sabato 27 ottobre 2018

il manifesto 27.10.2018
Venerdì 26 ottobre 2018 Diego Bianchi ha trasmesso su Propaganda Live, il programma su La7, un’intervista a Rossana Rossanda realizzata qualche giorno prima. La puntata integrale è qui. Rossana compare dopo 1 ora e 55′ circa.
Pubblichiamo lo sbobinato della trasmissione per gentile concessione dell’autore.


Sei appena tornata dalla Francia, mi hai detto che non pensavi di trovare così l’Italia. Che pensavi?
Mancavo dall’Italia da 15 anni, pensavo di trovare un paese in difficoltà economica, politicamente basso, ma non scivolata dov’è adesso, con questa lite continua. Nessuno sente il problema di dire com’è che siamo arrivati a questo punto, com’è che oggi si possono risentire accenti che dopo la guerra non erano più pensabili. La sinistra, che ha perso milioni di voti, non si interroga o, se si interroga, non ce lo dice.
Una volta invece ci si interrogava sempre.
Certo. Adesso non so più se il partito democratico, o come si chiami, farà il congresso.
Quei bei congressi di una volta…
Belli non erano. Erano anche un po’ noiosini. Però c’era il problema di dire dove siamo, cosa succede su scala mondiale, su scala italiana e che cosa proponiamo noi. Sono cose elementari, perché una forza politica deve chiedersi in che mondo mi trovo, in che paese siamo, e che cosa farei io se fossi il governo.
Facciamo un congressino veloce. Ti sei data una risposta, una motivazione? Su scala internazionale per esempio in Brasile sta vincendo l’estrema destra.
Accade dappertutto. Una ipotesi è la delusione fornita dalla sinistra, sia nei luoghi dove ha potuto governare, sia in quelli dove non lo ha fatto. C’è delusione. Gli operai non votano più.
Non votano più a sinistra?
Non votano più. La sinistra ha perduto il suo elettorato.
Sei ottimista sul breve termine?
No. La sinistra del Pd di fatto non ha proposto niente di profondamente diverso da quello che fa la destra e allora perché dovrebbe conservare il suo elettorato?
Ti riferisci a qualcosa in particolare?
L’immigrazione è a parte perché è un fenomeno nuovo. Ma certo che si potesse approvare l’ultimo decreto di Salvini, anche con la firma della Presidenza della Repubblica, era inimmaginabile. Gli stessi diritti che noi vorremmo per noi, non li possiamo dare ai migranti. E’ qualcosa di insopportabile, non pensi?
Anche per questo il Pd è stato molto criticato dalla sinistra…
Ma quale sinistra? La sinistra non è rappresentata. In verità il più grande partito è quello degli astensionisti. Molta sinistra si è astenuta, non trovando nessuna offerta che la persuadesse. Penso che è un errore astenersi. Quando non si ha una rappresentanza bisogna ricostruirsela.
E tu che cosa pensi?
Io sono una persona di sinistra. Sono stata cacciata dal Pci perché ero troppo a sinistra. Una persona mite come me è stata considerata una estremista. Oggi Bergoglio non credo che mi scomunicherebbe facilmente.
Bergoglio ha fatto il papa sull’aborto, proprio oggi…
E’ un punto delicato. E’ meglio lui della piddina di Verona che ha votato contro l’aborto. Vorrei un politico italiano che parlasse come il papa, per esempio sui migranti. Se Minniti fosse un vescovo verrebbe bacchettato da Bergoglio.
Si parla molto di questo governo di destra, di ritorno del fascismo, del razzismo. Chiedo a te che il fascismo l’hai vissuto.
Non sono per dire che siamo agli anni ’30. Sono preoccupata, anche se non credo che il paese accetterebbe un ritorno esplicito al fascismo. C’è la semina di mezzo secolo di democrazia. Ma la battuta di Salvini “prima gli italiani” è qualcosa di intollerabile. Perché “prima gli italiani”? Che cosa hanno fatto di meglio degli altri? Cosa c’entra con le idee che hanno fatto l’Italia? Il fatto che la sinistra italiana non ha avuto il coraggio di votare lo jus soli è veramente insopportabile, Bisogna essere italiani non solo per essere nati qui ma per che cosa allora? Non vorrei andare a frugare e trovare qualcuno che dice che ci sono le facce ariane e quelle non ariane. Sento l’odore di qualcosa di molto vecchio.
Sei stata responsabile della politica culturale del Pci. Chi ti aveva dato questo ruolo?
Togliatti.
E che ne pensi, esistono oggi politiche culturali?
Non mi pare. La cultura significa i valori, per che cosa ti batti. Adesso il partito democratico non si batte più neanche per l’uguaglianza dei migranti. Non lo vedo alla testa e neppure parteggia per la politica delle donne. La 194 è una legge degli anni Settanta. Oggi forse non la rifarebbero più.
Quindi essere del secolo scorso può diventare quasi un vanto?
Assolutamente sì. Io sono del ‘900 e lo difendo. E’ stato il primo secolo nel quale il popolo ha preso la parola dappertutto. E dove l’ha presa, l’ha presa sostenuto dalla sinistra.
La domanda che in tanti si fanno, anche a sinistra, è come comunicare. Tu frequenti i social network?
No. Zero. Io sono sempre stata povera ma non vorrei dare neanche mezzo euro a Zuckerberg. In gran parte dipende da lui se siamo messi così.
Ci sono però questi strumenti di comunicazione, anche e soprattutto in politica.
Non so se sia una vera comunicazione. Comunicare significa parlare a qualcuno di cui consideri che ha la tua stessa dignità.
Come si fa a parlare anche alla testa e non solo alla pancia? La sinistra sembra afona in entrambi i casi. Non è capace o non sa cosa dire?
Perché non ci crede più. Non è capace. Se la sinistra parla il linguaggio se non proprio della destra comunque dell’esistente, non può essere votata dall’operaio. La sinistra deve parlare a quella che è la parte sociale dell’Italia più debole e meno ascoltata. Quando uno vota il jobs act indebolisce le difese degli operai. Si può continuare a chiamarlo contratto a tutele crescenti, ma la verità è che ha diminuito la forza operaia.
Che idea hai sul Movimento 5 Stelle?
Il Movimento 5 Stelle non è niente. Gli italiani vogliono questa roba informe, generica, si fanno raccontare delle storie. Nella Lega invece cercano un’identità cattiva. Questo è Salvini. Di Maio non è cattivo, non è nulla.
Grazie compagna Rossanda.
Caro compagno… certo è difficile dire oggi questa parola. Non capiscono più in che senso lo dicevamo. E’ una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. E’ qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme. E questo è importante, mi pare.
qui
https://ilmanifesto.it/lintervista-di-rossana-rossanda-a-propaganda-live/
Repubblica 27.10.18
Il reportage
Domani le elezioni nel Land
Verdi tedeschi, l’allegra avanzata ora il test Assia fa tremare Merkel
di Tonia Mastrobuoni


FRANCOFORTE Quest’estate tutti hanno capito che cosa sono i cambiamenti climatici».
Applauso fragoroso.
Priska Hinz annuisce, appoggia il microfono sul petto.
Inutile girarci intorno: uno dei segreti dell’attuale boom dei Verdi è che la piovosa Germania per tre mesi si è svegliata con trenta gradi all’ombra. Troppi per un Paese dalla solida coscienza ecologista e abituato a estati brevi. E i Verdi, con grande onestà, lo ammettono. Hinz è una delle candidate di punta degli ambientalisti nel voto cruciale di domani che potrebbe accelerare la fine di Angela Merkel.
In Assia i Verdi sono dati al 20-22% nei sondaggi, il doppio rispetto alle ultime elezioni, un record per il partito che governa qui con i cristianodemocratici da cinque anni. La faccia pulita dell’altro candidato di punta, Tarek Al-Wazir, appare su un manifesto elettorale che si vede spesso per le strade di Francoforte. Suona così: "Tarek invece che GroKo", "Tarek invece della Grande coalizione". È lui la star di questa campagna elettorale dai toni volutamente sobri: se i Gruenen dovessero superare la Spd nei sondaggi, Al-Wazir potrebbe detronizzare l’uomo di Angela Merkel, il governatore uscente Volker Bouffier. Anche la Cdu è in caduta libera. E un’altra batosta dei due partiti che sostengono il governo Merkel potrebbe provocare un terremoto senza precedenti, a Berlino. La sinistra della Spd si sta già organizzando per imporre una discussione sulla permanenza nel governo di Grande coalizione. La destra della Cdu sulla permanenza di Angela Merkel alla guida del partito.
Priska Hinz, ministra dell’Ambiente che in cinque anni ha aumentato del 50% l’agricoltura biologica in Assia, in questa serata conclusiva della campagna elettorale dei Verdi, lo urla, quasi: «Noi abbiamo sempre puntato sull’umanità nelle politiche migratorie, e i cittadini sono totalmente stufi della GroKo, che inciampa da una crisi all’altra, che pensa solo a se stessa». Abbiamo bisogno, e Hinz abbassa la voce quasi a un sussurro, «di idee radicali che possano essere realizzate in modo ragionevole». Ovazione.
Nella sala da concerti gremita della Union Halle, tinta di verde e punteggiata da luci rosse, è venuta anche la leader nazionale dei Gruenen, la trentasettenne Annalena Baerbock. Minigonna nera e giacca rosa, è giunta a omaggiare i colleghi in Assia che sono riusciti nel raro miracolo di trascinare ancora le folle dopo cinque anni che sono al governo.
E uno dei messaggi centrali di questa campagna elettorale, esattamente come quella dei colleghi di partito in Baviera, è la difesa «del progetto di pace europeo», ricorda Baerbock, che «va difeso a tutti i costi». Anche con toni diversi, rispetto all’arrembante destra, ai latrati dei leader razzisti. «Dignità al posto del populismo», sobrietà invece delle urla, è il messaggio di fondo. E i Verdi emanano anche un’allegria che si percepisce ormai raramente, nelle campagne elettorali.
L’ambizione di diventare una Volkspartei, un partito di massa radicato in ogni strato sociale, «non c’è», ha spiegato alla Frankfurter Allgemeine Zeitung
Robert Habeck, l’altro capo federale del partito. Perché «dovremmo smussare continuamente gli spigoli». E invece i Verdi sono orgogliosi dei loro spigoli e vogliono trovare il modo di realizzarli alleandosi con altri partiti, senza pregiudizi, se gli elettorati e gli interessi in gioco non sono in contrasto tra di loro. E chi può negare che la battaglia contro i cambiamenti climatici, l’agricoltura biologica, la lotta all’inquinamento, ma anche il freno al caro-affitti o la salvaguardia degli animali a rischio estinzione siano prioritari?
Peraltro, il pragmatismo dei Verdi non vuol dire solo battersi contro il surriscaldamento del pianeta ma «pensare a quelli che girano senza macchina», spiega Baerbock alla folla di militanti che sono venuti alla Union Halle per il clou della campagna elettorale.
Molti sono giovanissimi.
Al-Wazir, che a scuola doveva fare due biglietti dell’autobus per arrivare dalla periferia a Francoforte, ha introdotto un biglietto unico che vale per tutta l’Assia. E gli elettori ringraziano.
«La ragionevolezza», scandisce poco dopo al microfono, «è la nostra cifra». Dopo l’isterìa sui profughi di Horst Seehofer e l’agitazione del governo Merkel su una finta emergenza, i Verdi hanno preferito parlare di temi che toccano davvero i tedeschi.
Alla fine della serata, Al-Wazir smorza un applauso scrosciante con un gesto della mano: «Adesso parte la festa. Ma non divertitevi troppo. Siamo ancora in campagna elettorale e ogni voto conta. Sappiamo dall’esperienza che un conto sono in sondaggi, un conto le elezioni». Saggezza anomala, di questi tempi.
Il Fatto 27.10.18
Crisi, la ricetta Varoufakis


“L’Italia non ha bisogno di una triste lista Frankenstein che metta assieme le parti morte di quella che una volta era la gloriosa sinistra italiana”, ha spiegato Yanis Varoufakis davanti ai giornalisti della stampa estera a Roma dove l’ex ministro delle Finanze greco è arrivato per presentare il programma della coalizione paneuropea “Primavera Europea” in vista del voto del maggio 2019. Varoufakis, che si presenterà alle Europee in Germania, è dal 2016 leader di DiEM25, movimento politico transnazionale. Secondo l’economista greco, l’Italia è il “ground zero della crisi europea”, ma ritiene che per uscire dal lungo inverno economico e dare inizio alla primavera dell’Unione le ricette del governo Salvimaio siano sbagliate. “Il problema non è il deficit al 2,4%, ma le misure per stimolare la crescita del governo che non sono adeguate. La cancellazione del taglio proposto da Salvini per l’aliquota fiscale più alta non farà ripartire l’economia, ma favorisce i ricchi”. Tra le misure indispensabili c’è invece il reddito di cittadinanza, ma non come quello del M5S giudicato “insufficiente”. “La chiave per la ripresa è aumentare gli investimenti verdi in Italia al 5% del Pil” con un meccanismo per il quale “la Banca d’investimenti Ue emette ogni anno, per almeno 5 anni, bond per 500 miliardi di euro, che la Bce acquista ogniqualvolta i tassi di interesse salgono al di sopra di una soglia”. Fino a quando il Consiglio dell’Ue non sarà d’accordo su quest’ultimo punto, “l’Italia aumenterà gli investimenti pubblici per compensare fino al raggiungimento del limite del 3% fissato a Maastricht”.
il manifesto 27.10.18
L’internazionale riparte da Sanders e Varoufakis
Sinistra. L'appello per una nuova alleanza sovracontinentale e progressista sarà lanciato a New York il prossimo 30 novembre: «Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore», dice il leader di Diem25 al manifesto
di Graziella Durante, Giovanna Ferrara


Se ne parlava da mesi. Adesso la notizia è arrivata: il 30 novembre comincia ufficialmente l’internazionale progressista di Yanis Varoufakis e Bernie Sanders. I due outsider della sinistra radicale – il primo a capo di Diem25, il secondo leader del movimento Our Revolution, nato come risposta left all’elitarismo del democratic party – lanceranno da New York un appello per costruire una nuova alleanza sovracontinentale contro l’oscena fioritura di fascismi e nazionalismi.
Dinanzi alla riconfigurazione globale del neoliberismo su posizioni nazionaliste e xenofobe, il nuovo soggetto si rivolge a partiti, movimenti, organizzazioni interessati al ribaltamento dell’attuale sistema-mondo per rilanciare le parole d’ordine della giustizia globale, della lotta alla povertà, del salvataggio in extremis di un ecosistema sventrato dalle mani, tutt’altro che invisibili, del mercato.
Un umanesimo che rimastica le stesse parole che animarono, più di 15 anni fa, le lotte che da Seattle a Genova ci regalarono le ultime fotografie di un’utopia a portata di mano. Un programma guardato con interesse anche dal neo presidente del Messico Lopez Obrador, che punta a creare un vasto e solido schieramento radicale.
«Non è il momento adatto per assecondare le divisioni. Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore e noi il loro», ci dice Varoufakis al margine di una conferenza stampa dove la crisi dell’«Europa di Francoforte», la stessa che ha decretato la fine del sogno nato dal referendum greco del 2015, è un’evidenza.
Che fare? L’ex ministro delle finanze greco non ha dubbi: dialogare con tutti i partiti, con le associazioni, con i movimenti, con chi vuole tenere assieme l’Europa. Perché a volerla disgregata, spiega, sono solo gli attuali leader che sono pronti a sacrificarne la tenuta sull’altare dell’austerity che affama e chiude le frontiere
Cita proprio il caso Brexit per sottolineare che se la working class britannica ha detto no al suo progressivo sfruttamento a favore delle oligarchie finanziarie non è certo per antieuropeismo: è semplicemente una lotta di classe. A chiedergli cosa ne pensa dello scontro italiano contro le regole di Maastricht di Salvini non esita a rispondere: «L’attuale governo italiano e la Commissione europea perseguono gli stessi fini: redistribuire la ricchezza a favore di chi è già ricco. Lo scontro è in atto solo apparentemente: il governo italiano non è davvero interessato a ridiscutere gli accordi per combattere la crescente povertà, per aprire i confini, per incrementare le misure sociali smantellate da anni di ferreo liberismo. Questo conflitto è una fake news, buona solo per fare propaganda e al massimo per ottenere vantaggi fiscali per i più agiati».
La lotta alla povertà è anche lotta per la libera circolazione delle persone. Non riconosce i confini il progetto di Varoufakis. «Sì, sono un genuino internazionalista. Sono contro ogni confine e sono marxista. Sostengo e apprezzo ogni iniziativa capace di far circolare una cultura dell’accoglienza. Mediterranea, i sindaci che proclamano aperti i porti alle navi che hanno soccorso i migranti, sono l’Europa a cui guardo».
E così la vicenda di un comune piccolo come Riace, del suo sindaco che ne ha fatto casa del mondo, la nave che infrange le onde del razzismo, incarnano e rilanciano il sogno glocal che dobbiamo ricominciare a frequentare.
Repubblica 27.10.18
l sindacato
Cgil, resa dei conti sulla successione a Camusso Oggi il direttivo Landini è il candidato della segretaria uscente ma Colla potrebbe avere maggiore consenso tra i membri del "parlamentino" confederale
Torino
di Paolo Griseri


