sabato 18 giugno 2011

l’Unità 18 .6.11
Rabbia dei precari 4 giorni di proteste. In collegamento con Spagna e Grecia, anche in Italia esplode la rivolta degli invisibili Manifestazione
a Montecitorio
Domani anche i precari italiani partecipano alla giornata di protesta collettiva
La rivolta di piazza andrà avanti fino al 22, giorno in cui si approva il decreto sviluppo
«Indigniamoci», in piazza la parte migliore dell’Italia
Come nel resto d’Europa, domenica 19 giugno anche l’Italia vivrà la sua giornata d’indignazione collettiva. E a proclamarla è la classe più sfruttata, tenuta ai margini della società: i precari.
di Luciana Cimino


Come nel resto d’Europa, domenica 19 giugno anche l’Italia vivrà la sua giornata d’indignazione collettiva. E a proclamarla è la classe più sfruttata, tenuta ai margini della società e da qualche giorno anche vilipesa dal governo: i precari. In connessione con quanto avverrà lo stesso giorno nelle piazze greche, spagnole e francesi che protesteranno contro la gestione della crisi economica mondiale, dalle ore 18 piazza Montecitorio a Roma e, per ora, piazza Mercanti a Milano si uniranno alla lotta promossa dai movimenti europei.
Davanti al Parlamento, dunque, si ritroveranno i lavoratori precari che si riconoscono intorno ai punti di San Precario, quelli auto organizzati della Pubblica Amministrazione, i giornalisti precari, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo in protesta che proprio in settimana hanno occupato lo storico teatro Valle. «Verremo da tutta Italia in rappresentanza degli circa 150 mila precari della scuola – spiega Francesco Cori, del Coordinamento precari scuola – porteremo le tende e un camper, puntiamo ad andare avanti fino al 22». E cioè il giorno dell’approvazione del decreto sviluppo.
Contestata è la norma del decreto che in sostanza abolisce la possibilità di ricorso da parte dei precari, previsto invece dalla normativa europea. «È una cosa gravissima continua Cori in questo modo non esiste nessun principio che sancisce la fine del precariato, al contrario si stabilisce che può durare in eterno. Il decreto sviluppo attacca noi della scuola ma riguarda i precari in generale. Ma protestiamo già da oggi anche contro tutte le manovre fatte a danno le scuola pubblica». Il giorno dopo, “il clou” della protesta. «L’assemblea poi deciderà se rimanere a oltranza in piazza», dice Rafael di San Precario.
Ad acuire la tensione, poi, l’intervento del ministro Brunetta. Quel «voi siete l’Italia peggiore» all’indirizzo dei precari, pronunciato qualche giorno fa e rilanciato in maniera esponenziale dai social network, ha fatto saltare il coperchio a una pentola che ribolliva da mesi. «La nostra grande visibilità in questo momento ci consegna la responsabilità di lanciare la piazza dell’indignazione precaria. Su web e social network ci siamo ripresi un diritto di parola negato, adesso ci incontriamo per dare corpo e anima alla nostra indignazione contro la precarietà delle nostre vite». In piazza ci sarà anche Maurizia Russo Spena, la precaria dell’agenzia del Ministero del lavoro, Italia Lavoro, che con il suo intervento al convegno ha scatenato la reazione scomposta di Brunetta: «Stiamo puntando in alto. Non ci basta avere un lavoro retribuito chiediamo la dignità, l’accesso ai servizi e di partecipare. Abbiamo deciso dopo l’intervento del ministro di legarci ad alte realtà di precariato e vittime della crisi per rilanciare la protesta e parlare precarietà dell’esistenza non solo del lavoro», commenta. Ma la giornata dell’indignazione vuole essere soprattutto un messaggio di sfratto per Berlusconi, con firma dei precari. «Il 21 il Parlamento è chiamato a votare la fiducia da questo governo sfiduciato inequivocabilmente e dal basso dalla maggioranza delle cittadine e dei cittadini con il voto referendario – si legge nell’appello Proponiamo all'Italia precaria l'assedio sociale e civile del Parlamento. Perché la sfiducia che abbiamo già lungamente espresso a questo governo e alle politiche che ovunque vogliono far pagare ai molti la crisi di pochi, si imponga definitivamente».

il Fatto 18.6.11
Tagli poco istruttivi
Il ministero manda a casa 20 mila insegnanti e le scuole non potranno garantire molti servizi
di Chiara Paolin


Anche stamattina qualcuno andrà in sala professori e dirà: io sciopero. Ma saranno pochi e stanchi, perché ormai la scuola è un campo di battaglia dove le vittime cadono a decine di migliaia e nessuno riesce più a capire quale possa essere la forma di protesta più utile. In Liguria, nel Lazio, in Piemonte, i sindacati di base tengono duro e rallentano gli scrutini, ma è una lotta sempre più disperata dal momento che la prospettiva è chiara: indebolire il comparto pubblico per far risaltare sempre più le prestazioni – a pagamento – dei privati. “Abbiamo capito tutti come funziona ormai – spiega Barbara Battista, insegnante di informatica in un istituto tecnico e sindacalista Usb –. Negli ultimi tre anni sono stati eliminati 87 mi-la insegnanti - di cui 20 mila sono l’ultima tranche di cui ha parlato ieri il Fatto - e 45 mila tecnici, ma il guaio vero è un altro: nello stesso periodo ci siamo persi 68 mila posti a tempo determinato. Cioè, contrariamente a quanto sempre promesso da Gelmini e Tremonti, non si è affatto deciso di intervenire sui precari (che calano solo dell’1 per cento) ma sui ruoli stabili. Dal 2005 al 2015 avremo circa 300 mila pensionamenti: quanti di questi diventeranno nuove assunzioni? Per ora, nessuno”. Un duro colpo all’occupazione, in un settore dove lo Stato non ha mai previsto incentivi o cassa integrazione. E soprattutto un disagio che ricade dritto dritto sugli utenti. “Al Sud poi non ne parliamo, ci sarebbe da ridere se non fosse che ci vanno di mezzo i ragazzi – dice Santo Molino, preside del polo scolastico di Librino, quartiere popolare di Catania –. Noi siamo l’unico istituto della provincia che per l’anno prossimo avrà confermate le classi di orario prolungato, ma al momento ho solo la certezza della fascia pomeridiana e non del corpo docente. Cioè mi dicono: puoi continuare a tenere gli alunni a scuola, ma non sappiamo ancora chi si occuperà di loro. Però in provincia ci sono 260 insegnanti di ruolo senza più cattedra: li useranno come tappabuchi, e sono tutti professionisti eh, mica ragazzini. Qualcuno arriverà anche da noi, almeno spero”.
ESEMPI concreti: gli istituti tecnici, invece di 36 ore di laboratorio, ne faranno 30. Quindi, migliaia di insegnanti diventano inutili. Oppure: classi accorpate da 28 studenti, passando da tre sezioni a due, e vai coi tagli. Oltretutto, se gli alunni sono più di 20, diventa impossibile inserire un disabile. L’ultimo caso, pochi giorni fa, in una scuola elementare del centro di Roma: Antonella non trovava posto in nessuna classe vicino casa, e il dirigente scolastico, temendo un’azione legale al Tar, ha ceduto riducendo a 20 una scolaresca (e ributtando sulle altre classi i 6 bimbi di troppo). Il Coordinamento delle Scuole elementari di Roma è furibondo: “A fronte di un aumento di nuove iscrizioni in città di 1.636 alunni, sono state tagliate 111 classi già funzionanti e le nuove richieste di tempo pieno (52 classi) non sono state soddisfatte – spiega una nota –. Nella quasi totalità delle scuole di Roma e provincia non sono stati assegnati gli insegnanti specialisti di Inglese. I docenti di sostegno in organico di diritto sono stati assegnati con un rapporto di 1 ogni 4 alunni. A ogni istituzione scolastica è stato ridotto l’organico docenti di almeno una unità, a prescindere dalle classi assegnate”. Per questo il coordinamento invita tutti i genitori a inviare cartoline poco vacanziere al ministero dell’Istruzione specificando che “La scuola è un bene comune, come l’acqua”.
“NON SO PER quanto” insiste Barbara Battista, già pronta alla prossima denuncia. Consegnata direttamente al Senato: “La settimana scorsa ci hanno convocato per una consultazione e noi abbiamo approfittato per raccontare un fatto inedito. In alcune commissioni d’esame che si apprestano a svolgere le prove di Stato saranno impiegati insegnanti pagati a cottimo. Cominciando a scarseggiare il corpo docente, e volendo evitare le spese normalmente previste per rimborsare la funzione, si fa ricorso a contratti per personale esterno che verrà pagato 15 euro a ragazzo. Non sto parlando di scuole private, parificate , diplomifici e cose del genere, ma di normalissimi istituti pubblici”. Del resto, 15 euro sono una bella cifretta nella scuola del 2011: è quanto percepiranno i presidenti di commissione per l’esame della terza media. Mica a ragazzo: in tutto. Per diversi giorni di lavoro e (anche) 10 classi da valutare. Gli uffici scolastici, fioccando le defezioni, stanno disperatamente convocando insegnanti e dirigenti già in pensione. Meglio che i giovani capiscano subito cosa li aspetta per il futuro.

l’Unità 18 .6.11
Il manifesto del Pd per il lavoro. Sei punti per rimettere in moto l’occupazione partendo dai ragazzi Intervista a Marini: «Dobbiamo difendere il contratto nazionale»
500 delegati da tutta Italia alla Fiera di Genova. Tanti giovani, tanta Cgil, tanta voglia di sinistra
Fassina illustra lo studio di sintesi. Le parole d’ordine: meno precarietà, più stabilità e sicurezza
Più lavoro meno precari, ecco la «rivoluzione gentile» del Pd
Il lavoro al centro della politica. I giovani, le donne, i precari al centro della proposta del Pd. Parte da Genova, l’offensiva dei democratici determinati a parlare con gli elettori del referendum e delle amministrative.
di Maria Zegarelli


Il lavoro al centro della politica. I giovani, le donne, i precari al centro della proposta del Pd. Parte da qui, da Genova, l’offensiva dei democratici determinati a parlare con quel Paese che con le amministrative prima e i referendum poi ha mandato un messaggio inequivocabile: cambiamento e nuove politiche. Mentre Berlusconi e Bossi si perdono dietro ad un braccio di ferro che rischia di spezzare le ossa a entrambi il Pd annuncia il suo piano nazionale per il lavoro, ma incalza anche su una specifica iniziativa europea che sia centrata su occupazione, ambiente e innovazione. Stefano Fassina, padrone di casa di questa due giorni ligure, su «Persone, lavoro democrazia» che vede 500 delegati da tutta Italia alla Fiera di Genova, tanti giovani, tanta Cgil, tanta voglia di «sinistra» e di proposte concreteillustra il lavoro di sintesi di mesi e mesi di incontri sul territorio e nel partito. In sala il ghota del partito: da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, Franco Marini, Cesare Damiano, Pietro Ichino, Ivan Scalfarotto, i segretari di Uil e Cisl, Angeletti e Bonanni, Camusso in collegamento video e applauditissima, rappresentanti di Confindustria, Fiom, organizzazioni e associazioni. Da dove passa la rivoluzione gentile? Dal contratto di apprendistato come canale principale per l’accesso al lavoro stabile; da costi più alti per il lavoro precario e più agevolazioni per quello stabile; dal sostegno alle pensioni dei lavoratori più giovani e meno tutelati e drastica riduzione delle forme contrattuali, ma soprattutto dagli incentivi all’occupazione femminile e conciliazione tra lavoro e maternità.
E poi ancora defiscalizzazione per i primi tre anni elle nuove imprese avviate da giovani; salario minimo di ingresso: stage limitati a sei mesi e retribuiti; riforma degli ammortizzatori sociali; universalizzazione dell’indennità di maternità; introduzione dello Statuto dei lavoratori autonomi e professionisti. Non si tocca, infine, il contratto nazionale, si riforma, «ma resta uno strumento irrinunciabile». Dibattito acceso. Questa la sfida: «Ridefinire il ruolo del lavoro per affermare un neo umanesimo integrale, una sfida ambiziosa in un tornante storico difficile». Che si può vincere con l’innovazione e una nuova «etica» che investe politiche e le scelte sul futuro, riguarda direttamente l’Europa e i partiti progressisti che vi siedono. A questi si appella D’Alema, che dice «c’è più socialismo nelle politiche di Obama che in quello che è riuscito a fare la vecchia Europa». D’Alema ne è convinto: presto «ci troveremo alle prese con il governo del Paese, sarà una grande festa la sera ce avverrà ma già dalla mattina seguente sarà una grande impresa». E allora molto dipenderà dal quadro europeo: la linea rosso-verde della Germania; l’alternativa socialista a Sarkozy in Francia e il pd in Italia potrebbero nei prossimi anni essere il vero puntodi svolta. «Lo dico a Pierluigi: se le forze che si candidano al governo andassero alle elezioni con alcuni punti forti sulla politica europea», dalla riduzione del debito, alla tassazione finanziaria, allora davvero potrebbe esserci lo scatto in avanti. Critico il giuslavorista Pietro Ichino: «Estendere a tutti i contratti a tempo indeterminato e le tutele essenziali, ma far sì che nessuno sia inamovibile, perché il diritto del lavoro non può più garantire l'inamovibilità. Allo stesso modo occorre garantire la continuità del reddito e di contribuzione, garantire la continuità del reddito e di contribuzione previdenziale a chi perde il posto di lavoro, investendo sulla sua formazione e la professionalità». Ichino risponde a chi legge come una divisione il suo documento «alternativo»: «L’unità del Pd non nasca dal pensiero unico ma da una grande pluralità d'idee, contributi e punti di partenza». Da Roma plaude al contributo del giuslavorista, Walter Veltroni che definisce l’iniziativa di Genova «una scelta di grande significato politico». Avverte Cesare Damiano: «No al pensiero unico. Discutere fino all’ultimo momento, ma quando il segretario ha concluso e si è votato a maggioranza un documento finale, no alle interviste del giorno dopo su posizioni contrarie».

l’Unità 18 .6.11
Ecco il manifesto democratico Tutto in sei punti


I punti principali delle proposte del Pd
1. L'Europa per l'occupazione dei giovani. Il Pd considera importante che il tema del lavoro, in particolare giovanile e femminile, sia al centro di una specifica iniziativa dell'Ue costruita intorno ad investimenti per l'occupazione, l'ambiente e l'innovazione, alimentata dalle risorse raccolte attraverso l'emissione di eurobonds, l'introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la financial transaction tax.
2. La politica italiana per il lavoro, i giovani e le donne a parità di mezzi finanziari. Un piano nazionale per l'occupazione giovanile e femminile. Il Pd ritiene indispensabile il coordinamento delle iniziative nazionali, regionali e locali per realizzare una politica nazionale efficace destinata ad agevolare l'occupazione e in particolare l'occupazione giovanile e femminile. Tra le iniziative specifiche che il Pd ritiene opportuno realizzare vi sono: il contratto di apprendistato come canale prioritario di accesso al lavoro stabile, accompagnato anche da incentivi alla stabilizzazione; il venir meno dei vantaggi di costo del lavoro precario: a parità di costi per l'impresa, un'ora di lavoro precario deve costare di più e un'ora di lavoro stabile deve costare di meno. Sostegno alle pensioni dei lavoratori più giovani e meno tutelati e drastica riduzione delle forme contrattuali
3. Il modello contrattuale. Il modello centrato sul contratto nazionale di lavoro va riformato, ma il contratto nazionale resta uno strumento irrinunciabile.
4. La rappresentatività sindacale. Rappresentanza e rappresentatività sindacale, democrazia nei luoghi di lavoro e pieno coinvolgimento dei lavoratori alla validazione dei contratti nazionali e di secondo livello.
5. Il diritto di informazione e partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese. Il Pd ha presentato proposte di legge per il pieno riconoscimento dei diritti d'informazione e consultazione dei lavoratori, l'istituzione di comitati consultivi permanenti, la promozione del sistema dualistico di governance aziendale.
6.Una riforma fiscale a favore del lavoro e dell'impresa, dei giovani e delle donne. Il Pd propone, ad invarianza di gettito complessivo, di ridurre le imposte sul reddito da lavoro e d'impresa e recuperare risorse dal contrasto effettivo dell' evasione e dall'innalzamento a livello medio europeo delle tasse sulla rendita.

La Stampa 18.6.11
Intervista
“Ora i giovani attendono una risposta”
D’Alema: il dramma lo vivono loro
di T.C.


Arriva sorridente ed elegante, col suo abito blu aviazione e le scarpe Hogan nere, nella hall del centro congressi della Fiera di Genova, per nulla turbato dagli arresti del faccendiere Luigi Bisignani e dell’imprenditore Vittorio Casale, con i quali pure avrebbe avuto qualche frequentazione. Massimo D’Alema, presidente di Italianieuropei, ha voglia di parlare, ma solo di politica e di lavoro. Si accomoda in platea, non prima di scambiare qualche battuta con La Stampa .
Sembra che il Pd torni a riparlare di cose concrete, invece che di beghe interne.
Il nostro partito sta riprendendo l’iniziativa un po’ in tutti i campi. Il tema del lavoro è uno di quelli che più ci appartiene».
Non crede che ora, però, ci sono delle proposte concrete e organiche?
«Beh, la conferenza di Genova tira in realtà le fila di quanto è stato fatto in questi mesi per ritessere i rapporti col mondo del lavoro, con l’impresa, i precari, le organizzazioni sindacali».
Si torna a mettere il lavoro al centro del dibattito proprio mentre è in atto uno scontro aspro fra Fiat e Fiom-Cgil e un confronto teso fra la stessa Fiat e Confindustria. Che ne pensa della volontà di Sergio Marchionne di uscire da Confindustria?
«Le imprese, soprattutto quelle più grandi e quindi anche la Fiat, dovrebbero stare all’interno delle loro associazioni e rispettare le regole collettive che si sono date. Se queste vengono meno, l’alternativa è il caos e certamente non si fa il bene dei lavoratori, delle aziende e quindi del Paese. Vorrei però allargare il discorso».
Prego.
«La Fiat è importante, quello che avviene lì ha una valenza politica. Ma riguarda pur sempre alcune decine di migliaia di persone. Oggi il Pd pone l’accento su un tema di generale: la centralità del lavoro, i diritti, il progressivo impoverimento del loro tenore di vita, i diritti e il tentativo di ridimensionarli se non cancellarli, la lotta alla precarietà».
Temi che si incrociano con la vicenda Fiat, non le pare?
«Non mi fraintenda: la vicenda Fiat è un episodio importantissimo, non va sottovalutato. Ma oggi ci sono due milioni di giovani fuori dalla scuola, con un diploma o una laurea, e che non lavorano. A loro dobbiamo una risposta, è questo il dramma che va in scena».

