sabato 17 febbraio 2018

Corriere 17.2.18
La mente quantica
Il desiderio di trovare spiegazioni esoteriche a quello che ci accade è sempre stato forte. Ora è la fisica quantistica ad alimentare nuove credenze su telepatia e telecinesi. Ma cosa c’è di vero?
di Anna Meldolesi


Magnetismo animale, forza odica, aura. L’idea che esistano forme di energia psichica in grado di produrre effetti paranormali ha cambiato nome nel corso dei secoli, sfruttando le suggestioni offerte dalle scoperte scientifiche più in voga. Ora è il turno della fisica quantistica che viene tirata per la giacchetta per giustificare e rilanciare credenze che sono vecchie quanto l’uomo. Sogni un vecchio amico e il giorno dopo lo incontri? Hai brutti presentimenti e poi qualcosa va storto? Senti di aver già vissuto questo preciso momento? Potrebbero essere segnali inviati dalla tua mente quantica. Una sorta di inconscio new age che un giorno, secondo qualche guru, potrebbe spiegare l’inspiegabile, dando dignità scientifica a fenomeni controversi come telepatia e telecinesi.
Il desiderio degli esseri umani di trovare spiegazioni esoteriche per eventi al limite della plausibilità è più forte della voglia di mettere alla prova la credibilità di questi stessi eventi, sostiene lo scrittore Philip Ball nel libro «Invisibile», dedicato al fascino pericoloso di quel che non si vede. Sta di fatto che viviamo circondati da scienza e tecnologia, ma non abbiamo perso interesse per magia e misticismo. Se pensiamo alla storia dell’umanità come a una cavalcata in cui la ragione ha sottratto spazio all’irrazionalità, allora il paradosso è eclatante: abbiamo imparato che i terremoti non sono causati dall’ira divina e le epidemie non sono opera delle streghe, ma a molti continua a piacere l’idea che esista qualcosa che va oltre la scienza. A pensarci bene, non si tratta di una contraddizione emersa di recente. Anche durante l’Età dei lumi, ad esempio, l’occultismo prosperava. Mentre gli illuministi affermavano il primato dell’intelletto, un medico tedesco di nome Franz Anton Mesmer diffondeva l’idea che il corpo umano contenesse un fluido magnetico che poteva essere incanalato per influenzare altri corpi, oltre che per guarire. Mesmer dovette lasciare Vienna alla volta di Parigi, dopo essere stato accusato di frode, poi nel 1784 venne smentito da due commissioni scientifiche nominate dal re Luigi XVI. Ma la sua teoria, il mesmerismo, è entrata nella cultura popolare, con il mito delle artiste magnetizzatrici, come l’acclamatissima Adelaide Ristori, e i trucchi del mago Houdini. Ancora oggi gli oroscopi spesso consigliano di fare affidamento sul magnetismo animale. Cosa intendano esattamente non si sa: dobbiamo lasciarci guidare dalla forza cosmica che tutto pervade? O esercitare il nostro naturale carisma sul prossimo? C’entra qualcosa il battito animale di quella canzone di Raf?
Probabilmente la parola magnetismo funziona proprio perché è polimorfa, pur sembrando precisa. Gli studiosi del paranormale ricordano anche una variante italiana del mesmerismo, in cui al posto del fluido magnetico ci sono radiazioni cerebrali altrettanto enigmatiche. È la teoria elaborata dallo psichiatra Ferdinando Cazzamalli nel libro «Il cervello radiante», e pare che il Pentagono si sia addirittura preso la briga di tradurre e conservare questo testo in un archivio rimasto segreto fino a dieci anni fa.
I razionalisti tendono a pensare che scienza e pseudoscienza siano due mondi opposti ed ermeticamente separati, ma nel corso della storia i progressi scientifici sono regolarmente confluiti nell’immaginario e nel lessico del paranormale. Non è un caso che il movimento spiritualista, secondo cui era possibile comunicare con i morti, si sia diffuso nel secolo in cui sono arrivati telegrafo e telefono. La scoperta dei raggi X ha consentito di vedere lo scheletro dei vivi e ha alimentato, di conseguenza, le fantasie sull’oltretomba. Insomma è inevitabile che la parapsicologia ora si diletti con il repertorio della meccanica quantistica, per interpretare le nostre esperienze di esseri umani alle prese con lacune, inconsistenze, deformazioni della realtà. Dai salti quantici al principio di indeterminazione, dal dualismo onda-particella al fantomatico gatto di Schrödinger. Poche persone sono davvero in grado di afferrare questi concetti, ma in tanti li usano e abusano. Persino la regina delle riviste scientifiche, Nature , negli anni 70 ha flirtato con la parapsicologia, pubblicando lo studio di due fisici pronti a prendere sul serio l’illusionista Uri Geller. Poi è toccato alle pseudo-guarigioni quantiche dell’indiano Deepak Chopra, che per le sue disinvolte metafore scientifiche ha vinto l’anti-Nobel. Infine è arrivato il bestseller dell’americano Fritjof Capra, «Il Tao della fisica», tutto giocato sulle analogie tra scienza moderna e misticismo orientale.
Jean Bricmont ne ha scritto nel libro «Quantum Sense and Nonsense» e David Kaiser in «Come gli hippie hanno salvato la fisica». Qualche studioso ha raccolto l’eredità del fisico Roger Penrose, autore di «La mente nuova dell’imperatore», per esplorare scientificamente l’ipotesi che la fisica quantistica possa contribuire a spiegare la nascita della coscienza. A conti fatti, prove che il cervello usi trucchi quantistici non ce ne sono e alla credibilità di questi sforzi non giova il proliferare dei ciarlatani su internet. «Nessuno capisce cosa sia la coscienza o come funzioni. Nessuno capisce neppure la meccanica quantistica. Coincidenze?», si è chiesto ironicamente Philip Ball sulla BBC . La risposta è: molto probabilmente sì. Ma a qualcuno verrà spontaneo rispondere: «Io non credo».
Il Fatto 17.2.18
Il fulcro della musica sacra di Bach è Bach
La riforma - “Io, io, io”: il Cantor al servizio della fede più che il Dio di Lutero mette al centro se stesso
Il fulcro della musica sacra di Bach è Bach
di Paolo Isotta


Molti considerano Beethoven il culmine dell’arte della musica e del suo sviluppo storico; altri vedono tale apice in Wagner; certo con pari fondamento tale culmine può essere reputato Bach. Ma del pari Johann Sebastian è considerato il vertice della musica sacra luterana, e del rapporto fra il luteranesimo e la musica. Nella trattazione che, per i cinquecento anni della Riforma, ho promessa del tema, eccoci al punto capitale.
Che la fama di Bach si fosse oscurata nel Settecento oggi sempre meno si crede. La sua opera per tastiera, atta al clavicembalo ma ancor più al moderno pianoforte, e in particolar modo Das wohltemperierte Clavier, venne da subito vista come il testo capitale per la formazione pratica e di altissima teoria musicale del pianista, e del compositore; e direi, insieme con le Sonate del coetaneo Domenico Scarlatti. Pure, la rivendicazione che di Bach si fece sin dal primo Ottocento ha il doppio carattere del nazionalismo tedesco e del nazionalismo luterano: che poi sono una cosa sola. La biografia del Maestro incoraggia a vederlo l’aedo principe della Riforma. Ebbe varî impieghi, ma a un certo punto fu dipendente della città di Lipsia nella qualità di Cantor. Doveva provvedere al servizio di musica liturgica, nonché all’insegnamento.
In questa veste Bach compose le sue opere oggi più celebri, le Passioni; e la gran massa di Cantate per il servizio domenicale. Sono impregnate di una pietà religiosa profondissima; e certo nell’intenzione dell’Autore esse debbono, se non propagandare la religione, di certo esortare verso di essa. Ma con quali mezzi? Bach è un sommo architetto della musica, e certo v’è in lui qualcosa dei costruttori di cattedrali gotiche. Ma è una personalità dotata d’una necessità espressiva violentissima, a tratti addirittura morbosa, d’un lirismo intenso e debordante. Le sue Passioni sovente scandalizzavano i pii ascoltatori perché apparivano loro musica teatrale. La musica doveva essere al servizio della Parola liturgica; la musica di Bach la prende, la Parola, la sussume, la incornicia entro forme gigantesche, ne fa oggetto di una interpretazione, poi di una rappresentazione, così violenta, così personale, così pittorica, così scultorea, così derivata sia dalla tecnica dell’affresco che da quella della miniatura, da annullarne l’obbiettività. Il protagonista della musica sacra di Bach è Bach assai più che il Dio veterotestamentario e il Cristo Salvatore; allo stesso modo, per esempio, che la Cantata Avevo molta afflizione incomincia con la poderosa ripetizione corale del pronome Io, tre volte: “Ich, ich, ich”.
Nessuno ha eretto al Corale luterano il monumento della sue opere per organo – e dei suoi Mottetti, che sono forse il culmine stesso della polifonia vocale. Ma la selva del linguaggio e le proporzioni lo eternano sottraendolo alla liturgia, alla stessa religione. L’insieme della creazione di Bach lo mostra genio faustiano e proiettato verso il futuro. Forse la musica strumentale gl’importava addirittura di più. La stessa finitura, la stessa pervicacia, egli adopera nelle Variazioni scritte per alleviare l’insonnia di un nobile diplomatico, nella Messa cattolica per l’elettore di Sassonia, nei Concerti, nelle Sonate e Partite: nelle grandiose Cantate profane, che ce lo mostrano sommo Autore di teatro che al teatro non si accostò mai. Le opere teoriche di questo latinista e grecista – Il sacrificio musicale e L’Arte della Fuga – palesano un’ambizione, pienamente attuata, di chi si considera il punto di confluenza della storia della musica e addirittura l’erede di Pitagora. E questo sarebbe il pio artigiano al servizio della Fede?
il manifesto 17.2.18
Ingmar Bergman: “Passeggio ancora per le strade di Uppsala”
Maestri del cinema. Suggestioni e riflessioni in occasione della rassegna dedicata al regista al Palazzo delle Esposizioni di Roma
di Orio Caldiron


Non c’è un altro caso in cui il cortocircuito tra autobiografia e storiografia, tra vocazione d’autore e storia del cinema s’imponga con altrettanta forza come nell’opera di Ingmar Bergman. Spettatore d’eccezione, sospeso tra frequentazioni compulsive e prolungate astinenze, il regista si sintonizza con i film degli altri fino a farli propri, altrettanti momenti della storia della sua vita. La scoperta del cinema risale al paesaggio incantato dell’infanzia in cui il piccolo Ingmar cresce circondato da «fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora», un mondo perduto e sempre ritrovato dove continua a aggirarsi per tutta la vita, rivivendo «luci, odori, persone, fatti, momenti, gesti, toni di voce e oggetti».
Nel cinema degli inizi l’incontro più importante è quello con Victor Sjöström, uno dei pionieri del cinema svedese: «Sjöström era uno dei più grandi registi del suo tempo. Certamente Stiller era un grande regista, ma Sjöström era un genio, un maestro. Il rapporto con Sjöström è stato per me molto importante». Il carretto fantasma (1920), il film-rivelazione a cui resterà legato tutta la vita, lo vede per la prima volta all’inizio degli anni trenta: «Almeno una volta all’anno ho bisogno di vederlo, è uno dei film più belli che ho visto nell’arco della mia vita. Ha influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari». La figura-chiave di Sjöström – che vorrà sul set di Il posto delle fragole (1957) dopo che era stato il consigliere artistico all’epoca del suo esordio di regista – richiama l’attenzione sul ruolo del primo piano: «Sono cresciuto con il cinema muto e, sembra banale a dirsi, ma il muto stava per diventare un’arte, perché l’arte cinematografica faceva vedere la più straordinaria scena di teatro: il volto umano». Non potrebbe essere più profonda la sintonia con il grande Dreyer di La passione di Giovanna d’Arco (1928), il film in cui il primo piano è fondamentale: «Non c’è esperienza più alta di quella che può offrirsi in uno studio di posa quando sotto la forza misteriosa dell’ispirazione il volto sensibile di un attore si anima e la sua espressione raggiunge le vette della poesia».
L’amore per il cinema francese tra le due guerre è per lui una passione clandestina e contrastata: «In quegli anni 1937, 1938 e 1939, sono arrivati i film francesi. La nostra compagnia li detestava. I film di Marcel Carné, Il porto delle nebbie, Alba tragica, sono dei veri capolavori. Devo aver visto il Il bandito della Casbah di Julien Duvivier almeno venticinque volte. Il mio era un amore segreto. Era assolutamente proibito perché il modo americano di raccontare le storie era la sola maniera possibile di fare il cinema». Il maestro svedese si è sempre divertito a descrivere il dipartimento sceneggiature della Svensk Filmindustrie, in cui avviene il suo primo apprendistato professionale, come una galera in cui Stina Bergman suona il tamburo e una mezza dozzina di schiavi cerca di trarre sceneggiature da romanzi, novelle e soggetti originali. L’energica direttrice del dipartimento è la vedova dello scrittore Hjalmar Bergman. Con il marito aveva seguito Sjöström nell’avventura americana, imparando a conoscere i meccanismi della drammaturgia hollywoodiana. «Era una drammaturgia cinematografica estremamente didascalica, quasi rigida: il pubblico non avrebbe mai dovuto avere dubbi su dove uno si trovava. Non doveva esserci alcuna incertezza a proposito dei personaggi, e i momenti di passaggio del racconto dovevano essere trattati e sistemati con molta cura. Le fasi culminanti dovevano essere divise e sistemate in punti ben stabiliti della sceneggiatura. L’apogeo doveva essere riservato per la fine. Le battute dovevano essere brevi. Le formulazioni letterarie erano proibite». Certo, quei film francesi erano così diversi da quelli americani. «E io sentivo il metodo francese molto più vicino a me. Se qualcuno mi avesse chiesto il perché, sarei stato incapace di spiegarlo ma, a partire dal momento in cui ho potuto, ho cercato di fare i miei film in stile francese, anche se senza molto successo». Lorens Marmstedt – il produttore che viene in suo aiuto dopo il clamoroso flop dei primi film – gli rimprovera brutalmente l’attaccamento ai suoi idoli francesi: «Devi tener presente che Birger Malmsten non è Jean Gabin e soprattutto che tu non sei Marcel Carné». Negli stessi anni del dopoguerra, il cinema americano sembra ripendersi la rivincita nelle predilezioni del giovane cineasta con la suggestione di un genere come il noir, destinato a rinnovare la drammargia del cinema classico americano: «I registi del noir erano i miei idoli all’epoca. Un regista che ha avuto molta importanza per me è Michael Curtiz. Mi ricordo che con Lars-Erik Kjellgren, eravamo molto amici, andavamo a vedere i film di Curtiz per imparare, rivedevamo lo stesso film anche molte sere di seguito, ed era maledettamente utile. Possedeva il dono di raccontare una storia dall’inizio alla fine in maniera semplice, chiara e ordinata, esattamente come Raoul Walsh».
Negli anni successivi non viene meno la disponibilità a concedersi alla fascinazione hollywoodiana, che gli sembra incarnare perfettamente il meccanismo stesso dello spettacolo cinematografico. Sta a sé un regista come Alfred Hitchcock, che gli sembra per molti aspetti «un personaggio arrogante, sgradevole, cattivo e molto intelligente», di cui non si possono tuttavia misconoscere le grandi qualità di metteur en scène. «È stato un regista magnifico perché ha saputo sperimentare molto, all’interno di un’industria interamente commerciale. Era molto difficile. E se si vede – io posso vederlo e rivederlo – Psyco, quel bizzarro film che amo tanto, è incredibile. Quell’uomo avido l’ha fatto con soldi suoi, una piccola troupe, e una tale logica, una tale precisione, una tale ossessione della qualità cinematografica. Ammiro molto Psyco. E anche Nodo alla gola, tecnicamente parlando non è del tutto riuscito, ma l’idea è assolutamente geniale».
Negli anni settanta, il regista non approva l’atteggiamento polemico che molti assumono nei confronti del cinema hollywoodiano, contestato soprattutto sul piano politico. Il cinema americano gli sembra tuttora incarnare la gioia infantile dello spettacolo, l’esperienza tonificante dell’evasione. «Bisogna stare in guardia soprattutto quando si ha a che fare con cose che vorrebbero essere altro da quelle che sono realmente. Ma John Ford non fa mai niente di tutto ciò, ed è per questo che nella storia del cinema è un grande e onesto figlio di puttana. Si può anche dire che dopo tutto il cinema non è poi così importante, è un bene di consumo, qualcosa che si produce, e alcune pentole vengono bene e altre meno. Ma ripeto: bisogna condannare solo le false pretese, il sedicente patetico, la tragedia simulata – è questo che mi fa vomitare. Perché è veramente un veleno».
Nelle varie occasioni in cui è venuto ricostruendo i tratti essenziali della propria attività creativa, Bergman ha sottolineato con energia il processo di immedesimazione profonda che esiste tra l’autore e i propri film: «La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno, e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà».
Non sorprende che per il maestro svedese il punto d’arrivo del cinema contemporaneo sia Andrej Tarkovskij. «Quando il film non è un documento, è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare? È un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media». La scoperta di Tarkovskij è considerata uno stimolo in grado di indicare un traguardo possibile, di marcare una soglia dell’espressione cinematografica: «Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto penetrare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio. Io mi vidi incoraggiato e stimolato: qualcuno era riuscito ad esprimere quello che io avevo sempre voluto dire senza sapere in che modo. Se Tarkovskij è per me il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita come sogno».
La linea di tendenza è molto netta: «Fellini, Kurosawa, Buñuel si muovono nello stesso modo di Tarkovskij. Antonioni era sulla stessa strada ma cadde sopraffatto dalla propria noiosità». Ma non è meno forte il rischio della maniera: «Amo e ammiro Tarkovskij e penso che sia uno dei più grandi registi. La mia ammirazione per Fellini è sconfinata. Ma mi sembra che Tarkovskij abbia cominciato a fare film alla Tarkovskij e che Fellini negli ultimi tempi abbia fatto alcuni film alla Fellini. Kurosawa non ha mai fatto film alla Kurosawa. Invece non mi è mai piaciuto Buñuel. Scoprì presto che poteva fabbricare delle artificiosità che potevano essere elevate a una sorta di speciale genialità buñueliana, e così ripeté e variò i suoi artifici, con risultati sempre ugualmente graditi. Buñuel fece quasi sempre film alla Buñuel. È quindi tempo di guardarsi allo specchio e domandarsi: che cosa è successo veramente? Bergman ha dunque cominciato a fare film alla Bergman?».
La simpatia che ha sempre dimostrato per il cinema francese trova una conferma solo parziale nella Nouvelle Vague, di cui apprezza i primi lavori di Jean-Luc Godard e Jules e Jim (1961) di François Truffaut, ma viene messa poi a dura prova da film come Una storia americana (1966), Due o tre cose che so di lei (1967), La cinese (1967), che considera irritanti. Il giudizio sul New American Cinema è particolarmente caloroso: «Mi piace molto il New American Cinema. Davvero lo apprezzo. È talmente vitale. Se ne fregano loro delle apparenze e del risultato. Sono assolutamente privi del manierismo dei francesi, di tutto ciò che è spumeggiante e fuori dell’ordinario, un po’ ostentato e sterile. Fanno scoppiare freneticamente tutto, altroché. E trovo bella l’irrequietezza, la vitalità e la gioia».
Nei confronti del cinema italiano del dopoguerra non sembra andare oltre un apprezzamento generico, di circostanza. Ammette di aver girato alcuni dei suoi primi film «sotto il forte influsso di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano». Cita più volte Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, che considera uno dei suoi film preferiti se non il preferito, ma poi sottolinea pesantemente l’inadeguatezza della recitazione dell’attore non professionista. L’eccezione è, come si sa, Federico Fellini, con cui il maestro svedese ha avuto un lungo, discontinuo, altalenante rapporto personale dalla visita sul set di Fellini Satyricon (1969) all’appuntamento mancato al Lido di Venezia quando Bergman vede da solo E la nave va (1983) in una saletta del Palazzo del Cinema. «Ho una grande ammirazione per Fellini, sento una specie di fraterno contatto con lui, non so esattamente perché. Ci siamo spesso scambiati lettere brevi e confuse. È buffo. Lo amo perché è se stesso, è chi è e ciò che è. Il suo carattere è qualcosa che mi commuove, benché sia profondamente diverso dal mio. Ma lo comprendo benissimo e l’ammiro enormemente. Mi si dice che sia affascinato dai miei film. Provo lo stesso sentimento per i suoi».
Sarebbe sviante ricondurre gli interessi e le scelte dello spettatore Bergman a una precisa influenza stilistica di un cineasta su un altro cineasta: «Non ho subito influenze stilistiche da nessun altro regista. Ma le influenze non sono tanto quelle che derivano dalle implicazioni professionali. La vita tutta intera ci influenza. I cineasti, meno di tutto il resto. Perché io non vedo il mondo come loro. Beninteso, rimango influenzato largamente dai nuovi modi di fare il cinema dove non si bada agli effetti d’illuminazione e dove si possono ottenere efficaci risultati con il minimo d’attrezzatura. In un certo modo si ritorna, così, al cinema delle origini, quando tutto era semplice». Il problema è tutt’altro che marginale se è in grado di ricondurci al centro incandescente dell’opera bergmaniana, alle sue ragioni profonde, radicate nella soggettività dell’autore: «Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna. Un nulla nel nostro nervo ottico, uno shock: ventiquattro quadratini illuminati al secondo, e tra di essi il buio. Quando al tavolo di montaggio esamino la pellicola quadratino per quadratino, la sensazione di magia della mia infanzia mi dà ancora i brividi: là nell’oscurità del guardaroba, girando lentamente la manovella, facevo succedere un quadratino all’altro, osservavo i cambiamenti quasi impercettibili; giravo più veloce un movimento. Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, scintillante, il fruscio della croce di Malta, la mano sulla manovella».
Se qualcuno teme le contraddizioni – che possono essere numerose non solo nella propria opera, ma anche nell’intreccio di percorsi e di atteggiamenti con cui ogni cineasta si incontra con le opere degli altri – l’invito di Bergman a avere fiducia nelle proprie emozioni sottolinea ancora una volta la forza del sogno, il richiamo alle ragioni più segrete dell’io. «Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Se si ha fiducia nelle proprie emozioni, si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre». Nel suo ritiro di Fårö, il maestro svedese ha ripreso in mano fino all’ultimo i film della sua cineteca personale o quelli che il Filminstitutet gli presta, ritrovando il «piacere eterno» della visione, il fascino inesauribile delle ombre che si muovono. «La sedia è comoda, la stanza protetta, si fa buio e la prima tremante immagine compare sulla parete bianca. È silenziosa. Il proiettore ronza piano nella sala di proiezione ben isolata. Le ombre si muovono, si girano verso di me, vogliono che io presti attenzione al loro destino. Sono passati tantissimi anni, ma l’eccitazione è sempre la stessa».
il manifesto 17.2.18
I rivoluzionari di Wolfgang Huber
Berlinale 68. In «SPK Komplex» di Gerd Kroske, presentato al Forum, il processo contro un teorico dell’antipsichiatria e alcuni membri del collettivo socialista in Germania nel 1970. Accusati di sostenere la Raf vennero condannati poi a pene durissime
di Cristina Piccino


