di ritirarsi indagato per ben due volte in meno di 48 ore. "Ribadisco la mia totale assoluta estraneità a fatti che sono al di là di ogni mia immaginazione”, ha commentato con un comunicato. Questa indagine rischia di essere ben più preoccupante della prima. Non soltanto sotto il profilo giudiziario, ma anche per le ripercussioni politiche, poiché Vendola è indagato in concorso sia con Alberto Tedesco, l'ex assessore regionale alla Sanità, sia con Tommaso Fiore, che quell'assessorato ha ereditato dopo i primi scandali.
E QUINDI anche Fiore, che Vendola aveva voluto al posto di Tedesco, proprio per le sue doti professionali e la trasparenza del suo operato, finisce impigliato nelle maglie dell'indagine. Parliamo dello stesso Fiore che, soltanto due mesi fa, s'è dimesso dall'assessorato più incriminato della giunta. Dall'ex assessore Tedesco, Fiore ereditò anche la transazione, già avviata, con l'ospedale Miulli. Era l'11 marzo 2009 quando Fiore firmò, per conto della Regione, la transazione da 45 milioni. L'ospedale ecclesiastic orivendicava undanno: per la realizzazione di un nuovo plesso ospedaliero, la Giunta non aveva offerto l'accesso ai fondi pubblici, spingendo il Miulli a indebitarsi. Per di più i rimborsi, ricevuti negli anni precedenti, secondo il Miulli erano inferiori a quelli concessi ad altri ospedali. Tedesco propose una transazione per 45 milioni, a fronte dei 145 richiesti, e nel 2009, con Fiore al suo posto, l'operazione andò in porto. Sedici mesi dopo, però, la Giunta cambia idea: il 5 luglio 2010, la delibera sulla transazione, viene annullata. Il Miulli riattiva il contenzioso e la pratica finisce nelle mani dei giudici amministrativi: nell'autunno dello stesso anno, il Tar, condanna la Regione Puglia a risarcire l'ospedale. Il danno, secondo il Tar, è addirittura superiore ai 145 milioni richiesti l'anno prima: viene quantificato in 175 milioni più 17 milioni di ulteriori danni. Ed è su questa operazione che indagano i pm Desirée Digeronimo e Francesco Bretone. Il dietrofront della Regione, che causò un esborso di oltre cento milioni in più, fu calcolato?
LA REGIONE sapeva che il Tar le avrebbe dato torto. Se così fosse, con i soldi pubblici, si sarebbe avvantaggiato l'ospedale ecclesiastico. Tra gli indagati, compare anche monsignor Mimmo Laddaga, il prete amministratore del Miulli. Vendola - anche in questo caso - respinge ogni addebito. Anzi, dopo aver ricevuto gli atti notificati, spiega di non aver neanche compreso la faccenda: “Dal tenore dell’atto non sono in grado di capire ciò che mi sarebbe addebitato. Non riesco a immaginare nulla che possa riguardarmi”. Tedesco invece, sentito dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulla Sanità, ha parlato di un decreto del 2009, firmato dalgoverno Prodi sugli "ausili protesici" e di una sorta di pressione - non andata in porto - su Vendola dalla presidenza Prodi. Il decreto prevedeva l'aumento del 9 per cento sulle tariffe delle protesi acquistate dalla Sanità pubblica. Tedesco non lo apllicò, perché non ancora in vigore ma aggiunge: “Dopo fui convocato da Vendola, mi disse che era stato chiamato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, e che gli era stato chiesto di applicare l'aumento. Vendola mi disse che gli avevano detto che c'era il rischio che il governo andasse sotto, se la Puglia non avesse approvato il decreto, e dubito che Vendola possa smentirlo. e non si può smentire che un senatore dell'Idv, Giuseppe Caforio, è imprenditore nel settore delle protesi. In quel periodo bastavano due soli voti per sfiduciare Prodi”. È la parola di Tedesco, che suona, più che un'allusione, come il preludio della roboante difesa che Tedesco condurrà nei prossimi mesi.

Corriere della Sera 13.4.12
«Vendola ha favorito la clinica della Chiesa»
Puglia, nuove accuse per un accordo mai chiuso
di V. Pic.


BARI — Amaro bis per Nichi Vendola. In due giorni si ritrova indagato due volte. Mercoledì aveva scoperto, dall'avviso di chiusura indagini, di essere accusato di abuso d'ufficio per aver favorito la nomina del primario di chirurgia toracica del San Paolo riaprendo i termini del concorso. Ieri apprende che la retromarcia su una transazione da 45 milioni di euro concordata per chiudere un contenzioso tra la regione Puglia e l'ospedale Miulli di Acquaviva, di proprietà della Chiesa, gli è costata altre tre imputazioni: peculato, falso e abuso d'ufficio. Il sospetto dei magistrati è che Vendola abbia favorito l'istituto attraverso una transazione al rialzo e una retromarcia su quella stima gonfiata che peggiorò le cose con una condanna del Tar ancora più favorevole all'ospedale ecclesiastico. «Me lo avessero detto avrei fatto un'unica conferenza stampa», ironizza il governatore. Stemperando la preoccupazione per quell'indagine sulla Sanità che si moltiplica in filoni e fascicoli diversi.
Tutto era iniziato con le indagini su Alberto Tedesco, ex assessore pd alla Sanità, ora senatore, per il quale è stato chiesto dai pm baresi due volte l'arresto, con l'accusa di essere stato a capo di un'associazione che pilotava nomine e appalti. C'è anche lui tra gli indagati di questa vicenda. Assieme al suo successore Tommaso Fiore e ai vertici del Miulli, il vescovo di Acquaviva Mario Paciello e don Mario Laddaga, responsabile della struttura. È la storia di un accordo mai chiuso. L'ospedale sosteneva di essersi indebitato per 76 milioni per costruire la nuova sede con fondi propri invece di quelli per l'edilizia sanitaria cui non aveva potuto accedere. Più di quanto avesse ottenuto dalla Regione come rimborso: 42,6 milioni di euro aveva scritto in un ricorso presentato al Tar.
La Regione cercò una transazione da 45 milioni di euro. Ma secondo la pm Desirèe Digeronimo e il procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno l'accordo fu raggiunto su presupposti falsi, come segnalato dall'Ares e dagli uffici Regionali, da lì l'accusa di concorso in falso ideologico per Vendola e l'assessore Fiore. In più c'è l'accusa di aver preso i soldi destinati a quell'accordo da un capitolo di bilancio diverso, che aggiunge l'imputazione di concorso in peculato e abuso d'ufficio, contestate anche a Alberto Tedesco, il vescovo Mario Paciello, Mimmo Laddaga, e il dirigente Rocco Palmisano. La stessa Regione fece poi una retromarcia per autotutelarsi. Ma sulla vicenda è già intervenuto il Tar che ha condannato la Regione. Un pasticcio di cui ora Vendola è chiamato a rendere conto. Anche se la questione ha aperto dubbi e divergenze anche tra gli inquirenti. Per questo c'è stata una richiesta di proroga delle indagini.
Il governatore però respinge ogni accusa. E ribadisce la sua estraneità. «Se per il professor Sardelli mi si addebita di aver fatto vincere il migliore — dice — qui per davvero non riesco ad immaginare nulla che possa riguardarmi». Ma riconferma la sua assoluta fiducia nella magistratura.
Intanto si chiude anche il filone sugli accreditamenti delle cliniche private che coinvolge Alberto Tedesco e altre 46 persone. Nell'indagine vengono contestati a vario titolo i reati di corruzione, concussione, truffa ed estorsione ma per il senatore l'accusa è di abuso d'ufficio, falso e truffa.

l’Unità 13.4.12
Svolta nel caso di Trayvon, il giovane afro-americano freddato in Florida per il colore della sua pelle
In cella George Zimmerman accusato di omicidio di II grado. Il processo riprenderà il 29 maggio
Vince l’America antirazzista: arrestato il vigilante-killer
di Martino Mazzonis


George Zimmerman, accusato dell’omicidio di Trayvon Martin, si è presentato in un ufficio di polizia dichiarandosi «non colpevole». La sua linea difensiva sarà la legittima difesa versione estesa voluta dalle lobby delle armi.