L’esito finale è, almeno teoricamente, scontato. Piuttosto conterà con quale maggioranza Susanna Camusso uscirà dal direttivo di oggi che ha per oggetto , tra gli altri, il nome del suo successore. Soprattutto sarà importante capire se si arriverà a un voto. Perché è anche possibile una sorta di surplace, come quella dei ciclisti nel velodromo dove chi fa la prima mossa quasi sempre perde.
La mossa di Camusso di annunciare via Facebook il nome di Maurizio Landini come candidato segretario generale ha provocato qualche turbamento nell’organizzazione. E anche una raccolta di firme per chiedere la convocazione del direttivo. Per il metodo prima ancora che per il nome scelto. In alternativa all’ex segretario della Fiom si prepara la candidatura di Vincenzo Colla che ha una biografia simile a quella di Landini: emiliano ( di Piacenza mentre il candidato della segreteria è di Reggio Emilia), metalmeccanico ( ambedue, ironia della sorte, con un’esperienza da saldatori), sessantenne. Mentre Landini è stato lanciato da Camusso, Colla non si è ancora ufficialmente candidato. Tanto che il 24 ottobre scorso la segretaria generale ha avuto buon gioco a dire: «In campo c’è una proposta che ha fatto la grande maggioranza della segreteria. Non mi risulta ce ne siano altre».
Formalmente è certamente così, nella realtà tutti sanno che i giochi sono ancora aperti. E questa mattina, nel direttivo nazionale, il confronto si annuncia serrato. La riunione è convocata alle 9 nella grande sala sotterranea della sede di Corso d’Italia. I rumors della vigilia dicono che potrebbe essere presentato un ordine del giorno di censura del comportamento di Camusso che, secondo i sostenitori di Colla, non avrebbe rispettato il mandato del precedente direttivo, con « una mossa incauta » . Una battaglia di merito che, come spesso accade in Cgil, si svolge con una discussione di metodo.
La divaricazione tra i due contendenti è sul modo di fare sindacato. E anche sul rapporto con la politica. I colliani, come il segretario dei chimici Emilio Miceli, contestano la proposta della «coalizione sociale » lanciata da Landini negli anni scorsi. E contestano « il contratto dei metalmeccanici che eleva il benefit al rango di retribuzione» insinuando che quell’accordo, firmato da Landini con Fim e Uilm dopo anni di contrapposizioni, sia stato « un necessario pedaggio pagato per rientrare in gioco».
La risposta dei landiniani è nell’accusa a Colla di essere espressione di un sindacalismo superato, che non sa parlare alle nuove generazioni e ai precari, che fa del rapporto con i partiti della sinistra un asse privilegiato.
Lo scontro diventerà voto al termine di una riunione che si preannuncia lunga e combattuta? Forse no. Sicuramente i sostenitori di Landini non hanno bisogno di fare la prima mossa. Sembrano forti del sostegno di categorie importanti come i metalmeccanici, la funzione pubblica e il commercio. In teoria toccherebbe ai sostenitori di Colla muoversi ma un loro ordine del giorno che venisse bocciato finirebbe per rappresentare la fine della partita. La situazione è comunque molto incerta. Al punto che nei congressi territoriali alcuni candidati landiniani, come il veneziano Enrico Piron, sono stati inaspettatamente bocciati. Ben più clamorosa la sconfitta di Guido Mora, segretario di Reggio Emilia, che ha perso nella città di Landini. Baruffe locali o un segnale ai vertici nazionali?
il manifesto 27.10.18
Predappio, la Prefettura autorizza il corteo fascista
Fascismi. Indignazione dell'Anpi: «Il corteo in questione viola il dettato della Costituzione e delle leggi Scelba e Mancino, e ciò anche con il supporto di quanto avvenuto negli scorsi anni, con l’aggravante che vi sia stato, nel tempo, il consenso delle autorità competenti»
di Mario Di Vito


La marcia su Predappio si farà. I nostalgici del ventennio fascista hanno strappato un clamoroso sì dal Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico per una manifestazione che si terrà domani mattina nella città natale di Benito Mussolini, nel giorno dell’anniversario della marcia su Roma.
NON È UNA PRIMA ASSOLUTA – da decenni i nostalgici di tutta la penisola si danno appuntamento il 28 ottobre a Predappio – ma questa volta l’Anpi aveva deciso di reagire con forza, organizzando a sua volta un doppio appuntamento: al teatro comunale e con un corteo che si muoverà per le vie del centro. Il corteo fascista è stato in dubbio fino a ieri mattina, quando la prefettura ha sciolto le riserve e ha approvato la richiesta arrivata dall’associazione Arditi d’Italia e dal Museo dei ricordi di Villa Carpena. La decisione era nell’aria da giorni, e lo stesso ministro degli Interni Matteo Salvini aveva dato un sostanziale via libera alla manifestazione delle redivive camicie nere.
«MUSSOLINI E STALIN appartengono al passato – aveva detto il titolare del Viminale -, se una persona vuole manifestare per quanto mi riguarda lo può fare a patto che rispetti la Costituzione». Edda Negri Mussolini, nipote del duce, ci prova a stemperare la tensione, ma la sua dichiarazione lascia il tempo che trova: «Noi chiediamo da anni che all’interno del cimitero tutto si svolga nel rispetto del luogo sacro e il corteo non sia sfruttato per motivi politici e non vi siano simboli politici». Più facile a dirsi che a farsi: ogni anno la celebrazione è un trionfo di bandiere fasciste, camicie nere, fez, «Faccetta nera» e saluti romani.
L’appuntamento per i nostalgici è fissato per le 11 e 30 nella frazione di Pieve San Cassiano, dove si svolgerà una messa in suffragio.
ALLA NOTIZIA dell’approvazione del corteo fascista, l’Anpi ha reagito con indignazione, ricordando di essere pronta a sporgere denuncia «se vi fossero condotte di esaltazione del fascismo», cosa pressoché scontata. E ancora, si legge in una nota, «il corteo in questione viola il dettato della Costituzione e delle leggi Scelba e Mancino, e ciò anche con il supporto di quanto avvenuto negli scorsi anni, con l’aggravante che vi sia stato, nel tempo, il consenso delle autorità competenti».
Per il resto a Predappio il clima non appare affatto infuocato. Da queste parti l’anniversario della Marcia su Roma viene visto come un evento che fa felici i commercianti di paccottiglia fascista: dalle bottiglie di vino con la faccia di Mussolini agli inquietanti manganelli di legno con scritto «Boia chi molla», «Me ne frego». Il sindaco Giorgio Frassineti (Pd) dal canto suo sostiene che «La marcia dei nostalgici non ha mai creato alcun problema», e poi si innervosisce del fatto che i fari sulla sua città vengano accesi soltanto quando si parla di Mussolini. «Non siamo la Chernobyl della storia – sostiene Frassineti -, non siamo contaminati. Dobbiamo accettare il fatto che sia esistito il fascismo. Dobbiamo studiarlo affinché non torni mai più». Intanto i fascisti continuano a marciare.
il manifesto 27.10.18
Carla Nespolo
di Rachele Gonnelli


«Stiamo ricevendo adesioni di minuto in minuto». Dall’Arci alla Cgil, a tutte le sigle che oggi, per la giornata nazionale di mobilitazione antirazzista, si erano date appuntamento in piazza Santi Apostoli in centro a Roma: confluiranno invece nella manifestazione convocata dall’Anpi nel quartiere di San Lorenzo, dove è stata uccisa la sedicenne Desirée Mariottini. La presidente nazionale dell’Associazione nazionale partigiani, Carla Nespolo, è soddisfatta che sia stata capita la predominanza delle ragioni che l’hanno spinta a questa convocazione.
Le spiega anche a noi, le ragioni del presidio di oggi a San Lorenzo?
È chiaro che i reati vanno perseguiti, che gli autori di questo orribile crimine vanno ricercati e condannati duramente ma siamo noi a portare avanti da sempre l’idea di una società che bandisce la violenza e l’esclusione, in particolare la violenza contro le donne, è il nostro patrimonio storico, e quando abbiamo visto la strumentalizzazione di questo efferato crimine, quando abbiamo visto che i fascisti provavano a rialzare la testa speculando su questa terribile vicenda per tentare di raggranellare consensi, abbiamo subito capito che dovevamo rispondere con una reazione molto significativa di tutti gli antifascisti.
Forza Nuova per oggi aveva convocato una passeggiata proprio a San Lorenzo, non vede rischi di aggressione al presidio?
So che volevano organizzare una ronda ma penso che la presenza di popolo li dissuada. Comunque non vedo rischi quando c’è una grande risposta unitaria delle forze democratiche che credono in una convivenza pacifica e inclusiva. Voglio ancora ribadire che è solo l’inclusione a creare sicurezza, non certo l’odio e la paura. È il razzismo che alimenta l’insicurezza e i soprusi. Mentre l’accoglienza, come insegna Riace, crea condivisione e rispetto reciproco, lotta alle mafie e allo spaccio di droga che le mafie organizzano. Colpisce come si stiano moltiplicando gli omicidi di donne e anche in questo caso per rispettarle certamente non va strumentalizzata la loro morte.
Il quartiere di San Lorenzo fu messo a ferro e fuoco durante la marcia su Roma e i neofascisti hanno spesso cercato di commemorare il 28 ottobre proprio lì. Domani vanno a Predappio. E voi?
Il 28 ottobre si celebra la liberazione di Predappio ad opera dei partigiani e noi dell’Anpi intendiamo celebrarla con un concerto e una cena – dopo il concerto «Cantiamogliela» i partecipanti si sposteranno in corteo verso il circolo Arci per la «tagliatella antifascista» ndr – e se qualcuno vuole fare una celebrazione nostalgica del fascismo sappia che al massimo la può fare in forma privata. Non siamo disponibili ad accettare alcuna equiparazione tra fascisti e antifascisti. La Repubblica italiana è nata dalla Resistenza e solo noi siamo legittimati a ricordare la liberazione di Predappio. Il vice presidente Anpi, l’avvocato Emilio Ricci, ha già mandato una diffida a questore e prefetto di Predappio perché non consentano la manifestazione neofascista.
Il Parlamento europeo ha approvato due giorni fa una risoluzione per lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste e neonaziste, incluso Casa Pound. Come valuta questo atto?
Ringrazio l’impegno di Eleonora Forenza e tutti gli eurodeputati dei vari gruppi che hanno votato a favore di questa risoluzione contro i nazi-fascisti risorgenti. Mi dispiace che Lega e Forza Italia non siano tra questi. L’Europa ha compiuto un passo importante anche se tardivo, visto ciò che succede in Paesi come Polonia e Ungheria. E è imbarazzante vedere ministri dell’Ue a passeggio a Kiev, che anche se non è dell’Unione europea, è un Paese del continente dove i nazisti sono attualmente al governo.
Risale a pochi giorni fa anche la presentazione da parte della senatrice a vita Liliana Segre del progetto di legge per istituire una commissione bicamerale di indirizzo e controllo sui fenomeni di razzismo, antisemitismo, odio e violenza contro le minoranze. Può essere utile a mettere in pratica la risoluzione europea?
La commissione è una bellissima, lodevole iniziativa e sono ammirata per l’impegno e la determinazione con cui la senatrice Liliana Segre a sostenere il dialogo, lei che ha visto l’orrore che può produrre il fascismo è la voce più autorevole per farsi ascoltare e chiedere il rispetto delle diversità.
Liliana Segre dice che bisogna lavorare contro la fascistizzazione del senso comune. è in atto una sorta di inversione di senso come quando Alessandra Mussolini vuole denunciare chi insulta suo nonno Benito, non crede?
Non mi interessa per niente cosa va dicendo la signora Mussolini. L’opinione pubblica democratica si indigna per sfilate nostalgiche come quelle che si sono svolte a Predappio. È l’ora di fermarle. E contro le strumentalizzazioni di una tragedia come quella di San Lorenzo, le forze democratiche, antifasciste,le associazioni locali e nazionali, oggi risponderanno.
Corriere 27.10.18
Cucchi e i depistaggi del 2015
Indagato un capitano dei carabinieri
Favoreggiamento sulle relazioni manomesse. Nistri: pochi hanno perso la strada della virtù
di Giovanni Bianconi