Corriere della Sera 18.6.11
Meno liberali più laburisti
di Dario Di Vico


I l Veltroni che aprì la campagna per le politiche del 2008 al Lingotto ha rappresentato il momento in cui il liberalsocialismo italiano è sembrato darsi le ali per volare. Fino ad allora era vissuto per lo più sul contributo di singoli studiosi estremamente versati nel produrre spunti e idee. Ora la notizia che lo stesso Veltroni, insieme a Sergio Chiamparino, ha tolto la firma dal documento di Pietro Ichino che sarà presentato alla Conferenza del Lavoro in corso a Genova è un episodio illuminante. È il completamento di una parabola e la prova che il partito si sta muovendo in tutt’altra direzione. Si sta attrezzando a recuperare una visione più tradizionale, che per comodità definiremmo neo-laburista. E del resto sono molti altri i segnali che dimostrano il nuovo trend. Innanzitutto il perdurare della Grande Crisi e la percezione diffusa che il grosso dei costi sociali debba ancora essere pagato. Il voto amministrativo di Milano con lo spostamento di consensi del lavoro autonomo verso Giuliano Pisapia segnala come un’ampia porzione di ceto medio, che non si è sentito tutelato dalla scelta del governo di investire tutte le risorse sulla Cassa integrazione, si sia rivolto al centrosinistra chiedendo asilo. Non dimentichiamo che nella dirigenza della sinistra non si è mai rimarginata la ferita causata dalla perdita (via Lega) di una consistente parte dell’insediamento sociale e operaio. In svariate occasioni il vertice del Pd è stato accusato di aver abbracciato masochisticamente la cultura di mercato e lasciato spazio alle incursioni a sinistra di Umberto Bossi e Giulio Tremonti. Infine l’esito dei referendum e anche la diffusione di una cultura dei social network orientata alla salvaguardia dei beni pubblici— l’acqua come l’occupazione — spingono anch’essi verso un approdo neo-laburista. Non è un caso che Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, abbia formulato la richiesta di «un Piano per l’occupazione giovanile e femminile» , che almeno nel lessico rimanda alla Cgil Anni 50. Se poi spingiamo lo sguardo oltre Chiasso si può constatare come i partiti socialdemocratici segnalati in ripresa dai sondaggi elettorali abbiano recuperato audience non perché hanno sviluppato una convincente ricetta post-blairiana ma semplicemente perché si limitano a interpretare il mestiere di oppositori in periodo di recessione. Tutte queste riflessioni congiurano, dunque, nel legittimare gli slittamenti di cultura politica in corso dentro il Pd, che prima ha perso una figura di prestigio come Nicola Rossi e oggi in qualche misura prende le distanze dagli Ichino. Conseguenza immediata: i temi della libertà economica (liberalizzazioni, privatizzazioni e lenzuolate) escono dallo spartito, come del resto è ampiamente dimostrato dalla scelta tutta politica di non ascoltare i dubbi sui referendum avanzati da personalità come Franco Bassanini. Il Pd, dunque, nato come progetto modernizzatore e cosmopolita, pone oggi più attenzione al consenso e all’insediamento sociale. Come tornasse alla ricerca di un «suo popolo» e in questa indagine ponesse attenzione prioritaria alle partite Iva, ai precari, ai blogger. Siccome questa strategia, almeno nel breve, ha pagato con il raggiungimento del quorum e anche con la ripresa di gradimento del Pd segnalato dai sondaggi a quota 29%, non si può pretendere di dare consigli di segno contrario.
La riflessione più sensata che si può avanzare dall’esterno è che una mini-svolta laburista rischia di far perdere al Pd il credito conquistato in questi anni negli ambienti più attenti alla cultura di mercato e che qualcosa hanno contato nelle performance elettorali di Pisapia e Stefano Boeri. Ma forse il pericolo maggiore per una forza che si ricandida in qualche modo a guidare il processo di uscita dalla crisi è quello di avvicinarsi al popolo ma allontanarsi dalle soluzioni. In più riprese in passato si è sviluppato un movimento politico culturale autodefinitosi lib-lab e che ha cercato generosamente di conciliare le due culture, la liberale e la laburista. Non ha conosciuto mai grande successo ma quel tipo di esercizio non andrebbe comunque disperso, perché se i problemi sono laburisti, nell’economia di oggi— e con le scadenze che attendono il nostro Paese — le soluzioni continuano ad essere liberali.

Corriere della Sera 18.6.11
Ichino porta nel Pd la sfida della licenziabilità
di  Erika Dellacasa


GENOVA — Fra precari che si raccontano in video e operai di Fincantieri in carne e ossa, il Pd ha lanciato da un convegno nazionale a Genova il suo «manifesto» sul lavoro. Stefano Fassina, responsabile per l’economia, ha aperto il discorso citando l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate: non è la ricchezza che produce ricchezza, ma il lavoro. Sei punti, quindi, per «ripartire dal lavoro» al centro del programma del governo del centrosinistra che Bersani, Letta, D'Alema, annunciano come imminente. Il manifesto del Pd parte dai precari, dalla zona grigia delle false partite Iva, dai 4 milioni di italiani para-occupati, per proporre di stoppare i contratti a tempo determinato «a vita» , con lo strumento fiscale. «Eliminare i vantaggi di costo del lavoro precario rispetto a quello stabile» afferma il primo punto, e aggiunge «accessi fiscali agevolati al lavoro stabile» , durate minime e massime per quello a tempo, stage regolati e retribuiti, contrasto alle «dimissioni in bianco» , salario minimo per tutti stabilito dai contratti nazionali, un nuovo Statuto dei lavoratori per autonomi e professionisti, più servizi a sostegno della maternità. Il Pd difende il contratto nazionale di lavoro erga omnes (valido per tutti): «irrinunciabile» , dice, ma da riformare, meno contratti e più snelli. Il secondo livello di contrattazione deve «valorizzare» quello nazionale non «annullarlo» . Risponde con soddisfazione Susanna Camusso, segretario Cgil, in collegamento video: «Basta con i contratti pirata» . Risponde il direttore generale di Confindustria Gianpaolo Galli: «Il contratto nazionale è un valore anche per noi» ma «bisogna prevedere deroghe» , e si schiera a fianco di Fiat nella controversia legale con Fiom. E da più parti si affronta il problema spinoso della rappresentanza sindacale. «Quando andiamo al governo — dice Bersani — la settimana dopo facciamo il patto per lo sviluppo con le parti sociali» . Intanto invita quelle politiche a mettersi d’accordo sulle cifre: «Facciamo un’operazione verità sui conti» . D’Alema sprona il Pd a guardare «oltre Berlusconi» e verso obiettivi europei. E questa mattina il senatore Pietro Ichino illustra la proposta della minoranza: un contratto unico, con tempo indeterminato e tutele essenziali per tutti, ma «nessuno inamovibile» , licenziamenti economici e organizzativi rapidi ma con le imprese che fanno carico del reddito e del reinserimento dei licenziati: «Oggi lo Statuto tutela 9 milioni di lavoratori, così modificato ne tutelerebbe 19 milioni» dice Ichino. Che invita il Pd a non «ostracizzarlo» . Piccolo giallo: Veltroni, questa proposta, la sostiene o no? Per telefono, arriva da Veltroni direttamente a Ichino la conferma del suo «sì» .

il Riformista 18.6.11
Conferenza a Genova
Pd e Lavoro Confronto interno sulla manovra

qui

il Riformista 18.6.11
Sircana sul «nuovo Prodi»
È Bersani la figura giusta
Parla il senatore Pd, ex portavoce del professore a Palazzo Chigi. Il segre- tario Pd ha una cultura liberale avanzata: “Mica è Togliatti”.
di Francesco Persili

qui

l’Unità 18 .6.11
Il segretario del Pd al Carroccio: «Pontida li aiuterà ad andare a fondo del problema»
Conti dello Stato «Bene il richiamo del presidente della Repubblica, ora operazione verità»
Bersani lancia l’amo «La Lega rifletta e lasci la vecchia strada»
Il segretario del Pd Pierluigi Bersani: «La Lega governa da otto anni negli ultimi dieci e ha governato da Roma per tutto il Paese. I risultati non ci sono: né per il nord né per l'Italia e non ci sono stati per la Lega»
di Maria Zegarelli


Pier Luigi Bersani lancia la sfida alla Lega parlando da Genova dove il Pd è riuscito a far salire sullo stesso palco sindacato, associazioni di imprenditori, rappresentanti di Confindustria e di ogni pezzo di società che genera lavoro, lavora, che cerca lavoro e soprattutto che vuole risposte dalla politica. «Il lavoro sarà al centro della prossima azione di governo del centrosinistra e del Pd – dice davanti alle telecamere – mentre questo governo, pur avendone avuta l'occasione non l'ha mai posto al centro della sua attenzione».
Un governo di cui la Lega è parte e corresponsabile del fatto e non fatto. E allora alla Lega che si prepara al prato di Pontida il segretario Pd fa un augurio, provocatorio «affinché questo appuntamento la aiuti ad andare a fondo del problema», e il problema è che «la Lega governa da otto anni negli ultimi dieci e ha governato da Roma per tutto il Paese. I risultati non ci sono: né per il nord né per l'Italia e non ci sono stati per la Lega».
E chissà «se è il caso di rilanciare sulla vecchia strada o se è il caso di cercare una strada nuova, come credo sia indispensabile». Che non vuol dire, nelle intenzioni del segretario, una alleanza con il centrosinistra, perché come sottolinea il vice Enrico Letta, «noi siamo alternativi alla Lega», su questo non si torna indietro, quanto piuttosto l’inizio di un confronto serio anche in Parlamento.
Sui temi che uniscono può esserci un dialogo, «il vero federalismo è con noi che possono farlo», ripete da mesi Bersani, non «certo con Berlusconi». E anche sulla legge elettorale se il Carroccio vuole trovare una via d’uscita per potersi sganciare dal Cavaliere è alle attuali opposizioni che deve guardare per una riforma, «perché Berlusconi non la cambierà mai». Bersani parla ad un Umberto Bossi mai in difficoltà come adesso, con una base leghista insofferente, delusa, diciamo pure piuttosto «incazzata» per i bunga bunga, le Minetti, le leggi ad personam, l’inconsistenza dell’azione politica del governo sui temi cari al popolo padano, come anche ieri testimoniava il sito Padania.org, dove insieme alle parole di Bersani, date in apertura di sito, campeggiavano le dolenti noti degli elettori.
Bersani lancia la sua sfida ad un leader sfibrato, fin troppo «romanizzato» per il popolo del Carroccio, ma che è ancora in tempo a scendere dal treno, come dice Enrico Letta, prima che vada a sbattere. «L'ammonimento del presidente della Repubblica io lo applico subito dice il segretario Pd - e credo sia indispensabile avere una posizione obiettiva e unificata sulla situazione economica e sociale, a partire dai conti pubblici». E allora iniziamo da qui, esorta, a prendere le distanze dalle bugie e dalla falsificazione della realtà: «Facciamo assieme in Parlamento un’operazione verità sulla situazione perché almeno su questo si trovi un linguaggio condiviso. Poi vediamo come fare ma non si possono avere versioni diverse sui numeri». E quanto nella maggioranza non sia vero che l’asse Pdl-Lega è solido e pronto a superare qualunque prova, lo spiega bene il nervosismo di Fabrizio Cicchitto davanti alle parole di Bersani. «Bersani nei giorni pari – commenta dice che la Lega è un nucleo di pericolosi razzisti e nei giorni dispari spera invece che sia una costola della sinistra. Quindi in primo luogo deve mettersi d'accordo con se stesso».
Eppure secondo il popolo padano è Bossi che deve mettersi d’accordo con se stesso: scrivono su Padania.org. che non può andare a Pontida e battere il pugno sul tavolo del governo e poi dire al Cavaliere in privato che va tutto bene, il suo appoggio non verrà meno.

Repubblica 18.6.11
Bersani ora chiama il Carroccio "Rifletta e cerchi strade nuove"
Ma D’Alema boccia Maroni sugli immigrati: mi indigna


ROMA - Incalza la Lega. Le offre una via d´uscita per non affondare con Berlusconi. Pier Luigi Bersani alla vigilia di Pontida lancia la sfida ai lumbàrd: «Riflettano a fondo se sia il caso di rilanciare sulla vecchia strada o se è il caso di cercare una strada nuova, come credo sia indispensabile». Invita a uno strappo: il Carroccio stacchi la spina a un governo in agonia, per fare con l´opposizione il federalismo e la riforma della legge elettorale. D´altra parte - ragiona il segretario del Pd - Bossi guardi in faccia il problema: «Il problema è che la Lega governa da 8 anni degli ultimi dieci. Ha governato da Roma per tutto il paese e i risultati non ci sono né per il Nord, né per l´Italia e non ci sono nemmeno per la Lega». Da mesi Bersani e i Democratici stanno lavorando ai fianchi il partito del Senatùr, appiattito sul governo e pressato dagli stessi militanti.
Ma anche per il Pd l´offerta è rischiosa. Non a caso Massimo D´Alema punta il dito sull´inciviltà delle decisioni del ministro leghista dell´Interno, Roberto Maroni sui Centri di identificazione e espulsione (Cie) per gli immigrati. «Lasciate che esprima tutta la mia indignazione di cittadino - attacca - come è pensabile che una maggioranza che si dice garantista possa tenere 18 mesi una persona in prigione senza processo, la cui unica colpa è essere venuta qui per cercare fortuna per sé e per i propri figli?». Rilancia la necessità del voto amministrativo per gli immigrati: «Ci sono quattro milioni di lavoratori che producono il 10% della ricchezza nazionale e che non hanno diritto al voto. Sono gli immigrati - spiega il presidente del Copasir ed ex ministro degli Esteri - Questo è un tema che tocca profondamente la qualità della nostra democrazia». Ma il paese è a un punto di svolta. «Tra un tempo che spero sia il più breve possibile - afferma D´Alema - ci troveremo alle prese con il problema di governare il paese. Sarà una grande festa. Ma dalla mattina dopo inizierà un´impresa drammatica».
Un´Italia da ricostruire è anche l´appello che Romano Prodi rivolgerà domani a Bologna in un video messaggio alla community democratica di "Insieme per il Pd". Un movimento cresciuto in rete, di 20 mila persone che discute e si confronta su Facebook, riunisce molti giovani, come spiega Sandro Gozi, deputato pd. L´ex premier sollecita i giovani: «Impegnatevi. Il paese si è svegliato ma l´alternativa è tutta da costruire». E questa - insiste Prodi - è un´Italia sfibrata, ormai al traino mentre è il momento che divenga locomotiva». Sui giovani e il lavoro il Pd avvia ieri a Genova il primo dei grandi confronti tematici. Dibattito aperto e divisioni. Veltroni sostiene e loda Ichino e la sua proposta di flessibilità («Tutele per tutti ma nessuno è inamovibile»); Fassina, responsabile economico del partito, pensa a un´altra ricetta. Però le divisioni sono tenute sotto traccia e Ichino precisa: «Ci vuole una pluralità per costruire l´alternativa». Comunque, garantisce Bersani, «il lavoro, e il lavoro dei giovani in particolare sarà al centro della nostra azione di governo». Nella prossima settimana ci saranno gli incontri tra i leader dell´opposizione per concordare la strategia in vista della verifica e per parlare di alleanze. Di Pietro assicura: «Il segnale che arriva dalle ultime settimane è evidente. Manterremo saldo il legame con i movimenti e con la rete».
(g.c.)

Repubblica 18.6.11
La proposta di Vendola: "rivoluzione riformista" per costruire col tempo il partito unico
"Non capisco l´apertura a Bossi non c´è dialogo con chi è razzista"
di Giovanna Casadio


Il centrosinistra ha sfondato sul territorio del Carroccio Bisogna concentrarsi sul senso di ciò che è avvenuto con le elezioni e i referendum anziché sulle operazioni di Palazzo

ROMA - Vendola, alla vigilia di Pontida Bersani lancia un amo alla Lega, incitandola a cambiare strada. La giudica una buona mossa?».
«È incomprensibile per me il senso di questa mossa... penso che il segretario del Pd avrà modo di spiegarsi meglio. Ma non vedo alcuno spazio per una interlocuzione con Bossi, che è uno dei baricentri del governo. Dal punto di vista politico e culturale, il leghismo e il berlusconismo sono connessi. Con i nostri avversari l´unico terreno su cui è legittimo un confronto e la ricerca di un´intesa, è quello delle regole del gioco. Ma è abbastanza paradossale trovare punti di vicinanza con chi sta chiedendo a Berlusconi un riposizionamento sui temi classici leghisti, come la repressione del fenomeno dei migranti. Il Carroccio su temi esplicitamente razzisti non solo ha tenuto il punto - con le campagne securitarie, le fantomatiche ronde padane e la caccia ai rom - ma ha anche contagiato un campo più largo di culture di destra».
Ma solo se Bossi divorzia da Berlusconi il governo cade?
«Ci sono contraddizioni assai vistose nella maggioranza. Riguardano l´annunciata o temuta manovra finanziaria che ci chiede la Ue; la fuoriuscita dei sudisti di Miccichè; le guerre e le guerriglie nelle retrovie di Palazzo Chigi; la contesa sempre più ravvicinata fra Tremonti e il resto del mondo. Mostrano quali e quante sono le crepe aperte in questo regime ormai al capolinea. Eviterei perciò operazioni tutte interne al Palazzo. Mi concentrerei molto sul senso della di ciò che è avvenuto in Italia tra le amministrative e i referendum. È lì, in quel processo liberatorio e popolare, che si possono trovare i materiali utili alla sepoltura del cadavere della Seconda Repubblica e all´apertura del cantiere dell´alternativa».
La Lega, il suo radicamento popolare, non erano giudicati proprio dalla sinistra punti di forza?
«Il vento del Nord ha riguardato lo sfondamento del centrosinistra su uno dei terreni privilegiati della Lega, che è la dimensione territoriale. Per molti anni il centrosinistra ha inseguito i sindaci leghisti con un atteggiamento mimetico rispetto allo stile degli sceriffi padani. Con Pisapia a Milano e le altre svolte amministrative nel Nord, si è messa in campo un´altra idea del territorio, fortemente inclusivo, capace cioè di fare convivere l´identità locale con il codice dell´accoglienza e della solidarietà. Vince Pisapia perché c´è la proposta di una milanesità alta, ricca, promotrice di modernità e di diritti. Così abbiamo scalfito nel suo insediamento il consenso leghista».
E all´assemblea di Sel, del suo partito, proporrà sempre la nascita di un partito unico con Pd e Idv?
«Questo è un percorso di lungo respiro: il tema della riunificazione è tutto da costruire. Intanto ci vuole una mobilitazione democratica, il cui manifesto sia quello di una rivoluzione riformista».
Più movimenti, rete, piazze - i protagonisti della riscossa civica italiana - e meno partiti?
«I partiti sono condizione necessaria ma non sufficiente, ingrediente indispensabile ma non sono tutto. Il cambiamento deve essere largo e io proporrò l´apertura ai movimenti, al mondo delle associazioni, dei saperi diffusi, dell´ambiente. Il cambiamento ha bisogno di coralità».
Una rivoluzione riformista, lei dice, però ad esempio sulla flessibilità del lavoro c´è una certa distanza con il Pd?
«Discutiamo però senza i semafori, in cui i riformisti pensano di avere sempre il verde e i radicali devono avere sempre il rosso: i primi passano, gli altri stanno costantemente fermi. Tutti dobbiamo aggredire il nodo della precarietà».
Non ci ha ripensato sulla sua sfida a Bersani alle primarie per la premiership?
«La discussione sulla primarie ha avuto un punto di verifica: la realtà. Io sempre disposto per la causa comune e spirito di servizio».

il Fatto 18.6.11
Maroni vuole la Nato contro gli immigrati
Richieste e misure italiane contrarie ai diritti e smentite dalla Ue
di Paolo Soldini


Il ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva già dichiarato guerra all’Unione europea. Ora ha deciso di allargare il fronte anche all’Onu e al diritto internazionale. L’idea che la Nato debba fare nel mare della Libia il blocco navale al contrario e respingere in mare le imbarcazioni cariche di profughi che fuggono dal paese martoriato viola praticamente tutto quello che c’è da violare: le norme sul diritto marino internazionale, le convenzioni mondiali sui rifugiati politici, le disposizioni delle agenzie dell’Onu, le regole della stessa Nato. Nonché i princìpi della civiltà e anche quelli del buon senso, che sono altrettanto universali e dovrebbero valere persino sul pratone di Pontida. E benché il premier del Consiglio provvisorio libico abbia confermato ieri a Roma con Frattini che “Noi vogliamo riaffermare il nostro impegno rispetto ai precedenti accordi firmati tra la Libia e l’Italia, nostro storico alleato”.
 IN ATTESA DI REAZIONI  da parte degli organismi internazionali, a cominciare dall’Alto commissariato per i rifugiati politici Onu, presieduto da quell’Antònio Gutierres sul quale il bugiardissimo ministro nel 2008 raccontò balle alla Camera, vanno registrate le polemiche nostrane. Le quali scontano il fatto che Maroni abbia buttato lì la trovata del blocco navale all’incontré per dare un segnale alla base leghista in marcia per Pontida.
Le polemiche fioccano anche sul cosiddetto decreto immigrazione e ci sono tutti i motivi per pensare che a Bruxelles l’ultima pensata del governo italiano non la prendano affatto bene. L’incombere del week-end salverà (forse) Maroni dall’ennesima sberla, ma è solo questione di tempo: nei prossimi giorni, archiviata Pontida e valutate le imminenti convulsioni politiche chez nous, la Commissione europea romperà il silenzio. L’Italia infrange clamorosamente le direttive in materia di immigrazione, diranno lassù, ma, almeno, il suo governo eviti di prenderci per i fondelli. Difficile digerire il fatto che, dopo aver incassato la bocciatura del reato di clandestinità da parte della Corte di Giustizia e dopo aver fatto passare sei mesi lasciando lettera morta una precisa direttiva europea (2008/15), Maroni si presenti tomo tomo cacchio cacchio a sostenere che il decreto approvato dal Consiglio dei ministri “recepisce” proprio quella direttiva e “adegua” la nostra legislazione alle norme europee.
MA QUANDO MAI? Maroni ieri ha invitato chi polemizzava ad “andarsi a leggere il testo delle direttive, che noi abbiamo preso e adottato”, ma va detto che l’invito avrebbe dovuto rivolgerlo, piuttosto, a se medesimo e ai propri consiglieri giuridici. Senza entrare troppo nel merito - non tarderà a farlo una richiesta di chiarimenti della Commissione - va sottolineato che la 2008/15 dispone che la modalità di rimpatrio sia la volontarietà mentre il decreto prevede il carattere automatico del trattenimento degli immigrati quando non si può eseguire l’espulsione immediata. Non è vero poi, come sostiene il ministro, che il prolungamento della permanenza nei Cie da 6 a 18 mesi è “previsto” dalla direttiva europea: i 18 mesi, sono considerati il tetto oltre il quale non si può andare, non certo la norma.
Insomma, le solite balle. Raccontate a fini di propaganda nella speranza che quando la verità verrà ristabilita da Bruxelles nessuno se ne accorga. E balle che ci costano un bel po’ di quattrini. Fra ritardi nel recepimento delle direttive e legislazioni improprie l’Italia sulla politica dell’immigrazione ha già incassato e rischia ancora da parte della Commissione una bella quantità di procedure di infrazione, cioé di multe. In caso di infrazione le sanzioni minime per l’Italia sono superiori ai 10 milioni di euro e costano fino a 700mila euro al giorno per ogni giorno di ritardo. Chi paga i danni? Non certo Maroni. A meno che la Corte dei Conti non abbia qualcosa da dire in proposito.