NEW YORK Da qualche giorno era chiaro: in un modo o nell’altro George Zimmerman sarebbe finito sotto processo. La sola ipotesi che l’uomo che ha ucciso il 17enne Trayvon Martin rimanesse a piede libero avrebbe alimentato rischi di rivolte. Le preghiere e i canti di gioia nelle chiese battiste della Florida sono un segnale di una tensione che si allenta.
Dopo essersi presentato spontaneamente in carcere, ieri Zimmerman è apparso per la prima volta in tribunale per dichiararsi «non colpevole». Un’udienza breve, per espletare le formalità: il processo riprenderà il 29 maggio e Zimmerman per ora rimarrà in carcere. L’accusa è di omicidio di secondo grado, il più grave che non implichi la premeditazione. «Non è una decisione che abbiamo preso a cuor leggero e non siamo stati influenzati dalla pressione del pubblico» ha dichiarato Angela Corey, procuratore incaricato delle indagini. Zimmerman aveva un nuovo avvocato: i precedenti si erano dimessi due giorni fa. Il legale del 28enne vigilante-volontario ha spiegato che spera che il suo assistito venga rilasciato su cauzione per poter preparare la difesa. O’Mara, così si chiama, ha spiegato che Zimmerman è stanco, stressato e impaurito e che, se il tribunale lo rilasciasse, avrebbe bisogno di una scorta o di essere autorizzato a lasciare la Florida. Qualche polemica ha suscitato il commento della madre di Trayvon, Sabrina Fulton. Ha detto di ritenere che la morte di suo figlio sia stata un incidente. Dopo che la notizia ha preso ad essere rilanciata la donna ha spiegato: «Il fatto che si siano incontrati per caso è stato un incidente, ma ritengo che mio figlio sia stato assassinato».
LEGITTIMA DIFESA E ARMI
La difesa di Zimmerman utilizzerà come argomento la legittima difesa, sostenendo che Trayvon abbia aggredito chi lo ha ucciso. O meglio, ad essere usata sarà la legge Stand your ground (più o meno «Non cedere terreno») che implica che in caso di pericolo sia lecito l’estremo uso della forza. Una versione molto ampia della legittima difesa. Diversi esperti legali ritengono sarà difficile dimostrare che il colpo di pistola di Zimmerman non fosse legittima difesa. Un paradosso dovuto ad una legge approvata nel 2005 e diventata un modello della lobby delle armi, la National Rifle Association (Nra). Da quando è stata approvata in Florida, sebbene i morti ammazzati siano in diminuzione da anni, è aumentato il numero di omicidi senza colpevole. Se un tempo la legislazione prevedeva la possibilità di sparare a qualcuno solo se era entrato in casa, la Nra ha fatto in modo che si estendesse la possibilità di difendere il «proprio castello» (un altro modo di riferirsi alla legge) anche negli spazi pubblici circostanti.
La Nra è riuscita a far approvare leggi simili in 24 Stati in combutta con l’Alec, un gruppo in cui industriali ed eletti conservatori lavorano per produrre legislazione da far approvare a livello statale e nazionale. Proprio il giorno della morte di Trayvon, la Nra postava sul suo sito una lettera da spedire al governatore del Minnesota che aveva anticipato il veto su un testo approvato dall’assemblea del suo Stato. Tra le altre iniziative sponsorizzate dalla Nra ci sono quelle relative alla possibilità di occultare le armi che si portano. La persona minacciata non sa nemmeno di esserlo.
La morte di Trayvon Martin ha avuto l’effetto di riportare l’attenzione sul tema delle armi. E sul perché queste leggi vengano approvate. Come altre battaglie retoriche sulle libertà costituzionali quella sul «diritto» a girare armati è il frutto della contiguità tra politica e lobby delle armi. Più leggi permissive implicano più affari per i produttori e le nuove leggi hanno cominciato a essere approvate in anni di crisi del settore. Al momento è in discussione a Washington una legge che obbligherebbe gli Stati alla reciprocità sul porto d’armi: se ne hai uno nella permissiva Florida, vale anche nella restrittiva New York. Negli Stati dove le leggi sono più permissive si muore più facilmente per una pallottola, da qui vengono esportate più armi usate dalla criminalità negli Usa e in Messico e si organizzano più milizie estremiste di destra. Forse l’attenzione su questo processo – che si preannuncia enorme – aiuterà almeno a fermare nuove iniziative legislative pericolose.

il Fatto 13.4.12
Florida, bande neo naziste contro le pantere nere
Tensione nella città di Trayvon dopo l’arresto dell’assassino
di Angela Vitaliano


New York. Credo che si sia trattato di un incidente e che la situazione sia andata fuori controllo”. Sybrina Fulton, la madre di Trayvon Martin, il diciassettenne ucciso lo scorso 26 febbraio da George Zimmerman, lo dice con la sua solita compostezza, parlando al “The Today show” e aggiunge che, potendo, chiederebbe a Zimmerman se, quel giorno, era consapevole di avere di fronte un minorenne disarmato.
Sono passate meno di ventiquattro ore dall’arresto della guardia volontaria, avvenuto nella serata di mercoledì, dopo che Angela B. Corey, il procuratore di Stato per l’area di Jacksonville, ne ha annunciato l’incriminazione per omicidio di secondo grado, reato che prevede pene dai 25 anni all’ergastolo. “Una decisione difficile e valutata con la massima serietà, sulla quale non hanno pesato le pressioni esterne dell’opinione pubblica”.
CI TIENE a precisarlo il procuratore per cercare di placare la ridda di polemiche che da sei settimane sta dividendo il paese, per le possibili implicazioni razziali del caso. Per questo le dichiarazioni dei genitori di Trayvon risultano ancora più significative; loro, che a quel figlio non potranno più telefonare “mentre i genitori di Zimmerman, nonostante la grande pena che stanno vivendo, possono ancora parlargli”, volevano solo un atto di giustizia, rappresentato dall’arresto del giovane “che ora potrà raccontare la sua versione dei fatti”, precisa la signora Fulton, chiarendo che si aspetta un processo giusto e non necessariamente una condanna. Nella comunità di Sandford, però, non si respira la stessa sofferta serenità. Da giorni, almeno due dozzine di persone, abbigliate in stile militare con stivali di pelle, teste rasate e svastiche ben in vista, si aggirando per la cittadina per “proteggere l’incolumità dei bianchi”. Arrivati da diverse parti del Paese, sono tutti affiliati del Movimento Nazional Socialista, il più grande gruppo neo nazista americano guidato dal comandante Jeff Schoep. “Noi non siamo qui a cercare rogne – precisa Schoep – ma siamo pronti comunque a difenderci”. La maggior parte di loro gira armata, sebbene nessuno abbia chiarito che tipo di armi da fuoco siano in loro possesso, e rifiuta di farsi fotografare per non avere problemi nei luoghi di lavoro. “Il nostro scopo è quello di proteggere la comunità bianca in questo momento minacciata nella sua tranquillità“. Il movimento neo nazista è attivamente impegnato contro la droga, i gay, i matrimoni misti e l’immigrazione di persone non bianche. “Un sacco di gente pensa che il tizio che ha ucciso Trayvon fosse un bianco – ci tiene a precisare Schoep – ma lui è mezzo ispanico o cubano o qualcosa di simile. Non somiglia a me”. Molti nella comunità sono preoccupati che la presenza di queste “ronde” neo naziste, armate, possa inevitabilmente surriscaldare gli animi e scatenare guerriglie a sfondo razziale.
L’ARRIVO dei neo nazisti è, in parte, una reazione alla taglia di 10mila dollari messa sulla testa di Zimmerman dal gruppo delle New Black Panther; decisione criticata dalla maggioranza della comunità afro americana. “Ovunque ci sia un evento con un risvolto razziale – dice il neo nazista Schoep – questi arrivano a difendere la comunità nera. Ecco, noi facciamo lo stesso. Soprattutto, quando i bianchi sono messi in pericolo da due, Trayvon E Zimmerman, che di bianco non hanno un bel nulla”.