ROMA La nuova inchiesta sui depistaggi per coprire il «violentissimo pestaggio» di Stefano Cucchi svelato nove anni dopo da un carabiniere, si allarga e conta un nuovo indagato tra gli ufficiali dell’Arma: si tratta del capitano Tiziano Testarmata, che ha ricevuto un avviso di garanzia per favoreggiamento legato a presunte omissioni risalenti al novembre 2015. In quel periodo, sei anni dopo la morte di Cucchi, mentre i poliziotti della Squadra mobile di Roma guidati da Luigi Silipo stavano scoprendo il coinvolgimento e le responsabilità dei tre carabinieri oggi imputati di omicidio preterintenzionale, il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto al Comando provinciale dell’Arma di raccogliere e trasmettere tutti i documenti relativi alla vicenda dell’ottobre 2009.
Per questo motivo il capitano Testarmata, comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo, si recò nella caserma di Tor Sapienza dove Cucchi aveva trascorso la notte successiva all’arresto. Ad accoglierlo c’era il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione che oggi — indagato nel nuovo procedimento penale — ha rivelato che le due annotazioni sullo stato di salute del detenuto redatte all’epoca dai carabinieri Colicchio e Di Sano erano state manomesse su ordine dei suoi superiori. È la storia della doppia versione di quelle relazioni, rispedite via e-mail a Colombo dal tenente colonnello Francesco Cavallo (anche lui sotto inchiesta per falso), con il commento «meglio così», dopo essere state corrette in alcuni passaggi sulle condizioni di Cucchi.
A Testarmata, Colombo consegnò «le due relazioni in entrambe le versioni, quella originaria e quella modificata» perché erano rimaste agli atti, «l’ordine era di “dare tutto” e io non volevo nascondere nulla». Così ha riferito il luogotenente nell’interrogatorio reso al pm. Aggiungendo un particolare non irrilevante: «Per far capire che io avevo eseguito una disposizione dei superiori, in questa occasione mostrai al personale del Nucleo investigativo la mail inviatami dal tenente colonnello Cavallo, per spiegare come mai c’erano due annotazioni diverse per un solo atto (circostanza di cui si erano resi conto anche i colleghi del Nucleo investigativo, i quali infatti mi avevano chiesto spiegazioni). Il capitano del Nucleo, quando vide la mail del tenente colonnello Cavallo, uscì fuori per parlare al telefono, poi rientrò e presero tutto, ma non la mail». Della consegna della documentazione, ha specificato Colombo, non fu redatto alcun verbale di acquisizione.
È un racconto che, seppure fatto da un indagato che non ha l’obbligo di dire la verità, apre la strada a sospetti di nuove coperture continuate anche nel 2015, mentre era in corso la nuova inchiesta — condotta dalla polizia — sulla morte di Cucchi. Di qui la necessità di ulteriori accertamenti da compiere anche nei confronti del capitano Testarmata, con le garanzie imposte dalla legge, nell’ambito di un’inchiesta che arrivata a questo punto rischia di salire ancora di livello e mettere a dura prova l’immagine dell’Arma.
Di sicuro il comandante generale Giovanni Nistri aveva in mente questo pericolo, ieri, quando alla presenza dei ministri della Difesa e dell’Interno riuniti per celebrare il quarantennale del Gis, ha detto in tono solenne: «L’Arma deve ricordare che è nella virtù dei 110.000 uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo sempre la forza per continuare a servire le istituzioni. Centodiecimila uomini che sono molti, ma molti di più dei pochi che possono dimenticare la strada della virtù. A quegli uomini auguro di continuare a essere quello che sono sempre stati, e di continuare a ricordarsi che nessuno di loro lavora per se stesso, nessuno di noi lavora per fare altro che il dovere dell’onestà, della correttezza, del bene della nazione».
Anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta è tornata sull’argomento spiegando che «l’Arma è sempre stata ed è vicina al cittadino, e ogni singolo carabiniere è sempre stato un punto di riferimento per i cittadini onesti». Ma proprio per salvaguardarne l’immagine, laddove emerga «l’eventuale negazione di questi valori, si deve agire e accertare la verità, isolando i responsabili per ristabilire quel sentimento di fiducia da parte dei cittadini nei confronti di carabinieri e istituzioni». Accanto a lei, il titolare dell’Interno Matteo Salvini sembra proporsi nel ruolo di scudo alle polemiche: «Non ammetterò mai, finché sarò ministro, che l’eventuale errore di uno permetta di infangare il sacrificio e l’impegno di centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze in divisa».
Il Fatto 27.10.18
Gli anni orribili dei carabinieri che Salvini non vuole vedere
Cucchi e non solo - I depistaggi sul giovane pestato coinvolgono la catena di comando, per il ministro è “un eventuale errore di uno”
di Alessandro Mantovani e Antonio Massari


Nessuno, dal palco, ha nominato Stefano Cucchi. Ma con i giornali strapieni del processo per le violenze e dell’inchiesta sul depistaggio, nessuno ieri pensava ad altro quando il ministro dell’Interno e vicepremier, Matteo Salvini, alla festa per i 40 anni del Gruppo intervento speciale (Gis) dei carabinieri, ha detto: “Non ammetterò mai che un eventuale errore di uno possa infangare l’impegno e il sacrificio di migliaia di ragazze e ragazzi in divisa”. Chi sbaglia, certo, non infanga tutti, ma “un eventuale errore di uno” è un po’ poco. Salvini in questo modo strizza l’occhio alle componenti peggiori delle forze dell’ordine. Infatti la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, ha dedicato all’innominato Cucchi un passaggio più equilibrato, in cui ricorda i valori di “rettitudine, integrità, coerenza, interiorizzazione del senso del dovere e della responsabilità” che l’Arma incarna, per dire che “laddove si accerti l’avvenuta negazione di questi valori, si deve agire e accertare la verità, isolando i responsabili allo scopo di ristabilire quel sentimento di fiducia”. E anche il comandante generale, Giovanni Nistri, che ha con coraggio ha chiesto scusa ai Cucchi ma poi è stato accusato di riservare maggior rigore ai carabinieri che hanno testimoniato rispetto agli imputati di violenze e depistaggi, si è tenuto sulle generali: “È nella virtù dei 110 mila uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo la forza per continuare a servire le istituzioni”.
Decine di migliaia di poliziotti, carabinieri, finanzieri e vigili urbani si comportano correttamente, altrimenti avremmo morti e feriti tutte le sere. Chi onora la divisa è la prima vittima di chi la disonora. Ma il problema della devianza delle forze dell’ordine esiste, talmente serio che a differenza di altri Paesi non ci sono neanche statistiche accessibili, ha radici storiche profonde, se n’è vista una prova drammatica al G8 di Genova nel 2001 e da allora qualcosa è cambiato ma non abbastanza, specie sulla formazione. I carabinieri lo sanno benissimo perché in genere sono loro che arrestano o denunciano i colleghi e stanno imparando dagli errori del passato.
L’altroieri militari del Noe, il Nucleo operativo ecologico, su ordine della magistratura romana, hanno arrestato altri militari del Noe perché accusati di corruzione nel settore nevralgico del trattamento dei rifiuti. Non sono i primi, purtroppo. È recente la prima condanna per l’incredibile stupro di due studentesse americane a Firenze nell’estate 2017, attribuito a due carabinieri già destituiti dall’Arma con ragionevole solerzia. Tre stazioni della Lunigiana sono state investite da un’inchiesta della Procura di Massa: presunti abusi su stranieri.
Le logiche fascistoidi sono dure a morire. Un mese fa Salvini, sempre lui, ha reso omaggio nelle Marche a un appuntato che era stato ferito da uno straniero: sui social il militare, come raccontato da Sandra Amurri sul Fatto, inneggiava a Mussolini. Non è il primo, anche per questo l’Arma sta potenziando il suo monitoraggio interno sul web. E d’altro canto a Macerata il tiratore razzista Luca Traini, poi condannato in primo grado a 12 anni, è stato benevolmente fotografato in una caserma dei carabinieri col tricolore sulle spalle e l’immagine è finita su tutti i giornali come avrebbe voluto lui. E vale la pena di ricordare il maggiore di Vasto che spiegò, neanche fossimo negli anni 50, che due minori arrestati per abusi sessuali su un’altra ragazzina “non erano consapevoli”, cioè “stupravano a loro insaputa” come scrisse Selvaggia Lucarelli sul Fatto.
Mele marce, si dice. Ma a volte il marcio, o il presunto marcio, è in cima al cesto. Nel caso Cucchi, se i vertici dell’Arma di Roma non coprirono deliberatamente le violenze, certamente non si accorsero di cosa era successo e sembra davvero una barzelletta. Ci sono generali indagati, compreso l’ex comandante generale Tullio Del Sette, per la fuga di notizie rivelata da Marco Lillo sul Fatto nel dicembre 2016 che consentì ai vertici della Consip di far sparire le microspie con cui la Procura di Napoli cercava le prove di corruzioni e traffici di influenze ipotizzati attorno ad appalti pubblici miliardari.
Certi armadi dell’Arma ospitano scheletri che non troveranno mai pace. È di aprile la condanna in primo grado a dodici anni dei generali Mario Mori e Antonio Subranni nel processo per la Trattativa Stato-mafia del 1992-’93: erano ai vertici del Ros, il Reparto operativo speciale, l’élite che si occupa di mafia e terrorismo. E prima di cambiare, il Ros fu guidato dal generale Giampaolo Ganzer, processato insieme ad altri ufficiali per le inchieste sotto copertura trasformate, negli anni 90, in traffici di cocaina: prese 14 anni in primo grado a Milano, ridotti a 4 in appello e cancellati nel 2016 da una salvifica prescrizione in Cassazione.
Corriere 27.10.18
il letterato e le sue idee
Giù le mani da Pound: lui è la poesia
di Claudio Magris


Pound appartiene alla poesia, assurdo farne una bandiera neofascista. Le manifestazioni degli estremisti di CasaPound a Trieste e a Fiume ci riportano a distinguere tra il letterato e le sue idee.
U n anno fa, in una libreria di Trieste, Gianni Contessi ha parlato di alcuni volti che segnano la letteratura contemporanea come maschere di una tragedia greca: quelli di Beckett, di Pasolini, di Pound, soffermandosi soprattutto su quest’ultimo. Un volto di insopprimibile dignità, scavato dal dolore e misteriosamente sereno; uno sguardo perduto in se stesso e in chissà quali lontananze, capelli bianchi da profeta o da pastore errante. In stridulo contrasto con la solitudine e la bontà di quel volto, il 3 novembre prossimo è annunciata una manifestazione a Trieste di CasaPound, la formazione politica nostalgica del fascismo più radicale di cui sogna il ritorno. Contro l’annunciata manifestazione si sono levate proteste da parte di tutte le forze politiche, di governo e d’opposizione, della Diocesi e di molte comunità religiose e associazioni culturali.
È difficile e insieme doloroso abbinare il nome del grande poeta — e il suo volto di Edipo cieco e veggente, perseguitato dal fato — e un’associazione che propugna un regime totalitario al quale è intrinseca la violenza. Certo, c’è fascismo e fascismo, ci sono fascisti e fascisti: Gentile non è Farinacci, certe intelligenti misure prese dal regime al tempo della grande depressione del 1929 non sono l’olio di ricino dato agli avversari politici o le teste spaccate dagli squadristi né gli assassinii di Matteotti, Amendola, Gobetti o don Minzoni. Il fascismo va condannato senza remore, ma con equanimità, come ha fatto Scurati nel suo romanzo. In ogni caso un regime liberticida mal si concilia con quell’umanità che c’è nello sguardo e nella persona di Pound.
Certo, Pound è stato fascista. I suoi discorsi alla radio italiana contro gli Stati Uniti, contro il suo Paese in guerra, sono una colpevole dismisura, che è stata peraltro punita non con quel rispetto che deve esserci pure in ogni severità, ma con l’oltraggio e la volgarità della vendetta. A guerra finita Pound fu rinchiuso dagli americani a Pisa in una gabbia e più tardi, negli Stati Uniti, nel manicomio criminale di Saint Elizabeth — forse per evitargli il processo e la probabile pesante condanna per alto tradimento — dove trascorse tredici anni. Alfredo Rizzardi — suo grande critico e grande traduttore dei Cantos pisani e avverso alle sue idee politiche — lo visitò nell’ospedale psichiatrico e ricorda il suo «atteggiamento superiore, il coraggio, la forza d’animo». Il manicomio è un carcere privilegiato da tutte le dittature, ma evidentemente anche da democrazie non molto democratiche.
Nel fascismo di Pound c’era probabilmente una grande ingenuità politica. Era rimasto affascinato da alcuni principi sociali del primo fascismo, quello sansepolcrista, ma non vedeva il totalitarismo dispotico, i delitti, la violenza che pure gli era invisa, la sostanza sempre più fasulla del regime, le scarpe scalcagnate date ai soldati mandati a combattere e a morire in Grecia, in Russia ricevendo razioni inferiori a quelle dei soldati tedeschi. Nel fascismo aveva visto, abbagliato dai proclami e miope dinanzi alla realtà, una lotta contro quello che per lui era il Male, l’usura. Lo affascinavano le teorie economiche e finanziarie di C. H. Douglas e di Silvio Gesell, il quale per pochi giorni era stato attivo nella Rappresentanza popolare per le Finanze della Repubblica sovietica bavarese del 1919, immediatamente soffocata nel sangue. Le teorie di Gesell sul «denaro che svanisce» o «denaro libero» ( Schwundgeld o Freigeld ) prevedevano, con un meccanismo complicatissimo, una svalutazione più rapida possibile, quasi immediata del denaro, abolendo l’interesse per impedire la sua accumulazione e dunque per cancellare le disuguaglianze fra la ricchezza dei pochi e la povertà dei molti. Marchingegno che può essere toccante nella sua astratta ingenuità, ma che sarebbe catastrofico sino al ridicolo nella sua applicazione in uno Stato. Il capitalismo sfrenato crea ingiustizie ed orrori, ma lo fa altrettanto un anticapitalismo sprovveduto, di fatto tradito dai regimi che se ne adornano o fingono di adornarsene, come il nazismo, in cui sia pur del tutto superficialmente circolarono per qualche momento le idee di Gesell.
Come dimostrano l’amicizia di Pound con vari scrittori ebrei e la generosità dimostrata nei suoi confronti da critici e autori ebrei, il suo antisemitismo non era razzista e si fondava su un’ossessiva e faziosa fissazione sul ruolo che storicamente molti ebrei avevano avuto nel sistema bancario, basato sull’interesse quale frutto del denaro, sul denaro che produce direttamente denaro. La sua visione di un’economia giusta e umana, in cui i beni circolano come in una famiglia, è un’utopia generosa, ma soffermarsi su pretese e assurde colpe degli ebrei mentre infuriava lo sterminio di milioni di essi è imperdonabile.
La giustizia è un valore fondamentale, ma se si dissocia dalla libertà assume il volto della tirannide, della violenza, e i vari regimi totalitari lo hanno dimostrato. Giustizia e Libertà è il nome del movimento più autentico, più umano dell’antifascismo e della lotta antifascista. CasaPound proclama ideali sociali di solidarietà, di lotta alle sperequazioni e alle disuguaglianze, come riferisce un’eccellente inchiesta di Gianluca Modoli e Giovanni Tomasin sul «Piccolo» del 22 ottobre, e pratica un’opera di assistenza e aiuto sociale. Lavoro meritorio anche se legato alla propaganda, cosa che peraltro vale per ogni partito. CasaPound afferma di richiamarsi a Alain de Be-noist, pensatore certo di destra, attento ai problemi del Terzo Mondo e difensore delle comunità religiose e culturali contro Marine Le Pen, che parla — come un giacobino ai tempi del Terrore — della Repubblica che non riconosce alcuna altra comunità al suo interno.
Il primo fascismo, sansepolcrista, che si presentava socialmente avanzato, ha distrutto molti di coloro che avevano creduto in esso — ad esempio Enrico Rocca, ebreo goriziano, irredentista, grande studioso e traduttore di letteratura tedesca, sansepolcrista della prima ora, che si suicida nel 1944, nella furia delle leggi razziali e delle loro applicazioni e conseguenze sanguinose. È nel sentimento dell’universalità umana, dell’appartenenza all’umanità, che si realizza e si invera ogni identità particolare, famigliare, patriottica, nazionale o d’altro genere, che soltanto in questo più grande concerto trova il suo autentico valore. Italiani si nasce, ma anche e soprattutto si diventa, come insegnano i patrioti triestini dai cognomi tedeschi, slavi o ebraici, gli originari africani divenuti generali o presidenti degli Stati Uniti, Puškin, padre della grande letteratura russa moderna, discendente di un abissino, il famoso «negro di Pietro il Grande», oppure Paola Egonu o Miriam Sylla, ricordate di recente sul «Corriere» da Massimo Gramellini, rispettivamente d’origine nigeriana e ivoriana, ma ora l’una padovana l’altra palermitana, straordinarie giocatrici di pallavolo nella nazionale italiana che si sentono spontaneamente, naturalmente italiane. La fissazione sulla razza è la negazione di tutto questo; lo sapevano bene i patrioti italiani e triestini, molti dei quali ebrei, che avevano combattuto per l’Italia e che le immonde leggi razziali hanno voluto espellere dalla patria.
CasaPound annuncia pure una manifestazione a Fiume, proprio nel momento in cui il governo croato si dimostra più sensibile e aperto a riconoscere e a sottolineare la tradizione italiana della città. Per quel che riguarda d’Annunzio, altro grande della letteratura moderna, spero ci si ricordi che durante la Reggenza del Carnaro d’Annunzio ha aperto scuole italiane, croate e ungheresi, all’opposto del fascismo barbaramente repressivo delle nazionalità e in particolare di quelle slave, e ha elaborato uno statuto particolarmente avanzato dei lavoratori. Il vice di d’Annunzio a Fiume, Ercole Miani, volontario e decorato nella Grande guerra, anni dopo sarebbe divenuto un eroico comandante della Resistenza nella Venezia Giulia, ferocemente torturato senza lasciarsi sfuggire una parola dalla banda nazifascista Collotti.
Non ameremo Pound di meno per il suo tragico abbaglio e la sua grandezza poetica non ci farà prendere sul serio le sue teorie. È un grande del Novecento, un protagonista di quella rivoluzione dell’arte e della letteratura moderna che ha sconvolto e ricreato le forme espressive, l’immaginario, il volto del mondo e della storia, il linguaggio. Quest’avanguardia culturale ed espressiva, protagonista del secolo, si era incontrata pure col fascismo, come dimostrano alcuni notevoli artisti, specialmente futuristi, che ne erano stati affascinati e che, divenuti icone di regime, accademici in feluca, non sono stati più veri artisti creativi. Pound non si è messo la feluca; è rimasto un profeta inascoltato e fuorviato, uno sperduto pioniere del West che egli amava.
I suoi Cantos , scritti nell’arco di settant’anni, sono un’opera grandiosa e impervia che vuole abbracciare la totalità della storia, della vita e delle culture più diverse, dai Greci all’Italia dei Comuni ai provenzali e alla Cina, civiltà di cui egli tanto si è nutrito e che attraversa i Cantos , talora ardui e inaccessibili per la diretta citazione di ideogrammi cinesi. È difficile dire se si tratta di un poema unitario o di un balenare inafferrabile di frammenti, come altre grandi opere del Novecento. Nella creazione poetica, specie in quella che rompe i limiti, è difficile distinguere l’indicibile dal naufragio.
Non è bene chiedere ai poeti indicazioni politiche. Alcuni dei più grandi scrittori del Novecento sono stati fascisti, nazisti, stalinisti: Pirandello, Céline, Hamsun, i poeti francesi che si recavano devotamente a Mosca ad assistere consenzienti alla «Messa rossa» ossia alle impiccagioni staliniane di molti loro compagni. Continuiamo ad amare Hamsun — come lo amava Singer, nonostante la sua celebrazione di Hitler — e Céline nonostante le sue imperdonabili Bagatelle per un massacro , ma non chiederemo loro come votare.
Continuiamo ad amarli, perché le loro pagine ci mostrano un volto e un senso della vita che essi stessi non hanno voluto o saputo comprendere lucidamente. Le loro affermazioni o esternazioni ideologiche sono spesso in contrasto con un loro forte e generoso sentimento della vita e dell’uomo, sentimento che nutre la loro arte e viene negato dalla loro rozza, infelice e barbara ideologia. Grazie ad essi, abbiamo compreso e fatto nostre delle verità che essi non sono stati capaci di cogliere dalle loro opere. Si sono identificati con il male, forse perché hanno dolorosamente creduto che la storia fosse inevitabilmente un cancro e che il male fosse la tragica verità della vita. C’è, nelle loro aberrazioni, un autolesionista e ostentato disprezzo dei valori universali umani, che essi sono stati incapaci di distinguere dalla retorica che certo spesso li avvolge. Quei grandi che si sono volutamente accecati come Edipo ci aiutano spesso, senza volerlo, a scoprire la giusta strada, che va in direzione opposta a quella presa da loro. Non è bene, in nessun caso, affibbiare loro un distintivo o una tessera. Giù le mani dai poeti.
Corriere 27.10.18
Quell’intellighenzia
che non ha nulla da dire
di Antonio Macaluso