Corriere della Sera 18.6.11
«Più diritti agli sposati» La svolta del Pd a Bologna
Il sindaco Merola contro la parità sancita dalla Regione
di  Marisa Fumagalli


Il matrimonio implica un grado di responsabilità diverso ad altre scele di convivenza
Giusto qualcosa in più per chi si impegna in un legame maggiore? Ragioniamoci

Coppie sposate in pole position rispetto alla coppie di fatto. Le prime valgono più punti (per la graduatoria degli alloggi) delle seconde. E’ il principio che il neosindaco (Pd) di Bologna, Virginio Merola, vorrebbe mettere al centro del dibattito nella sua città, ponendo le basi per un’eventuale inversione di rotta. «Ma per ora resta tutto come prima» , puntualizza. Cioè la dis-parità non passa. Eppure, l’effetto di certe dichiarazioni è quello di far crollare le poche certezze che sembravano acquisite tra i campioni della laicità che costituiscono lo zoccolo duro della città-capoluogo. Di più: la confusione regna sotto il cielo dell’Emilia Romagna, dal momento che il governatore (Pd), Vasco Errani, circa un anno fa, nella legge finanziaria regionale, inserì l’articolo 42, che stabilisce «il diritto ad accedere ai servizi pubblici e privati in condizione di parità di trattamento e senza discriminazione, diretta o indiretta, di razza, sesso, orientamento sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali» . Un’apertura a 360 gradi. Criticata, allora, dall’arcivescovo, monsignor Carlo Caffarra. Errani ribadì: «Riconosciamo anche alle diverse forme di convivenza il diritto all’accesso ai servizi regionali» . Allora che succede oggi a Bologna? Qualcuno fa notare che il sindaco Merola sta ripetendo concetti già espressi durante la sua campagna elettorale. Resta il fatto che la sortita del primo cittadino, nel corso di una trasmissione dell'emittente Etv, ha scatenato la polemica. La proposta del sindaco, offerta sul piatto della discussione, prende le mosse dal sostegno di quelle persone «che scelgono legami di libertà, di responsabilità tra loro e verso la comunità» . «Il matrimonio — spiega — implica un grado di responsabilità diverso rispetto ad altre scelte di convivenza. E credo che questo vada riconosciuto» . Una medaglietta alle coppie sposate che dovrebbe tradursi in un bonus: la precedenza nelle graduatorie comunali. Merola si chiede: «E’ giusto o no prevedere qualcosa in più per chi si impegna in un legame maggiore? Ragioniamoci» . Le dure prese di posizioni, rimbalzate per tutta la giornata di ieri, hanno spinto il sindaco a stilare, in serata, una nota chiarificatrice, che si chiude con toni prudenti: «Non intendo mettere in discussione i "Dico"proposti dalla Regione, non chiedo di rivedere le regole comunali o i punteggi» . Il sasso nello stagno, tuttavia, è gettato. E alle numerose reazioni negative (l’Arcigay chiede un tempestivo intervento del Consiglio comunale, Rifondazione giudica lo stile del sindaco «da amministratore di condominio e non da politico» , il Sel nota che «la Corte Costituzionale ha trovato ineccepibile la scelta dell’Emilia Romagna di equiparare sposati e coppie di fatto» , l’Idv parla di «nulla osta alle diseguaglianze» ) fanno da controcanto i plausi. E’ d’accordo con il sindaco la Lega, mentre chiede di introdurre «anche un bonus basato sulle residenze di lungo corso» . L’Udc, per bocca del coordinatore provinciale Maria Cristina Mirri, dichiara: «Sarebbe una svolta storica e positiva se il sindaco desse seguito alle sue parole» . Infine, da Roma arriva la notizia che la presidente del Lazio, Renata Polverini, sta predisponendo un piano-famiglia che equipara i figli delle coppie sposate con quelli delle coppie di fatto. Come è noto, la governatrice regge una Giunta di centrodestra.

Repubblica 18.6.11
"Favorire le coppie sposate" a Bologna è bufera sul sindaco
Merola sconfessa i Dico poi fa dietrofront. Insorgono Pd e Idv
di Silvia Bignami


BOLOGNA - Primo scivolone per il neo sindaco di Bologna Virginio Merola (Pd), sul terreno minato delle unioni di fatto e dei diritti alle coppie gay. Le sue parole a una tv vicina alla Curia, «chi si sposa si assume una responsabilità maggiore di chi non lo fa che deve essere riconosciuta anche dal Comune», scatenano la reazione del centrosinistra, Sel e Idv in testa, col Pd in imbarazzo. In serata il sindaco - dopo telefonate con i vertici del partito - corregge in parte il tiro rassicurando: «Non toccherò graduatorie e punteggi dei bandi comunali». Ma la frittata ormai è fatta. Bologna, che ha una lunga tradizione sui diritti civili, dal ‘99 col registro delle "famiglie affettive" fino ai Dico regionali di due anni fa, si ritrova di nuovo a dividersi su questa delicata materia.
Per tutto il giorno su Merola piovono le critiche della sinistra. Lo stesso Pd, preso in contropiede, non può tacere. Il presidente del consiglio comunale Simona Lembi, abbandona l´aplomb istituzionale e commenta gelida: «Io sono d´accordo con i Dico di Vasco Errani. Non cambio idea». Il capogruppo dei Democratici in Comune Sergio Lo Giudice, in passato presidente di Arcigay, avverte: «Merola rispetti la linea della Regione». Attaccano a tutto spiano gli alleati, dai dipietristi come l´ex deputato Franco Grillini a Sinistra ecologia e libertà, alle associazioni legate al mondo Lgbt, ad Arcygay. Il sindaco viene definito «antistorico» e «clericale». Mentre il centrodestra applaude convinto e incredulo, dall´ex candidato sindaco leghista Manes Bernardini alla consigliera regionale Udc Silvia Noè, che esclama: «Merola ci stupisce con effetti speciali».
«Sembra di sentir parlare Casini... « è il commento stupefatto che circola in Regione. Non parla il presidente Vasco Errani, che coi suoi Dico sfidò la Curia bolognese e vinse anche la partita col governo davanti alla Corte Costituzionale, ma a Viale Aldo Moro si parla di idee in «conflitto politico» con le norme regionali. Un putiferio che lascia stupito Merola, che già in campagna elettorale aveva accennato alla sua intenzione di «dare priorità a chi ha il coraggio di sposarsi e di avere figli». A bacchettarlo, era il 7 maggio scorso, arrivò allora il governatore della Puglia Nichi Vendola, sotto le Torri proprio per sostenere Merola: «Basta usare le vite delle persone in campagna elettorale».
Dopo una giornata sulla graticola, il sindaco prova a rimediare in serata, ribadendo tra l´altro il suo sì ai matrimoni gay, tanto da volersi far promotore anche a livello nazionale di una legge che li renda legali. «Quando parlo di riconoscere l´impegno di chi decide di sposarsi, mi riferisco anche alle coppie omosessuali» dice Merola, che chiosa citando Rosa Luxemburg: «Oggi chiamare le cose con il proprio nome è diventata una cosa rivoluzionaria».

l’Unità 18 .6.11
L’Attila di Arcore
di Moni Ovadia


Il diradarsi dell'ammorbante atmosfera del berlusconismo a seguito della débâcle elettorale nelle recenti amministrative e la sua ancor più bruciante disfatta in occasione della tornata referendaria rivela dietro alla biacca del miserabile clownismo politico, il disfacimento del principe e della sua corte dei miracoli.
La penosa performance dello pseudo ministro Brunetta è lo squallido colpo di coda della protervia stracciona che ha infettato il vivere civile italiano per un ventennio. Ma il berlusconismo ha davvero perso?Lluis Bassests, vice direttore del Pais, l'autorevole quotidiano spagnolo ritiene non solo che non abbia perso ma che abbia addirittura vinto: «questo nefasto personaggio ha attraversato la politica italiana ed europea come Attila e i suoi Unni e ha devastato il paesaggio dei media e della politica...Ma la sua maggiore vittoria è rappresentata dalla profonda impronta di immondizia e di rozzezza che lascia nei mezzi di comunicazione italiani ed europei, uno stile che ha definitivamente preso piede fra noi e ha distrutto ogni possibilità di una cultura che sia al tempo stesso popolare e alta».
Questi alcuni dei giudizi espressi dall'opinionista iberico in un suo durissimo editoriale. La spietata analisi di Bassets denuncia un dato di fatto irreversibile? Forse non del tutto, tuttavia le sue parole devono indurci a non abbassare la guardia. Il berlusconismo è stato figlio di un'eredità fascista residuale mai bonificata dal tessuto sociale del paese. La mentalità berlusconiana va sconfitta alla radice se in futuro non vogliamo vederla risorgere in una riedizione più virulenta.

l’Unità 18 .6.11
Memorie di un’Italia divisa
Nel saggio di Giovanni De Luna centocinquant’anni di storia unitaria dalla parte delle vittime
di Oreste Pivetta


Dopo gli ignobili manifesti milanesi, «via le br dalle procure», il presidente della Repubblica decise di dedicare il «Giorno della Memoria», il 9 maggio, il giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la Festa dell’Europa, ma anche il giorno in cui vennero assassinati Aldo Moro e Peppino Impastato, ai servitori dello Stato che avevano pagato con la vita la loro lealtà verso le istituzioni e tra loro, in primo luogo, ai dieci magistrati uccisi dalle Br e da altri gruppi terroristici. In quei manifesti si sarebbe potuto leggere certo un insulto alla magistratura e alle istituzioni, ma anche un insulto alla storia: negarla, per ricostruirne una tutta nuova ai fini di un disegno politico. Banalmente, volgarmente. Ma costruzione e ri-costruzione della storia sono un campo arato da sempre e sotto tutti i cieli. È capitato in modi meno banali e volgari, perché nuovi materiali interpretativi si sono presentati, nuove testimonianze, nuove voci si sono udite, nuovi strumenti e nuovi luoghi di comunicazione si sono affiancati a quelli tradizionali dello storico: carta, penna, libri, impugnati o aperti nelle aule universitarie, nei convegni degli specialisti, magari nelle redazioni dei giornali, da qualche decennio scalzati dalle immagini e dalle vive voci della debordante piazza televisiva.
Ogni volta, secondo necessità, secondo finalità diverse: occultare oppure aggiungere verità a verità, esaltare la complessità contro la semplificazione di certi racconti, costruire una tradizione, cioè un passato riconoscibile non sempre da tutti, talvolta solo da una ipotetica, presunta, illusoria, maggioranza.
I centocinquant’anni di storia italiana, di storia unitaria, si potrebbero scorrere da questo punto di vista: di una ricerca di condivisione, in un paese frammentato per condizioni politiche, culturali, per lingue, per bandiere, per condizioni sociali... assumendo via via come riferimenti ideali il Risorgimento, il completamento dell’unità territoriale con la Grande Guerra, la lotta di Liberazione dopo il fascismo e la nascita della carta costituzionale (poi, alla crisi della prima repubblica, contestate da un’onda revisionista il cui ultimo atto, grottesco, è stato pochi giorni fa la richiesta di parificazione tra partigiani e repubblichini di Salò), fino alla esaltazione delle presunte ascendenze celtiche intrapresa dalla Lega, con tanto di scudi, di elmi e di spadoni. Per non farci mancare una nota comica.
Molto semplificando sta nelle variazioni di questa impresa il cuore dell’analisi di Giovanni De Luna, storico torinese, in questo La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa. Giovanni De Luna è stato, con Walter Barberis, curatore della bella mostra Fare gli italiani (fino al 20 novembre, alle Officine Grandi Riparazioni), e lettura e visita in parallelo sarebbero un modo per arricchire l’una e l’altra, la mostra costruita sulla coppia inclusione-esclusione, contrapponendo quanto può unire e quanto invece può dividere gli italiani (la criminalità, ad esempio, contro i consumi o le comunicazioni), il libro dedicato alla memoria, alla sua elaborazione, in entrambi i casi verso la definizione di una identità, comunque legata ad un progetto, buono o cattivo, politico.
Nel racconto di De Luna vi è almeno un passaggio decisivo: proprio quando la storia abbandona le aule universitarie e diventa «testimonianza», individuale, che si consuma sul piccolo schermo della televisione. La testimonianza televisiva interrompe l’orizzonte generale, esalta la singolarità delle voci, emoziona rappresentando casi individuali, passioni, tormenti, sofferenze, molto concretamente la fatica di vivere, la paura, la morte. Di fronte alla vittima, soprattutto, chi ascolta o guarda matura una propria partecipazione, riconoscendo qualcosa che gli appartiene o che sicuramente è appartenuto alla sua famiglia, alla sua esperienza, alla sua memoria.
Qui in trent’anni di storia, tra oblio e invenzioni, tra i tanti tentativi identitari attorno a questa o a quella vicenda, dalla Resistenza, alla Shoah, dalla tragedia delle foibe ai nuovi morti in guerra, dalle vittime del terrorismo alle catastrofi naturali, terremoti e alluvioni, alla prese con l’invadenza della televisione che costruisce la propria classifica del dolore (che cosa ricordare e che cosa no), si incappa nella reiterazione delle «giornate della memoria», che sono poi giornate delle vittime, dove si afferma appunto quel «paradigma vittimario» (una sorta di intuizione istituzionale dell’Onu, come ci ricorda Giovanni De Luna), che nella «centralità delle vittime» e nei «riti di espiazione e di riparazione» rispecchia la nostra comune appartenenza, la nostra dedizione al bene comune, i nostri sentimenti di comunità. Si piange nella memoria dei morti di piazza Fontana o dei caduti nei campi di sterminio, ma anche delle vittime del Vajont o del terremoto. Sotto il tricolore che sventola, al suono dell’inno. È tutto? No, si potrebbe aggiungere il calcio, ma solo quando la nazionale vince e riaccende l’orgoglio patrio. Ma di questo non si vive: siamo, per ora, al di là, di una solennità dovuta al traguardo dell’unità, al di qua di una religione dello Stato comune.
Resta un vuoto, resta un ritardo: l’unità e l’identità sono opere lunghe, dopo una divisione secolare politica, geografica, culturale (si potrebbe ricordare come l’unità tedesca nel diciannovesimo secolo e un decennio dopo quella italiana si cementò grazie alla politica ma anche grazie ad un lingua comune, il tedesco mandato a memoria leggendo la Bibbia, come pretende l’esercizio della fede protestante). Come rimediare? De Luna invita a guardare con fiducia alla conoscenza storica, perché «più storia e meno memoria vorrebbe dire distanziarsi dalla tempesta sentimentale che imperversa nelle nostre istituzioni, recuperare un rapporto più problematico, più consapevole, più critico» e allo stesso tempo invita a ritrovare in politica quella «mitezza», di cui aveva discusso Norberto Bobbio in una sua celebre conferenza del 1983, a Milano, intitolata proprio «elogio della mitezza». Mitezza che non è l’evangelica mansuetudine ma è la condizione di una democrazia inclusiva (termine sul quale più volte riflette De Luna), in una democrazia cioè che non esclude, che richiama, che attira, che coinvolge, che unisce.

Corriere della Sera 18.6.11
Appello a Freedom Flottilla & C.
Siamo umani anche con Gilad Shalit
di Stefano Jesurum


Il 25 giugno saranno cinque anni da quando il soldato, allora 19enne, Gilad Shalit è stato rapito in territorio israeliano (e non «catturato» in un’operazione di guerra nella Striscia occupata di Gaza). Sequestrato da un commando che lo ha poi consegnato nelle mani di Hamas. E proprio alla fine di giugno un gruppo di italiani s’imbarcherà sulle navi di Freedom Flottilla 2, destinazione Gaza. Uno degli slogan maggiormente usati dalla galassia filopalestinese più radicale — ambigua nel suo «pacifismo» a senso unico — è «Restiamo umani» . Un bello slogan, un ideale sacrosanto. «Restiamo umani» è quello che hanno ripetuto anche l’altra sera in un teatro di Milano la cantante Noa e lo scrittore David Grossman. Con loro lo gridano — nella vita e nella sofferenza quotidiana, nella realtà vera— gli israeliani e i palestinesi del dialogo, della convivenza, della ricerca di una soluzione giusta. Noa e Grossman hanno urlato ancora una volta che Israele è «il nostro luogo, la nostra patria, anche se l’instabilità, l’incertezza, il modo di governarlo ci stanno davvero stretti» , anche se troppo spesso l’attaccamento alla loro Terra è messo a dura prova. Grossman: «Anche se tutto ciò mi indurrebbe ad andarmene, so che questo non accadrà mai» . Altrettanto noi chiediamo agli uomini e alle donne di Freedom Flottilla 2 — e a chi li appoggia — non certo di rinnegare la propria aspra critica, legittima e talvolta condivisibile, ma di ricordarsi lo slogan «Restiamo umani» . Sulle loro navi, di fianco alla bandiera palestinese, srotolino anche un enorme striscione che chiede la liberazione di Gilad Shalit, innalzino cartelli in cui si dice che non è affatto umano lasciare chicchessia prigioniero senza processo, senza garanzie, senza colpe se non quella di esistere, senza visite né controlli della Croce Rossa o di organismi internazionali. Se non lo faranno, Freedom Flottilla &C. continuerà soltanto a portare odio, non aiuti. A fare, insomma, qualcosa di disumano.

l’Unità 18 .6.11
Louis Althusser
Quelle lettere all’amata uccisa
Pubblicato da Grasset, l’appassionato epistolario che il maestro dello strutturalismo dedicò alla moglie prima di strangolarla
di Anna Tito


È stato uno dei maggiori filosofi del XX secolo, il maître à penser di più generazioni d’intellettuali del mondo intero, insieme a Jacques Lacan, a Michel Foucault e a Roland Barthes, nonché il maestro dello «strutturalismo», corrente di pensiero destinata a rivoluzionare la storia della filosofia. Per trent’anni e più – dal 1947 al 1980 Louis Althusser indirizzò alla compagna e poi moglie Hélène struggenti lettere piene d’amore e di complicità ora pubblicate per la prima volta da Grasset. Una formula ricorreva nei saluti: «Ti stringo teneramente fra le braccia, mia piccola compagna». Ma all’alba grigia del 16 novembre del 1980, nell’appartamento all’Ecole Normale Supérieure in cui alloggiavano i coniugi Althusser, i colleghi del Maestro si trovarono dinanzi a una scena terrificante: «Venite a vedere, temo di avere ucciso Hélène!» urlava lui nel cortile. Era rimasto a lungo impiedi, in vestaglia, ai piedi del letto, a contemplare il volto immobile e sereno della «sua piccola compagna», si era poi inginocchiato e le aveva massaggiato il collo, a lungo e in silenzio: l’aveva appena strangolata.
Così Althusser divenne il «primo assassino della storia della filosofia», che, grazie al «complotto» dei «normaliani» – Bernard-Henry Lévy in testa – appellatisi all’articolo 64 del Codice penale pervennero a farlo dichiarare «incapace d’intendere e di volere», e a rinviarlo dinanzi agli psichiatri anziché dinanzi ai giudici di una Corte d’assise. Nel decennio seguente, nell’appartamento della rue Lucine-Leuwen, dove era stato «internato», il filosofo tenne a consacrare «la stanza di Hélène», dove ne aveva trasportato gli effetti.
«Se un uomo mi invia simili lettere per trent’anni e più, accetterei che alla fine mi strangolasse!» ha commentato a caldo una lettrice del volume. La dialettica fra creazione e distruzione conferisce alle lettere di Althusser una potenza letteraria senza pari: sotto la sua penna, tutto accade come se l’annientamento dell’altro e di sé fosse l’unico motivo per far reggere la coppia. Hélène, ebrea di origine russa, ex-resistente esclusa dal Partito comunista per ragioni mai chiarite, non fu «comoda» neanch’essa: «una mistica assoluta» secondo alcuni. Di fatto, la loro passione di certo non fu sessuale, e la corrispondenza testimonia un «desiderio di creare un vuoto per riempire una vita».
I PRIMI SINTOMI
Vi si rivive l’effervescenza degli avvenimenti politici: la questione di Suez, la crisi algerina, le posizioni di de Gaulle, nonché i ricordi di alcuni viaggi dei coniugi, in Corsica, nei Pirenei o a Venezia. Fra malesseri esistenziali e momenti sereni, appare un Althusser in pace con il mondo. La corrispondenza viene ritmata dalle «tempeste interiori»: il filosofo vi dettaglia la conversazione con uno psichiatra, gli effetti degli antidepressivi e degli elettrochok.
Nel 1961 i sintomi della depressione del Maestro appaiono sempre più evidenti, con la sintassi che sembra impazzire, le parole entrare in crisi, e la scrittura farsi delirante. Il tutto viene ad alternarsi con un linguaggio ludico che sembra anticipare i nostri SMS: «Motore e pneumatico OK». Parallelamente alla lingua, nell’immaginario di Althusser evolve anche la sua percezione di Hélène: la moglie cede il posto alla confidente, alla compagna nella follia. Pur manifestandole una tenerezza infinita, talvolta la colpisce con crudeltà, alludendo alle proprie amanti. In un martedì a mezzanotte, forse di aprile, concluse l’ultima delle missive ora pubblicate con un «Dammi fiducia».
Louis Althusser, Lettres à Hélène. Ed. a cura di Oivier Corpet, intro di Bernard-Henry Lévy (Grasset/ IMEC, 720 pp., 24 euro).