il Fatto 13.4.12
Libertà negata. Mister Satana morirà in carcere
di Andrea Scanzi


Mister Satana morirà in carcere. Charles Manson oggi ha 77 anni, una svastica scolorita sulla fronte (all’inizio era una “x” da esibire al processo) e quasi mezzo secolo trascorso in carcere. Sconta una condanna come mandante di almeno 7 omicidi. Pena di morte nel 1971, poi comminata in ergastolo perché la California abolì la pena capitale. I tribunali americani, due giorni fa, gli hanno negato la libertà condizionale per la dodicesima volta. La prossima udienza ci sarà, se ci sarà, tra quindici anni. Era presente anche Debra Tate, sorella di Sharon. Attrice e moglie di Roman Polanski. Il 9 agosto 1969, Sharon era incinta di otto mesi e mezzo. Fu massacrata, insieme a tre amici, all’interno di una villa a Cielo Drive. Il ricco quartiere di Los Angeles. Polanski non c’era, aveva appena terminato di girare Rosemary’s Baby. La villa era proprietà di Terry Melcher, figlio di Doris Day, artista e produttore musicale. Forse la “causa” fu lui. Aveva mostrato interesse per le canzoni di Manson, ma poi si rifiutò di scritturarlo per la Columbia Records.
Da qui la vendetta. Di Manson e dei suoi adepti, la “Family”, espressione peggiore di una assai fraintesa Summer of Love. Sesso, droga, violenza. Furti e omicidi – a coltellate, revolverate, forchettate – per sopravvivere. Helter Skelter, hit dei Beatles, presa come messaggio subliminale per scatenare il caos. Le scritte “Death to Pigs” (“Morte ai maiali”) e derivati per depistare gli inquirenti, facendo ricadere la colpa sui “negri”. Charles Manson, e i discepoli che vedevano in lui l’unione di Gesù Cristo e Sa-tana, ha incarnato la quintessenza del Male. Molto più di Mark David Chapman, omicida di John Lennon, un altro che da decenni chiede (senza ottenerli) sconti di pena. Figlio di una prostituta, padre mai conosciuto, all’anagrafe “No Name Maddox”. Cresciuto da zii che lo odiavano, umiliavano, picchiavano. La fuga da casa a 12 anni. Il primo carcere, ancora minorenne, dove fu violentato e seviziato. Sotto lo sguardo compiacente delle guardie. Prima delle mattanze del ’69 si era fatto dieci anni di carcere. Nel marzo ’67, quando tornò libero, si reinventò hippy. In prigione aveva imparato a suonare la chitarra. Si trasferì a San Francisco, dove aggregò la Famiglia, composta da uomini e donne non meno devastati di lui. Carismatico, efferato, razzista. Ne abbindolò molti, compresi i Beach Boys, che pubblicarono una sua canzone. Proprio nel ’69. Modificarono titolo, testo, arrangiamento. Manson lo prese come ulteriore affronto. Il processo fu lunghissimo, senza la delazione di Linda Kasabian (il “palo” durante il commando a Cielo Drive) non sarebbe stato condannato.
Ha ispirato film, canzoni. Ha avuto almeno un figlio, il deejay 45enne Matthew Roberts. Adottato. Quando lo ha appreso, è entrato in depressione: “È stato come scoprire di essere figlio di Adolf Hitler”. Roberts ha cominciato a scrivere al padre biologico: “Mi rispondeva con frasi folli. La sua firma? Una svastica”.

Corriere della Sera 13.4.12
La scalata della «principessa rossa»
Dopo il siluramento di Bo Xilai si riaprono i giochi per il Politburo Liu Yandong potrebbe essere la prima donna nei «magnifici nove»
di Marco Del Corona


PECHINO — La rovinosa caduta di Bo Xilai e il tinnire di manette che ha tolto di scena anche sua moglie Gu Kailai, sospettata per l'omicidio del britannico Neil Heywood, sono tra i pochi fatti certi che si stagliano al centro di un forsennato turbinio di ricostruzioni, voci e ipotesi. Della vittima si sa ora che poco prima di morire, probabilmente davvero ucciso, temesse per sé e avesse lasciato a un avvocato inglese le carte sugli investimenti all'estero di Bo: un'«assicurazione sulla vita».
Ma le speculazioni politiche guardano avanti, al congresso del Partito comunista che si svolgerà in autunno e che dovrà selezionare i nove membri del nuovo Comitato permanente del Politburo, la vera super-élite. Bo, «neomaoista» ambizioso, contava di entrare tra quei nove. La sua fine invece potrebbe aver liberato un posto. Una poltrona per la quale si aprono i giochi (magari con un nuovo scontro riformisti-sinistra) ma che potrebbe venir occupata da una donna. Qualcuno ha anche fatto il suo nome: Liu Yandong.
Già adesso Liu è forse la più vicina alle supreme sfere del potere cinese. È membro del Politburo allargato, ha ricoperto cariche diverse (come la presidenza dell'associazione delle donne) e ha una serie di legami rodati con i leader attuali. È legata a Jiang Zemin perché il padre adottivo del futuro numero uno era stato fatto entrare nella Gioventù comunista proprio dal padre della signora. E come Hu Jintao e il suo successore Xi Jinping ha studiato all'università Qinghua.
Iscritta al Partito da quand'aveva 19 anni, ha diverse competenze e la sua versatilità la porterà tra qualche giorno a Londra a inaugurare la fiera del libro, quest'anno dedicata alla Cina: il Daily Telegraph, che ne ha scrutato l'ascesa, riporta tra l'altro il giudizio dell'accademico Bo Zhiyue che parla delle sue connessioni come di «un grande vantaggio».
Liu, al pari del futuro segretario Xi Jinping e dello stesso Bo Xilai epurato, è una «principessa rossa», figlia di Liu Ruilong, viceministro dell'agricoltura agli inizi della Repubblica Popolare, e questo potrebbe contare a suo favore. Piacque invece meno, tre anni fa, che la figlia — che ha vissuto per anni negli Stati Uniti — avesse partorito a Hong Kong. Da qui al congresso può accadere di tutto, anche che Zhou Yongkang — l'unico alleato di Bo Xilai tra i nove — venga indotto alle dimissioni, come si vociferava ieri. Tuttavia se Liu entrasse nella leadership ristretta, benché a 66 anni sia forse un po' troppo vicina alla soglia del pensionamento (70), la sua cooptazione sarebbe una tappa storica per la Cina.
Mai una donna è salita così in alto. Wu Yi è stata vicepremier e ministro del Commercio (1993-1998), ma per trovare altre figure ai vertici bisogna scendere verso altre epoche. Deng Yingchao, moglie del premier Zhou Enlai e membro del Politburo allargato, tra i diversi incarichi ebbe quello di presidentessa della Conferenza consultiva. Song Qingling, vedova del leader nazionalista (e nel 1911 presidente della Repubblica di Cina) Sun Yat-sen, fu molte cose benché esponente del Kuomintang «di sinistra»: vicepresidente e, per una dozzina di giorni prima della morte nel 1981, presidente onorario della Repubblica Popolare. Altri tempi. Durante i quali non era necessario, come invece ha comunicato ieri la Xinhua, chiudere in un mese 42 siti web e cassare 210 mila messaggi online pur di smorzare la curiosità e le chiacchiere di una nazione di internauti.
Marco Del Corona