C’è uno spettacolo ancora più triste di quello che vede il suicidio auto-assistito dai dirigenti del Pd ed è quello di quel vasto mondo di intellettuali, artisti e fiancheggiatori da salotto che vagano da mesi come cortigiani spaventati. I più furbi si sono riciclati per tempo, hanno coniato parole d’ordine appetitose per il popolo sanculotto e si accingono alla raccolta del nuovo seminato. Altri guardano inebetiti lo scorrere di un film – un horror ai loro occhi pigri – e altri ancora passano il tempo a prendersela con quei capi del Partito – una volta lisciati e adulati – che li hanno lasciati alla mercé di un futuro senza sicurezze.
Attenzione, sarebbe sbagliato pensare a quei «nani e ballerine» ai quali – con spregio – faceva riferimento negli anni 80 Rino Formica, indimenticato ministro delle Finanze, potente dirigente del Psi craxiano e, con il senno del poi, gigante del pensiero politico contemporaneo. Il circo degli adulatori è una costante ultra-millenaria della storia di monarchie, dittature, repubbliche. Corti e governi sempre si sono circondati, consapevolmente o per necessità, di cerchie ristrette o straripanti di adulatori, consiglieri, presunti saggi e infide spie, belle donne, animatori di salotti, ma anche comparse a ruolo variabile. Così è stato, così è, così continuerà ad essere. C’è poco da scandalizzarsi. Se non si vuole essere inutilmente ipocriti, bisogna accettare che il veloce assemblarsi di cerchi più o meno magici nelle stanze attigue al Potere ne sia una sorta di riflesso condizionato.
Non tutti i membri di questi temporary club hanno però le stesse inclinazioni, pretese, influenze. Ed è proprio qui che la differenza tra il gruppo dei «nani e ballerine» – per sua natura affamato ma di bocca buona – e quello della casta intellettuale e salottiera si fa sostanziale. Posto che gli endorsement dei primi hanno scoperte finalità «di scambio» – avere dal Potente qualcosa di immediato, dandogli ciò per cui si viene chiamati o accettati nella sua cerchia: soldi, sesso, popolarità, compagnia – con i secondi i rapporti sono più complessi e delicati. L’intellettuale o il gran borghese che mette a disposizione il suo salotto hanno la capacità di accreditarsi come centri nevralgici di un sistema complesso di relazioni. Nella loro testa, il politico di successo del momento deve avere la percezione di riuscire – finalmente – ad essere ammesso in un circolo di idee e interessi dai tratti esclusivi. Essere fiancheggiati, spalleggiati, accuditi dai protagonisti della Cultura e dei caminetti mondani deve sembrare al neoarrivato politico un vero e proprio traguardo. Una ragnatela sottile che cattura prede per bearsi della propria capacità attrattiva, mostrarla e saldarla a un sistema omogeneo di idee e convenienze. Se, nella convinzione di Alberto Moravia, l’intellettuale doveva essere come il bambino della favola, che rivela al re la sua nudità, nella realtà annovera una vecchia tradizione di servilismo. Alle prese con un Paese ad alto tasso di analfabetismo, l’intellighenzia italiana, osservava Indro Montanelli, ha finito per lavorare per il protettore in mancanza di una vera e propria classe di lettori. Il che non vuol dire che scrittori, giornalisti, registi, filosofi, storici e così via non abbiano di fatto costituito quella sorta di cinghia di trasmissione dal Potere verso il Popolo. Mai viceversa. Perché – è un comico come Pippo Franco a dare voce a una verità storica – «l’intellettuale italiano è sempre stato all’opposizione di ogni regime. Precedente».
I danni che questi intellettuali hanno prodotto sono per certi versi incalcolabili. Hanno sussurrato e suggerito – molto spesso condizionato – idee e scelte dei politici di successo, finendo talvolta – ma sempre più spesso – per allontanarli dalla realtà del Paese. Uno scollamento che ha prosciugato la vena popolare dei partiti di massa in una sorta di ritirata in ridotte sempre più lontane e difficili da difendere. Alla fine, come in una rivoluzione d’altri tempi, il fortino ha ceduto e il popolo inferocito ha dato il comando ai generali dell’oltranzismo.
Ridotti a una sostanziale irrilevanza, i protagonisti della politica del passato si sono ritrovati soli. E proprio nel momento in cui – ora sì – l’intellettuale potrebbe plasmare nuove parole d’ordine, indicare orizzonti, mettere tutto il suo sapere al servizio della politica, ecco che sparisce, si mimetizza, tace. Aspetta forse che sia, ancora una volta, qualcun altro – i giovani? Gli studenti? Le masse deluse delle periferie? La borghesia in scivolata verso il basso? – a trovare «il sol dell’avvenire». Nessuna comprensione per chi ha solo preso e non ha dato, per chi ha allontanato dalla sinistra, dal moderatismo cattolico, dalla destra liberale la parte migliore di uomini e donne. Nessuna comprensione per chi oggi vede Salvini e Di Maio come i nuovi barbari ma ha avuto meno coraggio delle oche del Campidoglio nello svegliare chi evidentemente dormiva sugli allori di un tempo. Un bagno gelido di solitudine per chi ha usato uomini e idee e un monito alla classe politica perché lavori, studi e pensi in proprio, senza delegare ad amici e consiglieri che hanno più gambe che cuore. L’affermarsi di una classe politica che si fa vanto della sua ignoranza e approssimazione ribalta la situazione precedente, ma non è meno pericoloso. Anche perché, come recita un antico proverbio, l’ignoranza è madre dell’arroganza. Come, purtroppo, è già possibile constatare.
Il Fatto 27.10.18
Da quale pulpito viene il “bipolare”
di Maurizio Montanari


Forte si è levato da ogni parte il grido di sdegno (fai schifo) a stigmatizzare l’incommentabile uscita di Grillo su autismo e Asperger. Lo sostengo da tempo: l’uso del Manuale diagnostico e statistico per colpire l’avversario costituisce una degenerazione inammissibile del dibattito politico. Peccato che i più feroci j’accuse provengano oggi dal quartier generale della Leopolda dal quale, solo poco tempo fa, le bordate cliniche partivano come palle incatenate verso gli avversari.
Erano tempi robusti, il declino non era ancora iniziato, da quelle parti passava tanta gente, mica come oggi. Forse a causa delle mazzate elettorali molti renziani oggi soffrono di un amnesia selettiva, immemori del tempo in cui l’innesto del lessico analitico col renzismo forgiò una neolingua che apostrofava gli avversari come un corpo unico posseduto da intenti incestuosi. Dapprima fu la volta dei nemici interni, espulsi e tratteggiati come mummie intrise di godimento masochista. Fu poi la volta del polo grillino afflitto da una patologia bipolare con un candidato premier che pativa di un bipolarismo inquietante. Il 4 marzo la realtà virtuale della Leopolda venne dissolta dal redde rationem con il quotidiano, quando non torme di nemici malmostosi dediti all’odio, ma la gente comune, riportò il renzismo a contatto con la realtà sbriciolandone le fondamenta e mostrando tutti i drammatici limiti del suo lessico. Tante e tali erano state le invettive cliniche e non lanciate via Repubblica, che quell’odio alle porte incombente io iniziavo a temerlo davvero. Ho realmente pensato di svegliarmi una mattina e ascoltare via radio i comunicati del comitato di salute pubblica tra un brano di sinfonica e l’altro. Addirittura il Paese, a detta di Recalcati, stava per cadere nella mani di “un comico bipolare a sua volta rappresentato da un ex-steward del San Paolo di Napoli con evidenti difficoltà di ragionamento e lessicali” (sic). Al di là del fatto che fare lo steward fa parte di quei lavoro umili che un partito di sinistra dovrebbe vedere come valore aggiunto, io non le ricordo le vesti stracciate a difendere le associazioni di chi è affetto da disturbi specifici del linguaggio o da bipolarismo, colpite allora come oggi avviene per quelle che si occupano di autismo. La loro attenzione alle parole di Grillo è dovuta in parte anche alle sconfitte patite, grazie alle quali hanno potuto affinare la loro sensibilità ed intuire quanto doloroso sia per chi è affetto da alcune patologie dell’animo e della mente, vedere quelle diagnosi che per molti di essi hanno reso la vita tanto dura da campare, usate come strumento di battaglia. Oggi che la Leopolda è franata, ci si ricorda dei più fragili. Troppo facile. Per scagliare un pamphlet ci vuole coerenza.
Dunque, o sei Céline, o è meglio che lasci stare. Prima di lanciare crociate giuste ma tardive contro la malattia usata come argomento politico, è bene che essi prendano atto di quanto il loro linguaggio ne fece uso, e ne traggano insegnamento. È bene che acquisiscano consapevolezza di quanto le loro parole, private dell’arsenale clinico, degradino in insulti da osteria. Cialtroni. Senza cervello. Invettive banali, offese a poco prezzo da scapoli contro ammogliati il venerdì sera. Vuoi mettere il nazional popolare “incompetenti” con il “ritorno spettrale del berlusconismo”? Bene fanno dunque a criticare Grillo, quel linguaggio è sbagliato, fuori luogo. Lo hanno capito a tal punto che da tempo hanno abiurato l’uso della diagnosi. Senza il frasario freudiano gli avversari sono oggi liberati da pruderie adolescenziali, dall’odio, affrancati da pulsioni masochiste. Sono solo cialtroni, ma concedono a tutti la possibilità di parlare dalle reti nazionali. Anche allo psicoanalista le cui parole vennero da molti utilizzate per stigmatizzarli.
Nespolo: «Basta cortei e ronde fasciste a speculare su tragedie e disagi»
Intervista. La presidente dell’Anpi catalizza sul quartiere di San Lorenzo oggi alle 14 la mobilitazione antirazzista romana contro il decreto Salvini
La Stampa 27.10.18
Più potere alla polizia: potrà fare blitz
nelle scuole
di Leonardo Martinelli


La polizia potrà entrare, armi al seguito, nelle scuole francesi e presidiarle «nei momenti di tensione», come indicato ieri da Christophe Castaner, ministro degli Interni da pochi giorni. Sì, un ex socialista, che però ripercorre le orme di Nicolas Sarkozy: lui quella proposta l’aveva avanzata (ma senza successo) nel 2004, quando era alla guida dello stesso dicastero.
Castaner, invece, dovrebbe spuntarla, perché lo stesso Emmanuel Macron (a proposito, in tanti a Parigi dicono che assomiglia sempre più a Sarkò) sta insistendo perché si reagisca con la mano di ferro ai fatti degli ultimi giorni.
Armi finte nelle classi
Cos’è successo? Lo scorso fine settimana sui social network era rimbalzato il video di uno studente del liceo di Créteil, periferia Sud-Est di Parigi, che minacciava una professoressa con un’arma (rivelatasi poi falsa, ma l’insegnante non ne era a conoscenza).
Dopo, centinaia di migliaia di testimonianze di docenti si erano riversate su Twitter, a denunciare gli episodi di violenza subiti, nella maggior parte dei casi insabbiati dai superiori. Ieri, a Le Havre è venuto fuori che altri tre ragazzi di sedici anni, all’inizio del mese, nel liceo Schumann-Perret, avevano minacciato con pistole false i loro professori. Nel frattempo due adolescenti tra martedì e mercoledì sono morti, questa volta all’esterno delle loro scuole, in due scontri fra gang rivali, uno nella banlieue della capitale e l’altro dentro Parigi.
Contrari gli insegnanti
Che fare? Ieri Castaner si è riunito con Jean-Michel Blanquer, ministro dell’Educazione, e Nicole Belloubet, alla Giustizia, per fissare un piano d’azione contro la violenza nelle scuole.
I dettagli saranno resi noti martedì ma Castaner ha già ammesso che la polizia entrerà negli istituti «in momenti di tensione particolari, durante la giornata e con il consenso del preside». Si tratterà di un approccio «quartiere per quartiere» e non generalizzato. Ma in Francia si rompe un tabù.
Castaner prevede anche una presenza stabile in alcuni licei «per creare luoghi di scambio tra poliziotti, insegnanti e studenti». Blanquer, da parte sua, ha detto che si prevedono «per i ragazzi fra i 13 e i 18 anni istituti specializzati, dove, accanto al personale educativo, vi saranno pure militari e poliziotti».
Le prime reazioni dei sindacati degli insegnanti alle misure previste sono comunque scettiche. Per l’Fcpe, «le scuole non sono riformatori, ma devono rimanere luoghi di apprendimento».
La Stampa 27.10.18
Chiatti si scusa dopo 26 anni:
“Sono un’altra persona”
di Nicola Pinna