La Stampa Tuttolibri 18.6.11
Confronti
Sai dirmi se esiste il Nulla?
Quando non basta il buon senso per rispondere alle «grandi domande»
di Ermanno Bencivenga


Tra tutte le discipline accademiche, dichiara Simon Blackburn, «la filosofia rappresenta un’anomalia, poiché sembra prediligere le domande rispetto alla ricerca di risposte». E procede a formulare venti Grandi domande (trad. di Andrea Migliori, Dedalo, pp. 208, 15) «tra quelle che noi tutti - uomini, donne, bambini - ci poniamo spesso».
È un’esagerazione: non credo che uomini, donne e bambini si interroghino spesso, o anche solo talvolta, su «Che cosa riempie lo spazio», su «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla» o su «Come posso mentire a me stesso». Forse dovrebbero porsi tali questioni; forse il punto è proprio che la filosofia, disciplina anomala, dovrebbe insinuare dubbi e incertezze dove la vita quotidiana di uomini, donne e bambini non dà loro l’opportunità di coglierli. Forse dovrebbe anche sgomentarli, invitarli a mettersi in gioco, ad attentare al proprio equilibrio, a vacillare fra i baratri che d’improvviso apre sul loro cammino.
Forse, ma per un’attività così destabilizzante dovremmo cercarci un’altra guida. Blackburn, infatti, professore di Filosofia all’Università di Cambridge, Research Professor di Filosofia all’Università del North Carolina, è stranamente distante dalla sua disciplina e condisce i venti brevi itinerari aperti dalle sue domande con rassicuranti esortazioni a non prendersi troppo sul serio, a rimpiazzare l’angoscioso interrogare filosofico con un po’ di sano buon senso.
«Come possiamo affrontare l’incubo dello scetticismo totale? È possibile che stia vivendo un sogno solitario?» si chiede, e risponde: «No. Si tratta di un’eventualità del tutto remota». Riusciamo a comprenderci a vicenda, o anche a comprendere quel che noi stessi abbiamo detto, considerando che non solo non ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume ma forse una nostra parola non ha mai due volte lo stesso significato? «Naturalmente è essenziale allontanarsi da questo abisso, e come sempre la miglior difesa contro lo scetticismo è il ricorso a situazioni familiari». Quanto poi al fatto che c’è qualcosa piuttosto che nulla, «eccoci rimasti a bocca aperta, ma ce lo siamo meritati perché sapevamo già dalla struttura della domanda che non saremmo stati in grado di trovare una risposta».
Prima di Blackburn, a Cambridge c’era stato Wittgenstein, ed è a lui che risale l’atteggiamento dominante in questo libro: la filosofia stravolge gli usi comuni delle parole impegolandosi (e impegolandoci, se le diamo retta) in pseudoproblemi; occorre curarsi dalle distorsioni prospettiche che essa causa e ritornare alle regole ordinarie del gioco linguistico. Tale atteggiamento terapeutico poteva indicare la strada di una pace invano cercata da Wittgenstein, che alle distorsioni filosofiche e ai turbamenti che ne seguono dedicò tutta la sua esistenza; ma fa un effetto peregrino quando il suo successore, con l’aria tranquilla di un curato di campagna, invece di acquietare anime tormentate da quesiti impossibili solleva gli stessi quesiti in un libro presumibilmente rivolto al grande pubblico, che perlopiù (nonostante le sue dichiarazioni iniziali) non si è mai sognato di porseli, per concludere in fretta che non c’è niente di cui preoccuparsi.
Cambridge ha una lunga storia, e varrà la pena di tornarvi indietro un altro passo. Negli Anni Dieci del secolo scorso, vi lavorava Bertrand Russell, che però non ne fu nominato membro per il suo agnosticismo in materia religiosa e fu successivamente licenziato. Ce lo racconta lui stesso, nei Saggi scettici pubblicati originariamente nel 1928 e ripresentati in una nuova edizione da Longanesi (trad. di Sergio Grignone, intr. di Giulio Giorello, pp. 333, 19,60).
Il vecchio maestro non disdegna le piccole certezze della quotidianità, ma non ne trae generale conforto perché ovunque s’impongano scadenze decisive quelle certezze non hanno nulla da dirci e chi afferma altrimenti è un ipocrita. Sono dubbi, dunque, tutto ciò che Russell ha da offrire: non solo sulla religione ma sulla politica, sull’etica, sulla scienza, sulla psicologia, sull’economia, sul futuro e perfino sullo scetticismo! Con il coraggio e l’onestà intellettuali di chi è disposto a mettere davvero tutto in gioco e a lasciarcelo: di chi sa vivere l’inquietante anomalia filosofica fino in fondo.
"Il professor Blackburn ci rassicura, ma noi preferiamo Russell, uno scettico che aveva solo dubbi da offrire Riscoprire il metodo di Wittgenstein: «correggere» la filosofia ritornando alle regole del gioco linguistico"

La Stampa Tuttolibri 18.6.11
Autobiografia, tra idee e affetti
Severino e il ricordo degli eterni
Emanuele Severino


E’ il filosofo di Parmenide, il pensatore dell’Essere assoluto, che negava il divenire. Emanuele Severino ripercorre la sua esistenza in Il mio ricordo degli eterni (Rizzoli, pp. 163, 18,50). La famiglia d’origine (natali a Brescia nel 1929), gli studi, i maestri (allievo di Gustavo Bontadini, da cui si distaccherà), la controversia con la Chiesa che lo allontanò dalla cattedra alla Cattolica, la figura essenziale che è stata la moglie Esterina. Luoghi, volti, esperienze, alla luce della consapevolezza che «ciò che se ne va scompare per un poco. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare». L’autore di Essenza del nichilismo sospeso tra vita e pensiero, via via lasciando intendere, come giunse a sostenere Bobbio, che procedendo negli anni a contare sono infine più gli affetti che i concetti.

Oggi con Repubblica a solo un euro
L´uomo e il suo doppio nel "Dottor Jekyll e Mr Hyde" di Robert Louis Stevenson

Repubblica 18.6.11
Ginevra
Omosessuali, passa la risoluzione Onu "Voto storico, tutti hanno pari dignità"


GINEVRA - Il Consiglio dei diritti umani dell´Onu ha approvato una risoluzione "storica" (23 sì, 19 no e 3 astensioni) che afferma la parità dei diritti per tutti gli esseri umani, indipendentemente dall´orientamento sessuale. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti e a ciascuno di loro spettano tutti i diritti e le libertà senza distinzione di alcun tipo», si legge nel testo.

venerdì 17 giugno 2011

il Riformista 17.6.11
Intervista a Anna Maria Panzera
Caravaggio antiumanista
di Roberta Lombardi

nelle edicole, più tardi disponibile qui
segnalazione di Giovanni Senatore

Questo articolo del Washington Post ha vinto il Premio Pulitzer nel 2010:
Internazionale n.902 17.6.11
Bambini dimenticati
di Gene Weingarten, The Washington Post

nelle edicole, più tardi disponibile qui

La Stampa 17.6.11
Clandestini espulsi e immigrati nei Cie fino a diciotto mesi
Il governo vara un nuovo decreto legge voluto da Maroni
La svolta caldeggiata dalla Lega che si era vista bloccata la linea dura
Cittadini comunitari. Per la prima volta introdotta la misura del rimpatrio se sono ritenuti pericolosi
di Flavia Amabile


Espulsione immediata per tutti i clandestini, e aumenta il tempo di permanenza nei Cie a 18 mesi. A tre giorni da Pontida e dalla resa dei conti con la Lega, il Consiglio dei ministro ha approvato un decreto legge fortemente voluto dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Alla fine del consiglio il premier Silvio Berlusconi spiega che il prolungamento dei tempi è necessario per rendere possibile «l'identificazione e la procedura di espulsione» e che il decreto dà «attuazione a due direttive europee».
Si tratta di un’indubbia accelerazione alla lotta contro l'immigrazione irregolare che negli ultimi tempi è risultata bloccata dalle sentenze della Corte di giustizia europea e della Corte Costituzionale che considerano poco coerenti con le norme le fughe in avanti volute dalla Lega.
Il ministro Maroni però si dice sicuro di sé. Il decreto, sottolinea, «é coerente con le norme dell'Unione». Anzi, le rende più chiare perché «fornisce un'interpretazione della direttiva europea sui rimpatri (la 115 del 2008), che finora era stata interpretata dalla magistratura con la possibilità di consegnare ad alcuni clandestini un foglio di via, dando loro da 7 a 30 giorni per allontanarsi dall'Italia, vietando di fatto le espulsioni coattive». Col decreto approvato, ha proseguito, «noi le ripristiniamo per tutti gli extracomunitari clandestini pericolosi per l'ordine pubblico, a rischio fuga, coloro che sono stati espulsi con provvedimento dell'autorità giudiziaria, violano le misure di garanzia imposte dal questore, violano il termine per la partenza volontaria». E il giro di vite riguarda anche i cittadini comunitari, per i quali, «viene introdotta per la prima volta l'espulsione per motivi di ordine pubblico se permangono sul territorio nazionale in violazione delle prescrizioni della direttiva sulla libera circolazione dei comunitari».
Il punto più contestato del decreto è il prolungamento del periodo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) fino a 18 mesi, «attraverso una procedura di garanzia – ricorda Maroni - che passa dal giudice di pace. Nel 2009 quando noi abbiamo messo mano alle normative, si poteva trattenere nei Cie solo due mesi, poi siamo passati a 6 e adesso termine il termine è di 18 mesi per consentire l'identificazione oppure l'effettiva espulsione, cioè l'ottenimento da parte dell'autorità diplomatica del Paese di origine del visto d'ingresso. Può passare molto tempo, in 18 mesi siamo in grado di garantire l'espulsione di tutti coloro vengono messi nei Centri».
Canta vittoria Roberto Calderoli, ministro leghista della semplificazione normativa. «Arrivano le prime risposte concrete ai problemi abbiamo posto». Soddisfatto anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Da molto tempo aspettavamo questo strumento se la legge sarà simile alle nostre attese sarà finalmente possibile espellere i cittadini comunitari che violano la legge così come gli extracomunitari». In questo modo, «possiamo garantire i cittadini romani e le comunità di immigrati rispetto a coloro che violano la legge italiana e le regole».
Decisamente contrarie le opposizioni e il mondo cattolico. «Si vede che mancano tre giorni a Pontida», commenta Anna Finocchiaro, presidente del gruppo in Senato . «Non c'è che dire: – aggiunge - continua il pericoloso populismo demagogico del governo. In nome del ricatto leghista, spunta l'assurda e grave, quanto inapplicabile e inattuabile, detenzione nei Cie di persone incensurate fino a 18 mesi e le altrettanto poco attuabili espulsioni immediate». Per il leader di Sel Nichi Vendola si tratta di «un atto tanto volgare quanto disperato». E, ancora: «uno scalpo da esibire a Pontida» . Leoluca Orlando (Idv) sottolinea che l’estensione della permanenza nei Cie è «contraria alle norme comunitarie».
«Vuol dire esasperare maggiormente la situazione», osserva mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei, mentre i Gesuiti del Centro Astalli parlano di decisione «assurda». Per mons. Perego, i Cie «non sono un luogo dove le persone vengono tutelate». «Il problema vero - dice al Sir, l'agenzia dei vescovi - non sono tanto i tempi quanto il luogo di trattenimento. Sappiamo che i Cie sono un luogo di grande conflittualità, violenza, autolesionismo, perché la persona non è tutelata». Inoltre «nei Cie non c'é nessun progetto, mancano percorsi che possano portare ad un discorso lavorativo, scolastico e di tutela più generale». «E' una forma di carcerazione - aggiunge il direttore di Migrantes - che non aiuta assolutamente la promozione della persona», considerando che «la clandestinità non è reato». Per Paolo Ferrero (Prc), «riemerge l'anima autenticamente xenofoba e securitaria» del ministro. L'Arci ha definito una «vergogna» l'aumento a 18 mesi per il trattenimento nei Cie, il Cir (Consiglio italiano rifugiati), un «atto punitivo, viste le condizioni in cui versano questi centri».

il Riformista 17.6.11
Nei Cie 18 mesi ed espulsioni coatte pure per cittadini Ue
Il piano di Maroni. Presentato il nuovo pacchetto immigrazione. Aumenta di un anno la permanenza dentro i centri di identificazione ed espulsione. Critiche da opposizioni e Onu.
di Francesco Persili

nelle edicole, più tardi disponibile qui

«si sono incontrate le delegazioni del Parlamento di Tel Aviv e della Lega Nord...hanno discusso delle comuni radici giudaico-cristiane di Europa e Israele»
Corriere della Sera 16.6.11
Attraverso Maroni e Israele la Lega scopre la politica estera
di Dario Di Vico

qui
https://docs.google.com/document/d/1b7NsoJsvgdnEuaE_7ifFmXMNwleOoXhDsY1FRJPrkL8/edit?hl=it

il Fatto 17.6.11
Al freddo e in catene: i nuovi schiavi europei
Traffico di disperati tra Portogallo e Spagna. Lo stesso trattamento dei negrieri
di Alessandro Oppes


Madrid. La crisi, in qualche modo, c’entra. Con le sue devastanti conseguenze di precarietà, disoccupazione, nuove povertà. Ma mai nessuno avrebbe immaginato che potesse produrre un effetto collaterale distorto e criminale che si sperava cancellato per sempre dal codice genetico delle società avanzate: si chiama schiavitù – ed è in tutto simile nelle forme alla pratica aberrante abolita due secoli fa – la nuova ombra inquietante che plana minacciosa sul vagone di coda dell’Europa del XXI secolo. La prima prova tangibile della ricomparsa dei “negrieri”, e delle loro vittime, è in una sentenza pronunciata ad aprile dal Tribunale di Fundão, nel Portogallo centro-orientale. Sul banco degli imputati, una banda criminale a gestione familiare: il capo, Antonio José Fortunato Maria, soprannominato “Tó Zé Cigano”, e i genitori settantenni, entrambi complici. Oriundi portoghesi ma residenti in Spagna. Qui percorrevano le campagne per verificare chi avesse bisogno di manodopera a basso costo. Poi tornavano al loro paese d’origine e andavano alla ricerca di persone che vivessero in miseria, preferibilmente unita a problemi di alcolismo o deficienze mentali. Quello che offrivano era una retribuzione minima, assicurando però vitto e alloggio gratis a cambio del lavoro nei campi.
UNA VOLTA ARRIVATI in Spagna, la situazione a cui i malcapitati si trovavano di fronte era completamente diversa. L’incubo cominciava con il sequestro dei documenti. Li obbligavano a lavorare anche 20 ore al giorno tra percosse incessanti, freddo, fame e ogni tipo di vessazioni. Dormivano in 12 incatenati gli uni agli altri – proprio come avveniva all’epoca della tratta degli schiavi nelle stive delle navi negriere – in un pollaio vecchio e sudicio. Qualcuno, come il minorenne Ricardo dos Santos, è poi riuscito a fuggire da questa “hacienda” degli orrori, nelle campagne di Iscar, provincia di Valladolid, ad appena 150 chilometri da Madrid. E alla denuncia sono seguite le condanne: vent’anni di carcere a “Tó Zé Cigano”, 12 e 8 ai genitori. L’accusa: pratica della schiavitù. È la prima volta che accade nella storia del Portogallo. Ma non sembra destinata a essere l’ultima. Di recente è stata sgominata un’altra banda che portava disperati portoghesi in Spagna. A Coimbra è già tutto pronto per celebrare il processo contro i sette imputati principali, con una ventina di vittime disposte a raccontare tutto davanti ai giudici.
Secondo il quotidiano di Lisbona Publico, la schiavitù è un crimine sempre più diffuso in Portogallo. Le piantagioni spagnole di cipolle, patate, carote e aglio non sono l’unica destinazione dei nuovi schiavi. A far scattare l’ultimo campanello d’allarme è il sindacato degli edili, che parla di migliaia di portoghesi sfruttati in modo vergognoso persino in Francia e Germania, dove lavorano dodici ore al giorno e vivono in condizioni subumane, in 15 in una stessa stanza.
LA CRISI FINANZIARIA li costringe a partire, a volte allettati da promesse di stipendi fino a 2.500 euro al mese, che poi, alla prova dei fatti, non superano in genere i 700. Ma per chi resta in Portogallo, le cose possono andare anche molto peggio: come il caso, denunciato dall’arcivescovo di Beja, monsignor Antonio Vitalino Dantas, di “centinaia di persone impegnate in modo abusivo nella raccolta delle olive”. Succede a poca distanza dai lussuosi resort turistici dell’Algarve, nella regione dell’Alentejo, dove si vedono cittadini portoghesi (ma anche rumeni, bulgari o moldavi), lavorare a piedi scalzi, al freddo, e frugare nei bidoni della spazzatura per non morire di fame.

l’Unità 17.6.11
«Io firmo» punta a raccogliere 500 mila firme entro settembre. Tra i promotori Passigli, Sartori, Cheli
Adesioni eccellenti, da Abbado a Hack, da Piano a Eco, da De Mauro a Carandini, da Pollini a Loy
Un’altra onda referendaria per portarsi via il Porcellum
Lo tsunami referendario potrà affondare anche la pessima legge elettorale? Ci credono Passigli, Sartori & co che hanno presentato ieri «Io firmo, riprendiamoci il voto»: quattro quesiti per cambiare il sistema politico.
di R. Bru.