Repubblica 13.4.12
L'urlo di Mélenchon il Santerre di sinistra che sfida Sarkozy
di Bernardo Valli


A vent'anni, Jean-Luc Mélenchon scelse come pseudonimo "Santerre". I militanti trotskisti, e lui si era appena iscritto all'Oci (Organizzazione comunista internazionale), dovevano averne unoe lui prese il nome di Antoine Joseph Santerre, un ricco birraio del faubourg Saint-Antoine che il 14 luglio 1789 partecipò alla presa della Bastiglia; e che quattro anni dopo, il 21 gennaio 1793, nella veste di capo della guardia nazionale, accompagnò Luigi XVI alla ghigliottina. A sessant'anni lo stesso Mélenchon, capo del Fronte di Sinistra ( Front de Gauche) e candidato alla presidenza della Quinta Repubblica, si definisce «l'urlo e il furore», e ancora «il tumulto e il fracasso». Nonostante siano passati alcuni decenni, il personaggio continua a identificarsi in immagini forti. E non si limita ad evocarle. Le anima. Le rende viventi. Le interpreta nei lunghi, appassionati e spesso provocatori soliloqui che pronuncia, appunto con furore e fracasso, nei comizi: sulla piazza della Bastiglia a Parigi, sulla piazza del Capitol a Tolosa, sulla piazza del Prado a Marsiglia, dove raccoglie folle pari a quelle di Hollande e Sarkozy, i due principali candidati. A volte più folte. Senz'altro più entusiaste. Esaltate.
All'età in cui un uomo, politico o non politico, ha di solito imparato a dosare i giudizi, e in generale le parole, il più che maturo "Santerre" lascia esplodere la collera. Una collera rimasta imbrigliata a lungo, dopo l'inconcludente esperienza trotskista, negli stretti abiti socialisti, indossati si direbbe con rassegnazione, come militante, ministro, senatore ed eurodeputato. Spretatosi, Mélenchon ha creato nel 2008 la sua fronda, la sua eresia: il Parti de Gauche, ispirato dal Die Linke tedesco di Oskar Lafontaine, uscito dalla Spd come Mélenchon dal Partito socialista.
E adesso infine si sfoga, dicono gli psicologi specializzati in leader politici. Ha un temperamento che si incendia facile. E' nato in Marocco, a Tangeri, e ha ascendenze siciliane e spagnole. Si sfoga sul serio. Si pensi a come parla dei giornalisti della sinistra liberale, quelli del Nouvel Observateur: dice che «devono essere rimandati come i topi nella fogna a colpi di ramazza». E il direttore del settimanale, Laurent Joffrin, risponde ricordando che Mélenchon persevera in una lunga tradizione: i comunisti dicevano di Sartre che era «una iena dattilografa». Il capo del Front de Gauche ha riacceso la polemica tra le due sinistre, quella riformista e quella estrema, radicale. L'ha riesumata nel momento politico più propizio per attirare l'attenzione, definendo il candidato François Hollande un leader di sinistra inutile, come può esserlo un socialdemocratico. La campagna presidenziale è la principale consultazione nella Quinta Repubblica. Durante la gara per il primo turno (22 aprile), gli attuali dieci candidati alla massima carica dello Stato offrono agli elettori l'occasione di sbizzarrirsi, di scegliere liberamente, per le idee o la simpatia, il loro campione; la vera decisione sarà presa più tardi, dopo una pausa di due settimane, al ballottaggio (6 maggio), quando in campo saranno rimasti soltanto due dei dieci candidati iniziali. Stando alle quotidiane indagini d'opinione, Mélenchon non può arrivare al finale. Il pronosticato 15% non basta.
Ma il suo attuale successo si riverbererà sulle elezioni di giugno, quelle legislative, che seguiranno le presidenziali. Di solito le legislative premiano il capo dello Stato appena insediato. Ma nel caso quest'ultimo ottenesse una maggioranza risicata, destinata a lasciare metà del paese insoddisfatto, e con la voglia di negare al neoeletto l'appoggio del Parlamento, ci potrebbero essere delle sorprese. Il presidente, senza il sostegno dell'Assemblea nazionale, la camera bassa, potrebbe essere subito dimezzato nei suoi poteri.
Questa improbabile ipotesi va prospettata per sottolineare che la gara per il primo scrutinio può comunque lasciare delle tracce, oltre ad offrire la possibilità di apparire sulla ribalta nazionale. Mélenchon che ha sognato in gioventù di essere "Santerre", un personaggio simbolico della grande rivoluzione, e che adesso si sente «l'urlo e il furore» del popolo di Francia, occupa con grande successo quella ribalta. L'oscillante 15% dei consensi virtuali attribuitigli possono essere determinanti.
Possono essere positivi o negativi per la sinistra. Nonostante la polemica con i riformisti, i voti raccolti da Mélenchon al primo turno dovrebbero riversarsi al ballottaggio su François Hollande, leader della sinistra, e favorire, anzi consentire la sua vittoria su Nicolas Sarkozy. Questo il fattore positivo.
Quello negativo è che l'effetto «urlo e furore» di Mélenchon possa allontanare gli indispensabili elettori centristi o gollisti più sensibili. Già adesso Nicolas Sarkozy insiste sull'estremismo di Mélenchon. Il quale potrà influire, a suo avviso, sulla politica di François Hollande, e quindi spaventare i mercati finanziari, nel caso quest'ultimo venisse eletto presidente. Sarkozy non nasconde tuttavia un debole molto personale per il candidato dell'estrema sinistra. Si dichiara sensibile, sul piano umano, al fatto che sia un ammiratore di sua moglie Carla Bruni. Mélenchon dice infatti di amare le sue canzoni. Le ascolta spesso. Lo fanno sognare, sostengono con perfidia i suoi avversari.
Il successo della campagna elettorale di Mélenchon è senz'altro dovuto alla sua capacità di esaltare la folla, alle sue doti di tribuno. Ma ha contato e conta anche la dinamica propria del Front de Gauche, che ha creato una forza politica consistente, qualcosa di simile a un fronte popolare, alla sinistra del Partito socialista. La coalizione è nata nel 2009 da quel che era rimasto del Partito comunista (1,93 % alle elezioni del 2007), dal Partito di Sinistra di Mélenchon, da altre piccole formazioni e da trotskisti e verdi senza ancoraggio, in libera uscita. Su questa base, grazie alla sua abilità di tribuno, Jean-Luc Mélenchon ha «rimesso alla moda il rosso «.
Il suo discorso si basa sulla crisi del sistema capitalistico. Condanna il mondialismo. Gira le spalle all'Europa. Auspica la nascita di una Sesta Repubblica in cui il popolo conti sul serio. A fondarla dovrebbe essere una « révolution citoyenne », cioé una volontà espressa da un voto democratico. I richiami alla Cuba di Fidel Castro e al Venezuela di Hugo Chavez restano nel sottofondo, e non sono tanto l'espressione di un'affiliazione ideologica quanto un pretesto per manifestare l'ostilità nei confronti degli Stati Uniti.
Definito dai critici surrealista, il programma del Front de Gauche, disegna un orizzonte per ora irraggiungibile. Esige tra l'altro il salario minimo a 1.700 euro; il rimborso al 100% delle spese sanitarie; fissa il reddito massimo di un cittadino a 360 mila euro all'anno; chiede il riesame del codice del lavoro al fine di vietare la precarietà; si propone di creare uno statuto sociale per tutti i giovani al fine di garantire la loro autonomia economica. Per ritrovare un avvenire, dice Mélenchon, bisogna affrontaree sconfiggere il capitale finanziario. Il successo di Mélenchon non è dovuto a quel che promette, ma a quel che denuncia. E al modo diretto, brutale, con cui lo fa. Molti virtuali elettori socialisti accorrono ai suoi comizi per «ingelosire» e incitare François Hollande ad assumere posizioni più di sinistra.
Le provocazioni di Mélenchon, il suo linguaggio spesso crudo, attirano molti « bobo» parigini (i bourgeois-bohème ), discendenti dei «gauscisti» di un tempo, delusi dalla pallida sinistra di Hollande.
Seduce in Mélenchon la schietta denuncia della corruzione che regna nel mondo. E' il candidato prediletto dagli autori di romanzi polizieschi. Uno di loro, Jérome Leroy, scrive che al di là della sua abilità di tribuno, Mélenchon piace perché è il solo a denunciare, con parole che fanno male, una realtà francese trascurata da tutti.
In questo senso il suo comportamento è simile a quello di un autore di noirs. Come un romanzo poliziesco lui, Mélanchon, è urlo e furore, tumulto e fracasso.