BERLINO Al tappeto rosso pieno di star capita (sempre più spesso) di sacrificare i film. Politica mediatica dei direttori di festival che sembrano avere siglato un accordo. E così la Berlinale per il primo fine settimana, la data che è sempre centrale, esibisce la coppia Robert Pattison e Mia Wasikowska a costo di mettere in gara Damsel, lo pseudo-western demenziale dei fratelli David e Nathan Zellner che coi Coen non c’entrano nulla (un po’ vorrebbero in effetti) anche se riempiono questa loro rivisitazione del paesaggio americano di tipologie bizzarre, amanti molesti, cavallini nani, fanciulle col fucile, preti truffatori, cow-boy rudi e sporchi che bevono whisky – e chi non lo beve è una femminuccia – e crepano perché come ogni bravo macho fanno la pipì all’aperto marcando il territorio. Guai a distrarsi nel selvaggio West… Ma la Berlinale è grande, la cosa bella di questo festival è proprio la sua trasversalità, offerta multipla, si entra si esce si passa da una cosa all’altra e tutto è possibile grazie al numero enorme di sale e a un programma pensato per essere fruito da pubblici diversi.
Spk era la sigla che stava per il collettivo socialista dei pazienti, il cui ispiratore, Wolfgang Huber, praticava i metodi dell’antipsichiatria individuando nel malato mentale un «potenziale rivoluzionario», dunque che l’unica cura possibile era la «liberazione dei corpi dalla società patriarcale». Huber lavora all’università di Heidelberg, siamo nella Germania del 1970, i suoi metodi sono visti con più di un sospetto ma il gruppo continua a crescere e e attira l’attenzione dei media e della polizia che apre un’inchiesta accusando Huber e una decina di altri dell’Spk, una sorta di «circolo segreto» di sostenere la Raf. Le prove, sono armi e documenti falsi scoperti in una perquisizione – ma sappiamo che creare prove ad hoc è semplicissimo – Huber che era già stato sospeso dalla facoltà perché giudicato non idoneo a terapia e a insegnamento, viene arrestato insieme alla moglie e ad altre persone, non hanno avvocati difensori, si oppongono al processo, le pene saranno durissime (4 anni e mezzo tra isolamento e carceri speciali) visto il capo di imputazione, una generica accusa di «partecipazione a un’associazione criminale».
SPK Komplex, è il film di Gerd Kroske (nella selezione del Forum) e il titolo non è casuale: perché quanto cresce intorno all’Spk è un vero e proprio «complesso» che anticipa modi e procedimenti della Germania in autunno, sia nel processo che nelle accuse e nella campagna mediatica lanciata contro Huber (di cui oggi non si sa più nulla) e gli altri del gruppo, con prove esibite (verrebbe da dire costruite) per provarne la colpevolezza .
Alcuni passati per l’esperienza della Spk entrarono poi in clandestinità e nella Raf, come Carmen Roll, poi arrestata e emigrata in Italia, a Trieste, dove lavorerà con Basaglia. Altri come Lutz Taufer hanno partecipato a azioni armate, nel suo caso l’attacco all’ambasciata tedesca a Stoccolma, per cui è stato condannato all’ergastolo (ci furono due vittime), rilasciato nel 1995.
Krosk va a cercare i diversi protagonisti della storia, non solo gli accusati dell’Spk ma anche il giudice del processo, che oggi rifarebbe tutto allo stesso modo, chi come uno di loro ne è uscito e ha poi «collaborato» con la polizia divenendo il testimone chiave (undici persone sono finite in carcere a causa sua).
Le voci sono discordi: esisteva davvero un piccolo gruppo segreto nella Spk che pianificava attentati? O era solo una visione politicamente stridente a dare fastidio, una pratica che senza armi ma con la terapia e la discussioni collettive smascherava la società dell’epoca, il suo autoritarismo e quel rapporto irrisolto col passato, il nazismo? «La Raf non sarebbe mai esistita se non avessimo vissuto in una società post-fascista» dice uno degli intervistati, e non è casuale che l’esperienza della lotta armata sia forte proprio nei paesi usciti dal fascismo, Germania, Italia, Giappone tra quella generazione cresciuta dopo la guerra…
Krosk torna su un’epoca che il cinema tedesco è tornato molte volte, come il passato nazista e la società postbellica da cui ha preso origine quel «nuovo cinema tedesco» che voleva illuminare le contraddizioni e soprattutto le rimozioni aiutate da poteri forti e accordi internazionali rispetto al nazismo.
Ma un cinema è vitale anche per questa capacità di guardare nei risvolti sensibili del passato e seguendo una prospettiva non lineare, cosa che manca completamente nel nostro immaginario da cui sono stati rimossi colonialismo e ciò che viene definito un «tabù», quegli anni Settanta racchiusi, per lo più, sotto al segno del terrorismo tutti rivisti nell’ottica attuale. La repressione del governo tedesco contro la Spk, perfezionata poi con la Raf e i suicidi in cella, sembra speculare a quanto Huber contestava nella sua teoria di cura psichiatrica: i nuovi carceri isolano, impediscono la comunicazione, fondono i cervelli più di molti elettroshock, rendono folli o senza lucidità. «Il modo in cui ci si prende cura della malattia mentale indica che tipo di società si vuole essere» dice Roll che continua a lavorare nell’associazionismo con i migranti, citando Basaglia i cui obiettivi erano molto diversi da quelli di Huber che non prevedeva cure né luoghi di cura.
E dunque mettere a tacere Huber e il suo gruppo era un modo per testare il controllo sociale, i suoi strumenti e le sue pratiche? Krosk basa la sua narrazione, fatta di interviste oggi coi protagonisti di allora, tutte dolorose e piene di fatica, materiali del passato, registrazioni della voce di Huber, pagine dell’inchiesta e resoconti del processo, proprio su questa specularità che sottolinea appunto il progetto di un controllo sociale al di là (e al di qua) della lotta armata.
il manifesto 17.2.18
Orbán verso la vittoria con la propaganda anti-immigrati e ong
Ungheria. Il voto dell’8 aprile, secondo i sondaggi, avrà un esito scontato. Il premier, nonostante le grane giudiziarie, punta dritto al suo terzo mandato
di Massimo Congiu


BUDAPEST Il primo ministro ungherese Viktor Orbán è alle prese con una grana giudiziaria. L’Ufficio antifrode dell’Ue (Olaf) denuncia una serie di irregolarità in operazioni svoltesi fra il 2009 e il 2014 per modernizzare gli impianti di illuminazione in una decina di città di provincia del paese. Si parla di attività che fruttarono ai beneficiari la somma di oltre 40 milioni di euro a fronte di appalti che, secondo l’Olaf erano gestiti in modo tale da premiare sempre la ditta Elios, di proprietà del genero di Orbán. Il tutto sarebbe avvenuto con la complicità dei sindaci interessati, tutti esponenti del Fidesz, il partito dell’attuale premier ungherese. La procura, controllata dal governo, ritarda l’avvio delle indagini e il primo ministro ostenta la solita sicurezza e porta avanti la sua campagna elettorale sicuro della «giusta vittoria» per un terzo mandato.
ORBÁN afferma con soddisfazione di aver debellato, nel suo paese, l’immigrazione clandestina. Quello dei flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente è un tema su cui il premier si esprime sottolineando la necessità della linea dura, perché a suo avviso il fenomeno mette a repentaglio la sopravvivenza dell’Europa e della sua identità culturale. Su questo Orbán gioca da anni una partita politica che gli ha fruttato non pochi consensi. L’argomento è al centro della sua campagna elettorale che vede il paese percorso da cartelloni governativi scritti per agitare lo spauracchio dell’invasione musulmana del paese e dell’intero Vecchio Continente.
Il premier è in sintonia con gli altri leader del Gruppo di Visegrád (V4, costituito da Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia) nel respingere la politica Ue sul fronte migranti e il sistema dei ricollocamenti che dal V4 viene considerato un ricatto in quanto vincola la possibilità di ottenere finanziamenti comunitari alla condizione di ospitare migranti. I paesi di Visegrád vivono la politica dell’accoglienza come un’imposizione che non tiene conto del volere dei governi nazionali e delle popolazioni interessate.
Sarà però utile sottolineare il fatto che, secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, nel 2017 l’Ungheria avrebbe accolto in segreto 1.291 profughi che si trovavano al confine meridionale, accordando loro il diritto d’asilo e lo status di rifugiati o la protezione umanitaria. Lo avrebbe reso noto l’Ufficio per l’immigrazione (Bah), dietro insistenze della stampa. Il paese doveva ospitare 1.294 richiedenti asilo ricollocati dall’Italia e dalla Grecia, ma il governo ha sempre respinto questo principio, nonostante il verdetto della Corte Ue. Del resto risulta che i 1.291 dell’anno scorso non hanno niente a che fare con la procedura dei ricollocamenti.
IL CONFRONTO con Bruxelles è da tempo uno dei cavalli di battaglia di Orbán il quale si prepara alle elezioni politiche dell’8 aprile con sondaggi che lo vedono in grande vantaggio rispetto ai suoi avversari politici. Alcune cifre parlano di un 34% a favore del partito governativo Fidesz, seguono a quota 13% Jobbik, che ha deciso di mettere da parte il radicalismo per vestire i panni della forza politica conservatrice sì, ma moderata, i socialisti al 9%, alcuni soggetti politici liberali e centristi che si collocano fra il 6% e il 3% e Momentum che proviene dalle lotte della società civile e che starebbe intorno all’1%.
A GENNAIO si è avuta notizia di procedimenti avviati dalla Corte dei Conti, controllata dal governo, per presunte irregolarità finanziarie da parte dell’opposizione. «È un attacco alla democrazia, Orbán vuole annientarci», è stato il commento di Gábor Vona, presidente di Jobbik. Gli ha fatto eco Péter Juhász, leader di Együtt (Insieme, centro), secondo il quale le elezioni dell’8 aprile «non saranno né libere né trasparenti», «cercheremo, comunque, di sconfiggere il regime corrotto di Orbán», ha aggiunto. Non sarà facile dal momento che la legge elettorale, voluta dal Fidesz, favorisce i partiti più forti; l’opposizione avrebbe delle opportunità solo se desse vita a una lista unitaria con candidati nei singoli collegi uninominali, ma allo stato attuale non sembra si stia aprendo uno scenario del genere.
Nel paese il peso della propaganda governativa è schiacciante, Budapest e le altre città ungheresi si sono riempite di manifesti con su scritto «Stop Soros». Il governo sostiene infatti la tesi che attribuisce al magnate americano di origine ungherese, il piano di riempire l’Europa di milioni di migranti musulmani. A questo proposito, nei giorni scorsi è stato presentato al Parlamento un pacchetto di leggi atto a colpire pesantemente le Ong impegnate nell’assistenza ai migranti e in particolare quelle finanziate dall’estero, quindi, secondo il governo, riconducibili a Soros. Le autorità di Budapest vorrebbero anche impedire a quest’ultimo l’ingresso nel paese. Alle obiezioni fatte a suo tempo, che facevano notare al ministro dell’Interno Sándor Pintér l’incostituzionalità del provvedimento in quanto Soros è cittadino ungherese, questi ha risposto che l’interessato ha la doppia cittadinanza e quindi il provvedimento è applicabile.

il manifesto 17.2.18
I prigionieri politici palestinesi boicottano le corti israeliane
Israele/Territori occupati. La protesta, come in passato, è contro la detenzione amministrativa, il carcere senza processo. A sostegno sono annunciate marce e sit in in Cisgiordania
di Michele Giorgio


Non cessano le proteste palestinesi due mesi dopo la dichiarazione con cui Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele. Ieri al termine delle preghiere islamiche del venerdì centinaia di palestinesi hanno affrontato l’esercito israeliano a Hebron, Ramallah, Nablus e Gerico. Almeno sette i dimostranti feriti da proiettili sparati dai soldati israeliani, altri 18 sono stati intossicati dai gas lacrimogeni nei villaggi di Mazraat al Gharbyeh e Bilin vicino Ramallah, ad al Qaryoun e al Qisariya (Nablus) e in altre località della Cisgiordania. Non si protesta solo nelle strade. A quasi un anno dal lungo sciopero della fame nelle carceri israeliane contro la “detenzione amministrativa” (senza processo) promosso dal “Mandela palestinese” Marwan Barghouti, tre giorni fa 450 prigionieri politici hanno cominciato una nuova contestazione contro questa forma di detenzione proclamando il boicottaggio a tempo indeterminato delle corti militari israeliane.
In un comunicato i 450 detenuti “amministrativi” spiegano che la lotta deve partire dal boicottaggio del sistema legale israeliano e hanno subito ricevuto il sostegno della popolazione palestinese. Nei prossimi giorni sono previsti raduni e marce a Ramallah, Hebron e Nablus. L’Ordine degli avvocati ha dato pieno appoggio al boicottaggio che nella prima fase prenderà di mira le udienze processuali di conferma della detenzione. Poi toccherà alle corti militari di appello e agli eventuali ricorsi alla Corte Suprema. I detenuti “amministrativi” chiedono all’Autorità nazionale palestinese di presentare al Tribunale Penale Internazionale una richiesta di incriminazione di Israele.
La “detenzione amministrativa” è una misura restrittiva che risale al Mandato Britannico sulla Palestina, poi assorbita dal sistema legale israeliano. Ufficialmente potrebbe essere impiegata contro chiunque ma di fatto colpisce solo i palestinesi sotto occupazione militare (si contano sulle dita di una mano gli israeliani posti in detenzione amministrativa negli ultimi 50 anni). Prevede l’arresto e la detenzione senza accuse né processo per sei mesi rinnovabili a tempo indeterminato, in violazione degli art. 78 e 147 della IV Convenzione di Ginevra. Solo nella prima settimana di febbraio l’esercito israeliano ha spiccato 47 ordini di detenzione amministrativa, tra cui sei rinnovi.
Corriere 17.2.18
«Siamo come l’Italia nel ventennio fascista Ma l’Europa pensa solo a farsi ricattare»
Can Dündar: «Basta un tweet per la galera»
di Monica Ricci Sargentini