L’onda alta del referendum può portarsi via anche il Porcellum? L’idea è semplice, l’obiettivo ambizioso, ma non impossibile: 500 mila firme entro la fine di settembre. Quattro punti per intervenire chirurgicamente sulla legge elettorale: togliere di mezzo le liste bloccate che confinano dentro il recinto dei partiti la scelta dei candidati lasciando fuori gli elettori, eliminare il premio di maggioreanza, che attribuisce tutto il potere ad una minoranza, fissare una soglia di sbarramento al 4%, vietare l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda, perché questa scelta deve essere rigorosamente attribuita, come prevede la Costituzione, al capo dello Stato. La parola, insomma, torni ai cittadini.
L’iniziativa «Io firmo, riprendiamoci il voto» è stata lanciata ieri dal Comitato per il referendum sulla legge elettorale, che già vede una rosa di adesione che sembra comporre il gotha delle eccellenze italiane: da Claudio Abbado ad Alberto Asor Rosa, da Andrea Carandini a Umberto Eco, da Rosetta Loy a Carlo ed Inge Feltrinelli, da Tullio De Mauro a Dacia Maraini, da Renzo Piano a Maurizio Pollini, da Corrado Stajano a Innocenzo Cipolletta, da Benedetta Tobagi a Margherita Hack.
Spiega Stefano Passigli, uno dei promotori del referendum, che «ogni tentativo di modificare la legge è destinato a fallire», perché gli effetti del Porcellum sono proprio la frammentazione politica, le coalizioni disomogenee e ingovernabili, il trasformismo. Qualcosa che è molto lontano dal sogno maggioritario alla anglosassone sognata da Mario Segni nei roventi anni novanta. Ecco allora questa mobilitazione trasversale, volta a tagliare di netto i quattro punti più controversi della legge Calderoli. Che, lo ricordiamo, è in vigore dal dicembre 2005 e fu battezzata non a caso «Porcellum» dal politologo Giovanni Sartori, oggi tra i promotori del nuovo referendum: è lui a ricordare «uno dei maggiori vizi della legge», ossia il premio di maggioranza dato a una minoranza. «Falsa tutto il sistema politico: le leggi elettorali trasformano i voti in seggi e questa legge li trasforma male». Lui ritiene adatto all’Italia «il doppio turno alla francese o quello tedesco». Ma perché ricorrere ad un referendum? Con la sua consueta franchezza, Sartori non ha dubbi che sia «l’unico rimedio contro l’inerzia dei partiti in materia di legge elettorale». Alla fine, è il costituzionalista Enzo Cheli a riservare l’affondo più netto: «Dopo la legge Acerbo (quella del 1923, voluta da Mussolini allo scopo di assicurare al partito fascista una maggioranza granitica, ndr), è la peggiore legge elettorale della storia italiana: intere aree sociali buttate fuori dal parlamento, mentre il premio di maggioranza dato ad una coalizione al di là di una soglia minima è a rischio costituzionalità».
Bene. Ma un problema, che già ha cominciato a causare qualche polemica, c’è. Ed è il fatto che, quel che ne uscirebbe sarebbe una legge proporzionale, che butterebbe a mare vent’anni di maggioritario. Infatti, il padre del maggioritario italiano, Mario Segni, protesta con durezza: «Il referendum Passigli è il ritorno alla peggiore partitocrazia». Arturo Parisi è d’accordo: «Che la legge elettorale introdotta da Berlusconi debba essere abrogata al più presto è fuori discussione. Ma una cosa è abrogarla per andare avanti verso una democrazia compiuta. Un’altra è abrogarla per tornare indietro alla stabile instabilità della prima repubblica».
I nuovi referendari la mettono così: l’iniziativa intende essere uno stimolo per spingere il parlamento a modificare il Porcellum, colpevole di aver sprofondato l’Italia «in un finto bipolarismo che riversa la frammentazione politica in ciascuno dei due schieramenti garantendo solo l’ingovernabilità del paese». E poi, chiude Passigli, «nel nostro referendum la soglia al 4% senza eccezione alcuna ridurrebbe a sei il numero dei partiti attuali». Detta così sembra semplice, ma l’ex senatore rivela che per riuscire a modificare la legge elettorale con lo strumento referendario è stato necessario un complicatissimo lavoro di «tagli e cuci»: i quattro quesiti sono formulati in modo da apporre alla legge 90 modifiche. Di tutto, per affondare il Porcellum.

il Fatto 17.6.11
Referendum
Tre quesiti contro la legge porcata


Tre quesiti per cambiare il porcellum, la “peggiore delle leggi elettorali possibili”. È partita ieri una nuova campagna referendaria, dopo il successo dei Sì su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Questa volta, la legge da abrogare è quella che traduce in seggi i voti degli elettori, senza dare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Dunque: “Riprendiamoci il voto”. Come si fa? Primo, abolire le liste bloccate e chiudere con il Parlamento dei “nominati”, dove il rischio “trasformismo” è moltiplicato all’ennesima potenza: l’eletto non risponde all’elettore ma a chi gli garantisce il mantenimento del seggio. Secondo, l’abrogazione del premio di maggioranza che con la “porcata” (Calderoli dixit) viene attribuito alla lista che ottiene anche un solo voto in più rispetto alle altre. Un “vizio”, ha spiegato ieri il politologo Giovanni Sartori, che “falsa tutto, perchè dà un premio di maggioranza a una minoranza”. Terzo, cancellare le “deroghe” alla soglia di sbarramento (ora varia se i partiti sono coalizzati o meno) e tornare al 4% valido per tutti, per evitare il proliferare dì mini-partiti. Quarto, eliminare l’indicazione del candidato premier: il Porcellum ha inserito un meccanismo dei sistemi presidenziali, senza che ci siano gli adeguati contrappesi. Nel Comitato promotore ci sono esperti di diritto e di scienza della politica (Stefano Passigli, Enzo Cheli, Giovanni Sartori, Gustavo Visentini ) che sanno perfettamente che dal referendum non uscirebbe la migliore legge elettorale possibile, ma “qualsiasi innovazione” è meglio che restare fermi. Che poi è quello che sta facendo il Parlamento. Sartori non esista a parlare di “inerzia” e pure di “malafede”. Tutti, comunque, si augurano che alla Camera e al Senato si trovi presto un accordo, perché “la via parlamentare” resta quella maestra. La campagna referendaria può servire da stimolo, anche se al Comitato sono consapevoli che non saranno i big dei partiti ad aiutarli nella raccolta firme. L’unica reazione positiva è arrivata dall’Udc, sostenitrice del proporzionale. I fan del bipolarismo del Pd, invece, l’hanno già bocciata. Si tornerebbe “alla stabile instabilità della prima Repubblica”, dice Arturo Parisi; è una proposta “in direzione opposta a quelle del Pd” anche per il costituzionalista e senatore democratico Stefano Ceccanti. Contro i referendari anche i Radicali. In compenso, hanno aderito alla proposta, tra gli altri, Umberto Eco, Alberto Asor Rosa, Dacia Maraini, Innocenzo Cipolletta, Renzo Piano. Si comincia dalla settimana prossima. I moduli sono scaricabili da www.referendumleggeelettora  le.it  . Obiettivo: 500 mila firme entro fine settembre. (pa.za.)

I firmatari: Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Maurizio Pollini, Tullio De Mauro, Mario Pirani, Umberto Ambrosoli, Alberto Asor Rosa, Gae Aulenti, Andrea Carandini, Luigi Brioschi, Vittorio Gregotti, Renzo Piano, Carlo Federico Grosso, Benedetta Tobagi, Franco Cardini, Luciano Canfora, Margherita Hack, Carlo Feltrinelli, Inge Feltrinelli, Rosetta Loy, Giovanni Sartori...
«Sì agli eletti, no ai nominati». Abolire le liste bloccate, cancellare il premio di maggioranza e l’indicazione del candidato premier, la Camera eletta col proporzionale con una soglia di sbarramento unica al 4%
I parlamentari non sarebbero più nominati dalle segreterie dei partiti, ma scelti con la preferenza unica
Corriere della Sera 17.6.11
Legge elettorale Segni, Parisi  Tonini e i Radicali contro i referendari
Passigli, Pd, lancia la raccolta di 500mila firme e replica: «Sono solo gelosi delle opere altrui»
di M. Gu.


ROMA — Parte la corsa per abolire il «porcellum» . Ed è subito scontro. Sulla necessità di cambiare il sistema elettorale in vigore sono (quasi) tutti d’accordo, ma la nascita di un Comitato per il referendum fa litigare i nemici del modello ideato da Roberto Calderoli. La mobilitazione trasversale «Io firmo. Riprendiamoci il voto» è stata presentata a Roma da Stefano Passigli e ha suscitato un vespaio di polemiche. Insorgono referendari storici come Segni, costituzionalisti come Ceccanti e Barbera, i veltroniani con Tonini e i Radicali con Staderini. Ma intanto il comitato continua a reclutare nomi noti della cultura: Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Vittorio Gregotti, Giovanni Sartori, Renzo Piano, Innocenzo Cipolletta... Il comitato ha depositato i quesiti in Cassazione e ha lanciato la raccolta delle 500 mila firme necessarie. «Sì agli eletti, no ai nominati» , dice uno degli slogan della campagna. Abolire le liste bloccate è il primo obbiettivo dei referendari, che vogliono cancellare il premio di maggioranza e l’indicazione del candidato premier, nonché fissare una soglia di sbarramento unica al 4%. La Camera risulterebbe eletta col proporzionale e i parlamentari non sarebbero più nominati dalle segreterie dei partiti, ma scelti con la preferenza unica. Il Senato sarebbe eletto su base regionale, senza premio e in collegi uninominali. Mario Segni, leader del fronte referendario anni 90, accusa Passigli di voler tornare «al periodo più squallido della prima Repubblica» e ai governi «fatti e disfatti dai partiti alle spalle dei cittadini» . Ma Passigli ribalta le critiche: «Segni, come tutti gli autori, soffre di gelosia nei confronti delle opere altrui» . Arturo Parisi non è d’accordo, anche per lui si tornerebbe «indietro di vent’anni» e a scegliere i governi sarebbero i «capipartito» . Referendum «strambo» è il commento di Augusto Barbera, convinto che i promotori stiano agitando uno specchietto per le allodole: «L’elettore non sceglierebbe i governi e nemmeno i candidati» . Il segretario radicale Mario Staderini trova «grottesco» che Passigli abbia escogitato una «controriforma proporzionalistica che ci porterebbe dritti a Weimar, mentre Pierluigi Mantini conferma il gradimento dell’Udc e rilancia il modello tedesco: «Sosteniamo il comitato con convinzione».

Repubblica 17.7.11
“Un popolo si è messo in marcia la politica si lasci contaminare dai nuovi colori dei movimenti"
Saviano: chi vuole cambiare ha saputo unirsi
intervista di Annalisa Cuzzocrea


Non c´è un percorso definito, né un unico programma. Tutto questo ha un sapore rivoluzionario
La Rai ha perduto credibilità, lavora contro i suoi migliori programmi: la gente deve difenderli
La macchina del fango è stata scoperta, non sconfitta. Quella su Bisignani è una inchiesta fortissima

ROMA - La fine dell´indifferenza. La rivincita sulla paura. A suo modo, una rivoluzione. Roberto Saviano legge così i giorni delle elezioni amministrative e dei referendum, i giorni in cui l´Italia si è scoperta un Paese diverso. Lancia una sfida alla politica: si faccia contaminare dai colori dei movimenti. Alla Rai: se non vuole Vieni via con me la rifarò altrove, magari all´estero. Poi avverte: la macchina del fango è stata scoperta ma non sconfitta.
I giovani sono tornati. Il bene comune è di nuovo al centro della scena dopo anni di silenzio e individualismo?
«Credo che qualcosa stia cambiando in modo radicale e che metta molta paura al governo. Quello che sta avvenendo è una sorta di mutazione dell´indifferenza. Il termine movimento non è corretto, parlerei quasi di una moltitudine, di un popolo in cammino. Perché non c´è per ora un percorso definito, non c´è un solo e unico programma, ma arrivano da più parti. Tutto questo ha un sapore rivoluzionario. Sa di rivoluzione liberale così come la intendeva Gobetti».
I segnali di questo cambiamento si potevano già intravedere?
«La politica in questi anni è stata lontana dai problemi reali, e questa distanza - paradossalmente - ha significato poter comprare voti. "Manca il lavoro? Votami e l´avrai". "Le strade non vanno bene, hai bisogno di un asilo? Appoggiami e forse l´avrai". Finalmente da cittadini stiamo capendo che lo scambio non significa avere qualcosa, ma perdere tutto il resto. Quel politico che magari ti apre la piscina comunale ti sta togliendo tutto il resto. I segnali erano nella protesta degli studenti, in quella delle donne, nella manifestazione per la libertà di stampa, al Palasharp. Lì c´erano cittadini che chiedevano risposte».
In questo scenario, quale deve essere il ruolo dei partiti?
«I partiti vincono se sanno guardare oltre se stessi. E questo non significa cedere all´antipolitica. Significa cambiare la selezione delle classi dirigenti non cercando solo amministratori ma talenti. La moltitudine di cui parlavo ha portato alla politica colori nuovi: il viola, l´arancione. I cittadini hanno saputo mescolarsi, hanno saputo unirsi come i partiti non sono riusciti a fare. Questi nuovi colori possono trasformare i partiti a una condizione: che gli apparati non ne siano spaventati. Devono essere disposti ad ascoltare prima ancora di indicare una strada. È fondamentale trasmettere idee che vadano oltre i personaggi carismatici, idee che siano valide per se stesse e possano sopravvivere al politico del momento».
Lo scorso 14 dicembre a Roma gli studenti protestavano in piazza mentre il Parlamento era chiuso a votare una fiducia rattoppata al governo. Oggi, dopo il referendum, quell´immagine è un simbolo: il fortino della maggioranza assediato da un movimento che gli cresce attorno e con cui non sa e non vuole comunicare. Il caso Brunetta è l´ultimo esempio. Come si reagisce a questa chiusura?
«Il governo ha paura, non rispondere è avere paura. E la loro chiusura è l´inizio della fine, la dimostrazione della loro debolezza. Il movimento dei giovani ha saputo rinunciare alla strada della violenza e ha rilanciato nuove forme di comunicazione, di aggregazione. Anche laddove c´erano posizioni diverse ci si è uniti nella necessità di dover cambiare il Paese. Questa è la novità che la politica dei partiti non ha saputo trovare, e che ha risposto - vincendo - alla chiusura del governo».
Da una parte il ruolo di Internet, che ha veicolato i messaggi della politica portandoli in ogni casa, attraverso giovani che hanno convinto genitori, zii, nonni. Dall´altra la vecchia televisione, che dovrebbe parlare a tutti ma che in questo caso è sembrata non raggiungere nessuno. Il servizio pubblico non esiste più?
«La Rai perde autorevolezza. Quando, nei giorni successivi la vittoria dei sì al referendum, fa più di un servizio attaccando i social network per vendicarsi del ruolo che Facebook ha avuto alle ultime elezioni. Quando nel servizio sul processo che condanna Dell´Utri si riferisce la seconda parte della sentenza, ovvero l´assoluzione per i fatti successivi al ‘92, e non la condanna per quelli precedenti, la televisione diventa propaganda. E perde credibilità. Verso tutti, non solo verso chi non è d´accordo con il governo».
Il ritardo nei palinsesti, trasmissioni come Vieni via con me e Annozero cancellate dal futuro della televisione pubblica. Come ha vissuto questi giorni?
«Con sofferenza. La Rai lavora contro le sue migliori trasmissioni. Vieni via con me è arrivata a 9 milioni di persone, ha superato il Grande Fratello e la Champions League parlando di temi difficilissimi, ed è stata cancellata. Perché parlava a un pubblico trasversale. Perché anche chi non è d´accordo con Mina Welby ha potuto ascoltarla, e riflettere. La Rai ha paura di Vieni via con me. Del suo successo, delle migliaia di elenchi e mail arrivate alla trasmissione, delle persone che il lunedì si riunivano insieme per seguirci. Ha preferito non parlarne, dimenticarlo. Ma io voglio rifarla, e con me vogliono rifarla Fabio Fazio e gli altri autori. Non so dove andrò, non so chi avrà il coraggio di ospitarla, se non vorrà farlo nessuno ci inventeremo uno spazio, magari all´estero. La verità è che la Rai è disposta a perdere denaro pur di non infastidire il potere politico. Come se un editore, davanti a uno scrittore che vende milioni di copie, preferisse rinunciarvi perché quell´autore parla a troppe persone. Mi sento di dire una cosa, anche come telespettatore: se vogliamo una trasmissione prendiamocela, chiediamola. Difendiamo con la presenza, con le parole, trasmissioni e storie che vogliamo ascoltare, da Annozero a Report, da Che tempo che fa a Parla con me. Noi da qualche parte forse troveremo uno spazio. Chi ora pone ostacoli avrà paura, noi no.
C´è chi dice che a questo punto, dopo il successo del referendum, visto il declino dei media tradizionali, si può considerare il conflitto di interessi italiano meno preoccupante, meno pericoloso per la democrazia. Basta l´ironia a sconfiggere la macchina del fango come è successo a Milano con Pisapia?
«In questa fase i media classici stanno subendo Internet, anche per la poca qualità della comunicazione. Ma se l´onda dell´indignazione dovesse scemare, quei media torneranno a essere centrali. La macchina del fango è stata scoperta, non sconfitta. L´inchiesta che ha portato all´arresto di Luigi Bisignani è un´inchiesta fortissima. Voglio essere cristallino: il gossip è un sistema di estorsione. Un racket. Con metodi identici a quelli mafiosi. Gossip è una parola allegra che nasconde il tentativo di distruggere l´immagine delle persone, giocando sulla vendetta».

l’Unità 17.6.11
C’è bisogno di persone sane
Luigi Cancrini risponde a Fabio Della Pergola


Sono in tanti a reclamare il merito e la gloria della vittoria. Anzi delle vittorie. Vorrei però dire che senza la pacata solidità di un Bersani non saremmo andati lontano. Sensazione indefinibile, ma non incomprensibile, di trovarsi di fronte uno che sembra sano nella mente. A differenza di Bossi e di Berlusconi con le sue fregole ossessivo/compulsive.

Penso anch'io che la «pacata solidità» di Bersani abbia avuto un ruolo importante in queste due vittorie della gente e del centrosinistra. La necessità di affidarsi a persone visibilmente «sane di mente» è forte nel tempo in cui il teatrino della politica è stato dominato da un narcisista megalomane. Bersani e pochi altri hanno cominciato a far vedere che intervenire in televisione non è, per il politico, l'occasione di esibirsi dilatando il proprio Ego ma un lavoro faticoso che serve ad aiutare chi ascolta a capire qualcosa di più sui problemi del Paese. Anche se molto c'è da lavorare ancora per fare chiarezza sul modo in cui il risveglio della società civile cui abbiamo assistito in questa fase servirà alla formulazione di un progetto di governo e alla valutazione del quadro di alleanze (elettorali) e di uomini (di governo) in grado di realizzarlo. Puntando, come nei referendum, sulle questioni concrete più che sui sentimenti più o meno confusi di appartenenza. Come dovrebbero fare sempre persone davvero sane di mente che si accingono a governare il loro paese.

Massimo D’Alema: «io mi sento l’altro, con la minuscola»
Corriere della Sera 17.6.11
D’Alema: «Come la fede, la politica è vocazione»
di Armando Torno


Ogni anno in Vaticano, all’inizio della quaresima, si tengono degli esercizi spirituali di fronte al Pontefice e alla curia romana. È una pratica che per taluni evoca la lezione di Sant’Ignazio, il fondatore dei gesuiti; tuttavia, dopo il Vaticano II, gli schemi sono stati rielaborati e integrati. Lo scorso anno tale compito è toccato a Enrico dal Covolo (rettore della Lateranense), che al centro delle riflessioni ha posto la vocazione. Il suo In ascolto dell’altro. Esercizi spirituali con Benedetto XVI, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana (pp. 216, e 16), è stato motivo dell’incontro di ieri, organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera in Sala Buzzati. Oltre l’autore, sono intervenuti Massimo D’Alema, Innocenzo Gargano (priore camaldolese di San Gregorio al Celio) e Alberto Melloni. Coordinava Gian Guido Vecchi. Gargano, leggermente critico, ha richiamato l’attenzione sulla «Lectio divina» — «Lettura divina» o modo di leggere la Sacra Scrittura — componente essenziale di questi Esercizi. Se nel secolo XII un monaco certosino chiamato Guigo descrisse le tappe più importanti di tale pratica, Gargano ha ricordato che la parte irrinunciabile oggi per praticarla sono l’ «ascolto della storia» e dell’altro (si scrive maiuscolo alla fine del percorso). Ha infine invitato ad «aprirsi all’oltre» , osservando che «il dubbio è la forza motrice della fede» . Senza di esso si finisce nel fideismo. Massimo D’Alema, attento e impeccabile nella scelta dei termini, dopo aver proferito «io mi sento l’altro, con la minuscola» , ricorda la sua formazione marxista e il continuo interesse al dialogo con il mondo cattolico e le Chiese. Non lascia cadere il «parallelo tra la vocazione sacerdotale e la politica intesa come scelta di vita» ; cita Max Weber, Antonio Gramsci, elogia le pagine del libro sui turbamenti dei giovane Giovanni Paolo II durante la guerra, non dimentica Enrico Berlinguer e una sua frase nella quale la vita politica può diventare una «chiamata» : «Sono rimasto fedele agli ideali della mia gioventù» . Del resto, sottolinea D’Alema, il pericolo per politico e sacerdote si annida nell’abitudine, nel mestiere: in tal caso si trasforma in un dispensatore e non in un testimone. Tra l’altro: «Ho trovato di grande valore l’impegno culturale dell’attuale Pontefice» . Del brevissimo intervento di Melloni salveremmo la locuzione «la pazienza di Dio» ; delle parole di dal Covolo: «Io credo nella presenza del male nel mondo, e anche in quella del demonio» . La più grande sua tentazione? «L’attorcigliamento su se stessi» . La battaglia del male desidera «annullare il dialogo» , far ripiegare gli uomini sui mezzi mediatici. Insomma, farli sprofondare in sé, nei soliloqui informatici della moderna Torre di Babele.