Repubblica 13.4.12
La leader studentesca cilena: "Le sue riflessioni sono luce e speranza. Da noi più repressione che all'Avana"
La blogger cubana: "Curioso paradosso la ribelle che condivide parole e sorrisi con un regime oppressivo"
Camila e Yoani ragazze contro scoppia la lite su Fidel Castro
di Omero Ciai


Apriti cielo: le due cover girl della politica latinoamericana litigano. Su Twitter, in Tv, sui giornali. Unaè Yoani, la blogger, divenuta in pochi anni la dissidente per eccellenza, la voce più cercata e ascoltata dell'opposizione cubana (tanto che un giornale molto autorevole come El Paìs ha pensato perfino di nominarla "corrispondente" dall'isola) ; l'altra è Camila, cilena, laureanda in Geografia, leader delle proteste per l'istruzione pubblica, cui il New York Times Magazine ha appena dedicato uno sterminato reportage festeggiando quel suo volto hollywoodiano che più glamour non si può, e i lettori del britannico Guardian hanno eletto "personaggio dell'anno".
Due star ribelli, amatissime dai mass media internazionali, che avrebbero potuto perfino fraternizzare. Invece sulla loro strada hanno trovato il controverso mito di Fidel Castro. Tutto è cominciato quando Camila Vallejo è arrivata in visita ufficiale a L'Avana per un appuntamento di regime - il 50° della gioventù comunista - e Yoani Sanchez ha chiesto di incontrarla riassumendo poi i suoi tentativi falliti in un articolo per il quotidiano cileno La Tercera.
Mentre Yoani la cercava, Camila si lasciava andare a considerazioni del tipo «in Cile c'è più repressione che a Cuba» oppure «Fidel è un gran visionario, una luce, e le sue riflessioni sono indicazioni preziose per il nostro futuro». Veniva ricevuta dal líder máximo in pensione e partecipava ad una blindatissima assemblea universitaria nel corso della quale solo pochi fedelissimi avevano accesso ai microfoni per le domande.
Intanto la Sanchez incalzava: «A Cuba si afferma che l'Università è per i rivoluzionari. Ma i rivoluzionari di qui sarebbero reazionari in qualsiasi altra parte del mondo». E ancora «Come mi piacerebbe parlare con Camila ma la cerchia governativa che la circonda è inespugnabile. Se potessi parlare con lei, cercherei di raccontarle di quest'altra Cuba che la propaganda ufficiale nasconde». Ma Camila diventava anche un po' sprezzante. Interrogata dalla Cnn sul mancato incontro con Yoani, o con qualche altro rappresentante della dissidenza, rispondeva: «Non era necessario e con quale legittimità voleva impormi la sua situazione particolare.
Noi vogliamo conoscere la realtà del popolo cubano ma non attraverso la testimonianza di una solo persona, piuttosto attraverso quella di migliaia di persone e questo è quel che abbiamo fatto». Insomma il déjà vu era servito. «La vera sofferenza dei cubani - dice Camila - è l'embargo americano». E in suo soccorso chiama Oliver Stone e il documentario, "Comandante", che qualche anno fa ha dedicato a Fidel. «Se ancora c'è gente che pensa che io non abbia la capacità di vedere da sola la verità che si nasconde dietro l'ufficialità del protocollo (che per altro - sottolinea - è di un machismo impresentabile) spero non cadano nella paranoia di credere che un cineasta del livello di Oliver Stone sia disposto a prestarsi ad un balordo montaggio». Contestata anche in Cile (da destra: «non dovrebbe far politica ma concorsi di bellezza», e da sinistra: «i diritti umani vanno difesi ovunque, soprattutto a Cuba») la reginetta degli studenti latino americani ha salutato l'isola con un articolo per il sito web di regime dove spiegava: «Quella di Fidel Castro è una delle leadership più importanti del mondo. È un punto di riferimento universalee non solo i comunisti lo appoggiano. Di fatto anche grandi imprenditori capitalisti vogliono incontrarlo per sapere cosa accadrà nel mondo. Ha una capacità, una lucidità, una intelligenza, un livello di cultura e di uso delle informazioni impressionante». Sconsolata Yoani Sanchez: «Curioso paradosso. Dalle posizioni ribelli nel suo paese Camila è passata a condividere parole e sorrisi con il regime cubano». La giovane Camila, che in Cile milita nel partito comunista cileno (tre deputati in parlamento), non è nuova a prese di posizione particolarmente ortodosse. Mesi fa si oppose - ma poi in parte ritrattò - ad una eventuale nuova candidatura dell'ex presidente socialista Michelle Bachelet. Ma quel che è peggio sembra che - ad oltre quarant'anni dal giorno in cui Fidel Castro regalò il suo kalashnikov a Salvador Allende, il presidente cileno eletto che, più tardi, lo utilizzò per suicidarsi nel palazzo della Moneda bombardato dall'esercito golpista- la sinistra latino americana si dibatta ancora con i suoi vecchi demoni.