«È inutile chiedere prese di posizione forti all’Europa. Io non mi fido più. Non lo faranno. Loro pensano solo a fare affari con la Turchia, non hanno intenzione di inimicarsela». Can Dündar parla al telefono dalla sua casa in Germania dove vive in esilio dal giugno del 2016. La sua voce è fredda, non tradisce emozioni. Da poche ore si è avuta notizia della sentenza all’ergastolo aggravato per lo scrittore Ahmet Altan, suo fratello Mehmet, e la veterana del giornalismo turco Nazlı Ilıcak, 74 anni, e altri tre giornalisti. «Non chiamiamola prigione — dice al Corriere —, è tortura. Nel dispositivo della sentenza si prevede l’isolamento per i detenuti, un’ora di aria al giorno, restrizioni più severe per le chiamate e le visite dei familiari».
L’ex direttore di Cumhuriyet sa bene cosa voglia dire essere chiusi in cella. Lui fu arrestato con il collega Erdem Gül nel 2015 dopo aver rivelato il traffico di armi pesanti e munizioni destinate all’Isis e al-Qaeda in Siria orchestrato dal governo turco. Per quello scoop il deputato Enis Berberoglu, del partito secolarista Chp, è stato condannato a 25 anni di carcere nel giugno del 2017, pochi giorni fa la corte di Appello ha ridotto la pena a cinque anni.
Si aspettava una sentenza di condanna così dura?
«Assolutamente sì. C’era stato troppo clamore intorno al caso dei fratelli Altan e degli altri giornalisti. Era chiaro che la magistratura avrebbe dato una condanna esemplare. Ne seguiranno altre».
È finito lo Stato di diritto?
«La Turchia oggi assomiglia all’Italia nel periodo fascista. C’è un uomo forte al potere che usa la retorica nazionalista, quella delle quattro dita dei Fratelli Musulmani: una nazione, una bandiera, una patria, uno Stato. Il potere esecutivo, giudiziario e legislativo sono completamente in mano al presidente Erdogan. Diversi parlamentari del principale partito d’opposizione sono in prigione, per non parlare di quelli appartenenti al partito filo-curdo Hdp. Ormai non si può più parlare. Basta un tweet per finire in carcere».
E in tutto questo l’Europa cosa fa?
«Con l’accordo sui rifugiati l’Europa ha accettato un ricatto da parte di Erdogan, ha scelto di risolvere la questione dei migranti invece di difendere le persone che in questo momento in Turchia resistono e difendono i diritti umani. Per questo non mi aspetto più nulla. La Germania oggi (ieri, ndr ) ha ottenuto la libertà condizionata del corrispondente di Die Welt , Deniz Yucel. La decisione è frutto di una trattativa tra le più alte cariche dello Stato tedesco e quello turco. Ecco questo è l’atteggiamento europeo».
Però lei non si arrende. Cosa propone?
«Penso che l’unica strada che abbiamo davanti sia quella della società civile. Siamo noi che dobbiamo mobilitarci e far sentire a quei turchi che protestano che siamo al loro fianco. Al di là dei toni arroganti Ankara oggi è isolata internazionalmente ma sa anche che l’Europa non le volterà mai le spalle. Noi, invece, possiamo farlo. I risultati del referendum costituzionale del 2016 hanno dimostrato che metà della popolazione turca è pronta a resistere».
Il Papa, Mattarella e Gentiloni hanno appena ricevuto Erdogan a Roma ma non c’è stata nessuna presa di posizione forte a difesa dei diritti umani. Un segno di debolezza?
«È chiaro che nessuno in Europa è felice di ospitare il presidente turco. Lo fanno perché non possono farne a meno ma poi evitano le conferenze stampa per non rispondere ai giornalisti. Per riassumere: gli Stati della Ue non possono vivere senza Erdogan ma non vogliono vivere con Erdogan».
Tillerson e Cavusoglu hanno dichiarato che le relazioni tra i due Paesi si normalizzeranno. Ma a guardare la Siria non si direbbe.
«Le tensioni tra Ankara e Washington sono più forti di quelle con l’Europa. In Siria sono quasi in guerra, gli americani appoggiano i curdi siriani dell’Ypg che per i turchi sono terroristi».
La Stampa 17.2.18
“Siamo sulla strada della dittatura
la magistratura è in mano a Erdogan”
L’intellettuale Baydar: “Una farsa, non esiste più libertà”
di Mar. Ott.


Un Paese ormai sulla strada della dittatura, una sentenza che è in primo luogo politica. Yavuz Baydar è un giornalista e uno scrittore turco che il giorno dopo il golpe è riuscito a scappare dalla Turchia. Oggi vive all’estero e ha fondato un giornale online, chiamato Ahval, in inglese, arabo e turco, che vuole rappresentare un mezzo di informazione libero e indipendente. A La Stampa ha spiegato cosa sta succedendo nel suo Paese e cosa significa l’ergastolo inflitto ad Altan e altri cinque reporter.
Yavuz Baydar, qual è la sua opinione su questa sentenza?
«Diciamolo subito e senza remore: questa è una sentenza farsa arrivata dopo un processo farsa. Sono stato in contatto con gli avvocati di Ahmet Altan durante tutta la durata del processo. Era una condanna già scritta e con un preciso messaggio politico».
Già scritta da chi?
«Dal presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, che ormai ha trasformato la magistratura in uno strumento del potere politico. Le vittime non sono solo le persone che sono state condannate, ma l’intera Turchia, che pagherà carissimo questo periodo della sua storia».
Però, la magistratura ieri ha preso anche una decisione positiva, ossia la scarcerazione di DenizYucel...
«Pensi, che coincidenza. Prima hanno annunciato la scarcerazione di Yucel e poi l’ergastolo ai sei colleghi. Così la stampa, soprattutto quella tedesca, si concentrerà maggiormente sulla prima...».
Che colpa hanno, almeno agli occhi di Erdogan, Ahmet Altan e gli altri condannati?
«Nessuna. Perché il loro arresto e la loro detenzione si basano su una trasmissione televisiva. Sono andati in carcere per aver partecipato a un dibattito televisivo su un’emittente che poi è stata chiusa nel quale si erano detti preoccupati per il futuro del Paese e aggiunto che c’erano tutti gli estremi perché si verificasse un golpe. Cosa che è successa pochi giorni dopo. Gli hanno dato un ergastolo solo per questo. In Italia sarebbe mai possibile una cosa del genere?».
Com’è la situazione all’interno del Paese?
«La Turchia è in Stato di Emergenza da oltre un anno e mezzo. L’opposizione è debole, frammentata ed Erdogan ha messo le diverse parti l’una contro l’altra. Non possiamo nemmeno contare sull’aiuto dell’Europa, un po’ perché all’Europa non interessa, un po’ perché Erdogan, che è un politico molto intelligente, gestisce le sue alleanze anche a seconda di quanto possano fargli pressione».
Che cosa succederà adesso?
«Erdogan continuerà a governare senza problemi. Ci sono ancora due sentenze molto importanti: quella sui giornalisti di Cumhuriyet e quella del deputato dell’opposizione, Enis Berberoglu. Se, come temo, anche questi verranno condannati, il colpo a livello psicologico sarà mortale».
Cosa mi dice della libertà di stampa?
«Che non esiste più da tempo. Tutti i giornalisti che si sono permessi di criticare Erdogan e la sua famiglia sono stati messi in carcere. Lui ne fa una questione anche personale. Chi lo critica diventa un nemico. Ormai siamo al livello dell’Azerbaigian e di altri Paesi autoritari».
Lei conosce personalmente Ahmet Altan da molti anni, cosa può dirci di lui?
«Che è una delle migliori penne che esistano. Una persona per bene, trasparente, che ha sempre detto quello che pensava. L’onestà intellettuale e la trasparenza per lui sono sempre venuti prima di tutto. In Turchia l’indipendenza si paga. Lo hanno sempre visto tutti come un nemico perché lui non faceva l’amico con nessuno. Per un turco non c’è niente di peggio. Credo che lui e il leader curdo, Selahattin Demirtas (anche lui sotto processo e in carcere, ndr) siano stati quelli in questo Paese ad avere avuto più coraggio di tutti».
il manifesto 17.2.18
Turchia, all’ergastolo lo stato di diritto
Una sentenza atlantica e crudele contro sei giornalisti turchi, resa possibile dall'omertà di Europa e Nato che hanno fatto di Erdogan il loro cane da guardia, in Siria come nei campi profughi. Un do ut des che il rilascio del reporter Yucel palesa
di Tommaso Di Francesco


Una sentenza atlantica e crudele quella del tribunale di Istanbul che ieri ha condannato all’ergastolo aggravato sei giornalisti e accademici turchi, tra cui i fratelli Ahmet e Mehmet Altan e la reporter veterana Nazli Ilicak, accusati di aver tentato di «rimuovere l’ordine costituzionale» (parliamo del fallito golpe militare del luglio 2016), sostenendo la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Accuse insostenibili, si parla di «messaggi subliminali prima del colpo di stato».
Eppure Ahmet Altan, romanziere di valore, sarà – come lui stesso accusa – da oggi l’unico scrittore in galera dell’intera Europa. Sì, atlantica. Non troviamo aggettivi migliori.
Giacché considerare la Turchia del Sultano Erdogan una propaggine lontana e barbara della civiltà europea è pura menzogna. Erdogan è già, a modo nostro e suo, in Europa: è il nostro supermercato delle armi, di quelle italiane in particolare; e rappresenta il baluardo sud della Nato; oltre che essere attualmente, come “posto sicuro”, il campo profughi più grande e più affidabile che ci sia. Dove scarichiamo, con i migranti, la nostra coscienza pagando profumatamente miliardi di euro al governo di Ankara.
Al Sultano la coalizione degli Amici della Siria aveva poi affidato il lavoro di diventare il santuario (in addestramento e retroterra) dello jihadismo in ingresso nella guerra siriana per destabilizzare il Paese ormai ridotto in macerie e sentiero di rifugiati.
Can Dundar direttore del prestigioso quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, è stato condannato a 5 anni e 10 mesi di prigione per violazione del segreto di Stato per avere pubblicato lo scoop sul passaggio di armi in Siria con annessi traffici di petrolio tutti diretti all’Isis quando, solo un anno e mezzo, fa governava mezza Siria e mezzo Iraq. Ora è dovuto fuggire in Germania dopo avere subito un attentato alla vita.
Ora poi è un via vai di carri armati turchi in Siria. Il membro della Nato, infatti, con i tank tedeschi Leopard accompagnati in buona armonia dalle milizie legate ad Al-Qaeda e a parte del cosiddetto Esercito Libero Siriano, sta massacrando nel silenzio del mondo i curdi siriani ad Afrin, proprio mentre in Turchia 176 città dell’Anatolia a maggioranza curda sono sotto coprifuoco e il leader dell’Hdp Demirtas è in carcere.
Eppure, dirà qualcuno, la giornata era cominciata bene. Ed è vero. La prima notizia turca di ieri infatti era stata la liberazione di Deniz Yucel, corrispondente di Die Welt, dopo un anno di prigione in attesa del processo per «propaganda del terrorismo». Merkel si è subito congratulata.
Ma nelle ore successive si è capito quale era il dare e avere che Erdogan si giocava: da una parte ha ottenuto proprio ieri il via libero di Trump a cacciare da Afrin in Siria i curdi che ancora la difendono e che ora vengono abbandonati dall’impossibile alleato, gli Stati uniti, che finora sembrava sostenerli; dall’altra la liberazione del giornalista turco-tedesco di Die Welt mirava e mira in verità ad ottenere nello scambio il silenzio-assenso europeo sulla cancellazione di fatto della libertà di stampa in Turchia.
Perché altri giornalisti in carcere rischiano la stessa condanna: secondo il database dello Stockholm Center for Freedom, aggiornato a ieri, in Turchia sono detenuti 208 giornalisti, 33 quelli già condannati e altri 140 i ricercati, su cui pesa un mandato d’arresto.
Siamo nel posto che tutti i governi europei chiamano «sicuro», ma dove lo stato di diritto viene semplicemente fatto a pezzi e i giornalisti e gli scrittori vengono condannati all’ergastolo. Svetta e vince dunque l’arroganza e l’impunità di Erdogan.
Quando sapremo che cosa davvero è accaduto dentro la Nato prima e dopo l’improbabile e a dir poco impreparato “colpo di stato militare” del luglio 2016, partito dalla super-base atlantica di Incirlik, scopriremo probabilmente che l’Unione europea al suo interno – al di là dei lamenti e delle chiacchiere sulla «democrazia in pericolo» che anche adesso si leveranno – ha attivamente seguito quel tentativo, per poi altrettanto attivamente prenderne le distanze una volta sconfitto. In fondo è tutto accaduto dentro l’Alleanza atlantica. Che c’è e destabilizza allegramente a Est e a Sud. Mentre l’Unione europea resta sempre più un angoscioso punto interrogativo.
Il Fatto 17.2.18
Navalny e il “pesciolino” che fa tremare lo “zar”
Il blogger-oppositore diffonde un video sui legami fra Putin e il team di Trump. Il governo ordina di toglierlo: Youtube esegue
di Michela A.G. Iaccarino


Privet, eto Navalny”. Ciao, sono Navalny. Quasi tutti i messaggi sul suo canale personale di notizie su YouTube cominciano così. “Forse vi sono mancate le nostre inchieste, siate felici, oggi ne ho una nuova”. Nella rete digitale dell’oppositore del Cremlino ora è finito un “rybka”, un piccolo pesce, che nuota adesso nell’ultimo capitolo della saga anticorruzione del blogger. A Mosca la vicenda della modella di 21 anni, Anastasia Vashukevich, detta “Rybka”, non è più un caso da “zeltye izdanie”, giornali gialli, come i russi chiamano i rotocalchi. Il “rybkagate” è l’ultimo scandalo che scuote l’alba delle future elezioni russe, a Mosca, ma anche il tramonto di quelle americane, ormai trascorse, a Washington. La storia del piccolo pesce è quella di un oligarca e della sua escort e potrebbe bagnare le sponde a stelle e strisce d’oltreoceano. È anche la storia di un blog censurato che parla dei legami tra i due uomini più potenti della terra: Donald Trump e Vladimir Putin.
L’abbraccio d’agosto 2016 su uno yacht tra il magnate dell’alluminio, il miliardario Oleg Deripaska e la giovane Rybka-Anastasia è finito sull’account Instagram dell’escort nel 2017. Quei momenti vengono ricordati da Rybka anche nella sua biografia. Titolo: “Come sedurre un milionario”. In quei giorni d’estate nordica, un anno fa, tra champagne, prostitute e coste norvegesi, a discutere delle elezioni negli Stati Uniti, sulla barca c’era il vice premier russo, Sergey Prikhodko, consigliere di Putin.
Secondo Navalny, Deripaska stava aggiornando Prikhodko sulle informazioni ricevute da Paul Manafort, ex responsabile della campagna presidenziale di Trump, ora testimone chiave nell’indagine Russiagate. Erano “informazioni per Putin, per i servizi segreti”, dice, ma senza prove, Navalny. Secondo il Washington Post, Manafort avrebbe contattato Deripaska via mail il 7 luglio 2016 e da lui ha ricevuto dei soldi. Quando la storia del piccolo pesce sullo yatch da Instagram è finita sul blog di Navalny, il sito è stato subito oscurato dai provider russi per ordine statale della Rkn, la Roskomnadzor, agenzia statale per il controllo delle comunicazioni. La censura è arrivata dopo una sentenza della corte del tribunale di Ust-Labinsk, Russia del sud, che aveva dato ordine di tutela della privacy violata dell’oligarca. Youtube e Instagram hanno dovuto rimuovere il materiale della video inchiesta dell’oppositore: il prezzo da pagare, se giganti digitali avessero rifiutato, era la perdita del mercato russo.
Domani in Russia comincia il conto alla rovescia dell’ultimo mese. Tra trenta giorni il paese sceglierà di nuovo il suo presidente, questi sono colpi di coda e di guerra, prima che le urne vengano aperte domenica 18 marzo, per le elezioni che Navalny ha chiesto al popolo di boicottare, perché lui non ne potrà far parte. Dopo i martelli dei giudici, battuti più volte sui banchi dei tribunali per condannarlo all’incandidabilità, dopo fermi e arresti per le manifestazioni di piazza, a Navalny è rimasta un’unica voce reale: quella virtuale. Il team internet di Navalny è riuscito a creare un sito specchio del precedente e ha aggirato il blocco digitale. In Russia l’oppositore è tornato online, ma la storia del piccolo pesce, del suo oligarca e del vice premier invece no.
il manifesto 17.2.18
Università, dieci anni di tagli e cinquemila ricercatori in meno
Non è solo una questione di tasse. Il Miur pubblica un rapporto sul personale universitario: crescono i precari, età media alta, pesanti le differenze di genere
di Roberto Ciccarelli