È un linguaggio che non ti aspetti da un mostro. Luigi Chiatti usa termini che forse non sono casuali: parla di cuore, sacrificio e rinascita, di luce che emerge dal male profondo, di generosità, bei ricordi e gratificazione. Non invoca il perdono ma chiede scusa e lo fa rivolgendosi direttamente ai familiari dei due ragazzini uccisi barbaramente nel 1992 e nel 1993. «Non sono più il mostro di Foligno - dice -. Sono un’altra persona. Sono cambiato, ho avviato un processo di rinascita interiore e ho lavorato sulla mia personalità».
Una trasformazione incompiuta
Il percorso di trasformazione di cui parla Luigi Chiatti per i giudici non è ancora compiuto e non sembra un caso che poche settimane fa gli abbiano negato il permesso di lasciare la Rems di Capoterra, il centro per detenuti psichiatrici che si trova a pochi chilometri da Cagliari, dove lui è rinchiuso da quasi 3 anni. E proprio da Capoterra quello che tutti conoscono come il mostro di Foligno ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al quotidiano locale L’Unione Sarda. «Provo una sensazione di immenso dolore che mi strugge e che ha suscitato in questi lunghi anni tanti interrogativi, tra i quali il principale è se fosse giusto o no concedermi la possibilità di rinascere a vita nuova e, quindi, rientrare tra la gente in società, considerato il dolore senza fine che, a causa mia, si è determinato ed è presente nelle famiglie e in tante altre persone legate alle vittime. Mi dispiace, vi chiedo umilmente scusa con il cuore in mano». Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci, finiti nelle sue grinfie quando avevano 4 e 13 anni, Chiatti ora li chiama per nome. «Nel loro ricordo ho fatto del bene in tutti questi anni che ho passato ristretto. Ho aiutato tutte le persone che ho incontrato. E ho capito che nella vita non c’è miglior cosa che agire per il bene: i ricordi delle persone aiutate rimangono per sempre ed illuminano la vita. Per questo vorrei rassicurare le famiglie delle mie povere vittime: oggi sono una persona diversa. Se potessi tornare indietro non rifarei mai quello che ho fatto, perché ciò che ho fatto è distruzione della vita e disprezzo del creato». Ma la lettera scritta da Chiatti non ha fatto certo piacere alla famiglia di Simone Allegretti. Al padre, ieri mattina, l’ha letta l’avvocato Giovanni Picuti: «È rimasto indignato, incredulo - racconta il legale -. Ovviamente non crede a una parola di quelle che Chiatti ha scritto. È convinto che se l’assassino di suo figlio tornasse in libertà tornerebbe a colpire. E questo teme anche tutta la comunità di Foligno».
La Stampa 27.10.18
Chiatti si scusa dopo 26 anni:
“Sono un’altra persona”
di Nicola Pinna


È un linguaggio che non ti aspetti da un mostro. Luigi Chiatti usa termini che forse non sono casuali: parla di cuore, sacrificio e rinascita, di luce che emerge dal male profondo, di generosità, bei ricordi e gratificazione. Non invoca il perdono ma chiede scusa e lo fa rivolgendosi direttamente ai familiari dei due ragazzini uccisi barbaramente nel 1992 e nel 1993. «Non sono più il mostro di Foligno - dice -. Sono un’altra persona. Sono cambiato, ho avviato un processo di rinascita interiore e ho lavorato sulla mia personalità».
Una trasformazione incompiuta
Il percorso di trasformazione di cui parla Luigi Chiatti per i giudici non è ancora compiuto e non sembra un caso che poche settimane fa gli abbiano negato il permesso di lasciare la Rems di Capoterra, il centro per detenuti psichiatrici che si trova a pochi chilometri da Cagliari, dove lui è rinchiuso da quasi 3 anni. E proprio da Capoterra quello che tutti conoscono come il mostro di Foligno ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al quotidiano locale L’Unione Sarda. «Provo una sensazione di immenso dolore che mi strugge e che ha suscitato in questi lunghi anni tanti interrogativi, tra i quali il principale è se fosse giusto o no concedermi la possibilità di rinascere a vita nuova e, quindi, rientrare tra la gente in società, considerato il dolore senza fine che, a causa mia, si è determinato ed è presente nelle famiglie e in tante altre persone legate alle vittime. Mi dispiace, vi chiedo umilmente scusa con il cuore in mano». Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci, finiti nelle sue grinfie quando avevano 4 e 13 anni, Chiatti ora li chiama per nome. «Nel loro ricordo ho fatto del bene in tutti questi anni che ho passato ristretto. Ho aiutato tutte le persone che ho incontrato. E ho capito che nella vita non c’è miglior cosa che agire per il bene: i ricordi delle persone aiutate rimangono per sempre ed illuminano la vita. Per questo vorrei rassicurare le famiglie delle mie povere vittime: oggi sono una persona diversa. Se potessi tornare indietro non rifarei mai quello che ho fatto, perché ciò che ho fatto è distruzione della vita e disprezzo del creato». Ma la lettera scritta da Chiatti non ha fatto certo piacere alla famiglia di Simone Allegretti. Al padre, ieri mattina, l’ha letta l’avvocato Giovanni Picuti: «È rimasto indignato, incredulo - racconta il legale -. Ovviamente non crede a una parola di quelle che Chiatti ha scritto. È convinto che se l’assassino di suo figlio tornasse in libertà tornerebbe a colpire. E questo teme anche tutta la comunità di Foligno».

La Stampa 27.10.18
Più potere alla polizia: potrà fare blitz
nelle scuole
di Leonardo Martinelli


La polizia potrà entrare, armi al seguito, nelle scuole francesi e presidiarle «nei momenti di tensione», come indicato ieri da Christophe Castaner, ministro degli Interni da pochi giorni. Sì, un ex socialista, che però ripercorre le orme di Nicolas Sarkozy: lui quella proposta l’aveva avanzata (ma senza successo) nel 2004, quando era alla guida dello stesso dicastero.
Castaner, invece, dovrebbe spuntarla, perché lo stesso Emmanuel Macron (a proposito, in tanti a Parigi dicono che assomiglia sempre più a Sarkò) sta insistendo perché si reagisca con la mano di ferro ai fatti degli ultimi giorni.
Armi finte nelle classi
Cos’è successo? Lo scorso fine settimana sui social network era rimbalzato il video di uno studente del liceo di Créteil, periferia Sud-Est di Parigi, che minacciava una professoressa con un’arma (rivelatasi poi falsa, ma l’insegnante non ne era a conoscenza).
Dopo, centinaia di migliaia di testimonianze di docenti si erano riversate su Twitter, a denunciare gli episodi di violenza subiti, nella maggior parte dei casi insabbiati dai superiori. Ieri, a Le Havre è venuto fuori che altri tre ragazzi di sedici anni, all’inizio del mese, nel liceo Schumann-Perret, avevano minacciato con pistole false i loro professori. Nel frattempo due adolescenti tra martedì e mercoledì sono morti, questa volta all’esterno delle loro scuole, in due scontri fra gang rivali, uno nella banlieue della capitale e l’altro dentro Parigi.
Contrari gli insegnanti
Che fare? Ieri Castaner si è riunito con Jean-Michel Blanquer, ministro dell’Educazione, e Nicole Belloubet, alla Giustizia, per fissare un piano d’azione contro la violenza nelle scuole.
I dettagli saranno resi noti martedì ma Castaner ha già ammesso che la polizia entrerà negli istituti «in momenti di tensione particolari, durante la giornata e con il consenso del preside». Si tratterà di un approccio «quartiere per quartiere» e non generalizzato. Ma in Francia si rompe un tabù.
Castaner prevede anche una presenza stabile in alcuni licei «per creare luoghi di scambio tra poliziotti, insegnanti e studenti». Blanquer, da parte sua, ha detto che si prevedono «per i ragazzi fra i 13 e i 18 anni istituti specializzati, dove, accanto al personale educativo, vi saranno pure militari e poliziotti».
Le prime reazioni dei sindacati degli insegnanti alle misure previste sono comunque scettiche. Per l’Fcpe, «le scuole non sono riformatori, ma devono rimanere luoghi di apprendimento».

Il Fatto 27.10.18
Da quale pulpito viene il “bipolare”
di Maurizio Montanari


Forte si è levato da ogni parte il grido di sdegno (fai schifo) a stigmatizzare l’incommentabile uscita di Grillo su autismo e Asperger. Lo sostengo da tempo: l’uso del Manuale diagnostico e statistico per colpire l’avversario costituisce una degenerazione inammissibile del dibattito politico. Peccato che i più feroci j’accuse provengano oggi dal quartier generale della Leopolda dal quale, solo poco tempo fa, le bordate cliniche partivano come palle incatenate verso gli avversari.
Erano tempi robusti, il declino non era ancora iniziato, da quelle parti passava tanta gente, mica come oggi. Forse a causa delle mazzate elettorali molti renziani oggi soffrono di un amnesia selettiva, immemori del tempo in cui l’innesto del lessico analitico col renzismo forgiò una neolingua che apostrofava gli avversari come un corpo unico posseduto da intenti incestuosi. Dapprima fu la volta dei nemici interni, espulsi e tratteggiati come mummie intrise di godimento masochista. Fu poi la volta del polo grillino afflitto da una patologia bipolare con un candidato premier che pativa di un bipolarismo inquietante. Il 4 marzo la realtà virtuale della Leopolda venne dissolta dal redde rationem con il quotidiano, quando non torme di nemici malmostosi dediti all’odio, ma la gente comune, riportò il renzismo a contatto con la realtà sbriciolandone le fondamenta e mostrando tutti i drammatici limiti del suo lessico. Tante e tali erano state le invettive cliniche e non lanciate via Repubblica, che quell’odio alle porte incombente io iniziavo a temerlo davvero. Ho realmente pensato di svegliarmi una mattina e ascoltare via radio i comunicati del comitato di salute pubblica tra un brano di sinfonica e l’altro. Addirittura il Paese, a detta di Recalcati, stava per cadere nella mani di “un comico bipolare a sua volta rappresentato da un ex-steward del San Paolo di Napoli con evidenti difficoltà di ragionamento e lessicali” (sic). Al di là del fatto che fare lo steward fa parte di quei lavoro umili che un partito di sinistra dovrebbe vedere come valore aggiunto, io non le ricordo le vesti stracciate a difendere le associazioni di chi è affetto da disturbi specifici del linguaggio o da bipolarismo, colpite allora come oggi avviene per quelle che si occupano di autismo. La loro attenzione alle parole di Grillo è dovuta in parte anche alle sconfitte patite, grazie alle quali hanno potuto affinare la loro sensibilità ed intuire quanto doloroso sia per chi è affetto da alcune patologie dell’animo e della mente, vedere quelle diagnosi che per molti di essi hanno reso la vita tanto dura da campare, usate come strumento di battaglia. Oggi che la Leopolda è franata, ci si ricorda dei più fragili. Troppo facile. Per scagliare un pamphlet ci vuole coerenza.
Dunque, o sei Céline, o è meglio che lasci stare. Prima di lanciare crociate giuste ma tardive contro la malattia usata come argomento politico, è bene che essi prendano atto di quanto il loro linguaggio ne fece uso, e ne traggano insegnamento. È bene che acquisiscano consapevolezza di quanto le loro parole, private dell’arsenale clinico, degradino in insulti da osteria. Cialtroni. Senza cervello. Invettive banali, offese a poco prezzo da scapoli contro ammogliati il venerdì sera. Vuoi mettere il nazional popolare “incompetenti” con il “ritorno spettrale del berlusconismo”? Bene fanno dunque a criticare Grillo, quel linguaggio è sbagliato, fuori luogo. Lo hanno capito a tal punto che da tempo hanno abiurato l’uso della diagnosi. Senza il frasario freudiano gli avversari sono oggi liberati da pruderie adolescenziali, dall’odio, affrancati da pulsioni masochiste. Sono solo cialtroni, ma concedono a tutti la possibilità di parlare dalle reti nazionali. Anche allo psicoanalista le cui parole vennero da molti utilizzate per stigmatizzarli.
Nespolo: «Basta cortei e ronde fasciste a speculare su tragedie e disagi»
Intervista. La presidente dell’Anpi catalizza sul quartiere di San Lorenzo oggi alle 14 la mobilitazione antirazzista romana contro il decreto Salvini

Corriere 27.10.18
Quell’intellighenzia
che non ha nulla da dire
di Antonio Macaluso