La Stampa 13.4.12
Il film che sana una ferita
Perché vedere “Diaz” è un dovere civile
Occasione non di polemica ma per far entrare i fatti di Genova nella memoria collettiva del Paese
di Antonio Scurati


Andare a vedere Diaz è un dovere civile. Il film di Daniele Vicari sulle violenze perpetrate da alcuni reparti della polizia durante il G8 di Genova del luglio 2001, non sarà una visione piacevole, non sarà una visione divertente, non sarà una visione conciliante. Sarà, in compenso, un’esperienza memorabile.
Il film di Daniele Vicari sulle violenze durante il G8 di Genova del 2001 non è una visione piacevole, non è una visione divertente, ma un’esperienza memorabile
Sì, perché di questo si tratta. Questo è il pregio etico ed estetico di questo film potente e commovente: ci investe con un flusso di immagini destinate a restare nella memoria e, ancor di più, ci consegna una storia per immagini che finalmente consente agli italiani della presente e delle future generazioni di far entrare nella propria memoria nazionale i fatti accaduti nei terribili giorni di quel luglio d’inizio secolo e millennio.
I fatti sono noti. Noti, arcinoti e, per l’appunto, dimenticati: sabato 21 luglio 2001, ultimo giorno di manifestazioni e scontri al G8 di Genova, poco prima di mezzanotte, centinaia di poliziotti fanno irruzione nel complesso scolastico «A. Diaz» – adibito dai manifestanti a media-center – picchiano selvaggiamente e arrestano immotivatamente centinaia di ragazze e ragazzi, italiani e stranieri, inermi e colti nel sonno. Poi falsificano le prove riguardo presunti reati di resistenza e porto d’armi cercando di depistare le indagini. Amnesty International definirà l’accaduto come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della II guerra mondiale».
A questo proposito sarà bene chiarire subito una cosa: non deve essere questo film l’occasione per riaprire la ferita di una sterile e annosa polemica nei confronti della polizia. La condotta di quei reparti di polizia in quelle circostanze fu illegale, inaccettabile e vergognosa proprio perché polizia di uno Stato democratico in cui tutti ci riconosciamo, non certo di quel sinistro «stato di Polizia» che fu bersaglio polemico di legioni di antagonisti dei secoli precedenti. Lo Stato siamo noi, dunque la Polizia siamo noi, dunque pretendiamo che i suoi agenti si conducano nel rispetto della persona e della legalità. Punto. Fine delle polemiche.
No, la straordinaria occasione fornitaci da produttori, sceneggiatori, regista e attori di questo film è ben altra: è l’occasione di una testimonianza artistica indelebile grazie alla quale la ferita possa finalmente sanarsi come pelle lacerata attorno a un primo, piccolo coagulo di sangue rappreso. Ora, forse, finalmente, grazie a questo film coraggioso, i fatti di Genova, potranno uscire dal ricordo individuale ed entrare nella memoria collettiva. Potranno, insomma, smettere di sanguinare uscendo dalla necrotica zona di rimozione in cui rischiavano di piombare ed entrando, benignamente, nell’esperienza della Nazione. Sì, perché questo è il significato dell’esperienza, di quel vivere consapevole con cui è possibile riconciliarsi: la ferita più la memoria che ti ha lasciato.
E ferita, indubbiamente, vi fu. Ferita profonda. Diaz di Daniele Vicari esce nelle sale italiane a pochi giorni di distanza da Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Impossibile non accostarli. Impossibile ma equivoco. La contiguità temporale potrebbe indurre a collocare i fatti narrati da Vicari nello stesso solco storico degli antefatti e retroscena della strage di piazza fontana narrati da Giordana. Se lo si facesse, a mio modesto parere, si prenderebbe un grosso abbaglio. Non siamo di fronte al proseguimento della stessa eterna, identica storia di un medesimo volto tenebroso di un potere arcano che si esercita attraverso complotti, trame oscure, misteri inconfessabili e irrisolti. Quella raccontata da Diaz è un’altra storia, che riguarda una nuova e diversa generazione e che ci impone, se vogliamo renderle giustizia, di ribellarci al ricatto ideologico in forza del quale in tutti questi anni ci è stato quasi imposto di ricondurre ogni passaggio della storia italiana recente alla presunta matrice universale della strategia della tensione e delle violenze politiche degli anni ’70.
Ciò che rende la storia narrata da Diaz una storia diversa è soprattutto la natura del contropotere che vi si rappresenta, i volti, le identità e i destini delle ragazze e dei ragazzi catturati nella mattanza verso cui l’intero film precipita come verso un centro vorticoso, violento e vuoto. Nel secolo scorso, ogni volta che le forze del cambiamento s’infrangevano contro la violenza altrui, gli antagonisti si rassodavano nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta, si rafforzavano nelle loro motivazioni di impegno nella lotta politica (talvolta scegliendo la violenza in proprio). Ciò che accadde a Genova fu tutt’altra storia: fu l’unico e ultimo, debole conato di partecipazione attiva alla vitapolitica da parte di una generazione cresciuta dopo la grande smobilitazione ideologica degli anni ’80. Quella generazione tentò allora di alzare la testa. Fu bastonata e la riabbassò per non alzarla mai più. Soltanto due mesi dopo quel luglio del 2001 venne l’Undici Settembre a seppellire lo slancio del movimento alter mondista. Adesso, dieci anni più tardi, la carne morsa dalla crisi, ci accorgiamo di quante ragioni ci fossero in quelle azzittite voci di dissenso.
Per tutti questi motivi, poter vedere Diaz di Daniele Vicari, non è solo un dovere civile, è,oserei dire, un diritto civile. Il diritto di una generazione – che non è affatto la stessa di Piazza Fontana – a riappropriarsi della propria storia, la storia di una generazione perduta alla politica. E le conseguenze di questa perdita sono sotto gli occhi di tutti."Una generazione perduta alla politica ha diritto di riappropriarsi della propria storia"

Corriere della Sera 13.4.12
Osservatore, il passato alle spalle
Internet, economia, bioetica: la svolta del quotidiano pontificio
di Francesco Margiotta Broglio