La deliberata volontà di ridurre il già modesto settore dell’istruzione universitaria italiana lo vedi dai numeri dello stesso ministero. Sostiene infatti il Miur in un rapporto che il personale docente e non docente è calato da 4.650 professori e ricercatori (il 7,9%). Nel 2010 erano 58.885 nel 2017 sono 54.235 . A causa del massiccio pensionamento crescente sono diminuiti di quasi un quinto i professori ordinari (da 15.169 a 12.156) e i ricercatori (da 24.530 a 19.737).
Non sono stati sostituiti a causa della stretta – allentata qui e lì, ma sempre in maniera insufficiente – sul nuovo organico a cui è soggetta tutta la pubblica amministrazione. Nel periodo considerato sono stati registrati gli effetti devastanti dei tagli, praticati dal governo Berlusconi nel 2008, pari a 1,1 miliardi di euro al fondo ordinario per gli atenei. Più di otto sono stati tagliati alla scuola. Da allora queste risorse non sono mai più state rifinanziate, imponendo a un settore decisivo come quello dell’istruzione e della ricerca, un regime di penuria presentato come la nuova epoca di «meritocrazia». L’Italia è l’unico paese dell’area Ocse ad avere privato di risorse scuola e università nel maggiore momento di crisi. Tutti gli altri hanno fatto la scelta opposta: riversar sul settore nuove risorse, a cominciare dalla Germania.
È cambiato il lavoro di ricerca: è sempre più precario. Consideriamo gli assegni di ricerca rinnovabili sino a 4 anni. Queste figure apicali del precariato infinito che permette agli atenei di restare aperti è cresciuto in maniera considerevole. Gli «assegnisti» sono aumentati da 13.109 nel 2010-11 a 13.946 nel 2016-17 (+6,4%). Il Miur li considera insieme ai ricercatori – che sono invece «incardinati», cioè assunti a tempo indeterminato. Non è proprio la stessa cosa, anzi. Questi ultimi restano, tutti gli altri vengono espulsi al termine dell’ultimo girone di precariato.
Secondo la settima indagine dell’Adi, dopo dieci anni di tagli, solo il 9,2% degli assegnisti di ricerca viene data la possibilità di arrivare a un contratto«fisso». Una differenza enorme. Assegnisti e ricercatori alla base della piramide superano ordinari e associati: 28,1% contro 26,2%. Pesanti le differenze di genere. Le donne sono la maggioranza del personale tecnico-amministrativo (58,5%), 40% tra i docenti e ricercatori, solo il 21% arriva ai vertici. Il primo decennio della crisi lascia un’università esaurita, stanca e rassegnata: l’età media del personale è altissima: 52 anni, 59 anni i professori ordinari, 35 anni gli assegnisti.
Il Fatto 17.2.18
Le mie domande a Franceschini censurate su la7
di Vittorio Emiliani


Mercoledì 14 febbraio vengo interpellato da La7 per registrare alcune brevi domande da porre al ministro della Cultura, Dario Franceschini, in studio il giorno dopo a L’aria che tira. Ignoro che altrettanto venga richiesto parallelamente a Tomaso Montanari.
Li metto in guardia su un fatto: Franceschini non ama domande pungenti, scantona appena può; a proposito del Manifesto per la tutela firmato da oltre cento esperti, ex soprintendenti, ex direttori di Musei, molto polemici verso le sua “riforme”, ha commentato “Sono i soliti nemici”, e via. Però accedo alla richiesta: sono in tutto 40 secondi.
Sto guardando la trasmissione, quando da La7 mi comunicano imbarazzati che le mie domande non andranno in onda. “Censurate, vero?”, chiedo amabilmente. Parole smozzicate sulla trasmissione già in ritardo, purtroppo… Lascio perdere. Loro del resto ci hanno provato. Mandano il breve intervento di Tomaso Montanari, polemico ovviamente. E il ministro ancora una volta slalomeggia con la furbesca motivazione che “Montanari ormai è un politico e non più uno storico dell’arte”…
Dario Franceschini, che, oltre a essere un ex giovane dc, viene da Ferrara e s’intende di anguille, evita di cacciarsi nei guai di fronte a certe domande. Non risponde con la scusa del tempo che manca e tanti saluti.
Ecco le mie domande, tutte basate su dati e fatti inoppugnabili: “Matteo Renzi ha scritto tempo fa che ‘sovrintendente’ è il termine più brutto, fastidioso, odioso, di tutta la burocrazia. Lei è d’accordo?”
“Maria Elena Boschi, in un duetto televisivo da Vespa con Matteo Salvini, ha assicurato che le Soprintendenze sono state già indebolite e verranno magari abolite. Lei è d’accordo?”
“Agli Uffizi e a Pitti i biglietti sono rincarati di un terzo e adesso costano un po’ più di quelli del Louvre. Una visita alla Venaria Reale costa 20 euro più di una visita alla Reggia di Versailles. Facile far soldi così. È giusto in un Paese in cui 7 cittadini su 10 dichiarano di non essere mai entrati in un museo?”
“Nel sito del ministero si legge che al Pantheon nel 2017 sono entrate più di 8 milioni di persone. Lo sa che sono oltre 22.000 al giorno, cioè una curva e mezzo dello Stadio Olimpico? Non è un po’ una statistica da film con Totò e Peppino che si vendono il Pantheon?”.
Fare l’anguilla non era facile, lo riconosco. E magari adesso Franceschini darà la colpa a La7…
Corriere 17.2.18
Perché nessuno vuole il voto bis
di Francesco Verderami


Lo dicono tutti ma non conviene a nessuno: tornare al voto dopo il voto è l’ennesima promessa che i leader non potranno né vorranno mantenere.
L'idea che in caso di «pareggio» si debba rifare la sfida è un esercizio muscolare da campagna elettorale, un espediente che oggi serve ai capi-partito per esorcizzare il timore di rimanere esclusi domani dal gioco del governo. Da Berlusconi a Di Maio, da Renzi a Salvini e giù fino a D’Alema, sarebbe un rischio non partecipare al risiko per Palazzo Chigi: ognuno di loro dovrebbe infatti fronteggiare i contraccolpi dell’isolamento, equivalente del fallimento.
«Pericolo frana» è il cartello posto dappertutto. A partire dal Nazareno. In attesa di verificare se il segretario riuscirà a raggiungere o quantomeno avvicinare «quota 25», nel Pd si discute se il futuro sarà «con lui o senza lui». Non a caso «lui», che pure ambisce a rifare il premier, si è trasferito al Senato insieme alla gran parte dei fedelissimi: nella peggiore delle ipotesi, grazie a quella enclave, sarebbe comunque determinante per qualsiasi soluzione. Se invece tentasse la scorciatoia del voto, Renzi dovrebbe prima render conto del risultato che ha condotto al vicolo cieco.
Ché poi è la stessa condizione in cui versa il candidato premier del M5S. Il profilo dato alla sua campagna elettorale, e le liste che ha presentato, sono una sorta di all in dell’ala governista. È da oltre un anno che Di Maio lavora al progetto, già nel marzo del 2017 anticipò la trasformazione del Movimento: «Vinceremo e dimostreremo di essere una forza capace di coalizzare in Parlamento». E l’eventuale successo si trasformerebbe in sconfitta se M5S — in qualche modo — non entrasse nella stanza dei bottoni. L’ala movimentista è lì che lo attende al varco.
Il futuro, insomma, non può essere ipotecato. Da nessuno. E può darsi che Berlusconi sia sincero quando sostiene di voler tornare alle urne, se la sfida finisse pari. L’otto marzo la sua pena sarà definitivamente estinta e da quel momento potrà chiedere ai giudici la riabilitazione, che farebbe cessare gli effetti della legge Severino: così potrebbe ricandidarsi per Palazzo Chigi. Nell’attesa, però, le dinamiche nella sua coalizione e persino nel suo partito somigliano allo spostamento di faglie tettoniche. Giorni fa, durante un comizio a Venezia, Brunetta è arrivato a dire che l’alleanza con la Lega «è un momento di passaggio verso un soggetto unitario di centrodestra».
Una linea eretica, bandita dal catechismo di Arcore, perché sancirebbe il superamento della leadership berlusconiana. E non c’è dubbio che il Rosatellum sia funzionale al disegno, perciò il Cavaliere — a meno di non potersi ricandidare a premier — non avrebbe interesse ad assecondare il ritorno alle urne con l’attuale legge elettorale. E magari la permanenza di Gentiloni a Palazzo Chigi si protrarrebbe in attesa di far saltare il bunker di Salvini e dar vita a un progetto più solido. Ambizioni diverse, stesso interesse: perché è chiaro che la linea del «professionista» D’Alema per un «governo del presidente» porterebbe il cartello di sinistra allo scioglimento dopo il 4 marzo. E l’ira verso l’ex premier monta dentro Leu: «Si è sempre sentito qualcuno e ora si sente già qualcosa».
Tutti vogliono giocare al risiko di Palazzo Chigi. Al bivio, saranno le urne a stabilire quale strada verrà presa. L’idea del governo di unità nazionale, sostenuta da Minniti, non è solo un altolà alle mire di Renzi e alle asfittiche larghe intese con Berlusconi: è il preannuncio di un terremoto, passerebbe per la scomposizione e ricomposizione del quadro politico e l’onda d’urto colpirebbe ogni partito. Resta da capire cosa farebbe Di Maio. È una variabile di non poco conto, da aggiungere agli altri margini di imprevedibilità.
Repubblica 17.2.18
I fascisti in piazza scuotono Bologna
Scontri e polemiche per le cariche della polizia contro i giovani che protestano per il comizio di Forza Nuova Il sindaco Merola contro i centri sociali: “Squadristi anche voi”. Bersani: “Un errore concedere spazi pubblici”
di Silvia Bignami


Bologna Cariche. Idranti. Città bloccata. Feriti. La scintilla del comizio di Forza Nuova, nella centralissima piazza Galvani, infiamma la città medaglia d’oro per la Resistenza. Protestano i collettivi, che per tutto il giorno tentano di impedire il peggio — i fascisti, alla fine appena una cinquantina, che parlano sul palco a Bologna — e vengono ripetutamente caricati. Ma manifesta, in silenzio, anche la politica — Pd e Leu insieme davanti al sacrario dei caduti — in un quadrato di piazza Nettuno lontano dagli scontri. Sinistra unita dagli stessi valori, che però nemmeno stavolta trova un’unica voce.
« Squadristi tutti » perde le staffe del tutto il sindaco Virginio Merola. Rossi e neri: «Forza Nuova, che non si deve azzardare a fare apologia di fascismo a Bologna o li querelo, ma anche i collettivi, che hanno idee diverse ma sono sempre violenti». Infuriato Merola, per una giornata in cui i centri sociali tengono in ostaggio la città in un clima sempre più teso, dopo Macerata. Prima un blitz in consiglio comunale del collettivo Hobo, in cui restano feriti due vigili della municipale. Poi il tentativo di occupare piazza Galvani prima dell’arrivo di Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, che finisce con i primi scontri con le forze dell’ordine. E la sera rischia di andare pure peggio, come infatti sarà.
È la linea del Pd: contro i fascisti ma anche contro i centri sociali. Ma non è quella di Leu, che si presenta allo stesso presidio Anpi coi suoi pesi massimi Pierluigi Bersani e Vasco Errani, i più fotografati davanti ai caduti della Resistenza, mentre per il Pd, impegnato nella campagna elettorale, si presenta a ranghi un po’ ridotti. Errani promette subito all’Anpi una legge «per impedire a partiti come Forza Nuova, che sono chiaramante fascisti, di presentarsi alle elezioni». Arrivano bacchettate anche alla polizia: « Bisogna pensarci bene prima di dare una piazza ai neofascisti » avverte Bersani. «Ed è grave se la polizia sgombera un presidio pacifico » conclude Errani. Accenti diversi a sinistra. Ancora diversi quelli di Nicola Fratoianni, che fa la spola tra la piazza della politica e quella della lotta e punta il dito: « Gravissimo che le forze dell’ordine scaccino gli antifascisti per far posto ai fascisti » . Sinistra a pezzetti, divisa sulle virgole. Mentre Matteo Salvini, da Roma, imbraccia subito il machete contro « i collettivi figli di papà » . Peggio, Salvini promette pure che tornerà a Bologna martedì. Prima di lui, questa mattina, arriverà Paolo Gentiloni, che insieme a Romano Prodi sosterrà la lista Ulivista Insieme e che già ieri dallo studio di Otto e Mezzo ha dato il suo giudizio sul rischio di un ritorno alla violenza a Bologna: « La risposta deve essere netta. E noi abbiamo nervi saldi e forze dell’ordine in grado di contrastarla».
il manifesto 17.2.18
A Bologna picchiati e cacciati gli antifascisti
Verso le elezioni. Cortei e sit-in pacifici di movimenti, associazioni, studenti e centri sociali contro il comizio di Forza nuova caricati per tutto il giorno dalla polizia. In presidio anche Pd e Leu, Cgil e Libera
di Giovanni Stinco


BOLOGNA La Prefettura aveva garantito che a tutti sarebbe stato permesso di manifestare, e così è stato. A Bologna ieri sera il numero di Forza Nuova Roberto Fiore ha potuto predicare la sua «rivolta nazionale» e presentare i suoi candidati alle elezioni politiche. Trenta camerati trenta ad ascoltarlo nella centralissima piazza Galvani – e si è visto anche qualche saluto fascista – centinaia di agenti schierati a difendere la libertà di parola del leader di un partito che ha difeso e giustificato l’attentatore fascista di Macerata Luca Traini.
A contestare Fiore e il fascismo migliaia di persone in città, con due presidi differenti, un sit-in, un corteo e un’occupazione lampo della piazza dove Fiore ha poi parlato, un blitz antifascista finito con le manganellate dei poliziotti che hanno cacciato i manifestanti.
A risuonare in più parti della città è stata un’unica canzone, «Bella ciao».
Ha risposto così Bologna all’arrivo di Forza Nuova in città, con iniziative diverse che tutte hanno detto «no» al fascismo.
A cominciare dai manifestanti dei centri sociali cittadini (Xm24, Crash, Tpo, Làbas, Vag61) che alle 13 si sono presentati in un centinaio in Piazza Galvani, promettendo una resistenza ad oltranza per impedire l’arrivo di Fiore. «Vogliono far parlare Fiore? Gli spostino il comizio da un’altra parte», aveva suggerito qualcuno.
Le cose sono andate diversamente, la polizia si è presentata in forze e ha sgomberato la piazza a manganellate. Tra i manifestanti quattro feriti, tra gli agenti un contuso.
A far spostare il comizio elettorale di Fiore ci aveva provato anche il Comune, ma senza successo.
Altre manganellate sono arrivate nella serata, quando di nuovo il corteo dei centri sociali, in tutto quasi mille persone, ha cercato di avvicinarsi alla piazza dove Fiore stava parlando.
Sono entrati in funzione gli idranti della polizia, poi altre manganellate e i lacrimogeni mentre dalla pancia del corteo volavano petardi, bottiglie e altri oggetti verso gli agenti. Due i fermati (poi rilasciati) dopo la carica della polizia, lievi ferite per un agente e sei manifestanti.
Nel pomeriggio sono state invece centinaia le persone che hanno risposto all’appello antifascista di Anpi, Arci, Cgil e Libera. A partecipare anche il Pd e Liberi e Uguali.
«La Lega è complice dei teppisti fascisti»Virginio Merola
In piazza anche il sindaco Merola, che ha preso di mira il leghista Salvini: «Il suo partito è complice dei teppisti fascisti». Al presidio indetto sotto il Sacrario dei partigiani sono passati in tanti. Dai deputati Pd ai leader di Liberi e Uguali. «Abbiamo già visto tante volte come reagire a rigurgiti fascisti, fenomeni terroristici: lo abbiamo sempre fatto andando in piazza e andandoci tutti insieme. La strada è ancora quella», ha detto Pierluigi Bersani.
«Pensare di affrontare la questione democratica senza affrontare quella sociale è un errore serio. In ogni caso prima di dare la piazza a Forza Nuova bisogna pensarci due o tre volte»Pierluigi Bersani
Ma non basta, ha aggiunto Bersani, «perché c’è una destra regressiva e parafascista che sta raccogliendo consensi nel paese, laddove c’è rabbia e disagio. Bisogna che la sinistra vada lì, perché pensare di affrontare la questione democratica senza affrontare quella sociale è un errore serio. In ogni caso prima di dare le piazza a Forza Nuova bisogna pensarci due o tre volte».
A chiedere una legge per impedire a Forza Nuova di ripresentarsi di nuovo alle elezioni è stato invece Vasco Errani. «Parliamo di un partito chiaramente fascista e che non ha legittimità, né elettorale né di piazza». A chi gli chiedeva dello sgombero degli antifascisti Errani ha risposto così: «C’è qualcosa che non va».
Gli ultimi fuochi della giornata antifascista bolognese si sono visti alle 20, dopo le manganellate sul corteo antifascista un gruppo di studenti ha improvvisato un sit-in andato avanti fino alle 21.
A dividere il corteo dagli agenti guidato dai centri sociali una ventina di giovanissimi, alcuni liceali, altri iscritti al primo anno d’università. «Sono antifascista ma non accetto la violenza da nessuna parte», ha detto un ragazzo di 19 anni. «Gli agenti non ci devono fare paura – ha urlato una 17 enne – non importa che abbiano camionette e manganelli, siamo pacifici e non ci possono passare sopra».
A prendere la parola anche Insaf Dimassi, uno dei volti noti del movimento Italiani senza Cittadinanza, che ha lottato invano per l’approvazione della legge sullo ius soli. «Noi siamo dalla parte giusta, dobbiamo difendere la nostra democrazia».
«Faccio un appello a Bologna, non fatevi rappresentare da questi 20 figli di papà che non sono antifascisti»Matteo Salvini
A prendere la parola su quanto successo anche Salvini, bersaglio polemico di molti manifestanti che lo hanno accostato più volte a Forza Nuova e a Casa Pound. «Faccio un appello a Bologna, città dotta, dei poeti, dei cantautori, non fatevi rappresentare da questi 20 figli di papà che non sono antifascisti. Chi usa la violenza per fare politica è un fuorilegge», queste le parole del leader leghista.
A dare solidarietà alle forze dell’ordine tutta la destra inclusa Valentina Castaldini, alfaniana candidata nella lista Civica Popolare di Lorenzin e Casini, ora alleati di ferro del Partito democratico. «La retorica dell’antifascismo è solo una superata bandiera ideologica dietro cui collettivi e centri sociali nascondono la loro frustrazione», ha detto Castaldini, forse non accorgendosi delle migliaia di persone che a Bologna ieri hanno scelto di scendere in piazza.
il manifesto 17.2.18
A Bologna picchiati e cacciati gli antifascisti
Verso le elezioni. Cortei e sit-in pacifici di movimenti, associazioni, studenti e centri sociali contro il comizio di Forza nuova caricati per tutto il giorno dalla polizia. In presidio anche Pd e Leu, Cgil e Libera
di Giovanni Stinco