C’è uno spettacolo ancora più triste di quello che vede il suicidio auto-assistito dai dirigenti del Pd ed è quello di quel vasto mondo di intellettuali, artisti e fiancheggiatori da salotto che vagano da mesi come cortigiani spaventati. I più furbi si sono riciclati per tempo, hanno coniato parole d’ordine appetitose per il popolo sanculotto e si accingono alla raccolta del nuovo seminato. Altri guardano inebetiti lo scorrere di un film – un horror ai loro occhi pigri – e altri ancora passano il tempo a prendersela con quei capi del Partito – una volta lisciati e adulati – che li hanno lasciati alla mercé di un futuro senza sicurezze.
Attenzione, sarebbe sbagliato pensare a quei «nani e ballerine» ai quali – con spregio – faceva riferimento negli anni 80 Rino Formica, indimenticato ministro delle Finanze, potente dirigente del Psi craxiano e, con il senno del poi, gigante del pensiero politico contemporaneo. Il circo degli adulatori è una costante ultra-millenaria della storia di monarchie, dittature, repubbliche. Corti e governi sempre si sono circondati, consapevolmente o per necessità, di cerchie ristrette o straripanti di adulatori, consiglieri, presunti saggi e infide spie, belle donne, animatori di salotti, ma anche comparse a ruolo variabile. Così è stato, così è, così continuerà ad essere. C’è poco da scandalizzarsi. Se non si vuole essere inutilmente ipocriti, bisogna accettare che il veloce assemblarsi di cerchi più o meno magici nelle stanze attigue al Potere ne sia una sorta di riflesso condizionato.
Non tutti i membri di questi temporary club hanno però le stesse inclinazioni, pretese, influenze. Ed è proprio qui che la differenza tra il gruppo dei «nani e ballerine» – per sua natura affamato ma di bocca buona – e quello della casta intellettuale e salottiera si fa sostanziale. Posto che gli endorsement dei primi hanno scoperte finalità «di scambio» – avere dal Potente qualcosa di immediato, dandogli ciò per cui si viene chiamati o accettati nella sua cerchia: soldi, sesso, popolarità, compagnia – con i secondi i rapporti sono più complessi e delicati. L’intellettuale o il gran borghese che mette a disposizione il suo salotto hanno la capacità di accreditarsi come centri nevralgici di un sistema complesso di relazioni. Nella loro testa, il politico di successo del momento deve avere la percezione di riuscire – finalmente – ad essere ammesso in un circolo di idee e interessi dai tratti esclusivi. Essere fiancheggiati, spalleggiati, accuditi dai protagonisti della Cultura e dei caminetti mondani deve sembrare al neoarrivato politico un vero e proprio traguardo. Una ragnatela sottile che cattura prede per bearsi della propria capacità attrattiva, mostrarla e saldarla a un sistema omogeneo di idee e convenienze. Se, nella convinzione di Alberto Moravia, l’intellettuale doveva essere come il bambino della favola, che rivela al re la sua nudità, nella realtà annovera una vecchia tradizione di servilismo. Alle prese con un Paese ad alto tasso di analfabetismo, l’intellighenzia italiana, osservava Indro Montanelli, ha finito per lavorare per il protettore in mancanza di una vera e propria classe di lettori. Il che non vuol dire che scrittori, giornalisti, registi, filosofi, storici e così via non abbiano di fatto costituito quella sorta di cinghia di trasmissione dal Potere verso il Popolo. Mai viceversa. Perché – è un comico come Pippo Franco a dare voce a una verità storica – «l’intellettuale italiano è sempre stato all’opposizione di ogni regime. Precedente».
I danni che questi intellettuali hanno prodotto sono per certi versi incalcolabili. Hanno sussurrato e suggerito – molto spesso condizionato – idee e scelte dei politici di successo, finendo talvolta – ma sempre più spesso – per allontanarli dalla realtà del Paese. Uno scollamento che ha prosciugato la vena popolare dei partiti di massa in una sorta di ritirata in ridotte sempre più lontane e difficili da difendere. Alla fine, come in una rivoluzione d’altri tempi, il fortino ha ceduto e il popolo inferocito ha dato il comando ai generali dell’oltranzismo.
Ridotti a una sostanziale irrilevanza, i protagonisti della politica del passato si sono ritrovati soli. E proprio nel momento in cui – ora sì – l’intellettuale potrebbe plasmare nuove parole d’ordine, indicare orizzonti, mettere tutto il suo sapere al servizio della politica, ecco che sparisce, si mimetizza, tace. Aspetta forse che sia, ancora una volta, qualcun altro – i giovani? Gli studenti? Le masse deluse delle periferie? La borghesia in scivolata verso il basso? – a trovare «il sol dell’avvenire». Nessuna comprensione per chi ha solo preso e non ha dato, per chi ha allontanato dalla sinistra, dal moderatismo cattolico, dalla destra liberale la parte migliore di uomini e donne. Nessuna comprensione per chi oggi vede Salvini e Di Maio come i nuovi barbari ma ha avuto meno coraggio delle oche del Campidoglio nello svegliare chi evidentemente dormiva sugli allori di un tempo. Un bagno gelido di solitudine per chi ha usato uomini e idee e un monito alla classe politica perché lavori, studi e pensi in proprio, senza delegare ad amici e consiglieri che hanno più gambe che cuore. L’affermarsi di una classe politica che si fa vanto della sua ignoranza e approssimazione ribalta la situazione precedente, ma non è meno pericoloso. Anche perché, come recita un antico proverbio, l’ignoranza è madre dell’arroganza. Come, purtroppo, è già possibile constatare.


ROSSANA ROSSANDA DA ZORO

Corriere 27.10.18
il letterato e le sue idee
Giù le mani da Pound: lui è la poesia
di Claudio Magris


Pound appartiene alla poesia, assurdo farne una bandiera neofascista. Le manifestazioni degli estremisti di CasaPound a Trieste e a Fiume ci riportano a distinguere tra il letterato e le sue idee.
U n anno fa, in una libreria di Trieste, Gianni Contessi ha parlato di alcuni volti che segnano la letteratura contemporanea come maschere di una tragedia greca: quelli di Beckett, di Pasolini, di Pound, soffermandosi soprattutto su quest’ultimo. Un volto di insopprimibile dignità, scavato dal dolore e misteriosamente sereno; uno sguardo perduto in se stesso e in chissà quali lontananze, capelli bianchi da profeta o da pastore errante. In stridulo contrasto con la solitudine e la bontà di quel volto, il 3 novembre prossimo è annunciata una manifestazione a Trieste di CasaPound, la formazione politica nostalgica del fascismo più radicale di cui sogna il ritorno. Contro l’annunciata manifestazione si sono levate proteste da parte di tutte le forze politiche, di governo e d’opposizione, della Diocesi e di molte comunità religiose e associazioni culturali.
È difficile e insieme doloroso abbinare il nome del grande poeta — e il suo volto di Edipo cieco e veggente, perseguitato dal fato — e un’associazione che propugna un regime totalitario al quale è intrinseca la violenza. Certo, c’è fascismo e fascismo, ci sono fascisti e fascisti: Gentile non è Farinacci, certe intelligenti misure prese dal regime al tempo della grande depressione del 1929 non sono l’olio di ricino dato agli avversari politici o le teste spaccate dagli squadristi né gli assassinii di Matteotti, Amendola, Gobetti o don Minzoni. Il fascismo va condannato senza remore, ma con equanimità, come ha fatto Scurati nel suo romanzo. In ogni caso un regime liberticida mal si concilia con quell’umanità che c’è nello sguardo e nella persona di Pound.
Certo, Pound è stato fascista. I suoi discorsi alla radio italiana contro gli Stati Uniti, contro il suo Paese in guerra, sono una colpevole dismisura, che è stata peraltro punita non con quel rispetto che deve esserci pure in ogni severità, ma con l’oltraggio e la volgarità della vendetta. A guerra finita Pound fu rinchiuso dagli americani a Pisa in una gabbia e più tardi, negli Stati Uniti, nel manicomio criminale di Saint Elizabeth — forse per evitargli il processo e la probabile pesante condanna per alto tradimento — dove trascorse tredici anni. Alfredo Rizzardi — suo grande critico e grande traduttore dei Cantos pisani e avverso alle sue idee politiche — lo visitò nell’ospedale psichiatrico e ricorda il suo «atteggiamento superiore, il coraggio, la forza d’animo». Il manicomio è un carcere privilegiato da tutte le dittature, ma evidentemente anche da democrazie non molto democratiche.
Nel fascismo di Pound c’era probabilmente una grande ingenuità politica. Era rimasto affascinato da alcuni principi sociali del primo fascismo, quello sansepolcrista, ma non vedeva il totalitarismo dispotico, i delitti, la violenza che pure gli era invisa, la sostanza sempre più fasulla del regime, le scarpe scalcagnate date ai soldati mandati a combattere e a morire in Grecia, in Russia ricevendo razioni inferiori a quelle dei soldati tedeschi. Nel fascismo aveva visto, abbagliato dai proclami e miope dinanzi alla realtà, una lotta contro quello che per lui era il Male, l’usura. Lo affascinavano le teorie economiche e finanziarie di C. H. Douglas e di Silvio Gesell, il quale per pochi giorni era stato attivo nella Rappresentanza popolare per le Finanze della Repubblica sovietica bavarese del 1919, immediatamente soffocata nel sangue. Le teorie di Gesell sul «denaro che svanisce» o «denaro libero» ( Schwundgeld o Freigeld ) prevedevano, con un meccanismo complicatissimo, una svalutazione più rapida possibile, quasi immediata del denaro, abolendo l’interesse per impedire la sua accumulazione e dunque per cancellare le disuguaglianze fra la ricchezza dei pochi e la povertà dei molti. Marchingegno che può essere toccante nella sua astratta ingenuità, ma che sarebbe catastrofico sino al ridicolo nella sua applicazione in uno Stato. Il capitalismo sfrenato crea ingiustizie ed orrori, ma lo fa altrettanto un anticapitalismo sprovveduto, di fatto tradito dai regimi che se ne adornano o fingono di adornarsene, come il nazismo, in cui sia pur del tutto superficialmente circolarono per qualche momento le idee di Gesell.
Come dimostrano l’amicizia di Pound con vari scrittori ebrei e la generosità dimostrata nei suoi confronti da critici e autori ebrei, il suo antisemitismo non era razzista e si fondava su un’ossessiva e faziosa fissazione sul ruolo che storicamente molti ebrei avevano avuto nel sistema bancario, basato sull’interesse quale frutto del denaro, sul denaro che produce direttamente denaro. La sua visione di un’economia giusta e umana, in cui i beni circolano come in una famiglia, è un’utopia generosa, ma soffermarsi su pretese e assurde colpe degli ebrei mentre infuriava lo sterminio di milioni di essi è imperdonabile.
La giustizia è un valore fondamentale, ma se si dissocia dalla libertà assume il volto della tirannide, della violenza, e i vari regimi totalitari lo hanno dimostrato. Giustizia e Libertà è il nome del movimento più autentico, più umano dell’antifascismo e della lotta antifascista. CasaPound proclama ideali sociali di solidarietà, di lotta alle sperequazioni e alle disuguaglianze, come riferisce un’eccellente inchiesta di Gianluca Modoli e Giovanni Tomasin sul «Piccolo» del 22 ottobre, e pratica un’opera di assistenza e aiuto sociale. Lavoro meritorio anche se legato alla propaganda, cosa che peraltro vale per ogni partito. CasaPound afferma di richiamarsi a Alain de Be-noist, pensatore certo di destra, attento ai problemi del Terzo Mondo e difensore delle comunità religiose e culturali contro Marine Le Pen, che parla — come un giacobino ai tempi del Terrore — della Repubblica che non riconosce alcuna altra comunità al suo interno.
Il primo fascismo, sansepolcrista, che si presentava socialmente avanzato, ha distrutto molti di coloro che avevano creduto in esso — ad esempio Enrico Rocca, ebreo goriziano, irredentista, grande studioso e traduttore di letteratura tedesca, sansepolcrista della prima ora, che si suicida nel 1944, nella furia delle leggi razziali e delle loro applicazioni e conseguenze sanguinose. È nel sentimento dell’universalità umana, dell’appartenenza all’umanità, che si realizza e si invera ogni identità particolare, famigliare, patriottica, nazionale o d’altro genere, che soltanto in questo più grande concerto trova il suo autentico valore. Italiani si nasce, ma anche e soprattutto si diventa, come insegnano i patrioti triestini dai cognomi tedeschi, slavi o ebraici, gli originari africani divenuti generali o presidenti degli Stati Uniti, Puškin, padre della grande letteratura russa moderna, discendente di un abissino, il famoso «negro di Pietro il Grande», oppure Paola Egonu o Miriam Sylla, ricordate di recente sul «Corriere» da Massimo Gramellini, rispettivamente d’origine nigeriana e ivoriana, ma ora l’una padovana l’altra palermitana, straordinarie giocatrici di pallavolo nella nazionale italiana che si sentono spontaneamente, naturalmente italiane. La fissazione sulla razza è la negazione di tutto questo; lo sapevano bene i patrioti italiani e triestini, molti dei quali ebrei, che avevano combattuto per l’Italia e che le immonde leggi razziali hanno voluto espellere dalla patria.
CasaPound annuncia pure una manifestazione a Fiume, proprio nel momento in cui il governo croato si dimostra più sensibile e aperto a riconoscere e a sottolineare la tradizione italiana della città. Per quel che riguarda d’Annunzio, altro grande della letteratura moderna, spero ci si ricordi che durante la Reggenza del Carnaro d’Annunzio ha aperto scuole italiane, croate e ungheresi, all’opposto del fascismo barbaramente repressivo delle nazionalità e in particolare di quelle slave, e ha elaborato uno statuto particolarmente avanzato dei lavoratori. Il vice di d’Annunzio a Fiume, Ercole Miani, volontario e decorato nella Grande guerra, anni dopo sarebbe divenuto un eroico comandante della Resistenza nella Venezia Giulia, ferocemente torturato senza lasciarsi sfuggire una parola dalla banda nazifascista Collotti.
Non ameremo Pound di meno per il suo tragico abbaglio e la sua grandezza poetica non ci farà prendere sul serio le sue teorie. È un grande del Novecento, un protagonista di quella rivoluzione dell’arte e della letteratura moderna che ha sconvolto e ricreato le forme espressive, l’immaginario, il volto del mondo e della storia, il linguaggio. Quest’avanguardia culturale ed espressiva, protagonista del secolo, si era incontrata pure col fascismo, come dimostrano alcuni notevoli artisti, specialmente futuristi, che ne erano stati affascinati e che, divenuti icone di regime, accademici in feluca, non sono stati più veri artisti creativi. Pound non si è messo la feluca; è rimasto un profeta inascoltato e fuorviato, uno sperduto pioniere del West che egli amava.
I suoi Cantos , scritti nell’arco di settant’anni, sono un’opera grandiosa e impervia che vuole abbracciare la totalità della storia, della vita e delle culture più diverse, dai Greci all’Italia dei Comuni ai provenzali e alla Cina, civiltà di cui egli tanto si è nutrito e che attraversa i Cantos , talora ardui e inaccessibili per la diretta citazione di ideogrammi cinesi. È difficile dire se si tratta di un poema unitario o di un balenare inafferrabile di frammenti, come altre grandi opere del Novecento. Nella creazione poetica, specie in quella che rompe i limiti, è difficile distinguere l’indicibile dal naufragio.
Non è bene chiedere ai poeti indicazioni politiche. Alcuni dei più grandi scrittori del Novecento sono stati fascisti, nazisti, stalinisti: Pirandello, Céline, Hamsun, i poeti francesi che si recavano devotamente a Mosca ad assistere consenzienti alla «Messa rossa» ossia alle impiccagioni staliniane di molti loro compagni. Continuiamo ad amare Hamsun — come lo amava Singer, nonostante la sua celebrazione di Hitler — e Céline nonostante le sue imperdonabili Bagatelle per un massacro , ma non chiederemo loro come votare.
Continuiamo ad amarli, perché le loro pagine ci mostrano un volto e un senso della vita che essi stessi non hanno voluto o saputo comprendere lucidamente. Le loro affermazioni o esternazioni ideologiche sono spesso in contrasto con un loro forte e generoso sentimento della vita e dell’uomo, sentimento che nutre la loro arte e viene negato dalla loro rozza, infelice e barbara ideologia. Grazie ad essi, abbiamo compreso e fatto nostre delle verità che essi non sono stati capaci di cogliere dalle loro opere. Si sono identificati con il male, forse perché hanno dolorosamente creduto che la storia fosse inevitabilmente un cancro e che il male fosse la tragica verità della vita. C’è, nelle loro aberrazioni, un autolesionista e ostentato disprezzo dei valori universali umani, che essi sono stati incapaci di distinguere dalla retorica che certo spesso li avvolge. Quei grandi che si sono volutamente accecati come Edipo ci aiutano spesso, senza volerlo, a scoprire la giusta strada, che va in direzione opposta a quella presa da loro. Non è bene, in nessun caso, affibbiare loro un distintivo o una tessera. Giù le mani dai poeti.