S ergio Romano, nel contributo al volume del 2010 per i 150 anni de «L'Osservatore Romano» (Singolarissimo giornale, a cura di A. Zanardi Landi e di G. M. Vian) ha ricordato che, quando nacque, il 1° luglio 1861, vi erano ancora in Europa tre imperatori (a Vienna, a Parigi e a San Pietroburgo), ai quali si aggiungeranno quello di Germania e la regina Vittoria diventata imperatrice delle Indie. Fra gli altri sovrani restò, fino al 1870, il Papa Pio IX che, aggiunge Romano,«poteva anch'egli, per certi aspetti, essere considerato imperatore».
Non so quanti «imperatori» vi siano oggi, dopo più di un secolo e mezzo, ma il quotidiano vaticano gode di una salute ben migliore, come conferma la raccolta di cento editoriali dal 2007 al 2011 (Uno sguardo cattolico, introduzione di G. M. Vian, Milano, Vita e Pensiero). In quella temperie, per iniziativa di due «rifugiati politici», legati all'intransigentismo, giunti a Roma dopo l'invasione italiana, con l'appoggio del nonno di Pio XII, Marcantonio Pacelli (allora sostituto ministro dell'Interno) e con finanziamenti privati, esce a Roma, con sede in piazza Santi Apostoli, il primo numero di un giornale destinato a restare la voce del papato romano. Nell'editoriale del primo numero si prendeva atto che l'Italia era «ormai divisa in due campi contrari», necessariamente «in opposizione irreconciliabile»: di fronte alla «falsa indipendenza» e alla «menzognera libertà» di coloro che combattevano il «dominio temporale della Santa Sede», non si poteva che battersi per la «giustizia» e per «la luce», sicuri che Non praevalebunt. Espressione che, col romanistico Unicuique suum, campeggia ancora, sotto il titolo, nella testata.
L'analisi delle oltre 150 annate compiuta dagli autori del volume sulla «singolarità» del giornale, mette in evidenza la particolare rilevanza delle sue pagine per una ricostruzione della visione che, in un secolo e mezzo, Papi e Curia ebbero delle vicende italiane e internazionali. Un'attenzione, questa per la politica internazionale, che la Santa Sede, prima della Società delle nazioni e dell'Onu, potè ad essa riservare grazie alla sua articolata e quasi unica funzione di «collettore» privilegiato di notizie e documenti: non solo della sua diplomazia ma anche della rete delle diocesi, congregazioni religiose, associazioni di azione cattolica nel mondo.
La prima svolta nella storia del giornale — mai diretto da ecclesiastici — è segnata dall'editoriale scritto dall'allora cardinale Montini, in occasione del centenario dell'«Osservatore», il quale, dopo averlo definito singolarissimo organo di stampa, ne sottolinea il ruolo di «giornale di idee» e ne ricorda la funzione «meravigliosa» negli anni della Seconda guerra mondiale, quando, di fronte ad una stampa italiana «imbavagliata da una spietata censura e imbevuta di materiale artefatto», «continuò impavido il suo ufficio di informatore libero e onesto». Seguiranno gli anni del Vaticano II e dei pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, che vedranno il rinnovamento conciliare e la rivoluzione «epocale» del dopo 1989.
La seconda svolta è quella testimoniata dai cento editoriali raccolti con il titolo Uno sguardo cattolico e dal radicale rinnovamento dell'«Osservatore» — voluto da Benedetto XVI e segnato dalla direzione Vian — che ha comportato un maggiore spazio per le firme femminili e la collaborazione di intellettuali prestigiosi, cattolici, cristiani di altre confessioni, laici e appartenenti all'ebraismo e all'Islam, oltre a un ulteriore sviluppo dell'interesse per i problemi del mondo. Il giornale ha affrontato, nell'ultimo quadriennio, questioni anche scomode per il Vaticano o, quanto meno, lontane dalla tradizionale impostazione che era stata oggetto di alcune ironie anche da parte del cardinale Montini, e da quei luoghi comuni che il direttore Vian sintetizza nella definizione di plumbea «Pravda vaticana», e che l'«editore», Benedetto XVI, vuole dissipare anche per fronteggiare l'invasione televisiva e telematica che sta rivoluzionando l'informazione religiosa.
Si è discusso, come rileva Vian, «di bellezza e di bioetica, della persona umana e di scienza, di santità e di storia, di religione e laicità» (ma anche di economia, di internet e dello scandalo della pedofilia), confrontandosi con la contemporaneità «nella fedeltà alla tradizione cattolica». Il merito della sua direzione è evidente, ma la sensibilità culturale dell'«editore» ne è premessa indispensabile.
Tra gli autori degli editoriali, politici come Gordon Brown, Tony Blair e Sergio Chiamparino; docenti appartenenti ad altre religioni come Fouad Allam che insegna a Trieste, Lossky dell'Istituto ortodosso di Parigi, il protestante Didier Sicard di Paris Descartes, il pastore luterano di Roma Kruse, il rabbino capo di Roma Di Segni, e Giorgio Israel della Sapienza; storici laici come Galli della Loggia, Aldo Schiavone, Alain Besançon e Tamburrano; firme femminili come le storiche Anna Foa e Lucetta Scaraffia, entrambe alla Sapienza, e il presidente della Bce, Mario Draghi. Oltre al direttore Vian, sono presenti, tra gli editorialisti, cardinali, arcivescovi, religiosi e sacerdoti, giornalisti del quotidiano e autorità della Santa Sede.
Dispiace, in questo contesto, che nell'articolo di Manuel de Prada sui martiri della guerra civile spagnola, beatificati nel 2007, non siano menzionate le moltissime vittime che furono dalla parte del governo legittimo e che vennero massacrate dalle truppe rivoltose di Franco, appoggiate dalla maggioranza dell'episcopato, ed esaltate dagli editoriali dell' «Osservatore Romano» dell'epoca. Ma si era, nell'ottobre 2007, solo all'inizio del «cambiamento»: del resto l'autore non esita ad attaccare la legge spagnola della memoria storica, dimenticando che la «battaglia fratricida» fu voluta dai franchisti.
Ben diverso il tono del contributo di Cancelli, del 3 agosto scorso, a proposito del vescovo tedesco von Galen, creato cardinale da Pacelli, e beatificato da Benedetto XVI: nel ricordare le coraggiose omelie del 1941, l'autore sottolinea la testimonianza del presule che con parole assai forti, che tengono «ancora con il fiato sospeso», si ribellò contro la pratica nazista volta ed eliminare i malati psichiatrici in quanto «membri improduttivi della comunità nazionale», e concludendo: «La via è aperta per l'uccisione di tutti noi quando saremo vecchi e infermi... nessun uomo sarà al sicuro».
Un porporato, commentando anni fa un non felice intervento del «giornale del Papa», alla mia domanda: «Ma quando cambieranno?», rispose: «Quando nella testata dovranno scrivere Prevaluerunt!». Forse non ci siamo ancora, ma molta strada è stata fatta.