BOLOGNA La Prefettura aveva garantito che a tutti sarebbe stato permesso di manifestare, e così è stato. A Bologna ieri sera il numero di Forza Nuova Roberto Fiore ha potuto predicare la sua «rivolta nazionale» e presentare i suoi candidati alle elezioni politiche. Trenta camerati trenta ad ascoltarlo nella centralissima piazza Galvani – e si è visto anche qualche saluto fascista – centinaia di agenti schierati a difendere la libertà di parola del leader di un partito che ha difeso e giustificato l’attentatore fascista di Macerata Luca Traini.
A contestare Fiore e il fascismo migliaia di persone in città, con due presidi differenti, un sit-in, un corteo e un’occupazione lampo della piazza dove Fiore ha poi parlato, un blitz antifascista finito con le manganellate dei poliziotti che hanno cacciato i manifestanti.
A risuonare in più parti della città è stata un’unica canzone, «Bella ciao».
Ha risposto così Bologna all’arrivo di Forza Nuova in città, con iniziative diverse che tutte hanno detto «no» al fascismo.
A cominciare dai manifestanti dei centri sociali cittadini (Xm24, Crash, Tpo, Làbas, Vag61) che alle 13 si sono presentati in un centinaio in Piazza Galvani, promettendo una resistenza ad oltranza per impedire l’arrivo di Fiore. «Vogliono far parlare Fiore? Gli spostino il comizio da un’altra parte», aveva suggerito qualcuno.
Le cose sono andate diversamente, la polizia si è presentata in forze e ha sgomberato la piazza a manganellate. Tra i manifestanti quattro feriti, tra gli agenti un contuso.
A far spostare il comizio elettorale di Fiore ci aveva provato anche il Comune, ma senza successo.
Altre manganellate sono arrivate nella serata, quando di nuovo il corteo dei centri sociali, in tutto quasi mille persone, ha cercato di avvicinarsi alla piazza dove Fiore stava parlando.
Sono entrati in funzione gli idranti della polizia, poi altre manganellate e i lacrimogeni mentre dalla pancia del corteo volavano petardi, bottiglie e altri oggetti verso gli agenti. Due i fermati (poi rilasciati) dopo la carica della polizia, lievi ferite per un agente e sei manifestanti.
Nel pomeriggio sono state invece centinaia le persone che hanno risposto all’appello antifascista di Anpi, Arci, Cgil e Libera. A partecipare anche il Pd e Liberi e Uguali.
«La Lega è complice dei teppisti fascisti»Virginio Merola
In piazza anche il sindaco Merola, che ha preso di mira il leghista Salvini: «Il suo partito è complice dei teppisti fascisti». Al presidio indetto sotto il Sacrario dei partigiani sono passati in tanti. Dai deputati Pd ai leader di Liberi e Uguali. «Abbiamo già visto tante volte come reagire a rigurgiti fascisti, fenomeni terroristici: lo abbiamo sempre fatto andando in piazza e andandoci tutti insieme. La strada è ancora quella», ha detto Pierluigi Bersani.
«Pensare di affrontare la questione democratica senza affrontare quella sociale è un errore serio. In ogni caso prima di dare la piazza a Forza Nuova bisogna pensarci due o tre volte»Pierluigi Bersani
Ma non basta, ha aggiunto Bersani, «perché c’è una destra regressiva e parafascista che sta raccogliendo consensi nel paese, laddove c’è rabbia e disagio. Bisogna che la sinistra vada lì, perché pensare di affrontare la questione democratica senza affrontare quella sociale è un errore serio. In ogni caso prima di dare le piazza a Forza Nuova bisogna pensarci due o tre volte».
A chiedere una legge per impedire a Forza Nuova di ripresentarsi di nuovo alle elezioni è stato invece Vasco Errani. «Parliamo di un partito chiaramente fascista e che non ha legittimità, né elettorale né di piazza». A chi gli chiedeva dello sgombero degli antifascisti Errani ha risposto così: «C’è qualcosa che non va».
Gli ultimi fuochi della giornata antifascista bolognese si sono visti alle 20, dopo le manganellate sul corteo antifascista un gruppo di studenti ha improvvisato un sit-in andato avanti fino alle 21.
A dividere il corteo dagli agenti guidato dai centri sociali una ventina di giovanissimi, alcuni liceali, altri iscritti al primo anno d’università. «Sono antifascista ma non accetto la violenza da nessuna parte», ha detto un ragazzo di 19 anni. «Gli agenti non ci devono fare paura – ha urlato una 17 enne – non importa che abbiano camionette e manganelli, siamo pacifici e non ci possono passare sopra».
A prendere la parola anche Insaf Dimassi, uno dei volti noti del movimento Italiani senza Cittadinanza, che ha lottato invano per l’approvazione della legge sullo ius soli. «Noi siamo dalla parte giusta, dobbiamo difendere la nostra democrazia».
«Faccio un appello a Bologna, non fatevi rappresentare da questi 20 figli di papà che non sono antifascisti»Matteo Salvini
A prendere la parola su quanto successo anche Salvini, bersaglio polemico di molti manifestanti che lo hanno accostato più volte a Forza Nuova e a Casa Pound. «Faccio un appello a Bologna, città dotta, dei poeti, dei cantautori, non fatevi rappresentare da questi 20 figli di papà che non sono antifascisti. Chi usa la violenza per fare politica è un fuorilegge», queste le parole del leader leghista.
A dare solidarietà alle forze dell’ordine tutta la destra inclusa Valentina Castaldini, alfaniana candidata nella lista Civica Popolare di Lorenzin e Casini, ora alleati di ferro del Partito democratico. «La retorica dell’antifascismo è solo una superata bandiera ideologica dietro cui collettivi e centri sociali nascondono la loro frustrazione», ha detto Castaldini, forse non accorgendosi delle migliaia di persone che a Bologna ieri hanno scelto di scendere in piazza.

Repubblica 17.2.18
I fascisti in piazza scuotono Bologna
Scontri e polemiche per le cariche della polizia contro i giovani che protestano per il comizio di Forza Nuova Il sindaco Merola contro i centri sociali: “Squadristi anche voi”. Bersani: “Un errore concedere spazi pubblici”
di Silvia Bignami


Bologna Cariche. Idranti. Città bloccata. Feriti. La scintilla del comizio di Forza Nuova, nella centralissima piazza Galvani, infiamma la città medaglia d’oro per la Resistenza. Protestano i collettivi, che per tutto il giorno tentano di impedire il peggio — i fascisti, alla fine appena una cinquantina, che parlano sul palco a Bologna — e vengono ripetutamente caricati. Ma manifesta, in silenzio, anche la politica — Pd e Leu insieme davanti al sacrario dei caduti — in un quadrato di piazza Nettuno lontano dagli scontri. Sinistra unita dagli stessi valori, che però nemmeno stavolta trova un’unica voce.
« Squadristi tutti » perde le staffe del tutto il sindaco Virginio Merola. Rossi e neri: «Forza Nuova, che non si deve azzardare a fare apologia di fascismo a Bologna o li querelo, ma anche i collettivi, che hanno idee diverse ma sono sempre violenti». Infuriato Merola, per una giornata in cui i centri sociali tengono in ostaggio la città in un clima sempre più teso, dopo Macerata. Prima un blitz in consiglio comunale del collettivo Hobo, in cui restano feriti due vigili della municipale. Poi il tentativo di occupare piazza Galvani prima dell’arrivo di Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, che finisce con i primi scontri con le forze dell’ordine. E la sera rischia di andare pure peggio, come infatti sarà.
È la linea del Pd: contro i fascisti ma anche contro i centri sociali. Ma non è quella di Leu, che si presenta allo stesso presidio Anpi coi suoi pesi massimi Pierluigi Bersani e Vasco Errani, i più fotografati davanti ai caduti della Resistenza, mentre per il Pd, impegnato nella campagna elettorale, si presenta a ranghi un po’ ridotti. Errani promette subito all’Anpi una legge «per impedire a partiti come Forza Nuova, che sono chiaramante fascisti, di presentarsi alle elezioni». Arrivano bacchettate anche alla polizia: « Bisogna pensarci bene prima di dare una piazza ai neofascisti » avverte Bersani. «Ed è grave se la polizia sgombera un presidio pacifico » conclude Errani. Accenti diversi a sinistra. Ancora diversi quelli di Nicola Fratoianni, che fa la spola tra la piazza della politica e quella della lotta e punta il dito: « Gravissimo che le forze dell’ordine scaccino gli antifascisti per far posto ai fascisti » . Sinistra a pezzetti, divisa sulle virgole. Mentre Matteo Salvini, da Roma, imbraccia subito il machete contro « i collettivi figli di papà » . Peggio, Salvini promette pure che tornerà a Bologna martedì. Prima di lui, questa mattina, arriverà Paolo Gentiloni, che insieme a Romano Prodi sosterrà la lista Ulivista Insieme e che già ieri dallo studio di Otto e Mezzo ha dato il suo giudizio sul rischio di un ritorno alla violenza a Bologna: « La risposta deve essere netta. E noi abbiamo nervi saldi e forze dell’ordine in grado di contrastarla».

Corriere 17.2.18
Perché nessuno vuole il voto bis
di Francesco Verderami


Lo dicono tutti ma non conviene a nessuno: tornare al voto dopo il voto è l’ennesima promessa che i leader non potranno né vorranno mantenere.
L'idea che in caso di «pareggio» si debba rifare la sfida è un esercizio muscolare da campagna elettorale, un espediente che oggi serve ai capi-partito per esorcizzare il timore di rimanere esclusi domani dal gioco del governo. Da Berlusconi a Di Maio, da Renzi a Salvini e giù fino a D’Alema, sarebbe un rischio non partecipare al risiko per Palazzo Chigi: ognuno di loro dovrebbe infatti fronteggiare i contraccolpi dell’isolamento, equivalente del fallimento.
«Pericolo frana» è il cartello posto dappertutto. A partire dal Nazareno. In attesa di verificare se il segretario riuscirà a raggiungere o quantomeno avvicinare «quota 25», nel Pd si discute se il futuro sarà «con lui o senza lui». Non a caso «lui», che pure ambisce a rifare il premier, si è trasferito al Senato insieme alla gran parte dei fedelissimi: nella peggiore delle ipotesi, grazie a quella enclave, sarebbe comunque determinante per qualsiasi soluzione. Se invece tentasse la scorciatoia del voto, Renzi dovrebbe prima render conto del risultato che ha condotto al vicolo cieco.
Ché poi è la stessa condizione in cui versa il candidato premier del M5S. Il profilo dato alla sua campagna elettorale, e le liste che ha presentato, sono una sorta di all in dell’ala governista. È da oltre un anno che Di Maio lavora al progetto, già nel marzo del 2017 anticipò la trasformazione del Movimento: «Vinceremo e dimostreremo di essere una forza capace di coalizzare in Parlamento». E l’eventuale successo si trasformerebbe in sconfitta se M5S — in qualche modo — non entrasse nella stanza dei bottoni. L’ala movimentista è lì che lo attende al varco.
Il futuro, insomma, non può essere ipotecato. Da nessuno. E può darsi che Berlusconi sia sincero quando sostiene di voler tornare alle urne, se la sfida finisse pari. L’otto marzo la sua pena sarà definitivamente estinta e da quel momento potrà chiedere ai giudici la riabilitazione, che farebbe cessare gli effetti della legge Severino: così potrebbe ricandidarsi per Palazzo Chigi. Nell’attesa, però, le dinamiche nella sua coalizione e persino nel suo partito somigliano allo spostamento di faglie tettoniche. Giorni fa, durante un comizio a Venezia, Brunetta è arrivato a dire che l’alleanza con la Lega «è un momento di passaggio verso un soggetto unitario di centrodestra».
Una linea eretica, bandita dal catechismo di Arcore, perché sancirebbe il superamento della leadership berlusconiana. E non c’è dubbio che il Rosatellum sia funzionale al disegno, perciò il Cavaliere — a meno di non potersi ricandidare a premier — non avrebbe interesse ad assecondare il ritorno alle urne con l’attuale legge elettorale. E magari la permanenza di Gentiloni a Palazzo Chigi si protrarrebbe in attesa di far saltare il bunker di Salvini e dar vita a un progetto più solido. Ambizioni diverse, stesso interesse: perché è chiaro che la linea del «professionista» D’Alema per un «governo del presidente» porterebbe il cartello di sinistra allo scioglimento dopo il 4 marzo. E l’ira verso l’ex premier monta dentro Leu: «Si è sempre sentito qualcuno e ora si sente già qualcosa».
Tutti vogliono giocare al risiko di Palazzo Chigi. Al bivio, saranno le urne a stabilire quale strada verrà presa. L’idea del governo di unità nazionale, sostenuta da Minniti, non è solo un altolà alle mire di Renzi e alle asfittiche larghe intese con Berlusconi: è il preannuncio di un terremoto, passerebbe per la scomposizione e ricomposizione del quadro politico e l’onda d’urto colpirebbe ogni partito. Resta da capire cosa farebbe Di Maio. È una variabile di non poco conto, da aggiungere agli altri margini di imprevedibilità.

Il Fatto 17.2.18
Le mie domande a Franceschini censurate su la7
di Vittorio Emiliani


Mercoledì 14 febbraio vengo interpellato da La7 per registrare alcune brevi domande da porre al ministro della Cultura, Dario Franceschini, in studio il giorno dopo a L’aria che tira. Ignoro che altrettanto venga richiesto parallelamente a Tomaso Montanari.
Li metto in guardia su un fatto: Franceschini non ama domande pungenti, scantona appena può; a proposito del Manifesto per la tutela firmato da oltre cento esperti, ex soprintendenti, ex direttori di Musei, molto polemici verso le sua “riforme”, ha commentato “Sono i soliti nemici”, e via. Però accedo alla richiesta: sono in tutto 40 secondi.
Sto guardando la trasmissione, quando da La7 mi comunicano imbarazzati che le mie domande non andranno in onda. “Censurate, vero?”, chiedo amabilmente. Parole smozzicate sulla trasmissione già in ritardo, purtroppo… Lascio perdere. Loro del resto ci hanno provato. Mandano il breve intervento di Tomaso Montanari, polemico ovviamente. E il ministro ancora una volta slalomeggia con la furbesca motivazione che “Montanari ormai è un politico e non più uno storico dell’arte”…
Dario Franceschini, che, oltre a essere un ex giovane dc, viene da Ferrara e s’intende di anguille, evita di cacciarsi nei guai di fronte a certe domande. Non risponde con la scusa del tempo che manca e tanti saluti.
Ecco le mie domande, tutte basate su dati e fatti inoppugnabili: “Matteo Renzi ha scritto tempo fa che ‘sovrintendente’ è il termine più brutto, fastidioso, odioso, di tutta la burocrazia. Lei è d’accordo?”
“Maria Elena Boschi, in un duetto televisivo da Vespa con Matteo Salvini, ha assicurato che le Soprintendenze sono state già indebolite e verranno magari abolite. Lei è d’accordo?”
“Agli Uffizi e a Pitti i biglietti sono rincarati di un terzo e adesso costano un po’ più di quelli del Louvre. Una visita alla Venaria Reale costa 20 euro più di una visita alla Reggia di Versailles. Facile far soldi così. È giusto in un Paese in cui 7 cittadini su 10 dichiarano di non essere mai entrati in un museo?”
“Nel sito del ministero si legge che al Pantheon nel 2017 sono entrate più di 8 milioni di persone. Lo sa che sono oltre 22.000 al giorno, cioè una curva e mezzo dello Stadio Olimpico? Non è un po’ una statistica da film con Totò e Peppino che si vendono il Pantheon?”.
Fare l’anguilla non era facile, lo riconosco. E magari adesso Franceschini darà la colpa a La7…

il manifesto 17.2.18
Università, dieci anni di tagli e cinquemila ricercatori in meno
Non è solo una questione di tasse. Il Miur pubblica un rapporto sul personale universitario: crescono i precari, età media alta, pesanti le differenze di genere
di Roberto Ciccarelli


La deliberata volontà di ridurre il già modesto settore dell’istruzione universitaria italiana lo vedi dai numeri dello stesso ministero. Sostiene infatti il Miur in un rapporto che il personale docente e non docente è calato da 4.650 professori e ricercatori (il 7,9%). Nel 2010 erano 58.885 nel 2017 sono 54.235 . A causa del massiccio pensionamento crescente sono diminuiti di quasi un quinto i professori ordinari (da 15.169 a 12.156) e i ricercatori (da 24.530 a 19.737).
Non sono stati sostituiti a causa della stretta – allentata qui e lì, ma sempre in maniera insufficiente – sul nuovo organico a cui è soggetta tutta la pubblica amministrazione. Nel periodo considerato sono stati registrati gli effetti devastanti dei tagli, praticati dal governo Berlusconi nel 2008, pari a 1,1 miliardi di euro al fondo ordinario per gli atenei. Più di otto sono stati tagliati alla scuola. Da allora queste risorse non sono mai più state rifinanziate, imponendo a un settore decisivo come quello dell’istruzione e della ricerca, un regime di penuria presentato come la nuova epoca di «meritocrazia». L’Italia è l’unico paese dell’area Ocse ad avere privato di risorse scuola e università nel maggiore momento di crisi. Tutti gli altri hanno fatto la scelta opposta: riversar sul settore nuove risorse, a cominciare dalla Germania.
È cambiato il lavoro di ricerca: è sempre più precario. Consideriamo gli assegni di ricerca rinnovabili sino a 4 anni. Queste figure apicali del precariato infinito che permette agli atenei di restare aperti è cresciuto in maniera considerevole. Gli «assegnisti» sono aumentati da 13.109 nel 2010-11 a 13.946 nel 2016-17 (+6,4%). Il Miur li considera insieme ai ricercatori – che sono invece «incardinati», cioè assunti a tempo indeterminato. Non è proprio la stessa cosa, anzi. Questi ultimi restano, tutti gli altri vengono espulsi al termine dell’ultimo girone di precariato.
Secondo la settima indagine dell’Adi, dopo dieci anni di tagli, solo il 9,2% degli assegnisti di ricerca viene data la possibilità di arrivare a un contratto«fisso». Una differenza enorme. Assegnisti e ricercatori alla base della piramide superano ordinari e associati: 28,1% contro 26,2%. Pesanti le differenze di genere. Le donne sono la maggioranza del personale tecnico-amministrativo (58,5%), 40% tra i docenti e ricercatori, solo il 21% arriva ai vertici. Il primo decennio della crisi lascia un’università esaurita, stanca e rassegnata: l’età media del personale è altissima: 52 anni, 59 anni i professori ordinari, 35 anni gli assegnisti.