Il Fatto 27.10.18
Gli anni orribili dei carabinieri che Salvini non vuole vedere
Cucchi e non solo - I depistaggi sul giovane pestato coinvolgono la catena di comando, per il ministro è “un eventuale errore di uno”
di Alessandro Mantovani e Antonio Massari


Nessuno, dal palco, ha nominato Stefano Cucchi. Ma con i giornali strapieni del processo per le violenze e dell’inchiesta sul depistaggio, nessuno ieri pensava ad altro quando il ministro dell’Interno e vicepremier, Matteo Salvini, alla festa per i 40 anni del Gruppo intervento speciale (Gis) dei carabinieri, ha detto: “Non ammetterò mai che un eventuale errore di uno possa infangare l’impegno e il sacrificio di migliaia di ragazze e ragazzi in divisa”. Chi sbaglia, certo, non infanga tutti, ma “un eventuale errore di uno” è un po’ poco. Salvini in questo modo strizza l’occhio alle componenti peggiori delle forze dell’ordine. Infatti la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, ha dedicato all’innominato Cucchi un passaggio più equilibrato, in cui ricorda i valori di “rettitudine, integrità, coerenza, interiorizzazione del senso del dovere e della responsabilità” che l’Arma incarna, per dire che “laddove si accerti l’avvenuta negazione di questi valori, si deve agire e accertare la verità, isolando i responsabili allo scopo di ristabilire quel sentimento di fiducia”. E anche il comandante generale, Giovanni Nistri, che ha con coraggio ha chiesto scusa ai Cucchi ma poi è stato accusato di riservare maggior rigore ai carabinieri che hanno testimoniato rispetto agli imputati di violenze e depistaggi, si è tenuto sulle generali: “È nella virtù dei 110 mila uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo la forza per continuare a servire le istituzioni”.
Decine di migliaia di poliziotti, carabinieri, finanzieri e vigili urbani si comportano correttamente, altrimenti avremmo morti e feriti tutte le sere. Chi onora la divisa è la prima vittima di chi la disonora. Ma il problema della devianza delle forze dell’ordine esiste, talmente serio che a differenza di altri Paesi non ci sono neanche statistiche accessibili, ha radici storiche profonde, se n’è vista una prova drammatica al G8 di Genova nel 2001 e da allora qualcosa è cambiato ma non abbastanza, specie sulla formazione. I carabinieri lo sanno benissimo perché in genere sono loro che arrestano o denunciano i colleghi e stanno imparando dagli errori del passato.
L’altroieri militari del Noe, il Nucleo operativo ecologico, su ordine della magistratura romana, hanno arrestato altri militari del Noe perché accusati di corruzione nel settore nevralgico del trattamento dei rifiuti. Non sono i primi, purtroppo. È recente la prima condanna per l’incredibile stupro di due studentesse americane a Firenze nell’estate 2017, attribuito a due carabinieri già destituiti dall’Arma con ragionevole solerzia. Tre stazioni della Lunigiana sono state investite da un’inchiesta della Procura di Massa: presunti abusi su stranieri.
Le logiche fascistoidi sono dure a morire. Un mese fa Salvini, sempre lui, ha reso omaggio nelle Marche a un appuntato che era stato ferito da uno straniero: sui social il militare, come raccontato da Sandra Amurri sul Fatto, inneggiava a Mussolini. Non è il primo, anche per questo l’Arma sta potenziando il suo monitoraggio interno sul web. E d’altro canto a Macerata il tiratore razzista Luca Traini, poi condannato in primo grado a 12 anni, è stato benevolmente fotografato in una caserma dei carabinieri col tricolore sulle spalle e l’immagine è finita su tutti i giornali come avrebbe voluto lui. E vale la pena di ricordare il maggiore di Vasto che spiegò, neanche fossimo negli anni 50, che due minori arrestati per abusi sessuali su un’altra ragazzina “non erano consapevoli”, cioè “stupravano a loro insaputa” come scrisse Selvaggia Lucarelli sul Fatto.
Mele marce, si dice. Ma a volte il marcio, o il presunto marcio, è in cima al cesto. Nel caso Cucchi, se i vertici dell’Arma di Roma non coprirono deliberatamente le violenze, certamente non si accorsero di cosa era successo e sembra davvero una barzelletta. Ci sono generali indagati, compreso l’ex comandante generale Tullio Del Sette, per la fuga di notizie rivelata da Marco Lillo sul Fatto nel dicembre 2016 che consentì ai vertici della Consip di far sparire le microspie con cui la Procura di Napoli cercava le prove di corruzioni e traffici di influenze ipotizzati attorno ad appalti pubblici miliardari.
Certi armadi dell’Arma ospitano scheletri che non troveranno mai pace. È di aprile la condanna in primo grado a dodici anni dei generali Mario Mori e Antonio Subranni nel processo per la Trattativa Stato-mafia del 1992-’93: erano ai vertici del Ros, il Reparto operativo speciale, l’élite che si occupa di mafia e terrorismo. E prima di cambiare, il Ros fu guidato dal generale Giampaolo Ganzer, processato insieme ad altri ufficiali per le inchieste sotto copertura trasformate, negli anni 90, in traffici di cocaina: prese 14 anni in primo grado a Milano, ridotti a 4 in appello e cancellati nel 2016 da una salvifica prescrizione in Cassazione.

Corriere 27.10.18
Cucchi e i depistaggi del 2015
Indagato un capitano dei carabinieri
Favoreggiamento sulle relazioni manomesse. Nistri: pochi hanno perso la strada della virtù
di Giovanni Bianconi


ROMA La nuova inchiesta sui depistaggi per coprire il «violentissimo pestaggio» di Stefano Cucchi svelato nove anni dopo da un carabiniere, si allarga e conta un nuovo indagato tra gli ufficiali dell’Arma: si tratta del capitano Tiziano Testarmata, che ha ricevuto un avviso di garanzia per favoreggiamento legato a presunte omissioni risalenti al novembre 2015. In quel periodo, sei anni dopo la morte di Cucchi, mentre i poliziotti della Squadra mobile di Roma guidati da Luigi Silipo stavano scoprendo il coinvolgimento e le responsabilità dei tre carabinieri oggi imputati di omicidio preterintenzionale, il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto al Comando provinciale dell’Arma di raccogliere e trasmettere tutti i documenti relativi alla vicenda dell’ottobre 2009.
Per questo motivo il capitano Testarmata, comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo, si recò nella caserma di Tor Sapienza dove Cucchi aveva trascorso la notte successiva all’arresto. Ad accoglierlo c’era il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione che oggi — indagato nel nuovo procedimento penale — ha rivelato che le due annotazioni sullo stato di salute del detenuto redatte all’epoca dai carabinieri Colicchio e Di Sano erano state manomesse su ordine dei suoi superiori. È la storia della doppia versione di quelle relazioni, rispedite via e-mail a Colombo dal tenente colonnello Francesco Cavallo (anche lui sotto inchiesta per falso), con il commento «meglio così», dopo essere state corrette in alcuni passaggi sulle condizioni di Cucchi.
A Testarmata, Colombo consegnò «le due relazioni in entrambe le versioni, quella originaria e quella modificata» perché erano rimaste agli atti, «l’ordine era di “dare tutto” e io non volevo nascondere nulla». Così ha riferito il luogotenente nell’interrogatorio reso al pm. Aggiungendo un particolare non irrilevante: «Per far capire che io avevo eseguito una disposizione dei superiori, in questa occasione mostrai al personale del Nucleo investigativo la mail inviatami dal tenente colonnello Cavallo, per spiegare come mai c’erano due annotazioni diverse per un solo atto (circostanza di cui si erano resi conto anche i colleghi del Nucleo investigativo, i quali infatti mi avevano chiesto spiegazioni). Il capitano del Nucleo, quando vide la mail del tenente colonnello Cavallo, uscì fuori per parlare al telefono, poi rientrò e presero tutto, ma non la mail». Della consegna della documentazione, ha specificato Colombo, non fu redatto alcun verbale di acquisizione.
È un racconto che, seppure fatto da un indagato che non ha l’obbligo di dire la verità, apre la strada a sospetti di nuove coperture continuate anche nel 2015, mentre era in corso la nuova inchiesta — condotta dalla polizia — sulla morte di Cucchi. Di qui la necessità di ulteriori accertamenti da compiere anche nei confronti del capitano Testarmata, con le garanzie imposte dalla legge, nell’ambito di un’inchiesta che arrivata a questo punto rischia di salire ancora di livello e mettere a dura prova l’immagine dell’Arma.
Di sicuro il comandante generale Giovanni Nistri aveva in mente questo pericolo, ieri, quando alla presenza dei ministri della Difesa e dell’Interno riuniti per celebrare il quarantennale del Gis, ha detto in tono solenne: «L’Arma deve ricordare che è nella virtù dei 110.000 uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo sempre la forza per continuare a servire le istituzioni. Centodiecimila uomini che sono molti, ma molti di più dei pochi che possono dimenticare la strada della virtù. A quegli uomini auguro di continuare a essere quello che sono sempre stati, e di continuare a ricordarsi che nessuno di loro lavora per se stesso, nessuno di noi lavora per fare altro che il dovere dell’onestà, della correttezza, del bene della nazione».
Anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta è tornata sull’argomento spiegando che «l’Arma è sempre stata ed è vicina al cittadino, e ogni singolo carabiniere è sempre stato un punto di riferimento per i cittadini onesti». Ma proprio per salvaguardarne l’immagine, laddove emerga «l’eventuale negazione di questi valori, si deve agire e accertare la verità, isolando i responsabili per ristabilire quel sentimento di fiducia da parte dei cittadini nei confronti di carabinieri e istituzioni». Accanto a lei, il titolare dell’Interno Matteo Salvini sembra proporsi nel ruolo di scudo alle polemiche: «Non ammetterò mai, finché sarò ministro, che l’eventuale errore di uno permetta di infangare il sacrificio e l’impegno di centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze in divisa».

il manifesto 27.10.18
Carla Nespolo
di Rachele Gonnelli


«Stiamo ricevendo adesioni di minuto in minuto». Dall’Arci alla Cgil, a tutte le sigle che oggi, per la giornata nazionale di mobilitazione antirazzista, si erano date appuntamento in piazza Santi Apostoli in centro a Roma: confluiranno invece nella manifestazione convocata dall’Anpi nel quartiere di San Lorenzo, dove è stata uccisa la sedicenne Desirée Mariottini. La presidente nazionale dell’Associazione nazionale partigiani, Carla Nespolo, è soddisfatta che sia stata capita la predominanza delle ragioni che l’hanno spinta a questa convocazione.
Le spiega anche a noi, le ragioni del presidio di oggi a San Lorenzo?
È chiaro che i reati vanno perseguiti, che gli autori di questo orribile crimine vanno ricercati e condannati duramente ma siamo noi a portare avanti da sempre l’idea di una società che bandisce la violenza e l’esclusione, in particolare la violenza contro le donne, è il nostro patrimonio storico, e quando abbiamo visto la strumentalizzazione di questo efferato crimine, quando abbiamo visto che i fascisti provavano a rialzare la testa speculando su questa terribile vicenda per tentare di raggranellare consensi, abbiamo subito capito che dovevamo rispondere con una reazione molto significativa di tutti gli antifascisti.
Forza Nuova per oggi aveva convocato una passeggiata proprio a San Lorenzo, non vede rischi di aggressione al presidio?
So che volevano organizzare una ronda ma penso che la presenza di popolo li dissuada. Comunque non vedo rischi quando c’è una grande risposta unitaria delle forze democratiche che credono in una convivenza pacifica e inclusiva. Voglio ancora ribadire che è solo l’inclusione a creare sicurezza, non certo l’odio e la paura. È il razzismo che alimenta l’insicurezza e i soprusi. Mentre l’accoglienza, come insegna Riace, crea condivisione e rispetto reciproco, lotta alle mafie e allo spaccio di droga che le mafie organizzano. Colpisce come si stiano moltiplicando gli omicidi di donne e anche in questo caso per rispettarle certamente non va strumentalizzata la loro morte.
Il quartiere di San Lorenzo fu messo a ferro e fuoco durante la marcia su Roma e i neofascisti hanno spesso cercato di commemorare il 28 ottobre proprio lì. Domani vanno a Predappio. E voi?
Il 28 ottobre si celebra la liberazione di Predappio ad opera dei partigiani e noi dell’Anpi intendiamo celebrarla con un concerto e una cena – dopo il concerto «Cantiamogliela» i partecipanti si sposteranno in corteo verso il circolo Arci per la «tagliatella antifascista» ndr – e se qualcuno vuole fare una celebrazione nostalgica del fascismo sappia che al massimo la può fare in forma privata. Non siamo disponibili ad accettare alcuna equiparazione tra fascisti e antifascisti. La Repubblica italiana è nata dalla Resistenza e solo noi siamo legittimati a ricordare la liberazione di Predappio. Il vice presidente Anpi, l’avvocato Emilio Ricci, ha già mandato una diffida a questore e prefetto di Predappio perché non consentano la manifestazione neofascista.
Il Parlamento europeo ha approvato due giorni fa una risoluzione per lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste e neonaziste, incluso Casa Pound. Come valuta questo atto?
Ringrazio l’impegno di Eleonora Forenza e tutti gli eurodeputati dei vari gruppi che hanno votato a favore di questa risoluzione contro i nazi-fascisti risorgenti. Mi dispiace che Lega e Forza Italia non siano tra questi. L’Europa ha compiuto un passo importante anche se tardivo, visto ciò che succede in Paesi come Polonia e Ungheria. E è imbarazzante vedere ministri dell’Ue a passeggio a Kiev, che anche se non è dell’Unione europea, è un Paese del continente dove i nazisti sono attualmente al governo.
Risale a pochi giorni fa anche la presentazione da parte della senatrice a vita Liliana Segre del progetto di legge per istituire una commissione bicamerale di indirizzo e controllo sui fenomeni di razzismo, antisemitismo, odio e violenza contro le minoranze. Può essere utile a mettere in pratica la risoluzione europea?
La commissione è una bellissima, lodevole iniziativa e sono ammirata per l’impegno e la determinazione con cui la senatrice Liliana Segre a sostenere il dialogo, lei che ha visto l’orrore che può produrre il fascismo è la voce più autorevole per farsi ascoltare e chiedere il rispetto delle diversità.
Liliana Segre dice che bisogna lavorare contro la fascistizzazione del senso comune. è in atto una sorta di inversione di senso come quando Alessandra Mussolini vuole denunciare chi insulta suo nonno Benito, non crede?
Non mi interessa per niente cosa va dicendo la signora Mussolini. L’opinione pubblica democratica si indigna per sfilate nostalgiche come quelle che si sono svolte a Predappio. È l’ora di fermarle. E contro le strumentalizzazioni di una tragedia come quella di San Lorenzo, le forze democratiche, antifasciste,le associazioni locali e nazionali, oggi risponderanno.

il manifesto 27.10.18
Predappio, la Prefettura autorizza il corteo fascista
Fascismi. Indignazione dell'Anpi: «Il corteo in questione viola il dettato della Costituzione e delle leggi Scelba e Mancino, e ciò anche con il supporto di quanto avvenuto negli scorsi anni, con l’aggravante che vi sia stato, nel tempo, il consenso delle autorità competenti»
di Mario Di Vito


La marcia su Predappio si farà. I nostalgici del ventennio fascista hanno strappato un clamoroso sì dal Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico per una manifestazione che si terrà domani mattina nella città natale di Benito Mussolini, nel giorno dell’anniversario della marcia su Roma.
NON È UNA PRIMA ASSOLUTA – da decenni i nostalgici di tutta la penisola si danno appuntamento il 28 ottobre a Predappio – ma questa volta l’Anpi aveva deciso di reagire con forza, organizzando a sua volta un doppio appuntamento: al teatro comunale e con un corteo che si muoverà per le vie del centro. Il corteo fascista è stato in dubbio fino a ieri mattina, quando la prefettura ha sciolto le riserve e ha approvato la richiesta arrivata dall’associazione Arditi d’Italia e dal Museo dei ricordi di Villa Carpena. La decisione era nell’aria da giorni, e lo stesso ministro degli Interni Matteo Salvini aveva dato un sostanziale via libera alla manifestazione delle redivive camicie nere.
«MUSSOLINI E STALIN appartengono al passato – aveva detto il titolare del Viminale -, se una persona vuole manifestare per quanto mi riguarda lo può fare a patto che rispetti la Costituzione». Edda Negri Mussolini, nipote del duce, ci prova a stemperare la tensione, ma la sua dichiarazione lascia il tempo che trova: «Noi chiediamo da anni che all’interno del cimitero tutto si svolga nel rispetto del luogo sacro e il corteo non sia sfruttato per motivi politici e non vi siano simboli politici». Più facile a dirsi che a farsi: ogni anno la celebrazione è un trionfo di bandiere fasciste, camicie nere, fez, «Faccetta nera» e saluti romani.
L’appuntamento per i nostalgici è fissato per le 11 e 30 nella frazione di Pieve San Cassiano, dove si svolgerà una messa in suffragio.
ALLA NOTIZIA dell’approvazione del corteo fascista, l’Anpi ha reagito con indignazione, ricordando di essere pronta a sporgere denuncia «se vi fossero condotte di esaltazione del fascismo», cosa pressoché scontata. E ancora, si legge in una nota, «il corteo in questione viola il dettato della Costituzione e delle leggi Scelba e Mancino, e ciò anche con il supporto di quanto avvenuto negli scorsi anni, con l’aggravante che vi sia stato, nel tempo, il consenso delle autorità competenti».
Per il resto a Predappio il clima non appare affatto infuocato. Da queste parti l’anniversario della Marcia su Roma viene visto come un evento che fa felici i commercianti di paccottiglia fascista: dalle bottiglie di vino con la faccia di Mussolini agli inquietanti manganelli di legno con scritto «Boia chi molla», «Me ne frego». Il sindaco Giorgio Frassineti (Pd) dal canto suo sostiene che «La marcia dei nostalgici non ha mai creato alcun problema», e poi si innervosisce del fatto che i fari sulla sua città vengano accesi soltanto quando si parla di Mussolini. «Non siamo la Chernobyl della storia – sostiene Frassineti -, non siamo contaminati. Dobbiamo accettare il fatto che sia esistito il fascismo. Dobbiamo studiarlo affinché non torni mai più». Intanto i fascisti continuano a marciare.