Corriere della Sera 17.6.11
È scontro fra Bersani e Vendola ROMA— Lite Bersani-Vendola su leadership e programma del centrosinistra. «La parola spetta al popolo delle primarie» dice il governatore pugliese all’Espresso. Replica Bersani: «Sono forse l’unico segretario di partito d’Europa e del mondo a essere eletto con le primarie. Ma l’idea che la scelta di una persona sia la chiave per risolvere i problemi non la condivido e in Italia ha provocato un mare di guai» . Chiude Vendola: «L’alternativa non sia la leadership di partiti e oligarchie» .

l’Unità 17.6.11
La crisi, l’Europa e il silenzio della sinistra
La devastante situazione economica è il frutto di scelte politiche sbagliate: perché la sinistra non le denuncia con forza? Tirare la cinghia non basta: bisogna cambiare i modelli di sviluppo
di Silvano Andriani


Se si considerano le elezioni tenutesi in Europa nell’ultimo anno Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Spagna, Portogallo appare una costante: i partiti al governo di destra o di sinistra subiscono pesanti sconfitte. Naturale, sostiene qualcuno: quando si tratta di applicare necessarie politiche impopolari, i partiti al governo ne pagano il prezzo. Ma probabilmente l’elettorato è più maturo di così e la scarso consenso che la risposta alla crisi riesce a ottenere dipende dal modo in cui essa viene raccontata e dalla visione del futuro che ne scaturisce. Per la sinistra esiste poi un problema particolare: dai risultati recenti emerge che agli occhi degli elettori la sinistra non riesce a distinguersi dalla destra nell’interpretazione della crisi e nella risposta ad essa.
Per quanto riguarda il passato in estrema sintesi si può dire che in Europa la sinistra, negli anni in cui è prevalso l’approccio “Terza via”, si è caratterizzata positivamente sul piano dei diritti e della modernizzazione culturale, ma non sulla definizione di una via diversa per la realizzazione del processo di globalizzazione e di un diverso modello di sviluppo e di società: eppure è soprattutto su questo terreno che si sta giocando e si giocherà la partita. Il caso del governo Zapatero è l’ultimo ed è molto chiaro.
Anche nel racconto della crisi in Europa non si avvertono nette differenze. Prevale la lettura del governo tedesco: ci sono stati “paesi virtuosi”, Germania in testa, che hanno puntato sulla competitività, hanno mantenuto attivi strutturali delle bilance dei pagamenti, hanno risparmiato e ci sono stati “paesi viziosi” che hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi, provocato crescenti passivi delle bilance dei pagamenti e si sono pesantemente indebitati con l’estero. Ora i paesi virtuosi devono con i quattrini dei propri contribuenti evitare il fallimento o l’espulsione dall’euro di quelli viziosi. Nessuna meraviglia che gli elettori tedeschi si sentano infelici e che la Merkel perda consensi anche se sono positive le performance dell’economia tedesca. Nessuna meraviglia che si tenda allora ad imporre ai Paesi viziosi terrificanti politiche di austerità che potrebbero rivelarsi controproducenti.
C’e un’altra lettura possibile. È evidente che gli attivi strutturali di certi paesi non potrebbero esistere senza i passivi strutturali di altri; che i paesi viziosi non avrebbero potuto indebitarsi così pesantemente per aumentare i propri consumi se le banche dei paesi virtuosi non avessero fatto loro credito utilizzando sconsideratamente i risparmi dei propri clienti. Non esistono allora virtuosi e viziosi, ma solo due facce dello stesso vizio: uno sviluppo squilibrato che richiederebbe per essere corretto politiche diverse da quelle correnti.
Che la crescita economica dell’Europa stesse andando in una direzione diversa da quella auspicata nei progetti politici tipo “Libro bianco” o “ Progetto Lisbona” e che ciò mettesse in evidenza la mancanza di politiche adeguate per ottenere lo sviluppo desiderato si poteva vedere in tempo reale, ma la sinistra non ha fissato su questo tema il confronto sul futuro dell’Europa. Ed anche oggi non riesce a fare emergere una visione del futuro diversa da quella sconcertante che emerge dalla semplice tendenza all’austerità.
Prima ancora di entrare nel merito delle politiche alternative, tuttavia, vi è un tema a monte. È chiaro ormai che gli orientamenti che prevarranno a livello sovranazionale e i diversi scenari che essi configureranno avranno un’influenza determinante sul futuro. Per le scelte nazionali farà una grande differenza se a livello mondiale si affermeranno atteggiamenti conflittuali e pratiche protezioniste più o meno mascherate o si riuscirà a creare nuove forme di cooperazione tali da consentire di ristabilire un controllo politico sul processo di globalizzazione e ridurre gli squilibri.
A livello europeo la rottura dell’area euro appare ora un’eventualità possibile. È chiaro che l’Unione europea non resterà così come è: o andrà avanti nel processo di unificazione o dovrà fare dei passi indietro. Ed è altrettanto chiaro che il fatto che si realizzi una scenario o l’altro farà un’enorme differenza per le diverse politiche nazionali. Ma queste scelte non fanno parte del dibattito politico della sinistra. Certo esiste un documento del Partito Socialista Europeo ed anche una proposta di programma del Pd dove questi temi vengono in parte affrontati, ma si tratta di documenti semiclandestini che non stanno influenzando il dibattito e le scelte.
La sinistra non ha alcuna speranza di recuperare un consenso sostanziale dando ai cittadini un senso del proprio futuro senza rimettere questi temi al centro del dibattito politico.

l’Unità 17.6.11
Intervista a Maurizio Landini, segretario generale Fiom-Cgil
«Abbiamo 110 anni
e tanti giovani con noi I vecchi sono gli altri»
«Su Pomigliano abbiamo visto giusto, colpisce che il governo e la politica non vedano la realtà. E non è vero che seguiamo solo le vie dei tribunali»
di Massimo Franchi


Storia e cronaca, cronaca e storia. L’anniversario dei 110 anni di vita per la Fiom cade in contemporanea con le notizie sulla cassa integrazione a Nola e Pomigliano e alla vigilia del processo di Torino intentato proprio dal sindacato di Landini contro la Fiat per il trasferimento di impresa «mascherato» nella stessa Pomigliano. Una specie di circolo che si chiude fra la nascita del sindacato dei metalmeccanici e l’attualità targata Marchionne.
Landini, come si sente ad essere il segretario generale di un sindacato con 110 anni di storia? «Beh, l’età non si sente. Si sente invece la responsabilità di guidare un sindacato che è si è sempre battuto per trasformare la società, che ha contribuito alla conquista di diritti fondamentali per i lavoratori, oggi rimessi in discussione. Non ci sentiamo vecchi anche perché proprio negli ultimi tempi sentiamo attorno a noi l’affetto di tanti giovani e il rinnovato interesse per le questioni del lavoro. Un’attenzione che rende felici ma che allo stesso tempo aumenta, se possibile, le nostre responsabilità». La Fiat ha chiesto la cassa integrazione per cessazione attività a Pomigliano, due anni di cig per ristrutturazione e riorganizzazione nel polo logistico di Nola e due per cessazione attività dell'ex Ergom.
«Credo che questa notizia confermi tutti i dubbi sugli investimenti e sui tempi della vicenda Pomigliano. Dopo il referendum qualcuno parlava di futuro radioso. Invece quasi un anno dopo ci troviamo di fronte alla cassa integrazione in deroga che scade il 18 luglio e l’azienda che ne chiede per altri due anni, decidendo di chiudere altri suoi stabilimenti. Il problema è che le cose che la Fiat ha raccontato un anno fa si stanno rivelando false. Avevano detto più occupazione e invece gli operai sono in Cig e non sanno assolutamente quanti e quando torneranno a lavorare. Mi pare di poter dire che, un anno dopo, avevamo visto giusto su Pomigliano. Colpisce che il governo e la politica in generale continuino a mettere la testa sotto la sabbia per non vedere la realtà e che rimangano subalterni alla Fiat».
In questo quadro, domani inizia a Torino il processo per il trasferimento d’impresa della Newco a Pomigliano... «Mi pare che quanto successo avvalori la nostra tesi. Noi chiediamo al giudice di accertare la palese violazione di legge italiane ed europee sul trasferimento d'impresa, visto che gli operai si devono dimettere da un’azienda e verranno, forse, assunti da un’altra che fa lo stesso mestiere».
Non è che oramai la via giudiziaria è l’unica che seguite? «Da quando esiste il diritto del lavoro un sindacato che si trovi di fronte ad un'impresa che viola le leggi ricorre alla magistratura. È quindi un'attività sindacale. E non è vero che facciamo solo quello, come questa tre giorni di Bologna dimostra». Susanna Camusso è venuta alla festa e ha difeso le ragioni della Fiom. Come sono i rapporti con la confederazione?
«Il rapporto con la Cgil in tutta la nostra storia è stato dialettico, tra entità forti. In questo momento mi pare che dopo lo sciopero generale del 6 maggio da parte della confederazione ci sia grande attenzione per i temi da noi sollevati, in primo luogo rappresentanza e contro gli accordi separati. Chiediamo alla Cgil continuità sotto questo aspetto, chiedendo una legge sulla rappresentanza che renda obbligatorio il voto dei lavoratori su ogni accordo. Non certo quella proposta da Sacconi che vuole sostituire il contratto nazionale con quelli aziendali».
E con gli altri sindacati? Il perdurare dell’atteggiamento Fiat potrebbe far cambiare idea a Fim e Uilm? «Al momento non vedo segnali di ravvedimento. Anzi, la Uil ha appena disdetto l’accordo del ’93 sulla rappresentanza, andando in direzione opposta. Ma continuiamo a sperare che un ravvedimento alla fine ci sia. Noi siamo sempre pronti a coglierlo».❖

il Fatto 17.6.11
La “peggiore istruzione” Altri 20 mila insegnanti a casa
Terza tranche di tagli alle scuole, licenziati anche 14.200 tecnici
di Caterina Perniconi


Non ci sono solo precari nella parte “peggiore” del Paese: da settembre, a ingrossare le file degli sgraditi al ministro Renato Brunetta ci saranno anche 33.900 disoccupati in più tra docenti e personale tecnico della scuola.

Quando i bambini torneranno sui banchi non troveranno 19.699 insegnanti che fino all’anno scorso li hanno seguiti. Nonostante l’altro ieri il Consiglio di Stato abbia accolto la class action contro le classi “pollaio”, i tagli imposti dai ministri dell’Istruzione e dell’Economia, Mariastella Gelmini e Giulio Tremonti, con la Finanziaria 2008, continuano a falcidiare la scuola pubblica. A farne le spese saranno gli studenti, costretti a rinunciare a molte ore di lavoro con i loro docenti e le famiglie che dovranno rinunciare al tempo pieno. In Lombardia, per esempio, saranno tagliate 2.415 cattedre tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado, di cui la metà nella sola città di Milano che eliminerà 482 insegnanti nelle scuole superiori. Non va meglio agli studenti piemontesi che su un totale di 42 mila cattedre ne vedranno tagliate 1.179 di cui 625 a Torino e, complessivamente, 796 alle elementari. La situazione del Sud non è più rosea: in Campania il taglio sarà di 2.234 insegnanti, più della metà nella città di Napoli. Chi ne risentirà di più sono gli studenti della scuola superiore, che perderanno 1.081 docenti.
IL MINISTRO dell’Istruzione ha giustificato la riduzione affermando che i docenti “in Italia sono troppi”. Ma qualunque persona abbia avuto un contatto con la scuola pubblica sa invece che la verità è un’altra: la carenza di personale costringe all’addio al tempo pieno, a un numero sempre più ridotto di ore di compresenza tra insegnanti, che significa sostegno ai disabili e recupero per chi incontra maggiori difficoltà.
“Il taglio di 19.699 docenti provocherà l’ulteriore peggioramento della qualità dell’offerta formativa nella scuola pubblica – spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil – non si riesce più a garantire tutto il tempo pieno nella primaria e di quello prolungato nella secondaria. Alle superiori la riduzione di ore d’insegnamento e di laboratorio non garantiscono il salto di qualità necessario a garantire ai ragazzi una formazione all’altezza delle innovazioni del mondo del lavoro”.
I numeri delle altre regioni sono anche peggiori: in Sicilia, su un totale di 62.418 cattedre è previsto un taglio di 2.534 insegnanti, in Veneto di 1.398, in Abruzzo di 475, in Basilicata di 373 e in Calabria resteranno a casa 1.093 docenti. Stessa situazione al centro: in Emilia Romagna il taglio sarà di 881 cattedre, 917 in Toscana, 512 nelle Marche, 246 in Umbria, 158 in Molise e 1.989 nel Lazio, di cui 1400 nella Capitale. Infine, 364 insegnanti in meno in Friuli Venezia Giulia, 383 in Liguria, 670 in Sardegna e 1.878 in Puglia.
Non meno allarmanti i numeri che riguardano il personale tecnico amministrativo che vedrà ridurre il proprio organico di altre 14.200 unità. Infatti il piano triennale imposto dal governo con l’articolo 64 della legge 133 del 2008 ha tagliato in tutto 87.400 cattedre e 44.500 Ata tra il 2009 e il 2012.
 “Questo significa che migliaia di precari resteranno senza supplenze annuali – analizza Pantaleo – e tantissimi docenti saranno dichiarati in soprannumero e quindi costretti a cambiare sede o a fare da tappabuchi. Nel mezzogiorno la situazione è disastrosa. Di epocale nelle politiche del ministro Gelmini ci sono solo i licenziamenti di massa, la mortificazione delle professionalità e la distruzione della scuola pubblica per lasciare campo libero alla privatizzazione della istruzione pubblica”.
“NON APPAGATI dal triplice schiaffo preso tra amministrative e referendum, forse non hanno capito che i cittadini, nel conto presentato al Governo, hanno messo anche i tagli all’istruzione – dichiara Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Partito democratico – quale sarà l’effetto dell’ennesimo taglio? Classi affollate oltre ogni limite di legge, liste d’attesa nella scuola dell’infanzia, definitiva cancellazione delle compresenze e del tempo pieno, impossibilità per le scuole di organizzare i laboratori, meno sostegno per gli studenti con disabilità e altri precari licenziati che non sapranno di che vivere. Il risultato sarà un Paese meno uguale e con meno opportunità di crescita. Abbiamo chiesto la cancellazione dei tagli e la stabilizzazione di chi lavora su posti vacanti. Ma la miglior cosa sarebbe che questo governo, che non rappresenta più il sentimento di un Paese intero, andasse a casa”.
Senza dimenticare la denuncia dei sindacati di base sulla cassa integrazione prevista per 11.500 lavoratori nel settore delle pulizie. Forse servivano a pulire le cattedre che non ci saranno più.

il Fatto 17.6.11
Vieni via con me verso La7
La Rai si tiene Che tempo che fa e rinuncia all’evento dell’anno
di Carlo Tecce


È la Rai dei grandi numeri. Appena un programma fa un risultato d'ascolto straordinario, per rimediare a tanta fortuna, viene eliminato.
È successo con Annozero, salutato da 8,3 milioni di telespettatori. E si ripete con Vieni via con me che, nonostante 9,8 milioni di italiani in media a puntata, è considerato un fastidio in più e pure di nuova fabbricazione.
La Rai per mesi ha ignorato l'evento televisivo di Fabio Fazio e Roberto Saviano e nel contratto, che garantisce tre anni di Che tempo che fa, Vieni via con me non esiste, semplicemente. Il direttore generale Lei ha annunciato trionfalmente in Consiglio di amministrazione: abbiamo l'accordo con Fazio. Ma dimentica di ricordare che il giornalista, in fondo a una lunga trattativa, preferisce avere la libertà di fare altrove Vieni via con me perché la Rai non è interessata.
Nella cartina geografica televisiva, altrove cade su La7. Cade, appunto: come insegna la metafora confezionata per il Fatto da Giovanni Stella, amministratore delegato del gruppo di Telecom Italia Media, la concorrenza accoglie di buon grado chi viene più o meno tacitamente sbolognato da Viale Mazzini. Nessuno scappa dal servizio pubblico, tanto le porte per l'uscita sono vistosamente spalancate.
L'ELENCO come forma e mantra, tratto distintivo di Vieni via con me, impazza in rete e nei convegni dal novembre scorso, eppure né il presidente Garimberti né il direttore generale Lei (e prima Masi) mai hanno pensato di chiedere a Fazio e Saviano di tornare. A La7 aspettano senza farsi notare troppo, un atteggiamento che Stella traduce nel banano-Rai e macachi-conduttori con la sua televisione in posizione attendista. Per Michele Santoro è una strategia condizionata dal conflitto di interessi di Silvio Berlusconi: “Nella situazione italiana è un atto di estremo coraggio, ma in sostanza – spiega il giornalista a Un giorno da pecora – Stella dice: ‘Io sono in una tv che fa parte di un grande gruppo telefonico, sarebbe un guaio se Telecom usasse le sue risorse per andare a fare una campagna acquisti nel campo dei concorrenti di Berlusconi’”. Il rischio è prevedibile: “Questo non lo dice Stella ma lo dico io: perché altrimenti il governo potrebbe usare tutti i mezzi a sua disposizione per sparare su Telecom”.
Per confermare qualsiasi cattivo presagio, basta leggere le confidenze del Cavaliere ai ministri riuniti a Palazzo Chigi: il nostro calo di consensi è colpa dei programmi di La7, Annozero, Ballarò e Maurizio Crozza. Il presidente del Consiglio avrà un bel dispiacere il giorno del debutto di Santoro a La7. Una data che si avvicina sempre di più. Il giornalista risponde al quesito irrisolto da un paio di settimane: in percentuale, domandano a Radio2, quante possibilità hai di passare nella televisione di Enrico Mentana e Gad Lerner?
SANTORO riempie le possibilità numeriche scherzando con i conduttori e, in serata, aggiunge un commento per chiarire la situazione: “Fino a domani sono impegnato a Bologna. Non vedo alcun ostacolo perché la trattativa si possa concludere positivamente. Sempre che La7 lo voglia”.
Anche se fuori tempo massimo, il consigliere Rodolfo De Laurentiis (Udc) presenta in Cda Rai un ordine del giorno per convincere l’azienda a trattenere l’inventore di Anno-zero. Con una doppia motivazione per persuadere la maggioranza: aiutiamo la concorrenza e riduciamo la nostra pubblicità. E magari qualcuno è contento.

il Fatto 17.6.11
Parco Cecchin, la paura della piazza nera
A Roma intitolato un giardino (a due passi da Forza Nuova) a un militante di destra ucciso nel 1979
di Alessandro Ferrucci