Il Fatto 17.2.18
Navalny e il “pesciolino” che fa tremare lo “zar”
Il blogger-oppositore diffonde un video sui legami fra Putin e il team di Trump. Il governo ordina di toglierlo: Youtube esegue
di Michela A.G. Iaccarino


Privet, eto Navalny”. Ciao, sono Navalny. Quasi tutti i messaggi sul suo canale personale di notizie su YouTube cominciano così. “Forse vi sono mancate le nostre inchieste, siate felici, oggi ne ho una nuova”. Nella rete digitale dell’oppositore del Cremlino ora è finito un “rybka”, un piccolo pesce, che nuota adesso nell’ultimo capitolo della saga anticorruzione del blogger. A Mosca la vicenda della modella di 21 anni, Anastasia Vashukevich, detta “Rybka”, non è più un caso da “zeltye izdanie”, giornali gialli, come i russi chiamano i rotocalchi. Il “rybkagate” è l’ultimo scandalo che scuote l’alba delle future elezioni russe, a Mosca, ma anche il tramonto di quelle americane, ormai trascorse, a Washington. La storia del piccolo pesce è quella di un oligarca e della sua escort e potrebbe bagnare le sponde a stelle e strisce d’oltreoceano. È anche la storia di un blog censurato che parla dei legami tra i due uomini più potenti della terra: Donald Trump e Vladimir Putin.
L’abbraccio d’agosto 2016 su uno yacht tra il magnate dell’alluminio, il miliardario Oleg Deripaska e la giovane Rybka-Anastasia è finito sull’account Instagram dell’escort nel 2017. Quei momenti vengono ricordati da Rybka anche nella sua biografia. Titolo: “Come sedurre un milionario”. In quei giorni d’estate nordica, un anno fa, tra champagne, prostitute e coste norvegesi, a discutere delle elezioni negli Stati Uniti, sulla barca c’era il vice premier russo, Sergey Prikhodko, consigliere di Putin.
Secondo Navalny, Deripaska stava aggiornando Prikhodko sulle informazioni ricevute da Paul Manafort, ex responsabile della campagna presidenziale di Trump, ora testimone chiave nell’indagine Russiagate. Erano “informazioni per Putin, per i servizi segreti”, dice, ma senza prove, Navalny. Secondo il Washington Post, Manafort avrebbe contattato Deripaska via mail il 7 luglio 2016 e da lui ha ricevuto dei soldi. Quando la storia del piccolo pesce sullo yatch da Instagram è finita sul blog di Navalny, il sito è stato subito oscurato dai provider russi per ordine statale della Rkn, la Roskomnadzor, agenzia statale per il controllo delle comunicazioni. La censura è arrivata dopo una sentenza della corte del tribunale di Ust-Labinsk, Russia del sud, che aveva dato ordine di tutela della privacy violata dell’oligarca. Youtube e Instagram hanno dovuto rimuovere il materiale della video inchiesta dell’oppositore: il prezzo da pagare, se giganti digitali avessero rifiutato, era la perdita del mercato russo.
Domani in Russia comincia il conto alla rovescia dell’ultimo mese. Tra trenta giorni il paese sceglierà di nuovo il suo presidente, questi sono colpi di coda e di guerra, prima che le urne vengano aperte domenica 18 marzo, per le elezioni che Navalny ha chiesto al popolo di boicottare, perché lui non ne potrà far parte. Dopo i martelli dei giudici, battuti più volte sui banchi dei tribunali per condannarlo all’incandidabilità, dopo fermi e arresti per le manifestazioni di piazza, a Navalny è rimasta un’unica voce reale: quella virtuale. Il team internet di Navalny è riuscito a creare un sito specchio del precedente e ha aggirato il blocco digitale. In Russia l’oppositore è tornato online, ma la storia del piccolo pesce, del suo oligarca e del vice premier invece no.

il manifesto 17.2.18
Turchia, all’ergastolo lo stato di diritto
Una sentenza atlantica e crudele contro sei giornalisti turchi, resa possibile dall'omertà di Europa e Nato che hanno fatto di Erdogan il loro cane da guardia, in Siria come nei campi profughi. Un do ut des che il rilascio del reporter Yucel palesa
di Tommaso Di Francesco


Una sentenza atlantica e crudele quella del tribunale di Istanbul che ieri ha condannato all’ergastolo aggravato sei giornalisti e accademici turchi, tra cui i fratelli Ahmet e Mehmet Altan e la reporter veterana Nazli Ilicak, accusati di aver tentato di «rimuovere l’ordine costituzionale» (parliamo del fallito golpe militare del luglio 2016), sostenendo la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Accuse insostenibili, si parla di «messaggi subliminali prima del colpo di stato».
Eppure Ahmet Altan, romanziere di valore, sarà – come lui stesso accusa – da oggi l’unico scrittore in galera dell’intera Europa. Sì, atlantica. Non troviamo aggettivi migliori.
Giacché considerare la Turchia del Sultano Erdogan una propaggine lontana e barbara della civiltà europea è pura menzogna. Erdogan è già, a modo nostro e suo, in Europa: è il nostro supermercato delle armi, di quelle italiane in particolare; e rappresenta il baluardo sud della Nato; oltre che essere attualmente, come “posto sicuro”, il campo profughi più grande e più affidabile che ci sia. Dove scarichiamo, con i migranti, la nostra coscienza pagando profumatamente miliardi di euro al governo di Ankara.
Al Sultano la coalizione degli Amici della Siria aveva poi affidato il lavoro di diventare il santuario (in addestramento e retroterra) dello jihadismo in ingresso nella guerra siriana per destabilizzare il Paese ormai ridotto in macerie e sentiero di rifugiati.
Can Dundar direttore del prestigioso quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, è stato condannato a 5 anni e 10 mesi di prigione per violazione del segreto di Stato per avere pubblicato lo scoop sul passaggio di armi in Siria con annessi traffici di petrolio tutti diretti all’Isis quando, solo un anno e mezzo, fa governava mezza Siria e mezzo Iraq. Ora è dovuto fuggire in Germania dopo avere subito un attentato alla vita.
Ora poi è un via vai di carri armati turchi in Siria. Il membro della Nato, infatti, con i tank tedeschi Leopard accompagnati in buona armonia dalle milizie legate ad Al-Qaeda e a parte del cosiddetto Esercito Libero Siriano, sta massacrando nel silenzio del mondo i curdi siriani ad Afrin, proprio mentre in Turchia 176 città dell’Anatolia a maggioranza curda sono sotto coprifuoco e il leader dell’Hdp Demirtas è in carcere.
Eppure, dirà qualcuno, la giornata era cominciata bene. Ed è vero. La prima notizia turca di ieri infatti era stata la liberazione di Deniz Yucel, corrispondente di Die Welt, dopo un anno di prigione in attesa del processo per «propaganda del terrorismo». Merkel si è subito congratulata.
Ma nelle ore successive si è capito quale era il dare e avere che Erdogan si giocava: da una parte ha ottenuto proprio ieri il via libero di Trump a cacciare da Afrin in Siria i curdi che ancora la difendono e che ora vengono abbandonati dall’impossibile alleato, gli Stati uniti, che finora sembrava sostenerli; dall’altra la liberazione del giornalista turco-tedesco di Die Welt mirava e mira in verità ad ottenere nello scambio il silenzio-assenso europeo sulla cancellazione di fatto della libertà di stampa in Turchia.
Perché altri giornalisti in carcere rischiano la stessa condanna: secondo il database dello Stockholm Center for Freedom, aggiornato a ieri, in Turchia sono detenuti 208 giornalisti, 33 quelli già condannati e altri 140 i ricercati, su cui pesa un mandato d’arresto.
Siamo nel posto che tutti i governi europei chiamano «sicuro», ma dove lo stato di diritto viene semplicemente fatto a pezzi e i giornalisti e gli scrittori vengono condannati all’ergastolo. Svetta e vince dunque l’arroganza e l’impunità di Erdogan.
Quando sapremo che cosa davvero è accaduto dentro la Nato prima e dopo l’improbabile e a dir poco impreparato “colpo di stato militare” del luglio 2016, partito dalla super-base atlantica di Incirlik, scopriremo probabilmente che l’Unione europea al suo interno – al di là dei lamenti e delle chiacchiere sulla «democrazia in pericolo» che anche adesso si leveranno – ha attivamente seguito quel tentativo, per poi altrettanto attivamente prenderne le distanze una volta sconfitto. In fondo è tutto accaduto dentro l’Alleanza atlantica. Che c’è e destabilizza allegramente a Est e a Sud. Mentre l’Unione europea resta sempre più un angoscioso punto interrogativo.

La Stampa 17.2.18
Turchia: “Sostegno a Gulen”, ergastolo per sei giornalisti
Tra i condannati i fratelli Ahmet e Mehmet Altan. Sono accusati di aver tentato di “sovvertire l’ordine costituzionale” in relazione al tentato golpe del luglio 2016
di Marta Ottaviani

qui

La Stampa 17.2.18
“Siamo sulla strada della dittatura
la magistratura è in mano a Erdogan”
L’intellettuale Baydar: “Una farsa, non esiste più libertà”
di Mar. Ott.


Un Paese ormai sulla strada della dittatura, una sentenza che è in primo luogo politica. Yavuz Baydar è un giornalista e uno scrittore turco che il giorno dopo il golpe è riuscito a scappare dalla Turchia. Oggi vive all’estero e ha fondato un giornale online, chiamato Ahval, in inglese, arabo e turco, che vuole rappresentare un mezzo di informazione libero e indipendente. A La Stampa ha spiegato cosa sta succedendo nel suo Paese e cosa significa l’ergastolo inflitto ad Altan e altri cinque reporter.
Yavuz Baydar, qual è la sua opinione su questa sentenza?
«Diciamolo subito e senza remore: questa è una sentenza farsa arrivata dopo un processo farsa. Sono stato in contatto con gli avvocati di Ahmet Altan durante tutta la durata del processo. Era una condanna già scritta e con un preciso messaggio politico».
Già scritta da chi?
«Dal presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, che ormai ha trasformato la magistratura in uno strumento del potere politico. Le vittime non sono solo le persone che sono state condannate, ma l’intera Turchia, che pagherà carissimo questo periodo della sua storia».
Però, la magistratura ieri ha preso anche una decisione positiva, ossia la scarcerazione di DenizYucel...
«Pensi, che coincidenza. Prima hanno annunciato la scarcerazione di Yucel e poi l’ergastolo ai sei colleghi. Così la stampa, soprattutto quella tedesca, si concentrerà maggiormente sulla prima...».
Che colpa hanno, almeno agli occhi di Erdogan, Ahmet Altan e gli altri condannati?
«Nessuna. Perché il loro arresto e la loro detenzione si basano su una trasmissione televisiva. Sono andati in carcere per aver partecipato a un dibattito televisivo su un’emittente che poi è stata chiusa nel quale si erano detti preoccupati per il futuro del Paese e aggiunto che c’erano tutti gli estremi perché si verificasse un golpe. Cosa che è successa pochi giorni dopo. Gli hanno dato un ergastolo solo per questo. In Italia sarebbe mai possibile una cosa del genere?».
Com’è la situazione all’interno del Paese?
«La Turchia è in Stato di Emergenza da oltre un anno e mezzo. L’opposizione è debole, frammentata ed Erdogan ha messo le diverse parti l’una contro l’altra. Non possiamo nemmeno contare sull’aiuto dell’Europa, un po’ perché all’Europa non interessa, un po’ perché Erdogan, che è un politico molto intelligente, gestisce le sue alleanze anche a seconda di quanto possano fargli pressione».
Che cosa succederà adesso?
«Erdogan continuerà a governare senza problemi. Ci sono ancora due sentenze molto importanti: quella sui giornalisti di Cumhuriyet e quella del deputato dell’opposizione, Enis Berberoglu. Se, come temo, anche questi verranno condannati, il colpo a livello psicologico sarà mortale».
Cosa mi dice della libertà di stampa?
«Che non esiste più da tempo. Tutti i giornalisti che si sono permessi di criticare Erdogan e la sua famiglia sono stati messi in carcere. Lui ne fa una questione anche personale. Chi lo critica diventa un nemico. Ormai siamo al livello dell’Azerbaigian e di altri Paesi autoritari».
Lei conosce personalmente Ahmet Altan da molti anni, cosa può dirci di lui?
«Che è una delle migliori penne che esistano. Una persona per bene, trasparente, che ha sempre detto quello che pensava. L’onestà intellettuale e la trasparenza per lui sono sempre venuti prima di tutto. In Turchia l’indipendenza si paga. Lo hanno sempre visto tutti come un nemico perché lui non faceva l’amico con nessuno. Per un turco non c’è niente di peggio. Credo che lui e il leader curdo, Selahattin Demirtas (anche lui sotto processo e in carcere, ndr) siano stati quelli in questo Paese ad avere avuto più coraggio di tutti».

Corriere 17.2.18
«Siamo come l’Italia nel ventennio fascista Ma l’Europa pensa solo a farsi ricattare»
Can Dündar: «Basta un tweet per la galera»
di Monica Ricci Sargentini


«È inutile chiedere prese di posizione forti all’Europa. Io non mi fido più. Non lo faranno. Loro pensano solo a fare affari con la Turchia, non hanno intenzione di inimicarsela». Can Dündar parla al telefono dalla sua casa in Germania dove vive in esilio dal giugno del 2016. La sua voce è fredda, non tradisce emozioni. Da poche ore si è avuta notizia della sentenza all’ergastolo aggravato per lo scrittore Ahmet Altan, suo fratello Mehmet, e la veterana del giornalismo turco Nazlı Ilıcak, 74 anni, e altri tre giornalisti. «Non chiamiamola prigione — dice al Corriere —, è tortura. Nel dispositivo della sentenza si prevede l’isolamento per i detenuti, un’ora di aria al giorno, restrizioni più severe per le chiamate e le visite dei familiari».
L’ex direttore di Cumhuriyet sa bene cosa voglia dire essere chiusi in cella. Lui fu arrestato con il collega Erdem Gül nel 2015 dopo aver rivelato il traffico di armi pesanti e munizioni destinate all’Isis e al-Qaeda in Siria orchestrato dal governo turco. Per quello scoop il deputato Enis Berberoglu, del partito secolarista Chp, è stato condannato a 25 anni di carcere nel giugno del 2017, pochi giorni fa la corte di Appello ha ridotto la pena a cinque anni.
Si aspettava una sentenza di condanna così dura?
«Assolutamente sì. C’era stato troppo clamore intorno al caso dei fratelli Altan e degli altri giornalisti. Era chiaro che la magistratura avrebbe dato una condanna esemplare. Ne seguiranno altre».
È finito lo Stato di diritto?
«La Turchia oggi assomiglia all’Italia nel periodo fascista. C’è un uomo forte al potere che usa la retorica nazionalista, quella delle quattro dita dei Fratelli Musulmani: una nazione, una bandiera, una patria, uno Stato. Il potere esecutivo, giudiziario e legislativo sono completamente in mano al presidente Erdogan. Diversi parlamentari del principale partito d’opposizione sono in prigione, per non parlare di quelli appartenenti al partito filo-curdo Hdp. Ormai non si può più parlare. Basta un tweet per finire in carcere».
E in tutto questo l’Europa cosa fa?
«Con l’accordo sui rifugiati l’Europa ha accettato un ricatto da parte di Erdogan, ha scelto di risolvere la questione dei migranti invece di difendere le persone che in questo momento in Turchia resistono e difendono i diritti umani. Per questo non mi aspetto più nulla. La Germania oggi (ieri, ndr ) ha ottenuto la libertà condizionata del corrispondente di Die Welt , Deniz Yucel. La decisione è frutto di una trattativa tra le più alte cariche dello Stato tedesco e quello turco. Ecco questo è l’atteggiamento europeo».
Però lei non si arrende. Cosa propone?
«Penso che l’unica strada che abbiamo davanti sia quella della società civile. Siamo noi che dobbiamo mobilitarci e far sentire a quei turchi che protestano che siamo al loro fianco. Al di là dei toni arroganti Ankara oggi è isolata internazionalmente ma sa anche che l’Europa non le volterà mai le spalle. Noi, invece, possiamo farlo. I risultati del referendum costituzionale del 2016 hanno dimostrato che metà della popolazione turca è pronta a resistere».
Il Papa, Mattarella e Gentiloni hanno appena ricevuto Erdogan a Roma ma non c’è stata nessuna presa di posizione forte a difesa dei diritti umani. Un segno di debolezza?
«È chiaro che nessuno in Europa è felice di ospitare il presidente turco. Lo fanno perché non possono farne a meno ma poi evitano le conferenze stampa per non rispondere ai giornalisti. Per riassumere: gli Stati della Ue non possono vivere senza Erdogan ma non vogliono vivere con Erdogan».
Tillerson e Cavusoglu hanno dichiarato che le relazioni tra i due Paesi si normalizzeranno. Ma a guardare la Siria non si direbbe.
«Le tensioni tra Ankara e Washington sono più forti di quelle con l’Europa. In Siria sono quasi in guerra, gli americani appoggiano i curdi siriani dell’Ypg che per i turchi sono terroristi».

il manifesto 17.2.18
I prigionieri politici palestinesi boicottano le corti israeliane
Israele/Territori occupati. La protesta, come in passato, è contro la detenzione amministrativa, il carcere senza processo. A sostegno sono annunciate marce e sit in in Cisgiordania
di Michele Giorgio