Repubblica 27.10.18
l sindacato
Cgil, resa dei conti sulla successione a Camusso Oggi il direttivo Landini è il candidato della segretaria uscente ma Colla potrebbe avere maggiore consenso tra i membri del "parlamentino" confederale
Torino
di Paolo Griseri


L’esito finale è, almeno teoricamente, scontato. Piuttosto conterà con quale maggioranza Susanna Camusso uscirà dal direttivo di oggi che ha per oggetto , tra gli altri, il nome del suo successore. Soprattutto sarà importante capire se si arriverà a un voto. Perché è anche possibile una sorta di surplace, come quella dei ciclisti nel velodromo dove chi fa la prima mossa quasi sempre perde.
La mossa di Camusso di annunciare via Facebook il nome di Maurizio Landini come candidato segretario generale ha provocato qualche turbamento nell’organizzazione. E anche una raccolta di firme per chiedere la convocazione del direttivo. Per il metodo prima ancora che per il nome scelto. In alternativa all’ex segretario della Fiom si prepara la candidatura di Vincenzo Colla che ha una biografia simile a quella di Landini: emiliano ( di Piacenza mentre il candidato della segreteria è di Reggio Emilia), metalmeccanico ( ambedue, ironia della sorte, con un’esperienza da saldatori), sessantenne. Mentre Landini è stato lanciato da Camusso, Colla non si è ancora ufficialmente candidato. Tanto che il 24 ottobre scorso la segretaria generale ha avuto buon gioco a dire: «In campo c’è una proposta che ha fatto la grande maggioranza della segreteria. Non mi risulta ce ne siano altre».
Formalmente è certamente così, nella realtà tutti sanno che i giochi sono ancora aperti. E questa mattina, nel direttivo nazionale, il confronto si annuncia serrato. La riunione è convocata alle 9 nella grande sala sotterranea della sede di Corso d’Italia. I rumors della vigilia dicono che potrebbe essere presentato un ordine del giorno di censura del comportamento di Camusso che, secondo i sostenitori di Colla, non avrebbe rispettato il mandato del precedente direttivo, con « una mossa incauta » . Una battaglia di merito che, come spesso accade in Cgil, si svolge con una discussione di metodo.
La divaricazione tra i due contendenti è sul modo di fare sindacato. E anche sul rapporto con la politica. I colliani, come il segretario dei chimici Emilio Miceli, contestano la proposta della «coalizione sociale » lanciata da Landini negli anni scorsi. E contestano « il contratto dei metalmeccanici che eleva il benefit al rango di retribuzione» insinuando che quell’accordo, firmato da Landini con Fim e Uilm dopo anni di contrapposizioni, sia stato « un necessario pedaggio pagato per rientrare in gioco».
La risposta dei landiniani è nell’accusa a Colla di essere espressione di un sindacalismo superato, che non sa parlare alle nuove generazioni e ai precari, che fa del rapporto con i partiti della sinistra un asse privilegiato.
Lo scontro diventerà voto al termine di una riunione che si preannuncia lunga e combattuta? Forse no. Sicuramente i sostenitori di Landini non hanno bisogno di fare la prima mossa. Sembrano forti del sostegno di categorie importanti come i metalmeccanici, la funzione pubblica e il commercio. In teoria toccherebbe ai sostenitori di Colla muoversi ma un loro ordine del giorno che venisse bocciato finirebbe per rappresentare la fine della partita. La situazione è comunque molto incerta. Al punto che nei congressi territoriali alcuni candidati landiniani, come il veneziano Enrico Piron, sono stati inaspettatamente bocciati. Ben più clamorosa la sconfitta di Guido Mora, segretario di Reggio Emilia, che ha perso nella città di Landini. Baruffe locali o un segnale ai vertici nazionali?

il manifesto 27.10.18
L’internazionale riparte da Sanders e Varoufakis
Sinistra. L'appello per una nuova alleanza sovracontinentale e progressista sarà lanciato a New York il prossimo 30 novembre: «Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore», dice il leader di Diem25 al manifesto
di Graziella Durante, Giovanna Ferrara


Se ne parlava da mesi. Adesso la notizia è arrivata: il 30 novembre comincia ufficialmente l’internazionale progressista di Yanis Varoufakis e Bernie Sanders. I due outsider della sinistra radicale – il primo a capo di Diem25, il secondo leader del movimento Our Revolution, nato come risposta left all’elitarismo del democratic party – lanceranno da New York un appello per costruire una nuova alleanza sovracontinentale contro l’oscena fioritura di fascismi e nazionalismi.
Dinanzi alla riconfigurazione globale del neoliberismo su posizioni nazionaliste e xenofobe, il nuovo soggetto si rivolge a partiti, movimenti, organizzazioni interessati al ribaltamento dell’attuale sistema-mondo per rilanciare le parole d’ordine della giustizia globale, della lotta alla povertà, del salvataggio in extremis di un ecosistema sventrato dalle mani, tutt’altro che invisibili, del mercato.
Un umanesimo che rimastica le stesse parole che animarono, più di 15 anni fa, le lotte che da Seattle a Genova ci regalarono le ultime fotografie di un’utopia a portata di mano. Un programma guardato con interesse anche dal neo presidente del Messico Lopez Obrador, che punta a creare un vasto e solido schieramento radicale.
«Non è il momento adatto per assecondare le divisioni. Chiunque abbia interesse a lottare contro la povertà ed è saldamente ancorato a una visione internazionalista è un nostro interlocutore e noi il loro», ci dice Varoufakis al margine di una conferenza stampa dove la crisi dell’«Europa di Francoforte», la stessa che ha decretato la fine del sogno nato dal referendum greco del 2015, è un’evidenza.
Che fare? L’ex ministro delle finanze greco non ha dubbi: dialogare con tutti i partiti, con le associazioni, con i movimenti, con chi vuole tenere assieme l’Europa. Perché a volerla disgregata, spiega, sono solo gli attuali leader che sono pronti a sacrificarne la tenuta sull’altare dell’austerity che affama e chiude le frontiere
Cita proprio il caso Brexit per sottolineare che se la working class britannica ha detto no al suo progressivo sfruttamento a favore delle oligarchie finanziarie non è certo per antieuropeismo: è semplicemente una lotta di classe. A chiedergli cosa ne pensa dello scontro italiano contro le regole di Maastricht di Salvini non esita a rispondere: «L’attuale governo italiano e la Commissione europea perseguono gli stessi fini: redistribuire la ricchezza a favore di chi è già ricco. Lo scontro è in atto solo apparentemente: il governo italiano non è davvero interessato a ridiscutere gli accordi per combattere la crescente povertà, per aprire i confini, per incrementare le misure sociali smantellate da anni di ferreo liberismo. Questo conflitto è una fake news, buona solo per fare propaganda e al massimo per ottenere vantaggi fiscali per i più agiati».
La lotta alla povertà è anche lotta per la libera circolazione delle persone. Non riconosce i confini il progetto di Varoufakis. «Sì, sono un genuino internazionalista. Sono contro ogni confine e sono marxista. Sostengo e apprezzo ogni iniziativa capace di far circolare una cultura dell’accoglienza. Mediterranea, i sindaci che proclamano aperti i porti alle navi che hanno soccorso i migranti, sono l’Europa a cui guardo».
E così la vicenda di un comune piccolo come Riace, del suo sindaco che ne ha fatto casa del mondo, la nave che infrange le onde del razzismo, incarnano e rilanciano il sogno glocal che dobbiamo ricominciare a frequentare.

Il Fatto 27.10.18
Crisi, la ricetta Varoufakis


“L’Italia non ha bisogno di una triste lista Frankenstein che metta assieme le parti morte di quella che una volta era la gloriosa sinistra italiana”, ha spiegato Yanis Varoufakis davanti ai giornalisti della stampa estera a Roma dove l’ex ministro delle Finanze greco è arrivato per presentare il programma della coalizione paneuropea “Primavera Europea” in vista del voto del maggio 2019. Varoufakis, che si presenterà alle Europee in Germania, è dal 2016 leader di DiEM25, movimento politico transnazionale. Secondo l’economista greco, l’Italia è il “ground zero della crisi europea”, ma ritiene che per uscire dal lungo inverno economico e dare inizio alla primavera dell’Unione le ricette del governo Salvimaio siano sbagliate. “Il problema non è il deficit al 2,4%, ma le misure per stimolare la crescita del governo che non sono adeguate. La cancellazione del taglio proposto da Salvini per l’aliquota fiscale più alta non farà ripartire l’economia, ma favorisce i ricchi”. Tra le misure indispensabili c’è invece il reddito di cittadinanza, ma non come quello del M5S giudicato “insufficiente”. “La chiave per la ripresa è aumentare gli investimenti verdi in Italia al 5% del Pil” con un meccanismo per il quale “la Banca d’investimenti Ue emette ogni anno, per almeno 5 anni, bond per 500 miliardi di euro, che la Bce acquista ogniqualvolta i tassi di interesse salgono al di sopra di una soglia”. Fino a quando il Consiglio dell’Ue non sarà d’accordo su quest’ultimo punto, “l’Italia aumenterà gli investimenti pubblici per compensare fino al raggiungimento del limite del 3% fissato a Maastricht”.

Repubblica 27.10.18
Il reportage
Domani le elezioni nel Land
Verdi tedeschi, l’allegra avanzata ora il test Assia fa tremare Merkel
di Tonia Mastrobuoni


FRANCOFORTE Quest’estate tutti hanno capito che cosa sono i cambiamenti climatici».
Applauso fragoroso.
Priska Hinz annuisce, appoggia il microfono sul petto.
Inutile girarci intorno: uno dei segreti dell’attuale boom dei Verdi è che la piovosa Germania per tre mesi si è svegliata con trenta gradi all’ombra. Troppi per un Paese dalla solida coscienza ecologista e abituato a estati brevi. E i Verdi, con grande onestà, lo ammettono. Hinz è una delle candidate di punta degli ambientalisti nel voto cruciale di domani che potrebbe accelerare la fine di Angela Merkel.
In Assia i Verdi sono dati al 20-22% nei sondaggi, il doppio rispetto alle ultime elezioni, un record per il partito che governa qui con i cristianodemocratici da cinque anni. La faccia pulita dell’altro candidato di punta, Tarek Al-Wazir, appare su un manifesto elettorale che si vede spesso per le strade di Francoforte. Suona così: "Tarek invece che GroKo", "Tarek invece della Grande coalizione". È lui la star di questa campagna elettorale dai toni volutamente sobri: se i Gruenen dovessero superare la Spd nei sondaggi, Al-Wazir potrebbe detronizzare l’uomo di Angela Merkel, il governatore uscente Volker Bouffier. Anche la Cdu è in caduta libera. E un’altra batosta dei due partiti che sostengono il governo Merkel potrebbe provocare un terremoto senza precedenti, a Berlino. La sinistra della Spd si sta già organizzando per imporre una discussione sulla permanenza nel governo di Grande coalizione. La destra della Cdu sulla permanenza di Angela Merkel alla guida del partito.
Priska Hinz, ministra dell’Ambiente che in cinque anni ha aumentato del 50% l’agricoltura biologica in Assia, in questa serata conclusiva della campagna elettorale dei Verdi, lo urla, quasi: «Noi abbiamo sempre puntato sull’umanità nelle politiche migratorie, e i cittadini sono totalmente stufi della GroKo, che inciampa da una crisi all’altra, che pensa solo a se stessa». Abbiamo bisogno, e Hinz abbassa la voce quasi a un sussurro, «di idee radicali che possano essere realizzate in modo ragionevole». Ovazione.
Nella sala da concerti gremita della Union Halle, tinta di verde e punteggiata da luci rosse, è venuta anche la leader nazionale dei Gruenen, la trentasettenne Annalena Baerbock. Minigonna nera e giacca rosa, è giunta a omaggiare i colleghi in Assia che sono riusciti nel raro miracolo di trascinare ancora le folle dopo cinque anni che sono al governo.
E uno dei messaggi centrali di questa campagna elettorale, esattamente come quella dei colleghi di partito in Baviera, è la difesa «del progetto di pace europeo», ricorda Baerbock, che «va difeso a tutti i costi». Anche con toni diversi, rispetto all’arrembante destra, ai latrati dei leader razzisti. «Dignità al posto del populismo», sobrietà invece delle urla, è il messaggio di fondo. E i Verdi emanano anche un’allegria che si percepisce ormai raramente, nelle campagne elettorali.
L’ambizione di diventare una Volkspartei, un partito di massa radicato in ogni strato sociale, «non c’è», ha spiegato alla Frankfurter Allgemeine Zeitung
Robert Habeck, l’altro capo federale del partito. Perché «dovremmo smussare continuamente gli spigoli». E invece i Verdi sono orgogliosi dei loro spigoli e vogliono trovare il modo di realizzarli alleandosi con altri partiti, senza pregiudizi, se gli elettorati e gli interessi in gioco non sono in contrasto tra di loro. E chi può negare che la battaglia contro i cambiamenti climatici, l’agricoltura biologica, la lotta all’inquinamento, ma anche il freno al caro-affitti o la salvaguardia degli animali a rischio estinzione siano prioritari?
Peraltro, il pragmatismo dei Verdi non vuol dire solo battersi contro il surriscaldamento del pianeta ma «pensare a quelli che girano senza macchina», spiega Baerbock alla folla di militanti che sono venuti alla Union Halle per il clou della campagna elettorale.
Molti sono giovanissimi.
Al-Wazir, che a scuola doveva fare due biglietti dell’autobus per arrivare dalla periferia a Francoforte, ha introdotto un biglietto unico che vale per tutta l’Assia. E gli elettori ringraziano.
«La ragionevolezza», scandisce poco dopo al microfono, «è la nostra cifra». Dopo l’isterìa sui profughi di Horst Seehofer e l’agitazione del governo Merkel su una finta emergenza, i Verdi hanno preferito parlare di temi che toccano davvero i tedeschi.
Alla fine della serata, Al-Wazir smorza un applauso scrosciante con un gesto della mano: «Adesso parte la festa. Ma non divertitevi troppo. Siamo ancora in campagna elettorale e ogni voto conta. Sappiamo dall’esperienza che un conto sono in sondaggi, un conto le elezioni». Saggezza anomala, di questi tempi.