Le facce, le bandiere, i gesti. Colore prevalente: il nero. E ancora gli atteggiamenti militareschi, la poca voglia di interagire con l’esterno, ma al tempo stesso la rabbia per una presunta emarginazione socio-culturale. La liturgia è completa. Immobile. Uguale a trenta e oltre anni fa, cambiano solo le generazioni. Luogo prescelto: Roma. L’occasione: l’intitolazione di un giardino di Piazza Vescovio, quartiere Trieste, a Francesco Cecchin, militante di destra ucciso da ignoti nel 1979. Ucciso in maniera infame. Per dirlo ci sono volute indagini su indagini, processi, accuse di scarsa capacità investigativa, polemiche infinite. La prima tesi fu: è morto perché caduto da un terrazzino mentre scappava da un’aggressione. L’ultima verità: qualcuno l’ha buttato di sotto dopo averlo inseguito, raggiunto e picchiato. Di sicuro, il biondo diciottenne con gli occhi azzurri è rimasto in coma per diciannove giorni. Poi è morto. Da allora è una sorta di “milite noto” dell’estrema destra romana, ricordato ogni anno con manifestazioni e picchetti, affissioni e pubblicazioni. Ogni anno lo organizzano sempre lì, proprio dietro piazza Vescovio, ai lati del portone nel quale aveva tentato di rifugiarsi e dove hanno aperto uno spazio-libreria, ritrovo dei militanti di Forza Nuova.
IN VETRINA testi sul Führer, altri su Mussolini, saggi su Salò, poi magliette, oggettistica, insomma, tutto quanto fa militanza. Parole poche, insulti molti e altrettanti gesti plateali, della serie: è meglio se ti levi di torno. Per loro, la maggior parte, i giornalisti dicono solo bugie, meglio non interagire, se poi uno scrive sul Fatto Quotidiano, ancora peggio “siete di parte, vattene. Che stai registrando? (nessuna stava registrando, ndr). E tanto di noi dite solo bugie”. Quindi inutile chiedere della paura riscontrata in molti degli abitanti della zona: due pensionati ci raccontano di aggressioni verbali, minacce perché trovati a leggere il Manifesto. Altri denunciano atteggiamenti bulleschi e comunque un clima poco sereno, peggiorato in questi ultimi giorni dopo le polemiche suscitate dalla decisione di intitolare il luogo a Cecchin. Si sono ribellati intellettuali, cineasti, cittadini comuni. Ma il sindaco Gianni Alemanno, il presidente del municipio Sara De Angelis e lo stesso ministro Giorgia Meloni sono andati avanti. Per loro nessun dubbio rispetto alla scelta fatta, al contrario una certa commozione manifestata al momento di scoprire la targa.
Comunque, per ottenere qualche risposta ci siamo allontanati dal gruppo principale. Scopriamo che in molti hanno votato al referendum, Silvio Berlusconi non è il loro punto di riferimento morale, credono nella solidarietà sociale e vogliono uno Stato maggiormente presente. Per carità, mai dimenticare il motto “ordine e disciplina”, passano gli anni, ma resta sempre un caposaldo. Quindi i più giovani: sono ancora nell’età di chi si sente portatore di risposte assolute, la maggior parte è inquadrata militarmente dai più grandi, si schierano ordinati in fila per un picchetto d’onore all’altezza della situazione. Rispondono a comandi come “riposo” o “libertà”. Indossano una maglietta nera con su scritto “in un mondo di menzogne la verità è rivoluzionaria”. Una frase “rubata” ad Antonio Gramsci che appunto diceva: “La verità è sempre rivoluzionaria”.
GLI OVER 50 sono diversi. Hanno relativizzato. Hanno subìto sulla loro pelle certe scelte. “Sai una cosa? – ci spiega Daniele – Francesco (Cecchin, ndr) lo conoscevo, ero con lui: un ragazzo meraviglioso, non ci posso pensare. E comunque anche io ho pagato con quattro anni e mezzo di galera. Come mi giudico se penso a quegli anni? Un cretino”. Gli si strozza la voce, si inumidiscono gli occhi. Se ne va. Accanto un gruppo veste una polo, nera, con su scritto “Arriverà il nostro momento”. Ci credono. E una giornata come questa diventa l’indice di un percorso, quello giusto. Poi un anziano rompe il silenzio e urla “camerata Cecchin, presente!”. Scoppia l’applauso di alcuni, ma anche l’imbarazzo di molti altri.

Corriere della Sera 17.6.11
Ritorna in Cina l’eros proibito ma per leggere occorre il visto
di Marco Del Corona


PECHINO— Mao Zedong raccomandò ai suoi sottoposti di leggerlo: «Ci troverete la vera storia della dinastia Ming» , l’epoca nella quale venne pubblicato per la prima volta (1610). Solo lui poteva permettersi di dire una cosa e il suo contrario. Perché, infatti, il Chin P’ing Mei, epopea di un Don Giovanni d’epoca Sung (960-1127), è uno dei libri licenziosi per eccellenza della letteratura cinese ma anche sotto lo stesso Mao era stato relegato nel limbo del feudalesimo immorale. Solo studiosi provvisti di titoli accademici indiscutibili potevano accostarsi alle imprese erotiche di Hsi-Men Ch’ing. Adesso, nella Cina che consuma tutto, anche il porno, il Chin P’ing Mei ritorna. In versione integrale ma solo per pochi. L’edizione è a tiratura limitata, a 998 renminbi, circa 110 euro. Il «Jiang Huai Morning Post» riporta che le librerie non possono esporlo (poster ammessi, però); la pubblicazione è mirata alle istituzioni e se un privato cittadino volesse comprarlo dovrebbe comunque esibire il permesso della sua danwei, l’unità di lavoro. Resteranno dunque le edizioni pirata. «Il libro è ufficialmente inaccessibile ai più nella versione integrale. Ma i miei allievi lo leggono online» , dice al «Corriere» la professoressa Yu Xiaopeng, del corso di letteratura cinese dell’università Beiwai. La fama sulfurea del Chin P’ing Mei ne ha accompagnato le traduzioni. In Italia, quella per Einaudi di Piero Jahier (il poeta di Con me e con gli alpini) e di Maj-Lis Rissler Stoneman subì una «potatura» — come scrisse Olimpio Cescatti per l’edizione Es del 2005 coi tagli ripristinati — peraltro «comprensibile nel clima degli anni Cinquanta» .

Repubblica 17.6.11
Rapporto dalla Siria tra i ragazzi in fuga da Assad
di Alberto Stabile


Non sono né disperati, né rassegnati. E da questa grande terrazza sul Nord della Siria, che è la provincia turca di Antiochia, guardano i villaggi da cui sono fuggiti con occhi asciutti, senza nostalgie. Semmai un sentimento alberga nei loro cuori, è la rivalsa, il desiderio ardente di tornare in Siria da vincitori, naturalmente dopo che Assad se ne sarà andato. Per questo, più che profughi, i siriani che hanno trovato rifugio in Turchia sembrano piuttosto dei militanti che hanno deciso di continuare la loro lotta con altri mezzi, il telefonino che li mantiene collegati alla loro "rete" oltre confine, e con la parola, i racconti che aggiungono orrore ad orrore e sfidano le versioni edulcorate della propaganda di regime.
E´ vero, non sempre, le loro sono ricostruzioni di cose viste con i propri occhi, spesso si tratta di storie apprese da altri. Ma le testimonianze su certi episodi sono così ripetute e consistenti da lasciare poco spazio al dubbio.Poteva sembrare che su Jisr al Shugur, la città-martire di 50 mila abitanti, che domenica scorsa è stata piegata dai carri armati della famigerata IV Divisione guidata da Maher el Assad, il fratello del presidente, dai servizi di sicurezza e dagli Shabiha, i miliziani fedeli al regime, non ci fosse più nulla da aggiungere.
I portavoce di Damasco hanno esaltato il "ritorno alla normalità" della città e hanno chiesto ai fuggitivi di tornare nelle loro case. Imad, che come gli altri rifugiati accetta soltanto di indicare il suo nome per paura di esporre a ritorsioni i parenti rimasti di là, invece, ribatte: «Sono dei bugiardi, guidati da un grande bugiardo. Non è vero che la situazione a Jisr al Shugur adesso è tranquilla. La città è semivuota. Le strade, la sera, sono deserte. Continuano ad arrestare la gente e a sparare. Quattro giorni fa, hanno fermato 12 persone, componenti della famiglia degli Yusef. Erano appena tornati a casa dopo essersi allontanati durante gli incidenti dello scorso fine-settimana. Sono stati tutti portati allo zuccherificio. Gli uomini sono spariti oltre il cancello, quattro donne, due sui 35-40 anni e due poco più che adolescenti, sono state umiliate in pubblico».
In che modo, umiliate? «Hanno tolto loro i vestiti e le hanno lasciate nude per strada. Me l´ha detto un mio amico che è rimasto e si nasconde in montagna, ma in città ne parlano tutti». Poi prende il telefonino è fa partire la registrazione di un uomo che invoca Allah u akhbar, "Dio è grande". «E´ lui - dice Imad - il mio amico. Mi ha chiamato dopo che è stato ferito al fianco e a una coscia, e sta pregando».
Chiediamo, ma cos´è questa storia dello zuccherificio? «È una vecchia fabbrica di zucchero che occupa un´area di un chilometro quadrato e che è stata trasformata in centro di comando dell´esercito e del mukabarat. Dentro ci sono anche alloggi per gli ufficiali. La gente arrestata per strada viene portata lì e nessuno sa che fine faccia».
La faccia deturpata da un incidente o da una malattia infantile, la barba delineata a punta di forbice, Imad ha 31 anni e non è sposato. Nega di aver mai usato armi contro il regime, ma ammette, implicitamente di avere partecipato alla protesta. «Lavoravo ad Aleppo, in un grande supermercato. Quando sono cominciate le manifestazioni ho perso il lavoro. Allora sono tornato dai miei, in un villaggio vicino a Jisr al Shugur. Ma anche lì ci sono state manifestazioni. L´esercito ha sparato. Ci sono stati molti morti. Poi, domenica sono arrivati i carri armati».
Un momento, il regime accusa i manifestanti di aver ucciso, a Jisr al Shugur, 120 tra poliziotti e agenti dei servizi. «Non è vero - interviene Alì, 28 anni, sposato, con un bambino, contadino, proprietario di un uliveto - L´ordine che hanno dato gli ufficiali, era di sparare sulla folla e molti soldati si sono rifiutati. E allora li hanno uccisi. Io ne ho visti cadere una decina».
Ma uccisi da chi? «Funziona così. Gli ufficiali schierano una prima fila di soldati, venti, trenta, che hanno l´ordine di sparare sui manifestanti. Dietro ci sono gli uomini dei servizi. Chi si rifiuta di sparare viene immediatamente colpito. I soldati lo sanno. Gli ordini sono espliciti: chi non spara sarà ucciso. ciononostante molti sono riusciti a scappare».
Questa storia, ripetuta anche da altri rifugiati, contrasta in maniera stridente con la versione ufficiale che accusa i manifestanti (ovvero "bande di terroristi armati") di aver ucciso i 120 militari. E questo è stato il pretesto offerto all´esercito d´intervenire in forze. Ma davanti allo sguardo febbricitante di Osama, un ragazzino di 14 anni che ha la metà destra del cranio coperta da una benda ed escoriazioni profonde lungo tutto il collo, c´è da chiedersi quale pericolo deve aver rappresentato per ridurlo in quel modo. Come molti dei rifugiati arrivati mercoledì a Guvecci, Osama viene dal paesino di Aram Joz (letteralmente, Il campo dei noccioli) quasi attaccato a Jisr al Shugur.
Osama non vuole parlare, preferisce restarsene diffidente all´ombra di grande gelso con alcuni amici. Per lui, però, parla Ahmed, un adulto che lo conosce bene. «Quella di Osama - dice - è una famiglia tranquilla: padre madre e tre figli. Lui faceva la settimana classe. Quando è arrivato l´esercito, domenica scorsa, erano tutti in casa. Nessuno era fuggito nei giorni precedenti. Improvvisamente i soldati hanno cominciato a demolire la casa con un bulldozer. Lui s´è lanciato contro di loro. Un militare lo ha bloccato, mentre un altro lo colpiva sulla testa con un bastone...».
Solo dopo la famiglia è scappata. Osama è stato portato all´ospedale di Antiochia, medicato e curato. Gli altri parenti aspettano che si apra la frontiera per raggiungerlo. «Adesso sono laggiù», ed indica con il dito indice una macchia d´azzurro nel verde delle colline, oltre una strada militare che costeggia la frontiera: l´accampamento provvisorio dei siriani in attesa della salvezza.
Più di ottomila, ormai, ce l´hanno fatta, la metà è stata sistemata nell´edificio di un´ex manifattura tabacchi a Yayladagi, una ventina di chilometri a nord di Guvecci, un paesino lindo, sereno, con la piazzetta piena di anziani che sorseggiano una straordinaria tisana che si trova soltanto fra queste montagne e il cortile del municipio pieno di volontari. Ma per l´altra metà dei rifugiati non c´è più posto nelle tende bianche con il simbolo della mezzaluna rossa allineate poco lontano dalla manifattura. Per questo, ha scritto ieri il Post, vicino al premier Erdogan, se la situazione in Siria dovesse peggiorare, e la massa dei rifugiati crescere a dismisura sarebbe obbligatorio un intervento militare per creare una zona-cuscinetto in territorio siriano dove fermare e assistere i profughi.
Per ora, dalla cancellata della manifattura avvolta da teli di plastica che impediscono agli obbiettivi dei media di penetrare all´interno, trapelano storie di salvezza. Come quella di Soleiman, commerciante di 38 anni, fisico atletico, barba appena incolta e della moglie Suha che hanno percorso a piedi, con i loro cinque figli, dai tre ai 12 anni, sei dei venticinque chilometri che separano Jisr al Shugur dalla frontiera turca. Tornerete a casa come vorrebbero le autorità di Damasco, chiediamo? «Sì - risponde Soleiman, ironico - solo quando Assad deciderà di indire libere elezioni, e a condizione che a Jisr al Shugur prenda anche un solo voto. Ma non lo prenderà».

Repubblica 17.6.11
Parla Fouad Ajami, professore alla John Hopkins University
"È una crisi senza fine il regime ucciderà ancora"
di Francesca Caferri


«Sarà una crisi lunga. E sanguinosa. Nessuno può prevedere come finirà, ma sappiamo di certo che il regime di Bashar al Assad ha mostrato la sua vera faccia: quella di un gruppo di assassini. L´attuale presidente non è diverso dal padre, un massacratore a sangue freddo: e farà di tutto per non perdere il potere. Di tutto». Il parere di Fouad Ajami è di quelli che pesano sulla scena della politica internazionale: professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, è uno degli analisti più ascoltati della scena americana, columnist fisso di Time, Wall Street Journal e New York Times.
Professor Ajami, a che punto è la crisi siriana?
«A un punto di non ritorno. Bashar ha bruciato tutte le speranze nate quando è arrivato al potere: oggi è chiaro a tutti che la breve stagione della primavera siriana che aveva salutato il suo arrivo è tramontata e non tornerà. È chiaro prima di tutto ai siriani, che avevano speranza, ma hanno visto l´economia aprirsi solo a beneficio di pochi e le riforme ridursi a cambiamenti cosmetici. Per questo oggi sono pronti a tutto: hanno assistito al dilagare della rivolta in Tunisia, Egitto e Libia. I siriani sono gente orgogliosa, hanno sempre avuto un ruolo di primo piano nella storia araba: ora se lo sono ripreso, hanno trovato la loro voce. Di fronte hanno un regime che non ha intenzione di cedere, pronto a uccidere ancora».
In mezzo, una comunità internazionale con un ruolo sempre più ambiguo e imbarazzante...
«Al di fuori di questo direi. Non c´è possibilità di un intervento straniero in Siria e in questo i siriani sono molto più sfortunati dei libici: nessuno si muoverà per loro, mi pare chiaro. Il silenzio della Lega Araba, che ha abbandonato Gheddafi ma non Assad, è significativo. Ma anche qui siamo a un punto di non ritorno: le parole di Obama, che qualche settimana fa ha detto ad Assad "guida la transizione o vattene" sono da mettere in archivio. Neanche in questo si può più sperare, Assad è andato oltre».
Qualcuno sta reagendo?
«La Turchia ha capito: quando ha visto migliaia di persone arrivare alla frontiera, Erdogan ha cambiato radicalmente politica condannando Assad che fino ad allora aveva protetto. Ha capito Israele: lo stallo che per anni aveva fatto comodo è finito. Quando hanno visto i siriani lasciare arrivare i palestinesi alle frontiere sul Golan, i politici israeliani hanno messo a fuoco la nuova situazione. Oggi Israele sa che quello è un regime che non solo supporta Hamas e Hezbollah ma è anche pronto a danneggiarlo direttamente: per questo spera in un cambio, anche se non può fare molto per facilitarlo».
Cosa accadrà ora?
«Solo Dio lo sa. Ma finché gli alawiti staranno con il regime e gli garantiranno l´appoggio delle brigate più importanti dell´esercito lo scontro proseguirà: perché la gente non andrà via dalle piazze. Non so cosa accadrà: so che non sarà una cosa rapida, né tantomeno incruenta».

La Stampa 17.6.11
In tutta Italia l’età massima per tentare la procreazione assistita è 43 anni
“Mamme a 50 anni con il ticket”
In Veneto innalzata l’età massima per la fecondazione assistita E’ polemica: si ingolfano le liste d’attesa e si sprecano soldi
di Silvia Zanardi


I FAVOREVOLI «L’aspettativa di vita cresce: il caso della Nannini dimostra che si può procreare più tardi»
I CONTRARI «Innalzare il termine di 43 anni significa alimentare illusioni pericolose»
15 per cento. La stima dell’Oms delle coppie con problemi di fertilità nei Paesi industrializzati
3-4 tentativi. I cicli di trattamento contemplati dalla delibera a seconda della tecnica usata
2,5 per cento. La percentuale di successo della fecondazione assistita suuna donna di 44 anni

VENEZIA. I veneti potrebbero battezzarla «delibera Nannini», visto che proprio alla celebre cantante italiana, diventata mamma di Penelope a cinquant’anni compiuti, devono la loro ispirazione. Fra applausi e polemiche, per diventare mamme in un età in cui si potrebbe anche essere nonne, nella regione leghista di Luca Zaia, basterà pagare il ticket.
Con una delibera «a sorpresa» approvata martedì scorso, la giunta regionale del Veneto ha infatti deciso all’unanimità di innalzare a 50 anni l’età massima in cui le donne possono usufruire della fecondazione assistita erogata dal Servizio sanitario nazionale.
Se l’età massima consentita è di 43 anni in tutto il territorio nazionale, la giunta di Zaia ha invece deciso di dare una possibilità in più alle donne meno giovani facendole accedere fino a 50 anni compiuti ai servizi offerti in questo campo dal Servizio sanitario nazionale.
«È stata una scelta condivisa - dice l’assessore regionale veneto alla Sanità Luca Coletto - pur rispettando la letteratura scientifica non possiamo non tener conto di un’aspettativa di vita in crescita e di casi, come quello della cantante Gianna Nannini, che testimoniano la possibilità di procreare anche in maturità. Non c’e nulla di male».
Ma, a cinquant’anni, quante probabilità ci sono di portare a termine una gravidanza? E davvero una mamma over 50 avrà poi tutta l’energia per correre avanti e indietro con biberon e pannolini, e per trascorrere lunghe notti in bianco fra i pianti del piccolo?
I primi a criticare la delibera veneta sono i medici, compresi quelli del comitato tecnico che la stessa giunta aveva consultato proprio per fissare i termini.
«In Italia non si registrano parti sopra i 43 anni di donne sottoposte a procreazione assistita - osserva Federica Nenzi dell’ospedale di Oderzo (Treviso) -. Innalzare questo termine significa ingolfare ulteriormente le liste d’attesa e sprecare soldi utili a pazienti più giovani».
Favorevole invece il sottosegretario alla Salute, Francesca Martini: «Considero dimostrazione di grande civiltà la scelta della giunta Zaia, attenta a cogliere le aspettative di moltissime donne. Nei Paesi più avanzati in Europa i 50 anni vengono considerati un limite accettabile e la scienza oggi ci aiuta moltissimo per ottenere buoni margini di esito positivo».
La delibera non modifica gli altri parametri previsti dalla Regione, e cioè l’età massima di 65 anni per il futuro padre, 4 cicli di trattamento per il primo livello e tre per il secondo.