Non cessano le proteste palestinesi due mesi dopo la dichiarazione con cui Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele. Ieri al termine delle preghiere islamiche del venerdì centinaia di palestinesi hanno affrontato l’esercito israeliano a Hebron, Ramallah, Nablus e Gerico. Almeno sette i dimostranti feriti da proiettili sparati dai soldati israeliani, altri 18 sono stati intossicati dai gas lacrimogeni nei villaggi di Mazraat al Gharbyeh e Bilin vicino Ramallah, ad al Qaryoun e al Qisariya (Nablus) e in altre località della Cisgiordania. Non si protesta solo nelle strade. A quasi un anno dal lungo sciopero della fame nelle carceri israeliane contro la “detenzione amministrativa” (senza processo) promosso dal “Mandela palestinese” Marwan Barghouti, tre giorni fa 450 prigionieri politici hanno cominciato una nuova contestazione contro questa forma di detenzione proclamando il boicottaggio a tempo indeterminato delle corti militari israeliane.
In un comunicato i 450 detenuti “amministrativi” spiegano che la lotta deve partire dal boicottaggio del sistema legale israeliano e hanno subito ricevuto il sostegno della popolazione palestinese. Nei prossimi giorni sono previsti raduni e marce a Ramallah, Hebron e Nablus. L’Ordine degli avvocati ha dato pieno appoggio al boicottaggio che nella prima fase prenderà di mira le udienze processuali di conferma della detenzione. Poi toccherà alle corti militari di appello e agli eventuali ricorsi alla Corte Suprema. I detenuti “amministrativi” chiedono all’Autorità nazionale palestinese di presentare al Tribunale Penale Internazionale una richiesta di incriminazione di Israele.
La “detenzione amministrativa” è una misura restrittiva che risale al Mandato Britannico sulla Palestina, poi assorbita dal sistema legale israeliano. Ufficialmente potrebbe essere impiegata contro chiunque ma di fatto colpisce solo i palestinesi sotto occupazione militare (si contano sulle dita di una mano gli israeliani posti in detenzione amministrativa negli ultimi 50 anni). Prevede l’arresto e la detenzione senza accuse né processo per sei mesi rinnovabili a tempo indeterminato, in violazione degli art. 78 e 147 della IV Convenzione di Ginevra. Solo nella prima settimana di febbraio l’esercito israeliano ha spiccato 47 ordini di detenzione amministrativa, tra cui sei rinnovi.

il manifesto 17.2.18
Orbán verso la vittoria con la propaganda anti-immigrati e ong
Ungheria. Il voto dell’8 aprile, secondo i sondaggi, avrà un esito scontato. Il premier, nonostante le grane giudiziarie, punta dritto al suo terzo mandato
di Massimo Congiu


BUDAPEST Il primo ministro ungherese Viktor Orbán è alle prese con una grana giudiziaria. L’Ufficio antifrode dell’Ue (Olaf) denuncia una serie di irregolarità in operazioni svoltesi fra il 2009 e il 2014 per modernizzare gli impianti di illuminazione in una decina di città di provincia del paese. Si parla di attività che fruttarono ai beneficiari la somma di oltre 40 milioni di euro a fronte di appalti che, secondo l’Olaf erano gestiti in modo tale da premiare sempre la ditta Elios, di proprietà del genero di Orbán. Il tutto sarebbe avvenuto con la complicità dei sindaci interessati, tutti esponenti del Fidesz, il partito dell’attuale premier ungherese. La procura, controllata dal governo, ritarda l’avvio delle indagini e il primo ministro ostenta la solita sicurezza e porta avanti la sua campagna elettorale sicuro della «giusta vittoria» per un terzo mandato.
ORBÁN afferma con soddisfazione di aver debellato, nel suo paese, l’immigrazione clandestina. Quello dei flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente è un tema su cui il premier si esprime sottolineando la necessità della linea dura, perché a suo avviso il fenomeno mette a repentaglio la sopravvivenza dell’Europa e della sua identità culturale. Su questo Orbán gioca da anni una partita politica che gli ha fruttato non pochi consensi. L’argomento è al centro della sua campagna elettorale che vede il paese percorso da cartelloni governativi scritti per agitare lo spauracchio dell’invasione musulmana del paese e dell’intero Vecchio Continente.
Il premier è in sintonia con gli altri leader del Gruppo di Visegrád (V4, costituito da Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia) nel respingere la politica Ue sul fronte migranti e il sistema dei ricollocamenti che dal V4 viene considerato un ricatto in quanto vincola la possibilità di ottenere finanziamenti comunitari alla condizione di ospitare migranti. I paesi di Visegrád vivono la politica dell’accoglienza come un’imposizione che non tiene conto del volere dei governi nazionali e delle popolazioni interessate.
Sarà però utile sottolineare il fatto che, secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, nel 2017 l’Ungheria avrebbe accolto in segreto 1.291 profughi che si trovavano al confine meridionale, accordando loro il diritto d’asilo e lo status di rifugiati o la protezione umanitaria. Lo avrebbe reso noto l’Ufficio per l’immigrazione (Bah), dietro insistenze della stampa. Il paese doveva ospitare 1.294 richiedenti asilo ricollocati dall’Italia e dalla Grecia, ma il governo ha sempre respinto questo principio, nonostante il verdetto della Corte Ue. Del resto risulta che i 1.291 dell’anno scorso non hanno niente a che fare con la procedura dei ricollocamenti.
IL CONFRONTO con Bruxelles è da tempo uno dei cavalli di battaglia di Orbán il quale si prepara alle elezioni politiche dell’8 aprile con sondaggi che lo vedono in grande vantaggio rispetto ai suoi avversari politici. Alcune cifre parlano di un 34% a favore del partito governativo Fidesz, seguono a quota 13% Jobbik, che ha deciso di mettere da parte il radicalismo per vestire i panni della forza politica conservatrice sì, ma moderata, i socialisti al 9%, alcuni soggetti politici liberali e centristi che si collocano fra il 6% e il 3% e Momentum che proviene dalle lotte della società civile e che starebbe intorno all’1%.
A GENNAIO si è avuta notizia di procedimenti avviati dalla Corte dei Conti, controllata dal governo, per presunte irregolarità finanziarie da parte dell’opposizione. «È un attacco alla democrazia, Orbán vuole annientarci», è stato il commento di Gábor Vona, presidente di Jobbik. Gli ha fatto eco Péter Juhász, leader di Együtt (Insieme, centro), secondo il quale le elezioni dell’8 aprile «non saranno né libere né trasparenti», «cercheremo, comunque, di sconfiggere il regime corrotto di Orbán», ha aggiunto. Non sarà facile dal momento che la legge elettorale, voluta dal Fidesz, favorisce i partiti più forti; l’opposizione avrebbe delle opportunità solo se desse vita a una lista unitaria con candidati nei singoli collegi uninominali, ma allo stato attuale non sembra si stia aprendo uno scenario del genere.
Nel paese il peso della propaganda governativa è schiacciante, Budapest e le altre città ungheresi si sono riempite di manifesti con su scritto «Stop Soros». Il governo sostiene infatti la tesi che attribuisce al magnate americano di origine ungherese, il piano di riempire l’Europa di milioni di migranti musulmani. A questo proposito, nei giorni scorsi è stato presentato al Parlamento un pacchetto di leggi atto a colpire pesantemente le Ong impegnate nell’assistenza ai migranti e in particolare quelle finanziate dall’estero, quindi, secondo il governo, riconducibili a Soros. Le autorità di Budapest vorrebbero anche impedire a quest’ultimo l’ingresso nel paese. Alle obiezioni fatte a suo tempo, che facevano notare al ministro dell’Interno Sándor Pintér l’incostituzionalità del provvedimento in quanto Soros è cittadino ungherese, questi ha risposto che l’interessato ha la doppia cittadinanza e quindi il provvedimento è applicabile.

il manifesto 17.2.18
I rivoluzionari di Wolfgang Huber
Berlinale 68. In «SPK Komplex» di Gerd Kroske, presentato al Forum, il processo contro un teorico dell’antipsichiatria e alcuni membri del collettivo socialista in Germania nel 1970. Accusati di sostenere la Raf vennero condannati poi a pene durissime
di Cristina Piccino


BERLINO Al tappeto rosso pieno di star capita (sempre più spesso) di sacrificare i film. Politica mediatica dei direttori di festival che sembrano avere siglato un accordo. E così la Berlinale per il primo fine settimana, la data che è sempre centrale, esibisce la coppia Robert Pattison e Mia Wasikowska a costo di mettere in gara Damsel, lo pseudo-western demenziale dei fratelli David e Nathan Zellner che coi Coen non c’entrano nulla (un po’ vorrebbero in effetti) anche se riempiono questa loro rivisitazione del paesaggio americano di tipologie bizzarre, amanti molesti, cavallini nani, fanciulle col fucile, preti truffatori, cow-boy rudi e sporchi che bevono whisky – e chi non lo beve è una femminuccia – e crepano perché come ogni bravo macho fanno la pipì all’aperto marcando il territorio. Guai a distrarsi nel selvaggio West… Ma la Berlinale è grande, la cosa bella di questo festival è proprio la sua trasversalità, offerta multipla, si entra si esce si passa da una cosa all’altra e tutto è possibile grazie al numero enorme di sale e a un programma pensato per essere fruito da pubblici diversi.
Spk era la sigla che stava per il collettivo socialista dei pazienti, il cui ispiratore, Wolfgang Huber, praticava i metodi dell’antipsichiatria individuando nel malato mentale un «potenziale rivoluzionario», dunque che l’unica cura possibile era la «liberazione dei corpi dalla società patriarcale». Huber lavora all’università di Heidelberg, siamo nella Germania del 1970, i suoi metodi sono visti con più di un sospetto ma il gruppo continua a crescere e e attira l’attenzione dei media e della polizia che apre un’inchiesta accusando Huber e una decina di altri dell’Spk, una sorta di «circolo segreto» di sostenere la Raf. Le prove, sono armi e documenti falsi scoperti in una perquisizione – ma sappiamo che creare prove ad hoc è semplicissimo – Huber che era già stato sospeso dalla facoltà perché giudicato non idoneo a terapia e a insegnamento, viene arrestato insieme alla moglie e ad altre persone, non hanno avvocati difensori, si oppongono al processo, le pene saranno durissime (4 anni e mezzo tra isolamento e carceri speciali) visto il capo di imputazione, una generica accusa di «partecipazione a un’associazione criminale».
SPK Komplex, è il film di Gerd Kroske (nella selezione del Forum) e il titolo non è casuale: perché quanto cresce intorno all’Spk è un vero e proprio «complesso» che anticipa modi e procedimenti della Germania in autunno, sia nel processo che nelle accuse e nella campagna mediatica lanciata contro Huber (di cui oggi non si sa più nulla) e gli altri del gruppo, con prove esibite (verrebbe da dire costruite) per provarne la colpevolezza .
Alcuni passati per l’esperienza della Spk entrarono poi in clandestinità e nella Raf, come Carmen Roll, poi arrestata e emigrata in Italia, a Trieste, dove lavorerà con Basaglia. Altri come Lutz Taufer hanno partecipato a azioni armate, nel suo caso l’attacco all’ambasciata tedesca a Stoccolma, per cui è stato condannato all’ergastolo (ci furono due vittime), rilasciato nel 1995.
Krosk va a cercare i diversi protagonisti della storia, non solo gli accusati dell’Spk ma anche il giudice del processo, che oggi rifarebbe tutto allo stesso modo, chi come uno di loro ne è uscito e ha poi «collaborato» con la polizia divenendo il testimone chiave (undici persone sono finite in carcere a causa sua).
Le voci sono discordi: esisteva davvero un piccolo gruppo segreto nella Spk che pianificava attentati? O era solo una visione politicamente stridente a dare fastidio, una pratica che senza armi ma con la terapia e la discussioni collettive smascherava la società dell’epoca, il suo autoritarismo e quel rapporto irrisolto col passato, il nazismo? «La Raf non sarebbe mai esistita se non avessimo vissuto in una società post-fascista» dice uno degli intervistati, e non è casuale che l’esperienza della lotta armata sia forte proprio nei paesi usciti dal fascismo, Germania, Italia, Giappone tra quella generazione cresciuta dopo la guerra…
Krosk torna su un’epoca che il cinema tedesco è tornato molte volte, come il passato nazista e la società postbellica da cui ha preso origine quel «nuovo cinema tedesco» che voleva illuminare le contraddizioni e soprattutto le rimozioni aiutate da poteri forti e accordi internazionali rispetto al nazismo.
Ma un cinema è vitale anche per questa capacità di guardare nei risvolti sensibili del passato e seguendo una prospettiva non lineare, cosa che manca completamente nel nostro immaginario da cui sono stati rimossi colonialismo e ciò che viene definito un «tabù», quegli anni Settanta racchiusi, per lo più, sotto al segno del terrorismo tutti rivisti nell’ottica attuale. La repressione del governo tedesco contro la Spk, perfezionata poi con la Raf e i suicidi in cella, sembra speculare a quanto Huber contestava nella sua teoria di cura psichiatrica: i nuovi carceri isolano, impediscono la comunicazione, fondono i cervelli più di molti elettroshock, rendono folli o senza lucidità. «Il modo in cui ci si prende cura della malattia mentale indica che tipo di società si vuole essere» dice Roll che continua a lavorare nell’associazionismo con i migranti, citando Basaglia i cui obiettivi erano molto diversi da quelli di Huber che non prevedeva cure né luoghi di cura.
E dunque mettere a tacere Huber e il suo gruppo era un modo per testare il controllo sociale, i suoi strumenti e le sue pratiche? Krosk basa la sua narrazione, fatta di interviste oggi coi protagonisti di allora, tutte dolorose e piene di fatica, materiali del passato, registrazioni della voce di Huber, pagine dell’inchiesta e resoconti del processo, proprio su questa specularità che sottolinea appunto il progetto di un controllo sociale al di là (e al di qua) della lotta armata.

il manifesto 17.2.18
Ingmar Bergman: “Passeggio ancora per le strade di Uppsala”
Maestri del cinema. Suggestioni e riflessioni in occasione della rassegna dedicata al regista al Palazzo delle Esposizioni di Roma
di Orio Caldiron