Repubblica 13.4.12
Lo storico della medicina e il dibattito sulle terapie cliniche
Il dibattito fu aperto su “Repubblica” del 22 febbraio dagli psicoanalisti
Studi sul cervello e psicoanalisi
di Gilberto Corbellini

qui

Repubblica 13.4.12
Povera classe media senza più modelli
Il declino dell’uomo americano
di Maurizio Ricci


L'ultimo libro di Charles Murray spiega come è finito il mito della tradizionale "way of life" Le sue tesi hanno provocato reazioni polemiche di intellettuali "liberal" come Krugman

Vi ricordate l'America? L'America dei film di Frank Capra, ma anche di John Wayne e di decine di serie televisive: quell'insieme di ambizione, lavoro duro, certezze religiose, solidità familiare, scrupolo morale, spirito di solidarietà, attivismo comunitario che rendevano l'American way of life un impasto unico al mondo, condiviso in ogni angolo e in ogni strato sociale del paese.
Quell'America non c'è più. Si sta erodendo e disgregando, scrive Charles Murray nel suo ultimo libro, Coming apart, anche doveè nata, nel suo cuore storico: l'America bianca.
Murray è un uomo di destra. Il suo libro più famoso, The Bell Curve, è stato al centro di aspre polemiche, perché sembrava implicare una inferiorità genetica dell'intelligenza dei neri. Anche per questo, forse, nel nuovo libro, Murray si concentra sull'America bianca. Ma pure questa finisce per essere una scelta di destra, che individua nei soli bianchi i depositari di quegli ideali e di quei valori, in contrapposizione all'America multicolore di Obama. Come è di destra l'idea che l'erosione dell'American way of life non sia generalizzata, ma contrapponga una parte del paese, che le rimane fedele, ad una parte che se ne allontana e che questa spaccatura si sia aperta con la "rivoluzione culturale" degli anni '60: rock, marijuana, diritti civili e liberazione della donna. Sembra di sentire la retorica di Rick Santorum e di Newt Gingrich contro le élites liberal delle due coste, lontane dall'America profonda. Murray le distingue anche geograficamente, isolando le élites in una serie di enclaves, i superZip, cioè distretti postali (superCap, li chiameremmo noi), sparsi fra New York, San Francisco, Chicago e Philadelphia, rispetto all'America delle città ex operaie della Pennsylvania o del Michigan. A distinguerle sono le differenze di reddito, ma Murray, come tutta la destra americana, insiste che la divaricazione principale non è economica o politica. È culturale. La contrapposizione tra un'America delle classi alte, convertita al camembert e al Borgogna, allo yogurt e al muesli, e un'America delle classi inferiori, rimasta a birra e salsicce è, da molti anni, merce corrente su qualsiasi quotidiano. Murray ne riassume le caratteristiche, costruendo un virtuale superZip, Belmont, abitata da medici, avvocati, ingegneri e guru della finanza e una altrettanto virtuale città ex operaia, Fishtown, dove vive gente senza laurea, colletti blu, impiegati, commessi e misurandone aspirazioni e comportamenti. Ed è qui che Murray compie un'inattesae vistosa inversionea U, rispetto alla tradizionale propaganda della destra repubblicana. Perchéèa Belmont, fra le élites dei laureati e post-doc (il 20 per cento della popolazione bianca americana fra i 30 e i 50 anni), dicono i suoi dati, che l'American way of life continua a vivere e prosperare. Ed è nella Fishtown di una classe media che sprofonda verso il basso (30 per cento dei bianchi della stessa età) che quegli ideali e quei valori stanno svanendo.
L'immagine di due traiettorie divergenti è netta. Negli anni '60, a Belmont il 94 per cento dei bianchi era sposato. A Fishtown, l'84 per cento. Nel 2010, era l'83 per cento a Belmont, il 48 per cento a Fishtown. Le ragazze madri bianche, nel 1970, erano l'1 per cento a Belmont, il 6 per cento a Fishtown. Nel 2008, a Belmont siamo ancora all'1 per cento, a Fishtown al 44 per cento. Anche il rapporto con il lavoro è diverso, per un bianco di 30-40 anni, a seconda che viva a Belmont o a Fishtown. Nel primo caso, ad aver rinunciato a qualsiasi tipo di lavoro era il 3 per cento, sia nel 1968 che quarant'anni dopo. A Fishtown la percentuale di uomini giovani che si dichiarano fuori dalla forza lavoro è aumentata dal 3 al 12 per cento. Il tasso di criminalità è rimasto, più o meno lo stesso, durante mezzo secolo, a Belmont, ma è aumentato di cinque volte a Fishtown. Anche la religione, così importante nell'immaginario morale americano, mostra la stessa divaricazione. A Belmont, gli agnostici o indifferenti sono saliti in quarant'anni dal 29 al 40 per cento.A Fishtown dal 38 quasi al 60 per cento.
Il libro di Murray ha suscitato, anche questa volta, polemiche vivaci. Gli intellettuali liberal non ne contestano i numeri, ma la loro spiegazione. Ciò che caratterizza, in questi decenni, Fishtown, dicono, è la costante erosione dei redditi, la discesa dei salari, la chiusura delle fabbriche e la perdita delle occasioni di lavoro, mentre Belmont diventava sempre più ricca. Paul Krugman, ad esempio, si chiede se sia il caso di sorprendersi se i giovani, rendendosi conto che non guadagneranno mai come i loro padri, smettono di sposarsi e condurre le loro famiglie come i loro padri: «Abbiamo creato una società, in cui molti giovani non vedono alcuna possibilità di raggiungere uno status da classe media. A questo punto, guardiamo alla loro incapacità di aderire ai valori della classe media e dichiariamo che ci deve essere qualche forza misteriosa che corrode la nostra moralità». L'accumularsi delle polemiche non stupisce: impostare la campagna elettorale su uno scontro intorno ai valori morali, piuttosto che sulle diseguaglianze sociali e le misure per il rilancio dell'economia è l'asse intorno a cui ruota l'imminente battaglia delle presidenziali. L'analisi di Murray, però, illustra il singolare rovesciamento della politica americana di questi anni. Perché il messaggio di sviluppo di Obama dovrebbe trovare l'eco migliore fra gli impoveriti di Fishtown e quello moralista dei repubblicani fra i pii abitanti di Belmont. Invece, avviene il contrario. Proprio fra i colletti blu dei bianchi trovano più facile eco i proclami contro l'aborto, la contraccezione, gli aiuti di Stato, che Santorum, Gingrich, Romney ripetono ogni giorno e Obama, dicono le elezioni precedenti e tutti i sondaggi, parte con il maggiore svantaggio.
Mentre i laureati post-doc di Belmont sembrano i più infastiditi dall'estremismo dei candidati repubblicani e i più pronti a riportare l'attuale presidente alla Casa Bianca.
Fra le possibili spiegazioni, una ne fornisce l'inchiesta condotta, nelle scorse settimane, dal New York Times. Anche se, apparentemente, sembra complicare ulteriormente il quadro. Dall'inchiesta risulta che le aree del paese che ricevono la quota maggiore di aiuti e sussidi pubblici, in termini economici o di assistenza diretta (Fishtown, sostanzialmente), sono anche quelli dove più forte è la presa elettorale della destra estrema del Tea Party, che si batte all'insegna del meno Stato, meno aiuti, meno debito, meno tasse (sui ricchi). L'elemento cruciale che esce dalle interviste fra gli aderenti del Tea Party è l'aspro, lancinante senso di colpa di chi si rimprovera di non essere in grado di sopravvivere senza aiuti e sussidi. Non è vero che, a Fishtown, l'American way of life è morta. Anche dove non si vede, scava nel profondo della psiche americana. Purtroppo, dice Krugman.

il Venerdì di Repubblica 13.4.12
Maya Sansa. La mia doppia vita tra Camus e Eluana
Tratto dal libro dell’autore algerino, esce “Il primo uomo” di Gianni Amelio
«Sono la madre dello scrittore» dice l’attrice, «Una persona appassionata.
Lontana dalla cupezza che, invece, interpreto per Bellocchio, nel film sul caso Englaro»
di Monica Capuani

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il Venerdì di Repubblica 13.4.12
Perché la ricerca del piacereci ha fatto crescere ma ora può distruggerci
di Giuliano Aluffi

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