La Stampa 17.6.11
Carlo Flamigni
Il medico: rimanere incinte a quell’età è quasi impossibile
di Valentina Arcovio


Aver innalzato a 50 anni l’età minima in cui viene garantito l’accesso alla fecondazione assistita potrebbe lasciare moltissime donne deluse di fronte a un insuccesso quasi certo». Per Carlo Flamigni, tra i massimi esperti italiani in fecondazione assistita e docente all’Università di Bologna, la delibera approvata dal Veneto è «velleitaria e illusoria».
Quante sono le probabilità di rimane incinte a 50 anni grazie alla fecondazione assistita?
«Sono vicine allo zero. Sia la Società europea di riproduzione umana ed embriologia che la sua equivalente americana sono chiare in merito: è consigliabile interrompere i trattamenti verso i 43-44 anni».
Allora è inutile provarci dopo?
«Se non si vuole mettere a rischio la salute della donna, è meglio escludere i trattamenti più complessi. Quelli raccomandabili sono i più semplici ed è difficile che portino alla gravidanza. È sbagliato, quindi, alimentare false speranze».
Ma tentare non nuoce?
«A livello fisico può anche non nuocere, ma spesso il danno maggiore è quello psicologico: molte donne si illudono di poter avere un figlio nonostante l’età avanzata».
Però qualcuna ci riesce. Non vale la pena provare?
«In Europa si contano circa 300 casi di donne rimaste incinte a un’età di 50 anni in su. In quei casi c’è il rischio altissimo che la gravidanza non arrivi a termine o di dover ricorrere a parti d’urgenza che possono essere pericolosi per la mamma per il bambino».
Ci sono però casi celebri di gravidanze andate a buon fine anche a 50 anni.
«Sono storie rare che il più delle volte riguardano casi di ovodonazione che in Italia è assolutamente proibita. Un divieto, questo, che difficilmente verrà cancellato».
«Le gravidanze che hanno successo riguardano spesso casi di ovodonazione, pratica proibita in Italia»

La Stampa 17.6.11
Anna Oliverio Ferraris
La psicologa: le cure costringono la donna a stress eccessivi
di V. Arc.


C’è un età ideale per ogni cosa. Avere un figlio a 50 anni può essere stressante per la donna e non la scelta giusta per il bambino». Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Sapienza di Roma, la scelta di diventare madre in età avanzata «deve essere ben ponderata».
A 50 anni si è troppo grandi per avere un figlio?
«A quell’età bisognerebbe pensare ai nipoti e non ai figli. L’età ideale per avere e crescere un bambino va dai 20 ai 35 anni. Dopo potrebbe non essere la cosa giusta né per la donna e né per il figlio».
Perché «I trattamenti di fecondazione assistita sottopongono la donna a sforzi fisici e psicologici non indifferenti. Senza contare il rischio di rimanere profondamente delusi per un insuccesso, visto che le probabilità a quell’età sono davvero molto basse. Può essere devastante accettare di non esser riusciti a diventare genitori. Se poi si riesce a portare a termine la gravidanza, c’è da considerare lo sforzo di crescere un figlio».
A 50 anni non si può essere una buona mamma?
«Certo che si può essere buone mamme, ma è più difficile seguire il bimbo durante le fasi dello sviluppo. Quando sarà adolescente, la madre avrà superato i 60 anni e non è detto che sia così semplice seguirlo in questa età critica».
Sconsiglierebbe a una donna di avere un bambino in età ormai matura?
«La questione va affrontata su più punti di vista e in primis va considerato ciò che è giusto per il proprio bambino. Ci sono casi di mamme mature che non hanno avuto problemi a crescere i loro figli anche perché potevano contare sull’appoggio della famiglia. Diventare mamme in età avanzata non deve essere una decisione impulsiva ed egoista, ma dev’essere valutata nei suoi pro e contro».
«L’età ideale per avere e crescere un bambino è quella compresa tra i 20 e i 35 anni»

La Stampa 17.6.11
Richard Serra “È il segno che crea lo spazio”
«Chi guarda il rosso, giallo o rosa pensa ad altro, invece il nero è una proprietà»
Incontro con il grande scultore americano che espone i suoi disegni al Met di New York
di Maurizio Molinari


Vestito di nero e con un quaderno di appunti fra le mani in costante movimento Richard Serra ci accoglie al secondo piano del Metropolitan Museum, dove è allestita la mostra Drawings: a Retrospective . È la prima mai realizzata negli Stati Uniti dei suoi disegni e ne ripercorre il lavoro grafico degli ultimi 40 anni. Celebrato come il più grande scultore vivente, Serra guida alla scoperta della sua produzione, scandendo ogni tappa. «All’inizio nel 1972 - esordisce - facevo disegni come tanti altri, alla maniera degli studenti, solo per fare segni, forme e linee. Poi nel 1973 sono andato in un negozio chiamato Gemina, avevo un rullo e lo passavo più volte sulla carta, ne uscivano dei disegni seriali e sono uscito così dalla dimensione del guardare per approdare a quella del fare». Ma il salto è venuto più tardi «quando decisi di fare disegni autosufficienti».
È il caso di Abstract Slavery del 1974 che «riempie la parete, crea uno spazio» così come Pacific Judson Murphy del 1978 che estendendosi su un muro ad angolo «crea il contesto della stanza». E questa capacità del disegno di «creare lo spazio» si ricongiunge alla passione per la scultura. Evocata anche dai Forged Drawings del 1977, composti da quattro forme: quadrato, rettangolo, ottagono e cerchio. «Vengono spiega - da quanto ho appreso da giovane in acciaieria: tutto ciò che lì si crea si basa su una di queste forme semplici». Sala dopo sala, Serra, classe 1939, si ferma di fronte ad ogni opera. Ne ricorda la genesi tecnica, si sofferma sul significato, la guarda fino a riconoscersi. Parla spesso del nero, il colore prescelto, «perché la relazione nero-bianco riporta all’origine di Gutenberg, la genesi della stampa è legata alla maniera più semplice per controllare un messaggio senza metafore». Lo dimostra il fatto che «chi guarda il rosso, giallo o rosa pensa ad altro mentre il nero più di un colore è una proprietà» e come tale semplifica la trasmissione del messaggio.
«Stando in piedi fra pareti nere ti rendiconto di cosa intendevo prima di spazio e volume» sottolinea davanti agli Zadikians , disegni che rendono evidente la differenza con gli artisti del passato: «In Cézanne ciò che importa sono gli oggetti, tu sei fuori e guardi, io invece trasformo il ruolo di chi osserva: è l’esperienza di chi guarda che diventa il soggetto dell’esperienza, si tratta di un cambiamento del rapporto fra oggetto e soggetto. Noi siamo venuti dopo i minimalisti, prima gli scultori lavoravano su immagini appese nello spazio con noi invece è la forma fisica a creare lo spazio». L’importanza della «fisicità dell’arte» lo porta ad esprimere scetticismo nei confronti di Internet perché «la manifestazione fisica si perde in uno schermo fatto di punti, non abbiamo più la sensazione della materia. Proprio come il gps: ci dice tutto sulla strada che percorriamo tranne la grandezza di un camion che ci viene dietro a 100 km l’ora». La differenza che conta è fra «la realtà artificiale e quella fisica». Lui si sente interprete e protagonista della seconda.
Arrivati davanti al Titled Arch si parla di politica. Il nome del disegno evoca la scultura costruita nel 1981 e collocata nella Federal Plaza di New York. Otto anni dopo le autorità cittadine la smantellarono con un cambiamento di opinione che suscitò polemiche mai del tutto sopite. «La vollero e poi la distrussero» dice con un’irritazione ancora evidente e prende spunto da quanto avvenne per parlare dell’America «come di una nazione dove i cittadini hanno in realtà pochi diritti perché si tratta di una oligarghia capitalistica in cui i voti non contano». Quattro giorni prima era al Dipartimento di Stato ospite di Hillary Clinton e Joe Biden per il ricevimento in onore della cancelliera tedesca Angela Merkel. Serra è vicino all’amministrazione democratica perché «ho votato per Obama, ho raccolto fondi per lui e mi piace ancora oggi», ma ciò non toglie che «sono in profondo disaccordo con quanto ha fatto, non ha mantenuto la promessa di abolire gli sgravi fiscali di Bush ai ricchi e a guadagnare dalle sue scelte economiche sono state le banche, che investono non nell’occupazione qui in America ma nei mercati emergenti».
Nato in California da padre spagnolo e madre ebrea russa, Serra è una sintesi del sogno americano, ma non si riconosce in un Paese «che non costruisce più come facevamo negli Anni Venti quando creammo metropoli come New York». La responsabilità è «di una nazione spaccata fra estrema sinistra ed estrema destra dove manca il centro ed anche persone come Obama non riescono a fare ciò che vogliono». Il rimprovero ad Obama è di «essersi adeguato all’oligarchia capitalista». Arrivando fino «a pronunciare da Londra un discorso sulla superiorità del modello anglosassone che è stato recepito assai male nelle economie emergenti dove a prevalere sono le identità tribali e la forza creatrice di società composte da decine di milioni di giovani».
Questo nuovo mondo che si affaccia lo appassiona. Sta realizzando opere in Spagna, Brasile e Qatar. È l’Emirato sul Golfo a colpirlo di più «perché l’Emiro settantenne e la moglie, coperta dal chador e con i tacchi alti, sono venuti insieme con me nel cuore della notte fino in cima alla torre d’acciaio che sto realizzando. Potete immaginare un solo leader americano o europeo che avrebbe fatto altrettanto, svelando passione e partecipazione per l’arte?». Certo, «si tratta di nazioni dove il commercio è ancora limitato dai poteri famigliari», ma quando apre il libro di appunti e fa vedere la torre di Doha gli brillano gli occhi, è come se vedesse sul Golfo l’orizzonte delle sue opere.
Dell’Europa parla per la mostra di Basilea in cui i suoi lavori sono esposti assieme a quelli di Constantin Brancusi». Ammette di non aver creduto all’inizio in quell’iniziatiova: «Pensavo che servisse solo a vendere biglietti, ma ora mi sono ricreduto», perché «la sovrapposizione fra le nostre opere così diverse ha avuto un impatto». Senza contare che «quando andavo da giovane a Parigi nello studio di Brancusi mi accorsi subito che quello sculture era il migliore disegnatore in circolazione» anche grazie all’influenza «di Giacometti: arrivava trafelato nello studio alle 3 del mattino e si capiva che qualche problema esistenziale in fondo doveva averlo».
L’Italia fa parte della sua identità. La recente mostra «Made in Italy» nella galleria Gagosian di Roma alla quale ha partecipato con un Greenpoint Round intitolato a Italo Calvino cela «un legame profondo con il vostro Paese, testimoniato dal fatto che è stato Borromini a darmi l’ispirazione per la Torqued Ellipsis di Bilbao». Tiene in particolare a citare Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini e Primo Levi. «Sono fra gli scrittori che mi piacciono di più». Aggiunge una riflessione sui Sommersi e Salvati , il libro di Levi a cui ha intitolato una sua opera: «in alcune di quelle pagine descrive il dramma dell’esistenza che lui stesso ha incarnato».

Repubblica 17.6.11
Se il dottor Jekyll ci svela l´uomo e il suo doppio
Domani con "Repubblica" la quarta uscita della collana dei classici: l´autore scozzese è introdotto da Niccolò Ammaniti
Pubblicato nel 1886 anticipò di quasi un secolo il saggio sull´Ombra di Carlo Gustav Jung
di Laura Lilli


Chi non avesse ben capito – o non si fosse mai chiesto – cosa significhi la formidabile scoperta dell´"Ombra"da parte di Carl Gustav Jung, potrebbe trovarne una potente e immediata esemplificazione nel capolavoro di Robert Louis Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. L´Ombra, secondo Jung, è la parte più sgradevole e ripugnante di noi, che preferiremmo ignorarla. Invece, secondo il maestro zurighese, prenderne coscienza e impastarla al nostro "Io" è l´unica strada per crescere e maturare. Fra gli scrittori inglesi, l´"Ombra" c´è, anche se non si chiama così. E forse per questo sono tanto bravi a scrivere "gialli", in cui per strappare le maschere dai "veri" volti sono necessari addirittura dei professionisti, i detective. L´ammissione della colpa, tuttavia, quasi mai porta alla maturazione o redenzione del colpevole. Al contrario, di solito lo uccide.
Il romanzo di Stevenson è la storia di un uomo irreprensibile, disponibile, benevolo – il dottor Jekyll – che ha, ben nascosto in una stanza segreta – un suo doppio perfido e ripugnante, capace di tutto. Anche di far inciampare una ragazzina che incontra per caso, di sera, e poi calpestarla e prenderla a calci senza pietà. È la scena che apre il racconto, ricco di sorprese e di suspense. Uscì nel 1886, poco meno di un secolo prima di quel 1946 in cui Jung avrebbe scritto un saggio su Il problema dell´Ombra, appunto, dopo che questo lo aveva tormentato a lungo di giorno e di notte, nei sogni come nella delirante realtà delle sue ricerche sul simbolico, l´irrazionale, Simon Mago e tutto quanto di "stregonesco" avrebbe tanto irritato lo "scientifico" Freud, che lo mise al bando. Lo stesso Freud peraltro, come ben ricorda Joyce Carol Oates in un saggio su Stevenson: «nel suo malinconico Il disagio della civiltà (1930), riconosce che nella psiche umana c´è una frattura tra Ego e istinto, e che l´etica rappresenta una dolorosa concessione dell´Ego al gruppo». Ma questo è un dibattito novecentesco, anche se fa parte da sempre della nostra cultura (si pensi al "doppio" del Simposio di Platone). Mentre, a proposito di Stevenson, ci interessa il dibattito ottocentesco, vivacissimo a sua volta, e improntato piuttosto alla letteratura.
Era il secolo vittoriano, in cui apparenza e rispettabilità erano tutto (e forse nelle classi alte inglesi lo sono ancora oggi. Basta pensare alle esclusive scuole – sempre le stesse – in cui viene forgiata con lo stampino la classe dirigente di quel bizzarro Paese che ha inventato l´habeas corpus e la democrazia ma resta il più classista d´Europa). Una folla di romanzi prelude o segue quello di Stevenson: da William Wilson (1839) del bostoniano Edgar Allan Poe (Boston non è mai stata troppo lontana dall´Inghilterra) a The Mistery of Edwin Drood (1870) di Dickens, purtroppo incompiuto, all´elegante Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), storia del bellissimo giovane che resta giovane negli anni perché intanto il suo ritratto, ben nascosto, invecchia per lui. Ma quando il protagonista e il suo malevolo doppio si sovrapporranno, prevarrà il secondo.

Repubblica 17.6.11
Contrordine scienziati l’evoluzione è altruista
Aiutare il prossimo attiva certe aree del cervello e diventa fonte di piacere
di David Brooks


Ecco alcuni saggi in cui gli studiosi mettono in dubbio che gli uomini siano "egoisti per natura". Poiché tendiamo, invece, a cooperare
La logica non è più quella della competizione ma piuttosto l´idea di collaborazione

La teoria evoluzionistica ci insegna che a sopravvivere sono gli individui che meglio si adattano all´ambiente. Il più forte prevale sul più debole. Le creature che si adattano trasmettono i propri, egoistici, geni. Quelle incapaci di adattarsi vanno incontro all´estinzione. Stando a questa tesi noi esseri umani siamo marcati da un profondo egoismo, alla stregua di tutti gli altri animali. Puntiamo al massimo risultato entrando in competizione per la posizione sociale, il reddito, le opportunità di trovare un partner. I comportamenti apparentemente altruistici sono in realtà dettati da un interesse personale dissimulato. Carità e fratellanza non sono altro che una mistificazione culturale apposta sulla logica ferrea della natura.
Tutto ciò è in parte vero, ovviamente. Ma ogni giorno mi arriva sulla scrivania un libro che pone la questione sotto una luce diversa. Libri sulla solidarietà, l´empatia, la cooperazione e la collaborazione, scritti da scienziati, psicologi evoluzionisti, neuroscienziati. A quanto sembra gli studiosi di questa materia hanno cambiato orientamento, dando vita a un´immagine più sfumata e spesso più tenera della natura.
Partiamo dal saggio più modesto. Si tratta di SuperCooperators scritto da Martin Nowak assieme a Roger Highfield. Nowak ricorre alla matematica superiore per dimostrare che «cooperazione e competizione sono perennemente e strettamente interconnesse». Intenti a perseguire il nostro interesse personale spesso siamo portati a restituire una gentilezza ricevuta, così da poter contare sugli altri in caso di bisogno. Siamo stimolati a crearci la reputazione di persone gentili con l´intento di invogliare gli altri a collaborare con noi. Siamo incentivati al lavoro di squadra, anche se nel breve periodo può risultare controproducente rispetto ai nostri interessi personali, perché i gruppi coesi sono destinati al successo. Nowak attribuisce alla cooperazione un ruolo centrale nell´evoluzione equiparandola alla mutazione e alla selezione.
Ma gran parte dei nuovi saggi superano la teoria dell´incentivazione in senso stretto. Michael Tomasello, autore di "Why We Cooperate", ha creato una serie di test adatti, con poche variazioni, sia agli scimpanzé che ai bambini. Dalla sperimentazione è emerso che già in tenerissima età i bambini hanno un comportamento collaborativo e condividono le informazioni, a differenza di quanto accade negli scimpanzé adulti. Un bimbo di un anno informa gli altri della presenza di qualcosa indicandolo. Gli scimpanzé e le altre scimmie non condividono le informazioni con spirito collaborativo. I bambini sono pronti a condividere il cibo con estranei. Gli scimpanzé generalmente non offrono cibo, neanche alla prole. Se un bimbo di 14 mesi si accorge che un adulto è in difficoltà, non riesce ad esempio ad aprire la porta perché ha le mani impegnate, cercherà di aiutarlo. La tesi di Tomasello è che l´uomo mentalmente si è differenziato dagli altri primati. La disponibilità alla cooperazione è una qualità umana innata che viene intenzionalmente esaltata nelle varie culture.
In Born to Be Good, Dacher Keltner illustra gli studi su cui è impegnato, assieme ad altri, sui meccanismi dell´empatia e della connessione, descrivendo le dinamiche del sorriso, dell´arrossire, del riso e del contatto fisico. Quando si ride assieme agli amici si parte con vocalizzazioni separate che poi però si fondono in suoni interconnessi. Pare che il riso si sia sviluppato milioni di anni fa, ben prima delle vocali e delle consonanti, come meccanismo per costruire cooperazione. Fa parte del ricco strumentario innato della collaborazione tra esseri umani.
In un saggio Keltner cita l´opera di James Rilling e Gregory Berns, dell´università di Emory. I due neuroscienziati hanno scoperto che l´atto di aiutare il prossimo attiva le aree del nucleo caudato e della corteccia cingolata anteriore coinvolte nei meccanismi del piacere e della gratificazione. Significa che rendersi utili agli altri è fonte di piacere, come soddisfare un desiderio personale.
Nel suo libro The Righteous Mind, in uscita all´inizio del prossimo anno, Jonathan Haidt si associa a Edward O. Wilson, David Sloan Wilson ed altri nel sostenere che la selezione naturale avviene non solo attraverso la competizione a livello individuale, ma anche tra gruppi. In entrambi i casi la carta vincente è la capacità di adattamento, ma nella competizione tra gruppi la capacità di coesione, di cooperazione, l´altruismo dei membri, sono fattori determinanti per imporsi e trasmettere i propri geni. Parlare di "selezione di gruppo" era eresia fino a qualche anno fa, oggi questa teoria sta prendendo piede.
Gli esseri umani, sostiene Haidt, sono le "giraffe dell´altruismo". Come le giraffe hanno sviluppato il collo per sopravvivere, così gli uomini hanno sviluppato il senso morale per vincere nella competizione, a livello individuale e di gruppo. Gli uomini danno vita a comunità morali condividendo regole, abitudini, emozioni e divinità per poi combattere e addirittura talvolta morire per difenderle. Le nuove tesi evoluzionistiche che esaltano il fattore cooperazione fanno sì che si rivedano vecchi criteri di analisi come quello che imponeva nelle scienze sociali e in particolare in economia il modello del massimo vantaggio sulla base del principio della competizione egoista.
Ma l´aspetto più rivoluzionario riguarda il rapporto tra comportamento e morale, per decenni negato in base a criteri cosiddetti "scientifici". Se è vero però che la cooperazione è parte integrante della nostra natura umana, altrettanto vale per la moralità, non possiamo capire chi siamo e come siamo arrivati fin qui senza considerare l´etica, le emozioni e la religione.
(© New York Times-la Repubblica  Traduzione di Emilia Benghi)

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