Non c’è un altro caso in cui il cortocircuito tra autobiografia e storiografia, tra vocazione d’autore e storia del cinema s’imponga con altrettanta forza come nell’opera di Ingmar Bergman. Spettatore d’eccezione, sospeso tra frequentazioni compulsive e prolungate astinenze, il regista si sintonizza con i film degli altri fino a farli propri, altrettanti momenti della storia della sua vita. La scoperta del cinema risale al paesaggio incantato dell’infanzia in cui il piccolo Ingmar cresce circondato da «fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora», un mondo perduto e sempre ritrovato dove continua a aggirarsi per tutta la vita, rivivendo «luci, odori, persone, fatti, momenti, gesti, toni di voce e oggetti».
Nel cinema degli inizi l’incontro più importante è quello con Victor Sjöström, uno dei pionieri del cinema svedese: «Sjöström era uno dei più grandi registi del suo tempo. Certamente Stiller era un grande regista, ma Sjöström era un genio, un maestro. Il rapporto con Sjöström è stato per me molto importante». Il carretto fantasma (1920), il film-rivelazione a cui resterà legato tutta la vita, lo vede per la prima volta all’inizio degli anni trenta: «Almeno una volta all’anno ho bisogno di vederlo, è uno dei film più belli che ho visto nell’arco della mia vita. Ha influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari». La figura-chiave di Sjöström – che vorrà sul set di Il posto delle fragole (1957) dopo che era stato il consigliere artistico all’epoca del suo esordio di regista – richiama l’attenzione sul ruolo del primo piano: «Sono cresciuto con il cinema muto e, sembra banale a dirsi, ma il muto stava per diventare un’arte, perché l’arte cinematografica faceva vedere la più straordinaria scena di teatro: il volto umano». Non potrebbe essere più profonda la sintonia con il grande Dreyer di La passione di Giovanna d’Arco (1928), il film in cui il primo piano è fondamentale: «Non c’è esperienza più alta di quella che può offrirsi in uno studio di posa quando sotto la forza misteriosa dell’ispirazione il volto sensibile di un attore si anima e la sua espressione raggiunge le vette della poesia».
L’amore per il cinema francese tra le due guerre è per lui una passione clandestina e contrastata: «In quegli anni 1937, 1938 e 1939, sono arrivati i film francesi. La nostra compagnia li detestava. I film di Marcel Carné, Il porto delle nebbie, Alba tragica, sono dei veri capolavori. Devo aver visto il Il bandito della Casbah di Julien Duvivier almeno venticinque volte. Il mio era un amore segreto. Era assolutamente proibito perché il modo americano di raccontare le storie era la sola maniera possibile di fare il cinema». Il maestro svedese si è sempre divertito a descrivere il dipartimento sceneggiature della Svensk Filmindustrie, in cui avviene il suo primo apprendistato professionale, come una galera in cui Stina Bergman suona il tamburo e una mezza dozzina di schiavi cerca di trarre sceneggiature da romanzi, novelle e soggetti originali. L’energica direttrice del dipartimento è la vedova dello scrittore Hjalmar Bergman. Con il marito aveva seguito Sjöström nell’avventura americana, imparando a conoscere i meccanismi della drammaturgia hollywoodiana. «Era una drammaturgia cinematografica estremamente didascalica, quasi rigida: il pubblico non avrebbe mai dovuto avere dubbi su dove uno si trovava. Non doveva esserci alcuna incertezza a proposito dei personaggi, e i momenti di passaggio del racconto dovevano essere trattati e sistemati con molta cura. Le fasi culminanti dovevano essere divise e sistemate in punti ben stabiliti della sceneggiatura. L’apogeo doveva essere riservato per la fine. Le battute dovevano essere brevi. Le formulazioni letterarie erano proibite». Certo, quei film francesi erano così diversi da quelli americani. «E io sentivo il metodo francese molto più vicino a me. Se qualcuno mi avesse chiesto il perché, sarei stato incapace di spiegarlo ma, a partire dal momento in cui ho potuto, ho cercato di fare i miei film in stile francese, anche se senza molto successo». Lorens Marmstedt – il produttore che viene in suo aiuto dopo il clamoroso flop dei primi film – gli rimprovera brutalmente l’attaccamento ai suoi idoli francesi: «Devi tener presente che Birger Malmsten non è Jean Gabin e soprattutto che tu non sei Marcel Carné». Negli stessi anni del dopoguerra, il cinema americano sembra ripendersi la rivincita nelle predilezioni del giovane cineasta con la suggestione di un genere come il noir, destinato a rinnovare la drammargia del cinema classico americano: «I registi del noir erano i miei idoli all’epoca. Un regista che ha avuto molta importanza per me è Michael Curtiz. Mi ricordo che con Lars-Erik Kjellgren, eravamo molto amici, andavamo a vedere i film di Curtiz per imparare, rivedevamo lo stesso film anche molte sere di seguito, ed era maledettamente utile. Possedeva il dono di raccontare una storia dall’inizio alla fine in maniera semplice, chiara e ordinata, esattamente come Raoul Walsh».
Negli anni successivi non viene meno la disponibilità a concedersi alla fascinazione hollywoodiana, che gli sembra incarnare perfettamente il meccanismo stesso dello spettacolo cinematografico. Sta a sé un regista come Alfred Hitchcock, che gli sembra per molti aspetti «un personaggio arrogante, sgradevole, cattivo e molto intelligente», di cui non si possono tuttavia misconoscere le grandi qualità di metteur en scène. «È stato un regista magnifico perché ha saputo sperimentare molto, all’interno di un’industria interamente commerciale. Era molto difficile. E se si vede – io posso vederlo e rivederlo – Psyco, quel bizzarro film che amo tanto, è incredibile. Quell’uomo avido l’ha fatto con soldi suoi, una piccola troupe, e una tale logica, una tale precisione, una tale ossessione della qualità cinematografica. Ammiro molto Psyco. E anche Nodo alla gola, tecnicamente parlando non è del tutto riuscito, ma l’idea è assolutamente geniale».
Negli anni settanta, il regista non approva l’atteggiamento polemico che molti assumono nei confronti del cinema hollywoodiano, contestato soprattutto sul piano politico. Il cinema americano gli sembra tuttora incarnare la gioia infantile dello spettacolo, l’esperienza tonificante dell’evasione. «Bisogna stare in guardia soprattutto quando si ha a che fare con cose che vorrebbero essere altro da quelle che sono realmente. Ma John Ford non fa mai niente di tutto ciò, ed è per questo che nella storia del cinema è un grande e onesto figlio di puttana. Si può anche dire che dopo tutto il cinema non è poi così importante, è un bene di consumo, qualcosa che si produce, e alcune pentole vengono bene e altre meno. Ma ripeto: bisogna condannare solo le false pretese, il sedicente patetico, la tragedia simulata – è questo che mi fa vomitare. Perché è veramente un veleno».
Nelle varie occasioni in cui è venuto ricostruendo i tratti essenziali della propria attività creativa, Bergman ha sottolineato con energia il processo di immedesimazione profonda che esiste tra l’autore e i propri film: «La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno, e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà».
Non sorprende che per il maestro svedese il punto d’arrivo del cinema contemporaneo sia Andrej Tarkovskij. «Quando il film non è un documento, è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare? È un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media». La scoperta di Tarkovskij è considerata uno stimolo in grado di indicare un traguardo possibile, di marcare una soglia dell’espressione cinematografica: «Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto penetrare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio. Io mi vidi incoraggiato e stimolato: qualcuno era riuscito ad esprimere quello che io avevo sempre voluto dire senza sapere in che modo. Se Tarkovskij è per me il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita come sogno».
La linea di tendenza è molto netta: «Fellini, Kurosawa, Buñuel si muovono nello stesso modo di Tarkovskij. Antonioni era sulla stessa strada ma cadde sopraffatto dalla propria noiosità». Ma non è meno forte il rischio della maniera: «Amo e ammiro Tarkovskij e penso che sia uno dei più grandi registi. La mia ammirazione per Fellini è sconfinata. Ma mi sembra che Tarkovskij abbia cominciato a fare film alla Tarkovskij e che Fellini negli ultimi tempi abbia fatto alcuni film alla Fellini. Kurosawa non ha mai fatto film alla Kurosawa. Invece non mi è mai piaciuto Buñuel. Scoprì presto che poteva fabbricare delle artificiosità che potevano essere elevate a una sorta di speciale genialità buñueliana, e così ripeté e variò i suoi artifici, con risultati sempre ugualmente graditi. Buñuel fece quasi sempre film alla Buñuel. È quindi tempo di guardarsi allo specchio e domandarsi: che cosa è successo veramente? Bergman ha dunque cominciato a fare film alla Bergman?».
La simpatia che ha sempre dimostrato per il cinema francese trova una conferma solo parziale nella Nouvelle Vague, di cui apprezza i primi lavori di Jean-Luc Godard e Jules e Jim (1961) di François Truffaut, ma viene messa poi a dura prova da film come Una storia americana (1966), Due o tre cose che so di lei (1967), La cinese (1967), che considera irritanti. Il giudizio sul New American Cinema è particolarmente caloroso: «Mi piace molto il New American Cinema. Davvero lo apprezzo. È talmente vitale. Se ne fregano loro delle apparenze e del risultato. Sono assolutamente privi del manierismo dei francesi, di tutto ciò che è spumeggiante e fuori dell’ordinario, un po’ ostentato e sterile. Fanno scoppiare freneticamente tutto, altroché. E trovo bella l’irrequietezza, la vitalità e la gioia».
Nei confronti del cinema italiano del dopoguerra non sembra andare oltre un apprezzamento generico, di circostanza. Ammette di aver girato alcuni dei suoi primi film «sotto il forte influsso di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano». Cita più volte Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, che considera uno dei suoi film preferiti se non il preferito, ma poi sottolinea pesantemente l’inadeguatezza della recitazione dell’attore non professionista. L’eccezione è, come si sa, Federico Fellini, con cui il maestro svedese ha avuto un lungo, discontinuo, altalenante rapporto personale dalla visita sul set di Fellini Satyricon (1969) all’appuntamento mancato al Lido di Venezia quando Bergman vede da solo E la nave va (1983) in una saletta del Palazzo del Cinema. «Ho una grande ammirazione per Fellini, sento una specie di fraterno contatto con lui, non so esattamente perché. Ci siamo spesso scambiati lettere brevi e confuse. È buffo. Lo amo perché è se stesso, è chi è e ciò che è. Il suo carattere è qualcosa che mi commuove, benché sia profondamente diverso dal mio. Ma lo comprendo benissimo e l’ammiro enormemente. Mi si dice che sia affascinato dai miei film. Provo lo stesso sentimento per i suoi».
Sarebbe sviante ricondurre gli interessi e le scelte dello spettatore Bergman a una precisa influenza stilistica di un cineasta su un altro cineasta: «Non ho subito influenze stilistiche da nessun altro regista. Ma le influenze non sono tanto quelle che derivano dalle implicazioni professionali. La vita tutta intera ci influenza. I cineasti, meno di tutto il resto. Perché io non vedo il mondo come loro. Beninteso, rimango influenzato largamente dai nuovi modi di fare il cinema dove non si bada agli effetti d’illuminazione e dove si possono ottenere efficaci risultati con il minimo d’attrezzatura. In un certo modo si ritorna, così, al cinema delle origini, quando tutto era semplice». Il problema è tutt’altro che marginale se è in grado di ricondurci al centro incandescente dell’opera bergmaniana, alle sue ragioni profonde, radicate nella soggettività dell’autore: «Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna. Un nulla nel nostro nervo ottico, uno shock: ventiquattro quadratini illuminati al secondo, e tra di essi il buio. Quando al tavolo di montaggio esamino la pellicola quadratino per quadratino, la sensazione di magia della mia infanzia mi dà ancora i brividi: là nell’oscurità del guardaroba, girando lentamente la manovella, facevo succedere un quadratino all’altro, osservavo i cambiamenti quasi impercettibili; giravo più veloce un movimento. Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, scintillante, il fruscio della croce di Malta, la mano sulla manovella».
Se qualcuno teme le contraddizioni – che possono essere numerose non solo nella propria opera, ma anche nell’intreccio di percorsi e di atteggiamenti con cui ogni cineasta si incontra con le opere degli altri – l’invito di Bergman a avere fiducia nelle proprie emozioni sottolinea ancora una volta la forza del sogno, il richiamo alle ragioni più segrete dell’io. «Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Se si ha fiducia nelle proprie emozioni, si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre». Nel suo ritiro di Fårö, il maestro svedese ha ripreso in mano fino all’ultimo i film della sua cineteca personale o quelli che il Filminstitutet gli presta, ritrovando il «piacere eterno» della visione, il fascino inesauribile delle ombre che si muovono. «La sedia è comoda, la stanza protetta, si fa buio e la prima tremante immagine compare sulla parete bianca. È silenziosa. Il proiettore ronza piano nella sala di proiezione ben isolata. Le ombre si muovono, si girano verso di me, vogliono che io presti attenzione al loro destino. Sono passati tantissimi anni, ma l’eccitazione è sempre la stessa».

Il Fatto 17.2.18
Il fulcro della musica sacra di Bach è Bach
La riforma - “Io, io, io”: il Cantor al servizio della fede più che il Dio di Lutero mette al centro se stesso
Il fulcro della musica sacra di Bach è Bach
di Paolo Isotta


Molti considerano Beethoven il culmine dell’arte della musica e del suo sviluppo storico; altri vedono tale apice in Wagner; certo con pari fondamento tale culmine può essere reputato Bach. Ma del pari Johann Sebastian è considerato il vertice della musica sacra luterana, e del rapporto fra il luteranesimo e la musica. Nella trattazione che, per i cinquecento anni della Riforma, ho promessa del tema, eccoci al punto capitale.
Che la fama di Bach si fosse oscurata nel Settecento oggi sempre meno si crede. La sua opera per tastiera, atta al clavicembalo ma ancor più al moderno pianoforte, e in particolar modo Das wohltemperierte Clavier, venne da subito vista come il testo capitale per la formazione pratica e di altissima teoria musicale del pianista, e del compositore; e direi, insieme con le Sonate del coetaneo Domenico Scarlatti. Pure, la rivendicazione che di Bach si fece sin dal primo Ottocento ha il doppio carattere del nazionalismo tedesco e del nazionalismo luterano: che poi sono una cosa sola. La biografia del Maestro incoraggia a vederlo l’aedo principe della Riforma. Ebbe varî impieghi, ma a un certo punto fu dipendente della città di Lipsia nella qualità di Cantor. Doveva provvedere al servizio di musica liturgica, nonché all’insegnamento.
In questa veste Bach compose le sue opere oggi più celebri, le Passioni; e la gran massa di Cantate per il servizio domenicale. Sono impregnate di una pietà religiosa profondissima; e certo nell’intenzione dell’Autore esse debbono, se non propagandare la religione, di certo esortare verso di essa. Ma con quali mezzi? Bach è un sommo architetto della musica, e certo v’è in lui qualcosa dei costruttori di cattedrali gotiche. Ma è una personalità dotata d’una necessità espressiva violentissima, a tratti addirittura morbosa, d’un lirismo intenso e debordante. Le sue Passioni sovente scandalizzavano i pii ascoltatori perché apparivano loro musica teatrale. La musica doveva essere al servizio della Parola liturgica; la musica di Bach la prende, la Parola, la sussume, la incornicia entro forme gigantesche, ne fa oggetto di una interpretazione, poi di una rappresentazione, così violenta, così personale, così pittorica, così scultorea, così derivata sia dalla tecnica dell’affresco che da quella della miniatura, da annullarne l’obbiettività. Il protagonista della musica sacra di Bach è Bach assai più che il Dio veterotestamentario e il Cristo Salvatore; allo stesso modo, per esempio, che la Cantata Avevo molta afflizione incomincia con la poderosa ripetizione corale del pronome Io, tre volte: “Ich, ich, ich”.
Nessuno ha eretto al Corale luterano il monumento della sue opere per organo – e dei suoi Mottetti, che sono forse il culmine stesso della polifonia vocale. Ma la selva del linguaggio e le proporzioni lo eternano sottraendolo alla liturgia, alla stessa religione. L’insieme della creazione di Bach lo mostra genio faustiano e proiettato verso il futuro. Forse la musica strumentale gl’importava addirittura di più. La stessa finitura, la stessa pervicacia, egli adopera nelle Variazioni scritte per alleviare l’insonnia di un nobile diplomatico, nella Messa cattolica per l’elettore di Sassonia, nei Concerti, nelle Sonate e Partite: nelle grandiose Cantate profane, che ce lo mostrano sommo Autore di teatro che al teatro non si accostò mai. Le opere teoriche di questo latinista e grecista – Il sacrificio musicale e L’Arte della Fuga – palesano un’ambizione, pienamente attuata, di chi si considera il punto di confluenza della storia della musica e addirittura l’erede di Pitagora. E questo sarebbe il pio artigiano al servizio della Fede?

Corriere 17.2.18
La mente quantica
Il desiderio di trovare spiegazioni esoteriche a quello che ci accade è sempre stato forte. Ora è la fisica quantistica ad alimentare nuove credenze su telepatia e telecinesi. Ma cosa c’è di vero?
di Anna Meldolesi


Magnetismo animale, forza odica, aura. L’idea che esistano forme di energia psichica in grado di produrre effetti paranormali ha cambiato nome nel corso dei secoli, sfruttando le suggestioni offerte dalle scoperte scientifiche più in voga. Ora è il turno della fisica quantistica che viene tirata per la giacchetta per giustificare e rilanciare credenze che sono vecchie quanto l’uomo. Sogni un vecchio amico e il giorno dopo lo incontri? Hai brutti presentimenti e poi qualcosa va storto? Senti di aver già vissuto questo preciso momento? Potrebbero essere segnali inviati dalla tua mente quantica. Una sorta di inconscio new age che un giorno, secondo qualche guru, potrebbe spiegare l’inspiegabile, dando dignità scientifica a fenomeni controversi come telepatia e telecinesi.
Il desiderio degli esseri umani di trovare spiegazioni esoteriche per eventi al limite della plausibilità è più forte della voglia di mettere alla prova la credibilità di questi stessi eventi, sostiene lo scrittore Philip Ball nel libro «Invisibile», dedicato al fascino pericoloso di quel che non si vede. Sta di fatto che viviamo circondati da scienza e tecnologia, ma non abbiamo perso interesse per magia e misticismo. Se pensiamo alla storia dell’umanità come a una cavalcata in cui la ragione ha sottratto spazio all’irrazionalità, allora il paradosso è eclatante: abbiamo imparato che i terremoti non sono causati dall’ira divina e le epidemie non sono opera delle streghe, ma a molti continua a piacere l’idea che esista qualcosa che va oltre la scienza. A pensarci bene, non si tratta di una contraddizione emersa di recente. Anche durante l’Età dei lumi, ad esempio, l’occultismo prosperava. Mentre gli illuministi affermavano il primato dell’intelletto, un medico tedesco di nome Franz Anton Mesmer diffondeva l’idea che il corpo umano contenesse un fluido magnetico che poteva essere incanalato per influenzare altri corpi, oltre che per guarire. Mesmer dovette lasciare Vienna alla volta di Parigi, dopo essere stato accusato di frode, poi nel 1784 venne smentito da due commissioni scientifiche nominate dal re Luigi XVI. Ma la sua teoria, il mesmerismo, è entrata nella cultura popolare, con il mito delle artiste magnetizzatrici, come l’acclamatissima Adelaide Ristori, e i trucchi del mago Houdini. Ancora oggi gli oroscopi spesso consigliano di fare affidamento sul magnetismo animale. Cosa intendano esattamente non si sa: dobbiamo lasciarci guidare dalla forza cosmica che tutto pervade? O esercitare il nostro naturale carisma sul prossimo? C’entra qualcosa il battito animale di quella canzone di Raf?
Probabilmente la parola magnetismo funziona proprio perché è polimorfa, pur sembrando precisa. Gli studiosi del paranormale ricordano anche una variante italiana del mesmerismo, in cui al posto del fluido magnetico ci sono radiazioni cerebrali altrettanto enigmatiche. È la teoria elaborata dallo psichiatra Ferdinando Cazzamalli nel libro «Il cervello radiante», e pare che il Pentagono si sia addirittura preso la briga di tradurre e conservare questo testo in un archivio rimasto segreto fino a dieci anni fa.
I razionalisti tendono a pensare che scienza e pseudoscienza siano due mondi opposti ed ermeticamente separati, ma nel corso della storia i progressi scientifici sono regolarmente confluiti nell’immaginario e nel lessico del paranormale. Non è un caso che il movimento spiritualista, secondo cui era possibile comunicare con i morti, si sia diffuso nel secolo in cui sono arrivati telegrafo e telefono. La scoperta dei raggi X ha consentito di vedere lo scheletro dei vivi e ha alimentato, di conseguenza, le fantasie sull’oltretomba. Insomma è inevitabile che la parapsicologia ora si diletti con il repertorio della meccanica quantistica, per interpretare le nostre esperienze di esseri umani alle prese con lacune, inconsistenze, deformazioni della realtà. Dai salti quantici al principio di indeterminazione, dal dualismo onda-particella al fantomatico gatto di Schrödinger. Poche persone sono davvero in grado di afferrare questi concetti, ma in tanti li usano e abusano. Persino la regina delle riviste scientifiche, Nature , negli anni 70 ha flirtato con la parapsicologia, pubblicando lo studio di due fisici pronti a prendere sul serio l’illusionista Uri Geller. Poi è toccato alle pseudo-guarigioni quantiche dell’indiano Deepak Chopra, che per le sue disinvolte metafore scientifiche ha vinto l’anti-Nobel. Infine è arrivato il bestseller dell’americano Fritjof Capra, «Il Tao della fisica», tutto giocato sulle analogie tra scienza moderna e misticismo orientale.
Jean Bricmont ne ha scritto nel libro «Quantum Sense and Nonsense» e David Kaiser in «Come gli hippie hanno salvato la fisica». Qualche studioso ha raccolto l’eredità del fisico Roger Penrose, autore di «La mente nuova dell’imperatore», per esplorare scientificamente l’ipotesi che la fisica quantistica possa contribuire a spiegare la nascita della coscienza. A conti fatti, prove che il cervello usi trucchi quantistici non ce ne sono e alla credibilità di questi sforzi non giova il proliferare dei ciarlatani su internet. «Nessuno capisce cosa sia la coscienza o come funzioni. Nessuno capisce neppure la meccanica quantistica. Coincidenze?», si è chiesto ironicamente Philip Ball sulla BBC . La risposta è: molto probabilmente sì. Ma a qualcuno verrà spontaneo rispondere: «Io non credo».